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Il più miserabile degli animali.

La linea anti-antropocentrica Leopardi - Svevo

Mgr. Hana Fasurová [lalla@mail.muni.cz]


Masarykova univerzita v Brně, ÚRJL FF

IT Abstract

Il presente articolo si sofferma sulle parallele nella concezione anti-antropocentrica del


rapporto tra uomo e natura nelle opere di Giacomo Leopardi e Italo Svevo. Analizza alcune
figure animali dell’opera leopardiana e presta attenzione al motivo della corruzione legata alla
ragione e al progresso della civiltà umana, contrapposto alla presunta lietezza e perfezione
della natura. Il pessimismo anti-antropocentrico riecheggia nel più tardo pensiero sveviano, il
quale viene rappresentato in questa sede soprattutto dagli scritti di carattere saggistico-
narrativo. Si ritiene inoltre di aver rintracciato possibili influenze leopardiane per la figura
dell'inetto, resa celebre con l'opera sveviana.

Parole chiave

Giacomo Leopardi; Italo Svevo; natura; animale; inetto; perfezione; pessimismo.

EN Abstract

This article focuses on the parallels in the anti-anthropocentric conception of the relationship
between man and nature in the works of Giacomo Leopardi and Italo Svevo. It analyses
animal figures of Leopardi's work and pays attention to the motif of the corruption linked to
the intellect and the progress of human civilization, as opposed to presumed joy and
perfection of nature. The anti-anthropocentric pessimism echoes in the later Svevo’s thought,
which is represented here above all by the fragments of his narrative essays. It is also believed
to have traced possible Leopardian influences for the figure of the inept, made famous with
the Svevian work.

Keywords

Giacomo Leopardi; Italo Svevo; nature; animal; inept; perfection; pessimism.


I. Introduzione

Il presente saggio, attraverso l'analisi dei contenuti nell'ambito del corpus dei testi prescelto,
identifica il carattere e il ruolo della figura animale/ della natura in generale nell'opera del
poeta, saggista, filosofo e filologo Giacomo Leopardi (1798 – 1837) e in quest'ottica lo
confronta con la concezione filosofica di Italo Svevo (1861 – 1928), scrittore triestino del
romanzo analitico moderno. Essendomi concentrata sull'opera del primo e avendo paragonato
il modo in cui i due autori adoperano la figura animale rispetto ai protagonisti umani, sono
apparse notevoli parallele nelle opere di ambedue scrittori, fra cui spicca il motivo della
corruzione legata all'intelletto/ al progresso/ alla civiltà umana, contrapposto alla presunta
lietezza e perfezione della natura. Si ritiene inoltre di aver rintracciato possibili influenze/
congruenze nel pensiero pessimista ed anti-antropocentrico anche per quanto riguarda la
figura dell'inetto, resa celebre con l'opera sveviana.

II. L'argomento e testi prescelti

La presenza della figura animale nella prosa e poesia di Giacomo Leopardi e l’attenzione che
lo scrittore ottocentesco presta alla relazione uomo – natura è piuttosto assidua, come del resto
hanno confermato altri conoscitori dell’opera leopardiana quali Antonio Prete1 nel suo volume
La poesia del vivente Leopardi con noi. Per lo scopo stabilito, cioè quello di identificare la
sostanza della figura animale leopardiana e del rapporto uomo-natura, sono state sottoposte ad
analisi le seguenti opere (un corpus misto di poesia e di prosa): Canto notturno di un pastore
errante dell’Asia, Il passero solitario, La vita solitaria dei Canti (1835) ed Elogio degli
uccelli, Storia del genere umano, Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo, Dialogo della
Natura e di un’Anima, Dialogo della Natura e di un Islandese e Dialogo di Tristano e di un
amico delle Operette morali (1835, versione definitiva).

Il bestiario di Svevo è nei confronti di quello leopardiano o pirandelliano piuttosto limitato2,


ma significante per la sua relazione esistenziale all'uomo e il suo sviluppo. Mi riferisco in
questa sede parzialmente soprattutto all'opera sveviana di carattere saggistico-narrativo di

1
Prete 2019.
2
Rimando a un elenco completo e dettagliato di Bacchereti in Nozzoli – Biagini 2001: 29-39.
stampo filosofico, ma mi servo inoltre delle testimonianze provenienti dall'opera narrativa
(romanzi, racconti, favole).

