VERGA, D'ANNUNZIO, PASCOLI, SVEVO, PIRANDELLO, UNGARETTI, MONTALE Italiano 15 pag.
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Downloaded by: causeyouresky (anto.derrico2003@gmail.com) ANALISI TESTI DI ITALIANO
L’INFINITO DI GIACOMO LEOPARDI
Questa poesia è stata composta a Recanati nel 1819 e costituisce lo snodo tra i due filoni principali dei Canti: le Canzoni, di tipo civile e filosofico, e gli Idilli, di tipo soggettivo ed esistenziale. L’Infinito è il testo che apre la serie degli Idilli e si colloca a metà strada fra espressione soggettiva e riflessione filosofica. Nell’Infinito, infatti, il paesaggio è occasione tanto per l’espressione del soggetto lirico quanto per la sua riflessione esistenziale: si tratta dunque di un idillio. Non vengono più presentati temi storici e politici ma argomenti privati ed esistenziali, è una poesia intima e personale, per questo viene utilizzato un tono più piano, colloquiale e moderno. Questa composizione poetica condensa la riflessione filosofica di Leopardi. Nel testo sono presenti, infatti, alcuni dei concetti chiave dell’intero sistema di pensiero leopardiano: il tema della finitezza del mondo, simboleggiata dalla siepe che limita lo sguardo del soggetto, come stimolo all’immaginazione e il tema del piacere come desiderio al tempo stesso illimitato e irraggiungibile. Il fatto che la siepe limiti lo sguardo del poeta e allo stesso tempo apra mondi infiniti all’autore risponde alla teoria della visione di Leopardi, poiché è piacevole, per le idee vaghe e indefinite che suscita, la vista impedita da un ostacolo «perché allora in luogo della vista, lavora l’immaginazione e il fantastico sottentra al reale». Inoltre, il vicino rumore delle foglie mosse dal vento (sensazione uditiva) , confrontato con le immagini di infinito evocate dal poeta, chiama in causa un secondo concetto limite, quello di eterno. Esso, infatti, è un suono che richiama l'idea di pace e per Leopardi rappresenta lo scorrere del tempo (infinito temporale). Questa esperienza avviene in solitudine (ermo colle), infatti, il testo sottende una particolare attenzione per la consapevolezza della marginalità dell’uomo nello spazio e nel tempo: per esprimere questa solitudine utilizza parole come “silenzio” e “quiete”, le quali caratterizzano uno spazio in cui l’uomo è assente (infinito spaziale). Il pensiero, dunque, si smarrisce nell’infinità e lo smarrimento crea, al contempo, angoscia (“ove per poco il cor non si spaura”) e piacere (“naufragar me dolce in questo mare” abbandono totale all’immaginazione). Inoltre, è possibile affermare che questo componimento è espressione della poetica del vago e dell’indefinito che Leopardi elabora: “Se nella realtà il piacere infinito è irraggiungibile, l’uomo può figurarsi piaceri infiniti mediante l’immaginazione; la realtà immaginata costituisce la compensazione a una realtà che non è altro che infelicità e noia; e ciò che stimola l’immaginazione a costruire questa realtà parallela in cui l’uomo trova l’illusorio appagamento al suo bisogno di infinito, è tutto ciò che è vago, indefinito, lontano. La poesia è costruita in modo simmetrico, infatti 8 versi e mezzo vengono impiegati per l'infinito spaziale e per quello temporale, i successivi 6 e mezzo per la sensazione uditiva e visiva (sentimento) che consegue il volo dell’immaginazione (l’idea di infinito gli provoca una sensazione sensismo). Inoltre, essa è suddivisa in versi endecasillabi sciolti, ovvero non c'è uno schema metrico e non c'è uno schema delle rime. Il ritmo è costantemente dilatato dall'uso dell’enjambement. La scelta di utilizzare numerosi aggettivi dimostrativi, come questo/a e quello, rappresenta la distanza fra quello che vive e quello che immagina: - questo indica concreta presenza degli oggetti considerati - quello indica l'infinito, il lontano e assente, ovvero solo l’immaginabile Infine, possiamo vedere che Leopardi utilizza parole lunghe, indefinite e vaghe per rimandare al concetto di infinito (es. sovrumani silenzi), mentre utilizza parole brevi per rimandare alla realtà concreta. Sono presenti anche numerose figure di suono che rimandano al concetto di infinito (come sovrumani silenzi, profondissima quiete). Altre parole che rimandano al concetto di infinito, di vago e indefinito sono: immensità e naufragare.
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Downloaded by: causeyouresky (anto.derrico2003@gmail.com) Nonostante Leopardi non si considerasse un romantico, è possibile notare alcune caratteristiche moderne nell’Infinito: - presenta al lettore un “io” poetico non stilizzato e non stereotipato, che non agisce più in uno spazio convenzionale della tradizione petrarchesca, ma in uno spazio concreto e particolare (in questo caso un colle) - tratta la vita di questo “io” con la stessa serietà e profondità filosofica che fino a quel momento la concezione classicista della separazione degli stili aveva riservato ad altri argomenti. È appunto questa unione di realismo e biografico e di tensione filosofica a rendere moderne poesie come L’Infinito.
DIALOGO DELLA NATURA E DI UN ISLANDESE DI GIACOMO LEOPARDI
Il Dialogo della Natura e di un Islandese fu scritto nel maggio del 1824 e si colloca all’interno delle Operette Morali. Per descrivere l’esperienza della vita umana, Leopardi non ha scelto un personaggio importante, ma un protagonista “comune”, un uomo definito solo attraverso la propria nazionalità e chiamato a rappresentare un punto di vista medio, obiettivo, fondato sulla verità dell’esperienza diretta. L’islandese ha fuggito tutta la vita la Natura, convinto che essa perseguiti gli uomini rendendoli infelici, ma benché l’abbia fuggita ne è tuttavia stato perseguitato di continuo. Infine, si imbatte proprio nella Natura, una inquietante figura gigantesca di donna. Nel dialogo tra i due emerge la completa indifferenza della Natura al bene e al male degli uomini. Ed è la Natura stessa ad affermare leggi di un rigoroso e spietato materialismo: la scomparsa di questo o quell’individuo, di questa o quella specie non tocca l'interesse della Natura, volta solo a perseguire la durata dell’esistenza attraverso un perpetuo circuito di produzione e distruzione, e non a dare un senso alle proprie creature. Il dialogo è mozzato sulla disperata richiesta di significato rivolta dall'islandese alla natura, e resta dunque senza risposta. La natura è dunque totalmente indifferente alle accuse dell’islandese che la accusa di rendere l'uomo infelice perseguitandolo, ma la natura si cura solo del ciclo di produzione distruzione della materia e della vita. Come ultima domanda l’islandese si chiede se esiste un Dio che si occupa di questo ciclo; a questa domanda però non c'è risposta poiché l’islandese muore prima della risposta forse mangiato dai leoni affamati. Infatti, le domande di senso che l’Islandese rivolge alla Natura non possono avere una nessuna risposta positiva e soddisfacente, ma solo una risposta nei fatti, che confermano la logica materiale del circuito di produzione e distruzione. La ricerca di senso da parte dell’uomo resta, quindi, sospesa. Possiamo dire che il finale del Dialogo della Natura e di un Islandese è un finale ironico. Viene presentato, infatti, l'obiettivo polemico di Leopardi: la critica verso certe convinzioni dell'uomo, per esempio l'idea che l'universo sia in funzione dell'essere umano e contro la religione. Dunque, è ironico sull’ottimismo dominante del suo tempo e sulla religione (pessimismo della ragione). Per Leopardi non c'è possibilità di riscattare la propria sofferenza dopo la morte, perché si muore sulla terra l’uomo è infelice in tutte le epoche e di conseguenza non vale la pena lottare (operette morali periodo più cupo del suo pessimismo). Lo stile di questa operetta si fonda soprattutto sulla tecnica dell’accumulo: tutta la struttura dell’operetta è affidata all’elencazione e all’accumulo di sofferenze e disgrazie. Progredendo nella sua analisi dell’esperienza avuta, l’Islandese passa a poco a poco dalla descrizione all’accusa, trasformando il proprio discorso in una vera e propria requisitoria contro l’interlocutrice. Il tal modo la tecnica dell’accumulo viene indirizzata a sostenere le accuse rivolte contro la Natura; inoltre, questo dialogo ha obiettivi polemici, infatti, accusa i cattolici e coloro che non credono nel pessimismo, poiché sono fortemente positivi.
