Sei sulla pagina 1di 7

RIASSUNTO SAGGIO DI ACCOMPAGNAMENTO LEOPARDI ANTIROMANTICO, PIER

VINCENZO MENGALDO.

Come lo stesso Mengaldo sottolinea nella premessa, il volume si dispiega in tre «zone» precisamente
delineate. Un primo capitolo, al quale l’autore si dichiara particolarmente legato, è di taglio generalista e
possiamo caratterizzarlo come un capitolo di storia letteraria; seguono poi una serie di saggi sullo stile
dell’intera raccolta poetica; e infine tre studi su singoli canti. ( VIII : SERA DEL Dì DI FESTA; XI: A
SILVIA; X: LA QUIETE DOPO LA TEMPESTA)

I capitolo ( Leopardi antiromantico)

L’assimilazione di Leopardi al romanticismo era un tempo concetto corrente ( anche per scarsa
conoscenza da parte della critica italiana del Romanticismo europeo, ma in uno passo giovanile, Leopardi
stesso, arriva ad affermare che i romantici italiani, in realtà, “ di vera psicologia non s’intendono un fico”.
Bisogna vedere chiaro anche in casi ìn cui temi ed elaborazioni della poesia leopardiana sembrano
corrispondere a degli argomenti romantici. Uno è quello di “ALLA PRIMAVERA O DELLE FAVOLE
ANTICHE” del ’22  affinità con capolavori europei contemporanei come l’ode “ALLA NATURA” di
Hölderlin ( o anche il frammento “ALLA PRIMAVERA” del romanzo incompiuto “CLARA” di
Schelling). Il fatto è, però, che con ogni verosimiglianza, Leopardi aveva letto e memorizzato nella
traduzione italiana l’ode settecentesca GLI DEI DELLA GRECIA dell’antiromantico Schiller. Già il
leopardista Jonard aveva notato la povertà di similitudini e metafore in Leopardi e Mengaldo stesso qui
prova a comprovarla nel confronto con altri poeti come Shelley e Hugo, ma anche Keats e Manzoni.
La differenza dai romantici è evidente nelle Canzoni e nei Canti fiorentini e napoletani e ancora di più
nel tratto IDILLI- CANTI pisano-recatanesi in cui costruisce la sua poetica della sobrietà e naturalezza.
In Leopardi non si possono trovare comparazioni analogiche in serie stretta di tre ( come…e come… e
come…) che sono invece abbondanti nei romantici; le analogie preposizionali ( anche di casa del
simbolismo, più tardi) ( vipere del pensiero, diadema di neve ecc…)
La personificazione é invece presente in Leopardi, anche perché è normale nello stile classico: l’Italia, la
Primavera, la speranza di A Silvia, ma anche qui i romantici tendono ad abbondare ( Lamartine
personifica il tempo, l’entusiasmo, il sole; Hugo invece l’oceano ecc…)
La differenza con Leopardi sembra qualitativa in quanto l’italiano si limita a enti tradizionali e generici
senza arrivare mai a personificazioni troppo audaci ( proprie nel romanticismo poetico). Il materiale
romantico rivela una certa propensione al gigantismo, sia nei sentimenti che nella visione della natura e la
tendenza ad intellettualizzare il reale (che Leopardi rimproverava alla “scuola”) e il procedere per tratti
riassuntivi.
Compare più chiara la differenza da Leopardi  poeta di purezza greca, descrittore dei sentimenti, mai
riassuntivo. Leopardi è il poeta della divisione tra apparenza e verità del pensiero.
Un’altra differenza è l’assenza in Leopardi di un esotismo che invece nei romantici è una delle sigle,
anche unendo testualmente diversi esotismi ( e in questi ambienti esotici s’inserisce anche la rievocazione
della Bibbia e l’evocazione egotistica della Grecia moderna)  non c’è bisogno di dimostrare come
Leopardi in generale sia lontano da questo gusto. Senza bisogno di prove si può affermare che Leopardi è
completamente estraneo al gusto medievistico che è invece una componente essenziale nella poesia dei
romantici.
La questione in realtà è prima di tutto ideologica, data la formazione rigorosamente illuministica di
Leopardi e per la quale il Medioevo era l’epoca della decadenza del tutto priva di fascino. Troppo forte
era in lui la venerazione dell’antico. Uno degli aspetti che caratterizzano il Leopardi maturo è il
sentimento e la certezza dell’irrecuperabilità dell’Antico da parte dei moderni. Non è elemento
leopardiano quello del magico- fantastico o satanico, presenti invece in Coleridge, Shelley. Una sola
poesia di Leopardi contiene nel titolo la parola FAVOLA, ma sono le favole antiche del mito greco.
Esiste un solo luogo, afferma Mengaldo, in cui Leopardi affronta il tema del fantastico, ed è nella figura
della Natura come gigantessa insensibile nell’Operetta DIALOGO DELLA NATURA E DI UN
ISLANDESE. Anche se l’argomento è controvertibile in quanto Leopardi non ha bisogno di far
riferimento al demoniaco, proprio perché demoniaca è la natura in quanto tale. Quando Leopardi
capovolge la propria concezione originaria di natura, cancella l’idea roussoviana di bontà originaria della
natura stessa, pervertita da uomini, società, storia. Nel DISCORSO DI UN ITALIANO, Leopardi aveva
scritto: “la natura non si palesa, ma si nasconde”. Cinque anni dopo, nello Zibaldone dirà: “ la natura ci
sta tutta piegata davanti, nuda e aperta”  esatto contrario della concezione romantica della natura come
mistero e inconoscibilità.
All’interno del rapporto UOMO- NATURA è fortificante affrontare il tema dell’opposizione di luce e
sole a buio, di giorno a notte e viceversa. Molte liriche di Leopardi, poeta della luna, sono tutte o in parte
dei notturni, garanti dell’intimità e solitudine. Nessun suo passo, però, celebra l’autenticità della notte e la
sua superiorità sul giorno, non esiste un “mito della notte” ( come era stato invece per Novalis nei suoi
“Inni alla notte”, appunto).
Quindi siamo di fronte ad un’assoluta continuità di Leopardi con il materialismo e il razionalismo
illuministici, di contro all’antilluminismo spiritualistico dei romantici.

