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PERCORSO

TEMATICO INTELLETTUALE
E POTERE
obiettivi ■ conoscere
– il diverso ruolo dell’intellettuale in età repubblicana e imperiale;
– come il principato viene celebrato o legittimato in opere di intellettuali latini,
a partire dall’età di Augusto fino al IV secolo;
– le voci di dissenso nei confronti del principato e dei suoi esponenti;
– due romanzi del Novecento nei quali gli autori affidano la loro riflessione sul
contemporaneo rapporto intellettuali-potere al poeta Virgilio e all’imperatore
Adriano;
■ saper individuare
– nei diversi autori latini, gli elementi culturali, filosofici e religiosi che determi-
nano la loro rappresentazione del rapporto intellettuali-potere;
– nei vari autori, le manifestazioni di convinta adesione o di disagio nei confronti
del potere;
■ saper mettere in relazione
– rappresentazione del principato o del principe e contesto storico, ideologico e
culturale dell’autore dell’opera in cui tale rappresentazione è contenuta;
– accettazione incondizionata della forma di governo del principato e teoria del-
la monarchia universale della filosofia stoica.

chi sono In ogni epoca e società si può distinguere un ruolo sociale definito genericamente
gli intellettuali dell’intellettuale. Nella cultura occidentale, gli intellettuali sono coloro che lavorano
con le parole e con le idee, anziché con le mani, e producono non beni materiali,
bensì conoscenza storica e filosofica, matematica e scientifica, giuridica e politica,
fondamentale perché una collettività organizzata possa funzionare e autorappre-
sentarsi. Che siano professori di università dediti alla ricerca in condizione di totale
indipendenza o studiosi soggetti al controllo di un’autorità, giornalisti liberi di in-
dagare e denunciare o asserviti alle istruzioni del potere, dipende dal regime politi-
co in vigore e dalle condizioni complessive di una società.

gli intellettuali Nel mondo romano, il rapporto dell’intellettuale con il potere acquisisce un rilievo
a roma nell’età evidente a partire dal principato augusteo, in concomitanza cioè con la persona-
repubblicana lizzazione del potere politico in senso monarchico. In epoca repubblicana, l’intel-
lettuale partecipava al governo come membro dell’oligarchia: se rivestiva cariche
pubbliche e sedeva in Senato era perché apparteneva per nascita alla classe socia-
le che controllava le magistrature, la nobilitas, o perché come homo novus si era
conquistato tale diritto con il cursus honorum. L’impegno intellettuale, storico o fi-
losofico, subentrava, quasi come ripiego, alla fine di quello politico o in sua sosti-
tuzione, come nel caso di Sallustio e Cicerone; oppure assumeva un sapore di po-
lemica contro i valori aristocratici che privilegiavano la vita attiva nello Stato, come
nel caso di Lucrezio. Comunque la demarcazione tra intellettuale e uomo politico
non era netta, perché tra loro c’era sempre una stretta vicinanza sociale e ambien-
tale, e molti rivestivano entrambi i ruoli.

gli intellettuali Con l’avvento del principato tende invece ad aprirsi una frattura tra impegno poli-
e augusto tico e impegno culturale: sempre più spesso l’intellettuale, anche se è di rango se-
natorio, non partecipa direttamente alla gestione dello Stato, ma si lega personal-
mente al principe da cui riceve protezione e a cui esprime gratitudine e consenso.
Sotto Augusto si afferma il letterato di professione che si dedica a tempo pieno al-

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la letteratura e compone opere di vario genere: la produzione letteraria non è qua-
si mai esplicitamente incentrata sul potere e la vicinanza degli scrittori al principe
contribuisce di fatto a legittimarne il ruolo, avallandone la politica. Augusto con-
trolla i letterati con discrezione e indirettamente, servendosi della fidata collabo-
razione di Mecenate e promuovendo una grande fioritura culturale.

Questa apparente autonomia della letteratura rispetto alla politica non era però gli intellettuali
destinata a durare a lungo. Via via che il principato si consolidava, gli intellettuali e il principato
continuavano a essere corteggiati, ma al tempo stesso temuti e il loro ruolo si pre-
cisava sempre più come quello di servitori del principe, nella veste di maestri, in
virtù della loro fama di oratori e di filosofi, oppure di consiglieri, in virtù della loro
familiarità personale con il monarca. Compiti che potevano essere accettati con
soddisfazione, giacché garantivano prestigio e ricchezza, ma che potevano anche
produrre una crisi morale in uomini capaci di porsi problemi etici e che si trovava-
no a essere spettatori e, in qualche caso, complici di una gestione spesso crimina-
le della politica.

