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Lingua e letteratura latina II (Prof. Manca) A.A.

2020/2021

La letteratura latina brutta.

La bellezza è ciò che viene apprezzato in un dato contesto storico-sociale. Infatti non esiste una
bellezza assoluta. Infatti la bellezza maschile e quella femminile variano nelle generazioni. Si pensi
al David di Donatello che è efebico oppure al Laocoonte molto più virile: non sono perfetti, ma
molto diversi tra loro. Di solito la bellezza maschile oscilla tra meno o più muscolatura. C’è spesso
anche l’idea che la bellezza stia nell’equilibrio: per esempio, il Partenone, che non è niente di che,
in realtà è bellissima perché è frutto di un’operazione precisa e matematica. Secondo l’autore del
trattato Sul Sublime i versi che abbiamo analizzato a lezione sono brutti (questi gatti sono persiani,
ma hanno il muso troppo schiacciato, sono ipertipici, vale a dire che il loro ideale di bellezza è
esasperato). Concetto di tipico e di ipertipico: bellezza normale e bellezza accentuata ed esasperata
(modelle con problemi alimentari per diventare troppo magre, forzatura di un modello naturale). La
bellezza tipica è quella delle proporzioni, dell’equilibrio, la bellezza ipertipica è quella che esprime
un aspetto particolare al suo massimo grado. È la medietas a vincere il confronto. Anche se
cerchiamo qualcosa di perfetto, a quel qualcosa manca un quid. Ciò che è perfetto deve avere
qualche imperfezione che lo rende naturale. Perché Petrarca è superiore ai petrarchisti? Perché i
petrarchisti sono “troppo Petrarca”, non destano sorpresa, sono troppo prevedibili.

Il trattato anonimo attribuito a Cassio Longino è di età imperiale, databile verso il I d.C. (tra i Flavi
e Nerva e Traiano, contemporaneo di Quintiliano). Non è un trattato sul bello, ma un trattato sullo
stile magniloquente, ma è a noi funzionale perché spiega quando questo stile è bello e quando non
lo è. Le considerazioni sono in lingua greca, ma siamo in età romana; si parla di autori greci, ma
anche latini (si parla di Cicerone, l’autore più tardo, in paragone a Demostene). L’autore è di cultura
greca. È preziosissimo perché pieno di esempi e perché fa capire cosa era bello e cosa brutto nel
mondo antico (per esempio l’ode alla gelosia di Saffo). “E fermino la grandissima fiamma della
fornace e se mai vedrò un servo soltanto, tendendo una catena di tempeste, incendierò il tetto e lo
carbonizzerò, ora non faccio risuonare il canto nobile”. Questi versi secondo l’autore del sublime
sono versi orrendi e infatti dice: “Queste cose non sono più tragiche, sono caricature”. Questi versi
hanno passato il limite dell’ipertipicità. Si può raggiungere l’ipertipicità, ma se si forza troppo allora
anziché migliorare si peggiora. La bellezza è qualcosa che oscilla tra il tipico e l’ipertipico. A volte
l’ipertipico è ciò che viene considerato bello, ma se si oltrepassa il limite questo non va più bene.
“Vomitare verso il cielo, rendere Borea un flautista, etc..”: sono inseriti dei versi di una tragedia
perduta di Eschilo, l’Orizia, che aveva come soggetto il vento Borea trasformato in un flautista,
cosa considerata dall’anonimo come stilisticamente orrenda, esagerata, “barocca”. “Infatti si
intorbida nell’espressione, si confonde nelle immagini più che renderle straordinarie. La “fantasia”
è la capacità di creare immagini. È infatti una parola connessa con “faìno” e tutte le parole che da
esso derivano, quindi qualcosa che “si mostra”. Il linguaggio figurato, che usiamo in letteratura, è
quello che serve a chiarire le cose. Per esempio Dante dice di aver visto cose ineffabili, utilizza le
similitudini per spiegare i concetti, chiarirli e rinforzarli. Secondo l’anonimo queste immagini sono
brutte, non chiariscono il concetto, ma lo confondono e ottengono l’effetto contrario rispetto a
quello pensato. “Thorybèw” corrisponde al latino “turbare”. “Deinòs” è una quelle parole che in
greco non si possono tradurre perché ha tantissimi significati insieme, contemporaneamente
(terribile, straordinario, grande, fa paura, incommensurabile rispetto al nostro mondo tanto da farci
paura: lo stile secondo l’anonimo dovrebbe tendere al tò deinòn, qui avviene il contrario perché
abbassa il significato). “Se tu osservi ciascuno di quelli alla luce del sole, da spaventoso a poco
poco diventa qualcosa a cui è facile muovere obiezioni”. “Phoberòs” è uno dei concetti impliciti a
“deinòs”. Questi versi sono considerati ipertipici dall’autore del Sublime; infatti l’ipertipico è bello
se non si esaspera eccessivamente e si va al di fuori del canone. Se si oltrepassa il sublime, allora il
concetto diventa brutto (per esempio il trash è il contrario del sublime perché a furia di oltrepassare
il sublime diventa di nuovo un capolavoro, a modo suo). La letteratura brutta si distingue dalla bella
perché usa le figure retoriche a sproposito, si vede che sono messe lì soltanto per creare uno stile
aulico e non sono funzionali al risultato. Le figure retoriche possono stupire a prima vista un
pubblico poco smaliziato, ma chi le conosce bene se rende conto subito. Ci si rende conto che le
figure retoriche sono messe lì solo per creare effetto e sono solo giustapposte. “Come nella tragedia
che in effetti è gonfia per natura e che necessita ampollosità, ugualmente gonfiarsi oltremisura è
imperdonabile, per niente affatto ritengo che possa armonizzarsi con discorsi veri”. Qui viene detto
che lo standard per la tragedia è il massimo dello stile enfatico, ma se si oltrepassa questo standard,
la tragedia non è più bella. L’anonimo afferma che la poesia è destinata alla fantasia e
all’invenzione (lirica, poemi epici), la prosa alla verità (i trattati, la storiografia, l’oratoria; per
questo nel mondo antico non esiste il romanzo), perciò non sta bene utilizzare troppe figure
retoriche nei lògoi alethinòi, ossia la prosa (Marziale invece criticherà la poesia inventata). Certo è
che anche nella prosa ci sono rappresentazioni, ma molto meno rispetto alla poesia. “Perciò si ride
di Gorgia di Leontini che scrive “Xerse, lo Zeus dei Persiani” o “gli avvoltoi, tombe viventi”.
All’autore sembra fuori luogo inserire queste espressioni magniloquenti in un’opera in prosa. “E
alcune espressioni di Callistene che non sono sublimi, ma sono proprio in orbita e ancor più quelle
cose che scrive Clitarco, uomo coriaceo che secondo Sofocle soffia in piccoli flauti, ma senza
sordina”. Le meteore sono dei monasteri che si trovano a nord della Tessaglia, su degli spuntoni di
roccia, in cima a una montagna. Per quanto riguarda l’enfasi alcuni la ritengono tipica, altri
ipertipica, ma sicuramente va meglio in tragedia che in prosa (immagine di chi suona un flauto
molto piccolo per cercare di realizzare un soffio forte). Alcuni generi tollerano l’enfasi, senza
cadere nell’ipertipicità, altri no, per niente. “Sono tali le cose che di Anficrate ed Egesia di
Magnesia”. Fa vari esempi di “brutto”, di scrittori tra cui Egesia di Magnesia, l’inventore dello stile
asiano. Lo stile attico è quello di Lisia, quello di Cesare, matematico ed essenziale, lo stile asiano è
invece l’opposto, è uno stile ipertipico. È asiano Cicerone, all’inizio in modo particolare, e anche
Seneca per le sue metafore (Quintiliano se la prendeva non tanto con Seneca ma soprattutto con i
senechisti). “Spesso infatti pensando di avere ispirazione per loro stessi, in realtà non
baccheggiando, ma sono solo bambini”. Ci sono due tipi di fantasia: una è quella dei bambini, una è
quella dei poeti. Secondo l’anonimo questi sono aspetti relegati all’ambito poetico. “Pàizo” è la
capacità di creazione di immagini dei bambini, l’altra capacità di creare è quella dei poeti: nel
mondo arcaico il poeta è invasato dalla Musa, è solo il tramite attraverso cui si fa poesia. Nei poemi
omerici infatti il narratore è completamente assente, parla sempre in terza persona, è eterodiegetico.
Il poeta antico improvvisa e questa sensazione di essere invasato da una Musa c’è. Questi pensando
di avere la “enthousìa” (avere un dio dentro), una sorta di possessione. Nella realtà, afferma l’autore
non stanno facendo riti bacchici, quindi il momento di “enthousìa” più elevato, ma stanno solo
“giocando” (pàizo, quindi come dei bambini): gli antichi non avevano una grande considerazione
dei bambini, dicevano che l’infanzia è una malattia dalla quale si guarisce diventando adulti. “Ma in
generale pare che l’essere gonfio in questi è soprattutto mancanza di sorveglianza. Per natura infatti
tutti quanti i seguaci della grandezza (?), fuggendo l’accusa di debolezza e di secchezza, non so
come, sono portati a questo difetto, convinti che scivolare da grandi vette sia un errore nobile”.
Molti hanno paura che la loro scrittura sia debole e “secca” e quindi finiscono per esagerare, sono
vittimi della “dysphilaktìa”: sono consapevoli di poter sbagliare, ma preferiscono sbagliare per
eccesso, ma non per difetto (come i bambini che mettono parole “elevate” in un tema per sembrare
più “colti”, ottenendo però l’effetto opposto, di parole appiccicate le une alle altre). Poi parte una
similitudine con il corpo umano (grasso vs muscoloso): spesso l’idea di bello è associata all’idea di
armonia tra le parti. Noi siamo abituati a questa idea anche grazie alla nostra istruzione (filosofia,
arte). “L’essere gonfio è brutto sia nei corpi sia nelle parole, soprattutto se sono gonfiori flosci e
non veritieri e che non c’è occasione che non ci portino al difetto contrario”. Inoltre si parla poi
della verosimiglianza, condizione necessaria per la letteratura per essere credibile: un discorso
dev’essere vero, verisimile, giustificata. Il bello dev’essere anche vero. Bisogna scrivere del vero o
no? Pirandello dice che la letteratura dev’essere più verosimile della vita stessa. Proprio a questo
riguardo Luciano scrive una parodia, La Storia Vera, che inizia subito in modo provocatorio,
affermando che in questa storia non c’è niente di vero. A volte i discorsi sono dunque “analethìs”
sono inverosimili (e non falsi). L’autore afferma poi che lo stile esagerato ottiene l’effetto contrario
(parla di un idropico che porta secchezza). Il grado infantile della letteratura è la mentalità
scolastica: la “periergasìa” è l’eccesso, la retorica, il lavoro meccanico fatto troppo sulla tecnica che
dà una sensazione di freddezza (“psychròteta”). “Infatti si dice che niente è più secco di un
idropico”: l’effetto esagerato alla fine dà l’effetto contrario. “Ma il fatto di essere gonfio vuole
superare il sublime e la puerilità sono completamente contrarie alle grandezze” ??? “La grandezza è
interamente povera e di corta prospettiva, è in effetti un male ignobile. Che cosa dunque mai è la
puerilità? È chiaro che è una mentalità scolastica che per la sua pedanteria (o eccesso di zelo) porta
alla freddezza”. Il grado infantile della letteratura è la mentalità scolastica, perché lavora troppo la
forma rendendo il tutto arido, sterile.

La letteratura di Optaziano è ipertipica. Nella letteratura antica la poesia era improvvisata, a


simposio o in situazioni pubbliche (non solo i poemi omerici, ma anche la lirica arcaica) ed era
necessario che un poeta antico sapesse improvvisare. Platone è ancora abbastanza nemico della
scrittura. Noi non abbiamo ricevuto scritture letterarie, ma solo nell’ambito amministrativo
(tavolette micenee di Pilo etc). Gli Spartani addirittura non scrivevano. Di qui nasce tutta una serie
di norme basate sulla metrica, per esempio l’uso della formularità. Nel mondo antico esiste anche
l’auralità. Nel mondo antico raramente si scrive e raramente si legge, la lettura ha sempre
dimensione acustica (uno legge e altri ascoltano), per cui il libro è cosa rara e quindi costosa. Per
questo motivo il libro è di solito destinato alla fruizione collettiva. Si aggiungono poi le malattie
degli occhi a causa delle quali sicuramente dopo i cinquant’anni non si poteva leggere a
prescindere. Per questo le figure di suono sono molto importanti, per esempio le allitterazioni che
hanno un certo effetto solo se il testo viene letto ad alta voce, questo almeno fino al Medioevo.
Agostino, all’inizio della sua vita ariano, era stato a Milano da Ambrogio per convincerlo a
convertirsi all’arianesimo, ma alla fine avviene il contrario, è Ambrogio a convertirlo. Agostino ha
un’ammirazione sconfinata per Ambrogio e c’è un passo in cui descrive come Ambrogio legge: la
lettura silente, come quella che svolgiamo noi oggi. Ma siamo nel Medioevo. Nel mondo antico la
lettura silente desta anche sospetti, significa che si sta leggendo qualcosa di poco ortodosso e che lo
si sta nascondendo (Agostino dice “sono sicuro che lo facesse con buona intenzione”). Invece in
Publilio Optaziano Porfirio l’aspetto visivo è fondamentale, conta come il testo è messo sulla
pagina. Non sappiamo bene quando è nato e quando è morto, ma sicuramente è vissuto in piena età
costantiniana, è stato prefetto di Roma attorno al 330, è cristiano. Siamo vicino agli anni dell’editto
del 313. Viene esiliato per un motivo che non sappiamo e per rientrare scrive un panegirico (proprio
come Seneca scrive la Consolatio ad Polybium). Scrive una raccolta di poesie costituita da 31
carmi. Analizziamo il carme 2. Si tratta di versi intexti, versi ricamati (molti formano rombi,
cristogrammi, il testo 3 è un quadrifoglio), quindi erano manoscritti sicuramente costosissimi. È una
poesia che si può leggere, ma dà il meglio di sé nella scrittura, nella visualità e in questo Optaziano
è molto moderno. Il tipo di supporto usato condiziona sempre il tipo di arte che si vuole realizzare.
L’esametro può variare da 12 a 17 sillabe: nel carme 20 per esempio si passa da versi piccolissimi e
versi più lunghi, ma sempre esametri; nel carme 27 accade il contrario. Un calligramma è una
poesia che rappresenta un disegno. Carme 25: tra il verso 1 e il verso 5 rimescola l’ordine delle
parole: nei primi quattro versi utilizza le parole che utilizzerà poi in tutto il poema, rimescolandole.
“Le felici Muse compongono poesie difficili, congiungono vincoli dissonanti con diversi metri,
esprimendo i loro pensieri, piegando”. Con i primi quattro versi si può tradurre tutto quanto il
poema, infatti il verso 5 rimescola. Questa si chiama “letteratura combinatoria”. Qui le
combinazioni totali in realtà sono 120, ma lui scrive 80 versi. Questa tecnica è molto utilizzata da
OuLiPo (Perec, Queneau che scrive gli esercizi di stile, Calvino). I versi che si possono rimescolare
si chiamano “versi protei” (come il vate che cambia forma). Nel carme 28 invece ogni distico lo
riprende, ma al contrario: è speculare. “La crudele morte percepì amando le mollezze di Venere e
non affidò Stige alla tristezza solita”. Il secondo verso è il contrario del primo. Questi versi si
chiamano “distici cancrini” e ci sono anche nella poesia classica. Ci sono esempi anche nella poesia
classica, anche in Virgilio: “Musa mihi causas memora quo numine laeso”, ma ricorda anche
“Offerta Musicale” di Bach. Acrostico, telestico, mesostico a seconda di qualche parte viene ripresa
(la prima, l’ultima o quella di mezzo). Possono esserci anche acrostici orizzontali. A volte sono
messaggi nascosti, altre volte come in Optaziano le lettere sono messe in vista. Per esempio il carme
2 è acrostico e telestico. A volte nei versi intessuti si prende il messaggio dal fondo, a volte è
diverso. A Costantino piacquero molto questi versi ai quali rispose. L’originale, non pervenuto, era
scritto su inchiostro di porpora e su pergamo con fondo d’oro e d’argento (lo si vede nella
prefazione: “affinché la vista sia attratta da diversi pigmenti di colore ogni parola è in porpora su
sfondo oro e argento”). Chi fa il seminario traduce un carme, lo spiega, lo commenta, con letteratura
di prima e seconda mano. Innanzitutto “Musisque deoque” (mqdq.it, vai a “co-occorrenze”, per
vedere nessi usati spesso). Per la letteratura secondaria si utilizza l’Annèe Philologique. Il testo di
riferimento è quello di Polara UTET, ma è fuori commercio.