Veniamo a uno dei capitoli fondamentali: il rapporto o meno tra ragione e natura. Tutti sappiamo che in
un primo tempo, quando la sua idea di natura è ancora positiva, questo rapporto si pone in antitesi  la
ragione fredda e analitica e nemica della natura. Dopo la svolta del 1824, la ragione nella pienezza delle
sue facoltà è l’unica garante della comprensione della natura.
La natura è oggetto di abbandono sentimentale questione che si può stringere meglio guardando
specificamente al rapporto io-non io. In Leopardi sono sempre nettamente distinti, sia che l’io poetico si
ponga verso la realtà come spettatore e partecipe, sia che quell’io sia titolare di domande disperate alle
quali la natura non può e non vuole rispondere.
Ancora un appunto che si inscrive più particolarmente nell’ambito del sensismo leopardiano. Mentre
Novalis scrive: “ c’è un solo tempio al mondo ed è il corpo umano” o ancora “ le malattie
contraddistinguono l’uomo dagli animali e dalle piante  Leopardi nello Zibaldone scriveva: “ tutto è
male”, accreditando di sofferenza non solo gli animali, ma anche le piante. Nello Zibaldone, nelle
Operette Morali, nei Canti esiste una concezione del mondo non solo antiantropocentrica, ma anche
antigeocentrica , in cui l’uomo è solo un incidente.
Leopardi usa un linguaggio che esprime una grande novità ideologica ed estetica rivitalizzando una
tradizione poetica che è quella italiana e soprattutto Omero e gli altri poeti greci e latini come Virgilio e
Orazio.  idea su cui si basa la scelta della lirica ( il sommo della poesia) che non può essere tale se non
al modo degli antichi.
Mentre il Leopardi istituisce un rapporto stretto fra razionalismo e materialismo e anche il classicismo
nella forma; i romantici al contrario istaurano un rapporto fra eccesso stilistico e spiritualismo. La
distanza di Leopardi è certamente massima dal Romanticismo per eccellenza tedesco e
francese( Lamartine e Hugo), un po’ minore da quello inglese. Ultimo dei classici, Leopardi fu, rispetto
all’attualità dei romantici, dunque, un INATTUALE.

