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CANTO 1:

Tempo: Tra la notte del 7 e l’alba dell’8 aprile 1300

Luogo: La selva oscura

Personaggi: Dante / Tre belve/ Virgilio

Il canto:

Giunto a metà della sua vita, Dante si allontana dalla via del bene, appesantito dal sonno dell’indifferenza e
della pigrizia spirituale; inizio una periodo di traviamento morale, paragonato allo smarrimento in una selva
insidiosa. Narrare questa triste esperienza costerà dolore e fatica, ma il poeta si accinge a farlo per
mostrare il prodigio della Grazia e della Provvidenza sempre premurosa verso di lui come verso ogni uomo.

Vedendo il colle che si eleva ai bordi della selva illuminato dai raggi del sole, Dante riacquista la speranza,
dopo una notte intera di lotta con le tenebre del peccato, come un naufrago che intravede ormai la riva e
torna a credere nelle salvezza. Tre fiere ostacolano però la sua ascesa al colle; una lonza, allegoria della
lussuria, minaccia Dante che non si abbatte, perché rincuorato dall’alba e dalla primavera; l’arrivo di un
leone ruggente, allegoria della superbia, e di una lupa di orribile magrezza, allegoria della cupidigia e
dell’avidità, convince il poeta che le sole sue forze non sono sufficienti; non gli resta dunque che ritornare
sul cammino faticosamente percorso, verso la notte del peccato.

A salvarlo giunge il poeta latino Virgilio, allegoria della ragione umana; l’incontro offre l’occasione a Dante
di manifestare con entusiasmo riverente tutta la sua riconoscenza verso il maestro di retorica e di poesia e
di chiedere aiuto contro la lupa insidiosa. Virgilio mette in guardia Dante alla cupidigia, vizio così grave che
spesso rende l’uomo schiavo, tormentato perennemente dal desiderio di denaro e possesso. Unico
ostacolo al suo dilagare nel mondo sarà il veltro, un restauratore morale e civile, bramoso soltanto di
sapienza, amore e di virtù, riuscirà a cacciarla. Inutile per Dante seguire la via che conduce direttamente al
colle: molto meglio attraversare i tre regni dell’oltretomba per liberarsi dal peccato e raggiungere la Grazia.
Virgilio si offre come guida, ma sarà Beatrice a condurlo alla contemplazione della beatitudine del Paradiso.
Dante, rassicurato, si accinge ad obbedire.
CANTO 2:

Tempo: Il tramonto dell’8 aprile 1300 (venerdì santo)

Luogo: Il pendio tra il colle e la selva

Personaggi: Dante / Virgilio / Beatrice / Santa Lucia / Vergine Maria

Il canto:

È la sera del venerdì santo quando Dante si accinge, solo tra i vivi, ad affrontare il viaggio nel mondo degli
Inferi; per avere aiuto nell’ardua impresa di pellegrino e di poeta, egli invoca il sostegno delle Muse e il
soccorso della memoria. Subito Dante si ferma e rivolge a Virgilio i suoi dubbi e le sue esitazioni rispetto a
un viaggio tanto pericolo e insolito, che solo altissime personalità, come Enea e San Paolo, affrontarono in
passato, giustificati dai fini religiosi e storici che ne dovevano conseguire.

Virgilio, per rimuovere l’incertezza dall’animo del discepolo gli rivela che, mentre si trovava nel Limbo, dove
la giustizia divina lo aveva relegato, Beatrice venne a pregarlo di offrire la sua abilità a Dante smarrito, piena
di premure e mossa da amorosa trepidazione. Virgilio prosegue il racconto dell’incontro con Beatrice, che
gli ha svelato come il destino e la salvezza di Dante fossero stati voluti dalla Vergine Maria e da Santa Lucia.
Esse l’avevano convinta a soccorrere il poeta che tanto l’aveva amata e che per questo amore si era elevato
dalla mediocrità morale ed artistica. Terminato il racconto, Virgilio sollecita Dante ad abbandonare ogni
timore di fronte alla rivelazione del disegno e dell’intervento celeste; Dante si riconforta e si riconferma
nella decisione di intraprendere il viaggio e, affidandosi alla guida, si addentra nella selva.
PERSONAGGI

