SENTIERI NASCOSTI
Il presente volume e' articolato in tre parti e raccoglie studi dedicati ad alcuni
scrittori rimasti ai margini del lavoro critico, trascurati e talvolta ignorati. La prima
parte costituisce un trittico per Sigismondo Castromediano, preso in esame sia
come autore delle Memorie (una delle opere più significative della memorialistica
risorgimentale), sia nella trasfigurazione in personaggio letterario che ne fece Anna
Banti nel romanzo “Noi credevamo”.
La seconda parte comprende studi dedicati a scrittori e scrittrici del Novecento
come Ada Negri, Vittorio Bodini, Anna Maria Ortese, Rina Durante e Nicola De
Donno dei quali si analizzano singole opere in versi o in prosa o aspetti particolari
della loro produzione. La terza parte affronta tre figure di critici letterari, due dei
quali (Mario Marti e Donato Valli) sono particolarmente legati a Giannone in
quanto sono stati suoi maestri presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell'Ateneo
salentino.
I Capitolo
Sigismondo Castromediano e la memorialistica Risorgimentale
Accanto a questi raccontini vi sono delle vere e proprie digressioni che fanno luce
su aspetti della realtà e società meridionale dell'800: ricordiamo
• quella sulla Terra d'Otranto nel capitolo V;
• sul clero ed episcopato nel capitolo VI;
• sulla magistratura napoletana nel capitolo VII;
• e sulla camorra e camorristi nel capitolo XVI. Per quest'ultima l'autore si
basa sul libro di Marc Monier “La camorra, notizie storiche raccolte e
documentate”, pubblicato a Firenze nel 1862, descrivendo la struttura di
quella che definisce una “schiatta infernale” che regnava nelle carceri e nelle
galere napoletane, incominciando con l'etimologia del nome e proseguendo
con il regolamento dei vari componenti (dal masto (il capo) ai picciotti, ai
fiduciati), con la descrizione dei vestiti dei camorristi e delle sentenze di
morte.
➔ Pellico, viene citato due volte; come sappiamo “Le mie prigioni” narra il
periodo più travagliato della vita dell'autore, dal momento dell'arresto a
Milano come indiziato di cospirazione carbonara contro la monarchia
costituzionale austriaca, alla condanna a Venezia e alla reclusione in carcere
in Moravia. (Carcere dello Spielberg) Questo, però, non è un libro di lotta
politica, ma ha un'edificazione morale: vuole invitare i cuori nobili ad amare e
a non odiare alcun mortale. A differenza di Castromediano e Settembrini,
Pellico offre una testimonianza consolatoria, non denuncia le ingiustizie
patite nel carcere. Tuttavia “Le mie prigioni” influenzano in minima parte le
memorie di Castromediano, lontane dal genere patetico e sentimentale di
Pellico che diventerà nel secondo Ottocento molto diffuso. Ad esempio, in
entrambe le opere appare una figura femminile che porta conforto ai
prigionieri: nelle Memorie una giovane contadina, Carmela, viene vista
passare per strada, a Montefusco, da Castromediano e da altri prigionieri
attraverso strette finestre → episodio che può essere messo a confronto con
“Le mie prigioni” dove appaiono Maddalena e una caporalina Ungherese, due
giovani donne (la prima carcerata, la seconda gendarme). Ci sono altri esempi
di patetismo sentimentale, come il brano dell'usignolo che con i suoi
gorgheggi sembra voler lenire il dolore dei reclusi finché i carcerati infastiditi
non decidono di ucciderlo con un colpo d'arma da fuoco. O ancora: la
“passeretta” addestrata da Castromediano che ogni sera va a trovarlo spinta
dalla fame, finché anche essa viene uccisa.
➔ Più vicine allo spirito delle Memorie di Castromediano sono “Le ricordanze
della mia vita” di Luigi Settembrini, apparse a Napoli in 2 volumi nel
1879-80 con un'introduzione di Francesco De Sanctis. Settembrini e
Castromediano si incontrarono, in realtà, su una nave che doveva portarli
esuli in America e che poi verrà dirottata da Raffaele (il figlio di Settembrini)
in Irlanda. “Le Ricordanze” spingono il duca di Cavallino a riprendere le
Memorie: in una lettera a Silvio Spaventa nel 1881, le definisce “bellissime e
utilissime”; le loro opere sono vicine culturalmente, geograficamente,
storicamente e biograficamente. Il 1° volume delle “Ricordanze” è la
narrazione della vita dell'autore: dall'infanzia al collegio e all'università a
Napoli, fino all'adesione alla setta di Benedetto Musolino, il trasferimento a
Catanzaro per insegnare, e l'arresto nel 1837 fino alla reclusione nel carcere
della Vicaria per quindici mesi. La narrazione si interrompe con i tragici
eventi del'48 napoletano da cui parte Castromediano. Il 2° volume riguarda il
periodo1848-1860 (che è quello messo al centro anche dal duca nelle
Memorie), ma risulta molto frammentario: va dal processo della cospirazione
antiborbonica, alla condanna a morte poi tramutata in pena a trent'anni, poi
agli anni trascorsi nell'ergastolo di S.Stefano, all'esilio e infine alla
liberazione. Castromediano ha nei confronti del Settembrini una venerazione
assoluta e lo definisce suo maestro: nelle Memorie ricorda infatti, un suo
famoso testo, la “Protesta del popolo delle due Sicilie”, anche se nel Proemio
non manca di sottolineare le differenze tra la sua opera e quella del patriota
napoletano. Nel brano precisa, infatti:
- la diversità del trattamento, delle agevolazioni di cui Settembrini aveva
potuto godere nel carcere di Santo Stefano;
- inoltre, mentre Settembrini nel 1° volume racconta la storia della sua vita a
partire dalla sua fanciullezza, Castromediano nelle Memorie si concentra
esclusivamente sulle esperienze carcerarie;
- ancora, la lingua di Settembrini è piana e semplice mentre in
Castromediano è classicheggiante ed antiquata;
- Settembrini ha avuto a che fare con ambienti aperti culturalmente e
stimolanti come la scuola privata di Basilio Puoti, frequentata da De Sanctis;
mentre Castromediano studiò a Lecce presso i Gesuiti e nel suo palazzo
presso Cavallino con insegnanti privati e non si aprì mai alle correnti più vive
della cultura linguistica del suo tempo. Le memorie sono ricche di lucuzioni e
forme lessicali antiquate come “avvegnacchè” “acciò” “imperocchè” ecc.
Qualche parallelismo lo troviamo con il secondo libro delle Ricordanze che
comprende scritti autobiografici, lettere, pagine di diario, bozzetti ecc.: in
particolare possiamo stabilire dei rapporti precisi tra i capitoli delle memorie di
Castromediano dedicato alla descrizione delle varie carceri e il capitolo XV sui
Galeotti con lo scritto intitolato “l'ergastolo di Santo Stefano”, che è una denuncia
del modo in cui erano costretti a vivere i carcerati, in cui descrive il carcere
accuratamente e in cui si sofferma in particolar modo sulle storie degli
ergastolani( proprio come Castromediano). Sia nelle Memorie che nelle Ricordanze,
il fine è quello di testimoniare ai posteri i sacrifici, le sofferenze inflitte ai patrioti
per i loro nobili ideali.