Capitolo II ( Due forme del discorso poetico leopardiano)

I canti si possono ritmare in una serie di fasi  contraddistinte non solo da ideologia e contenuto, ma
anche da stile ( metrica in primo luogo).
Forte la tendenza in Leopardi a caratterizzare in modo specifico ogni singola lirica e di procedere per
DITTICI  ad esempio le prime due canzoni o la Quiete e Il Sabato.
In una prima fase  l’IO dialoga con la storia e il mito e con la storia come mito ( All’Italia, Inno ai
Patriarchi); e sul filone storia- mito vengono proiettate anche le occasioni della quotidianità addirittura
domestica  ( Alla sorella Paolina; A un vincitore) o dell’attualità culturale ( Angelo Mai).
Seconda fase  negli Idilli l’IO si confronta con una natura prossima e quasi domestica, consolatrice o
sublimatrice delle pene personali. Quella natura quotidiana diventa LA natura in tutta la sua maestà:
natura quindi, e non paesaggio come mostra il tragitto dal secondo alla prima nell’Infinito. È negli idilli
che l’io poetico tende a coincidere con l’io esistenziale più nudo e solo.
Terza fase  I canti pisano – recanatesi approfondiscono il tema del disinganno ( illusione della speranza
e del piacere) che già avevamo ritrovato per gran parte all’interno dello Zibaldone e delle Operette
morali; la scena si sposta sul borgo di Recanati, che diventa in quelle liriche uno degli hauts lieux ( luoghi
alti) della poesia di tutti i tempi: l’io poetico accoglie il mondo esterno in sé e soprattutto porta alla
memoria e l’attività del borgo diventa figura della VITA che viene demolita dalla voce ferma del costante
dolore umano. Sta a sé il Canto notturno che tende all’infinito dello spazio (…“solitudine immensa”…)
Quarta fase  l’Esistenzialismo negativo di Leopardi raggiunge il suo apice nel cosiddetto CICLO DI
ASPASIA, nella lirica a lei intitolata, unica contro una donna e soprattutto nei sedici testamentari e
spezzati versi di A sé stesso.
Quinta fase ( a Napoli) l’io esistenziale si sublima e sconcretizza totalmente, tanto che le due Sepolcrali
non muovono da occasioni vitali, ma dal fuori tempo. Affronta da “coscienza” le questioni ultime della
morte e del cosmo. È la Palinodia, ma è soprattutto l’intreccio di visione sociologica e visione cosmica,
di società e natura distruttiva nella Ginestra. Tuttavia il Tramonto della luna declina la visione della
natura con dolcezza che è quasi quella degli Idilli e dei canti pisano – recanatesi: è un cosmo-paesaggio.
Due sono le modalità costruttive fondamentali del discorso poetico di Leopardi:
- la prima  la presenza protagonistica dotata della propria voce di “personaggi” che in qualche
modo funzionano da ALTER-EGO o sosia dell’io poetico. Questi “doppi” li ritroviamo nelle
Canzoni  come la proiezione eroica e competitiva dell’io nella storia e nel mito: la figura di
Simonide in All’Italia; il Tasso ( cui poi sarà dedicata un’operetta) nell’Angelo Mai; Bruto ( più
doppio di tutti);Saffo. Il tema dell’alter- ego passa dalle Canzoni alla prosa delle Operette, nelle
quali è continuo. ( la figura del doppio di Leopardi percorrerà tutto l’Ottocento  con la narrativa
( Dovstoevskij, Stevenson), come la poesia  Musset e Lermontov. Gli alter-ego pronunciano in
genere ( e sempre nelle Canzoni) dei veri e propri monologhi tragici  quindi carica le Canzoni di
istanze che si possono definire narrative e teatrali che sono di fatto lontani dalla lirica che
Leopardi sperimentava allo stato puro.
- la seconda  è quella dell’allegoria  estranea alla fase della figura del sosia ( cioè quella delle
Canzoni). L’allegorismo si affaccia dopo il cosiddetto “silenzio” poetico degli anni 1823-27, nella
lirica del nuovo Leopardi, A Silvia. Silvia- figurante agisce in presenza, e non in assenza del suo
figurato  la speranza giovanile. L’una e l’altra si fondono  la morte metaforica della speranza
sprigiona quella reale di Silvia e viceversa  quindi se Silvia rappresenta la speranza, la speranza
rappresenta Silvia: un’allegoria reciproca.