Sul Sublime (5): “Di certo tutti questi difetti nascono per via di una sola causa nei discorsi, cioè per
via del desiderio di novità per cui smaniano moltissimo adesso i contemporanei”. Tutti i desideri
nascono in base alle mode del tempo, il desiderio di creare cose nuove. Il Sublime è del primo
secolo, si sta affermando lo stile imperiale, ci si sta allontanando dallo stile classico e si inventano
cose nuove (arcaismi, neologismi). Questo è un difetto che l’anonimo chiama “kainòspoudon”. “Da
queste cose infatti per noi amano nascere le cose buone qualche volta proprio da queste e anche
quelle cattive”. Ogni letteratura deve dire qualcosa di nuovo rispetto alla letteratura precedente: ma
da ciò nasce il bene e il male, il bello e il brutto. “Perciò contribuiscono alla correttezza della
sintassi, la bellezza della descrizione e il registro sublime e anche il piacere per queste cose. E
queste stesse cose così come contribuiscono al successo, così sono il principio e la fondazione degli
opposti.” Questi tre sono gli elementi del sublime, della bellezza secondo l’autore. Ma basta un
attimo a “scollinare”, a “passare il punto di cottura”. Un esempio nella letteratura è la Gerusalemme
Liberata: c’è quella buona che secondo Tasso è la Gerusalemme Conquistata. Ma tutte le letterature
ricordano la Conquistata come una versione “pallida”, che a furia di essere sistemata, “passa il
punto di cottura”.

(9): Il Sublime è la risonanza di una grande mente

(12): offre un confronto tra Demostene e Cicerone. Terenziano è il dedicatario dell’opera, quindi
sembra quasi una sorta di discorso senecano. “Non per altre cose che per queste mi sembra,
carissimo Terenziano, io dico, se anche a noi in quanto Greci è possibile conoscere qualcosa, anche
Cicerone si può paragonare nelle grandezze a Demostene. Nel suo sublime è per lo più scosceso in
altezza, invece Cicerone è abbondante, e il nostro (Demostene) è solito bruciare e al contempo
strappare, come con violenza, con velocità, forza e impeto.” Demostene dà l’impressione di portarsi
via tutti in modo terribile, violento: il suo stile è impetuoso, violento. “Uno potrebbe paragonarlo a
un tuono o a un fulmine e invece ritengo Cicerone, come dilagante incendio dovunque viene
condotto e trova combustibile e, avendo molto da bruciare dappertutto, e diffondendosi di qua e di
là in esso e secondo i suoi emissari nutrendo.” Sicuramente è più sublime Demostene, perché
sviluppandosi in altezza è più efficace di Cicerone che si espande in larghezza. Il tono del sublime
non può essere mantenuta a lungo, quindi Demostene è necessariamente scosceso. Cicerone però
che ha questa “resistenza”, quindi non raggiunge mai l’apice, ma neanche il fondo (in realtà non è
proprio così, anche Cicerone ha dei punti molto alti). Quando si parla di bellezza, spesso si parla di
“canone”: ogni cultura ne genera uno. Grazie al canone noi abbiamo questi testi di letteratura antica,
che è stata accuratamente selezionata.

(14) “Dunque anche noi avremmo vinto quando noi ci sforziamo a ottenere qualcosa che abbia
sublimità, grandezza di spirito e bellezza, nella nostra mente, dobbiamo pensarlo come se lo dicesse
Omero, come lo renderebbero sublime Platone, Demostene o nella storiografia Tucidide.” Bisogna
rendere ciò che scriviamo tipico, conforme al modello letterario del genere in questione (Omero
all’epica, Demostene all’oratoria). Implicitamente l’Anonimo ci sta dando un canone.

Carme 2 di Optaziano Porfirio. L’autore ci dà le istruzioni per leggere il suo poema. La maggior
parte delle parole che usa sono tecniche. “In questa pagina tutti i versi sono di 35 lettere.” Noi
misuriamo gli esametri in sillabe, qui invece sono misurati in lettere. Utilizza i numerali distributivi
perché ogni verso ha 35 lettere. “E la prima lettera del primo verso, la S, è comune con l’acrostico;
l’ultima lettera cioè la S è crea / comune con il telestico, è comune con l’ultimo verso. La lettera
mediana del primo verso, cioè la diciottesima, la S, è l’inizio del verso di mezzo; la lettera mediana
dell’acrostico che è la diciottesima inizia a un’altra metà di verso; e questi versi mediani o possono
andare dritti, ma possono girare a metà, suonando allo stesso modo. D’altra parte il verso che suona
per tutte queste parti è: “sancte, tui vatis, Caesar, miserere serenus”. “Santo Cesare, abbi pietà del
tuo vate, sereno Augusto onnipotente che rendi fecondo tutte le cose mortali con la tua volontà
creatrice, il nome che per noi è motivo di gaudio, Costantino, per questo, ci dia sotto il tuo comando
le Muse del carme fecondo” (riascolta per sentire la traduzione dei primi quattro versi). Optaziano
era stato esiliato per motivi erotici e quindi chiede pietà a Costantino. È un incipit di carattere epico:
ci sono due elementi, ossia l’invocazione alla Musa (sottoposta addirittura alla volontà
dell’Imperatore, con intento panegiristico evidente). Il richiamo a Lucrezio (“almus”), nel richiamo
della forza della natura. “Mortalia cuncta” è una iunctura abbastanza diffusa. Ci sono una serie di
loci similes, alcuni casuali, altri no. È certamente una clausola formulare. “Costantine” viene usato
all’inizio nel carme V, 6.

I versi di Eschilo non piacevano all’autore del Sublime perché erano considerati eccessivi, ma non
sublimi ma “meteora”. L’eccesso consiste nella paura di sbagliare per difetto e quindi si sbaglia per
eccesso. E tutto ciò deriva dalla pratica scolastica: cercare di usare un registro più alto di quello che
usiamo solitamente, ma farlo senza padroneggiarlo. Questa manìa deriva anche dal voler fare cose
nuove, “kainòspoudon”: “kainòs” in greco è un tipo di nuovo che non piace, che si può lasciar
perdere. Il mondo antico, sia greco sia latino è diffidente nei confronti del “nuovo”. Par. 9: “il
sublime è la risonanza di una grande mente”, quando la mente di un grande scrittore risuona senza
ostacoli. L’autore del Sublime mette poi a paragone Cicerone e Demostene: vince chiaramente il
secondo per orgoglio greco. Mediamente Cicerone è più su di Demostene, ma Demostene ha dei
picchi e poi discende (uno è lungo, l’altro largo e si disperde come il delta di un fiume, è un picco).
Dopodiché abbiamo parlato dei modelli: la letteratura è bella quando si uniforma a un modello. Non
bisogna copiare gli autori, ma guardarli come modelli: Omero per l’epica, Platone e Demostene per
la prosa, per la storiografia Tucidide. Bisogna chiedersi come lo avrebbero detto in autori in
italiano. Paragrafo 17. C’è un paragone usato pure da Dante (il sole che oscura le altre stelle).
“Infatti quasi come anche gli astri deboli scompaiono al sorgere del sole, così la grandezza che
avvolge da ogni parte fa diventare oscure le astuzie della retorica”. La differenza tra la letteratura
brutta e quella bella sta nell’uso della retorica. Quando parliamo usiamo per forza degli strumenti
retorici: se il discorso è bello, la retorica è trasparente, non si vede; se il discorso è brutto, vediamo
tutte le figure retoriche e ci accorgiamo che ci sono figure retoriche. “Non certo molto lontano dalla
somiglianza da questo anche riguardo alla pittura capita qualcosa del genere: quando giacciono
sullo stesso piano in parallelo le cose nei colori dell’ombra e della luce allora ugualmente
colpiscono di più quelli della luce negli occhi e non solo risaltano, ma anche appaiono più vicine
così anche le passioni e la sublimità delle parole…”. Se l’argomento è alto, la retorica non si vede,
se è basso, si svela (si vede lo sfondo nero). “E dunque anche le passioni e la sublimità delle parole
che giacciono più vicine alle nostre anime per una sorta di affinità fisiologica e per la loro
luminosità fanno scomparire le tecniche retoriche e fanno ombra alla loro tecnica e li coprono come
con una coperta”. Qui c’è una similitudine perfetta tra la pittura e il mondo verbale. La pittura e la
letteratura soprattutto nel mondo antico sono considerate molto simili, inoltre gran parte della
letteratura avveniva oralmente e non per iscritto (vedi il racconto di Demodoco nell’Odissea che
mostra anche l’interattività del pubblico; Eneide VI, Enea scende agli Inferi e incontra l’anima di
Marcello destinato a scendere negli Inferi: sappiamo che Virgilio lesse davanti alla madre di
Marcello questo passo e lei svenne, non perché le si era parlato del figlio, ma per la forza delle
parole di Virgilio, tali che ella si è immaginata la scena di Marcello negli Inferi). Gli antichi
rimanevano sotto questo punto di vista come i bambini piccoli con le fiabe che si immaginano ogni
cosa dopo averla sentita (fiaba con i mostri), perché non erano distolti dal mondo della visualità.
Dunque basta la parola a creare tutto un universo. Nel testo ci sono infatti vari paralleli (keimenon
ths skias / aposkiazei; eggytero): l’autore “ricicla” le parole per far vedere il perfetto parallelo tra
pittura e letteratura. “Enargheia / evidentia”.

Nei versus intexti prima si scrivevano le parti rosse e poi le parti incastrate ossia i versi (le parti
bianche). Tutti gli esametri devono essere lunghi 35 lettere. “Mortalia cuncta” ha un’attestazione
nelle Argonautiche di Valerio Flacco anche se è attestato per lo più negli autori cristiani.
“Constantine” si trova in carmi epigrafiche, risalta molto bene in una forma scritta più che in una
forma orale. La letteratura di Optaziano è fatta pienamente per essere guardata, se non la si guarda
non la si apprezza: anche se siamo ancora in età pre-medievale, è una letteratura molto medievale.
“Speriamo che le Parche ammazzino le mie accuse”: riferimento a un aspetto biografico (“Signore
pietà” / “kyrie lesòn”). Costantino è deificato, “almo laetificans” /”omnipotens” benché il dio non
sia più deificato ed egli non sia ancora cristiano (??). Ricorda molto l’inno a Venere di Lucrezio.
“Laetificans”: la poesia nasce dalla gioia, noi siamo abituati a pensare al contrario. Nell’antichità la
poesia è un fatto sociale, che si fa nelle occasioni delle feste, del simposio, quindi è diverso. Ma già
Lucilio presenta l’idea che “venga fuori dal cuore”. Qui non siamo più però in cui la poesia è un
fatto sociale, è qualcosa che l’autore ha scritto a tavolino. Mancano i vv.5-7. “Allora meglio la voce
sicura canterà te, Signore, tu che reggi le virtù, a stento poté propagare col verso solo queste cose e
parlare desultoriamente, visto che il vate è così triste”. Nel mondo antico non è il poeta a cantare,
ma il poeta che è un “èntheos”, una sorta di “medium”. La tristezza è una sorta di ostacolo alla
poesia, qualcosa che fa preoccupare la Musa, il suo “medium”. “Pangere versu” [RIASCOLTA].
“Allora stento con segno timido (Giove che fa un nutus) Calliope mi disse di sì, avendo osato
raccontare la preghiera del vate e il suo triste destino.” Optaziano sta sfruttando la Musa per il
proprio tornaconto: questo incipit ricorda molto l’epica, perché c’è l’argumentum (la tristezza del
poeta) e l’invocazione alle Muse. Omero non usa mai la parola “io”, è narratore eterodiegetico, poi
le cose cambiano col corso del tempo, ma qui addirittura le Muse parlano del narratore. Optaziano
usa moltissimi enjambement e anche questa è una grande evoluzione rispetto all’esametro standard.
Infatti nell’Iliade e nell’Odissea ce ne sono pochi. “Affinché chiuda le parti con un limite ben
definito, il canto con la regola dei versi tutti pari, in modo che i suoi primi segni siano uguali al
verso che sta in mezzo e l’ultima parte del verso sia uguale alla parte mediana.”