➔ Un'altra opera, meno nota, con cui si possono istituire dei rapporti è
“Raffinamento della tirannide borbonica ossia i carcerati in
Montefusco” del calabrese Nicola Palermo, che venne pubblicata a puntate
sulla rivista “La Nazione” di Firenze nel 1860 e poi in un volume a Reggio
Calabria nel 1866. Palermo fu rinchiuso nelle stesse carceri e negli stessi anni
- dal 1851 al 1859 - in cui fu detenuto Castromediano, e venne liberato grazie
all'intervento di Raffaele Settembrini. Anche in questa opera, come nelle
Memorie, sono riportati i regolamenti del carcere, verbali, sentenze, elenchi
di prigionieri di cui Castromediano si servì, in quanto conosceva bene questo
libro (che cita, infatti, nel Proemio). Dopo aver ringraziato Nicola Palermo dei
dati ricevuti - che gli hanno permesso di ricordare fatti, circostanze e
soprattutto date cancellate dalla sua memoria - il patriota salentino, termina
parlando di divergenze. In una lettera da lui inviata alla baronessa torinese
Olimpia Rossi Sabio il 29 agosto 1860, infatti, si lamenta del fatto che
Palermo abbia descritto “alla meglio” le fasi della sua chiamata presso la
Prefettura di Polizia di Napoli durante la sua detenzione a Montefusco,
mentre Castromediano dedica un intero capitolo a questo devastante
episodio, intitolandolo “L'ora più perigliosa della mia vita”, che fa
riferimento alla richiesta di grazia che avrebbe rivolto al re Ferdinando di
Borbone, poi rivelatasi falsa. Quindi, nell'opera di Palermo pur essendo
rievocato questo episodio, non gli si dà il rilievo che il duca avrebbe voluto.
L'opera di Castromediamo si colloca nel filone della memorialistica
Risorgimentale di tema carcerario. La mettiamo a confronto con altri scritti
appartenenti a questo genere.
II Capitolo
Epopea risorgimentale nel sud: Sigismondo Castromediano e altri
memorialisti
Pur essendo una delle opere più importanti per la memorialistica ottocentesca,
Memorie “Carceri e galere politiche”, figura di rado nelle trattazioni dedicate a
questo specifico argomento. Questo è dipeso anche dalla rarità dei due volumi
(stampati da una tipografia leccese) che hanno avuto poca circolazione in ambito
nazionale. (- il primo volume viene stampato poco prima la morte dell'autore;
mentre il secondo subito dopo la sua morte, alla fine dell'Ottocento. Per questo si
deve merito alla stampa fotomeccanica realizzata in occasione del 150° anniversario
dell'Unità d'Italia, che è servita a far conoscere quest'opera.
La causa principale di questa “damnatio memoriae” che ha gravato sull'opera di
Castromediano e sulla figura stessa dell'autore, è l'emarginazione che vicende e
personaggi dell'Italia Meridionale hanno subìto e tuttora subiscono nei manuali,
nelle antologie, nei dizionari. Uno scrittore del '900, Vittorio Bodini, che ha avuto in
parte questa sorte, dice : “l'Italia ha una storia scritta unilateralmente,
secondo una prospettiva centro-settentrionale, così che una parte degli
italiani studia solo la storia degli altri senza sapere nulla della propria”.
Parole scritte nel 1952 a proposito dei fatti di Otranto del 1480, totalmente ignorati
dai manuali di storia. Ma se le memorie di Castromediano sono citate - sebbene con
inesattezze di vario genere - nei panorami della memorialistica ottocentesca, del
tutto assenti sono trattazioni di altri scritti che rievocano le stesse vicende trattate
dal duca di Cavallino:
– in primo luogo, il già citato “Raffinamento della tirannide borbonica
ossia I carcerati in Montefusco di Nicola Palermo;
– Antonio Garcea sotto i Borboni di Napoli e nelle rivoluzioni
d'Italia dal 1837 al 1862 → che ha come sottotitolo Racconto Storico,
pubblicato a Torino nel 1862, scritto da Giovannina Garcea Bertola, moglie di
Antonio Garcea che scrive sulla base dei ricordi del marito patriota calabrese;
– Lo scritto del brindisino Cesare Braico “Ricordi della galera” pubblicato a
Lecce nel 1881, figura nel volume “Lecce 1881”;
– Un libro di carattere storico “Ferdinando II e il suo regno” pubblicato a
Napoli nel 1884, di Nicola Nisco.
Tutti questi scritti, hanno in comune il fatto che, i loro autori, oltre ad essere stati
antiborbonici ed ad essere per questo condannati a trent'anni o più di carcere, siano
stati anche compagni di cella dal1848 al 1859 tra Napoli, Procida e Ischia e poi nelle
galere di Montefusco e Montesarchio, prima di essere liberati sulla nave che doveva
condurli in America.
Abbiamo già detto che tra i capolavori della memorialistica risorgimentale ci sono le
“Ricordanze della mia vita” di Luigi Settembrini, il quale scontò numerosi anni
di detenzione per cospirazione antiborbonica, non nelle galere citate, ma nel carcere
dell'isoletta di Santo Stefano. Anche lui ha qualcosa in comune con gli altri – suo
figlio Raffaele - che è il principale protagonista della liberazione dei patrioti.
Tutte queste opere non erano ignote a Castromediano, riconosce che le sue
Memorie erano state “precedute da quelle di Nicola Palermo e Luigi Settembrini”.
Di Antonio Garcea si limita a dire che sapeva che l'autore aveva iniziato la sua
opera, ma non se l'avesse portata a termine (erano previste altre due parti dopo il
primo volume uscito nel 1862, ma mai più uscite). Castromediano si sofferma molto
di più su Palermo (da lui definito “provato patriota calabrese”) e su Settembrini.
Ringrazia Palermo per avergli donato il suo libro, che gli ha permesso di ricordare
circostanze già cancellate dalla sua memoria ( nomi e date, in particolar modo), ma
rivendica la sua originalità affermando di raccontare quei fatti secondo il suo “modo
di concepire e giudicare”.
Il duca dimostra nei confronti di Settembrini, invece, una venerazione assoluta, lo
definisce un “maestro” anche se nel Proemio afferma di non avere “nulla in
comune” con lui, essendo stati rinchiusi in muri differenti e in condizioni carcerarie
molto diverse. Abbiamo già detto che identico era il loro scopo: raccomandare alla
posterità la giusta indignazione nei confronti di un governo malvagio.
Tutti gli scritti menzionati compongono un'epopea (risorgimentale del Sud),
termine usato per indicare sia le vicende gloriose di questo gruppo di patrioti
meridionali, sia per riferirsi all'insieme delle opere che narrano queste vicende.
Negli eventi narrati non mancano gli ingredienti che caratterizzano un'epopea:
eroismo, coraggio, sacrificio. Tuttavia i loro nomi sono stati dimenticati ( al
contrario di Pellico, Confalonieri, Pallavicino → i cosiddetti martiri dello Spielberg,
che figurano sempre nei libri di storia). Solo una scrittrice del '900, Anna Banti, ne
ha recuperato la memoria nel romanzo “Noi credevamo” (pubblicato nel 1967), che
sin dal titolo sottolinea la fede che animava questi uomini coraggiosi che
rinunciarono ad una vita priva di problemi per combattere per le proprie idee. Di
questo gruppo facevano parte uomini politici ed intellettuali, quasi la classe
dirigente del Reame, appartenenti a diverse classi sociali:
– Carlo Poerio → ministro liberale di Ferdinando II di Borbone
– Silvio Spaventa → pensatore e zio di Benedetto Croce
– Luigi Settembrini → futuro storico della letteratur italiana e rettore
dell'università di Napoli;
– Nicola Nisco → sarebbe diventato uno storico famoso;
– Nicola Schiavoni, Castromediano, Palermo, Garcea, Braico.
Palermo e Castromediano si limitano a rievocare il periodo vissuto nelle carceri e
galere borboniche (dal 1848 fino alla liberazione); il libro su Garcea parte dai primi
anni di vita e dalle successive esperienze ( un po' come Settembrini) fino ad arrivare
alla liberazione dei patrioti. Tutti questi scritti contengono descrizioni delle terribili
galere di Montefusco e Montesarchio, delle sofferenze quotidiane, angherie,
soprusi.