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Downloaded by: causeyouresky (anto.derrico2003@gmail.com) Il tema della natura è sicuramente attualizzabile, infatti, oggi si presenta in forme apparentemente molto diverse. L’ecologia, disciplina che si pone a cavallo tra scienze della terra e scienze della vita, ha messo in luce la fragilità degli ecosistemi ambientali minacciati dagli interventi devastanti dei sistemi produttivi umani. Le specie viventi non sembrano essere messe a rischio dall’inclemenza delle leggi naturali, ma piuttosto dalle alterazioni che il “progresso” umano, l’industrializzazione, il turismo, hanno causato nei loro ambienti. L’immaginario contemporaneo tende, tuttavia, a pensare alla natura anche come a una minaccia apocalittica, sempre nascosta sotto la fragile pellicola della civiltà tecnologica: il sovvertimento climatico, la presenza di un nuovo virus, il risveglio di vulcani sono immaginati nell’immediato futuro come minaccia naturale incombente, e sono la spia del modo attuale di pensare a una natura “cattiva”.
A SILVIA DI GIACOMO LEOPARDI
Questa poesia venne composta a Pisa nel 1828 (dieci anni dopo la morte di Teresa Fattorini silvia) e rientra all’interno dei Canti pisano-recanatesi. Essa segna la ripresa della creatività poetica leopardiana, e l’inizio di una nuova stagione poetica, in cui la metrica si fa sempre più libera e si affacciano nuovi temi come la compartecipazione del poeta alla sofferenza universale, il recupero memoriale delle ambientazioni recanatesi, l’opposizione fanciullezza/età adulta. In particolare, il tema centrale della poesia è l’infelicità costitutiva dell’essere umano: così come le speranze giovanili di Silvia sono state troncate dalla morte, anche le aspettative del poeta sono andate deluse. La canzone è, infatti, costruita sul parallelismo di due vicende: quella di Silvia (Teresa, figlia del cocchiere) e quella del poeta. I loro destini sono diversi e simili allo stesso tempo: Silvia è stroncata sulle soglie della giovinezza dalla malattia; il poeta, divenuto adulto, vede invece morire le illusioni e le speranze giovanili. A Silvia sono dedicate le prime due strofe e la quinta, che contiene l’elemento più drammatico, ovvero la morte della ragazza. La terza e la sesta strofa sono dedicate al poeta stesso; mentre la quarta ha una funzione di raccordo tra i due destini: l’io e il tu sono riuniti idealmente in un noi, prima che il poeta riprenda la parola in prima persona per accusare la natura. A Silvia, però, non è una poesia d’amore: i due personaggi comunicano tra loro solo nel soliloquio immaginario del poeta e le loro realtà così diverse anche dal punto di vista sociale sono quasi due mondi paralleli. Inoltre, questa poesia ha un' importanza storica fondamentale perché adotta la struttura della canzone libera: non c'è più la ricorsività della struttura della prima strofa come avveniva nelle canzoni. Dunque, nella canzone libera avviene un unione tra la tradizione (classicismo) e l'innovazione (modernità); c’è un equilibrio tra i vincoli della tradizione e le libertà della modernità. Il rapporto tra la metrica e la sintassi è a volte in conflitto con la tecnica dell’enjambement (vv.5-6). In questo canto avviene la rievocazione/il ricordo di Silvia, una ragazza lieta e pensosa (pensa al futuro in modo sereno e speranzoso), della quale gli occhi ridenti e fuggitivi (timida e spesso abbassa lo sguardo) colpiscono il poeta (due piani temporali: un piano lontano e indefinito, che è quello delle illusioni e della speranza; e il presente, cioè il tempo dell’azione principale: quello della rievocazione). Il ritratto di Silvia non è definito, infatti nella seconda strofa, di lei percepiamo solo il suo canto. Rispetto a noi, lei è in casa a tessere, ma il suo canto si diffonde per tutte le strade. Le vicende si svolgono in primavera, una stagione fulvida, luminosa e gradevole. Nella terza strofa, Leopardi si rappresenta in relazione allo studio mentre sentiva il canto di Silvia, formando un coro (sintonia ma no poesia d’amore): Silvia tocca le tele mentre Giacomo tocca le pagine dei libri con le mani sudate. Nella quarta strofa c’è un’ulteriore descrizione del paesaggio primaverile. Nel verso 36 possiamo intuire che l’esperienza concreta è in dialogo con il pensiero; dal verso 26 vengono rievocate delle emozioni (modi dell’io di reagire ai fatti), dunque, avviene l’unione tra rievocazione descrittiva e riflessione concettuale. A partire dal verso 61 viene rappresentata la mano della morte che interrompe la costruzione del
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Downloaded by: causeyouresky (anto.derrico2003@gmail.com) futuro di Silvia (verso 21 mano di Silvia che tesse il suo futuro). Leopardi fa una rievocazione malinconica e tragica dell’esperienza vissuta: malinconica perché, oltre al ricordo di Silvia, c’è anche il ricordo della giovinezza (rappresenta la speranza); tragica perché tutto finisce, le speranze della ragazza si interrompono a causa della morte; anche se Leopardi è sopravvissuto la sua speranza è morta. L’unica cosa che consola Giacomo della morte di Silvia è il fatto che sia morta in primavera, la stagione più felice. Dunque, quello che resta a Leopardi è uno squallido presente, dove non ci sono più speranze se non la morte (novità dei canti pisano-recanatesi è la poesia pensiero). CONFRONTO CON L’INFINITO: anche qui è ancora valida la poetica del vago e dell’indefinito; ci sono sensazioni visive, uditive; c’è ancora il ricordo.