A partire da questa realtà, la riflessione degli intellettuali sul potere tende a polariz- la riflessione
zarsi tra due atteggiamenti in apparenza opposti, ma collegati e spesso compresen- sul potere
ti nella stessa persona. Da Seneca, nel I secolo, fino ad Ammiano Marcellino nel IV,
passando per Lucano, Tacito e Plinio il Giovane, l’assolutismo monarchico è accetta-
to come l’unica forma di governo praticamente attuabile nelle condizioni moderne:
in opere come il De clementia di Seneca o il Panegirico di Traiano di Plinio si teorizza
che un sovrano illuminato e ben consigliato può realizzare la giustizia nel suo regno
e garantire la felicità di tutti i sudditi. Al tempo stesso gli intellettuali che vivono a
stretto contatto con il principe, conoscendo direttamente gli intrighi e la violenza a
cui ricorre per difendere il suo dominio, sviluppano in chiave moralistica la critica del
tiranno, cioè del sovrano che per i suoi vizi non sa essere all’altezza del ruolo.

Nessun intellettuale, invece, neppure tra quelli che conservano qualche nostalgia l’accettazione
per i tempi della libertà repubblicana, si spinge fino a criticare la monarchia in sé e unanime della
per sé. Certo ragioni di prudenza consigliavano di non mettere in discussione il monarchia
principato e si deve tener conto del fatto che i documenti dell’opposizione al regi-
me imperiale non si sono conservati; ma non deve essere sottovalutata l’influenza
delle teorie di derivazione stoica che si erano diffuse in Roma. Esse affermavano
che ogni monarchia rinvia a un’unica monarchia universale, quella della somma
divinità, e che il sovrano incarna la legge unica per tutti gli uomini, in quanto tra-
mite fra l’umano e il divino. Già Cicerone, nel De republica, quando aveva provato a
definire il modello perfetto di Stato, aveva ammesso che in teoria sarebbe stata
preferibile la monarchia, anche se aveva poi scelto la repubblica per le maggiori
garanzie di stabilità. Superata la crisi repubblicana e ristabilita la pace sotto Au-
gusto, si finì per accettare senza riserve la legittimità del principato. Se anche l’or-
dine che Virgilio diede in punto di morte di bruciare il suo poema epico venne in-
terpretato come segno di un disagio da parte del poeta che cantò il principato,
dopo di lui non si mette in discussione sul piano sostanziale la monarchia. Certo
non manca una produzione in cui, velatamente (come nel caso della poesia tragi-
ca o epica di Seneca e di Lucano) o scopertamente (come nel caso della storiogra-
fia di Tacito e di Ammiano Marcellino), si può leggere una ferma critica del dispo-
tismo, ma sotto accusa sono i singoli prìncipi e non il sistema. Le ragioni non vanno
ricercate soltanto nell’inevitabile limitazione della parola imposta dal regime: ad
agire è anche l’eredità di una riflessione storica e politica di tipo moralistico, che
non fornisce agli intellettuali gli strumenti per mettere in discussione la forma di
governo, ma solo per additare sdegnosamente i vizi individuali dei governanti (e
dei sudditi) come i veri responsabili delle degenerazioni del sistema.

