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Antonio Lucio Giannone

SENTIERI NASCOSTI

Il presente volume e' articolato in tre parti e raccoglie studi dedicati ad alcuni
scrittori rimasti ai margini del lavoro critico, trascurati e talvolta ignorati. La prima
parte costituisce un trittico per Sigismondo Castromediano, preso in esame sia
come autore delle Memorie (una delle opere più significative della memorialistica
risorgimentale), sia nella trasfigurazione in personaggio letterario che ne fece Anna
Banti nel romanzo “Noi credevamo”.
La seconda parte comprende studi dedicati a scrittori e scrittrici del Novecento
come Ada Negri, Vittorio Bodini, Anna Maria Ortese, Rina Durante e Nicola De
Donno dei quali si analizzano singole opere in versi o in prosa o aspetti particolari
della loro produzione. La terza parte affronta tre figure di critici letterari, due dei
quali (Mario Marti e Donato Valli) sono particolarmente legati a Giannone in
quanto sono stati suoi maestri presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell'Ateneo
salentino.

PRIMA PARTE: TRITTICO SU SIGISMONDO CASTROMEDIANO

I Capitolo
Sigismondo Castromediano e la memorialistica Risorgimentale

Nell'ambito della memorialistica risorgimentale una tematica molto particolare è


quella carceraria. In questo filone si hanno due modelli molto importanti: “Le mie
prigioni”di Silvio Pellico del 1832 e “Le ricordanze della mia vita” di Luigi
Settembrini 1879. A queste due opere si aggiungono: il “Manoscritto di un
prigioniero” del 1843 di Carlo Bini che, però, è dedicato solo in parte alle
vicende carcerarie dell'autore: rappresenta più che altro un libro di riflessioni di
carattere sociale ed esistenziale; e le “Memorie” del duca Sigismondo
Castromediano (Cavallino di Lecce 1811) intitolate “Carceri e galere
politiche” che è una delle opere più importanti e significative in questo campo,
anche se compare solo sporadicamente nelle trattazioni della memorialistica
ottocentesca (dove sono a malapena citate e, tra l'altro, con inesattezze di vario
genere). Guido Mazzoni, ad esempio, cita a malapena il nome di Castromediano;
come pure il critico Sergio Romagnoli, che ne parla solo in pochi righi (cadendo per
giunta in errore, in quanto scrive che il duca si mise a dettare le sue memorie, da
vecchio, mentre si sa che l'opera ha avuto un lungo iter redazionale). Anche un altro
critico, Anco Marzio Mutterle commette un'imprecisione relativamente alla vita del
patriota salentino, affermando che egli passò otto anni nelle prigioni di Lecce e
Procida (che rappresentano, invece, solo l'inizio del suo lungo calvario).
L'opera di Castromediano è ricordata anche da Leonzio Pampaloni e da Folco
Portinari, poi più niente. Su questa assenza o dimenticanza influisce anche la rarità
dell'opera che è stata recentemente ristampata a cura dell'amministrazione
comunale di Cavallino, paese natale dell'autore. Ma se Castromediano viene almeno
nominato in qualche occasione, sono ignorate le memorie di altri patrioti
meridionali (tutti compagni di cella del duca), quali:
– “Raffinamento della tirannide borbonica ossia i carcerati in
Montefusco” del calabrese Nicola Palermo”;
– l'opera scritta e pubblicata dalla moglie di Antonio Garcea, Giovannina
Bertola, che parla delle rivoluzioni d'Italia dal 1837 al 1862 (“Antonio
Garcea sotto i Borboni di Napoli e nelle rivoluzioni d'Italia”);
– i più sintetici “Ricordi della galera” del brindisino Cesare Braico
apparsi nel volume “Lecce 1881” in cui Castromediano pubblica per la prima
volta uno scritto tratto dalle sue Memorie, intitolato “DA PROCIDA A
MONTEFUSCO” ( in stesura diversa da quella definitiva).
Questo avviene anche nelle antologie dedicate ai Memorialisti dell'800: quella a
cura di Gaetano Trombatore e altre due a cura di Carmelo Cappuccio, tre ponderosi
volumi nei quali, a parte Settembrini, non figura nemmeno un rigo delle Memorie
di Castromediano. Eppure i quattro memoriali di Castromediano, Palermo, Garcea
e Braico, costituiscono un compatto corpus relativo alle lotte risorgimentali del
1848 nel Regno delle Due Sicilie.

Ma entriamo nel merito dell'argomento: “Carceri e galere politiche. Memorie


del duca Sigismondo Castromediano” videro la luce in due tomi a Lecce nel
1895-'96 dopo la morte del Duca, scomparso il 26 agosto del 1895, il quale fece in
tempo a vedere soltanto il primo tomo. Nel Proemio, Sigismondo spiega da dove gli
era venuta l'idea di scrivere le Memorie: la ebbe non appena mise piede nelle carceri
di Lecce nel 1848, accusato di cospirazione antiborbonica. (Castromediano fu tra i
fondatori del Circolo patriottico Salentino, del quale divenne segretario, e fu tra i
firmatari di un proclama con il quale si protestava contro l'abrogazione dello
Statuto costituzionale, ad opera di Ferdinando II di Borbone, e si invitava il popolo
a difendere la conquista della libertà). Negli anni '80 riscrive capitoli dei decenni
precedenti che non lo soddisfacevano per dei riferimenti della storia del Reame, in
quanto non aveva avuto la possibilità di documentarsi su ciò che era avvenuto
quando era rinchiuso nelle carceri e quando risiedeva a Torino (essendo stato eletto
deputato nel primo parlamento italiano). Composte da 29 capitoli - oltre al Proemio
- per un totale di 550 pagine, le Memorie sono la cronaca dettagliata della dura
esperienza vissuta dall'autore e da altri patrioti nelle carceri e nelle galere
borboniche di Napoli, Procida,Montefusco e Montesarchio, dal 1848 al 1859. Esse
vanno dalla reclusione di Castromediano nel carcere di Lecce avvenuta il 30 ottobre
del 1848 alla liberazione in Irlanda, con lo sbarco a Queenstown del 6 marzo del
1859, e poi, con l'arrivo a Torino un mese dopo. Lo scopo dell'autore è quello di
testimoniare le sofferenze, le oppressioni e le angherie subite da lui e dai suoi
compagni di cella. Castromediano all'inizio del Proemio scrive che aveva promesso
ai suoi compagni che voleva essere lo storico dei loro dolori: “le Memorie” sono,
infatti, la denuncia delle condizioni di vita disumane e lo sdegno contro il governo
borbonico, prepotente e ingiusto. Memorabile è l'incipit del capitolo III, in cui
descrive la nefandezza delle carceri napoletane che definisce “bolge d'espiazioni
crudeli”. Scarseggiano, nell'opera, le riflessioni di carattere politico anche perché
l'autore rimane saldo nella sua fede monarchica sabauda: solo alla fine emerge la
sua politica antimazziniana, quando, esule con i suoi compagni di prigionia a
Londra rifiuta di incontrare Mazzini.
La caratteristica dell'opera è che la narrazione s'interrompe spesso, per lasciare
spazio all'inserimento di documenti (come lettere e verbali) dovuti ad un' influenza
positivistica tipica degli anni in cui scrive le Memorie, o ad aneddoti, bozzetti,
ritratti, dove si nota l'avvicinamento alla letteratura di tipo verista.
Vi sono racconti di vicende tragiche, ma anche divertenti, patetiche, grottesche
apprese in carcere da lui o attraverso racconti di altri prigionieri.
Degni di nota sono:
• l'aneddoto su “Papa Giorgio Tarantini”, un prete che riesce a sfuggire alla
cattura delle guardie borboniche grazie ad uno stratagemma di alcuni abitanti
del paese di Torchiarolo, che verranno arrestati;
• quello di Darsena di Napoli che si finge vedova perché il marito è un
cospiratore condannato a morte da i Borboni;
• o ancora i “3 aneddoti pietosi” che sono brevi racconti tra carcerati e i loro
familiari nel carcere di Napoli.

Tra i ritratti dei personaggi conosciuti, ricordiamo:

➔ Raffaele Miglietta, un detenuto che si era autoproclamato re della repubblica


di Torchiarolo, per questo condannato e processato;
➔ lo “scortica”, il peggiore dei secondini del carcere di Lecce, di cui viene messa
in rilievo l'avidità di denaro.

Accanto a questi raccontini vi sono delle vere e proprie digressioni che fanno luce
su aspetti della realtà e società meridionale dell'800: ricordiamo
• quella sulla Terra d'Otranto nel capitolo V;
• sul clero ed episcopato nel capitolo VI;
• sulla magistratura napoletana nel capitolo VII;
• e sulla camorra e camorristi nel capitolo XVI. Per quest'ultima l'autore si
basa sul libro di Marc Monier “La camorra, notizie storiche raccolte e
documentate”, pubblicato a Firenze nel 1862, descrivendo la struttura di
quella che definisce una “schiatta infernale” che regnava nelle carceri e nelle
galere napoletane, incominciando con l'etimologia del nome e proseguendo
con il regolamento dei vari componenti (dal masto (il capo) ai picciotti, ai
fiduciati), con la descrizione dei vestiti dei camorristi e delle sentenze di
morte.

Ma quali sono i modelli tenuti presenti da Castromediano?

➔ Pellico, viene citato due volte; come sappiamo “Le mie prigioni” narra il
periodo più travagliato della vita dell'autore, dal momento dell'arresto a
Milano come indiziato di cospirazione carbonara contro la monarchia
costituzionale austriaca, alla condanna a Venezia e alla reclusione in carcere
in Moravia. (Carcere dello Spielberg) Questo, però, non è un libro di lotta
politica, ma ha un'edificazione morale: vuole invitare i cuori nobili ad amare e
a non odiare alcun mortale. A differenza di Castromediano e Settembrini,
Pellico offre una testimonianza consolatoria, non denuncia le ingiustizie
patite nel carcere. Tuttavia “Le mie prigioni” influenzano in minima parte le
memorie di Castromediano, lontane dal genere patetico e sentimentale di
Pellico che diventerà nel secondo Ottocento molto diffuso. Ad esempio, in
entrambe le opere appare una figura femminile che porta conforto ai
prigionieri: nelle Memorie una giovane contadina, Carmela, viene vista
passare per strada, a Montefusco, da Castromediano e da altri prigionieri
attraverso strette finestre → episodio che può essere messo a confronto con
“Le mie prigioni” dove appaiono Maddalena e una caporalina Ungherese, due
giovani donne (la prima carcerata, la seconda gendarme). Ci sono altri esempi
di patetismo sentimentale, come il brano dell'usignolo che con i suoi
gorgheggi sembra voler lenire il dolore dei reclusi finché i carcerati infastiditi
non decidono di ucciderlo con un colpo d'arma da fuoco. O ancora: la
“passeretta” addestrata da Castromediano che ogni sera va a trovarlo spinta
dalla fame, finché anche essa viene uccisa.