LA PREFAZIONE AI MALAVOGLIA DI GIOVANNI VERGA
Questa prefazione è una dichiarazione di poetica ed è il documento più articolato che Verga ci ha lasciato sul Verismo. Essa è stata pubblicata tra il 1878 e il 1881 insieme ad altre prese di posizione in campo teorico, come la lettera dedicatoria a Farina. Può essere suddivisa in tre paragrafi che trattano temi diversi: tra i righi 1-4 viene annunciato il tema centrale dei Malavoglia (romanzo parte del Ciclo dei Vinti); tra i righi 5-26 sono descritti gli altri romanzi del ciclo, ispirati dalla fiumana del progresso, cioè del grande processo di trasformazione che interessa l’Italia di fine Ottocento; infine, tra i righi 27-53 sono evidenziati i rischi e i pericoli del progresso, spinto avanti dall’avidità e dall’egoismo individuale (i vinti sono coloro che si sono piegati, sono stati vinti dal progresso). Il progresso è paragonato a una fiumana che avanza inesorabilmente. Esso procede attraverso la lotta per la vita e, dunque, attraverso una feroce selezione naturale: l'egoismo individuale, che ne è alle radici e che spinge avanti ogni individuo, produce l’avanzamento del progresso. Questo, visto da lontano, appare grandioso; invece, visto da vicino, mostra tutte le contraddizioni, gli orrori e i soprusi che stanno alla base della selezione naturale e della lotta per la vita. Appare qui l’idea naturalistica dell’evoluzionismo sociale, quale era stata diffusa dal positivismo e in particolare dal “darwinismo sociale”. Per questo Verga decide di mostrare il rovescio negativo del progresso, di rivelarne i costi dolorosi. Lo scrittore dichiara infatti di interessarsi ai vinti, cioè alle vittime del progresso. Questa predilezione si spiega con il fatto che l’osservatore, cioè lo scrittore, è travolto anche lui dalla fiumana del progresso e, dunque, è anche lui un vinto. Il progresso, infatti, da un lato subordina l’artista alle proprie leggi (quelle dell’interesse e del successo volgare), dall’altro lo disprezza ed emargina, facendone un escluso e un diverso. Al contrario di Zola, per Verga la letteratura non può modificare la realtà ma solamente descriverla. Per quanto riguarda la poetica afferma che deve essere uno studio sincero e spassionato, condotto con distacco scientifico e oggettivo, senza partecipazione emotiva. Inoltre, l’osservatore non ha il diritto di giudicare (al contrario dei romantici), ma deve fornire documenti oggettivi della realtà in modo impersonale e neutro. La forma deve essere inerente al soggetto, quindi deve adattarsi al personaggio; a mano a mano che si salirà di gerarchia sociale, sarà più complessa.
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Downloaded by: causeyouresky (anto.derrico2003@gmail.com) IL FINALE DEI MALAVOGLIA DI GIOVANNI VERGA È un estratto del romanzo I Malavoglia pubblicato nel 1881 da Giovanni Verga. Dopo essersene andato in città per sfuggire alla tradizione e per dirigersi verso il progresso, ‘Ntoni viene imprigionato per aver accoltellato il brigadiere che insidiava la sorella Lia. Dopo cinque anni torna di notte, per non farsi vedere dagli altri abitanti di Aci Trezza, alla casa del Nespolo (che assume un valore simbolico, poiché rappresenta il nucleo famigliare); ma è già pronto ad andarsene (sta sull’uscio della porta). Verga afferma che anche chi ha avuto una sorte meno fortunata tornerà a dormire in una casa, ‘Ntoni invece no. Queste ultime pagine vengono inserite ex novo per rendere più chiaro il messaggio: da qui vediamo che Verga è contrario al progresso, infatti, ‘Ntoni ha accettato la modernità ma solo alla fine capisce l’errore e le sue conseguenze, per questo non può più vivere ad Aci Trezza; il progresso e la modernità corrompono il mondo rurale della tradizione, ma solo chi rispetta la tradizione riesce a sopravvivere. Ancora una volta fa riferimento ad altri abitanti, come lo Zio Santoro, che sebbene appartenga alla classe più bassa ricomincia la giornata, mentre ‘Ntoni è escluso dalla ripetizione poiché rifiuta il tempo ciclico. È emarginato poiché ha abbandonato la famiglia, non si sente più degno di vivere in quella casa, anche se è consapevole del fatto che dovrebbe restare alla casa del Nespolo per ricostruire la famiglia che è ormai in crisi tema del traviamento: il protagonista deve andare nella modernità, proprio come Verga deve andare a Milano ma si sente colpevole poiché dovrà abbandonare la sua famiglia.
LA ROBA DI GIOVANNI VERGA
È la settima delle Novelle rusticane, raccolta di dodici racconti siciliani pubblicata nel 1883. L’andamento epico-lirico dell’inizio avvicina questo racconto alle novelle di Vita dei campi, raccolta uscita nel 1880; ma il tema della roba e la conclusione, la quale sottolinea la vanità della roba di fronte alla morte, collocano la novella saldamente nel contesto della raccolta Novelle rusticane. Il testo può essere suddiviso in tre parti: la prima (righi 1-28) è una sorta di antefatto in cui si alternano i punti di vista di un viandante che guarda stupito le proprietà di Mazzarò e le risposte del lettighiere che lo informa delle ricchezze di questo personaggio; la seconda (righi 29-120) racconta la storia di Mazzarò, che da contadino alle dipendenze di un barone latifondista si trasforma in grande proprietario terriero soppiantando il nobile; infine la terza (righi 121-131) contiene la conclusione del racconto, giocata sul tema della vanità della roba di fronte alla morte, la prospettiva della quale rende assurde l’accumulazione e l’arrampicata sociale di Mazzarò. Nella prima parte e all’inizio della seconda il tono è quello epico-lirico di una fiaba popolare (le domande del viandante ricordano il gatto con gli stivali). È l’intera comunità, che, attraverso l’ottica del viandante e del lettighiere, trasforma in leggenda popolare la vicenda di Mazzarò. Il ritmo stesso dell’accumulazione economica si trasforma in ritmo narrativo, trasferendosi in una cadenza d’epica popolaresca. Essa è data dall’incalzare delle ripetizioni e del susseguirsi delle e. Nella terza parte questo ritmo viene meno poiché l’elemento realistico e drammatico è in primo piano: la vecchiaia e la vicinanza della morte rendono assurda l’epica dell’accumulazione. La roba non riesce a riempire di significato la vita e anzi si rivela un valore del tutto inadeguato nella prospettiva della morte. Protagonista del racconto è, quindi, Mazzarò; un contadino siciliano che a poco a poco, tutto sacrificando alla logica economica, è diventato il maggior proprietario terriero della regione. Nonostante questa ricchezza egli continua a vivere una vita frugale, è avido, non vuole spendere denaro se non per il minimo indispensabile; non aiuta nessuno, anzi approfitta delle difficoltà altrui per accumulare ancora più roba. Ma, a causa di questo, resta solo: questa solitudine è riempita solo dalla roba. L’autore nella conclusione non esprime un giudizio, ma
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Downloaded by: causeyouresky (anto.derrico2003@gmail.com) capiamo ugualmente che Mazzarò scopre il non senso di una vita dedicata esclusivamente alla roba. Infatti, nella conclusione, vediamo che rimpiange di non aver abbastanza tempo per accumulare più roba, per questo vuole distruggere tutto e portarselo con sé dopo la morte. Il narratore, dunque, non è neutro: vediamo che prova ammirazione nei confronti del protagonista, ma è una tecnica chiamata straniamento, la quale fa prendere le distanze al lettore rispetto al personaggio. Secondo il narratore la mentalità economia del tempo giustificava tutti quei gesti, seguendo la logica del darwinismo sociale (lotta per la sopravvivenza). Come Gesualdo, anche Mazzarò ha un rapporto esclusivamente economico con il paesaggio. La continuità fra i due personaggi consiste, inoltre, nella verifica finale dell’insensatezza della roba come valore supremo a cui ispirare la vita. Mazzarò, che si è dedicato alla roba senza distrazioni e senza alcuna concessione ai sentimenti, di fronte alla morte non sa lasciare la roba né trovare uno scopo alla propria vita, proprio come Gesualdo. L’unica differenza è che Gesualdo, oltre al fallimento economico, fallisce anche a livello esistenziale: voleva diventare nobile sposando una nobile, ma è rimasto mastro.