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1. La celebrazione provvidenzialistica
del principato
Accingendosi, nel 30 a.C., a comporre l’Eneide, Virgilio dava compimento a quell’opera Augusto
pacificatore
già annunciata nelle Georgiche con la metafora del tempio in onore di Augusto, ornato di Roma
dalle statue degli antenati (Georgiche, III, vv. 13-36): intendeva cioè rileggere tutta la sto-
ria di Roma per celebrare lo splendore raggiunto sotto il principe che, concentrando nel-
le sue mani il governo della repubblica, aveva ristabilito l’ordine e la pace.
Fin dal I libro l’attenzione del poeta si concentra sulle origini leggendarie e su Enea, L’omaggio
al principe
«l’uomo che per primo dalle terre di Troia / raggiunse esule l’Italia per volere del fato e le nel VI libro
sponde / lavinie» (Eneide, I, vv. 1-3; trad. L. Canali) per fondare la città destinata a di- dell’Eneide
ventare caput mundi. L’omaggio ad Augusto è dispiegato ampiamente nel VI libro, al cen-
tro del poema, quando nello scenario solenne dei Campi Elisi, in un episodio di forte
pietas, Anchise svela al figlio il senso ultimo del suo peregrinare per terre e per mari lon-
tani: tra le anime presenti in una valle verdeggiante, «pronte ad uscire alla luce superna»
(Eneide, VI, v. 680; trad. L. Canali), gli indica i personaggi storici attraverso i quali si rea-
lizzerà il grandioso futuro dei suoi discendenti. In tale schiera di anime si distingue ap-
punto quella di Augusto, per designare la quale Virgilio presta ad Anchise le formule pro-
prie dello stile oratorio alto e celebrativo: figlio adottivo di Cesare divinizzato, divino egli
stesso per stirpe, riporterà l’età dell’oro sulla Terra e ingrandirà a dismisura il dominio di
Roma sul mondo.
Questo è l’uomo che spesso ti senti promettere,
l’Augusto Cesare, figlio del Divo, che fonderà
di nuovo il secolo d’oro nel Lazio per i campi
regnati un tempo da Saturno; estenderà l’impero
sui Garamanti e sugli Indi, sulla terra che giace oltre le stelle
[...].
E ancora esitiamo ad estendere la potenza col valore,
o il timore c’impedisce di stanziarci in terra d’Ausonia?
(Eneide, VI, vv. 791-795; 806-807; trad. L. Canali)

Lo scenario religioso evidenzia la portata ideologica dell’elo- Portata


ideologica
gio e dell’intero poema: Virgilio insiste infatti sul significato dello scenario
provvidenziale della storia e sulla missione che ciascun citta- religioso
dino virtuoso deve compiere al servizio della res publica, in to-
tale subordinazione a una volontà superiore; Cesare, pur giu-
dicato da alcuni come un irresponsabile attentatore
dell’antica libertà, e Augusto, il restauratore della pace,
si ritrovano indissolubilmente uniti. Divinizzandoli en-

Augusto rappresentato con la corazza, I sec. a.C., scultura in marmo


proveniente dalla Villa di Livia a Prima Porta, Città del Vaticano, Musei Vaticani.

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trambi, benché non taccia, appena qualche verso dopo, il coinvolgimento di Cesare nelle
orrende guerre civili, Virgilio stronca ogni possibile dubbio sulla loro grandezza e legitti-
ma come fatale il trapasso dalla repubblica al principato. Ricordando attraverso Anchise
le tappe più significative della storia romana, giustifica il progressivo allargamento del-
l’impero sugli altri popoli come segno del favore divino e presenta i grandi uomini che
hanno realizzato il dominio di Roma sul mondo come strumento di un provvidenziale
destino di potenza. Metaforicamente i discendenti di Enea sono mostrati in cammino
verso il momento in cui, uno dopo l’altro, sorgeranno alla vita, ineluttabilmente avviati
verso la loro missione storica.
Celebrazione Il quadro di solenne ricomposizione della storia nazionale non consente di dubitare del
della storia
e ombre suo valore morale. Eppure anche in questo quadro celebrativo si può intravedere un dub-
della vittoria bio: lo stesso, forse, che continuò a inquietare Virgilio fino al letto di morte. Il poeta in-
fatti non nasconde che il pius Enea è frenato da un’esitazione interiore a impugnare le ar-
mi, al punto che Anchise deve sollecitarlo ad affrontare una guerra («E ancora esitiamo
ad estendere la potenza col valore»; v. 806), perché solo così potrà insediarsi nel Lazio e
permettere alle anime dei suoi discendenti di incarnarsi. Ma nonostante questo incorag-
giamento, in tutto il poema Enea, pur condividendo l’orgoglio e la baldanza dei guerrie-
ri che si combattono sanguinosamente, continua a soffrire per il sangue che versa. Virgi-
lio nasconde cioè, nella dimensione psicologica, o se si preferisce spirituale, dell’eroe il
disagio morale suggerito alla coscienza critica dell’intellettuale dal dominio di un popo-
lo su un altro e forse anche di un principe sullo Stato.