CANTO 1: Dante / Virgilio / Tre belve /

CANTO 2: Beatrice / Santa Lucia / Vergine Maria /

CANTO 3: Caronte / Papa Celestino V/

CANTO 5: Minosse/ Francesca da Rimini e Paolo Malatesta /

CANTO 6: Cerbero / Ciacco /Pluto/

CANTO 10: Farinata degli Uberti/ Cavalcante Cavalcanti / Federico II di Svevia / Ottaviano degli Ubaldini /

CANTO 13: Arpie/ Pier delle Vigne/ Lano Macconi/ Iacopo da Sant’Andrea / Anonimo fiorentino/

CANTO 26: Ulisse / Diomede/

CANTO 33: Conte Ugolino della Gherardesca / Ruggieri degli Ubaldini / Frate Alberigo dei Manfredi/ Branca
Doria

Dante:

La Commedia di Dante Alighieri, una tra le più alte espressioni della letteratura mondiale di tutti i tempi,
narra, in forma di poesia, del viaggio fatto dall’uomo Dante nei regni dell’aldilà per salvare la propria anima.
Aiutato a percorrere l’inferno e il purgatorio dalla guida Virgilio rappresentante la ragione e il paradiso da
Beatrice simbolo della fede, Dante compie questo viaggio dopo essersi smarrito nella ‘selva’ del peccato.
Scendendo nel regno infernale, risalendo quello della purgazione ed entrando in quello della beatitudine,
Dante compie una vera e propria purificazione nel corpo e nello spirito. Tuttavia la Commedia è anche un
viaggio universale’: scopo di questa narrazione, come afferma Dante nell’Epistola a Cangrande, è infatti
quello di ‘trasportare’ l’intera umanità dallo stato di miseria a quello della felicità.

Uomo peccatore, si è smarrito in una selva buia (peccato), ha perso la strada giusta e intende salire su un
colle (salvezza) per ritrovare la luce, ma viene bloccato da tre fiere. Virgilio, guida di Dante (ragione) arriva a
salvare Dante e gli prospetta un viaggio necessario ai fini della sua redenzione spirituale. Durante il poema
sarà possibile osservare vari stati d'animo di Dante.

Virgilio:

Nella Commedia Virgilio compare misteriosamente come un'ombra nel I canto, proprio mentre Dante si
trova a dover affrontare le tre fiere nella selva oscura. È allegoria della ragione umana che guida l'uomo e lo
riporta sulla retta via, allontanandolo dal peccato.

Virgilio è una figura molto autorevole, gode di un profondo rispetto da parte di Dante, il quale lo considera
una fonte d'ispirazione continua per i suoi studi e le sue opere.

Virgilio è collocato nel Limbo, il cerchio infernale in cui si trovano le anime di coloro che non hanno
conosciuto Dio o non hanno ricevuto il battesimo. Tuttavia, Virgilio, pur essendo pagano, in vita, ha fatto
proprie molte qualità morali che coincidono con quelle cristiane e per questo è stato incaricato da Dio di
accompagnare Dante attraverso il lungo cammino nell'inferno e poi nel Purgatorio fino ad arrivare alle
porte del Paradiso, a lui inaccessibili; qui, infatti, Dante troverà ad attenderlo Beatrice, la quale lo
accompagnerà nella fine del suo viaggio.

Le tre belve:

Le bestie feroci che si oppongono al cammino di Dante si differenziano per le loro peculiarità: la lonza agile
ed elegante, il leone statuario che incute molta paura e la lupa inquietante per la sua magrezza, voracità e
irrequietezza. Il significato prevalente però, è allegorico.

I commentatori più antichi identificarono le tre fiere rispettivamente con la lussuria, la superbia e l'avarizia.
Alcuni commentatori moderni invece preferiscono identificare le fiere con "le tre faville che c'hanno i cuori
accesi" (Inferno, VI, v.75), cioè superbia, invidia e avarizia. Altri commentatori identificavano queste fiere
con la frode, la violenza e l'incontinenza (vale a dire il non sapersi moderare) che sono le tre categorie del
peccato proprie dell'etica di Aristotele, sulle quali Dante fonda i peccati nell'inferno.