➔ Più vicine allo spirito delle Memorie di Castromediano sono “Le ricordanze
della mia vita” di Luigi Settembrini, apparse a Napoli in 2 volumi nel
1879-80 con un'introduzione di Francesco De Sanctis. Settembrini e
Castromediano si incontrarono, in realtà, su una nave che doveva portarli
esuli in America e che poi verrà dirottata da Raffaele (il figlio di Settembrini)
in Irlanda. “Le Ricordanze” spingono il duca di Cavallino a riprendere le
Memorie: in una lettera a Silvio Spaventa nel 1881, le definisce “bellissime e
utilissime”; le loro opere sono vicine culturalmente, geograficamente,
storicamente e biograficamente. Il 1° volume delle “Ricordanze” è la
narrazione della vita dell'autore: dall'infanzia al collegio e all'università a
Napoli, fino all'adesione alla setta di Benedetto Musolino, il trasferimento a
Catanzaro per insegnare, e l'arresto nel 1837 fino alla reclusione nel carcere
della Vicaria per quindici mesi. La narrazione si interrompe con i tragici
eventi del'48 napoletano da cui parte Castromediano. Il 2° volume riguarda il
periodo1848-1860 (che è quello messo al centro anche dal duca nelle
Memorie), ma risulta molto frammentario: va dal processo della cospirazione
antiborbonica, alla condanna a morte poi tramutata in pena a trent'anni, poi
agli anni trascorsi nell'ergastolo di S.Stefano, all'esilio e infine alla
liberazione. Castromediano ha nei confronti del Settembrini una venerazione
assoluta e lo definisce suo maestro: nelle Memorie ricorda infatti, un suo
famoso testo, la “Protesta del popolo delle due Sicilie”, anche se nel Proemio
non manca di sottolineare le differenze tra la sua opera e quella del patriota
napoletano. Nel brano precisa, infatti:
- la diversità del trattamento, delle agevolazioni di cui Settembrini aveva
potuto godere nel carcere di Santo Stefano;
- inoltre, mentre Settembrini nel 1° volume racconta la storia della sua vita a
partire dalla sua fanciullezza, Castromediano nelle Memorie si concentra
esclusivamente sulle esperienze carcerarie;
- ancora, la lingua di Settembrini è piana e semplice mentre in
Castromediano è classicheggiante ed antiquata;
- Settembrini ha avuto a che fare con ambienti aperti culturalmente e
stimolanti come la scuola privata di Basilio Puoti, frequentata da De Sanctis;
mentre Castromediano studiò a Lecce presso i Gesuiti e nel suo palazzo
presso Cavallino con insegnanti privati e non si aprì mai alle correnti più vive
della cultura linguistica del suo tempo. Le memorie sono ricche di lucuzioni e
forme lessicali antiquate come “avvegnacchè” “acciò” “imperocchè” ecc.
Qualche parallelismo lo troviamo con il secondo libro delle Ricordanze che
comprende scritti autobiografici, lettere, pagine di diario, bozzetti ecc.: in
particolare possiamo stabilire dei rapporti precisi tra i capitoli delle memorie di
Castromediano dedicato alla descrizione delle varie carceri e il capitolo XV sui
Galeotti con lo scritto intitolato “l'ergastolo di Santo Stefano”, che è una denuncia
del modo in cui erano costretti a vivere i carcerati, in cui descrive il carcere
accuratamente e in cui si sofferma in particolar modo sulle storie degli
ergastolani( proprio come Castromediano). Sia nelle Memorie che nelle Ricordanze,
il fine è quello di testimoniare ai posteri i sacrifici, le sofferenze inflitte ai patrioti
per i loro nobili ideali.

➔ Un'altra opera, meno nota, con cui si possono istituire dei rapporti è
“Raffinamento della tirannide borbonica ossia i carcerati in
Montefusco” del calabrese Nicola Palermo, che venne pubblicata a puntate
sulla rivista “La Nazione” di Firenze nel 1860 e poi in un volume a Reggio
Calabria nel 1866. Palermo fu rinchiuso nelle stesse carceri e negli stessi anni
- dal 1851 al 1859 - in cui fu detenuto Castromediano, e venne liberato grazie
all'intervento di Raffaele Settembrini. Anche in questa opera, come nelle
Memorie, sono riportati i regolamenti del carcere, verbali, sentenze, elenchi
di prigionieri di cui Castromediano si servì, in quanto conosceva bene questo
libro (che cita, infatti, nel Proemio). Dopo aver ringraziato Nicola Palermo dei
dati ricevuti - che gli hanno permesso di ricordare fatti, circostanze e
soprattutto date cancellate dalla sua memoria - il patriota salentino, termina
parlando di divergenze. In una lettera da lui inviata alla baronessa torinese
Olimpia Rossi Sabio il 29 agosto 1860, infatti, si lamenta del fatto che
Palermo abbia descritto “alla meglio” le fasi della sua chiamata presso la
Prefettura di Polizia di Napoli durante la sua detenzione a Montefusco,
mentre Castromediano dedica un intero capitolo a questo devastante
episodio, intitolandolo “L'ora più perigliosa della mia vita”, che fa
riferimento alla richiesta di grazia che avrebbe rivolto al re Ferdinando di
Borbone, poi rivelatasi falsa. Quindi, nell'opera di Palermo pur essendo
rievocato questo episodio, non gli si dà il rilievo che il duca avrebbe voluto.
L'opera di Castromediamo si colloca nel filone della memorialistica
Risorgimentale di tema carcerario. La mettiamo a confronto con altri scritti
appartenenti a questo genere.

II Capitolo
Epopea risorgimentale nel sud: Sigismondo Castromediano e altri
memorialisti

Pur essendo una delle opere più importanti per la memorialistica ottocentesca,
Memorie “Carceri e galere politiche”, figura di rado nelle trattazioni dedicate a
questo specifico argomento. Questo è dipeso anche dalla rarità dei due volumi
(stampati da una tipografia leccese) che hanno avuto poca circolazione in ambito
nazionale. (- il primo volume viene stampato poco prima la morte dell'autore;
mentre il secondo subito dopo la sua morte, alla fine dell'Ottocento. Per questo si
deve merito alla stampa fotomeccanica realizzata in occasione del 150° anniversario
dell'Unità d'Italia, che è servita a far conoscere quest'opera.
La causa principale di questa “damnatio memoriae” che ha gravato sull'opera di
Castromediano e sulla figura stessa dell'autore, è l'emarginazione che vicende e
personaggi dell'Italia Meridionale hanno subìto e tuttora subiscono nei manuali,
nelle antologie, nei dizionari. Uno scrittore del '900, Vittorio Bodini, che ha avuto in
parte questa sorte, dice : “l'Italia ha una storia scritta unilateralmente,
secondo una prospettiva centro-settentrionale, così che una parte degli
italiani studia solo la storia degli altri senza sapere nulla della propria”.
Parole scritte nel 1952 a proposito dei fatti di Otranto del 1480, totalmente ignorati
dai manuali di storia. Ma se le memorie di Castromediano sono citate - sebbene con
inesattezze di vario genere - nei panorami della memorialistica ottocentesca, del
tutto assenti sono trattazioni di altri scritti che rievocano le stesse vicende trattate
dal duca di Cavallino:
– in primo luogo, il già citato “Raffinamento della tirannide borbonica
ossia I carcerati in Montefusco di Nicola Palermo;
– Antonio Garcea sotto i Borboni di Napoli e nelle rivoluzioni
d'Italia dal 1837 al 1862 → che ha come sottotitolo Racconto Storico,
pubblicato a Torino nel 1862, scritto da Giovannina Garcea Bertola, moglie di
Antonio Garcea che scrive sulla base dei ricordi del marito patriota calabrese;
– Lo scritto del brindisino Cesare Braico “Ricordi della galera” pubblicato a
Lecce nel 1881, figura nel volume “Lecce 1881”;
– Un libro di carattere storico “Ferdinando II e il suo regno” pubblicato a
Napoli nel 1884, di Nicola Nisco.
Tutti questi scritti, hanno in comune il fatto che, i loro autori, oltre ad essere stati
antiborbonici ed ad essere per questo condannati a trent'anni o più di carcere, siano
stati anche compagni di cella dal1848 al 1859 tra Napoli, Procida e Ischia e poi nelle
galere di Montefusco e Montesarchio, prima di essere liberati sulla nave che doveva
condurli in America.
Abbiamo già detto che tra i capolavori della memorialistica risorgimentale ci sono le
“Ricordanze della mia vita” di Luigi Settembrini, il quale scontò numerosi anni
di detenzione per cospirazione antiborbonica, non nelle galere citate, ma nel carcere
dell'isoletta di Santo Stefano. Anche lui ha qualcosa in comune con gli altri – suo
figlio Raffaele - che è il principale protagonista della liberazione dei patrioti.
Tutte queste opere non erano ignote a Castromediano, riconosce che le sue
Memorie erano state “precedute da quelle di Nicola Palermo e Luigi Settembrini”.
Di Antonio Garcea si limita a dire che sapeva che l'autore aveva iniziato la sua
opera, ma non se l'avesse portata a termine (erano previste altre due parti dopo il
primo volume uscito nel 1862, ma mai più uscite). Castromediano si sofferma molto
di più su Palermo (da lui definito “provato patriota calabrese”) e su Settembrini.
Ringrazia Palermo per avergli donato il suo libro, che gli ha permesso di ricordare
circostanze già cancellate dalla sua memoria ( nomi e date, in particolar modo), ma
rivendica la sua originalità affermando di raccontare quei fatti secondo il suo “modo
di concepire e giudicare”.
Il duca dimostra nei confronti di Settembrini, invece, una venerazione assoluta, lo
definisce un “maestro” anche se nel Proemio afferma di non avere “nulla in
comune” con lui, essendo stati rinchiusi in muri differenti e in condizioni carcerarie
molto diverse. Abbiamo già detto che identico era il loro scopo: raccomandare alla
posterità la giusta indignazione nei confronti di un governo malvagio.
Tutti gli scritti menzionati compongono un'epopea (risorgimentale del Sud),
termine usato per indicare sia le vicende gloriose di questo gruppo di patrioti
meridionali, sia per riferirsi all'insieme delle opere che narrano queste vicende.
Negli eventi narrati non mancano gli ingredienti che caratterizzano un'epopea:
eroismo, coraggio, sacrificio. Tuttavia i loro nomi sono stati dimenticati ( al
contrario di Pellico, Confalonieri, Pallavicino → i cosiddetti martiri dello Spielberg,
che figurano sempre nei libri di storia). Solo una scrittrice del '900, Anna Banti, ne
ha recuperato la memoria nel romanzo “Noi credevamo” (pubblicato nel 1967), che
sin dal titolo sottolinea la fede che animava questi uomini coraggiosi che
rinunciarono ad una vita priva di problemi per combattere per le proprie idee. Di
questo gruppo facevano parte uomini politici ed intellettuali, quasi la classe
dirigente del Reame, appartenenti a diverse classi sociali:
– Carlo Poerio → ministro liberale di Ferdinando II di Borbone
– Silvio Spaventa → pensatore e zio di Benedetto Croce
– Luigi Settembrini → futuro storico della letteratur italiana e rettore
dell'università di Napoli;
– Nicola Nisco → sarebbe diventato uno storico famoso;
– Nicola Schiavoni, Castromediano, Palermo, Garcea, Braico.
Palermo e Castromediano si limitano a rievocare il periodo vissuto nelle carceri e
galere borboniche (dal 1848 fino alla liberazione); il libro su Garcea parte dai primi
anni di vita e dalle successive esperienze ( un po' come Settembrini) fino ad arrivare
alla liberazione dei patrioti. Tutti questi scritti contengono descrizioni delle terribili
galere di Montefusco e Montesarchio, delle sofferenze quotidiane, angherie,
soprusi.
– Una descrizione che non manca mai è quella delle catene che a Montefusco
tenevano legati i prigionieri a due a due ( Palermo ritorna spesso su questo
terribile strumento di tortura quotidiano, ma anche la Bertola e
Castromediano, il quale scrive “deve flagellare irrequieta le gambe del
condannato...sempre...gliela tolgono solo quando è in agonia”).
– Garcea è uno dei protagonisti degli episodi più drammatici avvenuti a
Montefusco: flagellato per essersi lamentato della pessima qualità della zuppa
e del pane nero che veniva loro assegnato ogni giorno;
– un altro episodio riguarda Nicola Palermo, il cui padre, patriota, viene
accusato dalla Corte speciale di Napoli di aver portato messaggi segreti da un
figlio all'altro durante le visite fatte prima al fratello Nicodemo e poi a Nicola
stesso.
– L'episodio che riguarda Castromediano, è uno dei più noti del suo libro, e
riguarda la richiesta di grazia che egli avrebbe rivolto al re Ferdinando di
Borbone, poi rivelatasi falsa (insieme ad altri sei detenuti che invece l'avevano
rivolta per davvero). Il Duca intitolò questa vicenda ( dedicandole un intero
capitolo): “L'ora più perigliosa della mia vita”. Anche Palermo rievoca
questo episodio, ma il modo in cui lo fa non piace a Castromediano che se ne
lamenta in una lettera da lui inviata alla baronessa Olimpia Rossi Savio.
Molto più dettagliato è il suo racconto in cui descrive lo sgomento con cui
apprende la notizia che avrebbe dovuto essere trasferito a Napoli con gli altri
sei detenuti, proclamando con forza la propria innocenza. Egli, in realtà,
resiste ai tentativi che tutti fanno per convincerlo a chiedere la grazia. Il
momento più intenso è quello dell'interrogatorio a Napoli dal prefetto di
polizia, durante il quale non solo non accetta di chiedere la grazia ( in quanto
riteneva di non aver commesso nessun reato), ma rifiuta pure di rivelare il
nome dei giudici che lo avevano condannato.
– L'episodio che conclude l'epopea di questi patrioti meridionali è la liberazione
sulla nave che doveva condurli a New York. Nel gennaio del 1859, la pena
dell'ergastolo, viene commutata dal re Ferdinando in esilio perpetuo dal
Regno e dalla deportazione in America. Su questa nave riesce a salire,
spacciandosi per un cubano e offrendosi al comandante come cameriere, il
figlio di Luigi Settembrini, che viveva in Inghilterra ed era diventato ufficiale
della marina mercantile inglese. Dopo la resistenza del comandante, la nave
viene dirottata in Irlanda, dove approda nel porto di Queenstown.
Castromediano narra questo episodio come se fosse una fiction, ricca di
suspense: da un lato l'eroe, Raffaele; dall'altro il malvagio comandante,
Samuel Prentiss. La svolta avviene con il ritrovamento di una pallottola
( proveniente da una pistola di Raffaele) che viene portata al comandante, il
quale (credendo che tutti i patrioti siano armati) decide di dirottare la nave
verso l'Irlanda. Dopo lo sbarco a Queenstown, i patrioti meridionali furono
accolti dagli irlandesi e dagli inglesi con manifestazioni di simpatia e dopo
una breve permanenza ritornarono in Italia, dove continuarono ad
impegnarsi in vario modo per il loro paese.