2. La legittimazione filosofica
del potere monarchico
Con il consolidamento del principato nella forma di una monarchia assoluta, non priva
di tentazioni dispotiche sempre più marcate, la riflessione sul potere e sulle qualità mo-
rali del sovrano diviene esplicita, seppur nelle forme e all’interno dei limiti consentiti
dalla progressiva limitazione della libertà.
Il De clementia Il trattato De clementia, scritto da Seneca per Nerone all’inizio del suo principato, si pre-
senta come un’opera di teoria politica sul potere imperiale e come un programma di go-
verno per il principe.
Ho deciso di scrivere sulla clemenza, Nerone Cesare, per poter fare in qualche modo la parte
dello specchio, e mostrarti l’immagine di te stesso che sei avviato a raggiungere il massimo dei
piaceri. Infatti, benché il buon frutto delle azioni rette sia l’averle compiute e non ci sia alcun
premio degno della virtù al di fuori delle virtù stesse, giova esaminare attentamente e percor-
rere la propria buona coscienza, e poi posare lo sguardo su questa immensa moltitudine di-
scorde, sediziosa, incapace di dominarsi, pronta a saltar su per la rovina altrui e per la propria,
una volta che avrà abbattuto questo giogo.
(De clementia, praefatio, 1, 1; trad. M. Natali)

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Nell’esordio dell’opera Seneca si rivolge a Nerone con la seduttiva metafora dello spec- La metafora
dello specchio
chio: annuncia cioè che la materia del trattato non è altro che la fedele restituzione, come
immagine riflessa, della virtù del nuovo principe, al quale va riconosciuta una clemenza
per così dire spontanea e naturale, segno evidente della sua eccellenza morale. Rivolgen-
dosi all’imperatore, il filosofo nasconde l’intento educativo dell’opera dietro la consueta
forma encomiastica dell’elogio e, mentre celebra Nerone come modello ideale di sovra-
no, lo invita a trarre il più grande dei piaceri dal consapevole riconoscimento della sua
clemenza e dei vantaggi che essa comporta. Essa infatti accresce il decoro del principe, gli
garantisce la sicurezza con l’amore dei cittadini e lo differenzia dal tiranno. La coscienza
razionale di una virtù naturale serve dunque a rafforzare la scelta della clemenza e a ga-
rantire al sovrano di governare con giustizia, senza mai cedere all’arbitrio e agli eccessi, in
opposizione alla passionalità incontrollabile dell’«immensa moltitudine discorde, sedi-
ziosa, incapace di dominarsi».
In questo incipit c’è un’allusione che va sottolineata: là dove Seneca invita Nerone a spec- La virtù,
il piacere
chiarsi nell’opera che gli viene dedicata non certo per distoglierlo dal massimo dei piaceri e l’ambitio
verso cui è avviato, ma caso mai per accrescerglielo. La precisazione, coerente con la dot- di Nerone
trina stoica, che l’appagamento della virtù consiste nella virtù stessa insinua il dubbio
che il giovane principe ami il potere come forma massima di voluptas e dunque sia faci-
le vittima dell’ambitio. In realtà Seneca aveva davvero motivo di nutrire questi timori:
l’opera venne probabilmente composta fra la fine del 55 e il 56 d.C., quando Nerone ave-
va già fatto uccidere il fratellastro Britannico, e, sempre più insofferente delle ingerenze
della madre Agrippina, forse stava progettando di sbarazzarsi anche di lei. I solenni pro-
positi di moderazione e di equilibrio che Nerone aveva proclamato, con la regia di Sene-
ca, di fronte al Senato nella seduta di investitura, cominciavano ad affievolirsi e il consi-
gliere non solo era a conoscenza dei delitti, ma addirittura li copriva.
La posizione di Seneca era dunque esemplare delle ambiguità in cui rischiava di trovarsi Seneca
alla corte
l’intellettuale che accettava di collaborare con il potere. All’inizio il filosofo aveva potuto di Nerone
sperare di influenzare positivamente Nerone e, nel discorso programmatico tenuto in Se-
nato, gli aveva fatto riaffermare pubblicamente tutti quei principi che qualificavano il
potere monarchico come necessario e giusto. L’imperatore si era impegnato a governare
con giustizia, per segnare, secondo il racconto di Svetonio, un ritorno della legalità di
stampo augusteo: «nel fare l’imperatore avrebbe seguito i precetti di Augusto, e non si la-
sciò sfuggire occasione alcuna per far mostra di liberalità o di clemenza o di affabilità»
(Svetonio, De vita Caesarum, Nero, 10; trad. I. Lana). Secondo Tacito, sotto la guida di Se-
neca Nerone aveva anche promesso il rispetto delle prerogative istituzionali del Senato e
delle magistrature statali:
Tracciò le linee del futuro governo, dichiarandosi soprattutto alieno da quegli abusi, che ave-
vano suscitato un’avversione ancor viva. Egli, infatti, non sarebbe stato giudice in tutti i pro-
cessi ad evitare che, racchiusi nella reggia accusatori ed accusati, spadroneggiasse la potenza di
pochi; nulla in casa sua sarebbe stato posto in vendita o alla mercé dei favoriti; la corte sarebbe
stata distinta dallo Stato. Il Senato avrebbe dovuto conservare le antiche sue competenze, men-
tre l’Italia e le pubbliche provincie avrebbero dovuto d’ora innanzi ricorrere ai tribunali dei
consoli, che sarebbero stati a loro volta intermediari tra loro e il Senato; egli, da parte sua,
avrebbe provveduto agli eserciti affidatigli.
(Tacito, Annales, XIII, 4; trad. B. Ceva)

