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GIACOMO LEOPARDI

Opere:
Zibaldone: raccolta vastissima di appunti scritti in maniera informale di argomenti vari; spesso tali
pensieri non sono nemmeno conclusi: si passa da argomenti relativi alla sua concezione del mondo
all'arte, alla religione, all’amore. Composti tra il 1817 ed il 1832.
Raccolta Dei Canti titolo globale di tutte le poesie di Leopardi, essi presentano diverse fasi di
composizione. Contengono poesie, liriche appartenenti a periodi di tempo diversi. La composizione
dura dal 1817 al 1837 anno della sua morte.
Operette morali: sono testi in prosa di carattere filosofico, incentrati soprattutto sulla sua concezione
pessimistica della vita umana; è frequente la forma del dialogo ma anche della favola edificante. Il
tono è quello pungente dell'ironia che a volte raggiunge il sarcasmo. Composizione iniziata nel
1824.
Paralipomeni della Batracomiomachia: Batracomiomachia era un poemetto pseudo-omerico in cui
si descriveva una battaglia di topi e rane (batracos = rana). L'opera di Leopardi è una continuazione
del poema di Omero in cui, in chiave satirico-politica, si rappresenta la società contemporanea del
poeta, segnata dal fallimento dei moti rivoluzionari degli anni 30 e dalla restaurazione (1835).
Altri scritti: Epistolario; Pensieri non conclusi nello Zibaldone; Discorso di un italiano intorno alla
poesia romantica(1818).

Biografia:
Giacomo Leopardi nasce nel 1798 a Recanati e muore nel 1837 a Napoli. La sua famiglia, pur
essendo nobile, si ritrovava in ristrettezze economiche a causa del padre Monaldo; fortunatamente
la madre, Adelaide Antici, era una brava amministratrice e aveva imposto uno stile di vita restrittivo
al marito ed ai figli per affrontare i problemi economici; Giacomo fu severamente influenzato dalla
madre.
Dal 1809 al 1816 la vita di Leopardi fu caratterizzata dallo studio, infatti grazie alla sua vivace
intelligenza e alla biblioteca molto fornita del padre, arrivò a superare i suoi precettori; leggeva
classici latini e greci, aveva imparato l'ebraico e si era interessato anche a scrittori moderni e
contemporanei quali Foscolo, Parini ed Alfieri.
Questa sua passione per lo studio lo portò, essendo già gracile, ad avere complicazioni dal punto di
vista fisico. D'altra parte lo portò a capire che non esiste solo l’erudizione del sapere antico,
scoprendo così il bello della poesia (1816)  conversione poetica.
Giacomo non si allontana mai da Recanati. Nel 1817 comincia un'amicizia epistolare con Pietro
Giordani, il quale era un classicista; egli è importante per la posizione che prenderà Leo nella
polemica classico-romantica: si schiererà dalla parte dei classicisti. Questa amicizia portò Leopardi
ad aprirsi finalmente al mondo esterno e ad intervenire in un contesto importante per l’epoca.
Nel 1818 scrisse il Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica e cominciò a comporre le
Canzoni Civili (prima fase dei Canti) di stampo classicistico, nelle quali si piangono i bei tempi
passati e si esprime lo sdegno per la decadenza nel mondo contemporaneo; la più importante fu
quella intitolata “All'Italia”. La composizione va dal1818 al 1822.
Il 1819 è segnato come periodo di crisi dovuto ad una malattia degli occhi che gli impediva la
lettura; così Leopardi si chiuse ulteriormente nei suoi pensieri, cominciando a fare riflessioni su vari
temi; oltretutto tentò la fuga da Recanati ma fallì poiché sventato dal padre. Ciò aumentò la sua
sensazione di soffocamento.
Quindi, a seguito di queste sventure, si ha un’acutizzarsi delle sue idee pessimistiche e cominciò a
scrivere opere diverse che costituiscono la seconda parte dei Canti: gli Idilli, fra i quali troviamo la
poesia intitolata l'Infinito.
Sempre nel 1819 si colloca la sua conversione filosofica che consiste nel passaggio dal bello al
vero, iniziando a sistemare in maniera più chiara le riflessioni sul pessimismo.
Dal 1822-1823 Leopardi riesce a lasciare Recanati e si reca a Roma presso gli zii materni.
Da questa nuova esperienza subisce una grande delusione, anche all’interno dello stesso
classicismo, in quanto vide i resti dell'antichità andare in rovina e decadere.
L’uscita dal mondo che lui credeva negativo, non è positiva, questo accresce maggiormente la sua
negatività riguardo il mondo. Rientrando a Recanati la crisi si tramuta in un silenzio poetico.
Nel 1824 compose opere in prosa ironica disincantata sulla condizione umana, cioè le Operette
Morali. Leopardi doveva mantenersi per cui prova ad avere impegni come letterato entrando in
contatto con gli ambienti toscani.
Nel 1828 Giacomo si trasferì a Pisa per poter migliorare le condizioni del suo fisico infermo e
cominciò a ricomporre poesie che costituiscono la terza parte dei Canti, ovvero i canti Pisano-
Recanatesi, quelli dal maggior successo, fino al 1830.
Nel 1830 Leopardi lasciò definitivamente Recanati e si recò a Firenze dove entrò in contatto con i
cattolici liberali ( frequentati anche da Manzoni) e dove si innamorò, non ricambiato, di Fanny
Targioni Tozzetti, una donna sposata, componendo per lei poesie diverse dalla precedenti, le quali
costituiscono la quarta parte dei Canti, ovvero il Cielo di Aspasia.
Aspasia era lo pseudonimo con cui Leopardi indicava Fanny ed era anche l'etera amata da Pericle.
Nel 1833 si recò a Napoli, con Panini, dove nel 1835 compose i Paralipomeni della
Batracomiomachia e due canti, ovvero la Ginestra e Il Tramonto della Luna. Infine morì nel 1837.