– Una descrizione che non manca mai è quella delle catene che a Montefusco
tenevano legati i prigionieri a due a due ( Palermo ritorna spesso su questo
terribile strumento di tortura quotidiano, ma anche la Bertola e
Castromediano, il quale scrive “deve flagellare irrequieta le gambe del
condannato...sempre...gliela tolgono solo quando è in agonia”).
– Garcea è uno dei protagonisti degli episodi più drammatici avvenuti a
Montefusco: flagellato per essersi lamentato della pessima qualità della zuppa
e del pane nero che veniva loro assegnato ogni giorno;
– un altro episodio riguarda Nicola Palermo, il cui padre, patriota, viene
accusato dalla Corte speciale di Napoli di aver portato messaggi segreti da un
figlio all'altro durante le visite fatte prima al fratello Nicodemo e poi a Nicola
stesso.
– L'episodio che riguarda Castromediano, è uno dei più noti del suo libro, e
riguarda la richiesta di grazia che egli avrebbe rivolto al re Ferdinando di
Borbone, poi rivelatasi falsa (insieme ad altri sei detenuti che invece l'avevano
rivolta per davvero). Il Duca intitolò questa vicenda ( dedicandole un intero
capitolo): “L'ora più perigliosa della mia vita”. Anche Palermo rievoca
questo episodio, ma il modo in cui lo fa non piace a Castromediano che se ne
lamenta in una lettera da lui inviata alla baronessa Olimpia Rossi Savio.
Molto più dettagliato è il suo racconto in cui descrive lo sgomento con cui
apprende la notizia che avrebbe dovuto essere trasferito a Napoli con gli altri
sei detenuti, proclamando con forza la propria innocenza. Egli, in realtà,
resiste ai tentativi che tutti fanno per convincerlo a chiedere la grazia. Il
momento più intenso è quello dell'interrogatorio a Napoli dal prefetto di
polizia, durante il quale non solo non accetta di chiedere la grazia ( in quanto
riteneva di non aver commesso nessun reato), ma rifiuta pure di rivelare il
nome dei giudici che lo avevano condannato.
– L'episodio che conclude l'epopea di questi patrioti meridionali è la liberazione
sulla nave che doveva condurli a New York. Nel gennaio del 1859, la pena
dell'ergastolo, viene commutata dal re Ferdinando in esilio perpetuo dal
Regno e dalla deportazione in America. Su questa nave riesce a salire,
spacciandosi per un cubano e offrendosi al comandante come cameriere, il
figlio di Luigi Settembrini, che viveva in Inghilterra ed era diventato ufficiale
della marina mercantile inglese. Dopo la resistenza del comandante, la nave
viene dirottata in Irlanda, dove approda nel porto di Queenstown.
Castromediano narra questo episodio come se fosse una fiction, ricca di
suspense: da un lato l'eroe, Raffaele; dall'altro il malvagio comandante,
Samuel Prentiss. La svolta avviene con il ritrovamento di una pallottola
( proveniente da una pistola di Raffaele) che viene portata al comandante, il
quale (credendo che tutti i patrioti siano armati) decide di dirottare la nave
verso l'Irlanda. Dopo lo sbarco a Queenstown, i patrioti meridionali furono
accolti dagli irlandesi e dagli inglesi con manifestazioni di simpatia e dopo
una breve permanenza ritornarono in Italia, dove continuarono ad
impegnarsi in vario modo per il loro paese.
III capitolo
Il “piu' leale tra noi”, la figura di Sigismondo Castromediano nel
romanzo di Anna Banti “Noi credevamo”
I capitolo
Ada Negri e la “Rivista d'Italia
“Nei giardini del silenzio” e “Notte” confluiscono nella raccolta “Il libro di
Mara”) rievocano la figura dell'amato scomparso improvvisamente. Nella prima
composta da quattro sestine di versi di varia misura, l'autrice immagina di
incontrarlo in uno spazio senza spazio e in un tempo senza tempo perché la sua
povera anima non può vivere senza di lui.
In “Notte” abbiamo un tono eloquente con frequenti iterazioni ( tipico di tutta la
produzione lirica della Negri) composta da due strofe, rispettivamente di 14 e 15
versi di varia misura dove ritorna il motivo della sua ansiosa ricerca d'amore in un'
atmosfera panica e notturna.
“L'adolescente” e “Ritorno per il dolce natale” entrati a far parte della raccolta dei
“Canti dell'isola” (1925), sono ispirati alla guerra e ai dolori che provoca nelle
famiglie. In entrambe compare la figura del soldato: nella prima, morto; nella
seconda, ferito gravemente. Ne “L'adolescente”, divisa in due parti composte da
tre strofe ciascuna, l'autrice rievoca l'idillio campestre di un giovane, con una
fanciulla “bizzarra” chiamata da egli “streghetta” invitandola a cantare. Nella
seconda parte la campagna che vede i giovani spensierati e felici si trasforma in un
teatro macabro con il corpo del soldato senza vita steso per terra e senza più il canto
dell'innamorata. “Ritorno per il dolce natale” è una composizione in distici di
versi lunghi a rima baciata che descrive il ritorno a casa del soldato ferito il giorno
di natale. Accolto dai genitori e dalla sorella, si reca con essi ad assistere alla messa
di mezzanotte e al momento del “Gloria” si toglie l'elmetto scoprendo la ferita in
mezzo alla fronte.
L'ultima poesia della Negri, apparsa sulla rivista d'Italia e che figura anch'essa nella
raccolta “I canti dell'Isola”, è “La fronte”: composta da 8 quartine di ottonari,
novenari e decasillabi; è dedicata alla madre morta qualche mese prima. In questa
lirica l'autrice individua sulla fronte, appunto, della madre quasi il simbolo della sua
forza d'animo e del suo coraggio . La notte in cui muore sembra che tutto il
firmamento partecipi al tragico evento e madre da lei definita “Sempre vivente” non
muore veramente, ma se ne va verso la “vita durabile”
L'unica novella della Negri apparsa sulla Rivista d'Italia, che entra a far parte del
volume “Finestre alte” del 1923, è “Fanetta e il suo bambino”: tratta un altro
dei temi ricorrenti nella sua opera, quello della maternità. Racconta di una giovane,
un'umile serva incinta, Fanetta, che viene assunta a Milano da una vedova senza
figli (signora Toschi). Quando quest'ultima scopre che la giovane è incinta, le
promette di continuare a tenerla a condizione di lasciare il bambino nel brefotrofio.
Fanetta, tuttavia, decide di diventare madre; viene licenziata, ma la gioia di essere
madre supera qualsiasi ostacolo.
Nel 1918 Saponaro dedica alla Negri un profilo nella rubrica “Gli uomini
dell'Italia odierna”, in cui apparvero numerosi ritratti di artisti e letterati, ma
anche scienziati, politici e giuristi. Il primo profilo era stato quello di Gabriele
D'Annunzio curato da Ettore Jianni; seguito da Benedetto Croce di Cecchi; Luigi
Einaudi e Soffici di Prezzolini;Giuseppe Antonio Borgese di Tonelli; Giolitti di
Barbagallo. Il profilo della Negri venne affidato a Paolo Buzzi, che aveva seguito
costantemente la sua attività letteraria. Nello scritto Buzzi passa in rassegna le
prime 5 raccolte di versi della scrittrice, da “Fatalità all'Esilio “ e i primi due libri in
prosa “I solitari” e “Le orazioni”. L'autore le riconosce autonomia dai grandi
modelli dell''800 (Carducci, D'Annunzio, e Pascoli) e la considera una “antesignana
senza diabolismi del movimento futurista inteso come liberazione della lirica
italiana dai pesi concettuali e fonici della tradizione magnate”. “Fatalità” del 1892 è
la prima raccolta di versi ed è definita da Buzzi “un poema psichico.” Una psiche
generale dell'epoca, portata riconoscere e trovare un miglior sentiero umano ai
lavoratori. “Tempeste” 1895 accentua la sinfonia psichica di note violente; poi
“Maternità” 1904; “Dal profondo” 1910 è il culmine della Negri di chiarezza di
autoascolto e forza di espressione. In “Esilio” 1914 la Negri attinge sentimento e
melodia all'inesauribile pozzo dell'autobiografia quotidiana.