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La filosofia Ma nella vita concreta del palazzo l’essere non coincideva affatto con il dover essere, né
al servizio
del buon
per Nerone né per il filosofo: in assenza di vincoli esterni, il pericolo dell’arbitrio e del-
governo l’abuso era sempre in agguato e, per scongiurarlo, bisognava far leva sui convincimenti
personali e sui valori morali autonomamente osservati. Valeva dunque la pena, proprio
in presenza di inquietanti segni di cedimento da parte di Nerone, dedicargli un’opera
che insegnasse il buon governo, perseguito attraverso la moderazione che egli aveva pur
promesso. E così, come per tacitare l’assordante richiamo dei tiranni che liberano il lo-
ro furore sulle scene reali della storia o su quelle fittizie del teatro tragico, Seneca nel
proemio del De clementia offre a Nerone la maschera del filosofo stoico, perché, insi-
stendo nella metafora dello specchio, sveli a se stesso l’origine divina di quello smisura-
to potere che detiene e lo eserciti per garantire la convivenza civile e la pace:

«Sono, dunque, io quello che fra tutti i mortali è stato preferito e scelto per fare in terra le ve-
ci degli dei? Sono l’arbitro della vita e della morte delle nazioni: è nelle mie mani la decisio-
ne sulla sorte e sulla condizione di ciascuno; quello che la fortuna vuole che sia dato a cia-
scuno dei mortali, lo fa attraverso la mia bocca; da una nostra risposta popoli e città
traggono motivi per rallegrarsi, nessun luogo prospera, se non per la mia volontà e per il
mio favore. [...] Nonostante tutto questo potere, l’ira non mi ha mai spinto ad infliggere sup-
plizi iniqui, non mi ha mai spinto l’impeto giovanile, né la temerità o la tracotanza degli uo-
mini [...], non mi ci ha mai spinto l’orgoglio funesto, ma diffuso in chi è a capo di grandi im-
peri, di ostentare la propria potenza seminando terrore. La mia spada è riposta nel fodero,
anzi è legata, ed io ho cura di risparmiare anche il sangue più vile; non c’è nessuno che, pur
essendo privo di altri titoli, non trovi grazia presso di me solo per il suo nome di uomo. Ten-
go nascosta la severità e sempre pronta, invece, la clemenza, sorveglio me stesso, come se do-
vessi poi rendere conto alle Leggi che ho richiamato dalla dimenticanza delle tenebre alla lu-
ce».
(De clementia, praefatio, 1, 2-4; trad. M. Natali)

Il significato Si tratta certo di un discorso di circostanza. Ma nei due libri successivi,


della clemenza
in cui Seneca prende direttamente la parola, viene mostrato il significa-
to politico e morale della clemenza, da intendersi come il più sal-
do fondamento di una monarchia. Il principe è l’anima dello
Stato, il vincolo che lo tiene unito e il dio terreno da cui dipen-
dono i destini degli individui e dei popoli. E proprio in virtù
della distanza incolmabile rispetto agli altri uomini, egli deve
comportarsi verso i sudditi come vorrebbe che si compor-
tassero gli dèi verso di lui: non deve cioè abbando-
narsi all’ira né cedere all’orgoglio, bensì essere giu-