IL FUMO DI ITALO SVEVO
Il Fumo è il secondo capitolo del romanzo La Coscienza di Zeno, scritto da Italo Svevo nel 1923. In tutti i capitoli a scrivere e Zeno, che parla della propria vita e della propria coscienza: c’è dunque un “io” narrante e un “io” narrato. Questo romanzo è oggetto di critica poiché ha una struttura diversa: non c’è più uno sviluppo cronologico dei fatti, ma sono presenti solo riflessioni sparse o associazioni di idee; inoltre, non racconta più la storia della sua vita, bensì la storia della sua malattia, e il fumo rappresenta il sintomo più eclatante. Zeno è un personaggio contraddittorio: prova attrazione e repulsione allo stesso tempo nei confronti della sigaretta “ non so se amavo o odiavo…” poi, formula grandi propositi, finalizzati a gustarsi maggiormente l’ultima sigaretta, che sa già in partenza che sono già falliti (è velleitario: sa di avere una grandezza latente ma non fa nulla per portarli avanti debolezza di volontà perché non crede fino in fondo ai suoi propositi). Successivamente, viene mostrato un episodio in cui Zeno si ammala ed è a letto: entra a suo padre e gli dice di non fumare anche se lui stesso ha in mano un sigaro, appena il padre esce Zeno ricomincia a fumare. Inoltre, viene mostrato come Zeno soffra del complesso di Edipo (come afferma Freud il figlio maschio percepisce come rivale il padre e il rapporto di amore che ha con sua madre): la madre, quando aveva messo a letto Zeno, sgrida il padre e gli chiede di abbassare la voce; Zeno si compiace del fatto che il padre era stato sgridato. Il padre rappresenta il tipico modello borghese, sano e autoritario; mentre il figlio è pasticcione e velleitario. Questo suo modo di essere può essere inteso come una ribellione passiva e boicottaggio indiretto (meccanismo inconscio) del modello sano e borghese del padre. A questo punto il padre è sia l’uomo ammirato che il modello inconsciamente rifiutato da parte di Zeno aspetto rivoluzionario del romanzo. Un altro tema importante che viene trattato in questo capitolo è quello del tempo che qui non è più lineare, ma è un tempo misto, che prevede la compresenza di paini temporali differenti ( tempo della coscienza richiamo a Bergson). Il personaggio non è più unitario, completo e definibile, ma diventa più difficile da inquadrare poiché non lo vediamo più da fuori bensì da dentro (coscienza). In questo capitolo è visibile l’influenza delle nuove idee e teorie sviluppatesi nel Novecento, come la dimensione dell’inconscio e quindi, in questo caso, la dimensione psicologica del paziente Zeno, o il complesso di cui quest’ultimo soffre: il complesso di Edipo; che Svevo riprende da Freud. Oppure la nuova idea di tempo introdotta dal filosofo Bergson, il quale induce Svevo a narrare i fatti senza un ordine cronologico preciso, ma secondo il tempo della mente (quello interiore).
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Downloaded by: causeyouresky (anto.derrico2003@gmail.com) LA SALUTE DI AUGUSTA DI ITALO SVEVO Anche questo testo appartiene al romanzo La Coscienza di Zeno scritto nel 1923. Zeno, fidanzatosi con Augusta per ripiego, senza alcuna convinzione, una volta sposato si ricrede, riconoscendo in lei ciò che più desidera: la salute. Le regole di comportamento di Augusta sono semplici ma essenziali, prima tra tutte vivere contenti di ciò che si ha, senza tormentarsi sul significato dell’esistenza (“Se anche la terra girava non occorreva mica avere il mal di mare!”, vv. 46-47). La donna non è turbata dai mutamenti, anzi li assorbe in sé ottusamente e la sua «salute» consiste nel chiudersi nelle abitudini del rassicurante mondo familiare, prodiga di cure e affetto per le persone che le stanno intorno e fiduciosa, per quanto riguarda l’esterno, nelle istituzioni e nelle autorità che garantiscono l’ordine. Anche Zeno agli inizi della vita matrimoniale avverte questa soddisfazione, ma ora che è vecchio, ripensando alla «salute» della moglie, nutre il dubbio che sia illusoria e la vede come una malattia (“Io sto analizzando la sua salute, ma non ci riesco perché m’accorgo che, analizzandola, la converto in malattia. E scrivendone, comincio a dubitare se quella salute non avesse avuto bisogno di cura o d’istruzione per guarire”, vv. 68-70). La condizione di Augusta rappresenta un ossimoro salute atroce : la salute solitamente è un valore positivo, ma viene definita atroce perché si omologa alle convenzioni borghesi, è superficiale. Infatti, Zeno afferma che se la normalità è quella di non pensare e omologarsi allora deve rivalutare la sua malattia. A questo punto si tratta di guarire dalla salute atroce e, dunque, l’inetto malato (Zeno) diventa sano: la salute diventa malattia poiché per salute si intende omologazione borghese; la malattia diventa salute perché è una sorta di ribellione passiva difronte convinzioni borghesi. Dunque, a distanza di anni Zeno presenta una descrizione distaccata e ironica della moglie, rendendosi conto che è Augusta ad aver bisogno delle cure per vivere, non lui. Nella conclusione del romanzo ritorna questa dialettica salute-malattia e Zeno dirà che solo gli animali possono godere di una vera salute, perché si adeguano ai bisogni elementari. Dunque, l’inetto Zeno, che non si cristallizza nella condizione di borghese e che si autoanalizza, racchiude in sé una valenza positiva. L’ammirazione di Zeno nei confronti della moglie nasconde un’evidente ironia, che accosta in modo stridente i comportamenti seri con le banalità: alle certezze granitiche della donna sono opposti i faraonici e paradossalmente comici dubbi che attanagliano Zeno.