Nelle Ricordanze, invece, Nerina, a differenza di Silvia, rimane Nerina e basta  coppia Nerina-
giovinezza vs Silvia- speranza. Nella Quiete e nel Sabato ritroviamo l’allegorismo: nella prima la ripresa
della vita attiva dopo la tempesta è immagine parlante del carattere fuggitivo e vano del piacere 
prodotto della cessazione del dolore; nel secondo è di scena l’attesa ( destinata ad essere delusa) di una
felicità futura. L’allegoria è quindi ciò che permette al Leopardi di mettere in scena contemporaneamente
le due opposte istanze della sua poetica  quella del pensiero che nega e quella della Vita che diverte il
cuore.
E arriviamo al Canto Notturno  diverso dagli altri canti pisano – recanatesi  mentre tutte le altre
allegorie sono, canto per canto, uniche, in quello del pastore sono plurime. Nel discorso del pastore (come
allegoria della condizione umana) ne sono incassate altre due: la seconda lassa del vecchierello 
esprime lo stesso significato del tutto (“tale/ è la vita mortale”) sgranandolo attraverso un’esistenza
dolorosa non vista complessivamente, ma nell’evoluzione dei suoi eventi; e quanto alla greggia altro non
significa che parte meno sensibile del genere umano che non prova il tedio, in ciò opposta al pastore, ma
entrambe comunque destinate all’infelicità.
Il Canto notturno (vera e propria antropologia poetica, testo più denso e importante dell’intera raccolta) è
l’unica lirica in cui sono mescolati allegorismo e presenza della figura del sosia: il pastore come doppio
dell’io poetante leopardiano. Nessun segno di allegoricità appare nel Ciclo di Aspasia, piuttosto una
ripresa della figura del doppio in A sé stesso  dicotomia fra la mente che parla e il cuore. È bene
soffermarsi anche sul Tramonto della Luna e sulla Ginestra.
Il Tramonto presenta l’equazione allegorica  tramonto della luna = tramonto della giovinezza 
evidente nell’ampia similitudine interstrofica: Quale…, (prima lassa) Tal…(seconda lassa). E ancora più
caratteristico di questo canto è il fatto che nella quarta lassa, quello che nelle prime due era una
similitudine allegorica per affinità, diventa qui, una similitudine allegorica per contrasto: la natura può
rinnovarsi e splendere di nuovo, mentre la vita mortale non può che correre dalla fine della giovinezza,
alla maturità, alla vecchiaia, alla morte.
Nella Ginestra i portatori di allegoria sono due  ( rispettivamente nella prima e nell’ultima lassa) lo
“sterminator Vesevo” e la “odorata ginestra”.

Mengaldo prosegue affermando che cognata dell’allegoria è la prosopopea o personificazione  figura


assente negli Idilli e nel Ciclo di Aspasia ( che conta invece il “doppio” di Consalvo); ma che tende a
situarsi nel Leopardi ultimo. Comunque le personificazioni nei Canti sono verosimilmente “poche” ( ben
presenti invece in Foscolo in “Alla sera” e Manzoni negli “Inni Sacri” e in altri romantici come Novalis,
Lamartine ecc… ) e si svolgono in spazi brevi.  quindi un altro punto di sostanziale differenza coi
grandi romantici. Nella maggiore poesia romantica allegorismo e simbolismo s’intrecciano e si alternano,
così come avverrà in Baudelaire. E nulla può essere più estraneo di questo atteggiamento al materialismo
e razionalismo di Leopardi  in lui è ignoto il simbolismo di stampo romantico, mentre dal 1828 in poi,
domina l’allegoria con le sue conseguenze sulla struttura dei Canti. Mentre per i romantici l’allegoria può
essere o non essere esplicita, in Leopardi lo è sempre.
Leopardi rifiuta le scorciatoie suggestive e oniriche del simbolo perché sa che l’oscurità delle
corrispondenze e dei simboli conduce ad un carattere enigmatico dell’opera. Utilizza quindi un’allegoria
limpida ed esplicita: nelle figurazioni allegoriche non solo è in piena luce il figurato, ma ancora di più il
figurante  che è nel mondo dell’uomo e della natura, Silvia lieta e pensosa, il ritorno all’attività e
l’attesa della festa nel borgo, quindi LA VITA.