Pensiero:
una cosa a cui Leo tiene particolarmente e che esplicita, riguardo il suo pensiero, è che le sue
riflessioni filosofiche sulla natura umana(l'uomo sempre infelice) non dipendono solo dalle sue
condizioni di vita di uomo infelice (esistenza poco felice, l'amore non ricambiato per Fanny, altre
delusioni, le condizioni familiari e sociali poco favorevoli) ma da idee fondate:
- Il pensiero leopardiano è asistematico; egli è un uomo che sia per la sua esperienza, sia per le sue
riflessioni, ha una determinata concezione della vita. Di questa sua riflessione filosofica universale
non fa un sistema filosofico, non segue uno schema preciso.
La poesia ed il pensiero sono per lui strettamente legate. Egli infatti usa le espressioni “Poesia
Pensante, Pensiero Poetante”. Leopardi parte da riflessioni su vari ambiti dai quali sviluppa varie
idee; è un poeta che offre una riflessione esistenziale.
- Nelle sue poesie troviamo molto della sua esperienza di sofferenza su cui si basa il suo pensiero
(Romanticismo= autenticità e immediatezza della vita del poeta nella poesia; pensiero fondato
sull'esperienza). Si realizza dunque il romanticismo dal momento che riporta direttamente nelle sue
opere il pensiero e l’esperienza.
Alcuni critici pensavano che questa situazione negativa fosse come uno strumento di conoscenza
per Leopardi, il quale ha approfondito molto la riflessione sull'uomo.
Prima fase del pensiero leopardiano: PESSIMISMO STORICO.
Leopardi pensa che l'infelicità umana non sia un dato sostanziale e costitutivo dell'uomo, ma crede
che inizialmente l’infelicità sia data dall'allontanamento dell'uomo dallo stato di natura: è lo
sviluppo della storia e della civiltà che porta l'uomo all'infelicità che non è a lui connaturata.
In questa prima fase Leopardi contrappone la natura, elemento positivo, alla ragione ed alla civiltà,
elemento negativo, che portano l'uomo all’infelicità perché lo allontanano dallo stato di natura
originario. Da questa prima antitesi natura/ ragione, si può dedurre una seconda antitesi: età
antica(primitiva)/ età moderna(a lui contemporanea).
Leopardi definisce questa infelicità PESSIMISMO STORICO perché la riflessione razionale che si
è sviluppata durante il processo della civiltà e della storia ha portato l'uomo ad allontanarsi dallo
stato di natura, avvicinandosi quindi all'infelicità.
Leopardi risente quindi dell'influenza di Rousseau. Ma per Leo nell'antichità si stava meglio poiché
vi era una maggiore spontaneità nel rapporto con la natura, cioè gli antichi potevano sentire
emozioni forti da cui ripartire, emozioni che li facevano tendere a valori più grandi e nobili.
La natura, per Giacomo, dava all'uomo le illusioni dell'amore, della gloria e della bellezza che lo
portavano a vivere intensamente compiendo azioni eroiche.
La natura nell'antichità, per Leopardi, è una madre benevola che nasconde all'uomo la verità
dell'infelicità umana tramite le illusioni.
Vico, filosofo napoletano del 1700 che aveva messo in corrispondenza l'età della storia con quella
della vita umana, fu fonte di ispirazione per Leopardi per quanto riguarda appunto le sue equazioni
fra l'età primitiva (Storia) e quella della giovinezza umana (vita umana).
All'età antica, in cui l'uomo tramite le illusioni era ancora felice, era susseguito lo sviluppo della
storia e della civiltà che aveva portato alla dimostrazione, tramite la ragione, della falsità di tali
illusioni, giungendo così all'età moderna, in cui l'uomo è profondamente infelice e non prova più
quelle emozioni forti che possono portarlo ad agire.
Nell'età moderna chi gode della felicità sono i bambini ed i giovani, che godono di emozioni ed
illusioni dell'età antica. Il progresso storico ha portato alla distruzione delle illusioni ed ha tolto
all'uomo la possibilità di compiere azioni grandi.
Nel Discorso di un italiano intorno alla poesie romantica troviamo la contrapposizione tra classici e
romantici, cioè tra l'età antica e l'età moderna. La poesia dei classici antichi è di immaginazione
mentre quella dei romantici moderni è sentimentale. La poesia di immaginazione presentava le
illusioni e spronava così gli uomini ad azioni eroiche; i classici l'avevano inventata e Leopardi
cercava di riproporla. La poesia sentimentale è una poesia di stampo filosofico e non di
immaginazione, poiché esprime un sentimento di malinconia.
In questo contesto Leopardi difende la poesia dei Classici perché ispirata all'immaginazione ed è
più vicina alla natura ed alle illusioni che rendono l'uomo felice; pertanto questa poesia può
risollevare l'infelicità e l'inerzia dell'uomo. Leopardi rivaluta i classici e sostiene le loro idee.
Oltretutto l'autore comincia a ragionare sulle teoria del piacere: l'uomo sente il desiderio infinito del
piacere (che per Leopardi è la felicità) e quando lo soddisfa in realtà prova soddisfazione solo
momentaneamente, non lo esaudisce totalmente.
Leopardi unisce queste considerazioni ad un discorso di immaginazione che ci permette di
aumentare il nostro desiderio infinito di piacere andando oltre i limiti materiali.
Leopardi si è allontanato dal Cattolicesimo per avvicinarsi alla teoria materialistica e
meccanicistica, come Foscolo.
Secondo Leopardi noi abbiamo limiti e confini materiali, per cui questo desiderio infinito di piacere
può essere colmato materialmente, ma può essere colmato solo con la poesia legata alla potenza
dell'immaginazione che con parole vaghe ed indefinite può trasmettere all'uomo emozioni molto
piacevoli. Questa riflessione è presente nello Zibaldone. Per Leopardi la lontananza attenua il
dolore, per questo è importante la funzione della memoria; ricordare esperienze del passato, grazie
alla distanza, non ci provoca più dolore, perché la lontananza ci porta a sfumare i contorni di tali
esperienze. Questo tema è un altro elemento della teoria del piacere.
Seconda fase del pensiero: PESSIMISMO COSMICO.
Il pensiero precedentemente esposto inizia a vacillare negli anni della crisi (1819) e Leopardi
abbandona la poesia, arrivando a capire che l'uomo è infelice per natura.
Quindi quest'ultima da madre benevola diventa matrigna, indifferente alla sorte dell'uomo; in questa
concezione la ragione ha la funzione di rivelare all'uomo l'arido vero, lo aiuta a prendere coscienza,
facendo così cadere le sue illusioni. La natura intesa in senso materialistico e meccanicistico non si
preoccupa del singolo ma guarda al sistema dell'universo in cui l'uomo non è al centro.
Così riflettendo, Leopardi scopre che anche gli antichi presentano tematiche di sofferenza e cade
così l'età antica idealizzata. In sintesi il pessimismo cosmico consiste in:
una natura matrigna indifferente al piacere ed alla sorte del singolo ma interessata al ciclo di eterno
ritorno.
La natura rende l'uomo consapevole della sua infelicità e di essere solidali con gli altri uomini.
L scoperta, attraverso lo studio di Lucrezio, che anche gli antichi erano infelici.
Dalla concezione filosofica del materialismo nel campo della conoscenza si ha il sensismo, che
attribuiva molta importanza ai sensi. Le considerazioni li Leopardi sono di stampo sensistico.
Esempio: la vista causa una sensazione piacevole in noi quando essa ci fa vedere e notare la
sfumatura dell'infinito. Nello sfumato l'uomo non può cogliere il vero, ma coglie qualcosa di
indefinito che è comunque fonte di piacere.