Altri studiosi ancora hanno preferito un'interpretazione politica oltrechè morale. Nella lonza quindi sarebbe
da vedere Firenze, nel leone la Casa di Francia e nella lupa la Curia romana di Bonifacio VIII.

Da ricordare infine le fonti dantesche a questo riguardo: in primo luogo un passo della Bibbia dove si parla
di un leone, un lupo e un leopardo, poi i numerosi bestiari medievali dove le belve sono menzionate con le
loro presunte caratteristiche: la lonza è stata identificata con un felino simile a un leopardo. A tal proposito
c'è sicuramente un'esperienza diretta di Dante che avrebbe visto proprio una lonza tenuta in gabbia a
Firenze nel 1285.

Le tre donne:

Preoccupato di non essere all’altezza del cammino che sta per intraprendere, anzi quasi considerandolo
empio, Dante viene confortato dalle parole di Virgilio: a desiderare che egli si avvii sulla via della redenzione
che, attraversando i tre regni dell’Oltretomba, conduce alla visione di Dio, sono nientemeno che Beatrice,
Santa Lucia e la Vergine Maria.

Le «tre donne benedette», nella struttura allegorica della Commedia dantesca, rappresentano le tre forme
della Grazia divina:

 Maria è la Grazia preveniente, dono gratuito di Dio a tutti gli uomini, indipendentemente dai loro
meriti;
 Santa Lucia è la Grazia illuminante, concessa da Dio agli uomini per aiutarli a discernere il bene dal
male;
 Beatrice è la Grazia cooperante o santificante, ovvero quella che – con la cooperazione dell’uomo –
lo aiuta ad operare il bene.

Così, nello stesso modo in cui – nell’ascesa iniziale – il cammino di Dante era stato ostacolato da tre fiere,
allegoria dei tre vizi che ostacolano la redenzione dell’uomo, così esso è supportato e quindi reso possibile
dalle tre donne benedette, allegoria di tre diverse declinazioni della Grazia.

Un paragrafo a parte merita la sola Beatrice, la donna cantata da Dante nella Vita Nova e che fa la sua
prima apparizione nella Commedia nel II Canto dell’Inferno, per poi tornare come co-protagonista negli
ultimi canti del Purgatorio e nell’intera cantica del Paradiso.
Poche le notizie storiche sul suo conto, quasi interamente provenienti dagli scritti di Dante e dal Trattatello
in laude di Dante scritto da Giovanni Boccaccio. Si tratterebbe, secondo l’ipotesi più accreditata, di Bice
Portinari, figlia del banchiere Folco Portinari e probabile sposa di Simone de’ Bardi. Possiamo ricostruire la
sua vita tramite gli scritti di Dante: nata nel 1266 a Firenze, la donna sarebbe morta l’8 giugno 1290, a soli
ventiquattro anni.

Se nella Vita Nova e, più in generale, nelle Rime dantesche, Beatrice assume valore quasi prettamente
lirico, nella Commedia ella diventa allegoria della Teologia, della verità rivelata che sola può portare l’uomo
a entrare in possesso delle tre virtù teologali (fede, speranza e carità) e ad ottenere così la salvezza eterna.
Descritta con i tipici attributi della donna-angelo, figura tipica della corrente dello Stilnovo, Beatrice assume
nel secondo Canto dell’Inferno – come già visto – anche il ruolo della Grazia cooperante.

Così, al di là della evidente funzione narrativa che consiste nello spingere Virgilio a soccorrere Dante,
l’apparizione di Beatrice all’inizio della Commedia arriva quasi a preannunciare lo scopo finale del viaggio e
la sua modalità: la sola ragione (Virgilio) non è sufficiente per completare il cammino di redenzione; per
giungere alla conoscenza di Dio sono necessarie invece la Teologia e la Grazia Santificante (Beatrice), senza
le quali ogni percorso di purificazione morale è destinato a fallire.