Capitolo III: “IO” e “NOI” nei Canti

Niente è più tipico della lirica che il dialogo fra l’io poetico e dei “tu”. In nessun poeta più che in
Leopardi questa propensione è così pronunciata. Un io poetico che si esprime in un primo momento nel
rapporto con un “tu” fittizio e metonimico di sé medesimo, per diventare poi esemplare dell’umanità
intera di cui si sente portavoce, diviene un io anche corale. Nel Frammento XXXIX l’io è assente se non
implicitamente in “Come fuggiste, o belle ore serene..”. (25); il “TU” di 22 è generico. Il testo è una
descrizione in cui domina “ELLA” ( mentre il frammento precedente,tratto da un’elegia per Gertrude
Cassi, comincia con “IO qui vagando…” . Il “noi” è assente in entrambi. Nell’altra ex elegia per la Cassi
 “Il primo amore”, domina in assoluto l’io che dialoga con il proprio “cuore”; verso la fine compare un
arcaico “nui”, il cuore agisce come “egli”, mentre il “ci” vale per l’io e il cuore.
In uno dei capolavori dei Canti  Il passero solitario, la prima plurale pronominale e i suoi subordinati
sono completamente assenti. Un testo in cui il dialogo ‘io’- ‘tu’diventa vario e complicato. All’inizio il
confronto con “l’augellin” è una dichiarazione di affinità; ma quando viene ripreso nella terza ed ultima
lassa è per dichiarare la diversità dell’io umano rispetto all’animale  “ tu solingo augellin..” – “a me” =
‘ a me invece’. Inoltre la lassa centrale contiene un altro confronto disgiuntivo, quello tra la <gioventù
vestita a festa> e <l’io solitario>  “ancora “io invece”. Quindi fra le grandi poesie dei Canti, il Passero è
quella in cui l’universalizzazione del proprio stato esistenziale è più tenuta sotto traccia. Da “All’Italia”
in poi, lungo tutte le Canzoni s’instaura un io sofferente ma eroico, eventualmente trapiantato anche in un
sosia o in un alter-ego e questo quasi impone l’estensione dei propri sentimenti e idee all’umanità intera.
Non in “All’Italia” stessa però, dove la presenza giudicatrice ed utopica è marcata in un chiasmo perfetto
e le cose non vanno diversamente quando passa la parola al suo “doppio” l’antico Simonide. Ma già la
coetanea “Sopra il monumento di Dante, è altra cosa. Il discorso viene prima rivolto ai “pietosi”solleciti
del monumento dantesco da erigersi in Firenze, tiene all’inizio l’io in minore, poi dà luogo più avanti a
tutta una serie di prime plurali che varia fra denotazione di “noi italiani” e quella di “noi uomini”. E
siamo comunque sulla strada di Angelo Mai, dove le prime plurali hanno misure più larghe ed
universali gli “io” espliciti sono rari perché da un lato la scena è dominata da grandi personaggi italici,
dall’altro perché l’io in una simile pluralità è come assorbito nei sentimenti e nelle idee dell’intera
umanità. La “Sorella Paolina” è un caso diverso: la missione della sorella è convalidata storicamente da
un suo duplice doppio, che dunque non è dell’io, la sposa spartana che spandeva le chiome (come quelle
di Silvia) sul corpo del marito ucciso. Abbondano i segnali del “noi”. E nel “Vincitore nel pallone”, che
in parte condivide lo schema della canzone precedente, l’io esplicito è del tutto assente. In Bruto minore e
Ultimo canto di Saffo l’io è evidentemente quello dei due doppi storici di Leopardi, del suo sconfitto
desiderio di gloria e di suicidio agonistico. Nel Bruto è interessante che il “noi” esplicito emerga solo
tardi nella penultima strofa  “Oh gener vano / siam…..nostra sciaugura”. Quella di Bruto è un percorso
individuale, ma anche una diagnosi che si vuole oggettiva. Nel canto di Saffo tutto individuale,