III capitolo
Il “piu' leale tra noi”, la figura di Sigismondo Castromediano nel
romanzo di Anna Banti “Noi credevamo”

“NOI CREDEVAMO” è il titolo di un romanzo di Anna Banti che viene pubblicato


nel 1967 da Mondadori e ristampato tre volte: nello stesso anno presso Il Club Degli
Editori; nel 1969 viene stampato insieme ad “Artemisia”, l'opera più nota della
scrittrice, con il titolo complessivo di “Due storie” e con l'introduzione di Enzo
Siciliano; nel1978 esce da solo negli “Oscar” Mondadori con prefazione di Giulio
Cattaneo. Nel 2010 ricompare in questa collana con la postfazione del compianto
Siciliano, in seguito alla realizzazione del film omonimo che il regista Mario
Martone ha tratto recentemente dal romanzo (anche se il film di Martone
rappresentato nella 67° mostra cinematografica di Venezia del 2010 è molto
liberamente ispirato all'opera della Banti e quindi riconducibile solo in minima
parte ad essa. Noi credevamo è la storia di Domenico Lopresti, un avo dell'autrice
( il cui vero nome è appunto Lucia Lopresti), il quale narra in prima persona
episodi salienti della propria vita, tutta consacrata alla causa Risorgimentale. Il
libro è una sorta di autobiografia apocrifa,in cui la stessa Banti alterna realtà e
finzione e delinea il profilo di questo patriota, sul quale molto scarna è la
documentazione storica. Di Domenico Lopresti abbiamo alcune citazioni contenute
nelle “Memorie” di Sigismondo Castromediano, ma pochissimi riferimenti nei libri
di storici. Sappiamo che era nato a Pizzo di Catanzaro nel 1816 e che venne
condannato a trent'anni di ferri dalla Gran Corte speciale dell'Aquila il 14 giugno
1851, per attività antiborbonica. Dal 1851 al 1859 scontò la condanna nei bagni
penali di Procida Montefusco e Montesarchio (gli stessi in cui, negli stessi anni, fu
recluso il patriota salentino). Nel 1859 la pena gli fu commutata in esilio perpetuo
dal regno, e poi condonata. Dopo la liberazione, rischiò di cadere nelle mani della
polizia papale a Civitavecchia, ma riuscì a raggiungere Livorno minacciando di
buttarsi in mare. Venne inviato in Calabria nel 1860 per stringere accordi con i
comitati insurrezionali sorti per facilitare la marcia di Garibaldi. Lopresti morì a
Torino nel 1887. Questi dati biografici vengono forniti da Attilio Monaco. Altri dati
li ricaviamo da Palermo nell'opera “Raffinamento della tirannide borbonica,
ossia I Carcerati di Montefusco”: l'autore, infatti è stato uno dei detenuti nelle
carceri borboniche insieme a Castromediano, Lopresti, Nisco e Braico.
A questi dati biografici reali, la Banti aggiunge il resto, facendo di Lopresti un
indomito cospiratore che, ormai avanti negli anni e malato, ripensa agli episodi
della sua vita, manifestando profonda delusione per la sconfitta degli ideali per i
quali lui e quelli della sua generazione avevano combattuto.
Il romanzo s'inserisce nel filone narrativo del Risorgimento tradito, che conta tra i
nomi illustri quelli di Verga, De Roberto e Pirandello, nonché in quello della
memorialistica Risorgimentale che va da Settembrini a De Sanctis fino, appunto, a
Castromediano, Palermo ecc. Altri elementi che caratterizzano il protagonista
(probabilmente aggiunti dall'autrice) sono: l'affiliazione da giovane alla setta dei
“Figlioli della Giovane Italia” fondata da Benedetto Musolino e la partecipazione
alla disfatta Garibaldina dell'Aspromonte.
Una figura di un “rivoluzionario impenitente” come si definisce lo stesso Domenico
nel libro, repubblicano e “sincero democratico” (una sorta di Che Guevara dell'800,
tanto per citare uno dei più famosi rivoluzionari del nostro tempo, ucciso, guarda
caso, nel 1967 anno di pubblicazione del romanzo). La Banti in un'intervista
confessa di aver ricostruito la vita di questo suo antenato dalle lettere da lui inviate,
per altro, mai rintracciate. Ciò che è certo è che, la principale fonte storica, per le
parti relative alla prigionia di Domenico, è rappresentata dalle Memorie del duca di
Cavallino. In effetti nell'opera di Castromediano il nome di Domenico Lopresti
ricorre in quattro occasioni:
– nell'elenco dei prigionieri provenienti dal Bagno di Procida
– elenco di trenta detenuti che vengono trasferiti a Montesarchio
– in un brano in cui, con il nome sbagliato di Antonio, s' informa che era
rimasto nel carcere di Campobasso.
– in un passo in cui si hanno informazioni che coincidono con quelle date da
Palermo → “Lopresti, giovane ben educato colto e distinto, uscito dalla galera
fu detenuto per altri sette mesi nelle carceri malsane di Napoli tra stenti e
privazioni e corse il pericolo di perdere gli occhi”.
Se Lopresti ha un ruolo trascurabile nelle Memorie e il suo nome non compare
nemmeno una volta nelle lettere di Castromediano, quest'ultimo invece assume una
posizione centrale nella narrazione della Banti e diventa una sorta di deuteragonista
( secondo personaggio principale) del romanzo. Quale funzione svolge dal punto di
vista narratologico? Soffermiamoci sul romanzo e sulla figura del duca. Il primo
accenno a Castromediano riguarda l'intenzione, da lui manifestata già in carcere, di
stendere le proprie memorie: intenzione che secondo Lopresti è un compito molto
difficile, in quanto, a suo avviso, un memorialista non può essere sincero fino in
fondo. Più avanti Lopresti-Banti delinea il ritratto fisico e spirituale del duca di
Cavallino: viene rappresentato da un lato come un uomo onesto, leale, generoso
( caratteristiche messe sempre in rilievo da Lopresti); dall'altro delinea le sue idee
di moderato e di monarchico che lo dividono da Lopresti, che è di idee
democratiche e repubblicane. → molto importante dal punto di vista narratologico è
questa prima contrapposizione ideologica tra i due.
Il secondo aspetto narratologico molto importante è, in realtà, proprio il rapporto di
amicizia tra Castromediano e Lopresti, nonostante la diversità di vedute sulla lotta
risorgimentale. L'amicizia tra i due nasce non perché Lopresti gradisca la
compagnia degli aristocratici, ma proprio per le qualità del duca che in più
occasioni vengono sottolineate. Il suo spirito sinceramente democratico, anzi, gli fa
stigmatizzare quella divisione in classi tra i cinquanta detenuti anche in carcere, sia
a Procida come a Montefusco che a Montesarchio. Gli altri componenti di questo
gruppo “privilegiato” (i moderati) non gli ispirano simpatia ( a parte Carlo Poerio):
il barone Nisco è definito altezzoso; un altro, che preferisce non nominare, viene
addirittura schiaffeggiato da Lopresti. Nonostante l'amicizia sincera tra Lopresti e
Castromediano, permangono le differenze ideologiche: il primo repubblicano e
democratico, vorrebbe un programma di rivoluzione sociale ( per questo si sente
vicino a Mazzini, Musolino e Pisacane; il secondo moderato e monarchico apprezza
l'azione di Cavour e ha fiducia nell'alleanza di Napoleone III contro l'Austria
(respinge le idee Mazziniane, tanto che rifiuta di incontrarlo a Londra, restando
fedele ai Savoia).
L'episodio centrale del libro, quello più emozionante ( come pure in
Castromediano), è relativo alla richiesta di grazia da parte dei sei detenuti in cui è
coinvolto direttamente e indirettamente il duca, il quale parla di esso come de l'”ora
più perigliosa della sua vita”→ nel carcere di Montefusco nell'agosto del 1855 si
infiltrano degli agenti provocatori che cercano di convincere i detenuti a chiedere la
grazia al sovrano. Sei popolani accettano, e presto, in mezzo allo stupore generale,
tra quelli che avevano chiesto clemenza al re, si diffonde pure il nome del duca.
Questi protesta la sua estraneità a simile richiesta, ma viene condotto a Napoli con
gli altri sei. Un mese dopo, avendo confermato il suo proposito di aver rifiutato la
grazia, ritorna dai suoi compagni in carcere. Nell'invenzione romanzesca della
Banti, Domenico è colui che resta vicino a Castromediano nonostante i sospetti che
si addensano sul duca di essere un traditore, continua ad avere fiducia in lui e gli
manifesta tutta la sua solidarietà. Nella finzione narrativa della scrittrice, che non
ha riscontro nelle Memorie, Lopresti trascorre tutta la notte prima della partenza
del duca per Napoli accanto a lui, assistendolo mentre si agita e smania nel sonno.
All'alba Sigismondo vuole che sia proprio Domenico ad accompagnarlo all'uscita del
carcere. Tuttavia, Lopresti non può fare a meno di notare l'atteggiamento di
disprezzo e di condanna netta di Castromediano nei confronti dei sei che nelle
Memorie definisce appunto come “traditori”, e che invece Domenico cerca di
giustificare → da qui nasce il suo dissenso col “più degno”,
col “più leale” tra loro. L'ultima volta che Lopresti vede Castromediano in carcere
è quando questi lo informa della sfortunata impresa di Pisacane a Sapri, dove
ancora una volta emergono i contrasti ideologici tra i due: Castromediano se la
prende con Mazzini; Lopresti dà un'altra lettura al sacrificio di Pisacane, ritenendo
che stanco e convinto di essere rimasto solo, organizzò un suicidio che scuotesse gli
animi. L'ultimo incontro narrato nel libro è quello relativo a Torino ( capitale
d'Italia all'epoca): Lopresti viveva lì dopo essersi sposato; Castromediano era
deputato del Parlamento. Qui si sottolinea l'amicizia, la stima, ma ancora una volta
la differenza ideologica. Ormai entrambi, appaiono profondamente delusi dal corso
degli avvenimenti succedutesi all'unità d'Italia, in quanto gli ideali ai quali avevano
creduto (“Noi credevamo”) erano crollati e il sogno di un'Italia diversa era ormai
tramontato.