III. Legame Svevo – Leopardi

In questa sede tento di proporre alcune connessioni fra le opere dei due scrittori dal punto di
vista tematico – filosofico e cerco di individuare possibili radici dello scontento dell'uomo
moderno sradicato dalla natura. Le prove esplicite a proposito delle letture di Leopardi da
parte di Svevo mancano, soprattutto per via del bombardamento della Villa Veneziani del
1945, dove furono archiviati i volumi della biblioteca sveviana3. Il lavoro di comparazione
delle opere degli scrittori summenzionati è stato svolto già per es. da Palmieri 2016, Rusi
2014 o Spignoli 2014, in alcuni casi con osservazioni molto vicine o congruenti. Il nostro
sforzo è concentrato e limitato a rintracciare somiglianze o possibili radici della riflessione di
stampo pessimistico riguardante il rapporto uomo - natura, non a determinare letture o
influenze concrete.

IV. Natura come conforto dell'uomo sradicato

IV. 1. … essere convertito in uccello

Come in tutta l’opera leopardiana, anche in merito del fatto da noi descritto, osserviamo gli
echi della tradizione classica aulica, a partire dagli scrittori latini come Ovidio o Vergilio (in
traduzione di Annibale Caro), Dante Alighieri fino ai frequenti rimandi a Petrarca, come per
esempio nella poesia Passero solitario (la data della composizione è incerta, viene stimata tra
gli anni 1819 e 1834). La poesia si apre con scene bucoliche consacrate dalle traduzioni o
originali classici:

“Odi greggi bellar, muggire armenti4” (cfr. “Udian greggi bellar, mugghiare armenti” dell’Eneide di Vergilio
tradotta da A. Caro, VIII, 553 in Leopardi 1997a: 118)

Leopardi abbandona in seguito gli stereotipi tradizionali per confrontare il suo destino con
quello di un passero concreto (che qui corrisponde alla specie di Monticola solitarius, un
3
Rimando alla nota in Rusi 2014: 219.
4
Leopardi 1997a: 118.
passero cantante e per natura solitario) osservato nella campagna vicina alla Recanati natia. Il
poeta adopera la figura dell’uccello per specie solitario per raffigurare la propria
predisposizione individuale interna. Il passero diviene l’immagine esterna dello stato psichico
del soggetto lirico fino al punto che il poeta s’immedesimi con lui attribuendogli delle
disposizioni mentali del tutto umane:

Tu pensoso in disparte il tutto miri;


non compagni, non voli,
Non ti cal d’allegria, schivi gli spassi;
Canti, e così trapassi
Dell’anno e di tua vita il più bel fiore.
Oimé, quanto somiglia
Al tuo costume il mio […]5

Nella seconda parte riflessiva della poesia Leopardi invece coglie la differenza fra la propria
condizione umana e quella del volatile. La vita solitaria del poeta è frutto di una scelta
consapevole; la solitudine dell’uccello, però, è dettata dalla natura stessa e così il passero
solitario, quindi, non potrà mai pentirsi di aver sprecato la propria vita vivendo in disparte
dagli altri (della propria specie o una specie diversa). La predisposizione naturale della specie
animale viene paragonata alla condizione dell’individuo homo sapiens sboccando in un’amara
consapevolezza della situazione umana.

Il passo dalla similitudine fra l’uomo ed animale accompagnata da conforto e/o compassione
alla differenza che è segno di distanza o, se vogliamo, addirittura d’alienazione, non è
dissimile al pensiero sveviano. Similmente come nella prosa dello scrittore triestino, Leopardi
fa emergere la distanza fra la triste condizione dell’uomo (sebbene si tratti di un tipo
particolare propenso alla riflessione e quindi non alla vita attiva) che fa le scelte razionali e
conosce quindi anche sentimenti come rimpianto o rammarico, e la beata ignoranza
dell’uccello di cui costumi sono ancorati nella sua simbiosi con la natura.

Il soggetto lirico della poesia Passero solitario non è altrettanto dissimile al protagonista dei
romanzi sveviani. Un uomo riflessivo, estraniato alla vita spontanea della maggioranza della
sua specie, un inetto che in meditazione passa le sue giornate invidiando la leggerezza e
presunta spensieratezza con cui gli animali riescono godersi la loro vita. Per illustrare l'abisso
5
Ivi.
che si è ormai stabilito fra il mondo umano e animale nell'opera dello scrittore triestino,
prendiamo l'esempio della sua favola Rapporti difficili (1927) dove la difficoltà delle relazioni
uomo-animale viene preannunciata già nel titolo.

“Egli sapeva che il pensiero umano con sforzo faticoso aveva scoperto che l’amore non era altro che la volontà
di riprodursi. Ma da questi animali che nello stesso tempo amavano e lavoravano per la protezione del frutto del
loro amore non occorreva fatica per scoprire quella legge. […] Ma finì per ammirarli alla loro evidente sicurezza
e alla soddisfazione che avevano da ogni loro atto. […] E lo stanco uomo ammirò e amò quella cristallizzazione
dall’aspetto tanto vitale e giocondo6”.