Caronte:

Demonio che ha il compito di traghettare le anime dei defunti dannati oltre il fiume Acheronte, per
permettere a questi di iniziare la vita eterna ultraterrena.

Caronte è, a detta di Dante, un “uomo” vecchio e con la barba bianca.

Caronte scuote il remo per farsi sentire ed è aggressivo nel parlare, quando si rivolge alle anime che
attendono di salire sulla sua barca non è per niente gentile; sa che coloro che lo attendono sono peccatori a
cui è destinata un’eterna condanna.

L’accurata descrizione che Dante ci fornisce di questa creatura demoniaca è molto dinamica in quanto
questa figura è molto viva e partecipe alla vicenda.

La folla trepidante non è descritta dall’autore fiorentino se non attraverso una metafora in cui ci fa capire
che tutte le anime erano vogliose di attraversare il fiume e cercavano di rendersi visibili agli occhi del
traghettatore.

Tutti inoltre erano a conoscenza del fatto che se si trovavano in attesa di Caronte erano destinati solo ad
una permanenza all’Inferno poiché, come il traghettatore stesso anticipa ai visitatori Dante e Virgilio, è
un’altra la via che devono percorrere le anime destinate alla vita celeste; molto più confortevole rispetto
alla piccola e squallida barca (con “più lieve legno”).

Alla fine del canto egli si rifiuta di accogliere i due uomini e Dante sviene; al suo risveglio si ritroverà
sull’altra sponda del fiume senza sapere come esserci arrivato.

Papa Celestino V

In alcuni dei versi più famosi di questo III canto, il Sommo Poeta scorge tra il gran numero di pusillanimi
“l’ombra di colui / che fece per viltade il gran rifiuto.” Dante non cita espressamente il nome di quest’anima
dannata (non essendosi distinta in vita, di certo non merita una tale distinzione nella morte), ma gli studiosi
sono unanimi nel riconoscere in questa figura macchiata d’ignavia l’eremita Pietro da Morrone, eletto papa
il 5 luglio del 1294 e incoronato pontefice il 29 agosto con il nome di Celestino V. Come mai Dante si rivolge
con acredine a questo ex pontefice? Semplice: appena 4 mesi dopo l’incoronazione, papa Celestino V
abdicò e rinunciò al papato e al suo ruolo di guida in terra dell’intera Cristianità.

Pietro da Morrone dimostrò infatti una grande ingenuità nella gestione amministrativa della Chiesa e delle
lacune culturali non idonee al prestigio della sua carica (nei concistori si doveva parlava in volgare, non
conoscendo egli la lingua latina utilizzata in Vaticano). Sotto la sua gestione, l’amministrazione versò in uno
stato di gran confusione. A soli 4 mesi dalla sua incoronazione Celestino V rinunciò al papato, secondo
quando riportato dai documenti dell’epoca: “Spinto da legittime ragioni, per umiltà e debolezza del mio
corpo e la malignità della plebe, al fine di recuperare con la consolazione della vita di prima, la tranquillità
perduta, abbandono liberamente e spontaneamente il Pontificato e rinuncio espressamente al trono, alla
dignità, all’onere e all’onore che esso comporta”.

Minosse:

Dante lo colloca nel Canto V dell'Inferno, quale giudice dei dannati che indica loro a quale Cerchio sono
destinati. Minosse è posto all'ingresso del II Cerchio (lussuriosi) e ha caratteri bestiali: ringhia, ha una lunga
coda che avvolge attorno al corpo tante volte quanti sono i Cerchi che il dannato (il quale gli confessa tutti i
suoi peccati) deve discendere. Nel Canto V accoglie Dante con parole minacciose ed è zittito da Virgilio con
la stessa formula già usata con Caronte

Paolo e Francesca, i lussuriosi:

Dopo aver incontrato Minosse, il giudice infernale che smista le anime nei gironi, Dante si ritrova in un
luogo buio in cui imperversa una bufera.Nei vortici d'aria volano le anime dei lussuriosi e, in particolare, il
protagonista viene colpito da due anime che volano accoppiate e manifesta il desiderio di parlare con loro.