SECONDA PARTE: SCRITTORI E SCRITTRICI DEL NOVECENTO

I capitolo
Ada Negri e la “Rivista d'Italia

Un recente convegno internazionale di studi e il relativo volume degli Atti hanno


riproposto all'attenzione della critica la figura e l'opera di Ada Negri, dopo un
lungo periodo in cui il suo nome era stato del tutto dimenticato. Dai saggi è emersa
la forte presenza della scrittrice nella società letteraria italiana per oltre mezzo
secolo, che si rivela nella collaborazione con numerose riviste, tra le quali si ricorda
quella con “Rivista d'Italia” alla quale ha collaborato nel biennio 1918-19, entrando
anche a far parte del consiglio direttivo. Questo periodico fu fondato a Roma nel
1898 da Domenico Gnoli e venne acquistato nel 1917 da un avvocato bresciano,
Gian Luca Zanetti, che decise di spostare la sede della redazione a Milano per dare
ad essa un nuovo vigore dopo un periodo di forte decadenza. Il proprietario,
divenne direttore insieme ad Adolfo Omodeo, e nel dicembre dello stesso anno
nominò redattore unico lo scrittore Michele Saponaro ( trasferito da poco più di
tre anni nel capoluogo lombardo, dove aveva lavorato presso la Biblioteca di Brera).
Saponaro era nato a San Cesareo di Lecce nel 1885, aveva acquisito grande
notorietà grazie a un romanzo – La vigilia- apparso nel 1914, del quale era apparsa
su “La Stampa” di Torino una favorevole recensione di Luigi Ambrosini. Egli
promosse un rinnovamento della rivista invitando alla collaborazione alcuni
esponenti della cultura italiana, come: Benedetto Croce, Giovanni Gentile,
Luigi Einaudi ,Vittorio Pica. Tra i collaboratori non mancarono certo scrittori
illustri di quel periodo come Federico De Roberto, Luigi Pirandello, Marino
Moretti, Federigo Tozzi ecc. Saponaro modificò anche l'articolazione interna
della Rivista d'Italia: la prima parte comprendeva articoli di cultura generale
alternati a testi letterari; la seconda aveva un carattere informativo ed era basata su
varie rassegne relative alla letteratura all'arte, alla musica, al teatro alla politica ecc.;
la terza parte era costituita dal notiziario.
In meno di un mese il redattore riuscì ad allestire il primo fascicolo che conteneva
testi di scrittori come Panzini e Pirandello, di filologi e critici come Nicola
Zingarelli, di economisti, di scienziati. Su questo primo numero compare anche il
nome di Ada Negri che figura con due liriche “Nei giardini del silenzio” e
“Notte”. Fra la scrittrice di Lodi e Saponaro nacque un profondo sodalizio, come
dimostrano le 23 lettere che vanno dal 1918 al 1940 ( conservate nell'archivio
Saponaro, attualmente custodito nel dipartimento dell'Università del Salento). 18 di
esse risalgono al periodo in cui lo scrittore pugliese era alla redazione della Rivista
d'Italia e questo permette di capire l'intenso apporto di collaborazione che si stabilì
tra i due. Saponaro invitò subito la Negri a collaborare alla rivista e la scrittrice, a
sua volta, accettò la collaborazione con una lettera scritta il 2 gennaio 1918. In una
lettera del 4 marzo 1918 gli segnalò, inoltre, come possibile collaboratrice della
rivista il nome di Margherita Sarfatti: Saponaro accettò subito la proposta, che da lì
a qualche anno, nel 1922, avrebbe dato vita al cosiddetto Gruppo del '900.
Aanaloga operazione venne compiuta dalla scrittrice nella lettera del 18 aprile, nella
quale presentava il suo amico Clemente Rebora, il quale veniva descritto come
poeta d'avanguardia. Nel 1918 la scrittrice entrò a far parte del Consiglio direttivo e
da allora aumentarono le richieste di collaborazioni e pubblicazioni con lei. Nelle
missive erano presenti anche giudizi sui testi apparsi sulle pagine della Rivista, in
particolare su quelli del redattore, ma anche di altri collaboratori: giudizi sul
romanzo di Saponaro “La casa senza sole”, ad esempio, o sulla novella di Federigo
Tozzi “La sementa”. Preziose sono anche le informazioni, sia di carattere privato che
letterario, che la Negri nelle missive forniva al suo interlocutore. Sul piano
personale questi anni sono particolarmente travagliati: perde l'uomo amato e la
madre, venuta a mancare dopo una lunga malattia. Sul piano letterario è molto
intensa l'attività dell'autrice che pubblica: il volume di novelle “Le solitarie” nel
1917; nel 1918 “Le orazioni”; nel 1919 “Il libro di Mara” giudicato da B. Croce come
la sua opera più notevole. Prendiamo in esame i testi della Negri apparsi sulla
rivista. La scrittrice è presente in cinque numeri, dal primo fascicolo del 1918
all'ultimo dell'anno seguente, con cinque composizioni in versi e una novella: le
prime tutte accomunate dal contenuto luttuoso, ispirate ai tragici eventi che la
colpirono o al conflitto bellico.

“Nei giardini del silenzio” e “Notte” confluiscono nella raccolta “Il libro di
Mara”) rievocano la figura dell'amato scomparso improvvisamente. Nella prima
composta da quattro sestine di versi di varia misura, l'autrice immagina di
incontrarlo in uno spazio senza spazio e in un tempo senza tempo perché la sua
povera anima non può vivere senza di lui.
In “Notte” abbiamo un tono eloquente con frequenti iterazioni ( tipico di tutta la
produzione lirica della Negri) composta da due strofe, rispettivamente di 14 e 15
versi di varia misura dove ritorna il motivo della sua ansiosa ricerca d'amore in un'
atmosfera panica e notturna.
“L'adolescente” e “Ritorno per il dolce natale” entrati a far parte della raccolta dei
“Canti dell'isola” (1925), sono ispirati alla guerra e ai dolori che provoca nelle
famiglie. In entrambe compare la figura del soldato: nella prima, morto; nella
seconda, ferito gravemente. Ne “L'adolescente”, divisa in due parti composte da
tre strofe ciascuna, l'autrice rievoca l'idillio campestre di un giovane, con una
fanciulla “bizzarra” chiamata da egli “streghetta” invitandola a cantare. Nella
seconda parte la campagna che vede i giovani spensierati e felici si trasforma in un
teatro macabro con il corpo del soldato senza vita steso per terra e senza più il canto
dell'innamorata. “Ritorno per il dolce natale” è una composizione in distici di
versi lunghi a rima baciata che descrive il ritorno a casa del soldato ferito il giorno
di natale. Accolto dai genitori e dalla sorella, si reca con essi ad assistere alla messa
di mezzanotte e al momento del “Gloria” si toglie l'elmetto scoprendo la ferita in
mezzo alla fronte.
L'ultima poesia della Negri, apparsa sulla rivista d'Italia e che figura anch'essa nella
raccolta “I canti dell'Isola”, è “La fronte”: composta da 8 quartine di ottonari,
novenari e decasillabi; è dedicata alla madre morta qualche mese prima. In questa
lirica l'autrice individua sulla fronte, appunto, della madre quasi il simbolo della sua
forza d'animo e del suo coraggio . La notte in cui muore sembra che tutto il
firmamento partecipi al tragico evento e madre da lei definita “Sempre vivente” non
muore veramente, ma se ne va verso la “vita durabile”
L'unica novella della Negri apparsa sulla Rivista d'Italia, che entra a far parte del
volume “Finestre alte” del 1923, è “Fanetta e il suo bambino”: tratta un altro
dei temi ricorrenti nella sua opera, quello della maternità. Racconta di una giovane,
un'umile serva incinta, Fanetta, che viene assunta a Milano da una vedova senza
figli (signora Toschi). Quando quest'ultima scopre che la giovane è incinta, le
promette di continuare a tenerla a condizione di lasciare il bambino nel brefotrofio.
Fanetta, tuttavia, decide di diventare madre; viene licenziata, ma la gioia di essere
madre supera qualsiasi ostacolo.
Nel 1918 Saponaro dedica alla Negri un profilo nella rubrica “Gli uomini
dell'Italia odierna”, in cui apparvero numerosi ritratti di artisti e letterati, ma
anche scienziati, politici e giuristi. Il primo profilo era stato quello di Gabriele
D'Annunzio curato da Ettore Jianni; seguito da Benedetto Croce di Cecchi; Luigi
Einaudi e Soffici di Prezzolini;Giuseppe Antonio Borgese di Tonelli; Giolitti di
Barbagallo. Il profilo della Negri venne affidato a Paolo Buzzi, che aveva seguito
costantemente la sua attività letteraria. Nello scritto Buzzi passa in rassegna le
prime 5 raccolte di versi della scrittrice, da “Fatalità all'Esilio “ e i primi due libri in
prosa “I solitari” e “Le orazioni”. L'autore le riconosce autonomia dai grandi
modelli dell''800 (Carducci, D'Annunzio, e Pascoli) e la considera una “antesignana
senza diabolismi del movimento futurista inteso come liberazione della lirica
italiana dai pesi concettuali e fonici della tradizione magnate”. “Fatalità” del 1892 è
la prima raccolta di versi ed è definita da Buzzi “un poema psichico.” Una psiche
generale dell'epoca, portata riconoscere e trovare un miglior sentiero umano ai
lavoratori. “Tempeste” 1895 accentua la sinfonia psichica di note violente; poi
“Maternità” 1904; “Dal profondo” 1910 è il culmine della Negri di chiarezza di
autoascolto e forza di espressione. In “Esilio” 1914 la Negri attinge sentimento e
melodia all'inesauribile pozzo dell'autobiografia quotidiana.
Buzzi, da militante futurista e alquanto eclettico nelle sue scelte tematiche e
metriche, guarda con interesse le prove in verso libero della Negri e riporta la
risposta della Negri alla famosa “Inchiesta” di Marinetti su “Poesia”: “Quando il
poeta è veramente poeta, cioè creatore, crea da se stesso la veste ritmica del suo
pensiero”. Su “Il libro di Mara”, Buzzi dedica nella Rivista d'Italia una recensione
nella quale afferma che questo, secondo lui, è il capolavoro di Ada Negri, la quale
ha affrontato con successo la battaglia del verso libero. Nel 1920 Saponaro per
divergenze interne con la Direzione, abbandonò l'incarico di redattore unico della
rivista, e da allora, anche il nome di Ada Negri non figurò più sulle pagine del
periodico milanese, a dimostrazione che la sua collaborazione era collegata
all'amicizia con lo scrittore pugliese.