L'uomo dell'”aspetto triste” è incantato ad osservare la vita in un nido di rondini sotto il tetto
del suo fabbricato, perché portano nella sua vita, ormai spenta, un po' di letizia. Attratto
dall'incosciente sicurezza, spontaneità e incondizionata devozione degli uccelli, cerca di
avvicinarglisi per poterli osservare meglio, immaginando i discorsi critici che gli uccelletti
potevano scambiarsi alla maniera umana. Ma finisce col ridere di se stesso:

“In quella vita non v'era sacrificio e non v'era errore, perciò non poteva esserci critica7”.

L'uomo, nella sua vita ormai inattivo, è prigioniero dei suoi pensieri e l'unico modo di
riacquistare un po' di felicità, è osservare la vita degli uccelli, i quali, grazie alla mancanza
della riflessione, godono una vita lieta, spensierata e senza errori8. Si tratta dello stesso
pensiero conclusivo del Passero solitario leopardiano – la presenza della coscienza,
un'esuberanza del pensiero che rende l'uomo (moderno) infelice, in totale antitesi con la vita
istintiva e laboriosa degli animali.

Lo spostamento dell'idea nello spazio e nel tempo, quindi nella realtà di Trieste industriale
dell'anno 1927, porta Svevo a sviluppare l'idea dell'alienazione dell'uomo fino alle estremità,
come accenna la catastrofe finale della favola. Le piccole rondini nel nido muoiono soffocate
a causa del fuoco (con molta probabilità dovuto all'attività umana) e le grida delle rondini-
genitori evocano nell'uomo la colpa di diventare l'assassino. La separazione dalla natura
potrebbe essere considerata qui come un accenno delle future catastrofi ecologiche, come una
sorta di pre-rimorso umano nei confronti della natura, la quale stava distruggendo:

6
Svevo 2004a: 663.
7
Ivi: 664.
8
Vedi più avanti il discorso sulla perfezione, presente sia in Svevo sia in Leopardi.
“Quando videro comparire sul terrazzino l'animale la cui vicinanza aveva inquietato il loro amore e il loro
lavoro, perdettero ogni speranza e, con un ultimo grido di terrore, svanirono nello spazio verso l'aere puro. Quel
grido, certo, significava: –Ecco l'assassino!9“

Il presupposto rimorso di coscienza non è ancora rintracciabile nell'opera dello scrittore


ottocentesco, essendo in Svevo di probabile discendenza freudiana. L’attenzione di Leopardi
alla figura dell’uccello (quindi un essere allato, estremamente mobile, e cantante), comunque,
viene confermata nell’Operetta morale intitolata L’elogio degli uccelli (1824), dove troviamo
lo stesso ancoramento classico che abbiamo osservato nel Passero solitario. Amelio, filosofo
solitario, incitato dall’osservazione degli uccelli di campagna, scrive un elogio alla lietezza,
perfezione e serenità degli esseri alati, paragonando il loro modo di agire e di godere con la
vita noiosa dell’uomo e l’immobile, oziosa e quieta vita degli altri animali. Amelio trova la
perfezione in tutti gli aspetti degli uccelli - nel loro canto (che viene relazionato al riso
umano), nella loro mobilità, forza o vivacità. Addirittura, gli viene attribuita una ricchezza
interiore la quale, a differenza dell’uomo, gli è a beneficio:

“[…] ma in guisa, che tale abbondanza risulta in loro benefizio e diletto, come nei fanciulli; non in danno e
miseria insigne come per lo più agli uomini10”.

Altrettanto, quanto l’uso d’immaginativa risulta per l’uomo “funestissima dote, e principio di
sollecitudini e angosce gravissime e perpetue11” (quella di Dante e Tasso presi come esempi),
tanto per gli uccelli è “larghissima fonte di pensieri ameni e lieti, di errori dolci, di vari diletti
e conforti12”.

L’uomo nel pensiero di Amelio/Leopardi risulta l’essere più triste, ozioso, travagliato e
misero13, mentre gli uccelli tendono alla perfezione14 con “maggior coppia di vita esteriore e
interiore, che non hanno gli altri animali15”. Nella concezione leopardiana anche il riso,
presente esclusivamente dalla specie umana ed equivalente al canto degli uccelli, è “specie di
una pazzia non durabile, o pure di vaneggiamento e delirio”, associato all’ubriachezza e
9
Svevo 2004b: 667. Il commento della presente edizione critica accentua il malinteso (il benefattore scambiato
per assassino) come meccanismo freudiano dello spostamento, p. 1347 di Apparato genetico e commento.
10
Leopardi 1997a: 574.
11
Ivi: 573.
12
Ivi: 574.
13
“il quale infra tutte le creature è la più travagliata e misera” (Ivi: 572), “gli uomini, come sono infelicissimi
sopra tutti gli altri animali” (Ivi).
14
“La natura dell’uccello sia cosa più perfetta che sieno le altre nature di detto genere” (Ivi: 574).
15
Ivi.
imitazione (quindi non è visto come un atto spontaneo di felicità). La necessità della pazzia
per generazione della felicità umana si può trovare anche nell'opera di Luigi Pirandello, un
altro autore moderno italiano, associabile a Svevo nella sua impietosa penetrazione nella
coscienza umana16.