Scopre che si tratta di Paolo e Francesca; l'amore lussurioso tra i due era nato da una reciproca attenzione
fisica che aveva avuto modo di manifestarsi mentre leggevano la storia d'amore di Ginevra e Lancillotto
(Galeotto fu il libro e chi lo scrisse: quel giorno più non vi leggemmo avante).

E così erano diventati amanti; Francesca, infatti, aveva già sposato in un matrimonio combinato il fratello di
Paolo, Gianciotto, per riappacificare le due famiglie di origine. È proprio Gianciotto che, dopo averli scoperti
insieme, ferito nell'orgoglio li uccide.

La pena che Paolo e Francesca devono ora sopportare per l'eternità è essere continuamente travolti dalla
bufera, così come in vita sono stati travolti dal vento della passione.

Cerbero:

Nella notte del venerdì santo (8 aprile del 1300) Dante e Virgilio si trovano nel terzo cerchio dell'inferno
dove incontriamo la figura di Cerbero che fa da guardia. Nel terzo cerchio dell'inferno, stanno scontando le
loro pene i golosi. La pena che devono scontare è la seguente: sono riservi a terra in un fango
maleodorante che quasi li acceca, mentre la pioggia cade sui loro corpi che vengono dilaniati dal cane
Cerbero.

Tale cane ha tre teste e una barba sudicia che rappresenta colui che mangia in modo vorace e si insudicia.
Gli occhi di Cerbero sono rossi, ho dei lunghi e temibili artigli. Cerbero viene descritto come un mostro
orribile, che si agita continuamente fino a quando non addenta qualcuno. Si tratta di una figura mitologica
le cui caratteristiche di bestialità vengono marcate da Dante in modo da richiamare il peccato di gola.
Questa figura rappresenta il mezzo della punizione divina, che urla contro i golosi, li ferisce e li squarta
come loro in vita avevano fatto col cibo. Le sue tre teste rappresentano la superbia, l'invidia e l'avarizia i tre
mali che caratterizzavano la società del tempo. Se da un lato vi è l'agitazione di Cerbero, dall'altra parte
troviamo la calma di Virgilio, simbolo della ragione umana che è in grado di controllare l'animalità degli
istinti e di mettere a tacere la gola famelica.

Ciacco, il goloso:

Dante incontra questo personaggio nel VI canto, nel III cerchio infernale, ovvero quello dei golosi. Ciacco in
vita era, infatti, un uomo ghiottissimo che mangiava sempre. Viveva come un parassita a Firenze e veniva
sempre invitato ai banchetti per intrattenere i commensali.

Ciacco è un personaggio chiave perché è con lui che Dante affronta per la prima volta il dissidio politico e le
discordie che in quell'epoca turbavano Firenze. Infatti gli pone tre domande riguardanti il destino della città,
ovvero: cosa succederà alle fazioni in lotta a Firenze (guelfi neri e guelfi bianchi), se vi sono cittadini giusti e
quali sono le cause che hanno portato a cotanta discordia.

Ciacco risponde profetizzando la vittoria dei Neri, dicendo che a Firenze vi sono ormai pochi cittadini giusti e
che le cause che hanno portato alla discordia sono state l'avarizia, la superbia e l'invidia. Dopo aver parlato,
torna ad immergersi nel fango, come gli altri condannati.

Farinata degli Umberti:

Dante incontra Farinata degli Uberti nel X canto dell'Inferno ed è collocato tra gli eresiarchi nel VI cerchio.
In vita fu uno dei capi più importanti dei Ghibellini a Firenze nel primo duecento. Combatté nella battaglia
di Montaperti e fu l'unico ad opporsi alla proposta di radere al suolo la città di Firenze stessa.

Si rivela una figura chiave in quanto profetizza a Dante il suo futuro esilio, che lo allontanerà per sempre
dalla sua amata Firenze.