II capitolo
Un romanzo di formazione: “Il fiore dell'amicizia” di Vittorio Bodini

Il fiore dell'amicizia compare per la prima volta sulla rivista “Sud Puglia.Rassegna
trimestrale della banca popolare Sud Puglia di Matino” a cura e con introduzione di
Donato Valli, a cui Antonella( Ninetta) Minelli, la vedova di Bodini, aveva affidato il
manoscritto del romanzo rimasto incompiuto e privo di titolo, per la pubblicazione.
Nel 1985 insieme ad altri scritti di Bodini e a pagine critiche di Oreste Macrì e di
Valli, fu raccolto un volume intitolato “Prose inedite di Vittorio Bodini” che
inaugurava la collana “Conto aperto” presso l'Editrice Salentina di Galatina.
Nei primi anni '80 non si sapeva molto riguardo l'opera bodiniana, in particolar
modo su quella in prosa, rimasta dispersa tra quotidiani e riviste; si sapeva poco
anche della sua vita, dei suoi spostamenti e delle fasi della sua attività letteraria.
Nel 1970, due anni dopo la morte, nella collana Lo specchio di Mondadori appare il
volume Poesie 1939 -1970 con un' Introduzione di Macrì. Nel dicembre del 1980, a
dieci anni dalla sua scomparsa, si svolge un importante Convegno di studi tra le
università di Roma, Bari e Lecce, in cui apparve nell'edizione “All'insegna del pesce
d'oro”, il volumetto “La lobbia di Masoliver e altri racconti” , nel quale venivano
raccolte per la prima volta, alcune prove narrative di Bodini, a cura di Paolo
Chiarini. Un contributo importante per la conoscenza d questo autore, viene
rappresentato dall'Introduzione che Macrì scrive di “Tutte le poesie”(1932-1970),
nella quale il critico distingueva sei diverse fasi dell'attività letteraria del
poeta.Dunque, noi sappiamo che Bodini arriva in Spagna nel novembre del 1946
come dimostrano i reportage del Corriere Spagnolo, in cui l'autore descrive,
appunto, l'esplorazione di questo paese straniero; ma Valli riprendendo la
distinzione di Macrì, sostiene che il Fiore dell'amicizia per dati interni ed esterni
può essere attribuito alla prima fase dell'esperienza madrilegna- romana (fine
1946,inizio 1947). In realtà, quasi sicuramente, lo scrittore comincia il Fiore
dell'amicizia tra il 1942-'44 a Lecce, dove, ritornato dopo la laurea conseguita a
Firenze nel 1940, ebbe l'incarico di supplente di Italiano e Latino presso il locale
liceo scientifico “De Giorgi”, dopo aver insegnato per un anno al Liceo Classico
“Colonna” di galatina.
A questa esperienza di insegnamento l'io narrante fa riferimento nelle prime righe
del romanzo fornendo ai lettori un'informazione precisa sul suo lavoro di
insegnante nella città dove si svolgono le vicende narrate. E' un'opera a carattere
prettamente autobiografico, per cui vi è una relazione di identità fra autore
narratore e personaggio principale (che si chiama, infatti, proprio Vittorio).
Probabilmente continua la stesura del romanzo a Roma dove si trasferisce tra il
1944 e il 1946.In Spagna ci resta tre anni e nell'aprile del '49, tornato
definitivamente in Italia, non ebbe più tempo e voglia di terminarlo. Ma ad un certo
punto il genere delle scritture autobiografiche si fonde con il genere del
romanzo di formazione, il Bildungsroman: viene sviluppata una narrazione
dell'io nei modi e nelle caratteristiche del romanzo di formazione.
Il “Fiore dell'amicizia”, infatti, delinea l'evoluzione del personaggio protagonista
Vittorio, verso un periodo particolare della sua vita che va dai 18 ai 19 anni, anche se
non mancano flashback relativi ad anni precedenti. Una continuazione di esso si
può considerare “Il gobbo Rosario” scritto qualche anno dopo. Il tema in comune è
il trasferimento del personaggio principale, per motivi di studio, dal luogo natio in
un'altra città dove continua la sua formazione. Il personaggio fa il suo ingresso nella
vita attraverso riti di passaggio: ribellione nei confronti della scuola e della famiglia,
inserimento nel gruppo di amici, iniziazione al sesso, relazioni sentimentali.
Gli amici, Carmine e Albertino, un po' più grandi di lui, hanno la funzione di guida
che sostituisce la figura paterna. Gli insegnano a fare molte cose: come rubare i
frutti nelle campagne; come comportarsi con le donne; come assicurarsi un futuro
tranquillo con un buon matrimonio. Queste esperienze permettono al narratore-
protagonista di conoscere meglio se stesso. Non è un caso che ”Il fiore dell'amicizia”
parta proprio con l'evento che rappresenta la rottura dell'equilibrio nella vita di
Vittorio: l'espulsione da tutte le scuole del regno (come avvenne realmente l'ultimo
anno del liceo per Bodini); il conflitto che ne deriva con la famiglia e con la madre
(soprattutto) . Fa parte della progressiva conoscenza di sé, anche la scoperta della
propria vocazione letteraria:Albertino rivela a Nelly (prostituta con la quale Vittorio
intreccia un'effimera relazione) che l'amico è “romanticissimo e scrive persino delle
poesie”. Già in qualche pagina prima aveva rivelato lui stesso di essere avido di
romanzi che leggeva di notte, e alla finestra mentre calava la sera, poesie di Pascoli e
D'Annunzio). Questa esplorazione di sé si intreccia con quella della propria città,
verso la quale manifesta apertamente avversione. A Lecce, infatti, Vittorio (proprio
come Stephen Dedalus a Dublino (Joyce)), si sente imprigionato e non vede l'ora di
fuggire. La città viene descritta in modo realistico con divagazioni su luoghi e
ambienti particolari che compongono, però, una topografia limitata. Non fa accenni
al Barocco, l'anima segreta di Lecce, ma compare l'immagine del vuoto che è la
rappresentazione del Barocco (horror vacui) secondo Bodini.
Valli, poi, mette in rilievo rapporti con poesie e punti di contatto tra racconti e prose
poi raccolti in Barocco del Sud. Ci sono dei personaggi che appaiono anche in opere
successive, come la figura dello zio Giovanni, che ritorna nel racconto “Il giro delle
mura “ con il nome di zio Antonino; anche la figura del gobbo ritorna nel racconto
“Il gobbo Rosario” scritto tra il 1948 e 1949. Tra i motivi presenti, quello del
paesaggio che spicca: “l'immagine del cielo che schiaccia gli alberi e le siepi di fichi
d'india” → ritorna in “Pitagora è uno di queste parti”, dove c'è la rappresentazione
metafisica del paesaggio salentino tra essere e non essere, tra terra e cielo; compare
pure in “Barocco del Sud”. Sono messe in rilievo anche alcune caratteristiche dei
leccesi: la mania del pettegolezzo, tipica dei leccesi, diventa nel “Gobbo Rosario”
l'indole dei suoi concittadini; non mancano critiche di Bodini ai salentini accusati
di pigrizia nei confronti dei proprietari terrieri che si lasciano portare via dai
milanesi il vino (polemica affrontata nella prosa “Squinzano, vino a Milano”; altro
motivo polemico è la mancanza dello Stato dal Sud (e il tema della separatezza del
Meridione dal resto della nazione ritorna nella Luna dei Borboni e nella prosa La
Puglia contro Pietro Micca. Certe immagini ritorneranno, poi, oltre che nelle
poesie, anche nelle prose: si veda l'immagine ricorrente dei carri e dei carrettieri
( che si trova in “Flamenco” in cui il canto dei carrettieri salentini costituisce
l'analogia tra il popolo meridionale e quello spagnolo). In questa prosa compaiono
anche: l'immagine del caldo che tormenta le notti leccesi; l'immagine delle statue di
cartapesta (che si ritrova nel racconto “La morte fatta in casa” e nella prosa “Il
paradiso di Cartapesta”) ; l'immagine delle processioni del Venerdì Santo con la
statua di Cristo morto che si tengono in città, ritorna in “Cristo sull'Escorial”;
l'immagine delle madri che si precipitano a prendere i figli dalle strade si ritrova in
“Torero per grazia di Dio”; l'immagine delle case dipinte di bianco è un simbolo del
sud bodiniano che compare nelle “Foglie di tabacco”.

III capitolo
“Respiro dell'Adriatico”: i reportage della Puglia di Anna Maria Ortese

Anna Maria Ortese ha svolto un' attività giornalistica molto importante e intensa,
avendo collaborato a numerosi quotidiani e periodici. Una parte di questa
produzione, costituita dagli scritti di viaggio, è stata raccolta nel volume “La lente
scura” apparso nella sua edizione definitiva nel 2004. Tra i vari reportage che ha
scritto ricordiamo: quelli dalla Russia del 1954 o da Parigi del 1960, ma anche
Sicilia, Milano, Roma, Napoli ecc. La Prefazione del libro la “Lente scura” è
significativa perché ci introduce ai reportage in Puglia e alla vita da viaggiatrice.
Il periodo di maggiore attività giornalistica è stato dal 1948 al 1952, anni in cui la
Ortese abbandona Napoli (dove tornerà spesso) e si trasferisce a Milano (dove vivrà
fino al 1958) . Il periodo dal 1948 al 1952 è il più florido per la sua attività
giornalistica. Nel 1951 visita la Puglia. Nel periodo milanese collabora a testate
prestigiose come: il “Mondo” di Pannunzio, “Milano-sera”, “Oggi”, il “Nuovo
Corriere”, “Noi donne” ecc. (quest'ultimo è l'organo ufficiale dell'Unione Donne
Italiane, del movimento di sinistra delle donne). Proprio grazie a “Noi donne” si
reca in Puglia e svolge un'indagine sulle condizioni di lavoro delle tabacchine ( ruolo
che ha caratterizzato la storia della produzione salentina del Novecento in campo
agricolo). Da questo viaggio derivano 3 reportage: due sul Gargano e uno in Salento,
dedicati all'universo femminile in Puglia. “Queste colline” è il brano iniziale di un
articolo del 1949 che descrive lo stato d'animo della scrittrice all'arrivo in treno a
Napoli, nel corso di uno dei tanti spostamenti ma che fa capire il senso del viaggio
nel Sud in quegli anni, che non era solo un viaggio nello spazio ma anche, a ritroso
nel tempo. Infatti scrive: “I treni che dal Nord scendono oltrepassando Roma
rallentano, e il viaggiatore... nota che gli anni non muovono verso il futuro ma nel
passato: Scendere nel sud... è fare un viaggio indietro nel tempo.” La Puglia emerge
come una terra dimenticata, arretrata, i cui uomini umili e gli indifesi vivono una
vita-non vita, priva di prospettive. Negli anni del dopoguerra la scrittrice vede la
realtà tramite la “lente scura” della malinconia e della protesta.
Ma veniamo ai tre reportage:

1. Il primo reportage che appare su “Noi donne” è intitolato “Nel dominio


del tabacco”: in primo piano, il paesaggio pugliese definito come uno dei
paesaggi stupefacenti della penisola. Il cielo le sembra sconfinato. La sera che
giunge a Lecce, le sembra una piccola Cuzco (l'antica capitale inca del Perù),
famosa per le chiese e monumenti barocchi. E non si può non pensare a
Vittorio Bodini e all'espressione che usa proprio a proposito del barocco
leccese nella prosa intitolata Barocco del Sud uscita nel 1950 un anno prima
del reportage dell'Ortese “quel senso di lontananza che spesso vi prende ha
nomi geografici: “Spagna, Messico”. Ma la Ortese definisce Lecce una “città di
confine sulle soglie di un mondo nero”, nero come i vestiti e gli occhi delle
donne che incontra, ma anche per la tragicità e mancanza di speranza. A farle
da guida è una donna realmente esistita, Cristina Conchiglia, sindacalista
combattiva di sinistra che diventò deputato del Partito comunista italiano. La
donna, mentre visitavano il Capo di Leuca (dove si svolgeva il lavoro delle
tabacchine) fornisce alla scrittrice i dati della situazione: 40.000 tabacchine
con un salario di 250 lire al giorno. La prima tappa è Alessano, dove la
scrittrice viene colpita da una bambina di 8 anni, Rita Colaci che aiutava le
donne a infilare le foglie di tabacco. Queste donne lavoravano in condizioni
igieniche a livelli disumani. Dopo una sosta a Montesardo, giunge a Gagliano
del Capo, la tappa conclusiva del viaggio. Qui la sua attenzione è attirata da
una giovane ragazza che lavora il tabacco in un magazzino. E anche qui non si
può non pensare a Bodini, il quale scrisse una poesia ambientata a Leuca,
Finibusterrae tratta da Dopo la luna. Nel Dominio del tabacco c'è, dunque,
la volontà di recare una testimonianza sulle situazioni di disagio sociale,
secondo una tendenza tipica del neorealismo, attraverso una precisa e
obiettiva documentazione.

2. Il secondo reportage: “Respiro dell'Adriatico”, il più breve tra i tre


pezzi, appare sul “Corriere di Napoli” nel 1951. Inizia con l'arrivo sul Gargano
e con una sensazione di smarrimento a contatto con questa terra. I ragazzi le
vengono incontro a Vieste, i luoghi sono isolati così come la gente, e pieni di
solitudine. A Peschici incomincia a provare una strana paura che non ha un
oggetto preciso e fugge, ritornando di notte verso Rodi. Qui il mare,
personificato, diventa simbolo di vita che la libera dell'angoscia.

3. Il terzo reportage: “Terra dimenticata” esce per la prima volta su “Noi


donne” il 4 novembre 1951 . Nel 1952 fu ripubblicato sul “Corriere di
Napoli”(con il titolo Paradiso sul Gargano) e poi sulla rivista “Milano-
Sera”( con il titolo Oltre l'isola dei coatti qualcuno ha chiamato). I primi due
titoli “Terra dimenticata” e “Paradiso sul Gargano” costituiscono un ossimoro
(frequente figura retorica nei brani della Ortese). Emerge chiaro il contrasto
tra la condizione degli abitanti, la loro miseria e il loro isolamento dal resto
del mondo e l'incanto dei luoghi. A Peschici, dove ritorna dopo un giorno,
resta ancora una volta abbagliata dalla bellezza del paesaggio; ma anche qui,
subito dopo, la riflessione sulle arretrate condizioni di vita degli abitanti della
cittadina. Si ferma a mangiare in una locanda dove conosce la proprietaria,
una ex presidente delle Dame cattoliche che vantava la bellezza di
Peschici ,come le tre chiese, l'asilo, l'ambulatorio, e non dava importanza alla
situazione sociale. Dopo questo incontro, sempre insieme al suo fotografo, la
Ortese visita le case-grotte sulla collina. Qui, tra i ragazzi che la seguivano la
colpisce la figura di un'altra ragazza, Maria di Mele, dalla testa rapata la quale
chiede loro insistentemente una fotografia. Un episodio emblematico del
disperato desiderio della gente del Gargano di legarsi a qualcosa.

IV capitolo
Tra realismo e sperimentalismo: per una rilettura del romanzo “La
malapianta” di Rina Durante

Rina Durante fa parte della schiera di scrittrici del secondo '900 che hanno dato un
notevole contributo alla narrativa italiana, ma in campo nazionale non è conosciuta
come meriterebbe. Scrive varie opere: racconti, testi teatrali, sceneggiature
cinematografiche, testi a metà tra narrazione e saggio antropologico. Degno di nota
è il suo unico romanzo: “LA MALAPIANTA”. Nasce a Melendugno, nel 1928 e
trascorre la sua infanzia a Saseno (avamposto dell'esercito italiano in Albania) per
motivi di lavoro del padre, sottufficiale di marina. Si iscrive all'università di Bari e si
laurea in lettere. Pubblica la sua prima raccolta di poesie “Il tempo non trascorre
invano”. Rientrata in Salento si inserisce nell'ambiente intellettuale del capoluogo e
allaccia rapporti più o meno duraturi con Bodini, Macrì, Mario Marti. Nel 1964
pubblica il suo unico romanzo “La malapianta” con cui vince il premio Salento 1964.
Tra il 1967 e il 1970 insegna a Roma e inizia a interessarsi alla cultura popolare. Una
volta tornata a Lecce, svolge numerose inchieste sul campo, alla riscoperta del
tarantismo e alla valorizzazione del griko e delle tradizioni etno-culturali. Pubblica
“Tutto il teatro a Malandrino” e il radiogramma “Il sacco di Otranto”( incentrati
sull'assedio di Otranto e Roca da parte dei turchi). Dagli anni '80 si dedica
all'approfondimento della cultura salentina popolare. Svolge un'intensa attività
giornalistica per anni ed segretaria regionale pugliese del Sindacato Nazionale
Scrittori. Muore la notte di Natale del 2004.
La Malapianta è ambientato nel Salento e in particolare in un'area geografica che
comprende tre piccoli comuni: Melendugno, Cannole e Calimera. Narra la storia
della famiglia Ardito, composta da Teta e Rosa e dai loro rispettivi figli, in un arco di
tempo che va dalla fine degli anni trenta fino alla fine del fascismo. Il romanzo
inizia quando Niceta(Teta) Ardito, contadino di Melendugno rimasto vedovo con sei
figli, si reca a Cannole per chiedere a Rosa di sposarlo (anche lei vedova, con tre figli
avuti dal massaro Nino, morto affogato in uno stagno). Questa accetta la proposta e
va a vivere con lui. Ciccio il più piccolo dei figli di Teta, muore a causa di una
malattia; Giulia figlia di Teta viene violentata e messa incinta da Antonio, figlio di
Rosa, che poi morirà in guerra. Marta, altra figlia di Teta, viene messa a servizio in
casa della signora Caroli che si uccide quando scopre la relazione di suo marito,
don Armando (segretario del fascio), con Giulia. Gino, figlio di Rosa, a causa di una
avventurosa fuga in bicicletta, ritorna dalla guerra con disturbi mentali e va alla
ricerca di Seggiòla, una donna ormai sposata, della quale si era innamorato prima di
partire. Rosa, intanto, rimane incinta di nuovo da Teta ed è costretta a crescere oltre
a suo figlio, anche il nipote (figlio di Giulia). Teta svolge lavori illeciti: fa il pescatore
di frodo e spaccia banconote false, per questo rinchiuso nel carcere di Lecce.
Un romanzo che, di primo acchito, fa pensare ad uno stile neorealista:
ambientazione meridionale; scelta di personaggi appartenenti a classi subalterne;
arretratezza delle condizioni di vita; precise coordinate storico geografiche. Ma nel
1964 il contesto storico-letterario italiano era diverso da quello del dopoguerra e dei
primi anni '50 nei quali sorge e si sviluppa il neorealismo: era il periodo del boom
economico, dell'industrializzazione del paese, di un diffuso benessere. Nel campo
letterario si era affacciato il tema dello sperimentalismo come dimostra “Il Menabò”
di Vittorini; Italo Calvino aveva affrontato il rapporto letteratura- industria. Se “La
malapianta” fosse un romanzo neorealista tout court, sarebbe piuttosto attardato
rispetto ai tempi. Ma non è così. Nel 1961 la Durante aveva mandato un
dattiloscritto, con la prima stesura del romanzo (composto tra fine anni '50 e inizio
degli anni '60) a Vittorini. Vittorini rispose con una lettera in cui spiegava di non
credere più nel romanzo di argomento meridionale e che bisognava trovare
argomenti meno datati. Tuttavia ne apprezzava il linguaggio definendolo fresco e
vivace nello stile. La Durante rimase sorpresa da questa risposta e avviò una
revisione del romanzo. Non è possibile mettere a confronto le diverse stesure del
romanzo ma dall'unico testimone che abbiamo, capiamo che ha modificato almeno
in parte l'impianto del romanzo andando oltre il neorealismo continuando, però, a
credere nel romanzo meridionale ( come dimostra l'ambientazione dell'opera).
Le tematiche non sono di natura sociale: la fame e la miseria esistono, ma non è su
queste che la scrittrice punta la sua attenzione.
I personaggi sono dilaniati, piuttosto, da un disagio esistenziale che condiziona le
loro esistenze: solitudine, inettitudine, aridità interiore che accomuna tutti. Teta è
incapace di comunicare con i figli, vorrebbe comunicare con loro, ma non ci riesce;
Rosa è immersa nella solitudine, nel silenzio anche lei è incapace di comunicare con
i figli, ma è l'unico personaggio che riesce a provare un sentimento d'amore per
Teta. Il personaggio che incarna l'aridità interiore è Giulia, quasi lo stigma degli
Ardito che sembra aver avuto in eredità dal padre la difficoltà di relazionarsi: con
Antonio subisce passivamente prima l'approccio e poi la violenza sessuale, e con
don Armando vive senza amore. Anche Marta, sorella di Giulia, soffre di una vera e
propria malattia: l alienazione (incapacità di avere un rapporto concreto con la
realtà, perciò simile anch'ella al padre). Anche gli altri personaggi vivono una
condizione di disagio esistenziale e di solitudine. La rappresentazione del paesaggio
è di tipo espressionistico ed è funzionale alla caratterizzazione dei personaggi: della
campagna salentina viene messa in rilievo l'aridità e lo squallore, che sono il
correlativo oggettivo dei sentimenti. Queste, dunque, le tematiche prevalenti del
romanzo, tipiche del romanzo modernista del Novecento, di estrema attualità negli
anni '60, sia nel campo letterario che cinematografico. Basti pensare a “La noia” di
Moravia e a registi come Michelangelo Antonioni e lo svedese Ingmar Bergman. La
maggior parte dei film di Bergman sono caratterizzati dalla solitudine dell'uomo,
dalla difficoltà della vita di relazione oltre che da un'inquietudine religiosa ( che
però è del tutto assente nel romanzo): si ricordi “Come in uno specchio”, “Il
silenzio”. La trilogia dell'incomunicabilità del regista italiano, invece, comprende tre
film usciti tra il 1960 e 1962: “L'avventura”, “La notte” e “L'eclisse”.L'originalità
della Durante sta nell'aver trasferito queste tematiche dalla classe borghese a quella
contadina del sud, si allontana, dunque, dai modi del neorealismo anche per la
tecnica narrativa usata. Il romanzo è formato da accostamenti di vari tasselli che
sono costituiti da nuclei di racconti effettuati secondo le diverse prospettive dei
personaggi. Questi tasselli sono collegati in modo molto labile tra di loro e di solito
coincidono con segmenti narrativi corrispondenti a vari capitoli o a paragrafi
separati da spazi bianchi. In alcuni casi sono dei racconti . Questa tecnica di
rappresentazione frammentaria è la caratteristica del romanzo modernista.
Frequenti sono i monologhi interiori che sfiorano il flusso di coscienza, il discorso
indiretto libero è sovrano. Dal linguaggio filmico Durante deriva “l'inquadratura
soggettiva”, che permette allo spettatore di vedere il punto di vista del personaggio
tramite l'inquadratura di ciò che esso vede. Lo stile oscilla tra due tendenze: da un
lato, uno stile più sobrio, quasi spoglio; dall'altra un maggiore grado di letterarietà.
Il primo stile è presente soprattutto nelle parti dialogiche asciutte ed essenziali, ed è
influenzato da Pavese e Vittorini. Il secondo caratterizza le descrizioni
paesaggistiche di tono lirico, ricche di similitudini e analogie, in cui si nota
l'influenza della prosa d'arte novecentesca. A livello lessicale spiccano alcuni
termini dialettali, a volte adattati alla lingua italiana: “fore”(campagna) ,“stuppa”
(gioco con le carte), “menze”, recipienti di terracotta o di rame) ecc... I termini
dialettali hanno una valenza decorativa e non sono mai usati in maniera mimetica,
cioè per caratterizzare ambienti e personaggi. “LA MALAPIANTA” si allontana dai
canoni neorealistici e si avvicina a forme moderne e sperimentali di narrativa.