Capolettera a forma di J, che raffigura un uomo armato di scudo e


lama spezzata, forse a indicare l’inutilità del ricorso alle armi,
XIV-XV sec., miniatura dal De beneficiis di Seneca, codice Pal. Lat. 1538,
Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

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sto e clemente con tutti, compresi i più umili e gli schiavi che pure sono uomini, e vo-
lontariamente sottomettersi alle leggi che egli stesso promulga. Il principe, infatti, se è
superiore agli altri uomini per il potere illimitato di cui dispone, è pari a loro per la sua
facoltà razionale e per la soggezione alla legge morale.
La monarchia assoluta non dispone di alcun mezzo per richiamare all’ordine un re quan- Il principe
come un buon
do si sottrae alla legge, ma la garanzia di giustizia per i sudditi consiste nell’autolimita- padre
zione morale del principe, che deve comportarsi con loro come fa un buon padre di fa-
miglia:
Abbiamo chiamato il principe Padre della Patria, perché sapesse che gli era stata data la patria
potestà, che è la più moderata che ci sia, perché si prende cura dei figli e mette i propri interes-
si dopo i loro. Come padre sia tardo nel decidersi a tagliare una delle proprie membra, e anche
dopo averla tagliata, sia desideroso di rimetterla al posto in cui prima si trovava, e gema nel ta-
gliarla, dopo molta e lunga esitazione; infatti, chi condanna in fretta è vicino al condannare
volentieri, e chi punisce esageratamente è vicino al punire ingiustamente.
(De clementia, III, 12, 2-3; trad. M. Natali)

La clemenza è dunque la virtù somma del sovrano ed è inscindibile dalla giustizia, co- La clemenza
e la giustizia
me risulta ben evidente quando il principe esercita il diritto-dovere di punire. Essa si
contrappone non già alla severità, come credono gli ignoranti, ma alla crudeltà «la
quale non è altro che la ferocia dell’animo nell’imporre le pene» (II, 2, 1; trad. M. Na-
tali); e nemmeno si può confondere con la compassione e il perdono. «Il saggio non
proverà compassione, ma soccorrerà e gioverà, nato com’è per aiutare tutti e per con-
tribuire al bene pubblico, del quale darà una parte a ciascuno» (II, 4, 3; trad. M. Nata-
li). La compassione, infatti:
è il vizio di un animo piccino, che viene meno alla vista dei mali altrui [...] sono le vecchiette e
le donnicciole che si lasciano commuovere dalle lacrime dei peggiori criminali e che, se potes-
sero, forzerebbero le porte del carcere. La compassione non guarda al motivo della sorte, ma al-
la sorte stessa: la clemenza, invece, si regola secondo ragione.
(De clementia, II, 3, 1; trad. M. Natali)

Il saggio non concederà mai il perdono perché «si perdona a colui che doveva essere pu-
nito, ma il saggio non fa nulla di ciò che non deve fare e non tralascia mai nulla di ciò che
deve fare: perciò non condona la pena che deve infliggere» (II, 5, 1; trad. M. Natali).
In questa sottile distinzione delle virtù da perseguire e delle debolezze da evitare, Seneca Il buon
principe
parla del governante non più con il titolo di re, di principe o di imperatore, ma con quel- è un saggio
lo di saggio, lasciando supporre che il rex iustus è colui che sa far uso della clemenza, fa-
coltà propria del sapiens. E Nerone viene presentato come l’incarnazione del saggio stoi-
co: certo per ragioni encomiastiche, ma anche nel tentativo di incoraggiarlo a non
trascurare, proprio nel momento di maggior necessità, l’impegno filosofico.
Solo all’interno della cornice stoica, del resto, si può spiegare la fede di Seneca nel rex iu- Il consenso
verso
stus, cui va il consenso di popoli e città, pronti al sacrificio per difenderne la vita. Attra- il rex iustus
verso la similitudine dell’anima impalpabile e nascosta che guida il corpo grande e appa-
riscente, Seneca dimostra che il sovrano è l’anima dello Stato e governa con il suo spirito
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e la sua ragione l’immensa moltitudine che gli sta attorno, esercitando un potere che non
potrà mai nuocere se rimarrà coerente con la legge naturale.
È la natura, infatti, che ha inventato il re, come ci si può render conto dagli altri animali e dal-
le api: il loro re sta in un giaciglio più grande e situato nel luogo più centrale e più sicuro. Inol-
tre, egli non svolge alcun lavoro, ma sorveglia il lavoro degli altri. [...] Ma si distingue soprat-
tutto per questo: le api sono molto colleriche ed estremamente combattive in proporzione alla
loro corporatura, e lasciano il pungiglione nella ferita; il re, invece, è privo di pungiglione. La
natura non ha voluto che fosse crudele né che potesse perseguire una vendetta che costasse ca-
ra, e gli ha tolto l’arma, lasciando disarmata la sua ira. Ecco un esempio straordinario per i
grandi re! La natura, infatti, ha l’abitudine di fare esercizio nelle cose piccole e di accumulare
nelle cose piccole gli insegnamenti per quelle grandi.
(De clementia, III, 17, 2-3; trad. M. Natali)