Il peccato commesso da Farinata è stato sostanzialmente quello di aver seguito in vita la corrente
dell'epicureismo, proclamando dunque la mortalità dell'anima. Ora, come gli altri epicurei, è costretto a
giacere all'interno di un sepolcro che verrà definitivamente chiuso il giorno del Giudizio Universale.

Cavalcante Cavalcanti

Ad un tratto il dialogo fra Farinata e Dante s’interrompe bruscamente ( vv. 51). Compare una nuova figura,
Cavalcante Cavalcanti, padre di Guido Cavalcanti. Quest’ anima si trova nella stessa tomba di Farinata degl’
Uberti , ma è chino in ginocchio, per tanto si vede dal mento in sù. Evidentemente lo stesso Cavalcanti
aveva ascoltato tutta la conversione fra Farinata e Dante e chiede del figlio perché riconosce Dante.

L’atteggiamento di Cavalcanti è sospettoso: egli cerca il figlio Guido e chiede dove sia. Se Dante vaga per
l’Inferno, perché Guido non è con lui? Per altezza di intelletto, anche Guido dovrebbe stare con Dante.
Forse Guido è morto. Dante risponde nella terzina (vv.61-63):
E io a lui: «Da me stesso non vegno:

colui ch'attende là, per qui mi mena

forse cui Guido vostro ebbe a disdegno».

Pier delle Vigne

Fra tutte le anime spicca Pier delle Vigne, un personaggio molto noto al tempo di Dante, sia per il ruolo
politico che ricopriva alla corte di Federico II, sia come poeta della scuola siciliana. Accusato di tradimento,
condannato al carcere ed accecato,, secondo alcuni, fra cui Dante stesso, morì innocente e suicida.

Il discorso che Pier delle Vigne rivolge a Dante è molto ricercato dal punto di vista formale: sono presenti
metafore, personificazioni, corrispondenze, antitesi ed iterazioni.

Iacopo da Sant’Andrea e Lano Macconi

La prodigalità di Jacopo era ancora molto nota ai tempi di Dante. I suoi commentatori riferiscono numerosi
aneddoti legati alla sua tendenza allo sperpero: per esempio, durante una gita in barca sul Brenta Jacopo si
divertì a svuotare nell'acqua una borsa piena di monete; in altra occasione, fece incendiare la propria villa
per il solo desiderio di vedere un grande fuoco.

Nella selva dei suicidi, Jacopo fugge con Lano da Siena incalzato da nere cagne. Mancandogli il fiato, cerca
riparo in un cespuglio, ma viene raggiunto dalle fiere e sbranato. L'arbusto stesso - che è in realtà un suicida
fiorentino - è gravemente danneggiato e, nel suo lamento, identifica lo scialacquatore[1]:

Anonimo fiorentino:

L’identificazione dell’anonimo fiorentino non è facile. Alcuni pensano che si tratti di un giudice che dopo
aver emesso una sentenza ingiusta fu preso dal rimorso e si suicidò. Altri sostengono che si tratti di un
fiorentino che si suicidò dopo aver dilapidato tutti i suoi beni e questo spiegherebbe perché esso sia
costretto a subire una doppia pena: quella degli scialacquatori inseguiti dalle cagne e quella dei sucidi,
trasformati in arbusti. È probabile che Dante, volontariamente lo abbia lasciato nell’anonimato come
simbolo di una generazione dedita alle discordie civili, come egli accenna al verso 145

Ulisse e Diomede:

Dante incontra il famoso personaggio della mitologia classica nel XXVI canto ed è collocato nell'VIII bolgia
dell'VIII cerchio. È costretto a rimanere immerso nelle fiamme, insieme a Diomede, colpevoli di aver
escogitato il tranello del cavallo di Troia, di aver smascherato Achille a Sciro, il quale, per sfuggire alla
guerra che, secondo la profezia, lo avrebbe ucciso si era travestito da donna, e di aver compiuto il furto del
Palladio. Inoltre l'eroe e il suo equipaggio, mentre tornavano ad Itaca, avevano osato oltrepassare le
colonne d'Ercole. Dopo mesi di navigazione comparve loro, in lontananza, la montagna del Purgatorio ed
improvvisamente furono puniti per la loro temerarietà da Dio con un turbine che colpì l'imbarcazione
ponendo fine al follo volo.