colpiscono le oggettivazioni di sé stessa che la protagonista propone. Tra i noi, dice Mengaldo, si deve
distinguere tra i maiestatici (quando chi scrive si riferisce a se stesso usando la prima persona plurale
anziché singolare.) soprattutto nella prima strofa e nel virgiliano “Morremo”; tra i “duali” e gli
effettivamente umani di “nostro dolor”. “Alla Primavera” e i “Patriarchi” ricercavano una oggettività
evidenziata per garantire il senso di incolmabile distanza tra modernità e Antico. Nella prima si ha
all’inizio  “[ il mio] gelido cor”, ma per la prima persona plurale è necessario andare all’inizio della
strofa finale  “al nostro / il gener tuo”. Nei Patriarchi, dopo due strofe di descrizione narrativa, la terza
contiene un dialogo tra un “tu” e l’ io , ma nella seguente emerge il “noi” : “sangue nostro”, “nostra
caduca età”, “nostra placida nave”. Siamo al rovescio delle Canzoni, cioè agli Idilli. Qui l’io è solo di
fronte alla natura e all’Altro  la siepe non impedisce, ma anzi stimola l’immaginazione dell’infinito.
Negli Idilli l’io esistenziale , che ha assorbito in sé quello eroico è tutto presente a sé stesso: “io nel
pensier mi fingo”, “m’affaccio”, “io mi rammento”. Di “Alla Luna” basta dire che nel breve dialogo con
l’astro, su 16 versi si rincorrono 2 io ( il primo nel primo verso), 2 mi e 3 mio e altre forme. Nella lirica il
dialogo, ancor più che con la luna, è con sé stesso (“io mi rammento”) e con la propria esistenza. Il Sogno
è dominato dal colloquio onirico io-tu dove le prime plurali riguardano i due in questione e non altri. Più
intricato il discorso per la “Vita Solitaria” dove l’antagonismo verso la natura e la propria storia
d’infelicità, si apre nell’ultima lassa ad antagonismo verso il peggio della società presente, per ripiegarsi
infine in quanto la natura ha ancora di materno ed cordiale.
Gli Idilli manifestano chiaramente la loro differenza dalle Canzoni: mentre infatti, nelle Canzoni
l’individualità è cercata presentandola in figure e situazioni storiche o mitiche fraterne o anche remote,
negli Idilli l’universalità è cercata e raggiunta attraverso la massima individuazione.
Per quanto riguarda invece i Canti pisano-recanatesi, va tenuto a parte il Risorgimento ( perché manifesto
esistenziale e di poetica) che è tutto concentrato sullo stato presente e sui ricordi dell’io […credei…/ mi
venne meno…/..piansi…]; in A Silvia per la prima volta i morfemi di forma plurale […ci apparia../…
ragionammo…] non indicano la comunanza di esperienze personali con tutta l’umanità, ma solo con
un’altra persona, Silvia (Silvia - speranza, o la speranza attraverso Silvia). Una situazione analoga si dà
per certi versi nelle successive Ricordanze dove Leopardi mette in versi il ricordo di Nerina in modo
totalmente diverso rispetto a quello di Silvia e nell’alternarsi di momenti rammemorativi e raccontativi,
conosce accanto a una personalizzazione spinta […io non credea…], il noi implicito del [rapito mortal] .
Quanto agli altri quattro canti recanatesi: per quanto riguarda il Sabato e il Passero solitario c’è la
mancata transizione dall’io al noi. L’io esplicito nel Sabato compare solo a suggello, nella breve lassa
finale [… altro dirti non vo’…]; le cose cambiano radicalmente, invece,con una vera esplosione di prime
plurali, nei due testi, Quiete e Canto notturno, in cui Leopardi mette in scena la punta del suo pensiero 
nella Quiete  [ …nostre offese/ ….fra noi…/le genti…./ i mortali…]; e nel grandissimo Canto notturno
tutto occupato dalla figura fraterno – allegorica (o “doppio”) del pastore, da un lato  [ …io che sono?
/..A me la vita…/ ..io pur seggo..], dall’altro  […perché da noi si dura? / il patir nostro…/ l’umano