I Canti:
Prima fase: CANZONI CIVILI.
Le prime canzoni sono di stampo civile e composte sul modello petrarchesco; in esse si
rimpiangono le glorie passate ricordando le mediocrità del presente.
Fra queste troviamo la canzone intitolata All'Italia, nella quale Leopardi rimpiange l’Italia passata,
nel fare questo vi è un riferimento a Foscolo: egli ricorda la guerra delle Termopili, cantata da
Simonide, un poeta lirico; allo stesso modo Foscolo nell'opera Dei Sepolcri aveva ricordato la
battaglia di Maratona, ricordata precedentemente da Omero. Viene quindi riproposto il tema della
poesia che ricorda le glorie passate. La differenza che intercorre tra Leo e Foscolo è che il modello
di poeta usato da Foscolo è epico, mentre quello usato da Leopardi è lirico.
Foscolo ebbe una certa influenza su Leopardi, il quale reinterpreta il concetto del poeta, che ricorda
le gesta degli eroi, dal suo punto di vista: per lui è importante il Canto, non la lirica.
Infatti l'intera raccolta di poesie fu intitolata Canti proprio per ricordare l’effusione dell’Io lirico.
Quindi nelle canzoni troviamo l'Io lirico del poeta, usato in realtà come un “noi”(in “All'Italia”: noi
italiani dobbiamo combattere per un riscatto dell'Italia).
Le canzoni civili si chiudono con le cosiddette canzoni del suicidio: vengono presentati due
protagonisti del passato, Bruto, l’uccisore di Cesare, e Saffo, la poetessa greca. Di Saffo in
particolare Leo riprende la tradizione che lei si uccise perche respinta dall’amore di Faone.
Inoltre Leopardi afferma che la donna è un'anima sensibile all'interno di un corpo brutto e deforme
che vive un amore infelice e non corrisposto, giungendo ad una conseguenza estrema: il suicidio, il
quale viene interpretato dal punto di vista della ribellione, della protesta ad un destino avverso, ad
un fato che ha posto emozioni in un corpo orrendo, non l’ha fornita di un corpo adatto.
A questo punto comincia a vacillare il pessimismo storico, basato sul pensiero che gli antichi
fossero più felici dei moderni perché avevano un rapporto più immediato con la natura; infatti,
grazie alla figura di Saffo che si scaglia contro il fato(creatura intermedia), comincia la riflessione
sul pessimismo cosmico, basata sulla concezione della natura vista come madre indifferente alla
sorte dell'uomo e non più benevola come quando, tramite le illusioni, dava all'antico o al bambino la
felicità, celando la dura realtà.
Saffo però non incolpa la natura, ma il fato; Leopardi cerca ancora di salvare la natura. Con la
canzone di Saffo si segna il passaggio da una natura benevola ad una natura “matrigna” indifferente
alla sorte dell'uomo.
Seconda fase: IDILLI.
Contemporaneamente Leopardi aveva scritto gli Idilli. Idillio è un termine greco che letteralmente
significa scenetta ed indica una visione piacevole di scene di vita campestre.
Con Leopardi tutto ciò viene rivoluzionato poiché diventano componimenti in endecasillabi sciolti
in cui esprime e registra le esperienze interiori. In questi componimenti l'Io lirico è indicato davvero
dalla prima persona. In essi non presenta alcun personaggio, vi è solo l’io lirico che presenta la sua
interiorità, spesso partendo da scene della natura da cui prende il moto dell’animo del poeta.

L’INFINITO
Composta nel 1819, tratta uno dei temi principali del Romanticismo: questa riflessione viene poi
ripresa nel 1821 nello Zibaldone, in cui il poeta per parlare di questa sensazione si rifà a questo
idillio, in cui ci offre immagini che producono questa sensazione di indefinito.
Da Zibaldone: da delle immagini che producono la sensazione di indefinito-infinito. Del declivio
bisogna immaginarne la fine con l’immaginazione. Per Leo ciò che produce il piacere sono le
immagini sfumate ed indefinite perché in esse l’uomo non vede la fine e questo per lui è molto
piacevole. Tutto ciò che noi possiamo immaginare è bello e piacevole e l’indefinito tende a farci
recuperare il bello in quanto non è vero e il vero non è piacevole.