La felicità è concepita da Leopardi come moto, quindi mancanza di quiete e ozio, a cui gli
uccelli sono predisposti dalla natura: “[gli uccelli] sono di natura meglio accomodati a godere
e ad essere felici17”. La specie da Leopardi chiamata “uomo silvestre” invece tende ad ozio e
alla negligenza e “consuma poco meno i giorni intieri sedendo neghittosamente in silenzio
nella sua capannetta uniforme18”. L’infelicità interna dell’uomo, in conseguenza, è dovuta nel
pensiero leopardiano alla noia, quindi mancanza di moto, di forza e, viceversa, all’esuberanza
dell’immaginazione e del pensiero, fonte di preoccupazioni e ansie. Così, Amelio filosofo
solitario giunge alla conclusione di volere, “per poco di tempo, essere convertito in uccello,
per provare quella contentezza e letizia della loro vita19.

IV. 2. La natura è vita

Nella poesia La vita solitaria (1821), troviamo la concezione della natura benigna della
campagna libera ed aperta in opposizione all'ambiente cittadino chiuso fra le mura dove regna
l'odio ed il dolore20. La descrizione della mattina in campagna serve, similmente come nel
Passero solitario, da apertura alla descrizione dello stato psichico del soggetto lirico. Il poeta
trova conforto, rilassamento e oblio nella solitudine e silenzio della natura, la quale è
“asservita solo alla felicità21”. Le figure degli animali vengono adoperati per illustrare l'idillio
della campagna, regno pressappoco naturale, fra cui la gallinella (”l'ale battendo esulta nella
chiusa stanza”), la lepre (”o cara luna, al cui tranquillo raggio danzan le lepri nelle selve”)
anche nel caso in cui è accentuata la loro mancanza e quindi il silenzio desiderato dal poeta:

“[…] e non cicala strider, né batter penna augello in ramo, né farfalla ronzar, né voce o moto da presso né da
lunge odi né vedi22”.

16
Mi riferisco per esempio al racconto La carriola in Pirandello 2016.
17
Leopardi 1997a: 573.
18
Ivi.
19
Ivi: 574.
20
Ivi: 128 ”poiché voi, cittadine infauste mura, vidi e conobbi assai, là dove segue odio al dolor compagno”.
21
Ivi: 129 ”E tu pur volgi dai miseri lo sguardo; e tu, sdegnando le sciagure e gli affanni, alla reina felicità servi, o
natura”.
22
Ivi: 129.
Il raggio della luna, rappresentante della natura par excelence, scende nocivo per tutti gli
uomini malvagi, ma non così per il poeta, al quale apre la vista ai campi spaziosi e colline
liete. La natura (e quindi compresi gli animali e i fenomeni naturali) per Leopardi rappresenta
l'essenza della vita, il piacere, la felicità, il contrario della morte e della corrosione dell'uomo
dovuta all'intelletto, causa prima della civiltà:

“Quello che noi chiamiamo natura non è principalmente altro che l'esistenza, l'essere, la vita, sensitiva e non
sensitiva, delle cose. […] Quindi la natura, ch'è vita, è anche felicità23”.

IV. 3. Felicità come ignoranza della miseria

Il motivo della luna (qui descritta come “vergine”, “intatta”) riappare nel canto tardivo Canto
notturno di un pastore errante dell'Asia (1929-30), la quale, insieme al gregge (denotato come
libero, quieto, contento etc.) diventa destinatario del canto del pastore – filosofo, sebbene con
sfumature un po' più oscure che avvicinano il componimento alla concezione della natura
indifferente del Dialogo della natura e di un islandese24. Il rappresentante del genere umano
non riesce a trovare “pace o loco” e la sua noia (“il tedio”) viene messa al paragone con la
contentezza (o l'ignoranza della propria malasorte) degli animali. Il gregge viene invidiato per
la propria inconsapevolezza, riprendendo il motivo della maggiore felicità degli esseri alati:

“O greggia mia che posi, oh te beata,


che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!25”

“O greggia mia […]


dimmi: perché giacendo
a bell'agio, ozioso,
s'appaga ogni animale;
me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?
Forse s'avessi io l'ale
da volar su le nubi, […]
più felice sarei […]26”

23
Leopardi 1997b: 747.
24
A questo proposito vedi per es. il commento in Leopardi 1997a: 160.
25
Ivi: 163.
26
Ivi: 164
La mancata consapevolezza di se stesso e del proprio destino per Leopardi non è segno
dell'inferiorità dell'animale, ma, anzi, della sua posizione invidiabile e decisamente più felice.
Come notato in Prete 2019:

“Per Leopardi il non-sapere animale è un mondo in cui si riflette l'appartenenza a una condizione d'armonia con
la phýsis, nella phýsis. Una condizione, insomma, di prossimità profonda alla terra, al suo ritmo. Prossimità
perduta dall'uomo27”.