stato…/ …lo stato mortale].
E siamo al Ciclo di Aspasia ( Il pensiero dominante, Amore e morte, Consalvo, Aspasia, Alla sua donna,
A Sé stesso)  data la piega qui, molto soggettiva e addirittura autobiografica di queste liriche, il “noi” è
presente nel “noi mortali” del Pensiero dominante, ma l’obiettivo è tutto sull’io poetante [ …io vivo/…io
respiro…/ io miro…]; Amore e morte uno dei capolavori certi dei Canti è il più variegato della serie:
dopo il […mortale…/…forza mortale.../…umana famiglia…] l’io esplicito si affaccia solo nella lassa
finale sempre in dialogo con [E tu…/ …me…]; ma il canto è pieno di altri personaggi: “l’uom della villa”/
“la donzella timidetta e schiva”/ “la negletta plebe”/ “il villanello ignaro”.
Per Consalvo occorre ricordare solo la “natura terrena” e il “mortal”. E arriviamo ad Aspasia ( nominata
nel titolo e poi altre due volte, anche qui come una sorta di antitesi di A Silvia. L’io esplicito si scatena
anche in Aspasia, nel finale, a partire dalla terza lassa “io te”,“me di me privo”,“il ciel miro e sorrido”.
Basso rilievo abbonda di morfemi di prima plurale: “portiam”,“nostri danni”,“dimostrarci”,“tutti noi”;
nello stesso tempo l’io esplicito si dichiara due volte in forme decise: “io stesso in me”/“com’io per
fermo estimo”. Sopra il ritratto si registra: esser nostro/ mortale stato/ lo spirito umano/natura umana;
l’io in quanto esplicitamente tale è assente  l’interlocutore fondamentale è la natura ( come anche nella
precedente) che qui però ha definitivamente compiuto la sua opera distruttiva. Nella Palinodia, dato il
carattere di poemetto ad un interlocutore e di lode antifrastica, l’ ‘io’ e il ‘noi’ si bilanciano : gener
nostro/secol nostro/saper nostro; il mio secolo e tuo/ Riconobbi e vidi..e vidi..conobbi..vidi/mentre io
scrivo. Le due grandi liriche finali dei Canti, Il tramonto della luna e la Ginestra sono le più importanti.
Nel Tramonto, dominato dallo sgranamento polisintetico “E rami e siepi e collinette e ville”, compare
appena il ‘noi’  nostra misera sorte/ mortal natura/ vita mortal; l’io è presente nell’allocuzione “Voi,
collinette e piagge”. Tutt’altro stato quello della Ginestra, nella quale l’oggettività degli spazi, è detta da
un io insieme eloquente e contemplativo, in alcuni momenti estatico, un io agonisticamente sconfitto nella
sua finitezza  Seggo-veggo/ miro..al pensier mio..io premo e il Qui, colloca ancora una volta il soggetto
nello spettacolo. All’io giudicante e sarcastico vanno attribuiti: Non io/ mi rido/non credo io già; quanto
al noi  nostro stato/gener nostro/risorgemmo/uman seme/comun fato. E anche nella Ginestra la duplice
allegoria maggiore del vulcano sterminatore e dell’umile ginestra chiamata a sé in dolcissime apostrofi,
contiene agenti microallegorici quali “il passeggero”, “il villanello intento”, il “peregrino”. Le transizioni
fra ‘io’e ‘noi’ appartengono soprattutto a due fasi e modi della poesia dei Canti: le Canzoni e una parte
notevole dei canti napoletani. La presenza massiccia del ‘noi’ nelle Canzoni e negli ultimi Canti è
significativa proprio perché là dove agisce più intensamente l’io agonistico (che è allo stesso tempo un io
conscio dell’universale malvagità della natura che emerge nel Dialogo della Natura e di un Islandese e il
Cantico del gallo silvestre) di Leopardi, a questo si affianca un ‘noi’, ovvero l’uomo in generale con il suo
destino tragico. Possiamo dire che nel complesso dei Canti, si intrecciano e si sommano due paradigmi,
quello io/tu, esplicitamente dialogico, e quello io/noi, apparentemente non dialogico, ma tale anche esso.