v.18: mesostico, siamo a metà e si riprende il v. 1, c’è una sorta di simmetria con “alme”. “Tu che ci
nutri, salvezza del mondo, onore di Roma, celebre per fama (qui ci sono 4 blocchi distinti anche
metricamente): c’è sia un aspetto grafico, sia uno metrico, ogni blocco ha il suo epiteto, segnalato
dalla propria cesura. “Migliore nei fatti, genitore per la tua pietà, vincitore nelle cose di Marte, tu
più mite per il perdono, tu che addolcisci la giustizia severa delle leggi, forza eterna, gloria del
secolo, speranza piena data ai buoni e felice, tu che sei l’abbondanza, esimia vetta degli antichi per
virtù e per lealtà, oh gran padre di Roma, vendicatore delle armi civili e lode gradita del sommo dio,
mente lucida, superiore, salvezza che ci è stata inviata tra le cose, pace per te, ottimo condottiero”.
La “restrizione poetica” è il vincolo che il genere letterario impone, ossia “contrainte”. Qui le regole
della restrizione sono: 1) esametri 2) deve iniziare e finire con la stessa lettera 3) la diciottesima
lettera dev’essere la stessa (acrostico, telestico, mesostico). “E quiete sicura per le guerre ogni cosa
sacra (avviene) attraverso di te”. Sono tutti epiteti a Costantino. In sostanza a metà, dal v. 18 c’è una
seconda partenza, con la ripresa del verso iniziale: la prima parte è sulle grane del povero poeta e il
racconto della struttura del componimento; poi c’è una ripartenza che riguarda le lodi di Costantino
e riprende “alme”. È come se dicesse che all’inizio non ha lodato abbastanza Costantino. Costantino
è visto come un bravo amministratore, che ama i suoi sudditi come dei figli, è bravo in guerra, è
dotato di clementia (iustitia in età repubblicana). Optaziano è molto abile, infatti dice che
l’imperatore è clemente (De Clementia di Seneca) e che è l’asprezza delle leggi a tenerlo relegato in
esilio: fosse per l’imperatore lui sarebbe già rientrato perché egli è benigno. “Alme salus orbis” nel
carme 3 diventa “alme parens orbis”, qui sotto c’è invece “pietate parens”. “Gloria saecli” e nel
verso precedente “decus”: nel carme 10 “concordiae saecli Romae decus”. Optaziano costruisce con
le stesse tessere mosaici diversi. “Copia rebus” è un nesso formulare diacronico che parte da
Lucrezio e viene usato sempre, “veterum virtute” è allitterazione (Virgilio nell’Eneide). “Omnia
plena bona sua” nel carme 16. L’imperatore è sempre il padre di Roma, nelle Silvae di Stazio è
“magnae parens mundi”, lo usa anche Ausonio; “armis civilibus ultor” è ovviamente preso da
Lucano. “Optime ductor” è invece più recente come nesso, più cristiano. “Secura quies” è un
concetto epicureo, infatti si trova in Lucrezio (la morte per l’uomo è una quiete sicura, non è un
male per lui), in Virgilio è invece la tranquillità dei contadini che vivono lontano dalla guerra.
Questo è tutto un lungo elenco che sembra quasi una sorta di rosario, una sorta di litania.
Riprendiamo dal v. 29: “La tua fedelissima destra offre i diritti soltanto ai padri di famiglia e offre il
contratto nuziale, consorzio della vita.” Cioè offre solo ai mariti che si fidano di lui possono avere
considerazione sociale, grazie alla leggi sul matrimonio che aveva emanato. Optaziano parla in
generale, ma anche di se stesso: era stato esiliato per motivi di adulterio; lui però si dichiara
innocente e anzi celebra le leggi dell’adulterio volute dall’imperatore. “Fidissima dextra” si trova
verso la fine dell’Eneide, “consorti vitae” è contemporaneo, c’è in Paolino di Nola, in papa Damaso
e nei cristiani in generale. “Guarda me che per un’accusa falsa, sovrano supremo, sono afflitto dalla
pena dell’esule, infatti, oh nume venerabile, vinci gli altri punti della causa, dandomi la grazia e,
con il solito cenno, le cose fatali”. A questo punto Costantino viene divinizzato, anche se con molta
cautela: in questo periodo lo status dell’imperatore diventa in bilico, da quando c’è il cristianesimo
un imperatore non può più essere un dio, perché il dio cristiano è esclusivo. Al contrario, l’ateismo
nel mondo romano non esisteva perché se eri ateo eri anche anarchico perché l’imperatore è un dio
(Plinio il Giovane che scrive a Traiano per chiedere cosa dovesse fare dei cristiani e qui si vede che
in realtà non ha alcuna voglia di occuparsi dei cristiani né di condannarli senza motivo. Il problema
era dettato dal fatto che i cristiani non sacrificavano all’imperatore, non tanto il fatto in sé che
credessero a un altro dio). Ma qui “maxime rector” è l’epiteto che nell’Eneide era accostato a
Giove. È accostato a un dio attraverso delle formule fisse. Anche il “nutus” è un elemento associato
a Giove, con cui egli afferma o nega: gli dei parlano poco perché basta un loro cenno. Il punto più
problematico da tradurre è la parte in cui Optaziano parla dei versus intexti. La parte che c’è prima
è un commento, uno scolio, non è stato scritto da lui.

Livio Andronico è “l’incipit” assoluto della letteratura latina, con la rappresentazione nel 241 a.C.
del suo dramma. Prima c’erano solo forme preletterarie come i Fescennini, simili ai giambi greci
ma più rozzi, le Atellane una sorta di commedia dell’arte con maschere fisse. A un certo punto uno
si mette in testa di scrivere i “copioni”. Poi ci sono i Carmina Triumphalia, le Litanie dei sacerdoti,
forme che già all’epoca di Cicerone erano incomprensibili. Livio Andronico è il primo a scrivere in
latino e di lui ci sono pervenuti dei frammenti. È famoso per aver tradotto l’Odissea in latino,
“Odusia” (nel latino arcaico non c’è ancora la y). Livio traduce tutto, qualsiasi cosa, è purista, cerca
di evitare grecismi per rendere accessibile al popolo romano, non usando grecismi che il popolo
romano ancora non conosce. La traduce inoltre nel verso originale romano, il saturnio, che arriva
fino a Nevio, dopodiché va perduto (già Ennio scrive in esametri). Non sappiamo con precisione
estrema la struttura del saturnio, ma a grandi linee conosciamo il ritmo, forse era accentuativo.
Chiaramente per incastrare il verso lui fa degli aggiustamenti letterari. “Virùm mihì, Camèna,
insecè versùtum”. Vir corrisponde perfettamente ad anhr (visto che homo corrisponde ad
anthropos), così come mihi a moi. Ennepe contiene in sé la parola epos, ma non c’è una parola
corrispettiva in latino; tuttavia cerca almeno di rendere la preposizione (in = en). Il verso di Livio è
“brutto” per eccesso: qui è un eccesso di fedeltà alla traduzione, in quanto ogni lingua ha le sue
particolari caratteristiche. Camena è una latinizzazione della Musa. Le Camene sono divinità
minori, ninfe dei boschi: in concetto di Musa a Roma ancora non c’è, quindi usa un termine
“simile”, che però non è solitamente associata al canto poetico. Sta cercando di usare un calco al
posto di un prestito. Molte divinità greche sono trasposte a Roma come divinità latine, ma le
Camene vengono lasciate nel dimenticatoio: è la letteratura ad averlo decretato, il suo pubblico.
Versutum sta per polytropon. Trepo vuol dire volgersi. Alcuni lo interpretano come versatile, “che
ha molte sfaccettature”, altri come “che ha molto viaggiato”. Il latino tende a rifiutare i composti e
quindi crea neologismi, versutum potrebbe corrispondere a versatile. Ma anche questo termine è un
tentativo fallito perché cade nell’oblio anch’esso. Se una parola non c’è sul dizionario vuol dire che
è stata dimenticata, come anche polubro ed eglutro. Fr. 6: “Argenteo polubro, aureo eglutro”. Sono
entrambi recipienti connessi con il vino. Addirittura eglutro è apax e non si sa cosa sia, Schmitz ha
pensato che possa essere la trascrizione di ekloutron che è una sorta di vaso, si trova solo qui,
polubro solo in Livio ed è una specie di vaso ed è riportato solo dai grammatici. È un verso
incomprensibile anche ai latini. Teniamo anche conto che di nascita Livio era greco, tarantino
(aveva infatti il nome Andronico). Il Sublime qui individuerebbe il problema del maestro di scuola:
Livio, per essere preciso diventa pedante e sostanzialmente brutto. In suo altro carme, che non è
l’Odusia, abbiamo un altro verso “tùmque rèmos iùssit rèligàre strùppis” (=e allora ordinò di legare
gli scalmi). Gli struppi sono gli scalmi, di solito nelle navi greche e romane, al posto della forcella
che regge il remo, c’erano lacci di cuoio spesso in cui veniva fatto passare il remo, appunto gli
struppi. È una parola che fa parte del lessico marinaro. Possono essere anche i lacci con cui si
fissavano le portantine alla lettiga. È presente con questo secondo significato nelle Notti Attiche di
Aulo Gellio. Essa è però una parola strana: compare poche volte ed è spiegata da un grammatico, di
nome Verrio Flacco che dice che sono fascicole di verbene che si mettono davanti alla testa degli
dei, in ambito sacrale. Se un grammatico spiega il significato di una parola vuol dire che il
significato sfuggiva ai latini. La definizione che ci interessa qui è quella di Isidoro di Siviglia: “gli
struppi sono legacci fatti di canapa o lino ai quali i remi sono legati agli scalmi.” Nessuno ormai
sapeva cosa significasse, a parte i navigatori e i grammatici che le studiano. È una parola tecnica
che non si usa più in latino, è binario morto. Per un latino classico una parola brutta è una parola
troppo tecnica e non usata. “Topper citi ad aedis venimus Circae”( = Rapidamente siamo arrivati
alla casa di Circe). Topper è una parola che viene soppiantata molto presto da altre parole come
mox o simul. È una parola che piace molto a Livio Andronico, è piuttosto presente, si trova un po’
nella tragedia antica e poi muore. Del resto anche la tragedia latina è un genere caduto nel’oblio.
Abbiamo solo le tragedie di Seneca che sono inoltre molto particolare, forse fatte per la lettura; ma
Ennio, Pacuvio e Accio sono gli unici e di questi sappiamo anche poco. Quindi topper finisce nel
lessico tragico e quindi cade nell’oblio. Commento di Quintiliano: “ma è necessaria una misura, di
modo che non siano frequenti né evidenti queste cose, poiché nulla è più odioso dell’ostentazione e
neppure in ogni caso le cose riprese dagli ultimi e ormai dimenticate da tempo, quale è “topper”.
Quintiliano ci dice come usare il lessico nell’Institutio oratoria. Siamo nell’età dei Flavi, sono
passati circa 300 anni. Dice che ogni tanto è bello insaporire un discorso con un arcaismo, ma
bisogna che non siano “crebra” e “manifesta”, cioè non siano troppo frequenti e non siano “un
pugno in un occhio”, perché si vede che sta ostentando un linguaggio forzatamente elevato. In realtà
per i Romani Livio non era il padre della letteratura latina, ma per loro era Ennio, come per noi
Dante, benché prima di lui ci sia stata altra poesia (la letteratura siciliana per esempio). Livio e la
letteratura siciliana per quanto grandissimi esperimenti della letteratura sono binari morti, sono
“false partenze”. Tra l’altro viene abbandonato il saturnio per l’esametro, quindi non vengono più
riprese le opere scritte in saturni. Le formule in saturnio non servono più perché servono quelle
esametriche. Ennio invece aveva tria corda (greco, latino, osco) ed è portato a Roma da Catone,
benché Ennio è filellenico, Catone è antiellenico. Ennio, a differenza di Livio, non ha problemi a
inserire ellenismi: il mito greco entra nella prospettiva latina, insieme al lessico e al metro. Enn.
Ann. 1: “Musae, quae pedibus magnum pulsatis Olympum” (= Muse che con i piedi battete il
grande Olimpo). È un verso ipertipico e potrebbe essere considerato brutto (secondo Manca è
bello). Si inizia con l’invocazione alle Muse, che è un’innovazione per l’epoca di Catone. Ci sono
infatti ben due grecismi ossia Musae e Olympum, è un’affermazione di pieno ellenismo e sono
posizionati strategicamente uno in testa e uno in coda. Magnum Olympum dà un effetto formulare.
Musae - magnum / pedibus – pulsatis è un’allitterazione incrociata. I Romani sono più sensibili
all’inizio delle parole che alla fine, quindi percepiscono ben queste allitterazioni. Pedibus pulsatis è
anche onomatopeico e il verso, con il suo ritmo, sembra proprio imitare il battere dei piedi. I piedi
sono le singole parti del verso: Muse voi che battete il grande Olimpo con i versi! Ma è Ennio che
parla: le Muse parlano per tramite di Ennio, come poi sarà da tradizione per i poeti epici. Sembra un
verso stupido, ma è ricchissimo. Tutto si inserisce nella tradizione aurale, molto distante da
Optaziano Porfirio. V. 26 Annales: “Teque pater Tiberine tuo cum flumine sancto” (= e tu padre
Tiberino con il tuo fiume sacro): sembra che ci sia una sorta di eccesso di allitterazione della t, gli
autori successivi tendono a ridurre le allitterazioni, ma adesso proprio no. Paradossalmente la
letteratura arcaica è molto moderna e sperimentale, mentre nel latino classico qualsiasi innovazione
è vista male in quanto il latino è intoccabile. Manca la definisce una gigantesca fase di
brainstorming: nell’età tardo-repubblicana avviene un gran processo di selezione. Il v. 31: “Olli
respondit rex Albai Longai” è un esametro minimo, il più corto possibile, è fatto solo di spondei e di
12 sillabe. Questo grazie alla desinenza arcaica –ai, al posto di –ae che è desinenza bisillabica, con
entrambe le vocali lunghe e non un dittongo come poi avverrà in seguito. (= a lui risponde il re di
Alba longa). È una desinenza che poi si trova occasionalmente in epica come arcaismo, ma qui non
è ancora arcaismo, perché l’autore è arcaico e la desinenza è a lui contemporanea. Pede certo
strumento utile per l’analisi metrica. Un verso più piccolo è più lento perché si “espande”, serve qui
per fare una pausa: ma non è un esperimento che verrà apprezzato, questo perché tutti i versi hanno
sostituzioni ed è raro che un verso sia tutto fatto da sostituzioni (ci sono, ma sono molto rari). Olli al
posto di illi invece è piaciuto, infatti è usato anche da Virgilio e il contesto in cui si usa è sempre lo
stesso, ossia con “olli respondit” ed è chiaramente un arcaismo.