V capitolo
“Lu senzu de la vita”: la poesia “filosofica” in dialetto di Nicola G. De
Donno

Tanti sono i nomi dei figli illustri di Maglie ma tra essi, non è esagerato dirlo,
primeggia quello del professor Nicola De Donno (Maglie, 21/3/1920 – 7/3/2004).
Studioso di memorie patrie, letterato e poeta, docente prima e preside poi del Liceo
“F. Capece” di Maglie, fu nel secondo Novecento protagonista indiscusso dei
fermenti culturali salentini distinguendosi, in particolare, nell’ambito del
componimento poetico in lingua dialettale. Donato Valli, professore di Letteratura
Italiana moderna e contemporanea presso l’ateneo leccese, scrisse che Nicola De
Donno, con i suoi oltre millecinquecento componimenti, fu uno dei più densi e
prolifici poeti dialettali del Novecento italiano. La vita di De Donno è segnata da due
grandi lutti che accentuano il nichilismo espresso nei versi: la morte nel 1992 del
figlio Luigi e la morte dell'editore e suo amico milanese Vanni Scheiwiller ,che aveva
pubblicato quattro dei suoi libri in versi. Nell'opera Filosofannu?, che nasce da un
dialogo epistolare con uno studioso salentino, Antonio Mangione, il poetare di De
Donno diviene un poetare-filosofare o un pensiero poetante (per riprendere il titolo
di un noto libro su Leopardi di Antonio Prete) collocandosi nella linea
che da Leopardi arriva a Montale. Questa predilezione per la poesia di pensiero si
spiega anche con le personali esperienze umane: si era laureato in Filosofia
all'università di Pisa con una tesi dal titolo: “La critica della ragione di Biagio
Pascal”. Sempre di tipo filosofico fu il suo primo impegno, in quanto Luigi Russo gli
aveva affidato la cura della sezione filosofica della sua rivista appena fondata,
“Belfagor”; inoltre pubblicò molti saggi su Pascal e Bergson. “Filosofare”, anzi
“Filosofannu” per riprendere i versi della poesia di De Donno, vuol dire “amore
della saggezza”, del sapere del nostro essere qui ed ora (hic et nunc).
Partiamo da “Palore” che si ricollega all'opera “Lu sensu de la vita”, di cui riprende
la sconsolata visione dell'esistenza umana, sulla quale incombe l'ombra della morte(
vista come l'unica certezza gli uomini hanno, la più autentica dimensione
dell'esserci).
Nel sonetto “Ca chiamamu vita”, viene, ancora di più, messa in rilievo l'immagine
della morte che tiene per mano il poeta appena nato, insieme alla madre, sulla cieca
strada della vita (la vita si configura come autopreparazione alla morte). Il tempo
non è un motivo di nostalgia, ma ci conduce sempre di più a quel fatale momento: la
presunzione umana e il desiderio di grandezza e di immortalità, vengono derisi. Il
motivo dell'infinita piccolezza dell'uomo si colloca nel filone “cosmico” della poesia,
sviluppato da Leopardi, Pascoli e Montale, per cui in certi momenti il pensiero del
nulla diventa così forte da far desiderare la morte. Anche la poesia non può che
soccombere davanti alla grande potenza del nulla.
Nella raccolta “Palore”, ciò che colpisce è che ad una visione così negativa,
corrisponde una materia poetica estremamente ricca e vitale:metafore, figure
etimologiche, enjambements, iperbati, prestiti, citazioni lessicali, rime ipermetre.
De Donno dipinge con naturalezza un elevato grado di perizia retorica linguistica e
metrica, per lui la poesia è musica di senso e di parola. Alcune metafore, come
quella del “cerchio ferrato” ( “circhiu ccantatu”), servono al poeta a definire la sua
individualità, simile ad un carcere invalicabile, a causa dei suoi tormenti più acuti;
o come quella del “chiodo piantato nel cervello”ad indicare la propria convinzione
(dolorosa, ma vera); o “le tele di ragno” che stanno ad indicare il recinto in cui gli
uomini si trovano a vivere. Le rime vanno dalla rima ipermetra( umane:
rrumànene); alla rima franta ( ca ète: mete: pruete: ca se te); alla rima identica
(gnenzi:gnenzi); alle rime in rapporto etimologico tra loro (porti :morte: porte
morti).
Filosofannu? è la raccolta che rappresenta il momento conclusivo della riflessione
di De Donno, un vero e proprio testamento poetico. Qui è possibile cogliere qualche
apertura rispetto alla visione totalmente negativa dell'esistenza umana, espressa
nelle raccolte precedenti, in direzione di un vitalismo nuovo, di uno slancio vitale.
Egli conduce una meditazione in versi sui temi centrali della poesia dell'ultimo
decennio: l'Essere, l'io, il tempo e la storia. A questi tre temi sono dedicati
rispettivamente tre poemetti che compaiono nella raccolta:

– Èssere è lla Vita;


– Ci pecca e ppoi se mmenne, sarvu seste ( Chi pecca e poi si emenda, è salvo);
– Cu lle vite, la Vita (Con le vite, la Vita).

Essi sono preceduti da “Testamentu”, presente in “Palore”,una canzone libera


datata maggio 1996, divisa in 15 strofe di endecasillabi ineguali e settenari con rime
libere per complessivi 76 versi. Qui si trova una riflessione sull'io che ci tiene
incarcerati e ancorati al presente, al qui e ora.”Testamentu”, quindi, è una sorta di
preludio ai tre poemetti del libro che si possono considerare tre movimenti di un'
unica sinfonia. Il primo movimento, Èssere è lla Vita, composto nel 2001, di ben
207 versi, può essere suddiviso in 4 parti, di circa 50 versi ciascuna:
– nella prima parte si riassume il concetto di “Testamentu”, rivendica la scelta
del dialetto per la trattazione degli eventi filosofici ;
– nella seconda parte si pone la domanda sull'Essere e capisce che l'essere è la
vita stessa che comprende tutti gli esseri viventi i quali nascono e
muoiono(così la Vita di ogni essere comprende anche la morte);
– nella terza parte riflette sulla storia, volge lo sguardo alla società italiana e
compie una denuncia sul malaffare nella sanità/scuola/politica, si indigna
verso le diseguaglianze sociali e infine conserva una satira verso i potenti;
– nella quarta parte dopo aver ritrattato le idee sul Niente, espresse nel
Testamentu, espone la nuova concezione dell'Essere che è la vita vivente
universale della quale l'uomo non potrà mai capirne il senso, ma solo viverla
con gioie e dolori.

Nel secondo poemetto, Ci pecca e ppoi se mmenne, sarvu seste, più breve, diviso in
sette strofe disuguali, l'autore, dopo aver affrontato il tema dell'Essere, ritorna su
quello dell'io, chiedendosi chi egli sia. E si risponde in maniera analoga: le esistenze
dei singoli non sono che innumerevoli vite compattate dall'Essere che è la vita e
dall'oscura morte che fa parte dell'Essere.
Nel terzo poemetto, Cu lle vite, la Vita ( del novembre del 2011, diviso in due parti),
De Donno riflette invece sulla storia, sul tempo e sulle memorie. Nella prima parte
sostiene che non esiste il passato e il futuro, ma solo il presente ( spazio dell'anima);
nella seconda parte continua il discorso sul presente, sul qui e ora di ogni vita ( che
rimane insensata, incomprensibile alla mente umana).