IV CAPITOLO: NOTE DI SINTASSI POETICA LEOPARDIANA

Aprendo il libro dei Canti al suo primo  All’Italia, i suoi 140 versi sono attraversati da ben undici
polisindeti: uno subito in avvio “O patria mia, vedo le mura e gli archi/ e le colonne e i simulacri, e
l’erme. Si trova solo un esempio della figura opposta dell’asindeto (34-37). Nel contemporaneo
Monumento di Dante  la situazione sintattica è cambiata. Su 200 versi sei polisindeti ad esempio 141-
142), aumentano gli stacchi asindetici. Ulteriore riduzione nell’Angelo Mai  quattro polisindeti in 180
versi. Gli asindeti si contano sulla decina. Della Sorella Paolina  l’unico polisindeto cade nell’attacco
della lirica. Del Vincitore non vi è traccia di polisindeti se non quello protratto di 42-46. Arriviamo così al
Bruto Minore, prima grande prova leopardiana del genere canzone, dopo il finale del Mai  un solo
polisindeto (92). Nessun polisindeto nei 95 versi di Alla primavera e neppure nella terminale Alla sua
donna (55 versi), segnate da un periodare largo e complesso. Un po’ diversa la condizione de L’ultimo
canto di Saffo  dove i tre polisindeti tra i 72 versi della canzone sono in funzione del nuovo pathos; il
discorso si snoda sulle anafore o ripetizioni di ‘noi’ o ‘me’, tra pathos e orgoglio. Nei Patriarchi, aggregati
da Leopardi alle canzoni, nonostante il diverso metro, questo e il tema fanno capire il ritorno ad
un’eloquenza ormai in eccezione allo stile più denso ed essenziale che il poeta aveva conquistato  in
117 versi, sei polisindeti, sia pure controbilanciati da stacchi asindetici.
Dei cinque testi della serie degli Idilli, invece, uno solo ne è privo Alla luna. L’infinito, primo in
cronologia ha quattro momenti logico-sintattici in crescendo scanditi da tre congiunzioni: Ma, E, Così.
Due polisindeti  “.. interminati spazi di là da quella e sovrumani silenzi, e profondissima quiete/ …e mi
sovvien l’eterno e le morte stagioni e la presente e viva e il suon di lei…”.
Altrettanto importante è il polisindeto dell’incipit della Sera  “Dolce e chiara è la notte e senza vento”/
E queta…e di lontan rivela…e pei balconi…e già non sai e né pensi”. Del Sogno è sufficiente dire che su
100 versi conta ben 33 periodi, anche brevi(dovuti anche a battute di dialogo) e che scorre per legamenti
coordinativi. La vita solitaria è a sé negli Idilli  la percentuale dei periodi per versi diminuisce rispetto
al Sogno , però non compaiono asindeti notevoli, ma solo moderati dall’anafora; considerevole invece la
presenza di polisindeti o comunque di legamenti con ‘e’ o ‘né’. Così Leopardi negli Idilli crea una sintassi
più controllata, senza eccessi, e fluida, che fa scorrere uno dietro l’altro le esperienze mentali e gli stati
d’animo, non gerarchizzandoli, ma narrandoli. Nel Pepoli, i polisindeti sono bilanciati da giunture
asindetiche. Quanto ai Canti pisano – recanatesi: nel Risorgimento nessun polisindeto, rare anche le
coppie con congiunzione; anche in a Silvia niente polisindeti; nelle Ricordanze prendono maggior piede
da un lato lo stile spezzato, dall’altro il gesto largo, anche qui mancano i polisindeti. Leopardi
esperimenta dopo gli Idilli un linguaggio del ricordo doloroso non più affidato a scorrimento e fusione,
ma ad un volpeggiare di piccole frasi addossate e strette. Nell’affollarsi di rievocazioni, si affollano anche
i legamenti con l’ ‘e’ di moltiplicazione. Mengaldo in questo capitolo fa poi una riflessione sui periodi
delle canzoni e dei canti, sulla punteggiatura, sull’ordine delle parole e sulle inversioni. Leopardi scopre
con gli Idilli e i canti recanatesi un’altra dimensione temporale da quella a ritroso della storia e del mito, il
tempo dell’interiorità che ascolta e di conseguenza temporalizza anche gli oggetti e gli eventi della sua
contemplazione.

Potrebbero piacerti anche