V. Leopardi – Svevo

V.1. L’anima come malcontento e imperfezione

L’idea che raziocinio (ovvero “l’anima” o la coscienza) sia contrario alla felicità è fortemente
radicata in due opere - favole, scritte a distanza di quasi cent’anni da Leopardi e Svevo,
ambedue con l’obbiettivo di spiegare l’origine dell’uomo, la sua separazione dalla natura e la
fonte della sua scontentezza o addirittura, infelicità. Troviamo in ambedue l’onnipresente
pessimismo relativo alla razza umana in contraddizione alla perfezione inconscia degli
animali e il ruolo decisivo che la ragione/l’anima ebbe nell’allargamento della scontentezza e
corruzione nell’uomo.

Nel caso di Leopardi si tratta di Storia di genere umano, una delle Operette morali (1824),
con l’incorniciamento classico nella mitologia latina, con Giove come causa prima, la quale
crea, distrugge, accontenta e punisce “in perpetuo la specie umana” per l’inquieta, insaziabile,
immoderata natura umana28“ ed è pregna di critica nei confronti della natura mai contenta
degli uomini “parimente incapaci e cupidi dell’infinito29”. Citiamo uno dei passaggi in cui
Leopardi accentua la differenza fra la soddisfazione degli animali ed eterno malcontento
dell’anima umana:

27
Prete 2019: 64.
28
Leopardi 1997a: 497.
29
Ivi.
“Ma Giove fatto accorto, per le cose passate, della propria natura degli uomini, e che non può loro bastare, come
agli altri animali, vivere ed essere liberi da ogni dolore e molestia del corpo; anzi, che bramando sempre e in
qualunque stato l’impassibile, tanto più si travagliano con questo desiderio da se medesimi, quando meno sono
afflitti dagli altri mali30;”

La Verità (un genio gestito dalla Sapienza, sinonimo dell’intelletto o della ragione) che Giove
supplicato dagli stessi uomini decide di mandare sulla terra, diventa, nelle mani umane, lo
strumento di ulteriore disgrazia, facendogli scoprire la loro infelicità e “vanità di ogni cosa
fuorché dei propri dolori31” (che in altre parole significa “la presa di coscienza”).

Anche Svevo, vivendo al periodo del dibattito sulla teoria darwiniana, influenzato dalle teorie
di Freud e filosofie di Schopenhauer e Nietzsche, intraprende un viaggio alle origini
dell’uomo e scrive una favola allegorica, la quale, insieme al frammento intitolato come
L’apologo del Mammuth, potrebbe rappresentare una chiave per interpretare la filosofia
sveviana riguardante il rapporto uomo – animale/natura32.

A differenza di Leopardi, il quale vede le origini dell’uomo nella mitologia latina, La


corruzione dell’anima di Svevo è collocata fra la il mito creazionistico della tradizione judeo-
cristiana, con “il signor Iddio” sveviano come forza creatrice, e la teoria dell’evoluzione
darwinistica di cui Svevo fu un attento studioso33. Ci troviamo molte somiglianze con il
pensiero leopardiano, soprattutto per quanto riguarda il malcontento dell’uomo rispetto alla
muta tranquillità del regno animale. L’anima, un dono distribuito dal signor Iddio a tutti gli
esseri animati “a piene mani”, perisce immediatamente o gradualmente dagli animali che
s’accontentano della “vita più bassa” ma evidentemente più felice, per diventare una fonte
d’insoddisfazione nel “malcontento e torvo uomo34”:

“L’anima era in primo luogo malcontento35”.