L’idea che l’idillio vuole esprimere è il piacere del vagare nell’infinito.


Leopardi parte da due dati naturalistici che richiamano all’idillio classico: siepe e vento, il quale
rappresenta la fugacità delle cose.
Quindi la riflessione sull’infinito parte da due dati sensibili, da una matrice stilistica, ovvero la siepe
ed il vento, per arrivare ad una riflessione del poeta sull’infinito nel suo io profondo, nella sua
interiorità, esprimendo anche il piacere provocato dall’immergersi nell’infinito.
Leo esprime il moto del suo animo a partire da un dato visivo e da uno uditivo.
Secondo Leopardi, l’infinito come concetto è particolarmente piacevole da raggiungere, ma questo
è possibile solo grazie all’immaginazione che va oltre ai sensi.
Andando oltre la siepe, all’ostacolo della vista, il poeta immagina interminati spazi;
dalla sensazione uditiva del vento fra le foglie, Leo immagina silenzi infiniti che lo portano a
pensare all’eternità del tempo e all’età presente.
L’immaginazione in questo caso produce sensazioni dell’infinito che ha un valore sia spaziale che
temporale. Il poeta arriva a parlare dell’eternità, dell’infinito, che è molto dolce.
Vv 1- loro
Vv 15 –dolce- chiusura circolare.

Ciò che è riportato nell’Idillio non è un’esperienza mistica, come alcuni credono, qui si parte dal
sensismo. Non si deve inoltre pensare all’infinito come ad un nulla, ma è qualcosa di positivo e
piacevole per il poeta.
L’idillio è un’espressione poetica dell’uomo che tende al piacere.
Nei primi tre versi troviamo termini della tradizione lirica petrarchesca(colle,ermo), mentre dal
quarto troviamo termini nuovi, non abituali per la tradizione, come “indeterminati, sovraumani e
profondissimo” che vanno a descrivere il concetto di infinito, vi sono enjambemant che dilatano
così come le vocali A.
Il verbo FIUGERE, derivato di fingo che indica l’operazione dell’immaginazione fatta in prima
persona.
A metà dell’ottavo verso si ha un’accentuazione particolare del verbo SPAURA che spezza il verso
per continuare con la descrizione della seconda percezione acustica che porta alla riflessione
sull’infinito dal punto di vista temporale: l’immaginazione dopo la paura del cuore riparte grazie ad
un’altra percezione sensoriale.
Si parte da una visione di un paesaggio che porta all’infinito, poi vi è una pausa col verso spaura e
poi una nuova percezione acustica che porta ad un’altra riflessione sull’infinito.
Leopardi paragona il silenzio infinito alla voce del vento e arriva a concepire l’eterno, le morte
stagioni, la presente e viva e il suon di lei.
Polisindeto: accumulo delle diverse immagini che riempono l’interiorità del poeta.
Uso dei DEITTICI per indicare ciò che è vicino e ciò che è lontano:
- “questo”per indicare la realtà percepita dai sensi,
- “quello” che indica invece l’infinito, ciò che è riportato dall’immaginazione.
Grazie all’immaginazione poi l’infinito diventa finito: vv.13 – questa immensità.
Al primo e all’ultimo verso rispettivamente si trova “coro/dolce”.

Terza fase: CANTI PISANO-RECANATESI (1828-1830)


Il poeta, per la composizione di questi, dice di aver sentito risorgere la sua sensibilità, la sua antica
moda di fare poesia.
Dopo la riflessione sul vero, la realtà ha inaridito la sua vena lirica, nel 1828 il poeta a Pisa sente
rinascere la sua vena, la sua sensibilità poetica.
Fanno parte di questa fase “il Risorgimento”, per indicare la sua rinascita poetica, e “A Silvia”, che
indica sia una svolta fondamentale per Leo ma è anche un’esperienza rivoluzionaria nella poesia
Italiana, infatti non si tratta di canzoni tradizionali ma LIBERE, senza alcun schema metrico.
Le prime canzoni civili erano di stampo petrarchesco , con i canti pisano recanatesi invece Leo
comincia a scardinare la tradizione metrica italiana.
Questi canti pisano recanatesi presentano una continuità con gli Idilli, ma sono anche molto
differenti in quanto gli anni di mezzo sono stati caratterizzati da una profonda riflessione filosofica.
La sua riflessione è divenuta ora più disincantata, ma ricorrono sempre all’interno dei Canti tre
tematiche fondamentali degli Idilli:
- il ricordo
- il vago e l’indefinito
- l’illusione e l’immaginazione
I canti pisano-recanatesi sono caratterizzati dall’equilibrio fra le tre componenti. Sono inoltre
connotati dalla consapevolezza dell’arido vero e dall’equilibrio fra le scene idilliche e una
riflessione, a volte molto amara, sulla vita umana.

A SILVIA
Ricorda una fanciulla morta giovane per tisi, ella era la figlia di un cocchiere di casa Leo. Dietro il
personaggio di Silvia, si nasconde una fanciulla morta giovane. Nonostante Silvia e Leo
appartengano classi sociali diverse, in quanto lei è una popolana e lui è un aristocratico, ciò che
conta è l’analogia tra le due figure, accumunati dalla loro condizione di giovani.
La canzone ci parla infatti non di una storia d’amore, ma della giovinezza come tempo dell’attesa,
della speranza, delle aspettative e della successiva frustrazione e delusione di queste nell’età adulta.
Le prime tre strofe e mezzo descrivono in toni leggeri e musicali la bellezza della giovinezza.
La mezza strofa seguente invece è caratterizzata da toni più acerbi perche descrive la caduta delle
illusioni e la presentazione della realtà relativa all’infelicità umana.
Infatti la natura illude l’umanità in gioventù e non mantiene le promesse di felicità che i giovani
immaginano.
“A Silvia” è un canto sulla caduta della speranza tipica dell’età giovanile e che non trova
realizzazione nell’età adulta; l’immagine finale è infatti quella di una tomba e dimostra anche la
poetica del vago e dell’indefinito tipica di Leo.
L’indefinito è dato dal fatto che la realtà sia “filtrata” dalla finestra e sia così vista in lontananza:
con la lontananza rende le immagini maggiormente poetiche.
Leopardi recupera l’immagine dall’Eneide di Virgilio riguardante la maga Circe, di cui i troiani
sentivano il canto da lontano.
Le prime due stanze sono dedicate a Silvia. La prima parola è anagrammata con l’ultima della
prima strofa: SILVIA era il nome della ninfa dell’Aminta di Tasso, poeta molto caro a Leo. Non è
quindi il vero nome della ragazza. SALIVI oltre ad essere l’anagramma del nome, ricorda l’ascesa
graduale all’età adulta.
Quest’ultimo ci dice poco di Silvia a livello estetico, sappiamo solo che i suoi occhi sono ridenti e
fuggitivi; pur essendo l’unica notazione fisica della ragazza, i termini richiamano il suo stato
d’animo, ciò accade perche per il poeta è più importante la riflessione sulla giovinezza.