Buzzi, da militante futurista e alquanto eclettico nelle sue scelte tematiche e
metriche, guarda con interesse le prove in verso libero della Negri e riporta la
risposta della Negri alla famosa “Inchiesta” di Marinetti su “Poesia”: “Quando il
poeta è veramente poeta, cioè creatore, crea da se stesso la veste ritmica del suo
pensiero”. Su “Il libro di Mara”, Buzzi dedica nella Rivista d'Italia una recensione
nella quale afferma che questo, secondo lui, è il capolavoro di Ada Negri, la quale
ha affrontato con successo la battaglia del verso libero. Nel 1920 Saponaro per
divergenze interne con la Direzione, abbandonò l'incarico di redattore unico della
rivista, e da allora, anche il nome di Ada Negri non figurò più sulle pagine del
periodico milanese, a dimostrazione che la sua collaborazione era collegata
all'amicizia con lo scrittore pugliese.
II capitolo
Un romanzo di formazione: “Il fiore dell'amicizia” di Vittorio Bodini
Il fiore dell'amicizia compare per la prima volta sulla rivista “Sud Puglia.Rassegna
trimestrale della banca popolare Sud Puglia di Matino” a cura e con introduzione di
Donato Valli, a cui Antonella( Ninetta) Minelli, la vedova di Bodini, aveva affidato il
manoscritto del romanzo rimasto incompiuto e privo di titolo, per la pubblicazione.
Nel 1985 insieme ad altri scritti di Bodini e a pagine critiche di Oreste Macrì e di
Valli, fu raccolto un volume intitolato “Prose inedite di Vittorio Bodini” che
inaugurava la collana “Conto aperto” presso l'Editrice Salentina di Galatina.
Nei primi anni '80 non si sapeva molto riguardo l'opera bodiniana, in particolar
modo su quella in prosa, rimasta dispersa tra quotidiani e riviste; si sapeva poco
anche della sua vita, dei suoi spostamenti e delle fasi della sua attività letteraria.
Nel 1970, due anni dopo la morte, nella collana Lo specchio di Mondadori appare il
volume Poesie 1939 -1970 con un' Introduzione di Macrì. Nel dicembre del 1980, a
dieci anni dalla sua scomparsa, si svolge un importante Convegno di studi tra le
università di Roma, Bari e Lecce, in cui apparve nell'edizione “All'insegna del pesce
d'oro”, il volumetto “La lobbia di Masoliver e altri racconti” , nel quale venivano
raccolte per la prima volta, alcune prove narrative di Bodini, a cura di Paolo
Chiarini. Un contributo importante per la conoscenza d questo autore, viene
rappresentato dall'Introduzione che Macrì scrive di “Tutte le poesie”(1932-1970),
nella quale il critico distingueva sei diverse fasi dell'attività letteraria del
poeta.Dunque, noi sappiamo che Bodini arriva in Spagna nel novembre del 1946
come dimostrano i reportage del Corriere Spagnolo, in cui l'autore descrive,
appunto, l'esplorazione di questo paese straniero; ma Valli riprendendo la
distinzione di Macrì, sostiene che il Fiore dell'amicizia per dati interni ed esterni
può essere attribuito alla prima fase dell'esperienza madrilegna- romana (fine
1946,inizio 1947). In realtà, quasi sicuramente, lo scrittore comincia il Fiore
dell'amicizia tra il 1942-'44 a Lecce, dove, ritornato dopo la laurea conseguita a
Firenze nel 1940, ebbe l'incarico di supplente di Italiano e Latino presso il locale
liceo scientifico “De Giorgi”, dopo aver insegnato per un anno al Liceo Classico
“Colonna” di galatina.
A questa esperienza di insegnamento l'io narrante fa riferimento nelle prime righe
del romanzo fornendo ai lettori un'informazione precisa sul suo lavoro di
insegnante nella città dove si svolgono le vicende narrate. E' un'opera a carattere
prettamente autobiografico, per cui vi è una relazione di identità fra autore
narratore e personaggio principale (che si chiama, infatti, proprio Vittorio).
Probabilmente continua la stesura del romanzo a Roma dove si trasferisce tra il
1944 e il 1946.In Spagna ci resta tre anni e nell'aprile del '49, tornato
definitivamente in Italia, non ebbe più tempo e voglia di terminarlo. Ma ad un certo
punto il genere delle scritture autobiografiche si fonde con il genere del
romanzo di formazione, il Bildungsroman: viene sviluppata una narrazione
dell'io nei modi e nelle caratteristiche del romanzo di formazione.
Il “Fiore dell'amicizia”, infatti, delinea l'evoluzione del personaggio protagonista
Vittorio, verso un periodo particolare della sua vita che va dai 18 ai 19 anni, anche se
non mancano flashback relativi ad anni precedenti. Una continuazione di esso si
può considerare “Il gobbo Rosario” scritto qualche anno dopo. Il tema in comune è
il trasferimento del personaggio principale, per motivi di studio, dal luogo natio in
un'altra città dove continua la sua formazione. Il personaggio fa il suo ingresso nella
vita attraverso riti di passaggio: ribellione nei confronti della scuola e della famiglia,
inserimento nel gruppo di amici, iniziazione al sesso, relazioni sentimentali.
Gli amici, Carmine e Albertino, un po' più grandi di lui, hanno la funzione di guida
che sostituisce la figura paterna. Gli insegnano a fare molte cose: come rubare i
frutti nelle campagne; come comportarsi con le donne; come assicurarsi un futuro
tranquillo con un buon matrimonio. Queste esperienze permettono al narratore-
protagonista di conoscere meglio se stesso. Non è un caso che ”Il fiore dell'amicizia”
parta proprio con l'evento che rappresenta la rottura dell'equilibrio nella vita di
Vittorio: l'espulsione da tutte le scuole del regno (come avvenne realmente l'ultimo
anno del liceo per Bodini); il conflitto che ne deriva con la famiglia e con la madre
(soprattutto) . Fa parte della progressiva conoscenza di sé, anche la scoperta della
propria vocazione letteraria:Albertino rivela a Nelly (prostituta con la quale Vittorio
intreccia un'effimera relazione) che l'amico è “romanticissimo e scrive persino delle
poesie”. Già in qualche pagina prima aveva rivelato lui stesso di essere avido di
romanzi che leggeva di notte, e alla finestra mentre calava la sera, poesie di Pascoli e
D'Annunzio). Questa esplorazione di sé si intreccia con quella della propria città,
verso la quale manifesta apertamente avversione. A Lecce, infatti, Vittorio (proprio
come Stephen Dedalus a Dublino (Joyce)), si sente imprigionato e non vede l'ora di
fuggire. La città viene descritta in modo realistico con divagazioni su luoghi e
ambienti particolari che compongono, però, una topografia limitata. Non fa accenni
al Barocco, l'anima segreta di Lecce, ma compare l'immagine del vuoto che è la
rappresentazione del Barocco (horror vacui) secondo Bodini.