30
Ivi: 495.
31
Ivi: 497.
32
Per il possibile nesso tra la Storia del genere umano leopardiana e la presente favola sveviana vedi anche
Lavagetto 1975.
33
Da non omettere a questo proposito è un abbozzo di saggio destinato per una conferenza intitolato L’uomo e
la teoria darwiniana, in cui Svevo commenta il dibattito fra il gesuita P. Wasmann (in realtà il mirmecologo Erich
Wasmann), scienziato tedesco della Compagnia di Gesù e rappresentante dell’evoluzionismo il quale però
abbinava alla sua fede (la specie può evolversi solo nell’ambito della sua specie, mai da specie a specie), con
altri scienziati tedeschi più aderenti al darwinismo.
34
Svevo 2004a: 885.
35
Ivi: 884. Cfr. “[…] cresceva la loro mala contentezza” in Leopardi 1997a: 494.
Dialogo della Natura e di un’Anima è titolo di un’altra delle Operette morali di Leopardi. La
proporzione diretta fra la grandezza dell’anima e l’infelicità della stessa è pensiero dominante
di tutta l’operetta:

“[…] l’eccellenza delle anime importa maggiore intensione della loro vita; la qual cosa importa maggior
sentimento dell’infelicità propria […] maggioranza di amor proprio importa maggior desiderio di beatitudine, e
però maggiore scontento di esserne privi, e maggior dolore delle avversità che sopravvengono 36.”

Nel passaggio seguente emerge di nuovo la triste costatazione dell’avversità della ragione e
dell’immaginativa (quindi dell’”anima”) di cui l’uomo abbonda:

“Gli animali bruti usano agevolmente ai fini che eglino si propongono, ogni loro facoltà e forza. Ma gli uomini
rarissime volte fanno ogni loro potere; impediti ordinariamente dalla ragione e dall’immaginativa; le quali
creano mille dubbietà nel deliberare, e mille ritegni nell’eseguire37.”

V. 2. L'inetto ed “il più miserabile degli animali38”

L’esistenza dell’anima, come abbiamo provato, rappresenta per Leopardi l’elemento


alienatore dell’uomo rispetto al resto della creazione, l’incentivo per la brama infinita che
diventa in seguito la fonte dell’eterno malcontento. Non siamo troppo lontani dalla
concezione dell’intellettuale inadatto alla vita quotidiana, nutrito di sogni, illusioni, intenzioni
non realizzate e fallimenti, quindi quella dei protagonisti inetti dei romanzi e novelle sveviani.
Riportiamo qui la famosa metafora del gabbiano di cui si serve Svevo nel discorso attribuito a
Macario, incarnazione della forza naturale, nei confronti del protagonista Alfonso, adatto solo
“per fare voli poetici” nel romanzo Una vita:

“Quanto poco cervello occorre per pigliar pesce! Il corpo è piccolo. Che cosa sarà la testa e che cosa sarà poi il
cervello? Quantità da negligersi! […] E lei che studia, che passa ore intere a tavolino a nutrire un essere inutile!
Chi non ha ali necessarie quando nasce non gli crescono mai più. Chi non sa per natura piombare a tempo debito
sulla preda non lo imparerà giammai e inutilmente sarà a guardare come fanno gli altri, non li saprà imitare 39”.

36
Leopardi 1997a: 513.
37
Ivi.
38
Dal Dialogo di Tristano e di un amico in Leopardi 1997a: 603.
39
Svevo 1985: 110.
Osserviamo la stessa idea della forza e l'efficacia innata dell’animale istintivo in contrasto con
il carattere complesso analitico e quindi impotente dell’uomo contemplativo e studioso ancora
nella prosa leopardiana:

“I meno atti o meno usati a ponderare e considerare seco medesimi, sono i più pronti al risolversi, e nell’operare
i più efficaci. Ma le tue pari, implicate continuamente in loro stesse, e come soverchiate dalla grandezza delle
proprie facoltà, e quindi impotenti di se medesime, soggiacciono il più del tempo all’irresoluzione, così
deliberando come operando […]40“

L'articolazione dell'infelicità della vita umana, insieme alla critica dei tempi e delle usanze
degli uomini sottoposti alle conquiste della scienza si fa ancora più aspra nel Dialogo di
Tristano e di un amico (1832), dove possiamo rintracciare addirittura un precursore teorico
del protagonista sveviano, il carattere dell'inetto (qui applicato alla maggioranza dell'umanità).
Avviene nel discorso del Tristano sulla sparizione degli individui dietro le masse, il declino
della virilità nei tempi moderni che vanno man mano con l'evoluzione delle scienze
“economiche, morali e politiche” e il “vivere di credenze false”:

“[…] anche la mediocrità è divenuta rarissima: quasi tutti sono inetti, quasi tutti insufficienti a quegli uffici o a
quegli esercizi a cui necessità o fortuna o elezione gli ha destinati. In ciò mi pare che consista in parte la
differenza ch'è da questo agli altri secoli. In tutti gli altri, come in questo, il grande è stato rarissimo; ma negli
altri la mediocrità ha tenuto il campo, in questo la nullità41”.

“Uno che sia debole di corpo, non è uomo, ma bambino; anzi peggio; la sua sorte è di stare a vedere gli altri che
vivono, ed esso al più chiacchierare, ma la vita non è per lui42.