SALUTE DI AUGUSTA MALATTIA DI ZENO
è serena poiché non si analizza interiormente Inquietudine interiore poiché si analizza continuamente in modo ossessivo Ha delle certezze Non ha delle certezze Va regolarmente a messa, non per fede ma per Non è credente abitudine Crede nelle autorità: quella austriaca e quella È pessimista e non crede nelle autorità italiana Crede nei medici Non crede nei medici e ha paura della morte e della malattia Vive il presente e ha stabilità Ha un forte senso di instabilità Accetta e segue le convenzioni borghesi senza Non ha alcun punto di riferimento metterle in discussione: l’anello di matrimonio, quando arriva a casa si toglie il vestito buono, alcuni colori vanno bene mentre altri no ecc.
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Downloaded by: causeyouresky (anto.derrico2003@gmail.com) IL RITRATTO DI ANDREA SPERELLI DI GABRIELE D’ANNUNZIO Questo brano costituisce la presentazione del protagonista del romanzo Il Piacere, Andrea Sperelli. Esso è incentrato sull’educazione del protagonista, ricevuta grazie ai numerosi viaggi in compagnia del padre. Lontano dall’opprimente metodo educativo di maestri privati, Andrea si forma attraverso le “realtà umane”, cioè tramite l’esperienza concreta. Il padre, inoltre, gli suggerisce una massima fondamentale: “la vita deve essere vissuta come un’opera d’arte”. Fin dal primo momento sono messe in risalto le contraddizioni che ne attraversano la personalità, minacciandone la compattezza e l’equilibrio. Benché espressione dell’estetismo dannunziano, Andrea Sperelli è dunque anche l’espressione, in qualche modo autocritica, dei suoi limiti. Il protagonista è un aristocratico appartenente all’antica nobiltà. Fin da subito D’Annunzio afferma che Andrea Sperelli è “tutto impregnato d’arte”, già da bambino viene educato dal padre secondo il principio “costruisci la vita come si fa con un’opera d’arte”. Il ruolo del padre è fondamentale per il protagonista, infatti egli educa il figlio, diventando anche un modello per lui. Per il padre non è importante lo studio sui libri, ma è importante fare esperienze, per questo compie numerosi viaggi insieme al figlio. Dunque, possiamo dire che Andrea è l’incarnazione dell’esteta, del dandy, secondo i precetti del Decadentismo europeo. Tutto questo, però, ha sia aspetti positivi che aspetti negativi: Andrea è curioso, pronto ad ogni situazione e raffinato; ma distrugge ogni forza morale, è corrotto, arido e incapace di appassionarsi veramente, ha un vuoto interiore (sofismafinzione per oscurare la verità). Come detto prima D’Annunzio non mostra solo la sua eccezionalità, ma mostra anche i suoi difetti e i suoi limitiquesto significa che anche una vita estetica, alla ricerca del piacere è vuota. Dalla prima frase, “sotto il grigio diluvio democratico odierno”, possiamo capire che la democrazia per D’Annunzio è una società decaduta, poiché la democrazia appiattisce e rende uguali (società di massa); non c’è più il gusto per il bello. Dunque, possiamo dire che Andrea Sperelli compie una ribellione dal punto di vista estetico. Egli diventa così una figura a mezza via tra il superuomo e l’inetto. Gli strumenti per costruire la raffinatezza del protagonista esibiscono il segno del privilegio economico e sociale: la possibilità di compiere buone letture, i viaggi ecc. D’altra parte, l’ideologia antidemocratica che è alla base di questa raffigurazione emerge esplicitamente nelle righe iniziali del brano, dove “il grigio diluvio democratico” è indicato quale causa di una degradazione generale che rischia di colpire anche la persistenza di famiglie come quella di Andrea Sperelli.
LA PIOGGIA NEL PINETO DI GABRIELE D’ANNUNZIO
Composta probabilmente tra il 1902 e il 1903, questa poesia si trova nella raccolta chiamata Alcyone pubblicata da D’Annunzio nel 1903. È un testo basato sull’equivalenza tra contenuto, forma e suono: il componimento è costituito di quattro strofe lunghe, con versi liberamente alternati; inoltre, fittissima è la rete di rime e altre figure di suono (assonanze, ripetizioni ecc.). Il dato oggettivo narrato in questo testo è certamente elementare: un uomo e una donna sono colti da un temporale mentre si trovano in una pineta. A caratterizzare il significato artistico del componimento è però soprattutto la sua spiccata musicalità. Tale musicalità si basa innanzitutto sul fitto sistema di rime, ed è favorita dall'impiego di versi brevi e brevissimi: spesso vengono spezzati per valorizzare alcune parole (come “piove sui mirti...divini”). Inoltre, l’autore inserisce verbi imperativi come taci, ascolta per invitare l’amata e noi lettori ad ascoltare il suono della natura. L’immersione nel grande evento atmosferico della pioggia estiva diviene per i due protagonisti l’occasione di fondersi con la natura, entrando quasi magicamente a farne parte: avviene una sorta di vegetalizzazione dell’uomo, continui sono i segni di scambio tra uomo e
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Downloaded by: causeyouresky (anto.derrico2003@gmail.com) natura (alla mancanza di parole umane si contrappone la presenza di parole più nuove pronunciate dalle gocce di pioggia e dalle foglie sui cui queste picchiano). I volti dei due protagonisti sono definiti silvani, mentre tutta la natura si trasforma in un’immensa orchestra: ogni tipo di vegetazione rappresenta un diverso strumento che le dita della pioggia suonano (vv.46-51). Mentre, alla fine della seconda strofa, D’Annunzio riprende il mito di Apollo e Dafne: lui è Apollo, mentre Ermione è Dafne; infatti, vediamo la sua trasformazione in un oggetto interamente naturale (proprio come Dafne si era trasformata in un alloro), vegetalizzandosi. Più avanti, nella quarta strofa, entrambi i protagonisti si naturalizzano e vegetalizzano, così che il loro cuore diventa come una pesca ecc. Dunque, la pioggia estiva compie il miracolo della metamorfosi, fondendo il poeta ed Ermione con la natura, e antropomorfizzando i fenomeni naturali. Proprio la naturalizzazione dell’umano e l’umanizzazione della natura sono tra i caratteri distintivi della poetica simbolista corrispondenze e panismo (fusione dell’io con il tutto dell’indistinto naturale).