Valli, poi, mette in rilievo rapporti con poesie e punti di contatto tra racconti e prose
poi raccolti in Barocco del Sud. Ci sono dei personaggi che appaiono anche in opere
successive, come la figura dello zio Giovanni, che ritorna nel racconto “Il giro delle
mura “ con il nome di zio Antonino; anche la figura del gobbo ritorna nel racconto
“Il gobbo Rosario” scritto tra il 1948 e 1949. Tra i motivi presenti, quello del
paesaggio che spicca: “l'immagine del cielo che schiaccia gli alberi e le siepi di fichi
d'india” → ritorna in “Pitagora è uno di queste parti”, dove c'è la rappresentazione
metafisica del paesaggio salentino tra essere e non essere, tra terra e cielo; compare
pure in “Barocco del Sud”. Sono messe in rilievo anche alcune caratteristiche dei
leccesi: la mania del pettegolezzo, tipica dei leccesi, diventa nel “Gobbo Rosario”
l'indole dei suoi concittadini; non mancano critiche di Bodini ai salentini accusati
di pigrizia nei confronti dei proprietari terrieri che si lasciano portare via dai
milanesi il vino (polemica affrontata nella prosa “Squinzano, vino a Milano”; altro
motivo polemico è la mancanza dello Stato dal Sud (e il tema della separatezza del
Meridione dal resto della nazione ritorna nella Luna dei Borboni e nella prosa La
Puglia contro Pietro Micca. Certe immagini ritorneranno, poi, oltre che nelle
poesie, anche nelle prose: si veda l'immagine ricorrente dei carri e dei carrettieri
( che si trova in “Flamenco” in cui il canto dei carrettieri salentini costituisce
l'analogia tra il popolo meridionale e quello spagnolo). In questa prosa compaiono
anche: l'immagine del caldo che tormenta le notti leccesi; l'immagine delle statue di
cartapesta (che si ritrova nel racconto “La morte fatta in casa” e nella prosa “Il
paradiso di Cartapesta”) ; l'immagine delle processioni del Venerdì Santo con la
statua di Cristo morto che si tengono in città, ritorna in “Cristo sull'Escorial”;
l'immagine delle madri che si precipitano a prendere i figli dalle strade si ritrova in
“Torero per grazia di Dio”; l'immagine delle case dipinte di bianco è un simbolo del
sud bodiniano che compare nelle “Foglie di tabacco”.
III capitolo
“Respiro dell'Adriatico”: i reportage della Puglia di Anna Maria Ortese
Anna Maria Ortese ha svolto un' attività giornalistica molto importante e intensa,
avendo collaborato a numerosi quotidiani e periodici. Una parte di questa
produzione, costituita dagli scritti di viaggio, è stata raccolta nel volume “La lente
scura” apparso nella sua edizione definitiva nel 2004. Tra i vari reportage che ha
scritto ricordiamo: quelli dalla Russia del 1954 o da Parigi del 1960, ma anche
Sicilia, Milano, Roma, Napoli ecc. La Prefazione del libro la “Lente scura” è
significativa perché ci introduce ai reportage in Puglia e alla vita da viaggiatrice.
Il periodo di maggiore attività giornalistica è stato dal 1948 al 1952, anni in cui la
Ortese abbandona Napoli (dove tornerà spesso) e si trasferisce a Milano (dove vivrà
fino al 1958) . Il periodo dal 1948 al 1952 è il più florido per la sua attività
giornalistica. Nel 1951 visita la Puglia. Nel periodo milanese collabora a testate
prestigiose come: il “Mondo” di Pannunzio, “Milano-sera”, “Oggi”, il “Nuovo
Corriere”, “Noi donne” ecc. (quest'ultimo è l'organo ufficiale dell'Unione Donne
Italiane, del movimento di sinistra delle donne). Proprio grazie a “Noi donne” si
reca in Puglia e svolge un'indagine sulle condizioni di lavoro delle tabacchine ( ruolo
che ha caratterizzato la storia della produzione salentina del Novecento in campo
agricolo). Da questo viaggio derivano 3 reportage: due sul Gargano e uno in Salento,
dedicati all'universo femminile in Puglia. “Queste colline” è il brano iniziale di un
articolo del 1949 che descrive lo stato d'animo della scrittrice all'arrivo in treno a
Napoli, nel corso di uno dei tanti spostamenti ma che fa capire il senso del viaggio
nel Sud in quegli anni, che non era solo un viaggio nello spazio ma anche, a ritroso
nel tempo. Infatti scrive: “I treni che dal Nord scendono oltrepassando Roma
rallentano, e il viaggiatore... nota che gli anni non muovono verso il futuro ma nel
passato: Scendere nel sud... è fare un viaggio indietro nel tempo.” La Puglia emerge
come una terra dimenticata, arretrata, i cui uomini umili e gli indifesi vivono una
vita-non vita, priva di prospettive. Negli anni del dopoguerra la scrittrice vede la
realtà tramite la “lente scura” della malinconia e della protesta.
Ma veniamo ai tre reportage:
IV capitolo
Tra realismo e sperimentalismo: per una rilettura del romanzo “La
malapianta” di Rina Durante
Rina Durante fa parte della schiera di scrittrici del secondo '900 che hanno dato un
notevole contributo alla narrativa italiana, ma in campo nazionale non è conosciuta
come meriterebbe. Scrive varie opere: racconti, testi teatrali, sceneggiature
cinematografiche, testi a metà tra narrazione e saggio antropologico. Degno di nota
è il suo unico romanzo: “LA MALAPIANTA”. Nasce a Melendugno, nel 1928 e
trascorre la sua infanzia a Saseno (avamposto dell'esercito italiano in Albania) per
motivi di lavoro del padre, sottufficiale di marina. Si iscrive all'università di Bari e si
laurea in lettere. Pubblica la sua prima raccolta di poesie “Il tempo non trascorre
invano”. Rientrata in Salento si inserisce nell'ambiente intellettuale del capoluogo e
allaccia rapporti più o meno duraturi con Bodini, Macrì, Mario Marti. Nel 1964
pubblica il suo unico romanzo “La malapianta” con cui vince il premio Salento 1964.
Tra il 1967 e il 1970 insegna a Roma e inizia a interessarsi alla cultura popolare. Una
volta tornata a Lecce, svolge numerose inchieste sul campo, alla riscoperta del
tarantismo e alla valorizzazione del griko e delle tradizioni etno-culturali. Pubblica
“Tutto il teatro a Malandrino” e il radiogramma “Il sacco di Otranto”( incentrati
sull'assedio di Otranto e Roca da parte dei turchi). Dagli anni '80 si dedica
all'approfondimento della cultura salentina popolare. Svolge un'intensa attività
giornalistica per anni ed segretaria regionale pugliese del Sindacato Nazionale
Scrittori. Muore la notte di Natale del 2004.
La Malapianta è ambientato nel Salento e in particolare in un'area geografica che
comprende tre piccoli comuni: Melendugno, Cannole e Calimera. Narra la storia
della famiglia Ardito, composta da Teta e Rosa e dai loro rispettivi figli, in un arco di
tempo che va dalla fine degli anni trenta fino alla fine del fascismo. Il romanzo
inizia quando Niceta(Teta) Ardito, contadino di Melendugno rimasto vedovo con sei
figli, si reca a Cannole per chiedere a Rosa di sposarlo (anche lei vedova, con tre figli
avuti dal massaro Nino, morto affogato in uno stagno). Questa accetta la proposta e
va a vivere con lui. Ciccio il più piccolo dei figli di Teta, muore a causa di una
malattia; Giulia figlia di Teta viene violentata e messa incinta da Antonio, figlio di
Rosa, che poi morirà in guerra. Marta, altra figlia di Teta, viene messa a servizio in
casa della signora Caroli che si uccide quando scopre la relazione di suo marito,
don Armando (segretario del fascio), con Giulia. Gino, figlio di Rosa, a causa di una
avventurosa fuga in bicicletta, ritorna dalla guerra con disturbi mentali e va alla
ricerca di Seggiòla, una donna ormai sposata, della quale si era innamorato prima di
partire. Rosa, intanto, rimane incinta di nuovo da Teta ed è costretta a crescere oltre
a suo figlio, anche il nipote (figlio di Giulia). Teta svolge lavori illeciti: fa il pescatore
di frodo e spaccia banconote false, per questo rinchiuso nel carcere di Lecce.