Nella seconda stanza Leo descrive il canto di Silvia, di cui si ode solo l’eco. Il suono del canto è
infatti riecheggiato nelle vie intorno e non nella fonte diretta del canto: “al TUO perpeTUO canto”-
idea dell’eco viene suggerita così.
In questa strofa, Leo definisce il futuro “vago”, ma questo termine viene da lui usato col significato
di vago e indefinito: il futuro è bello ma non si sa cos’è.

Nella terza strofa entra in gioco il poeta , anche lui giovane ma le cui attività erano gli studi e le
sudate carte in cui trascorreva la miglior parte della sua vita: la giovinezza.
Poi descrive Silvia che non è vista direttamente dal poeta, ma la sua immagine è filtrata dalla
finestra: voce filtrata e realtà filtrata. Vv25: mare (Recanati) e Appennino- richiamo all’infinito.
Nella quarta strofa Leo richiama l’attenzione del lettore a ciò che lo accomuna alla fanciulla, cioè la
gioventù, la speranza e le illusioni, ma poi subentra subito la riflessione. Questa è la caratteristica
dei canti pisano-recanatesi.
Vv.32- centro della canzone che richiama la riflessione del momento presente.
Non vi è uno schema metrico e di rime fisso che caratterizza la canzone, quando si trovano delle
rime dunque significa che il poeta ci vuole sottolineare qualcosa: speme/preme- per affermare che
non c’è possibilità di consolazione quando si ricordano le speranze giovanili; fato/sconsolato – per
affermare che il fato non rende in età adulta ciò che ha promesso ai giovani. Natura inganna l’uomo
dandogli felicità e speranze che poi vengono inevitabilmente infrante.
Successivamente, nella penultima strofa, ritorna sulla sorte di Silvia, la quale non godrà più delle
gioie di cui aveva aspettativa; è tutta giocata sulla negazione, vi è una rappresentazione
completamente negata delle gioie che Silvia si aspettava.
Nell’ultima strofa troviamo l’identificazione del poeta con questa condizione. A Leo è morta la
speranza, è come se Silvia si identificasse con la speranza del poeta.

In questa canzone troviamo il gioco dei DEITTICI come nell’Infinito:


- “quell” all’inizio indica il passato,
- “questo” alla fine indica il presente. Silvia e Leo si aspettavano la felicità, si passa ad un
presente – questa è- che richiama alle speranze del passato –quello-, ciò che si realizza nel
presente è la disillusione di ciò che loro avevano sperato in passato e tramite tali riflessioni
si arriva a parlare della sorte della natura umana.
Infatti il vero non fa cadere le speranze solo a Silvia e a Leo ma a tutti gli uomini.
Il CHIASMO “fredda morte-tomba ignuda” è usato per sottolineare ciò che rimane all’uomo: è una
nullità, non ci sono speranze.
LE RICORDANZE
Al v. 30 vi è un ricordo della vita a Recanati, esso è una considerazione negativa del poeta per la
sua città nativa.
Nelle Ricordanze Leo recupera un ricordo della giovinezza, nonostante tale ricordo sia triste.
Il ricordo, grazie alla lontananza è più bello e piacevole, ed è unito alla poetica del vero del presente
(sfumato).
“Le ricordanze” sono giocate sul continuo andirivieni del ricordo del passato, della giovinezza e
sulla caduta delle illusioni.
Nerina è una Ninfa, ripresa anch’essa dall’Aminta di Tasso, morta anche lei come Silvia.

QUIETE DOPO LA TEMPESTA


Assieme ad “il sabato del villaggio” forma un dittico, sono due poesie ambientate a Recanati
costruite in forma simile, rappresentano due facce di una stessa medaglia, ovvero della teoria del
PIACERE.
Entrambe si aprono con una scena di vita recanatese, da una prima parte descrittiva a cui poi
subentra una riflessione gnomica, cioè il momento sentenzioso.
Questa canzone ci offre una riflessione sul PIACERE, definito come FIGLIO DI AFFANNO, che
nasce cioè dal dolore, dalla consapevolezza che è cessato il dolore.
Leo descrive la ripresa della vita nel villaggio dopo la tempesta: ognuno torna alle sue case. In toni
sarcastici Leo di chiede se sono questi i tipi di gioia che la natura da all’uomo.
Vv. 32 “piacere figlio d’affanno”. Il piacere è gioie vane e illusorie frutto di paure passate: dopo la
paura passata e la tempesta, anche chi odiava la vita al punto di volersi suicidare, dopo la tempesta è
felice di essere sopravvissuto e teme la morte nel momento in cui essa si presenta seriamente.
Vv. 39 a causa della paura le genti sudarono e palpitarono.
L’ultima strofa è fortemente satirica, in quanto Leo con ironia apostrofa la natura da notare la rima
fra cortese-offese- la natura non è affatto cortese.
Uscire dal dolore è uno dei piaceri concessi all’uomo, il quale non è al centro dell’universo e non è
caro agli dei (umana prole cara agli dei: ironico).