Il paragone dell'uomo con l'animale naturale, il quale aveva conservato la sua forza fisica
(quindi una corporeità radicata nella natura), non viene espresso qui esplicitamente, ma si
lascia sottintendere. Laddove Leopardi esercita una critica nei confronti del declino del
morale (“gli uomini sono codardi, deboli, d'animo ignobile e angusto”) e una decadenza della
costituzione fisica, alcuni decenni dopo Svevo, sebbene con un certo distacco ironico, prende
quest'individuo umano incapace e con un'innegabile simpatia lo colloca al centro dell'interesse
del proprio universo letterario.

40
Leopardi 1997a: 513.
41
Leopardi 1997a: 605.
42
Ivi: 603.
V. 3. Perfezione animale

Il legame che avvicina i due autori, nonostante la distanza temporale delle loro opere, è anche
la logica conseguenza di tale ragionamento sboccante nel discorso riguardante la perfezione
delle specie animali contro l’imperfezione e possibile perfettibilità dell’uomo.

Ritornando ancora una volta all’Elogio degli uccelli di Leopardi, l’aggettivo “perfetto” e
parole affini appaiono in una varietà di locuzioni:

“[…] l’udito acutissimo, e la vista efficace e perfetta […]”

“[…] la natura degli uccelli avanza di perfezione […] quelle degli altri animali”

“[…] la maggior copia di vita è maggiore perfezione;”

L’uomo viene designato addirittura come “imperfettissimo” in un passaggio dello Zibaldone


che potrebbe essere considerato un passaggio chiave per la concezione leopardiana della
perfezione:

[…] Certo, se questo è vero, perché diciamo noi che l’uomo è per natura il più perfetto degli esseri terrestri?
Lasciamo stare che la perfezione è sempre relativa a quella tale specie in che ella si considera. Ma paragonando
pur l’uomo colle altre specie di questo mondo, se la sua perfezione è quella che altri dice, come non si dovrà
sostenere che l’uomo è per natura la più imperfetta di tutte le cose? Perocché tutte le altre cose hanno da natura
la perfezione che loro si conviene, e però sono tutte naturalmente così perfette, come debbono essere, che è
quanto dire perfettissime. Solo l’uomo, secondo il presupposto che abbiamo fatto, è per natura così lontano dallo
stato che gli conviene, che più, quasi, non potrebb’essere, e quindi, laddove tutte l’altre cose sono in natura
perfettissime, l’uomo è in natura imperfettissimo. Pertanto la specie umana, lungi da esser la prima in natura, è
anzi l’ultima di tutte le specie conosciute43”.

Svevo, in modo simile, espresse più volte nella sua prosa l’opposizione fra la perfezione
dell’animale (nel senso di un essere “cristallizzato”, non più sottoposto all’evoluzione) e

43
Leopardi 1997b: 1289.
l’uomo imperfetto ma allo stesso tempo perfettibile44. L’uomo viene visto come un “animale
fatto tanto male45”, invece l’animale privo d’anima è concepito come “perfetto”:

“Non è lui [animale] che si evolve perché già perfetto rinunziò alla vera vita46”.

“La bestia è perfetta, non perfettibile47”.

A proposito dell’incompatibilità dell’anima con la perfezione Svevo afferma:

“L’organo perfetto alla vita non può più lasciarsi dirigere dall’anima48”.

In Corruzione dell’anima, l’insistenza sulla mancata perfezione dell’uomo rispetto agli


animali perfetti è più che assidua. Osserviamo addirittura una certa compassione nei confronti
dell’uomo nato totalmente inerme e l’inclinazione alla religiosa visione creazionista (mancato
sviluppo graduale dell’uomo dalle specie animali più basse):

“Nacque il malcontento e torvo uomo. Imperfettissimo49 non ebbe le ali e neppure quattro mani come i
quadrumani né quattro piedi come le fiere ma sempre due mani e due piedi soli, questi per portar lentamente
quelle tuttavia male armate. Animale disgraziatissimo 50”.

Non è senza interesse nemmeno il fatto che nonostante la sua inclinazione al creazionismo
rintracciabile nella Corruzione dell'anima, Svevo continua ad associare l’uomo agli animali
alla maniera leopardiana51. Troviamo le prove sia nella Coscienza di Zeno (”Il triste e attivo
animale“52 , sia nella stessa Corruzione dell'anima (”Triste e malvagio animale guerresco”).
Da una parte l'appartenenza nel regno animale, dall'altra la distinzione per infelicità che va
man mano con sofferenze causate nell'ambito delle specie propria ma anche altrui - ecco la