Un romanzo che, di primo acchito, fa pensare ad uno stile neorealista:
ambientazione meridionale; scelta di personaggi appartenenti a classi subalterne;
arretratezza delle condizioni di vita; precise coordinate storico geografiche. Ma nel
1964 il contesto storico-letterario italiano era diverso da quello del dopoguerra e dei
primi anni '50 nei quali sorge e si sviluppa il neorealismo: era il periodo del boom
economico, dell'industrializzazione del paese, di un diffuso benessere. Nel campo
letterario si era affacciato il tema dello sperimentalismo come dimostra “Il Menabò”
di Vittorini; Italo Calvino aveva affrontato il rapporto letteratura- industria. Se “La
malapianta” fosse un romanzo neorealista tout court, sarebbe piuttosto attardato
rispetto ai tempi. Ma non è così. Nel 1961 la Durante aveva mandato un
dattiloscritto, con la prima stesura del romanzo (composto tra fine anni '50 e inizio
degli anni '60) a Vittorini. Vittorini rispose con una lettera in cui spiegava di non
credere più nel romanzo di argomento meridionale e che bisognava trovare
argomenti meno datati. Tuttavia ne apprezzava il linguaggio definendolo fresco e
vivace nello stile. La Durante rimase sorpresa da questa risposta e avviò una
revisione del romanzo. Non è possibile mettere a confronto le diverse stesure del
romanzo ma dall'unico testimone che abbiamo, capiamo che ha modificato almeno
in parte l'impianto del romanzo andando oltre il neorealismo continuando, però, a
credere nel romanzo meridionale ( come dimostra l'ambientazione dell'opera).
Le tematiche non sono di natura sociale: la fame e la miseria esistono, ma non è su
queste che la scrittrice punta la sua attenzione.
I personaggi sono dilaniati, piuttosto, da un disagio esistenziale che condiziona le
loro esistenze: solitudine, inettitudine, aridità interiore che accomuna tutti. Teta è
incapace di comunicare con i figli, vorrebbe comunicare con loro, ma non ci riesce;
Rosa è immersa nella solitudine, nel silenzio anche lei è incapace di comunicare con
i figli, ma è l'unico personaggio che riesce a provare un sentimento d'amore per
Teta. Il personaggio che incarna l'aridità interiore è Giulia, quasi lo stigma degli
Ardito che sembra aver avuto in eredità dal padre la difficoltà di relazionarsi: con
Antonio subisce passivamente prima l'approccio e poi la violenza sessuale, e con
don Armando vive senza amore. Anche Marta, sorella di Giulia, soffre di una vera e
propria malattia: l alienazione (incapacità di avere un rapporto concreto con la
realtà, perciò simile anch'ella al padre). Anche gli altri personaggi vivono una
condizione di disagio esistenziale e di solitudine. La rappresentazione del paesaggio
è di tipo espressionistico ed è funzionale alla caratterizzazione dei personaggi: della
campagna salentina viene messa in rilievo l'aridità e lo squallore, che sono il
correlativo oggettivo dei sentimenti. Queste, dunque, le tematiche prevalenti del
romanzo, tipiche del romanzo modernista del Novecento, di estrema attualità negli
anni '60, sia nel campo letterario che cinematografico. Basti pensare a “La noia” di
Moravia e a registi come Michelangelo Antonioni e lo svedese Ingmar Bergman. La
maggior parte dei film di Bergman sono caratterizzati dalla solitudine dell'uomo,
dalla difficoltà della vita di relazione oltre che da un'inquietudine religiosa ( che
però è del tutto assente nel romanzo): si ricordi “Come in uno specchio”, “Il
silenzio”. La trilogia dell'incomunicabilità del regista italiano, invece, comprende tre
film usciti tra il 1960 e 1962: “L'avventura”, “La notte” e “L'eclisse”.L'originalità
della Durante sta nell'aver trasferito queste tematiche dalla classe borghese a quella
contadina del sud, si allontana, dunque, dai modi del neorealismo anche per la
tecnica narrativa usata. Il romanzo è formato da accostamenti di vari tasselli che
sono costituiti da nuclei di racconti effettuati secondo le diverse prospettive dei
personaggi. Questi tasselli sono collegati in modo molto labile tra di loro e di solito
coincidono con segmenti narrativi corrispondenti a vari capitoli o a paragrafi
separati da spazi bianchi. In alcuni casi sono dei racconti . Questa tecnica di
rappresentazione frammentaria è la caratteristica del romanzo modernista.
Frequenti sono i monologhi interiori che sfiorano il flusso di coscienza, il discorso
indiretto libero è sovrano. Dal linguaggio filmico Durante deriva “l'inquadratura
soggettiva”, che permette allo spettatore di vedere il punto di vista del personaggio
tramite l'inquadratura di ciò che esso vede. Lo stile oscilla tra due tendenze: da un
lato, uno stile più sobrio, quasi spoglio; dall'altra un maggiore grado di letterarietà.
Il primo stile è presente soprattutto nelle parti dialogiche asciutte ed essenziali, ed è
influenzato da Pavese e Vittorini. Il secondo caratterizza le descrizioni
paesaggistiche di tono lirico, ricche di similitudini e analogie, in cui si nota
l'influenza della prosa d'arte novecentesca. A livello lessicale spiccano alcuni
termini dialettali, a volte adattati alla lingua italiana: “fore”(campagna) ,“stuppa”
(gioco con le carte), “menze”, recipienti di terracotta o di rame) ecc... I termini
dialettali hanno una valenza decorativa e non sono mai usati in maniera mimetica,
cioè per caratterizzare ambienti e personaggi. “LA MALAPIANTA” si allontana dai
canoni neorealistici e si avvicina a forme moderne e sperimentali di narrativa.
V capitolo
“Lu senzu de la vita”: la poesia “filosofica” in dialetto di Nicola G. De
Donno
Tanti sono i nomi dei figli illustri di Maglie ma tra essi, non è esagerato dirlo,
primeggia quello del professor Nicola De Donno (Maglie, 21/3/1920 – 7/3/2004).
Studioso di memorie patrie, letterato e poeta, docente prima e preside poi del Liceo
“F. Capece” di Maglie, fu nel secondo Novecento protagonista indiscusso dei
fermenti culturali salentini distinguendosi, in particolare, nell’ambito del
componimento poetico in lingua dialettale. Donato Valli, professore di Letteratura
Italiana moderna e contemporanea presso l’ateneo leccese, scrisse che Nicola De
Donno, con i suoi oltre millecinquecento componimenti, fu uno dei più densi e
prolifici poeti dialettali del Novecento italiano. La vita di De Donno è segnata da due
grandi lutti che accentuano il nichilismo espresso nei versi: la morte nel 1992 del
figlio Luigi e la morte dell'editore e suo amico milanese Vanni Scheiwiller ,che aveva
pubblicato quattro dei suoi libri in versi. Nell'opera Filosofannu?, che nasce da un
dialogo epistolare con uno studioso salentino, Antonio Mangione, il poetare di De
Donno diviene un poetare-filosofare o un pensiero poetante (per riprendere il titolo
di un noto libro su Leopardi di Antonio Prete) collocandosi nella linea
che da Leopardi arriva a Montale. Questa predilezione per la poesia di pensiero si
spiega anche con le personali esperienze umane: si era laureato in Filosofia
all'università di Pisa con una tesi dal titolo: “La critica della ragione di Biagio
Pascal”. Sempre di tipo filosofico fu il suo primo impegno, in quanto Luigi Russo gli
aveva affidato la cura della sezione filosofica della sua rivista appena fondata,
“Belfagor”; inoltre pubblicò molti saggi su Pascal e Bergson. “Filosofare”, anzi
“Filosofannu” per riprendere i versi della poesia di De Donno, vuol dire “amore
della saggezza”, del sapere del nostro essere qui ed ora (hic et nunc).