TEMPORALE DI GIOVANNI PAASCOLI
Questa poesia si trova nella raccolta intitolata Myricae, pubblicata nel 1891. Essa è percorsa da una successione a-logica di immagini che traduce la percezione sensoriale del temporale. Il primo verso, isolato, è occupato da un richiamo fonico: il bubbolio lontano ha valore onomatopeico e allude al tuono che esplode in lontananza. È un annuncio di tempesta. L’avvicinarsi del temporale si misura tutto nello spazio bianco che divide il primo verso dal resto della poesia e dai puntini di sospensione, i quali restituiscono un’idea di calma apparente prima della tempesta (in realtà si diffonde la paura per la tempesta). A partire dal secondo verso il temporale si scatena rivelando la natura nei suoi aspetti più perturbanti. È tutto un susseguirsi di impressioni visive scorciate e di rilievi cromatici, come se la natura circostante si svelasse agli occhi del poeta in modo intermittente per i lampi, frammenti, macchie di colore. Dall’orizzonte cupo e minaccioso (nero di pece a monte) emerge, però, un casolare bianco (piccolo e isolato in un contesto grande e minaccioso), che richiama per analogia il bianco del gabbiano e, in forme simboliche e allusive, sembra acquistare il valore di un’apparizione positiva e salvifica in una realtà buia e minacciosa (via di fuga temporanea). Le immagini che vengono presentate in questa poesia non vengono disposte secondo una gerarchia, né sono rivestite di un significato esplicito; tuttavia, sono implicitamente caricate della soggettività che le registra e le esprime. Inoltre, c’è una quasi assenza di verbi: l’unico (Rosseggia) ha una funzione predicativa e caratterizza l’impressionismo- simbolista. Infine, possiamo dire che il paesaggio crea attesa: è spettacolare, ma allo stesso tempo minaccioso; tutto questo ha una forte carica simbolica, il cui significato resta, però, oscuro.
IL GELSOMINO NOTTURNO DI GIOVANNI PASCOLI
Questa poesia fu pubblicata nel luglio del 1901 in occasione delle nozze di Gabriele Briganti, un intimo amico di Pascoli (e poi raccolta nei Canti di Castelvecchio, 1903) poesia d’occasione. Accanto alla narrazione dei piccoli eventi naturali che scandiscono la notte dalla venuta della sera fino alle prime luci dell'alba, essa include con estrema delicatezza un riferimento alla notturna vicenda d'amore dei due giovani sposi. Il gelsomino notturno è uno dei risultati più alti e complessi del simbolismo pascoliano; esso è costruito su un'alternanza di detto e non detto, ovvero sul continuo rimandarsi di vari elementi (oggetti, suoni, odori) tra loro. Attraverso una serie di immagini e di sensazioni proprie del mondo notturno naturale, si accenna allo svolgimento di due vicende parallele: il ciclo erotico-sessuale della fecondazione dei fiori, che culmina in
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Downloaded by: causeyouresky (anto.derrico2003@gmail.com) quell'odore di fragole rosse e si conclude simbolicamente con l'immagine dei petali un poco gualciti, e la storia intima ed equivalente che s'intravvede nell'interno della casa. Inoltre, la poesia è basata sull’alternanza: si alternano immagini visive (i fiori, il lume, le stelle), sensazioni uditive (i gridi, i bisbigli) e sensazioni olfattive (profumo dei fiori che ricordano le fragole rosse). Anche la dimensione dello spazio alterna luoghi esterni (la campagna notturna) a luoghi chiusi (la casa). Ad unire questo montaggio alternato è il parallelismo tra il processo di fecondazione dei fiori nella campagna notturna e la consumazione della prima notte di nozze degli sposi nella casa, con l’attività sessuale che porta alla fecondazione della donna. Il poeta si identifica con l’ape tardiva che viene esclusa dalla laboriosità della vita; infatti, percepisce con forza la sua esclusione dalla scena che osserva. Tutto vive, anche la natura, ma lui è escluso dalla felicità della vita poiché si presenta solo in relazione ai suoi morti: la sua ossessione è quella di creare una famiglia, ma non ci riesce, sa di non poter vivere un’esperienza come quella dei due sposi; perché è bloccato al pensiero dei suoi morti (temi principali: quello della sessualità, quello funebre, quello dell’esclusione).
SECONDA PREMESSA A MO’ DI SCUSA DI LUIGI PIRANDELLO
È una premessa di carattere filosofico che viene scritta prima del romanzo Il fu Mattia Pascal (pubblicato nel 1904) e getta le basi della nuova poetica. Egli collega la sua vicenda personale con la crisi di fine secolo; infatti, con questa premessa egli cerca di giustificare la crisi dell’essere umano portata dalla modernità e dalla fine delle certezze. Secondo Pirandello Copernico è colpevole di tutto ciò che sta accadendo, della crisi e del crollo; poiché egli ha distrutto una delle certezze dell’uomo: l’essere umano non è più al centro dell’universo, ha smantellato l’antropocentrismo. Mentre prima l’uomo aveva un’alta considerazione di sé e si sentiva in grado di compiere grandi imprese, ora si è ridimensionato fino a considerarsi un essere insignificante (Terra come un granello di sabbia che gira senza senso). L’uomo diventa quindi marginale, senza senso e senza alcuno scopo. Dunque, entra in crisi la concezione dell’uomo: l’uomo moderno non ha più certezze, ideali, prospettive. Anche se in un contesto diverso possiamo accostare questa premessa alla Ginestra di Leopardi, poiché la distruzione dell’antropocentrismo è la premessa per riconoscere la propria condizione di fragilità e allearsi con gli altri uomini per sopravvivere, fondando, così, una nuova società con nuovi valori. Per Pirandello, quindi, la distruzione dell’antropocentrismo è la causa prima della crisi dell’uomo.
QUADERNI DI SERAFINO GUBBIO OPERATORE DI LUIGI PIRANDELLO
Esso è il primo capitolo del romanzo Quaderni di Serafino Gubbio operatore pubblicato nel 1925, il quale presenta una struttura quasi diaristica, infatti, a scrivere in prima persona è l’operatore cinematografico Serafino Gubbio. Dopo aver subito uno shock sul posto di lavoro egli fa un bilancio della propria vita e della civiltà moderna in cui vive. Infatti, parlando della propria professione di operatore, Serafino Gubbio affronta la questione delle macchine e della moderna civiltà industriale, vista come trionfo della forma. Gli uomini, tutti assorbiti nel meccanismo della forma, non riescono a percepire che esiste un oltre, e cioè che esiste anche la vita, la quale scorre impetuosa sotto le incrostazioni della civiltà. E quando l'avvertono sono presi da improvviso turbamento. Il tema centrale del primo capitolo è, dunque, quello dello sguardo straniato e distaccato con cui il protagonista osserva vivere gli altri, cogliendo ciò che questi non vedono: l’insensatezza di parole e gesti quotidiani. Altro tema centrale è la critica al trionfo delle macchine nella società moderna; poiché l’uomo diventa estraneo a se stesso e alla propria vita, che si riduce
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Downloaded by: causeyouresky (anto.derrico2003@gmail.com) ad un meccanismo svuotato di senso, ripetitivo e alienante. Dunque, possiamo dire che prevale la componente riflessiva di Pirandello: egli è contrario al progresso e alla modernità perché rendono l’uomo schiavo e alienato. Serafino Gubbio afferma che la civiltà delle macchine trascura i sentimenti e l’aspetto umano, gli importa solo dell’aspetto produttivo ed economico. Tutto ciò che potrebbe ostacolare tale produttività viene visto in negativo: a dettare i ritmi della vita dell’uomo è sempre la produzione (vita dell’uomo come una corsa infinita). La macchina è, quindi, diventata padrone dell’uomo: siamo ingranaggi adattati alla frequenza di questa nuova società industriale, che vede il trionfo della forma (delle maschere che ci vengono assegnate)
LA CARRIOLA DI LUIGI PIRANDELLO