IL SABATO DEL VILLAGGIO


In questa canzone Leo ci parla del piacere come ATTESA DEL DOMANI.
vv.38- il sabato è il giorno più gradito dei giorni, il piacere nasce dall’attesa della domenica.
vv.40- pero domani, ovvero domenica, si ritorna ai soliti problemi e quindi il piacere cessa.
Nella prima parte, come nella “Quiete dopo la Tempesta”, vi è un quadro descrittivo, Leo offre un
piccolo quadro borghigiano: il villaggio è in preparazione alla festa della domenica.
Vv1-7- Leo descrive una figura idillica di una giovane ragazza al tramonto con in mano un fascio
d’erba in cui vi sono rose e viole con cui era solita ornarsi per la festa della domenica.
Vv8-10- ora troviamo un’immagine indefinita, ovvero quella di una vecchierella che siede sulle
scale a filare e con le vivine ricorda quando anche lei da giovane si ornava per la festa della
domenica.
In questo quadretto ciò che ci viene suggerito è un’immagine vaga e indefinita: dove si perde il
giorno, al calar del sole e il ricordo — la fine della giornata.
Poi il poeta parla del suono della campane il cui eco fa gioire il cuore di tutti perché segna che la
domenica e la festa so stanno avvicinando.
Vv24-30 anche il lavoratore è felice perché pensa al giorno del riposo.
Questo quadro è descritto dal poeta per esprimere il piacere dell’attesa della domenica.
Vv.31-37 il lavoratore tarda per finire il lavoro, così da potersi riposare la domenica.
Vv38-42 strofa gnomica, breve
Vv43-47 Leo usa ironica contro la natura, qui il tono è più accorato.
Apostrofa il fanciullo, giovane, allegro nell’età della giovinezza intesa come giorno pieno di
allegria che anticipa la festa della sua vita. Questo giovane è pieno di aspettative del futuro come
Silvia, la quale afferma nella canzone “A Silvia” che in realtà l’età adulta non porta al piacere,
infatti lei muore.
La vita non porta la felicità, il piacere è definito nascere da un’attesa per il futuro, ma come si
scopre in “A Silvia”, il futuro in se non è piacevole. L’unica cosa piacevole è l’attesa.
Il garzoncello attende la vita adulta come una festa, ma come dice Silvia, questa festa non ci sarà;
così le speranze e le aspettative cadono.
Vv48-51 la gioventù è uno stato soave, un periodo lieto della vita. Leo non vuole dire che non ci
sarà felicità nella vita, c’è la sospensione della dichiarazione esplicita di ciò che per il poeta è
l’arido vero.
Il garzoncello non deve rimpiangere il fatto di essere giovane, perché la vita porta del male.
La poesia si conclude con RETICENZA: sospensione di una dichiarazione esplicita: godi, la tua
giovinezza è il simbolo dell’attesa, quindi è lieta, non voglio dirti che non ci sarà alcuna felicità
nella vita.
“Il Sabato del villaggio” e “La quiete dopo la tempesta” offrono due concezioni diverse del piacere
come figlio di affanno e come attesa del domani.

CANTO NOTTURNO DI UN PASTORE ERRANTE DELL’ASIA


È stato composto dopo le due canzoni precedenti, è l’ultimo del 1830, è stato scritto dal poeta dopo
una lettura in cui aveva scoperto che i pastori dedicavano tristi canti alla Luna nelle notti in cui
vegliavano il gregge.
Leo sposta l’ambientazione in Asia(posto indefinito) e non rappresenta più un quadro piacevole di
vita quotidiana del villaggio, ma l’ambientazione è arida e scarna, come quella di un deserto, e in
essa colloca domande esistenziali del pastore che coinvolgono tutta l’umanità.
La canzone è composta da sei strofe, in cui troviamo due strofe che danno una rappresentazione
allegorica e poi reale della vita per Leo, dialogo del pastore con la luna, la quale, pur sapendo le
risposte ai suoi interrogativi in qualità di elemento della natura, non risponde; successivamente
viene chiamato in questione lo stesso gregge: è come se il pastore cercasse risposte in elementi
diversi della natura(inferiori e superiori) ma nessuno gli sa dare una risposta.
Il soggetto che rivolge le domande è il pastore errante :
errare =vagare senza meta
pastore= idea evangelica del buon pastore. Chi guida le anime in Dante è il “pastore di anime”. La
presenza di questa figura umile che ha il compito di guidare il gregge ma allo stesso tempo è errante
rappresenta l’indecisione dell’uomo che si pone come guida quando invece non può esserlo.