Partiamo da “Palore” che si ricollega all'opera “Lu sensu de la vita”, di cui riprende
la sconsolata visione dell'esistenza umana, sulla quale incombe l'ombra della morte(
vista come l'unica certezza gli uomini hanno, la più autentica dimensione
dell'esserci).
Nel sonetto “Ca chiamamu vita”, viene, ancora di più, messa in rilievo l'immagine
della morte che tiene per mano il poeta appena nato, insieme alla madre, sulla cieca
strada della vita (la vita si configura come autopreparazione alla morte). Il tempo
non è un motivo di nostalgia, ma ci conduce sempre di più a quel fatale momento: la
presunzione umana e il desiderio di grandezza e di immortalità, vengono derisi. Il
motivo dell'infinita piccolezza dell'uomo si colloca nel filone “cosmico” della poesia,
sviluppato da Leopardi, Pascoli e Montale, per cui in certi momenti il pensiero del
nulla diventa così forte da far desiderare la morte. Anche la poesia non può che
soccombere davanti alla grande potenza del nulla.
Nella raccolta “Palore”, ciò che colpisce è che ad una visione così negativa,
corrisponde una materia poetica estremamente ricca e vitale:metafore, figure
etimologiche, enjambements, iperbati, prestiti, citazioni lessicali, rime ipermetre.
De Donno dipinge con naturalezza un elevato grado di perizia retorica linguistica e
metrica, per lui la poesia è musica di senso e di parola. Alcune metafore, come
quella del “cerchio ferrato” ( “circhiu ccantatu”), servono al poeta a definire la sua
individualità, simile ad un carcere invalicabile, a causa dei suoi tormenti più acuti;
o come quella del “chiodo piantato nel cervello”ad indicare la propria convinzione
(dolorosa, ma vera); o “le tele di ragno” che stanno ad indicare il recinto in cui gli
uomini si trovano a vivere. Le rime vanno dalla rima ipermetra( umane:
rrumànene); alla rima franta ( ca ète: mete: pruete: ca se te); alla rima identica
(gnenzi:gnenzi); alle rime in rapporto etimologico tra loro (porti :morte: porte
morti).
Filosofannu? è la raccolta che rappresenta il momento conclusivo della riflessione
di De Donno, un vero e proprio testamento poetico. Qui è possibile cogliere qualche
apertura rispetto alla visione totalmente negativa dell'esistenza umana, espressa
nelle raccolte precedenti, in direzione di un vitalismo nuovo, di uno slancio vitale.
Egli conduce una meditazione in versi sui temi centrali della poesia dell'ultimo
decennio: l'Essere, l'io, il tempo e la storia. A questi tre temi sono dedicati
rispettivamente tre poemetti che compaiono nella raccolta:
Nel secondo poemetto, Ci pecca e ppoi se mmenne, sarvu seste, più breve, diviso in
sette strofe disuguali, l'autore, dopo aver affrontato il tema dell'Essere, ritorna su
quello dell'io, chiedendosi chi egli sia. E si risponde in maniera analoga: le esistenze
dei singoli non sono che innumerevoli vite compattate dall'Essere che è la vita e
dall'oscura morte che fa parte dell'Essere.
Nel terzo poemetto, Cu lle vite, la Vita ( del novembre del 2011, diviso in due parti),
De Donno riflette invece sulla storia, sul tempo e sulle memorie. Nella prima parte
sostiene che non esiste il passato e il futuro, ma solo il presente ( spazio dell'anima);
nella seconda parte continua il discorso sul presente, sul qui e ora di ogni vita ( che
rimane insensata, incomprensibile alla mente umana).
I capitolo
Vincenzo Monti nell'interpretazione di Luigi Russo
Su Vincenzo Monti, Luigi Russo scrisse due saggi a distanza di 23 anni l'uno
dall'altro, quindi in due fasi molto diverse della sua metodologia. Il primo, che
deriva dal discorso commemorativo tenuto ad Alfonsine (Ravenna) il 14 ottobre del
1928 (in occasione del centenario della morte del poeta), appare in forma sintetica
sul numero 9 della “Rassegna montiana”. Venne, poi pubblicato integralmente
sempre nel 1928 , sul periodico “Leonardo” di cui Russo prese la direzione. Il
secondo saggio, intitolato “Perché Vincenzo Monti fu quel poeta che fu”, vide la luce
nel settembre del 1951 su “Belfagor” (la rivista fondata da Russo nel 1946 e da lui
diretta). Sia il primo che il secondo saggio entrano nelle edizioni dei laterziani
“Ritratti e disegni storici”. Su Monti avevano scritto già prima del 1928: il suo nome
era apparso in delle pagine critiche “Storia della letteratura italiana “ di F. De
Sanctis; nello Zibaldone leopardiano, le cui riflessioni uscirono fuori solo a fine
'800; e l'intervento di Croce, che uscì prima sulla “Critica” del 1921 e poi nel volume
“Poesia e non poesia del 1923”. De Sanctis aveva esposto un severo giudizio etico-
politico sull'uomo e sul poeta, ma ne aveva anche riconosciuto le più alte qualità di
artista come la forza, la grazia, l'armonia; gli aveva anche riconosciuto una grande
abilità tecnica, una padronanza della lingua e dell'elocuzione poetica.Mancava,
però, il carattere, l'impulso morale, e non basta l'artista quando manca il poeta.
Leopardi in un passo dello Zibaldone del 1818 aveva proceduto in modo analogo:
attribuiva al Monti qualità come l'armonia, l'eleganza, ma tutto quello che spetta
all'anima al fuoco all'impeto gli mancava. Croce cerca di conciliare
quest'ambivalenza che emergeva nei giudizi di Leopardi e di De Sanctis e nel
volume “La poesia” del 1936 attua la distinzione tra poesia, non poesia, e
letteratura: cataloga, dunque, la poesia di Monti come poesia letteraria, poesia sulla
poesia.
Ritornando su Russo, bisogna dire che nel suo primo saggio montiano nota una
tendenza costante nei poeti moderni, che a suo giudizio vanno da Parini a Carducci
e comprendono anche Alfieri, Foscolo, Manzoni e Leopardi (contemporanei o di
poco successivi a Vincenzo Monti, che hanno in comune la capacità di lasciare il
mondo dell'immaginazione e a pensare al mondo della realtà quotidiana, della
realtà storica. La musa della poesia moderna, dunque, è la vita ed il realismo
morale. La tendenza realistica è la base della poesia moderna e contrasta
clamorosamente con quella antirealistica del Monti. Monti si rifugia nel regno delle
visioni delle immagini e delle belle forme letterarie ed è questa la funzione che
secondo Russo è importante per la letteratura italiana. E questo spiega il ruolo
importante della mitologia nella sua opera. Il segreto della poesia di Monti è il gusto
della bellezza in sé e per sé.