La letteratura arcaica non è esattamente brutta, ma è ipertipica perché è agli inizi, ha paura di
sbagliare e per questo esagera. Certo è che alcuni esperimenti sono riusciti, altri no, molti sono
“rami secchi”. Il latino arcaico ci sembra un latino che esaspera quello classico. ENN. Ann. 32 S.
“Accipe daque fidem foedusque feri bene firmum”. Si tratta di un verso pervaso dall’allitterazione
della effe, ma è esagerato (ben quattro). “Accetta e dammi la fiducia e il patto e fai che sia ben
fermo”. Virgilio è grande riscrittore di Ennio e infatti riprende il verso, ma elimina le allitterazioni o
meglio le limita (“accipe daque fidem sunt nobis fortia bello”, dal centone di proba che riprendono
blocchi formulari). Le allitterazioni sono infatti belle, se usate in modo opportuno e non esagerato.
ENN. Ann. 104: “O Tite, tute, Tati, tibi tanta, tyranne, tulisti” = “Oh Tito Tazio, tu stesso hai
sopportato, oh tiranno, dolori tanto tremendi” questo è un verso morto. Un verso del genere
all’epoca di Virgilio, in epoca classica, sarebbe stato considerato eccessivo. Fr. 109 S: “Tu ci hai
fatto entrare nei lidi della luce”: qui c’è un nesso famoso, ossia “luminis orae”. Lucrezio, all’inizio
della sua opera, nell’inno a Venere, scrive “Nec sine te quicquam dias in luminis oras”. Virgilio ha
avuto una formazione epicurea e prende spesso da Lucrezio. E questi autori evitano questo inizio
spondaico, che delinea un andamento lento. Lucrezio e poi Virgilio quando lo riscrive fanno in
modo da conferire all’esametro un ritmo più veloce. Fr. 117: ha molti omoteleuti, rime interne ed è
un verso costituito da pochissime parole, soltanto tre, che non sono molto comuni (palaziale,
floriale, furinale). Il suono che si sente di più è la elle. Fr. 127: caeli caerula prata: è un’immagine
molto barocca, “i prati cerulei del cielo”. È infatti ripetitiva perché “ceruleo” è il colore del cielo.
Qui abbiamo una figura etimologica, ma c’è una ridondanza assolutamente inutile. Le endiadi sono
un genere di ridondanza utilizzato (Cesare): questo genere di ridondanza invece non ha avuto
successo. Fr. 140: “Nel vento che la stirpe dei Greci chiama con la lingua aria”. Qui non c’è
concordanza di numero: siccome c’è un singolare collettivo, il verbo è al plurale. C’è una
concordanza ad sensum. Non c’è bisogno dal punto di vista metrico, perché il metro funzionerebbe
comunque. Il verso cerca di essere solenne: usa una perifrasi per indicare i Greci. Ennio introduce a
Roma la Grecia. In sogno gli appare Omero che dice di essersi incarnato in lui. Spesso Ennio
introduce dei grecismi, lui vorrebbe introdurre “aer”, ma siccome non sa se il suo pubblico lo
conosce, dice che è in greco che si dice così. C’è un locus similis, nel fr. 211: “nec quisquam
sophiam sapientia quae perhibetur” =” e nessuno pratica la sofia che è chiamata saggezza”. Qui si
pone il problema della egestas linguae, il problema della povertà della lingua, posto poi anche da
Lucrezio. Quando Ennio scrive siamo attorno al 200 a.C. quando ormai la civiltà greca era in
decadenza e la lingua era ormai perfetta, mentre la lingua dei romani era ancora poco sviluppata e
poco adatta per parlare di poesia. Il latino è una lingua molto concreta il latino usa “res” per
qualsiasi cosa, il greco non ha questo termine, usa i neutri, è facile “costruire” le parole. Infatti in
greco si può dire “àtomos”, in latino “semina rerum”. E quindi ciò che viene detto in latino è più
basso di ciò che viene detto in greco, quindi talvolta si mette un grecismo. Ma questo è un grecismo
piuttosto insignificante. Fr. 146: passo famoso in cui Romolo e Remo devono stabilire chi sarà il
padrone della città e guardano gli uccelli in aria per prevedere. “A lui l’inclito diede dal cielo un
segno da sinistra”. C’è un problema metrico: c’è una sillaba in più, anche se si riesce a leggere
bene, perché si fa cadere la esse (esse caduca) come solitamente cade la emme. Questa esse è
caratteristica della letteratura arcaica e il verso testimonia qualcosa di interessante in merito alla
pronuncia arcaica (“lupus” si pronunciava per lo più “lupu” e lo sappiamo grazie a delle epigrafi
con errori di questo tipo). L’ultimo che usa una esse caduca, una volta sola è Catullo, ma è una
licenza poetica, già dopo Ennio comincia a sparire. Infatti questa esse è un arcaismo e viene
percepito come un segno di rusticitas, non è bello. Fr. 154: “Sono settecento anni, poco più o
meno”. “Plus aut minus” si usa in generi bassi, per esempio in Plauto, in Stazio nelle Silvae,
Marziale, in alcuni carmina epigrafici funerari nei quali viene detto per esempio “è vissuto più o
meno 65 anni”; nei poemi epici sta malissimo. Spesso gli antichi hanno questi problemi perché non
si segnano le date di nascita e conoscono i propri anni in modo molto approssimativo e si segnano
spesso ogni 5, arrotondando. Ma nel sublime non si può inserire “più o meno”. Fr. 167: la cosa
eccessiva è il numero di vocali, soprattutto nella prima parte. È voluto, per evidenziare “Eacide”,
ma è brutto per un autore classico. Invece “vincere posse” è clausola finale molto utilizzata nei
poemi epici. Fr. 175: anche qui c’è la esse caduca; qui stanno costruendo e quindi usano delle piante
tagliate dalle scuri. Virgilio lo utilizza, ma elimina la esse caduca. Fr. 179: “silvai frondosai” ha
desinenza antica, “l’arbusto con un fremito della foresta frondosa”. Si tratta un esametro spondaico,
ma non olospondaico, c’è un’accelerazione su “fremitu”. Fr. 184: “Non mercanteggiando la guerra,
ma combattendo”. “Cauponare”: la “copa” è un poemetto dell’appendice virgiliana ed è una forma
popolare per “caupa”. La “caupona” è una bottega e “cauponare” è parola molto molto bassa per
dire “mercanteggiare”. Chi viveva in città pronunciava “caupona”, la parte più bassa della
popolazione diceva “copona”. Quindi talvolta si cerca di parlare con un cittadino di alto rango, ma
questo risulta forzato. Per esempio questo può generare anche ipercorrettismo, per ostentare un
linguaggio falsamente aulico (“paupulus” al posto di “populus”). “Belligerantes” è un composto che
si usa ancora in italiano: il latino usa però pochissimi composti e quando li usa, il tono è molto alto.
Ennio vuole ottenere l’effetto di sottolineare il fatto che loro non fanno cose basse, ma al contrario
cose alte. “Cauponare” ovviamente non può essere usata da Virgilio. Fr. 190: “Ve lo regalo,
prendetelo, ve lo do secondo la volontà degli dei”. Qui c’è di nuovo la esse caduca ed è spondaico
(il penultimo è uno spondeo), c’è anche l’allitterazione. E lo spondeo rallenta improvvisamente il
ritmo del verso, con lo scopo di dare solennità. Tutto questo insieme fa sì che in epoca classica
questo verso non sia accettabile, anche qui Ennio sbaglia per eccesso.

Quella di Ennio è letteratura ipertipica. Fr. 198 degli Annales, anche qui c’è la esse caduca, è un
fenomeno parlato all’interno dello scritto, visto che la letteratura è più un fenomeno orale che
scritto: “questi sono più bellipotenti che sapientipotenti”. La cosa particolare qui sono i due
composti. “Bellipotens” è aggettivo diffuso in realtà, l’iniziatore è Ennio e viene usato per tutta la
letteratura latina (Stazio per esempio). “Sapientipotens” è invece un apax. Ennio ha creato due
neologismi: uno ha avuto fortuna perché funzionava nel poema epico, l’altro no. Il secondo non ha
un effetto efficace, si vede che è creato apposta. I composti stanno bene nei poemi epici perché
alzano il tono e perché suonano greco. Fr. 199 (quello successivo): “l’oratore ritorna senza pace e
racconta al re la faccenda”. In questo verso c’è l’allitterazione di erre e c’è una conclusione in
sillaba singola, cosa che è un po’ più rara del solito (in questa fase si fa spesso invece). Fr. 200
(quello successivo): “pose delle esalazioni alle onde sulfuree del Naris”. Di per sé questo verso non
è particolarmente fuori standard, forse leggermente carico. La cosa molto interessante è il locus
similis nella Farsalia di Lucano: “Qui le orecchie, qui le esalazioni del naso adunco”. È interessante
perché in Lucano il “Naris” diventano le narici e “ad undas” diventa “aduncas”: spesso la ripresa
non è tanto semantica quanto fonetica. Si parla qui di pareidolia, un po’ la capacità di creare
immagini: questo può avvenire anche nella lingua, in base alla somiglianza delle parole. Per
esempio, nel Poenulus di Plauto, il cartaginese giunge in un posto e prova a parlare punico. Qui c’è
un greco che ha un servo che si offre di tradurre il punico (senza però saperlo in realtà). In Lucano
c’è la creazione di una sorta di lectio facilior (le narici adunche sono molto più banali delle onde del
Naris). Frammento successivo: “Il gruppo dei Marsi, la corte dei Peligni, la forza degli uomini
Vestini”. È come se ogni blocco metrico fosse dedicato a un popolo, ognuno con una variazione.
Anche qui c’è l’uso dell’allitterazione della emme e della vu.
“La tromba con terribile suono disse paparapà”: è un verso brutto perché è facile riempire un
esametro con una parola inventata giusto per riempire. Si tratta di un neologismo onomatopeico.
L’allitterazione della erre si trova molto in questi versi. Questo verso potrebbe anche aver successo
perché è comodo in un poema epico per dire che la tromba di guerra suona, ma è necessaria
un’opera di restauro per eliminare la parte brutta. Ci pensa Virgilio: “procul aere canoro”. L’ha reso
bene e ha conservato l’onomatopeica attraverso il verbo “increpo”. Passiamo a Stazio: da Virgilio a
lui è cambiato il gusto e sono apprezzati i composti illustri e al posto di “terribile” usa l’aggettivo
“luctificus”, “portatore di lutto” e il senso onomatopeico viene assunto da “clangoribus”. È chiaro
che questi procedimenti attenuano l’onomatopeica. Terenziano Mauro cita il verso dicendo che è
famoso. Con Sidonio Apollinare siamo di nuovo in un’epoca in cui si può improvvisare e
sperimentare: “e fece risuonare la terra rauca”. Sidonio riesce a ottenere lo stesso effetto
onomatopeico senza inventare parole. In realtà ci sono ancora più allitterazioni della erre: sette erre
in Sidonio contro quattro nel verso di Ennio. Catullo non fa parte della letteratura brutta, sia dal
punto di vista antico sia da quello moderno. Ma qualche volta ha degli eccessi, come nel carme
LXXXII: “Se vuoi che Catullo ti debba i suoi occhi o se c’è qualcos’altro di più caro degli occhi,
non portargli via ciò che per lui è molto più caro degli occhi o qualunque cosa che è molto più cara
degli occhi”. Questo fa parte degli epigrammi in distici elegiaci. Il gioco di Catullo è che crea
quattro versi usando sempre le stesse parole, come “oculos”, “caros” e i connettivi. La generazione
successiva, Orazio, teorizzerà la callida iunctura. Nell’età arcaica la bellezza è data soprattutto dalla
quantità, da Silla in poi circa è data dalla elegantia, cioè da come si scelgono e mettono insieme le
cose, non mettere insieme a caso un’accozzaglia di parole rare, ma scegliere e inserirle in odo
corretto. Questo significa creare una callida iunctura. La quartina di Catullo ha però un sapore
sperimentale, va bene da sola, ma non per centinaia di versi, sarebbe stucchevole. Per questo lo
inseriamo nella letteratura ipermodello. Altre cose che lo sembrano in realtà non lo sono, per
esempio quelli che sono intrisi di linguaggio osceno; è normale, rientrano nel linguaggio del genere.