La carriola è una delle novelle più conosciute di Luigi Pirandello contenuta nella raccolta Novelle per un anno pubblicata nel 1917. In questa novella vediamo ancora una volta il contrasto tra vita e forma: dove per vita si intende un flusso continuo, instabile e mutevole dentro di sé che noi cerchiamo e ci sforziamo di bloccare con forme stabili. Invece le forme sono gli ideali e le convenzioni della società: ognuno di noi cerca di crearsi un identità attraverso queste forme, cerchiamo di crearci una personalità fissa ma dentro di noi è presente questo flusso vitale continuo che non permette l’esistenza di un’unica identità (è solo uno sforzo esteriore). Possiamo vivere cercando di mascherare le nostre innumerevoli personalità a lungo, ma a volte qualcosa incrina questo equilibrio e quando ne prendiamo coscienza “ci vediamo vivere”, ovvero diventiamo consapevoli dell’inautenticità della forma fissa e non possiamo più fingere che questo episodio che incrina l’equilibrio non sia mai esistito; non possiamo più credere a quello che era solo una finzione, dal momento che diventiamo consapevoli dell’assurdità della vita. Per Pirandello non abbiamo una sola personalità, ne abbiamo una per ogni contesto a cui ci affacciamo. Indossiamo solo una maschera, ma non c’è un’unica forma. Nella novella un uomo racconta, con fare molto misterioso, una mania che da qualche giorno ha e che lo tormenta segretamente. È un avvocato e professore di diritto con gravosi impegni lavorativi e obblighi pubblici e privati e non si concede alcun tipo di distrazione. Un giorno, sul treno di ritorno da Perugia, non riuscendo a concentrarsi sul lavoro, l’avvocato ha contemplato per un istante, fuori dal finestrino, l’incantevole campagna davanti ai propri occhi, senza realmente vedere nulla. Il protagonista, insomma, ha una sorta di visione della vita che, per la maschera impostagli dal mondo e dalla società, non ha mai vissuto. Da qui, gli nasce una “atroce afa della vita”, che gli rende insopportabile l’esistenza quotidiana sinora condotta. Tornando a casa viene invaso dalla spaventosa certezza di essere ormai diverso dall’uomo che abita normalmente quella casa, e si vede come estraneo a se stesso. L’uomo decide di non cambiare abitudini e conserva la “forma”. Si concede solo una trasgressione: ogni giorno, quando è nel proprio studio ed è sicuro di non essere disturbato, si concede il gesto apparentemente insensato di prendere la cagna che dorme lì per le zampe posteriori e di farle fare “la carriola” per una decina di passi. Il terrore negli occhi dell’animale diventa, agli occhi dell’uomo, la dimostrazione che non si può uscire dal ruolo che il mondo ci ha, in un modo o nell’altro, assegnato. Possiamo, dunque, dire che si vede vivere: è spettatore della propria vita.
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Downloaded by: causeyouresky (anto.derrico2003@gmail.com) VEGLIA DI GIUSEPPE UNGARETTI È una delle poesie più note di Ungaretti; essa fa parte della raccolta chiamata Allegria, ed è stata scritta il 23 dicembre 1915 sul fronte (Cima Quattro il 23 dicembre 1915). Il poeta qui ci restituisce un'immagine emblematica dell'atrocità della violenza. La poesia è composta da due strofe, divise da uno spazio bianco. La prima strofa descrive una scena raccapricciante: il poeta trascorre tutta la notte accanto ad un compagno ucciso e sfigurato. I versi 12-13 chiudono questa strofa introducendo una svolta tematica: di fronte l'orrore e alla morte, l'autore mostra un'ostinata vitalità e scrive «lettere piene d'amore». La seconda strofa è costituita da tre soli versi ed esprime il senso di resistenza. A contatto con la morte il poeta diventa consapevole del suo attaccamento alla vita. Nel suo intreccio di vitalità e senso di morte, Veglia è una poesia esemplare che sembra riassumere i temi principali dell'Allegria. Per presentare gli orrori della guerra, Ungaretti, introduce una descrizione espressionistica della situazione che sta vivendo: si trova buttato accanto ad un corpo «massacrato», che ha la bocca «digrignata» e con la «congestione» delle mani (color violaceo/bluastro) per tutta la notte. Il corpo del soldato morto è in tal modo rappresentato come deformato e perturbante. Tuttavia, il tema del cadavere sfigurato e scomposto coesiste con la situazione di concentrazione, di ricomposizione e di sublimazione del poeta: le parole tematiche di questo opposto campo sono «plenilunio», «silenzio», «amore». l tema del corpo deforme è tipico della poetica espressionista. Viceversa, il tema del riscatto di una condizione tragica attraverso la parola poetica è tipico del Simbolismo (nel mio silenzio). Infine possiamo dire che, questa poesia contiene diverse componenti avanguardistiche: avviene una scarnificazione delle frasi, infatti, vengono utilizzati versicoli (versi composti da una sola parola) per enfatizzare alcune parole che esprimono l’orrore della guerra o l’attaccamento alla vita; per i sentimenti positivi vengono usati verbi finiti, mentre per indicare la violenza e gli aspetti macabri utilizza participi o verbi indefiniti richiamati tra di loro attraverso il suono (suono sgradevole tr).
I FIUMI DI GIUSEPPE UNGARETTI
È uno dei testi più importanti e riusciti dell'Allegria e dell'intera opera ungarettiana; una specie di autobiografia in versi. Il poeta, in un momento di riposo dalla guerra, ha fatto il bagno nel fiume Isonzo, che scorre lungo il fronte orientale. A sera ripensa a quell'esperienza (prima strofa), e si rende conto che l'acqua dell'Isonzo ha rievocato in sé stessa quella di altri tre fiumi: Serchio, Nilo, Senna rappresentativi di altri momenti della sua vita (ultima strofa): il primo è il fiume delle radici, rappresenta il retroterra della sua famiglia; il secondo è il fiume dell’infanzia e della giovinezza trascorse dal poeta in Egitto e vissute all’insegna della libertà e della spensierata incoscienza; infine il terzo allude al periodo parigini in cui il poeta raggiunge una consapevolezza culturale. All'interno di questa cornice si inserisce la rievocazione del bagno nell'Isonzo (dalla seconda alla penultima strofa), che a poco a poco suscita l’evocazione metaforica degli altri fiumi ricordati (a partire dal v. 42). L'immersione nell'acqua del fiume comporta due conseguenze: una regressiva e una purificatrice. La purificazione permette al poeta di sentirsi in armonia con l'universo, di percepire la propria esistenza (e il proprio stesso corpo) come una parte del tutto (v. 15). La regressione permette invece di recuperare anche la dimensione temporale, cioè il proprio passato individuale, facendone quasi un attributo del presente: anche la storia della propria vita diventa per il poeta recuperabile come ricchezza presente, in nome della generale condizione di «armonia». Per quanto riguarda lo spazio temporale possiamo dire che ci sono tre piani temporali: - quello del presente, che rappresenta il momento in cui scrive la poesia. Esso caratterizza la prima (in cui descrive la tranquillità di quel momento, la guerra non è finita ma è in pausa)
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Downloaded by: causeyouresky (anto.derrico2003@gmail.com) e l’ultima strofa (in cui guarda con nostalgia le epoche passate che ha descritto in precedenza attraverso i fiumi) struttura circolare - quello del passato più vicino, nel quale Ungaretti ricorda il momento del bagno nell’Isonzo (dal v. 9 al v. 41) - quello del passato più lontano, nel quale rievoca le epoche della sua vita: il fiume Isonzo ha rievocato nel poeta il ricordo dei tre fiumi e, quindi, dei periodi passati: essi non sono ricordi sepolti e superati ma agiscono sull’Ungaretti del presente (dal v. 42 al v. 60) dal verso 36 al verso 41 vediamo come le mani del fiume regalino momenti di felicità ad Ungaretti: avviene una sorta di fusione tra uomo e natura. Dunque, la natura assume un valore positivo, poiché gli permette di ritrovare la sua identità, che aveva perso a causa degli orrori della guerra. Il poeta viene presentato attraverso delle corrispondenze, similitudini e immagini. Infine, possiamo vedere come un’esperienza individuale in questa poesia diventi un’esperienza universale.