Russo assegna un significato civile all'attività filologica e linguistica di Monti e in
particolare alla Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Vocabolario della
Crusca . Il critico mette al confronto la proposta linguistica unitaria del Monti con
quella anacronistica di Cesari ( che si richiamava alla nativa purezza della lingua del
Trecento italiano), e sottolinea la maggiore apertura del Monti, che già guardava a
tutta l'Italia per creare la lingua della nazione non restringendo la proposta solo alla
Toscana. Se il primo saggio su Monti (1928) risente dell'influenza di Croce, sia
nell'interpretazione che del metodo critico; tipicamente russiano è il secondo
intervento pubblicato nel 1951 su Belfagor. Siamo negli anni maturi dell'autore che
ha superato la concezione meta temporale della poesia di Croce, attraverso alcuni
concetti che introdusse nel linguaggio della critica letteraria come quelli di
“generazione lirica” di “animus poetico” e soprattutto di “poetica”. La
storicizzazione dell'esperienza letteraria montiana manca quasi del tutto nel saggio
del 1928; nel secondo, invece, è al centro dell'interesse di Russo. Per capire il punto
di vista metodologico del critico partiamo dal punto di vista di un altro maestro
critico del '900, Walter Binni. Nel suo volumetto teorico, intitolato “Poetica critica e
storia letteraria” apparso per la prima volta nel 1963 , Binni ritiene troppo
deterministica l'interpretazione montiana di Russo il quale fa discendere la natura
del poeta direttamente dall'ambiente da cui si forma. Ed effettivamente, in questo
secondo saggio, Russo delinea minuziosamente l'ambiente storico sociale in cui
Monti si muove ai suoi esordi e che avrà un'influenza fondamentale su tutto il
proseguo della sua carriera letteraria. L'ambiente romagnolo educa il giovane a un
conformismo esteriore, essendo stata la Romagna uno dei paesi in cui l'influenza
del cattolicesimo post tridentino si è fatta sentire più avvolgente. Questa mentalità e
questo ambiente portano l'indifferenza di Monti per i valori religiosi e politici, e
spiega la sua volubilità in campo ideologico. L'intenzione giovanile di Monti era
quella di farsi prete, come il fratello, anche perché la carriera ecclesiastica valeva
come introduzione alla vita letteraria. Ma il poeta rinunciò alla carriera
ecclesiastica, l'unica vera fede per Monti era quella per la letteratura, era felice di
ricantare i ritmi di un mondo poetico già consacrato: anche per questo era
appassionato di mitologia, che era per lui forma del suo stesso spirito e non
erudizione. Nella seconda parte del saggio il critico chiarisce le tradizioni cattolico
atee della famiglia di Monti, cioè la sua inclinazione verso un cattolicesimo formale
e non intimamente religioso.
II capitolo
Il novecento di Mario Marti
Scorrendo la bibliografia di Mario Marti, che conta di più di mille e cento titoli tra
volumi, edizioni critiche, studi, saggi, rassegne e recensioni non può sorprendere
che al 2° posto, in ordine cronologico dopo un saggio su “L'educazione del primo
Leopardi” derivante dalla sua tesi di laurea presso l'università di Pisa, figuri un
articolo intitolato La poesia di Salvatore Quasimodo. Entrambi apparvero sulla
rivista fiorentina “Leonardo” nel 1943, dove Marti nello stesso anno pubblicò
recensioni e schede critiche di autori contemporanei (Curtopassi, Radice, Senesi,
Dini, Maiotti, Ramuz, Bucci). Marti si alla “Normale” di Pisa con una tesi su
Leopardi e su richiesta di Raffaele Spongano (che nel '43 era entrato nella redazione
del “Leonardo”) iniziò ad occuparsi di autori contemporanei. Un'esperienza che
prosegue a Parma nel 1946 e a Lecce con la collaborazione alla Gazzetta di Parma e
al settimanale salentino Libera voce dove nel 1947 appare anche un articolo su
Ungaretti professore. L'intreresse per gli scrittori del Novecento si protrae negli
anni: si dedica non solo ai “maggiori” quali Ungaretti,Montale, Pirandello,ma anche
a dei crepuscolari e vociani. Negli anni '50 diventa assistente a Roma di Alfredo
Schiaffini ed entra in contatto con maestri della critica e della filologia come Bosco,
Toschi e Monteverdi. Studia testi della linguistica e della critica stilistica (come de
Sassurre) e si dedica allo studio della lingua italiana dei primi secoli (Dante, 'poeti
giocosi', stilnovisti) senza mai tralasciare Leopardi. Nel 1974 esce un saggio dal
titolo La poesia di Albino Chierro tra evasione e denuncia: Pierro era stato
conosciuto da Marti a Roma ed era diventato suo vicino di casa. Questo autore
aveva incominciato la sua carriera letteraria come poeta di lingua dialettale(dialetto
antichissimo di Tursi) pubblicando nel 1960 la sua prima raccolta, intitolata “'A
terra d'u ricorde”.
Quali sono i punti principali dell'interpretazione di Pierro da parte di Marti?
1 - non esiste frattura fra il Pierro in lingua e quello in dialetto
2 – Il mondo poetico di Pierro è sempre uno e compatto,
3 - in Pierro esiste una complementarità tra poetica della memoria e quella della
realtà
4 – Pierro è poeta di cultura, ma anche di natura e di istinto.
Questo interesse per la poesia in dialetto (anche del novecento) prosegue anche
negli anni seguenti, allorché Marti insieme a Donato Valli e ad Oreste Macrì
scoprono, valorizzano e portano all'attenzione nazionale i due maggiori poeti in
dialetto salentino:Nicola De Donno e Pietro Gatti.
Al poeta magliese De Donno, Marti dedica vari saggi e interventi: nel 1979 gli scrive
una lunga lettera che De Donno pubblicherà sulla “Rassegna salentina”. Il De
Donno che Marti apprezza di più non è né il poeta satirico polemico del primo libro
“Cronache e parabbule”, né il poeta filosofo delle ultime raccolte “Palore” e
“Filosufannu?”, ma il De Donno legato al paese che a suo giudizio è la materia
privilegiata della sua poesia. Negli stessi anni, come già detto, un altro poeta scrive
in dialetto, il cegliese Pietro Gatti . Uno studio intitolato Nicola De Donno e Pietro
Gatti per la linea della poesia dialettale salentina, delineava per la prima volta lo
svolgimento della poesia dialettale salentina: qui Marti partiva dalle prime
testimonianze della poesia dialettale riflessa nel Salento e poi soprattutto da
Francesc'Antonio D'Amelio (iniziatore di questo genere) per arivare a De Dominicis
(il maggiore esponente dell'800 e 900) fino a giungere a Gatti e De Donno. Nel 1994
cura il volume del '700 della Letteratura dialettale salentina. Marti tratta anche
autori come Girolamo Comi e Vittorio Bodini, due rappresentanti di maggior rilievo
della letteratura salentina del 900, non solo nazionale(per non dire europea). A
Comi vengono dedicati 4 studi che vanno dal 1977 al 1999 raccolti con il titolo
Comi poeta dell'amore . Il primo di questi studi si intitola Comi notizie e problemi
di un'edizione ed è un'accurata recensione dell'Opera poetica di Comi curata da
Donato Valli; il secondo si intitola “Un modesto tributo d'anamnesi comiana
vent'anni dopo” del 1988 ed è uno scritto, almeno all'inizio, di carattere
autobiografico (Comi fece parte dell'Accademia salentina insieme a Marti, il quale,
però, ebbe una posizione di “isolato” per diversi interessi creativi (filologici) rispetto
a Comi ed ad altri membri); nel terzo saggio “Girolamo Comi la vita e la poesia” del
1998, Marti parla dell'inquietudine religiosa di Comi, sulla base dell'irregolarità
della metrica di Comi; nel quarto studio “Canto per Eva:Girolamo Comi poeta
d'amore” esamina quello che a suo giudizio è la parte più importante dell'opera di
Comi. Il tema dell'amore prende il posto di quello cosmico che aveva accomunato
tutte le sue precedenti opere.
Ma passiamo ora a Bodini. Marti è interessato all'opera di Bodini e pur essendo
lontano da lui per formazione ed esperienze culturali cerca di entrare nel suo
mondo. Si è occupato anche di altri autori salentini del Novecento: Vittorio Pagano,
Francesco Politi (germanista e poeta), Michele Saponaro.
Per concludere ricordiamo che Marti collabora a due periodici molto importanti: il
Quotidiano di Taranto e “Il corriere del giorno” e il settimanale leccese “Voce del
sud”.
III capitolo
Un critico e il suo maestro: Donato Valli e Girolamo Comi