TERZA PARTE: CRITICA E CRITICI

I capitolo
Vincenzo Monti nell'interpretazione di Luigi Russo

Su Vincenzo Monti, Luigi Russo scrisse due saggi a distanza di 23 anni l'uno
dall'altro, quindi in due fasi molto diverse della sua metodologia. Il primo, che
deriva dal discorso commemorativo tenuto ad Alfonsine (Ravenna) il 14 ottobre del
1928 (in occasione del centenario della morte del poeta), appare in forma sintetica
sul numero 9 della “Rassegna montiana”. Venne, poi pubblicato integralmente
sempre nel 1928 , sul periodico “Leonardo” di cui Russo prese la direzione. Il
secondo saggio, intitolato “Perché Vincenzo Monti fu quel poeta che fu”, vide la luce
nel settembre del 1951 su “Belfagor” (la rivista fondata da Russo nel 1946 e da lui
diretta). Sia il primo che il secondo saggio entrano nelle edizioni dei laterziani
“Ritratti e disegni storici”. Su Monti avevano scritto già prima del 1928: il suo nome
era apparso in delle pagine critiche “Storia della letteratura italiana “ di F. De
Sanctis; nello Zibaldone leopardiano, le cui riflessioni uscirono fuori solo a fine
'800; e l'intervento di Croce, che uscì prima sulla “Critica” del 1921 e poi nel volume
“Poesia e non poesia del 1923”. De Sanctis aveva esposto un severo giudizio etico-
politico sull'uomo e sul poeta, ma ne aveva anche riconosciuto le più alte qualità di
artista come la forza, la grazia, l'armonia; gli aveva anche riconosciuto una grande
abilità tecnica, una padronanza della lingua e dell'elocuzione poetica.Mancava,
però, il carattere, l'impulso morale, e non basta l'artista quando manca il poeta.
Leopardi in un passo dello Zibaldone del 1818 aveva proceduto in modo analogo:
attribuiva al Monti qualità come l'armonia, l'eleganza, ma tutto quello che spetta
all'anima al fuoco all'impeto gli mancava. Croce cerca di conciliare
quest'ambivalenza che emergeva nei giudizi di Leopardi e di De Sanctis e nel
volume “La poesia” del 1936 attua la distinzione tra poesia, non poesia, e
letteratura: cataloga, dunque, la poesia di Monti come poesia letteraria, poesia sulla
poesia.
Ritornando su Russo, bisogna dire che nel suo primo saggio montiano nota una
tendenza costante nei poeti moderni, che a suo giudizio vanno da Parini a Carducci
e comprendono anche Alfieri, Foscolo, Manzoni e Leopardi (contemporanei o di
poco successivi a Vincenzo Monti, che hanno in comune la capacità di lasciare il
mondo dell'immaginazione e a pensare al mondo della realtà quotidiana, della
realtà storica. La musa della poesia moderna, dunque, è la vita ed il realismo
morale. La tendenza realistica è la base della poesia moderna e contrasta
clamorosamente con quella antirealistica del Monti. Monti si rifugia nel regno delle
visioni delle immagini e delle belle forme letterarie ed è questa la funzione che
secondo Russo è importante per la letteratura italiana. E questo spiega il ruolo
importante della mitologia nella sua opera. Il segreto della poesia di Monti è il gusto
della bellezza in sé e per sé.
Russo assegna un significato civile all'attività filologica e linguistica di Monti e in
particolare alla Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Vocabolario della
Crusca . Il critico mette al confronto la proposta linguistica unitaria del Monti con
quella anacronistica di Cesari ( che si richiamava alla nativa purezza della lingua del
Trecento italiano), e sottolinea la maggiore apertura del Monti, che già guardava a
tutta l'Italia per creare la lingua della nazione non restringendo la proposta solo alla
Toscana. Se il primo saggio su Monti (1928) risente dell'influenza di Croce, sia
nell'interpretazione che del metodo critico; tipicamente russiano è il secondo
intervento pubblicato nel 1951 su Belfagor. Siamo negli anni maturi dell'autore che
ha superato la concezione meta temporale della poesia di Croce, attraverso alcuni
concetti che introdusse nel linguaggio della critica letteraria come quelli di
“generazione lirica” di “animus poetico” e soprattutto di “poetica”. La
storicizzazione dell'esperienza letteraria montiana manca quasi del tutto nel saggio
del 1928; nel secondo, invece, è al centro dell'interesse di Russo. Per capire il punto
di vista metodologico del critico partiamo dal punto di vista di un altro maestro
critico del '900, Walter Binni. Nel suo volumetto teorico, intitolato “Poetica critica e
storia letteraria” apparso per la prima volta nel 1963 , Binni ritiene troppo
deterministica l'interpretazione montiana di Russo il quale fa discendere la natura
del poeta direttamente dall'ambiente da cui si forma. Ed effettivamente, in questo
secondo saggio, Russo delinea minuziosamente l'ambiente storico sociale in cui
Monti si muove ai suoi esordi e che avrà un'influenza fondamentale su tutto il
proseguo della sua carriera letteraria. L'ambiente romagnolo educa il giovane a un
conformismo esteriore, essendo stata la Romagna uno dei paesi in cui l'influenza
del cattolicesimo post tridentino si è fatta sentire più avvolgente. Questa mentalità e
questo ambiente portano l'indifferenza di Monti per i valori religiosi e politici, e
spiega la sua volubilità in campo ideologico. L'intenzione giovanile di Monti era
quella di farsi prete, come il fratello, anche perché la carriera ecclesiastica valeva
come introduzione alla vita letteraria. Ma il poeta rinunciò alla carriera
ecclesiastica, l'unica vera fede per Monti era quella per la letteratura, era felice di
ricantare i ritmi di un mondo poetico già consacrato: anche per questo era
appassionato di mitologia, che era per lui forma del suo stesso spirito e non
erudizione. Nella seconda parte del saggio il critico chiarisce le tradizioni cattolico
atee della famiglia di Monti, cioè la sua inclinazione verso un cattolicesimo formale
e non intimamente religioso.

II capitolo
Il novecento di Mario Marti

Scorrendo la bibliografia di Mario Marti, che conta di più di mille e cento titoli tra
volumi, edizioni critiche, studi, saggi, rassegne e recensioni non può sorprendere
che al 2° posto, in ordine cronologico dopo un saggio su “L'educazione del primo
Leopardi” derivante dalla sua tesi di laurea presso l'università di Pisa, figuri un
articolo intitolato La poesia di Salvatore Quasimodo. Entrambi apparvero sulla
rivista fiorentina “Leonardo” nel 1943, dove Marti nello stesso anno pubblicò
recensioni e schede critiche di autori contemporanei (Curtopassi, Radice, Senesi,
Dini, Maiotti, Ramuz, Bucci). Marti si alla “Normale” di Pisa con una tesi su
Leopardi e su richiesta di Raffaele Spongano (che nel '43 era entrato nella redazione
del “Leonardo”) iniziò ad occuparsi di autori contemporanei. Un'esperienza che
prosegue a Parma nel 1946 e a Lecce con la collaborazione alla Gazzetta di Parma e
al settimanale salentino Libera voce dove nel 1947 appare anche un articolo su
Ungaretti professore. L'intreresse per gli scrittori del Novecento si protrae negli
anni: si dedica non solo ai “maggiori” quali Ungaretti,Montale, Pirandello,ma anche
a dei crepuscolari e vociani. Negli anni '50 diventa assistente a Roma di Alfredo
Schiaffini ed entra in contatto con maestri della critica e della filologia come Bosco,
Toschi e Monteverdi. Studia testi della linguistica e della critica stilistica (come de
Sassurre) e si dedica allo studio della lingua italiana dei primi secoli (Dante, 'poeti
giocosi', stilnovisti) senza mai tralasciare Leopardi. Nel 1974 esce un saggio dal
titolo La poesia di Albino Chierro tra evasione e denuncia: Pierro era stato
conosciuto da Marti a Roma ed era diventato suo vicino di casa. Questo autore
aveva incominciato la sua carriera letteraria come poeta di lingua dialettale(dialetto
antichissimo di Tursi) pubblicando nel 1960 la sua prima raccolta, intitolata “'A
terra d'u ricorde”.
Quali sono i punti principali dell'interpretazione di Pierro da parte di Marti?
1 - non esiste frattura fra il Pierro in lingua e quello in dialetto
2 – Il mondo poetico di Pierro è sempre uno e compatto,
3 - in Pierro esiste una complementarità tra poetica della memoria e quella della
realtà
4 – Pierro è poeta di cultura, ma anche di natura e di istinto.

Questo interesse per la poesia in dialetto (anche del novecento) prosegue anche
negli anni seguenti, allorché Marti insieme a Donato Valli e ad Oreste Macrì
scoprono, valorizzano e portano all'attenzione nazionale i due maggiori poeti in
dialetto salentino:Nicola De Donno e Pietro Gatti.
Al poeta magliese De Donno, Marti dedica vari saggi e interventi: nel 1979 gli scrive
una lunga lettera che De Donno pubblicherà sulla “Rassegna salentina”. Il De
Donno che Marti apprezza di più non è né il poeta satirico polemico del primo libro
“Cronache e parabbule”, né il poeta filosofo delle ultime raccolte “Palore” e
“Filosufannu?”, ma il De Donno legato al paese che a suo giudizio è la materia
privilegiata della sua poesia. Negli stessi anni, come già detto, un altro poeta scrive
in dialetto, il cegliese Pietro Gatti . Uno studio intitolato Nicola De Donno e Pietro
Gatti per la linea della poesia dialettale salentina, delineava per la prima volta lo
svolgimento della poesia dialettale salentina: qui Marti partiva dalle prime
testimonianze della poesia dialettale riflessa nel Salento e poi soprattutto da
Francesc'Antonio D'Amelio (iniziatore di questo genere) per arivare a De Dominicis
(il maggiore esponente dell'800 e 900) fino a giungere a Gatti e De Donno. Nel 1994
cura il volume del '700 della Letteratura dialettale salentina. Marti tratta anche
autori come Girolamo Comi e Vittorio Bodini, due rappresentanti di maggior rilievo
della letteratura salentina del 900, non solo nazionale(per non dire europea). A
Comi vengono dedicati 4 studi che vanno dal 1977 al 1999 raccolti con il titolo
Comi poeta dell'amore . Il primo di questi studi si intitola Comi notizie e problemi
di un'edizione ed è un'accurata recensione dell'Opera poetica di Comi curata da
Donato Valli; il secondo si intitola “Un modesto tributo d'anamnesi comiana
vent'anni dopo” del 1988 ed è uno scritto, almeno all'inizio, di carattere
autobiografico (Comi fece parte dell'Accademia salentina insieme a Marti, il quale,
però, ebbe una posizione di “isolato” per diversi interessi creativi (filologici) rispetto
a Comi ed ad altri membri); nel terzo saggio “Girolamo Comi la vita e la poesia” del
1998, Marti parla dell'inquietudine religiosa di Comi, sulla base dell'irregolarità
della metrica di Comi; nel quarto studio “Canto per Eva:Girolamo Comi poeta
d'amore” esamina quello che a suo giudizio è la parte più importante dell'opera di
Comi. Il tema dell'amore prende il posto di quello cosmico che aveva accomunato
tutte le sue precedenti opere.
Ma passiamo ora a Bodini. Marti è interessato all'opera di Bodini e pur essendo
lontano da lui per formazione ed esperienze culturali cerca di entrare nel suo
mondo. Si è occupato anche di altri autori salentini del Novecento: Vittorio Pagano,
Francesco Politi (germanista e poeta), Michele Saponaro.
Per concludere ricordiamo che Marti collabora a due periodici molto importanti: il
Quotidiano di Taranto e “Il corriere del giorno” e il settimanale leccese “Voce del
sud”.

III capitolo
Un critico e il suo maestro: Donato Valli e Girolamo Comi

Il frutto delle prime ricerche di Donato Valli fu costituito da un volumetto intitolato


“La cultura letteraria nel Salento” apparso nel 1971, preso Milella di Lecce nella
collana Minima diretta da Mario Marti; poi ripubblicato nel 1985 con il titolo
“Cento anni di vita letteraria del Salento” (1860-1960).
Valli tenne un corso universitario sulla letteratura di una regione periferica citando
nomi ancora poco noti non solo in campo nazionale,ma anche in campo locale
come Comi, Bodini( due autori che non ha mai smesso di approfondire),
Pagano,ecc..
A Girolamo Comi, Valli dedica sulla Gazzetta del Mezzogiorno un articolo dal titolo
“Vita del linguaggio nella poesia di Comi” e l'anno seguente sulla “Fiera letteraria”
il saggio Storia e letteratura nella poesia di Girolamo Comi (poi inserito nel suo
primo libro, Saggio sul Novecento poetico italiano). Nel 1972 presso Milella esce la
monografia Girolamo Comi. Nel 2000 dà alle stampe un volumetto dal titolo “Poeti
salentini: Comi, Bodini, Pagano”. Nel 2008, il suo più recente libro“Chiamami
maestro, Vita e scrittura con Girolamo Comi”: non si tratta di uno studio critico,
ma è la storia di un sodalizio tra il discepolo Valli e il maestro Comi e si snoda
nell'arco di un ventennio. Storia che parte nell'estate del 1947 a Lucugnano, quando
il diciassettenne liceale tricasino e il già maturo Barone si incontrano per la prima
volta, e che termina con la morte del barone nel 1968. Un periodo triste in quanto
Comi era tormentato da vari problemi di salute, familiari ed economici, ma anche
di grande vivacità culturale: dalla fondazione dell'Accademia salentina del 48; alla
rivista L'albero nel 49; alla pubblicazione di alcune raccolte poetiche “Spirito
d'armonia” e “Canto per Eva”. Valli si basa sui suoi ricordi personali, ma anche
sull'inedito Diario di casa di Comi, che parte dal 1958, nonché alcune lettere che il
poeta gli scrisse durante il servizio militare a Roma. Nel libro oltre alle vicende
private, vengono messi in luce anche tanti aspetti letterari di Comi: preziose sono le
annotazioni di carattere culturale e religioso. Valli con questo volume, dunque -
nonostante la sua forma colloquiale – ci offre uno strumento di studio dell'opera di
Comi. Ed emerge, pure, la sua personalità di critico e di studioso, un allievo che a
sua volta era destinato a diventare maestro.

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