Come un verso ipertipico può essere modificato nella sua tipicità a seconda del gusto delle epoche.
Carme LXXXII di Catullo. I Priapea: qui l’ipertipicità o meno è data dal fatto che l’argomento è
osceno. Sono una raccolta di poesie latine, per lo più epigrammi, dedicati a Priapo, dio agreste della
fertilità. La sua statua era collocata nel giardino e si ritenesse che portasse fortuna e che tenesse
lontani i ladri. In suo onore ci sono questi 95 componimenti che non si sa bene in che epoca siano
stati scritti, forse sono della prima età imperiale, c’è chi dice invece che siano posteriori. Quasi
sempre sono in prima persona ed è lo stesso dio Priapo che parla di sesso, che è vissuto da lui in
modo molto giocoso e scherzoso. Essendo un argomento tabu, bisogna essere comici. Freud afferma
che ciò che crea disagio è comico (le funzioni corporali, la nudità). Quando il disagio è piccolo fa
ridere, quando è grande non lo fa più. Questo tipo di comicità, la nudità e le funzioni corporee, è la
più semplice. Per esempio una torta in faccia fa ridere, un’incudine in faccia no. Lo stesso per la
sessualità: nessuno riderebbe per uno stupro. Nei Priapea ci sono minacce di stupro, ma che non
sono mai portate a termine. Ci sono molti giochi di parole e gli strumenti tipici dell’epigramma
comico, tanto che alcuni l’hanno collocato nei tempi di Marziale. Quest’epigramma effettivamente
è simile a ciò che fa Marziale. L’ipertipicità è data dall’aspetto sessuale, ma non solo. Priapea II
(sono distici ovviamente): “Potevo dirti in maniera oscura: “dammi ciò che anche se tu dessi
continuamente tuttavia per nulla non perirebbe. Dammi ciò che desidererai dare forse invano,
quando la barba invidiosa coprirà le guance assediandole. “E ciò che aveva dato Giove colui che,
rapito dal sacro volatile, adesso mescola bicchieri graditi al suo amante. Ciò che la vergine durante
la prima notte dà al marito desideroso mentre inesperta teme la ferita dell’altro luogo. È molto più
semplice dire in latino “dammi il culo”, che ci posso fare, la mia Minerva (cultura) è spessa.” Di
marzialiano qui c’è il fulmen in clausola: si inizia in maniera eloquente si finisce in modo diverso.
L’epigramma è pederastico, il destinatario è un ragazzino (dammi ciò che un giorno…). C’è
un’opposizione tra “oscure” e “latine”. “Latine” vuol dire in latino “ciò che sembra chiaro”. Del
resto si inizia con la forma dell’indovinello. Il sesso è una parodia del tòpos erotico della giovinezza
che sfugge (Catullo, Orazio, Mimnermo). Non è vero che la Grecia antica fosse il paradiso degli
omosessuali: è accettato solo l’amore tra un uomo e un ragazzino, perché nel caso di due uomini
adulti, non è accettato che un uomo debba fare la parte della donna. Il terzo è invece un esempio
mitologico: Ganimede rapito da Giove in forma di aquila è diventato il coppiere degli dei. Il
penultimo è un esempio di costume quotidiano. Il sesso non era un granché: la donna doveva
sdraiarsi e far fare all’uomo ed era considerato brutto che la donna provasse piacere. Nella prima
notte di nozze la sposa vergine può chiedere di conservare la verginità, ma il marito può chiedere in
cambio di sodomizzarla. “Pedicare” è estremamente gergale, si trova in Catullo, e indica il rapporto
sodomitico e si dice con una forma idiomatica, gergale, con il verbo “da”. C’è un ultimo pentametro
che è di scuse. È partito in modo evoluto e tenero e poi c’è il fulmen in clausola con un colpo di
volgarità inatteso che rende ancora più forte l’effetto. Quindi chiede scusa per la sua ispirazione
rude. Ciò è qualcosa che va al di fuori dei canoni della letteratura latina: di solito il linguaggio basso
e quello alto nella letteratura latina non si mescolano. Metterli insieme crea un effetto molto forte.
“Rusticus” si trova in HOR, Sat. 2, 3, lo dice in riferimento a un tale che era di grande intelligenza e
saggezza, ma che aveva una “Minerva crassa” perché era di campagna.

Priapea 7. “Quando parlo una lettera mi viene fuori sbagliata, infatti dico sempre la T come P e la
mia lingua inciampa sempre.” T P dico = Te Pe Dico = Te pedico. È come dire “ti sodomizzo
sempre e quindi la mia lingua inciampa”. È un umorismo greve, ma anche raffinato perché basato
su un gioco di parole. Quindi abbiamo un priapeum con il fulmen in clausola e uno metalinguistico
perché si può leggere in due modi ed è fortemente legato alla letteratura latina: si tratta di due tipi di
comicità diversi. Quando la letteratura e la lingua riflettono su se stessi parliamo di ipertipicità.
Quindi il Priapea 7 si può collocare sul piano della metaletteratura.

Argumentum dell’Amphitruo di Plauto: “Giove, colpito d’amore per Alcmena, mutò se stesso
nell’aspetto di suo marito, mentre Anfitrione combatteva con i nemici per la patria. A lui sottopone
come servo Mercurio sotto l’aspetto di Sosia. Egli ha vanamente un padrone e un servo che lo
frusta. Anfitrione fa una scenata alla moglie e a vicenda si accusano di essere adulteri. Blefarone
catturato come arbitro non può scegliere quale dei due sia Anfitrione. Alla fine riconoscono tutta la
faccenda. Lei partorisce dei gemelli”. Qui c’è un acrostico: se si legge in verticale dalla prima
lettera si legge “Amphitruo”. L’acrostico è molto usatoe tra le altre cose ha una funzione
mnemonica. Anche questo è un fenomeno visuale. Nella Bibbia ci sono i Salmi alfabetici (quelli
che iniziano con alef, quelli con beth, etc…) Ci sono fenomeni visivi e fenomeni acustici (nella
lettura non ci si accorge dell’acrostico). Questo argumentum non è fatto per la lettura e questo ci
dice sicuramente che è di età tardo antica. “Turbas uxori ciet…” richiama proprio il testo plautino,
mentre invece altre formule (amori captae…) sono tipiche degli argumenta. Il verso usato, il senario
giambico, è lo stesso della commedia.

Poeti Novelli, i poeti della generazione di Adriano. I poeti nuovi si chiamati così in modo
dispregiativo da Cicerone, lo stesso i poeti novelli. In questo periodo si cominciano a vedere i primi
segni di decadenza culturale, tutto si ripiega nel gusto per il particolare, per il barocco, definita
come “un’età affetta da rimbambimento senile” da Perenima. Adriano era molto filellenico. Poesia
di Adriano in versi giambici: “Oh animetta vaghetta tenerella, ospite e compagna del corpo che ora
abiterai in luoghi pallidetti, rigidetti, nudetta e non potrai scherzare come sei solita”. Qui si parla
della caducità della vita, l’anima si separa dal corpo e va nell’aldilà. Ma è strano sentir parlare un
imperatore così. Ma questi diminutivi non sono sua invenzione, in realtà si trovano negli epigrammi
funerari. Catullo nel carme LXV parla del fratello morto che ora tocca l’Ade con il suo piede
pallidulus. Questi diminutivi non servono a rendere gli oggetti più piccoli, ma più trasparenti. Ciò
che rende ipertipico questo carme è che ce ne sono troppi (sei). L’uso del diminutivo è frequente
nella poesia lirica, come in Catullo, ma qui ce ne sono troppi, si parla di ipertipicità. Nerone era un
poeta professionista o almeno avrebbe potuto se non fosse stato imperatore, invece Adriano è solo
un hobbista. Ebbe un notevole scambio con Floro, poeta del suo periodo (in dimetri trocaici). “Io
non voglio essere Floro, fare il giro dei locali, perdere tempo nelle locande e beccarmi delle belle
zecche rotonde.” Adriano non si sente diminuito dall’usare una terminologia bassa. “Io non voglio
essere Cesare, passeggiare tra i Britanni, essere in giro per il mondo, sopportare il gelo della Scizia”
è la risposta di Floro.

Iudicium coci et pistoris iudice Vulcano di Vespa: è una specie di controversia, se sia meglio essere
un panettiere o essere un cuoco. Uno deve convincere l’altro (Celo d’Alcamo, un giovane uomo che
deve convincere una donna). Questo deriva chiaramente dalle scuole di retorica, dove si svolgevano
le controversie (quando due tesi si affrontano, per esempio se Achille debba andare in guerra o no) e
le suasorie (discorsi esortativi, per esempio convincere che Achille debba andare in guerra
attraverso determinati argomenti) e potevano diventare oggetto di prestazioni giocolieristiche. Per
esempio Carneade mostra che la verità può essere piegata da un bravo oratore, facendo capire che
l’impero romano poteva essere considerato sia un bene sia un male. Si sviluppa infatti un
movimento, la Seconda Sofistica che rende spettacolari cose che dovrebbero essere esercitazioni
retoriche (elogio della calvizie, elogio della mosca). La Seconda Sofistica è molto diversa dalla
prima: Protagora aveva detto che l’uomo è la misura di tutte le cose, ne faceva una questione
ontologica; nella seconda sofistica invece è più una questione retorica. Mancava ormai il terreno
culturale di sbocco della retorica. Nella scuola greca si studiavano solo musica e ginnastica, nella
scuola romana soltanto la storia della letteratura finalizzata alla produzione (l’idea è quella di
produrre alla fine un avvocato, una persona che sappia dimostrare le proprie tesi), potremmo
definirla “debate”, dibattito. Questo tipo di educazione riusciva a forgiare tre tipi di uomo: il
generale, l’avvocato e il politico. Queste funzioni vengono meno sempre di più in età imperiale. La
funzione degli avvocati resta relegata a questione di piccoli cabotaggio, i generali sono sempre più
militari di professione e l’oratoria di tipo politico-senatorio muore, perché il senato è
completamente dominato dagli imperatori. E quindi questo tipo di organizzazione scolastica rimane
perché nessun imperatore ammetterà mai che sono finiti i bei tempi della repubblica. A scrivere
suasoriae erano Seneca padre e Quintiliano. Non sappiamo molto di questo poeta, Vespa, lo
collochiamo attorno al III-IV d.C. per la lingua, stessa temperie culturale che dà origine a Optaziano
Porfirio. Egli teneva conferenze a pagamento, come tutti i deuterosofisti, veri e propri conferenzieri
itineranti (Apuleio per esempio). Si trattava di veri e propri spettacoli di retorica. È in esametri (99)
e l’argomento è bassissimo e sembra anche “sforzato”, non si può facilmente dire quale è il
migliore. Tra l’altro si tratta di classi basse e non di eroi (giudizio per le armi di Achille). Nel
mondo antico questa sarebbe stata una parodia. Questi protagonisti sostengono alla fine il proprio
mestiere con argomentazioni che un cuoco e un panettiere non potrebbero mai sostenere
(argomentazioni mitologiche ed erudite), per cui ne nasce un effetto comico. Un altro caso di
questo tipo è il Testamentum Porcelli, il testamento di un maiale che sta per andare al macello. Il
maiale è sempre stato l’animale comico per eccellenza (pare che i giovani monaci ridessero
moltissimo leggendolo).

“Voi che siete tre volte tre, tutte quante che date le diverse arti, lasciate i colli della Pieria e scrivete
con me”. Anche Orazio usa “ter ternae” come espediente retorico. C’è un incipit eccessivo, con
effetto parodistico: non una sola Musa, ma ben nove sono chiamate in causa per un così piccolo
argomento. “Proprio io il famoso Vespa vi prego, io a cui spesso deste un favore per molte città
sotto gli occhi del popolo”. Qua Vespa ci dice qualcosa di sé: che aveva viaggiato per molte città e
aveva avuto molto successo, ci dice che era un conferenziere itinerante. “Populo spectante” è una
clausola molto frequente in letteratura. Un’altra cosa interessante è che la controversia è fatta in
poesia e non in prosa come di solito si faceva. “Voglio cercare di scrivere un’opera di miele e cerco
dei dolci versi; ci saranno anche degli elementi di diritto”. Il miele sull’orlo della tazza fa venire in
mente la metafora lucreziana: i versi sono più dolci della prosa. “Ius” vuol dire anche “brodo”,
quindi la metafora potrebbe rimanere in ambito culinario. Ma ci saranno anche elementi di diritto,
tanto che sembrerà un vero e proprio processo. “Gareggiano un fornaio e un cuoco che è contrario
a quello. Per loro è giudice Vulcano che conosce entrambi”. Entrambi lavorano con il fuoco, con il
forno. “Il fornaio procede per primo a trattare la causa, mentre la farina offre la canizie a tutta la
testa. Questo testo rientra nel tipo di letteratura fatto per la dimensione aurale, per essere ascoltato e
non per essere letto. C’è chi ipotizzato che ci fossero dei sovratesti. Forse Vespa si cospargeva il
capo di farina e poi diversamente, come i personaggi della commedia che sono connotati
diversamente per essere distinti. Il vecchio per definizione ha i capelli bianchi e per questo si usa la
farina, ma qui il trucco è svelato. “Giuro per i numi di Cerere e per l’arco di Apollo”. Il fatto che lo
dica un fornaio fa ridere, è parodistico. L’arco di Apollo è comune nei giuramenti e lo è in generale
come chiusura, Cerere è chiamata in causa come dea delle messi, la dea cui il pistor deve fare
riferimento. “Mi meraviglio infatti, lo confesso, e ormai posso credere a stento che questo cuoco sia
pronto a rispondermi”. L’incipit è veramente comico. “Lui, dalle cui mani il pane viene usato come
ingrediente, mi meraviglio che osi sfidarmi su che cosa sia utile”. Il fornaio può fare a meno del
cuoco, ma il cuoco non può fare a meno del fornaio, perché gli servono anche i prodotti da forno.
“Sono testimoni gli anni e le fauste calende di Giano e quelli che conoscono il mio impegno durante
i Saturnali, in cui sempre io preparo con il mio apparecchiamento i banchetti”. I Saturnali erano il
17 dicembre, ma hanno un aspetto piuttosto carnevalesco e durante i banchetti ci sono pasticcini e
focacce di ogni tipo e quindi i fornai lavorano moltissimo. Aspetto giuridico è la chiamata in causa
dei testimoni. “Sii memore oh Saturno del fatto che io mi do da fare nei tuoi giorni e rafforza me
che sono trepidante per il compito che devo affrontare con la tua potenza”. Sono già tre le divinità
chiamate in causa, Apollo ha solo la funzione di rendere epico il racconto, Cerere per il raccolto,
Saturno perché presiede ai Saturnalia. “Sis memor” è molto usato come incipit di verso come
formula di tipo epico (Eneide, VIII, 78). “Sotto di te cominciarono a esserci anche i secoli d’oro.
Perché, insomma, se tu non avessi dato al mondo il pio dono di Cerere, questo cuoco, roderebbe
sotto una quercia le ghiande”. Con Saturno inizia l’età dell’oro. Si parla dell’inizio della
civilizzazione dell’uomo che secondo gli antichi ci fu solo quando imparò a dominare il fuoco e a
utilizzarlo per cucinare i cibi. Cerere è la dea delle messi, ma è stato Saturno a dare le messi agli
uomini e per questo si possono fare pani e focacce. Il pane è il segno della civiltà umana: questo
ricorda molto Omero, che definisce gli uomini “mangiatori di pane” (viene detto che il Ciclope non
assomigliava a un uomo mangiatore di pane). Ciò che rende mostro Polifemo è il suo
comportamento, il fatto che non segue i precetti dell’ospitalità e che non mangia pane, mangia solo
prodotti di origine animale come il formaggio, non ha ancora imparato la panificazione quindi non è
umano. “Ilice glandes” è un locus di Ovidio: Vespa doveva essere un autore decisamente colto. “In
effetti non è necessario a tutti il pane che nessuno rifiuta senza il quale quali cene i mortali possono
disporre? Lui che ti dà forza, che è chiesto per primo, è questo, questo che il contadino coltiva, che
il grande cielo fa crescere.” Qui l’argomento è la primarietà nella dieta, ma anche che il contadino
semina il grano e che nell’ideale romano, il cittadino ideale è un contadino, il quale coltiva appunto
grano. “Maximus aether” è di Lucrezio: Vespa fa parlare con toni lucreziani il pistor, il che fa
assumere una qualche tendenza parodistica. “Il padre Enea trasportò questo dalle coste troiane,
questo senza il quale le tue leggi canine, oh ingrato, non valgono nulla.” Leggenda secondo la quale
il pane è stato importato dall’Asia, da Enea. Questo verso fa toccare l’apice della parodia: è una
parodia dell’Eneide (“ab horis”)