Questa è una canzone libera senza schema metrico; tutte le strofe finiscono con una parola
terminante in “ale”.
vv2- silenziosa luna- Leo sa già che non risponderà.
La luna viene anche personificata: ancora questi sentieri percorri e guardi? Il pastore diventa come
la Luna e “sorge”. C’è un’analogia fra la vita della luna e quella del pastore, ma il corso della luna è
immortale mentre la vita dell’uomo è breve, il pastore si chiede che senso abbia la vita dell’uomo e
il movimento degli astri.
Nella seconda strofa l’uomo è in corsa, come un vecchierello con un carico pesantissimo sulle
spalle che corre rapidamente per arrivare in un arido abisso in cui dimentica tutto (vv35, senso di
rapidità suggerito anche dalla narrazione che è incalzante).
Nella terza strofa si parla della vita.
Il parto è considerato come rischio; la nascita è difficile e dopo il padre e la madre consolano il
neonato per il fatto che è nato, sia al momento della nascita, sia per tutta la vita. Il compito più bello
dei genitori è quello di consolarlo perché è nato. La vita è una sventura e bisogna consolare la
creatura nata, ma allora perché crearla? Di questo stato di vita dell’uomo la luna non se ne
preoccupa perché è un percorso mortale.
Nella quarta strofa la luna è presentata come colei che può conoscere il senso della vita umana,
della esistenza dell’uomo, anche gli aspetti piacevoli, ma non risponde.
Nella quinta strofa il pastore rivolge alla luna alcune domande, in particolare si chiede a cosa
servono le stelle, il cielo, la solitudine immensa(vago), cosa rappresenta lui stesso nell’infinito, non
trova un senso a ciò, mentre invece la luna si.
Si afferma qui la concezione della vita come male. Gli animali, privi della ragione che coglie
l’acerbo vero, non sono assaliti dalla noia, mentre l’uomo si e per questo li invidia.
Per “NOIA” Leo non intende il sentimento che intendiamo noi oggi, ma per lui ha un valore
superiore, infatti essa consiste nel rendersi conto della sproporzione fra l’immensità del suo
desiderio di piacere e l’impossibilità di ottenerlo; è perciò un sentimento negativo e testimonianza
dell’aspirazione a questo desiderio infinito di piacere.
L’animale non prova tutto questo; la contrapposizione uomo-animale è espressa anche dai chiasmi.
Infine nella sesta strofa, contenente un periodo ipotetico dell’irrealtà, il pastore afferma che se non
fosse uomo sarebbe più felice come gli animali e afferma anche dopo tutte le sue riflessioni, che la
vita è un male.

Quarta fase: CICLO DI ASPASIA

UNA GRANDE ESPERIENZA


Dedicato al suo grande amore Fanny, incentrata a Firenze, da quest’ultima Leo ricevette una grande
delusione che lo portò a riflettere sulla grande ed ultima illusione: l’amore che porta coraggio
all’uomo, il quale così affronta la vita senza viltà. L’uomo sulla terra è destinato ad amare e
morire(annullamento del dolore).