Ulisse se da un lato rappresenta l'eroe della conoscenza che fino alla fine ha inseguito il desiderio di vedere
e sapere le cose del mondo come massima realizzazione della natura umana, dall'altra può essere
considerato il simbolo dell'abuso e dell'insufficienza dell'ingegno umano a raggiungere la verità. Il desiderio
di conoscenza in lui, infatti, non è illuminato dalla Grazia divina e per questo, quando oltrepassa il limite
invalicabile posto da Dio viene punito.

Conte Ugolino

Ugolino della Gherardesca fu un nobile pisano, nato da un’antica famiglia feudale ghibellina intorno al
1210. In quanto consuocero del re di Sardegna Enzo, figlio di Federico II, egli ne divenne ben presto vicario;
fu così che, legato da un'amicizia profonda e filiale col ramo pisano dei Visconti – Giovanni Visconti, Giudice
di Gallura, sposò sua figlia Giovanna – il conte Ugolino si avvicinò al partito guelfo, abbandonando la linea
politica della famiglia.

Nel 1284 partecipò alla battaglia navale della Meloria, nella quale Pisa venne sconfitta da Genova, allora
alleata di Firenze e Lucca. Alcune testimonianze vogliono che Ugolino avesse provato a fuggire durante la
battaglia, generando il sospetto che fosse un codardo e disertore. Nonostante queste accuse, nello stesso
anno egli venne nominato podestà e, due anni dopo, capitano del popolo di Pisa; avere un capo guelfo in
una città ghibellina avrebbe reso più semplici le trattative di pace con le città di Firenze e Lucca. Fu così che,
per tentare di garantire un periodo di pace alla città, il conte Ugolino cedette alle due città toscane alcuni
castelli del territorio pisano.

Rotta l’alleanza col nipote Nino Visconti, egli si avvicinò all’arcivescovo Ruggieri, capo dei Ghibellini pisani.
Ruggieri, però, insieme ad alcune potenti famiglie ghibelline, aizzò il popolo contro Ugolino e nel 1288, nel
momento in cui il conte si recò dall’arcivescovo per concludere l’accordo, quest’ultimo lo tradì e lo fece
incarcerare nella torre della Muda con due figli e due nipoti. Qui i cinque morirono di fame, probabilmente
nel marzo 1289.

l conte Ugolino è collocato da Dante nell’Antenòra, tra i traditori della patria e del partito: il riferimento
potrebbe essere alla cessione dei castelli pisani alle città nemiche di Firenze e Lucca o al tentativo di fuga
durante la battaglia della Meloria, ma è più probabile che il poeta si riferisca all’abbandono, da parte del
conte, dei Ghibellini per allearsi con i Guelfi.

La sua colpa, però, pur essendo considerata da Dante una delle peggiori che possono essere commesse
(vedi paragrafo 4.1), rimane relegata sullo sfondo: il personaggio assume rilievo all’interno del Canto XXXIII
dell’Inferno in quanto traditore tradito. È così che il conte Ugolino ci appare nella sua doppia sfaccettatura:

 da una parte uomo politico feroce e brutale, sopraffatto dal desiderio di potere e – per questo –
punito;
 dall’altra padre straziato, tenero e impotente di fronte all’ingiusta morte dei figli e dei nipoti della
quale si sente, anche se indirettamente, responsabile.

Il conte Ugolino è quindi un personaggio dalla duplice e contrastante personalità: rabbioso e al contempo
disperato, egli morde il capo del suo nemico con l’atteggiamento simile a quello di un animale, ma tocca poi
profondi livelli di sensibilità umana nel racconto della tragedia della propria famiglia. La condanna di Dante
per questo personaggio è perciò dura, ma lontana dal disprezzo: al conte Ugolino è affidato il monologo più
lungo dell’Inferno, permettendo quindi la diffusione della verità su tale vicenda e, in un certo senso, la
riabilitazione della figura di questo personaggio.