Le strutture dei due discorsi sono simili. Ci sono le invocazioni alle divinità (Cerere, Apollo,
Saturno) e poi c’è l’argomento dell’origine troiana del pane (da parte di Enea) parodiando un po’
l’Eneide che serve a giustificare la genesi divina della gens Iulia; ma se Enea ha portato il grano in
Italia allora divinizza la gens panificatoria e quindi il pistor si pone come doppio rispetto a Augusto.
C’è un elemento tipico della contesa (faccia di cane, cuore di cervo) e quindi anche questo è
parodistico (Batracomiomachia). “Mi sento sfidato a dire: “Tu provi a rosicare Melitone a cui il
famoso Cereale piacentino di città insegnò a fare il pane”. Qui il testo non è chiarissimo e c’è
un’integrazione. Cereale è un nome che esiste in latino, ma qui è evidentemente un nome parlante.
“Placentinus” è molto interessante perché “placenta” vuol dire “focaccia”, quindi ha il doppio
significato di “piacentino” e di “focaccino”. “Pitagora che tramandò tutte le arti, non sai le cose che
consigliò un tempo al popolo, di non voler mangiare le carni miste col sangue?” I Greci mangiano
tradizionalmente la carne ben cotta e ciò ha una tradizione antichissima: Pitagora afferma di non
dover mangiare le carni miste con il sangue, oltre che la carne in generale. Sembra essere in realtà
una tradizione mediterranea abbastanza diffusa, anche tra gli Ebrei. Il pistor è un fautore della dieta
vegetariana e da qui il poi il cuoco viene dipinto come un personaggio terribile. Del resto già nella
commedia il cuoco è un personaggio molto volgare e rozza e quindi già negativa. “Se sgozzano le
capre, quali saranno i vestiti?” disse. “Si ammazzino i vitelli e non ci sarà l’uso dell’aratro, né la
terra feconda darà il suo dono di messi”. “Iugulo” e “macto” sono verbi molto forti: “sgozzare” e
“massacrare”. L’argomentazione è moderna: le argomentazioni dei vegetariani e dei vegani sono
simili (per creare un chilo di carne noi sprechiamo un sacco di mangime e di acqua potabile).
Uccidendo gli animali si sprecano risorse utili, è il modo più stupido per usarli. “Ma io faccio male
se, oh cuoco, paragono te a noi, mentre potrei compararmi a qualunque degli dei celesti”. “Lo stesso
Giove tuona: quando macino, così anche io fornaio tuono.” Da “molo” viene “molino”. Giove fa
molto rumore e anche il pistor lo fa quando macina. “Marte sottomette in guerra molte genti con il
sangue”. “Sanguine gentis” forma vari loci similes in Virgilio, Lucano, Stazio, quindi è chiaramente
parte del linguaggio epico. “Anche io fornaio uccido le biondi messi senza sangue.” Anche il pistor
uccide, ma soltanto ciò che non ha sangue, ovvero le messi. In “sine sanguine” c’è una leggera
allitterazione. La simmetria è sempre marcata dal fatto che c’è un pronome personale. “Cibele
possiede i timpani, anche io possiedo molti timpani”. In realtà lui ha dei calderoni, non dei veri e
propri timpani come Cibele, si tratta di una parola spostata dal contesto. “Il tirsitenente ha dei satiri:
anch’io rendo molti sazi”. Il riferimento è chiaramente a Bacco. Questo è un gioco di parole che
non si può rendere bene in italiano (saturus / Satyrus) poiché “saturo” non si usa in italiano per dire
“sazio”, anche se il significato è proprio quello. “Gambe del tavolo” è una metafora spenta, perché
quando lo diciamo non ci rendiamo conto della metafora, invece i “timpani” si chiamavano proprio
così. “Saturos” e “Satyros” non hanno nulla a che fare. “Lo precedono i Pan, anche io faccio il
pane”. Si parla dei Satiri vestiti da dio Pan: qui c’è il gioco tra Pan e i pani fatti dal pistor. C’è una
parodia di tipo linguistico. “Che cosa invero? Dalle nostri mani non è preparato nulla di dolce? Noi
facciamo per la gente la focaccia dura con cura. Noi produciamo focacce con lo strutto, noi diamo a
voi i graditi canopici. Noi produciamo crostini per la festa di Giano, inviamo alla sposa dei
biscottini al mosto.” Questi biscottini si usano ancora in Grecia. “Tutti conoscono i dolci fatti dai
fornai, molti conoscono le azioni crudeli compiute dai cuochi”. Alla luce del secondo verso, il
primo si può leggere sia come “dolci azioni” sia come “dolci creati”, cioè sia come azioni sia come
cibo. Di questa polisemia ci si accorge solo quando arriva il secondo verso, c’è un umorismo più
raffinato. Il fatto che l’argomento sia basso non deve fuorviare: gli espedienti retorici, come questa
polisemia, sono attentamente ricercati. “Tu fai pranzare il misero Tieste nelle tenebre. Tu
disgraziato fai che l’ignaro Tereo si mangi il figlio.” Riferimento al mito di Tereo, Procne e
Filomela. Tereo sposa Procne ma era anche innamorato di Filomela, la nasconde e le taglia la lingua
per evitare che parli, ma lei riesce a far arrivare un messaggio alla sorella che fa mangiare a Tereo il
figlio Iti che avevano avuto insieme. Alla fine Giove li trasforma tutti in uccelli. “Tu fai in modo
che il triste aedo / usignolo canti nei boschi” è un chiaro riferimento al mito. “Fai in modo che sotto
il tetto mormori la rondine le sue vicende”. Si usa il grecismo per parlare dell’usignolo
(“chelidon”). La rondine e l’usignolo passano la vita a raccontare il loro mito, la triste vicenda di
Tereo e Filomela. Sono due versi perfettamente simmetrici. “Se mai feci tali cose e se mai tali cose
persuasi, sarò primo in classifica degno di conseguire la palma”. Da notare come stia usando il
“quem” quasi come se fosse una congiunzione, come oggi. In questa sezione entra in campo Ovidio,
ci sono molti loci similes. Riferimento all’infanticidio, reato molto condannato sin dall’antichità.
Abbiamo visto le argomentazioni del pistor fino ad ora, adesso tocca al cuoco. Le argomentazioni
sono simmetriche.

“Il panificatore tacque, il cuoco iniziò a parlare con ordine. Ora nero nel volto per la fatica mentre la
fiaccola gli cambiava la faccia (parallelo tra l’aspetto fisico e l’aspetto morale: è sempre nero di
fuliggine, ma è come se il fumo e le fiamme gli entrassero dentro perché è arrabbiato). Se il fornaio
condannò con le sua parole le leggi dei cuochi allora a lui non credere affatto perché sa fingere
(“fingere” significa sia “fingere” sia “dipingere”).” C’è la seconda persona singolare perché si
riferisce a Vulcano, giudice. “Lui che sempre a molti dice di vendere fumo. Lui che si trova sotto il
masso come nel modo in cui anche Sisifo fatica.” Qui parte una serie di paragoni vari con
riferimenti mitologici (“sub” vuol dire siamo “sotto”, sia “nei pressi di”). Qui il riferimento è alla
mola, con paragone nei confronti di Sisifo costretto a portare un masso camminando. Sisifo è un
peccatore quindi il paragone è negativo. “E infine lui che inventa parole di tipo accattivante / cose
fatte di miele e di polline”. Anche nelle Metamorfosi di Ovidio il fornaio ha un aspetto infernale
(“Ore niger Stygio”). “Lui che in realtà fa tutte queste cose fa soltanto miele e polline. Lui si vanta
di queste risorse che sono soltanto il miele e il polline”. L’argomentazione forte del cuoco è che lui
cucina con molte più cose, a differenza del panettiere che ne usa solo due. “Il bosco porta bestie
selvatiche, il mare i pesci, il cielo uccelli” il cuoco prende da tutte le parti del creato. Questa
tripartizione degli animali è piuttosto frequente, è tradizionale. “Volucres” è più alto rispetto a
“uccello” e si usa molto spesso in poesia, meno in prosa, è una sostituzione metrica, ma ha anche
ragioni di intertestualità perché ci sono molti loci similes. Bromio è uno degli appellativi di Bacco,
mentre l’ulivo è la pianta sacra ad Atena. “Bromio mi dà il vino, Pallade mi dà le olive, Calidone mi
ha dato i maiali, io spesso cucino i daini.” C’è un riferimento al mito della spedizione di caccia al
cinghiale Calidonio. È una battuta oscura, c’è qualcosa sotto che noi non comprendiamo, ma è certo
che è un parallelo a una formula presente in Georgiche III. “Spesso anche giace nel piatto una
pernice e l’uccello di Giunone.” Qui si parla chiaramente del pavone. “Che è solito esibire la coda
gemmata di penne”. I Romani mangiavano più con il cibo del pistor che del cocus: mangiavano
soprattutto focaccia e poche verdure. Non avevamo le spezie, erano costosissime, mangiavano
rarissimamente la carne bovine, a causa di problemi di conservazione. Mangiavano per lo più
cavolo e cipolle. Chi poteva permetterselo mangiava il cibo del cocus. Anche il pesce scarseggia. Il
pavone veniva considerato come animale da cibo, sicuramente per impiattamenti coreografici.
“Certamente egli esalta ciò che loda spesso, cioè quel suo pane che senza noi solo non potrà
piacere, neanche se sia pieno di miele.” I Romani se potevano mangiavano moltissima carne di
maiale e se potevano anche molto pesce, che era considerato un cibo molto ricco. Un pesce che è
mangiato moltissimo era la murena. Valerio Massimo racconta di un tale di nome Orata che aveva
fatto costruire sulla sua casa una “piscina”, ossia una vasca per allevare i pesci, sul tetto, per
sfuggire all’arbitrio di Nettuno. Altra cosa di cui erano ghiotti erano i crostacei, in particolare le
patelle. [Anche qua manca un verso] “Quando sia lì ancora bagnato messo lì un rombo ingannato
dal mare.” (il rombo è simbolo di decadenza). Anche nella satira VI di Giovenale si parla di come si
deve cucinare un rombo. C’è un nesso simile in Lucrezio rispetto al rombo e ce n’è uno che
somiglia soprattutto foneticamente. “Penteo ha Bromio e anch’io ho un penteo di bue”. Qui si parla
del mito delle Baccanti di Euripide. C’è un piatto della cucina romana che si chiama “Pentheus” ed
è uno spezzatino: è un nome chiaramente ironico. “L’Alcide si brucia con le fiamme e anche io mi
brucio con le pentole”. Qui c’è un riferimento a Ercole: tra le varie fatiche c’era l’uccisione
dell’Idra e quindi Eracle ci intingeva le frecce. Quando Eracle deve attraversare un fiume, chiede al
centauro se si offre a far attraversare la moglie Deianira, mentre Eracle nuota con tutte le armi.
Nesso però vuole stuprare Deianira quindi inizia a galoppare, ma Eracle con le frecce intinte nel
sangue dell’Idra riesce a fermarlo. A questo punto Nesso dà a Deianira una camicia intinta del
sangue del centauro e le dice di fargliela indossare se non lo amerà più. Quando Ercole si innamora
di Iole gliela fa indossare e lui prende fuoco: il sangue di Nesso è infettato dal sangue dell’Idra.
Questo mito è raccontato in Seneca e in Ovidio. Alla fine si crea una pira da solo, la sua parte
mortale viene distrutta e quella divina finisce nell’Olimpo. “Così come a Nettuno il paiolone ribolle
facendo onde” (paragone con le onde del mare) “Apollo sa toccare le sue corde con abilità e anche
da parte mia attraverso le mie dita quanto bene sono intessute le mie corde! (Le corde sarebbero le
salsicce). “Io castro i galli così come Berecinzia i Galli”. Berecinzia sarebbe la dea Cibele e i suoi
sacerdoti sono castrati e si chiamano Galli. Prima ha detto che parlerà degli dei in vario modo: il
primo mezzo verso, quello che riguarda il dio, è scritto in modo alto (il nome, gli attributi delle
divinità) cui fa contraltare il resto, scritto in un latino molto brutto, basso e plebeo (per esempio il
modo in cui si parla della pentola oppure il fatto che si chiama lo spezzatino “pentheus”, “caccaba”
è una parola rarissima che in letteratura non si trova mai, “chorda” vuol dire anche “tendine”).
“Ciascuno che cena presso di me prenderà la sua parte, servo a Edipo lo zampone e a Prometeo il
fegato”. Il realtà “ficatum”, da cui “fegato” che in realtà in latino si dice “iecor”, è una ricetta, ossia
il fegato ai fichi. “A Penteo servo la testa, a Titione il fegato. Tantalo Secco supplica perché gli sia
dato un guazzetto. Atteone prende la carne cervina, Meleagro quella di cinghiale.” Atteone aveva
osato guardare Atene nuda che faceva il bagno e fu trasformato in un cervo ucciso dai cacciatori,
Meleagro aveva partecipato alla spedizione del cinghiale Calidonio. Pelia mangia la carne di
agnello e il grande Aiace mangia la carne di toro.” Nel caso di Pelia c’è il riferimento al vello d’oro,
nel caso di Aiace la situazione è più complicata. C’è un verso dell’Aiace in cui Aiace sta fermo e
guarda con l’espressione di un toro. “Orfeo, tu prendi le corde, tu Leandro i muscoli” probabilmente
qui si fa riferimento al fatto che Leandro era un grande sportivo. Il mito di Ero e Leandro prevede
che fossero due amanti separati dall’Ellesponto e lui muore perché mentre fa il tratto a nuoto per
raggiungere l’amata si spegne il faro (addirittura Lord Byron provò ad attraversarlo). “Niobe mi
chiede una scrofa sterile e Filomela la lingua”: Niobe aveva tanti figli e per contrappasso chiede
questo e Filomela chiede una lingua perché le era stata tagliata. Nella parte precedente, quella del
pistor si parla della sua lingua tagliata, ma questa accusa è girata al contrario, al cuoco. “Una zampa
meritò Filottete, Icaro chiede le ali, Pasifae chiede una carne di mucca, Europa anche”. Pasifae si
era introdotta in una mucca posticcia per unirsi al bue, Europa è tramutata in mucca e scappa da
Giove in forma di toro. “Io cucino bene l’orata a Danae e un cigno a Leda”. A Danae viene data
l’orata perché Zeus si era unito a lei in forma di pioggia dorata, Leda perché Zeus si è unito a lei in
forma di cigno. Qui salta fuori che il cigno era considerato un animale commestibile dai romani.
“Ormai il verdetto per noi ponga fine alla contesa”. Qui si concludono i due discorsi. Ogni discorso
è introdotto da una formula. “E quando il cuoco soppresse la voce così Vulcano dice: oh cuoco, sei
un uomo dolce, ma anche tu o fornaio. Io che sono dio vi congedo a pari merito, io che vi conosco
bene. Andate d’accordo per i buoni è dolce vivere senza contrasti, affinché io non faccia freddo, se
mi sottrarrò a voi”. “Dulcis” è una parola chiave, è usato un sacco di volte, è usato in termini
materiali (i cibi) e in termini metaforici. All’inizio dice infatti di aver bisogno di miele per scrivere,
quasi come se il miele facesse da inchiostro. Questo è inoltre uno dei rari casi in cui il poeta afferma
di scrivere (Muse lasciate la Piera e scrivete con me). Tutti i poemi epici iniziano con l’invocazione
ma di solito è invocata perché canti o dica con il poeta, “canto” si usa in età anche molto successiva.
Qui invece il poeta ammette di scrivere, di comporre a tavolino (di solito nella finzione poetica non
accade). Grazie alla lettura in metrica saltano fuori le simmetrie, la cesura è la linea che divide la
“tabella” e crea le simmetrie. Le parole chiave sono messi in punti forti e strategici dal punto di
vista metrico (primo o secondo emistichio). Il linguaggio è espanso dal punto di vista lessicale: si va
da parole alte a parole molto basse (caccaba). Il dettame di Augusto di eliminare il linguaggio
inusuale qui non è preso in considerazione. Un procedimento comico doveva essere proprio questo:
esprimersi prima in un linguaggio alto poi in uno basso (per esempio “fluctus” che è parola poetica
messa accanto a “caccaba”). Si nota che è un linguaggio imperiale. Alcune tecniche del comico
sono proprie del mondo antico: il dare a ciascuno ciò che gli conviene è la modalità della Coena
Cypriani. La Coena Cypriani è datata al VI secolo, non molto lontana da questo testo e si basa
proprio su questo meccanismo. “Un re di nome Iohel festeggiava le nozze in una regione d’Oriente,
in Cana di Galilea. Annunciate queste, furono invitati in molti. E dunque questi lavatisi
accuratamente parteciparono al banchetto”. C’è una sorta di falsa partenza. “Pulì e sparse l’acqua,
portarono del fieno, Matteo e Pietro misero la tovaglia, Salomone mise i piatti e tutta la folla si
accomodò.” Adesso c’è l’introduzione dei vari personaggi. “Ma dal momento che i posti a sedere
erano ormai pieni, coloro che sopraggiungevano, ciascuno come poteva, si trovava un posto”.
Alcuni referenti sono chiari, altri no. A questo punto parte un elenco. “Prima di tutti siede in mezzo
Adamo, Eva su una foglia”. La comicità qui è scaturita dal fatto che la Bibbia in latino pose Adamo
in mezzo al paradiso, quindi questa è sentita come parodia del testo biblico. “Caino sopra l’aratro,
Abele sopra il secchio per mungere.” Caino era un agricoltore, Abele un pastore: scontro tra civiltà,
tra modi di vivere. “Noè sopra l’arca, Giapeto sopra i mattoni, Abramo sotto l’albero, Isacco sopra
l’altare.” L’arca in latino era la cassapanca, c’è un gioco di parole in latino. In Catullo spesso vuol
dire cassaforte (se la prende con un rivale in amore povero). Il riferimento ad Abramo è la storia
della quercia di Mamre, Isacco e l’altare sono riferimenti evidenti.