44
Il tema dell’ulteriore evoluzione dell’uomo e il significato del “perfetto” in Svevo sarà in seguito sviluppato
nella mia ulteriore ricerca Bestie perfette, imperfette e perfettibili. The ecocritical potential of the literary legacy
of Italo Svevo.
45
Svevo 2004b: 887.
46
Ivi: 889.
47
Svevo 2004b: 100. Cito il commento dell’apparato critico (Ivi: 872): “Il testo sfiora un motivo sviluppato nella
Corruzione dell’anima […]: la visione della differenza fra l’uomo e l’animale nella tendenza continua del primo
ad evoluzione; radice però non di una superiorità sulle bestie, ma di una vulnerabilità inquieta che si
contrappone al loro equilibrio”.
48
Svevo 2004a: 885.
49
Cfr. il passaggio dello Zibaldone di Leopardi sopra.
50
Svevo 2004a: 886.
51
Ricordiamo ancora una volta la concezione leopardiana dell'uomo come ”il più miserabile degli animali” in
Leopardi 1997a: 603.
52
Svevo 1985: 1116.
situazione umana nel pensiero di due figure prominenti dell’Ottocento e del Novecento
italiano.

VI. Conclusione

Abbiamo osservato come negli scritti leopardiani la visione arcadica dell'uomo in sintonia con
la natura cede il posto alla scontentezza umana ravvisata fra l'altro nel paragone con la
lietezza, semplicità e vivacità della natura. Da una parte causata dall'allargamento
dell'ambiente cittadino, inteso come sede di corruzione, dall'altra dovuta allo sviluppo della
coscienza e la propensione umana all'ozio, lo scontento dell'uomo leopardiano risuona anche
nella prosa di Italo Svevo. Lo stesso interesse per il rapporto antitetico uomo - natura
trova parallele anche nei tentativi di narrare la genesi della razza umana e la sua separazione
dalla natura attraverso la coscienza. L'eroe inetto si pone in contraddizione con le leggi
naturali e per questo è condannato all'infelicità. Abbiamo rintracciato le radici dell'inettitudine
nel pensiero leopardiano e abbiamo osservato somiglianze nel lessico descrivente la
perfezione degli animali/ imperfezione dell'uomo. Possiamo concludere con un passaggio
della finale della Coscienza di Zeno, dove Svevo sviluppa l'idea anti-antropocentrica fino a
giungere alla catastrofe finale, perfettamente profetica se pensiamo alla situazione attuale:

“La vita attuale è inquinata alle radici. L'uomo si è messo al posto degli alberi e delle bestie ed ha inquinato
l'aria, ha impedito il libero spazio. Può avvenire di peggio. Il triste ed attivo animale potrebbe scoprire e mettere
al proprio servizio delle altre forze. V'e una minaccia di questo genere in aria. Ne seguirà una grande ricchezza....
nel numero degli uomini. Ogni metro quadrato sarà occupato da un uomo. Chi ci guarirà della mancanza di aria e
spazio? Solamente al pensarci soffoco!53”

VII. Bibliografia:

Anselmi, G. M., Ruozzi, G. (2009). Animali della letteratura italiana. Roma: Carocci.

Lavagetto, M. (1975). L’impiegato Schmitz. Torino: Einaudi.

53
Svevo 1985: 1116.
Leopardi, G. (1997a). Tutte le poesie e tutte le prose. Roma: Newton & Compton Editori.

Leopardi, G. (1997b). Zibaldone. Roma: Newton & Compton Editori.

Minghelli,G. (2002). In the Shadow of the Mammoth: Italo Sevo and the Emergence of
Modernism. Toronto: University of Toronto Press.

Nozzoli, A., Biagini, E. (2001). Bestiari del Novecento. Roma: Bulzoni.

Palmieri, G. (2016): Svevo, Zeno e oltre. Saggi. Ravenna: Giorgio Pozzi Editore.

Pirandello, L. (2016). Le novelle per un anno. Roma: Newton Compton Editori.

Prete, A. (2019): La poesia del vivente Leopardi con noi. Parma: Bollati Boringhieri editore.

Rusi, M. (2014). Svevo e la funzione Leopardi. Quaderni Veneti, 3, 219 – 226.

Spignoli, T. (2014). Tra Freud e Leopardi: modelli intertestuali nell'opera di Italo Svevo e
Paolo Volponi. In Stellardi, G. Italo Svevo and his legacy for the Third Millennium (pp. 125-
142). Leics: Troubador.

Svevo, I. (2004a). Teatro e saggi; edizione critica con apparato genetico e commento di
Federico Bertoni. Milano: Mondadori.

Svevo, I. (2004b). Racconti e scritti autobiografici. Milano: Mondadori.

Svevo, I. (1985). Romanzi. Milano: Mondadori.

Volpato, S., Cepach, R. Alla peggio andrò in biblioteca. I libri ritrovati di Italo Svevo.
Macerata: Biblohaus.

Zangrilli, F. (2001). Il bestiario di Pirandello. Fossombrone: Metauro Edizioni.

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