Ruggieri degli Ubaldini


L'arcivescovo Ruggieri compare nel canto XXXIII dell'Inferno di Dante, nella seconda zona del nono cerchio,
nell'Antenora dove sono puniti i traditori della patria, venendo citato come antagonista del celebre conte
Ugolino della Gherardesca. Per il suo comportamento in vita, ha l'aggravio della pena di avere Ugolino che
gli rode il cranio in eterno, per aver condannato quattro innocenti a morire con un colpevole. La sua figura
nel poema è completamente muta e assente, tanto da sembrare pietrificata nel suo supplizio.

In realtà la colpa di Ruggieri è più grave di quella del conte Ugolino, poiché quando lo tradì il conte era suo
ospite, quindi dovrebbe stare nella Tolomea, tra i traditori degli ospiti, mentre invece si trova nell'Antenora.
Rossetti ipotizzò che il conte e l'arcivescovo si trovino proprio sul confine tra le due zone: Ugolino starebbe
quindi nell'Antenora, Ruggieri nella Tolomea. Altri pensarono invece che, pur trovandosi entrambi
nell'Antenora, i due dannati fossero collocati proprio sul suo limite estremo, al confine con la zona
successiva. In seguito D'Ovidio sostenne tuttavia l'infondatezza di queste ipotesi.

Frate Alberigo

Alberigo dei Manfredi, detto Frate Alberigo (Faenza, 1240 circa – Ravenna, 1309 circa), è un personaggio
che si incontra nel canto XXXIII dell'Inferno di Dante Alighieri, nella terza zona del nono cerchio, e cioè nella
Tolomea, dove sono puniti i traditori degli ospiti.

Non era ancora morto nel 1300, l'anno in cui Dante colloca nel tempo la Commedia, ma Dante inventa una
particolarità della zona della Tolomea, i cui peccatori verrebbero dannati non appena compiuto il peccato,
mentre un diavolo prende possesso del loro corpo che continua a vivere nel mondo il tempo che gli è stato
assegnato. Secondo il Buti, uno dei primi commentatori della Divina Commedia, sarebbe esistito nel
Trecento una frase proverbiale di ricevere la "frutta di frate Alberico" per indicare un tradimento.

Dante ha una particolare maturazione nell'episodio di Frate Alberigo: il dannato lo prega di togliergli il
ghiaccio che gli si è formato sugli occhi impedendogli di piangere e Dante promette di farlo, possa egli
andare in fondo all'Inferno (cosa che deve fare comunque per compiere il suo viaggio nell'oltretomba);
allora Alberico inizia a raccontargli di sé e dei suoi vicini di pena, inframezzando con frequenti richieste di
togliere poi il ghiaccio.

Ma Dante alla fine si rifiuta di farlo, perché se in altre zone dell'Inferno si era mosso a pietà dei dannati,
adesso ha compreso che la giustizia divina deve fare il suo corso e che alleviare le pene di questi sarebbe
come andare contro Dio: cortesia fu lui esser villano, cioè fu moralmente giusto esser villano con lui.

Branca Doria

Branca Doria, della nota famiglia ghibellina di Genova, ricoprì numerosi incarichi politici in Sardegna,
quando l'isola era sotto il controllo genovese, e dovette lottare contro il dominio aragonese.

Egli, ucciso a tradimento il suocero Michele Zanche, ottenne il governo del giudicato di Logudoro, uno dei
quattro giudicati in cui i Pisani avevano suddiviso la Sardegna dopo averla conquistata ai Saraceni, di cui
richiese il riconoscimento ufficiale a papa Bonifacio VIII, nel 1299.

Branca Doria, come già Alberigo dei Manfredi, è uno dei personaggi che Dante incontra nell'Inferno,
nonostante non sia ancora morto.

Il poeta spiega, infatti, che l'anima di un traditore, appena commesso il delitto, viene subito sprofondata
nella Tolomea, mentre nel suo corpo sulla terra prende dimora un diavolo.

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