La Coena Cypriani è un testo spurio, datato al VI d.C. in cui ci sono personaggi della storia biblica
che prendono parte a un banchetto, ognuno prendendo le proprie parti. Quando si vuol far ridere
bisogna calarsi nella cultura dell’epoca. Il comico è legato maggiormente al tempo rispetto al
tragico. La comicità per tipi “invecchia” meglio rispetto per esempio alla satira politica, ad
Aristofane: Plauto è “invecchiato” meglio rispetto ad Aristofane. Bisogna vedere il comico dove il
fruitore antico lo vedeva. Ci sono cose che per noi sono comiche perché sono iper-modello, ma per
l’epoca non lo erano. La “Legenda aurea” è una grande raccolta di agiografie: a volte fa ridere, ma
non è detto che facesse ridere un antico, anche se alcuni episodi lo facevano senz’altro per esempio
il racconto su un santo che scambia le padelle per donne, le bacia e diventa tutto pieno di fumo. C’è
l’aneddoto famoso di San Lorenzo che sta sulla graticola e dice “giratemi perché da questo lato
sono già cotto”: in realtà per i cristiani è una frase che sottolinea il coraggio eroico del cristiano,
un’espressione sarcastica. Non è sufficiente avere il senso del comico contemporaneo. Il comico è
sempre il prodotto di una performance: il rapporto tra un testo, scritto o non, il pubblico e chi lo
fruisce. Basta pochissimo e il comico non funziona. Si basa tutto sui tempi. Se cambia il pubblico, il
pubblico può smettere di ridere. Non solo i tempi, ma anche le culture. L’universalità non esiste.
Anche il “classico” è un immaginario condiviso, ma non è detto che tutti lo intendiamo allo stesso
modo. Il classico è qualcosa che ha successo non effimero all’interno di un arco di tempo e di una
zona. Il secondo aspetto del classico è che entra nell’immaginario collettivo anche se non lo hai mai
letto o visto davvero (per esempio Pinocchio). Il terzo aspetto è che il classico è un’opera aperta,
cioè si presta a essere riscritto. In merito alla Coena Cypriani possiamo dire che è stato soggetto a
molte riscritture (Rabbano Mauro, Giovanni Immonide, Umberto Eco). Ogni volta che si riscrive è
perché non funziona e più e bisogna riadattarlo all’epoca. Per esempio Rabbano Mauro la rende più
didattica, Immonide fa le mette in poesia. Il lessico è molto vario, mentre la grammatica è molto
semplice (soggetto – complemento – predicato). Alcuni aspetti sono comici per noi e altri non lo
sono per l’antico. Gioele dà il banchetto nella regione di Cana (c’è una ucronia, ci sono due
personaggi che riflettono epoche diverse ed essa di solito genera comicità). Nella Coena ci sono
personaggi delle epoche più varie: Adamo, Gesù, Tecla. Questo implica mancanza di coerenza che
per noi rende il testo brutto, per gli antichi probabilmente non lo era (Asterix usa anacronismi e a
noi fa ridere perché abbiamo un forte senso del divenire storico). Nel mondo tardo-antico e
medievale l’universo non è diacronico, ma sincronico: l’esistenza di personaggi di epoche diverse è
presente nel paleo-cristianesimo, anche nell’arte e non serve a ottenere effetti comici. Nella Divina
Commedia per esempio ci sono personaggi di diverso tipo: Virgilio è personaggio storico, Didone
inventata, c’è un Dante storico e uno narratore. Bisogna sempre valutare l’ucronia in merito a opere
antiche. Per ottenere un effetto comico, nel mondo antico il modo più semplice è la cena, perché
riporta sempre all’ambito del pantagruelismo, il quale delinea sempre un aspetto comico. Ciò nel
mondo cristiano è amplificato per cui è molto frequente l’appello alla continenza alimentare.
Clemente Alessandrino mette in guardia contro le cene: il pasto dev’essere frugale e utile a chi deve
rimanere sveglio. La Coena Cypriani invece è un continuo di portate: si viola quindi una regola, ma
comica visto che il peccato di gola, per quanto peccato, è il peccato minore. Diventa una specie di
trasgressione che è così marcata che smette di essere peccaminosa: quando si passa il limite le cose
brutte tornano a diventare belle. Il comico tende a essere frammentario. Si dice che le nozze si
tengono a Cana, ma poi l’episodio non viene sfruttato: questo viola quello che nella regia e nella
scenografia si chiama “regola del fucile” (se all’inizio è inquadrato un fucile sul caminetto, prima
della fine del film quel fucile sparerà: tutto quello che si vede è funzionale a spiegare ciò che si
verifica nel film). Qui invece conta la battuta singola. Giorgio Gaber faceva una distinzione: la
canzone pop è fatta per essere ascoltata ripetutamente, la canzone teatrale deve arrivare subito, non
può piacere dopo. Il filologo può andare avanti e indietro su un testo e lo può vivisezionare: conosce
il testo meglio dell’autore. Lo spettatore invece il testo lo sente una volta sola, soprattutto se il testo
è molto denso semanticamente e richiede la massima attenzione per essere interpretato. Sebbene le
trame di Terenzio fossero più coerenti di quelle di Plauto, la gente stava così tanto a ridere che non
si rendeva conto di eventuali sbavature presenti nelle commedie plautine. Questo tipo di comico è
per associazione (personaggio – azione): il comico si genera perché il testo è stato
decontestualizzato (Isacco sta sull’altare, ma non è normale che stia sull’altare durante una cena). Si
tratta di uno spezzamento concettuale e topologico del comico. Eva per esempio mangia il fico,
perché si siede sulla foglia di fico, il suo vestito è detto “di color erborino” e quando assaggia lo fa
per prima poiché è la prima donna. Come carne Eva mangia le costolette perché è stata creata dalla
costola di Adamo. Altre cose sono meno chiare: per esempio il suo pesce preferito è la murena,
probabilmente perché ricorda un serpente. A un certo punto tutti si vestono e lei si veste da attrice
da exodia: il riferimento è all’esodo forzato dall’Eden. C’è un processo durante il quale viene
interrogata. Una volta che ho detto che Eva è legata alla foglia allora devo stare attento alle
ripetizioni, non bisogna ripetere ciò che è stato già detto. Bisogna variare aspettato e non aspettato.
Questi personaggi sono molto danteschi: condannati all’infinito, prigionieri del loro personaggio. A
volte c’è una comicità che si basa di più non tanto sul personaggio quanto sul testo biblico. C’è un
personaggio che sta sopra il pozzo, Puteus, mentre nella vulgata c’è un altro nome: grazie a questo
riferimento sappiamo che si sta leggendo ancora il testo precedente a Girolamo. Ci sono alcuni
errori nei traduttori: il loculus di Giuda nella tradizione italiana è reso come “la borsa dei denari” in
riferimento ai trenta denari, in realtà “loculus” è la cassaforte, nella Bibbia Giuda era anche il
tesoriere della comunità degli Apostoli. Bisogna conoscere bene il testo di riferimento e non
soltanto la vicenda. Per esempio Rosati pensa che si dice che Adamo siede per primo perché è
primo tra gli uomini, invece si fa riferimento proprio a un passo delle Scritture specifico. Rosati non
capisce bene la battuta iniziale: lo Pseudo Cipriano ammicca a un testo che il pubblico conosce.
Una parola può essere denotativa, cioè indicare un oggetto, o connotativa, ossia in porta in sé, oltre
alla sua definizione, anche un giudizio. Gli organi sessuali non hanno denominazione denotative: o
devo usare una terminologia medica, o il turpiloquio o un termine infantile, non c’è una parola
specialistica, perché è una parola tabù (il nome di Dio non può essere nominato è Tabù, così come
anche la morte). Ci sono elementi, termini, riferimenti che presuppongono un pubblico capace di
comprenderle e spiegarle. Giobbe si siede su un mucchio di sterco e questo c’è anche nella Bibbia.
A volte ci sono battute che oggi sarebbero improponibili, come i casi riguardanti Tina e Susanna:
una è stuprata e una accusata perché volevano stuprarla, sono quindi episodi che non dovrebbero far
ridere, ma fanno ridere perché decontestualizzate. La morte oggi è ancora più tabù perché oggi non
ci riguarda da vicino, perché ci sono gli ospedali e perché non ci sono guerre. Il tabù c’è anche nel
mondo antico: Lazzaro fa ridere perché sta seduto sulla bara e questo è umorismo macabro. Alcune
battute sono difficili da cogliere: per esempio Giovanni Battista che mangia locuste. Queste locuste
sono inserite nelle portate dei pesci: in effetti “locusta” vuol dire anche “aragosta”. A un certo punto
Israele mangia delle biete (beth Israel = la casa di Israele): questo presuppone anche un pubblico
che conosca l’ebraico, quindi un pubblico di monaci. Ci vuole il senso dell’umorismo, ma bisogna
anche capire quale potrebbe essere la battuta. Ci sono anche dei grecismi come “mesopotram”.
Sono neologismi che presuppongono un pubblico in grado di smontarle anche se usare parole
magniloquenti e incomprensibili al pubblico doveva comunque far ridere per l’accumulo di termini
inusuali. A volte si usa l’effetto del tormentone: è un’eccezione alla regola per cui il comico
ripetuto non fa ridere. Se una cosa è detta una volta fa ridere, due volte meno, tre volte stanca, dopo
duecento volte fa ridere di nuovo perché diventa un tormentone (comicità usata soprattutto negli
anni ’80) diventa un vero e proprio leitmotiv, che genera un senso di disagio dovuto alla ripetizione.
A volte si ricorre al cumulo delle categorie semantiche: per esempio si usa una sequenza di aggettivi
per creare l’effetto tormentone. Questo tipo di comicità è cristiana. La mela nella Bibbia in realtà
non c’è ed è derivata probabilmente da un errore di traduzione: l’occhiolino qui si strizza all’idea
che si ha della Bibbia, ma non alla realtà biblica. Così come i re magi non sono tre e nei vangeli non
ci sono il bue e l’asinello. La Coena Cypriani è performativa. I meccanismi della Coena Cypriani
sono spesso ripetuti in letteratura. Per esempio un monologo di Gaber in cui parla di come si suicida
la gente famosa: come la Coena Cypriani anche questo monologo è correlato alla sua epoca e se non
si conosce l’attualità dell’epoca non si capisce. Dice il personaggio, poi il suo referente comico, ma
in mezzo c’è una pausa. Si fa una domanda a cui segue una risposta comica (stesso tipo di comicità
su cui si basano le barzellette o i colmi). Ma tra le due cose ci dev’essere una pausa per creare un
disagio tra la soluzione pensata e la soluzione attesa. È il tipo di domanda, quella della Coena
Cypriani, cui segue una risposta comica ed è una struttura piuttosto usata. La risposta avviene solo
dopo una pausa, altrimenti non si verifica il disagio tra la soluzione pensata e la soluzione effettiva.
Questo ci dice che la Coena Cypriani è fatta per essere letta ad alta voce, perché altrimenti, senza
pause, il comico è appiattito.