A SE STESSO
Troviamo una affermazione ulteriore del suo pessimismo. Per Leo l’esistenza non ha senso, e come
lei anche il coraggio che nasce dall’amore non vale nulla. Il linguaggio cambia: non troviamo più
espressioni sfumate e musicali come negli Idilli o nei Canti pisano-recanatesi, è scabra e dura e gli
enjambement invece di rendere la struttura linguistica più ariosa, esprimono la fatica del poeta nel
descrivere la durezza della condizione umana. I sostantivi sono vocaboli dal profondo significato
esistenziale. Dall’esperienza amorosa in cui Leo aveva concentrato le sue speranze, era riuscito a
superare il male dall0esistenza poi l’autore riceve l’ennesima delusione.
Troviamo molte frasi brevi, ciò che l’autore afferma è ineluttabile è così e basta, non cè bisogno di
grandi espressioni, esprime la durezza della verità.
In conclusione Leo afferma che è l’infinita vanità del tutto che domina l’esistenza umana, vanità
intesa come inutilità e svuotamento di significato. Vi è anche un’apostrofe al cuore stanco, pesante
che ha palpitato forte per la sua illusione amorosa, ma ora che quest’ultima è morta, deve riposare.
“amaro e noia la vita altra mai nulla” – sono tutti sostantivi impregnati di una sostanza che è
totalmente negativa. (Dispera= non sperare più)
Il fato ha donato all’umanità il dolore. La natura prima era vista come una madre benevola
(pessimismo storico) poi come una matrigna ed ha portato la disillusione e le speranze infrante
(pessimismo cosmico) il cuore deve disprezzare se stesso e la natura in cui non può più sperare,
deve distaccarsi da tutto, deve disprezzare il potere negativo che, nascosto, comanda avendo come
fine il danno comune, deve disprezzare il mondo e l’infinita vanità del tutto.
Dietro la natura c’è questo inquietante potere negativo: aveva anche scritto un componimento in cui
celebrava una divinità negativa persiana, nella quale però non crede perche è ateo.
LA GINESTRA
Versetto del Vangelo di Giovanni posto in epigrafe: gli uomini non accettano la verità ma le
preferiscono le tenebre; allusione probabile all’Illuminismo e secondo l’ottica materialista
dell’autore rovesciamento del senso autentico del testo sacro, la luce non è Dio, ma la coscienza
dell’infelicità dell’uomo sulla terra.
Prima strofa (vv.1-51):
Due elementi: il paesaggio arido del Vesuvio distruttore e la ginestra odorata, che cresce nei deserti;
non solo sulle pendici del V., ma anche nella campagna di Roma, un tempo dominatrice del mondo
(tema della caducità delle glorie umane)
Ginestra: compagna della solitudine, del dolore, della sofferenza.
Ricordo della campagna vesuviana, un tempo ridente e coltivata e ora coperta di lava infeconda:
negazione del paesaggio idillico; il ricordo non serve più per illusione/piacere/immaginazione ma
per mettere in rilievo la fragilità dell’uomo e l’indifferenza della natura.
“s’annida e si contorce al sole /la serpe” “una ruina involve”
La musicalità del vv. 34/37, in riferimento alla ginestra che cresce nella “ruina” del paesaggio
vesuviano significa la pietà, la consolazione (e non l’illusione, come negli idilli o nei canti pisano-r)
“Di dolcissimo odor mandi un profumo / che il deserto consola”
2 parte della strofa: polemica e sarcasmo contro ottimismo di chi crede nelle “magnifiche sorti e
progressive”: “Venga.. veggia”
sistema delle rime: cura – natura- misura – dura (nutrice= la natura). La Natura annichilisce tutto
Seconda strofa (vv. 52-86):
“Secol superbo e sciocco”: apostrofe che contiene esplicita polemica contro il sec. XIX
personificato, che ha abbandonato il pensiero razionalista dei lumi e ha trascurato il “vero
/dell’aspra sorte e del depresso loco /che natura ci diè” per viltà. Scioccamente il sec. XIX chiama
“magnanimo” chi esalta la natura dell’uomo considerandola superiore alle stelle (=divina).
La polemica si rivolge soprattutto contro le tendenze spiritualiste del XIX sec (e del Romanticismo)
Leop. è orgoglioso di disprezzare il sec. XIX
Terza strofa (vv.87-157):
Per definire la magnanimità dell’uomo (e, al contrario, la sua stoltezza): esempio allegorico
riguardante la natura umana: l’uomo povero e malato, ma generoso, magnanimo e d’animo nobile
non fa mostra di ricchezza o di salute, nascondendo la sua debolezza ma chiama la sua situazione
con il suo nome (= la verità umile è nobiltà e magnanimità). Al contrario non è magnanimo ma
stolto chi “nato a perir, nutrito in pene” sostiene “a goder son fatto” e “di fetido orgoglio” (fetido,
contrario dell’ “odorata ginestra”) riempie i suoi scritti.
L’uomo, quindi, secondo L., è veramente grande quando accetta la sua condizione di infelicità,
causata dalle innumerevoli sciagure che su di lui si possono abbattere (maremoto, epidemie,
terremoto)
vv.111 ss: allusione a Lucrezio: nobil natura è quella / che a sollevar s’ardisce /gli occhi mortali
incontra / al comun mortal fato… nulla al ver detraendo /confessa il mal che ci fu dato in sorte /e il
basso stato e frale.
Introdotto il discorso sulla solidarietà umana: la nobil natura è quella che “né gli odi e l’ire/ fraterne
… /.. accresce” e del suo dolore attribuisce la colpa non agli altri uomini, ma a quella che
“veramente è rea, che de’ mortali /
madre è di parto e di voler matrigna”
tale definizione della natura contiene un chiasmo (come a sottolinearne l’essenza contraddittoria)
vv.126ss: solidarietà tra gli uomini contro la natura; sottolineata dalla presenza della sillaba
con/com e del pronome tutti.
Es. contrario alla solidarietà umana è preso dal campo metaforico della guerra: in un accampamento
cinto d’assedio nemico, sarebbe stolto che i soldati si facessero guerra l’un l’altro.
Come già in passato l’orrore contro “l’empia natura /strinse i mortali in social catena” così il terrore
della natura grazie al sapere (e non alla religione) porterà l’uomo a fondare nuovamente le virtù
civili (onestà, lealtà, solidarietà, giustizia..)
Quarta strofa ((vv.158-201):
Io lirico introdotto nel paesaggio vesuviano: “seggo la notte; e su la mesta landa / in purissimo
azzurro / veggo dall’alto fiammeggiar le stelle”:
davanti alla contemplazione dell’infinito cosmico si evidenzia la nullità dell’uomo
Mentre nella poesia precedente (ad es. il canto Le ricordanze) il cielo stellato era immagine
suggestiva che crea nell’immaginazione idea dell’infinito, ora è veicola il pensiero della nullità.
punti di contatto con L’infinito (ad es. “sedendo e mirando”), ma all’idillio, all’illusione, al piacere,
all’infinito dell’immaginazione, si sostituisce l’infinito che porta alla coscienza del vero (la nullità
dell’uomo e la vastità dell’universo davanti a quel nulla che l’uomo è)
vv. 167-170: ricorrenza del termine punto
Anche il ricordo serve qui non per richiamare le illusioni passate, ma l’antitesi tra vero stato
dell’uomo e la sua vana fiducia di essere padrone e scopo dell’universo.
Conclusione della strofa: quando l’io lirico del poeta ricorda questo stolto orgoglio dell’uomo “qual
moto allora / mortal prole infelice, o qual pensiero /verso te finalmente il cor m’assale?”; la risposta
si colloca tra un senso di ridicolo e di compassione: “Non so se il riso o la pietà prevale”
Quinta strofa (vv. 202-236)
Similitudine della mela che schiaccia e distrugge, cadendo, un formicaio: termine di paragone per
l’eruzione del Vesuvio che nel 79 d.C. (“notte e ruina”) distrusse Pompei, Ercolano e Stabia: sulle
antiche città ora pascola la capra e nuove città calpestano le antiche.
Conclusione: “Non ha natura al seme / dell’uom più stima o cura /che alla formica” (se le stragi
dell’uomo da parte della natura sono più rare ciò è dovuto al fatto che l’uomo, rispetto alla formica,
è meno prolifico)
Sesta strofa (vv. 237-296)
Insignificanza del tempo umano rispetto al tempo della natura (secondo la concezione
meccanicistica)
Situazione del Vesuvio oggi, che sono passati “Ben mille e ottocento / anni”: stato di paura
incombente, ben rappresentato nella figura del “villanello” che coltiva i vigneti, ma guarda con
terrore alla “vetta fatal” del Vesuvio. Scena famigliare: controlla il ribollire del pozzo domestico e
desta i famigliari per fuggire all’ (eventuale) eruzione.
Seconda parte: rappresentazione delle rovine di Pompei (gusto per le antiche rovine e per gli scavi
archelogici; preromanticismo delle rovine e dei notturni lugubri: il pipistrello).
Significato: confronto tra la storia e la natura; tra la civiltà e la materia; indifferenza della natura al
breve respiro della storia umana. La natura è sempre verde, ignara, indifferente all’uomo e alla sua
storia (anche alle antiche età e al succedersi della storia umana). Stoltezza dell’uomo che si crede
eterno “E l’uomo d’eternità si arroga il vanto”.
Settima strofa (vv. 297-317)
Apostrofe finale alla “lenta ginestra”: suo comportamento modello di quello dell’uomo: anche lei
destinata alla distruzione del vulcano. Ma sue caratteristiche positive: abbellisce e profuma i luoghi
desolati; sarà sommersa dalla lava senza ribellarsi (non renitente); non avrà invano supplicato da
codarda la natura, né si sarà inorgoglita stoltamente.
“Ma più saggia, ma tanto / meno inferma dell’uom, quanto le frali / tue stirpi non credesti / o dal
fato o da te fatte immortali.”
Atteggiamento di dignità e di solidarietà.

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