NON CHIEDERCI LA PAROLA DI EUGENIO MONTALE
Esso è il primo componimento della sezione Ossi di seppia pubblicata nel 1923. È una sorta di manifesto o dichiarazione di poetica rivolta al lettore (il tu, a cui il testo è indirizzato), che accomuna Montale ai poeti della sua generazione (di qui l’uso della prima persona plurale noi). A differenza di D’Annunzio, che vedeva l’intellettuale come essere superiore, egli afferma che il poeta non ha alcun messaggio positivo da rivolgere agli uomini: la sua anima divisa e informe può comunicare solo messaggi negativi, di denuncia del male di vivere e dell’insignificanza del mondo. Infatti, si rivolge al lettore dicendogli che non deve chiedere al poeta verità illuminanti o chiedere aiuto per trovare i segreti dell’animo umano (non più poeta vate, rifiuta l’idea di poesia come illuminazione). Per affermare che l’intellettuale non è in grado di rispondere a queste domande, Montale utilizza una metafora: il poeta non può essere come un fiore giallo (croco) che fa risplendere un campo grigio e polveroso. Nella seconda strofa descrive la condizione dell’uomo nella società di massa: l’uomo massa è superficiale, non si accorge della realtà che gli sta attorno (l’ombra sua non cura). Infine, nell’ultima strofa ripropone il fatto che i poeti possono solo dare una verità parziale (sillaba storta): la poesia, più che definire la realtà in modo positivo, è in grado di descrivere gli aspetti negativi della realtà. Montale, come Leopardi, è fortemente pessimista sia per quanto riguarda la figura del poeta che la realtà (muro scalcinato; campo polveroso) idea di aridità della vita moderna (no simboli, ma allegorie e fonosimbolismi)
SPESSO IL MALE DI VIVERE HO INCONTRATO DI EUGENIO MONTALE
Anche questo fa parte della sezione Ossi di seppia (raccolta di “scarti” di poesie, per questo vengono presentati oggetti umili e non contenuti elevati già con Myricae di Pascoli). Questa poesia esprime il male di vivere (sofferenza silenziosa, fisica, angosciosa) che costituisce il tema centrale di tutta la poetica del primo Montale. Il testo ha una struttura binaria (simmetrica) poiché contrappone, attraverso correlativi oggettivi (concetti astratti rappresentati da oggetti umili e concreti), il male al bene. La prima quartina è dedicata alla descrizione del male, il quale è rappresentato da tre immagini (correlativi oggettivi: - il rivo stramazzato ostruito da massi che crea mulinelli lasciando il ruscello senza aria - la foglia riarsa perde acqua e si racchiude su sé stessa (sofferenza fisica) - il cavallo stramazzato crolla a terra sfinito
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Downloaded by: causeyouresky (anto.derrico2003@gmail.com) Mentre, nella seconda quartina, viene presentato il bene con immagini più deboli rispetto a quelle utilizzate per descrivere il male: - la statua contesto di immobilità - la nuvola - il falco esse rappresentano l’unica cosa che è in grado di sfuggire al male, ovvero la divina indifferenza, l’assenza di coinvolgimento. Dunque, il male è connaturato alla vita stessa, mentre il bene è individuabile solo nella distanza, nell’imperturbabilità (guardarsi vivere dall’esterno). Infatti, le tre immagini che rappresentano il bene suggeriscono poca emotività, tutte non hanno contatti con la vita, con la terra, per questo sfuggono al male. Ancora una volta vediamo la concezione pessimistica che Montale ha della realtà in cui vive.
LA CASA DEI DOGANIERI DI EUGENIO MONTALE
Questa poesia, data 1930, apre la quarta e ultima parte delle Occasioni. Si immagina che il poeta e la sua interlocutrice abbiano vissuto insieme un momento di vita vera nella casa dei doganieri, passato il quale i rispettivi destini si sono separati: il poeta vive ancora, mentre la donna è morta. Il primo è rimasto tenacemente legato al ricordo di quel momento e del luogo dell’incontro, abbandonato invece, dalla donna. Ma non per questo è possibile sapere chi dei due sia davvero vivo e dunque fedele all'autenticità di quell'incontro lontano: l'apparente resistenza del poeta e l'apparente lontananza della donna potrebbero essere infatti fallaci. Il testo, dunque, può essere suddiviso in due parti: la prima coincide con le prime tre strofe, mentre la quarta strofa segna una svolta. Nella prima strofa il poeta recupera un ricordo del passato: un incontro vissuto nella casa dei doganieri insieme ad Arletta. Ma lei, dato che è morta, non ricorda più. La seconda e la terza strofa insistono sulla dimensione di perdita che minaccia il poeta, la casa e la memoria, introducendo una serie di correlativi oggettivi (la bussola, i dadi, il gomitolo ecc.) tema della lontananza spaziale e temporale: altro tempo frastorna la tua memoria. La quarta strofa determina, appunto, una svolta: la luce della petroliera potrebbe indicare un passaggio verso la vita vera (il varco). Tutto ci cambia, la memoria non ci aiuta a fuggire dal male di vivere; il varco è irraggiungibile, c’è solo una situazione ciclica, che si ripete (come il mare che si infrange sulle coste della Liguria). Non è, quindi, possibile vivere del ricordo. Inoltre, possiamo dire che Montale in questa poesia riprende alcune situazioni leopardiane: la ragazza viene descritta come irrequieta e vivace, con voglia di vivere proprio come Silvia; ma, al contrario di Silvia, Arletta non riesce a ricordare, proprio perché è morta. Dunque, possiamo dire che l'amore letterario è caratterizzato dall'assenza della donna, da un dialogo immaginario che il poeta cerca di condurre insieme alla donna, e dalla solitudine del poeta. Per quanto riguarda lo stile, possiamo dire che Montale inserisce numerosi correlativi oggettivi eliminando qualsiasi didascalia o commento; dunque, inserisce oggetti di uso comune come portatori di significati: un esempio possono essere la bussola e i dadi, che suscitano un senso di disorientamento e mancanza di senso e che caratterizzano la condizione del poeta.