Partendo da una letteratura tipica, si possono ottenere letterature iper-tipiche e iper-modello. Ora
stiamo parlando di Fulgenzio di un’opera che parla dell’età del mondo e dell’età dell’uomo, ossia
del “De aetatibus mundi et hominis”. “Ora nelle nostre mani si svolge la quinta età del mondo a cui
la vita umana viene paragonata. Così in questo corso mostreremo le istituzioni degli uomini giusti,
quando i primi due furono messi alla prova nell’unione unica del parto, il minore essendo lui il
soppiantatore del maggiore, allunga le gambe affinché o per primo salti fuori nella luce o ostacoli il
parto vivificatore del fratello, trattenendolo verso l’aborto.” Il testo di riferimento qui è la Bibbia e
bisogna conoscerla per comprendere il testo. Si parla della quinta età della storia. Per Fulgenzio la
quinta età è quella di Giacobbe e Esaù. Genesi XXV. Si fa riferimento al fatto che Isacco prese in
moglie Rebecca a 40 anni e a causa della sua sterilità chiese al Signore di avere un figlio. E il
Signore lo rese padre di due gemelli quando aveva già 60 anni. Nascono questi due figli: Giacobbe
tiene Esaù per il piede perché o uscire per primo o lui oppure vuole tenerlo dentro per farlo morire
(il minore soppianta il maggiore). Esaù dai capelli rossicci era tenuto dal calcagno da Giacobbe. Per
gli ebrei è il parto a dare vita, prima non c’è vita. “Che cos’altro? Mostra non ancora uomo l’invidia
nel suo cuore: infatti, lui che non era ancora vivo, assunse il veleno dell’invidia. Perché mai per
giustizia divina nell’utero della madre si forma per prima l’invidia rispetto alla forma?” Fulgenzio
pone dei problemi di teodicea. “O in quale luogo il livore riceve sua dimora quando ancora non
c’era l’anima?” Il sentimento dell’invidia si sviluppa nella nostra mente prima ancora che ci
sviluppiamo come esseri umani e siamo privi di anima. Secondo gli antichi il parto è vivifico perché
è il momento in cui l’anima entra nel corpo. Oggi ci si chiede quando inizi la vita, in merito
soprattutto alla questione dell’aborto. Secondo Aristotele il feto non è ancora molto sviluppato è
ancora allo stato vegetativo, quando sviluppa un intelletto sensitivo allora ha dignità animale,
quando sviluppa una capacità di pensiero, allora è un uomo. “Nasce piccolo chi ha voluto nascere
per primo; pensò se potesse essere vinta la natura della primogenitura.” Nel mondo ebraico e biblico
è fondamentale la primogenitura perché dava dei vantaggi fondamentali. Alla fine Giacobbe ce l’ha
fatta a lottare contro la natura. “O ammirevole e benedetto giudizio del Creatore, è odiato il
maggiore che nulla commette e amato il minore che fin dall’utero elabora piani. Nessuno è nato e
già uno solo è amato. Non ci fu alcuna giustizia del figlio minore, nessuna colpa commessa dal
figlio maggiore perché la grazia di Dio sia stata impari.” Questo è un argomento di teodicea: esiste
il male perché Dio lo permette. Esaù perde sempre, Giacobbe perde sempre. Eppure il prediletto del
Signore sembra sempre Giacobbe. “E d’altra parte l’apostolo dice: O uomo, forse darai tu giudizio
al Signore?” In questo testo non c’è mai la lettera E: questo vale per tutto il quinto libro.
Quest’opera di Fulgenzio è un lipogramma, che è una tecnica che consiste nello scrivere un opera
evitando una lettera specifica. Questo è un lipogramma consecutivo: nel primo libro non c’è la A,
nel secondo la B, etc… Si tratta ovviamente di un’opera iper-tipica. La lettera E è la più diffusa in
latino. Qui si entra nel campo della letteratura con restrizione: la letteratura di solito è pensata come
aggiunta, come nella pittura, ma in realtà può essere paragonata anche alla scultura, per cui
dall’immenso materiale che abbiamo usiamo solo quello che vogliamo o che ci serve (Ouvroir de
littérature potentielle). Per esempio posso far rientrare un contenuto in un verso oppure usare solo
lessico alto o solo lessico basso. Per esempio se voglio riscrive la Divina Commedia devo tener
conto del fatto che è scritta in terzine. Quando si riscrive si devono tenere in conto i metodi con cui
si deve effettuare la riscrittura. “La disparition” è un romanzo in francese scritto tutto senza la
lettera E (e in francese l’articolo è “le”: l’espediente qui è l’apostrofo e lo stesso problema è per il
femminile, quindi bisogna fare a meno di tutti i femminili senza la E). Nella prassi del canto in
Grecia era pratica comune l’asigmatismo. Per esempio Trifiodoro compose una piccola Odissea
senza sigma, pare per ragioni fonetiche. Macario: i nemici gli hanno messo una bomba nell’ufficio
ed esploderà quando sulla macchina da scrivere premerà la R, ma lui scrive un’intera lettera senza
la R, scontentando i nemici. Solitamente i lipogrammi sono scritti dai ventricoli per evitare le lettere
difficoltose come le bilabiali. In Fulgenzio c’è un invece un elemento magico nell’alfabeto. Una
delle parole che non si può usare “deus” e quindi al suo posto si usano “Auctor” e “Divinitas”. Al
posto di “liber” usa “ordo”, “cursus” al posto di “aetas”, “monstrare” al posto di “ostendo”. Non
può usare mai il verbo “habere” e quindi usa i dativi di possesso. Oppure al posto dell’imperfetto
mette il perfetto che non ha la E. Non può usare la parola “gemini” e quindi usa una perifrasi. Il
prologo sembra non essere lipogrammatico. Ma tutte le A sono seguite da E (in Perec è il contrario)
e questo va messo insieme al primo libro e quindi è lipogrammatico nei confronti della A. Questo ci
fa capire ulteriormente che il testo era fatto per la lettura ad alta voce e che la pronuncia di ae
doveva essere già e. Nel secondo libro manca la lettera V, la U intervocalica, tranne per un caso che
è errore. Significa che la B e la U intervocalica suonavano allo stesso modo. Questo testo testimonia
che nel VI-VII nell’Africa vandalica la B e la U intervocalica si pronunciavano allo stesso modo,
come oggi nello spagnolo. “Uterus” è una parola che non si può usare quindi si usa “Vulva”. Nel
quinto libro inoltre non si può usare la terza declinazione, molti avverbi, molte forme del verbo
essere e le congiunzioni et e –que.

È difficile datare Fulgenzio, ma dovrebbe essere vissuto tra V e VI d.C. Fa parte di quelli che
Manca definisce come Catalizzatore culturale. Fulgenzio ha scritto anche altre opere tra cui le
Mithologiae in 3 libri in cui interpreta i miti in senso allegorico, ma anche la Virgiliana continentia
(il contenuto) in cui afferma che l’Eneide abbia un significato esoterico, allegorico e dice che gli
appare Virgilio in una visione: da qui parte l’interpretazione allegorica di Virgilio che avrà successo
nel medioevo e arriverà a Dante. Il primo a conoscere il greco nel medioevo sarà Pollenzio: quindi
tutti i miti greci citati dai poeti medievali derivano dai poeti latini (in particolare Ovidio). Questo
autore è poco conosciuto, ma in realtà senza di lui non avremmo la Divina Commedia. Nell’opera
che abbiamo visto mette a confronto età degli dei, età dell’uomo e poi l’alfabeto. Crea
un’associazione tra macrocosmo, microcosmo e libro. Folengo è invece vissuto nel ‘500. Era un
monaco di origine mantovana, ma poi scappa con una ragazza e va in giro con lei per tutta l’Italia,
poi se torna nell’ordine benedettino e diventa addirittura abate. Questo è uno per cui il latino non è
madrelingua e scrive nel cosiddetto latino maccheronico. Questo poema è il Baldus. Siamo nel
periodo di Ariosto, Pulci, il poema epico cavalleresco. Questo è di per sé semiserio, come anche lo
stesso Orlando Furioso, oppure il Morgante di Pulci che è molto parodistico. Quello serio è semmai
la Gerusalemme Liberata che è controriformistico. Questo Baldus è una specie di Satyricon. “Mi
viene la fantasia più che fantastica di cantare la fama di Baldo con grasse Camene, la cui fama
altisonante e il nome gagliardo, la terra trema e l’inferno e per la paura si caga addosso.” Il latino
maccheronico è declinato bene, ma secondo radici non latine. C diventa g, è un fenomeno di
lenizione per cui “crassus” diventa “grassus”. Non tutto il latino viene sostituito, per esempio
“altisonum”, mentre invece “gaiardum” è probabilmente un francesismo. Il fulmen in clausola “sibi
cagat adossum” è sicuramente una licenzia poetica, poiché “adossum” non esiste. È giusta la
grammatica, ma anche la metrica. In realtà questi componimenti che sembrano popolari, sono in
realtà più complessi dei poemi epici tradizionali che sono costruiti sulla base di clausole. “Ma prima
bisogna chiamare il vostro aiuto oh Muse che date l’arte maccheronica”. Prima di Folengo è stata
scritta la Maccheroneide, opera di un autore che promosse il latino maccheronico. Folengo
inizialmente scriveva latino classico, in particolare epistole virgiliane per mantenersi. “Chiamare” è
proprio la versione italiana, neanche maccheronica. “O potrà forse oltrepassare gli scogli del mare
la mia gondola che il vostro aiuto non avrà raccomandata”. Il latino maccheronico richiede che il
lettore sappia il latino. “Nutella nutellae” non è in latino maccheronico, ma è un semi-gramelot
basato sul latino, è un’altra cosa. “A me non Melpomene, non la minchiona Talia “minchiona” (qui
ha due sensi, ossia 1) cretino 2) dal grosso pene) non Febo che suona la cetra cantano i canti”.
“Infatti quando penso alle budella della mia pancia non servono alla nostra zampogna le chiacchiere
del Parnaso, soltanto le Muse che riempiono la ancia, dotte sorelle, vengano a imboccare il loro
poeta con i maccheroni.” Si parla di poesia maccheronica perché il cibo in questo tipo di poesia è
importantissima e diano cinque o otto catini di polenta. Queste sono quelle dee grasse e le ninfe
colanti, la cui sede, regione, e proprio il terreno è racchiuso in qualche angolo remoto che non
ancora una caravella spagnola ha trovato.” C’è un riferimento alla scoperta dell’America, quindi
sono Muse che abitano lì. “Lì si leva una grande montagna fino alle scarpe della luna che se
qualcuno paragona allo smisurato Olimpo direbbe che l’Olimpo è più una collina che un monte”.
Nel latino maccheronico che è al di fuori del normale sistema del latino, quella parola è come se
fosse sottolineata e quindi crea un effetto. “Lì non le vette del Caucaso, non la dorsale del Marocco,
non il monte Etna che sputa bruciori di zolfo non la montagna di Bergamo di lì scava pietre rotonde
che vedi girare, mentre il mulino macina ghiada.” Qui c’è moltissima maccheronicità: solpharinos,
rodondas, molino, pirlare, etc… “Ma noi laggiù abbiamo passato le Alpi ricavate dal formaggio
tenero, duro e a metà.” Andando avanti si parla moltissimo di cibo: gnocchi, frittelle, cialde,
guazzetti, maccheroni, casoncelli, etc… con l’idea del paese di Bengodi. Folengo era
apprezzatissimo e recitato da Rabelais che prese tantissimo da lui per la sua opera.

Bernardo De Cluny: De contemptu mundi. Si tratta di un’opera fortemente satirica che parla del
fatto che il mondo ormai è troppo invecchiato e che stanno arrivando gli ultimi tempi. [Ti sei perso i
primi due versi] “Remunera i giusti, liberi dall’ansia e doni loro il cielo, portava via i duri pesi
della… premi i sobri, punisca i disonesti e faccia giustamente entrambe le cose.” I versi sono in
rima e ictus e accenti corrispondono. Vv. 950: “Dove è finito Regolo, dove Romolo, dove Remo?
Roma sta nei nomi antichi, noi abbiamo soltanto nomi antichi.” Il Nome della Rosa si basa proprio
su questo componimento. Siamo nel III giorno, in cui Adso, il giovane protagonista del romanzo ha
un sogno.

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