Il parallelismo tra la natura e la storia serviva a corroborare l’idea della monarchia come
forma di governo preferibile, idea che la pubblicistica filoimperiale seppe sfruttare per
rafforzare, con il sostegno della teoria politica, intenti spesso prosaicamente adulatori.

3. Il principe divus e modestus


Plinio Nell’anno 100 d.C. l’imperatore Traiano nominò al consolato Plinio il Giovane, protago-
il Giovane
omaggia nista della vita politica e culturale fin dai tempi di Domiziano. In occasione del suo in-
Traiano gresso in carica, il console-letterato pronunciò in Senato l’orazione di ringraziamento ri-
volta all’imperatore, che poi ampliò e pubblicò per lodare il principe e per ammaestrare
i suoi successori, come afferma egli stesso in una lettera (Epistulae, III, 18).
La miglior Il panegirico di Plinio, convinto sostenitore del potere imperiale ma anche esponente di
virtù
è la modestia rilievo del ceto senatorio, esprime la connessione, solo a prima vista improbabile, tra la
divinizzazione dell’imperatore e l’ostinata difesa del ruolo del Senato. Lo stile enfatico e
alto cui Plinio tende in tutta la vasta opera, con il ricorso all’iperbole e all’amplificatio di
quei tópoi che la retorica metteva a disposizione dell’oratore, approda all’affermazione
che Traiano è il miglior princeps perché possiede la virtù più importante, la modestia,
cioè la moderazione. Tale qualità consegue al possesso delle altre virtù ed è necessaria
perché queste possano esprimersi; essa prova nei fatti la divinità del principe e al tempo
stesso lo conserva uomo tra gli uomini, segnando una svolta chiarissima rispetto ai ti-
ranni del passato:
non diciamo più nulla nello stile che era abituale in passato [...] non facciamo risonare in pub-
blico gli stessi elogi dell’imperatore che erano comuni una volta. [...] Dai nostri discorsi si ve-
da subito quanto i tempi siano diversi [...]. Non ricorriamo mai a piaggerie che lo proclamino
un dio, che lo proclamino un essere sovrumano; infatti non parliamo di un tiranno ma di un
cittadino, non di un padrone ma di un padre. Ad accrescergli superiorità e preminenza è pro-
prio questo suo credersi uno di noi, questo suo ricordarsi non meno di essere uomo quanto di
essere a capo degli uomini.
(Panegirico di Traiano, 2, 2-4; trad. F. Trisoglio)

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L’arco cronologico dell’orazione abbraccia un periodo di circa tre anni, a partire dal 97 Principe
per spirito
d.C., quando Traiano fu adottato da Nerva e dunque designato come futuro imperatore. di servizio
Plinio sottolinea che l’adozione avvenne non in un contesto di guerra civile o per pres-
sioni di corte, ma con il pieno assenso del Senato e del popolo. Proprio questa designa-
zione, che Traiano accettò con spirito di servizio e solo per obbedienza, rivela che furono
gli dèi a volerlo come imperatore e non la sua ambizione personale:
Hai infatti ubbidito, o Cesare, e sei arrivato al trono mediante la subordinazione [...]. Quando
poi ti giunse la notizia della sorte che la fortuna ti riserbava, avresti senz’altro preferito rima-
nere ciò che eri stato, ma non potevi più decidere secondo le tue preferenze.
(Panegirico di Traiano, 9, 3-4; trad. F. Trisoglio)

Anche il suo ingresso a Roma come imperatore, di ritorno dalla Germania superiore do-
ve l’aveva colto la notizia della morte di Nerva, è un trionfo, tanto più glorioso in quan-
to egli rifiuta ogni manifestazione esteriore di potenza: il suo entrare in città a piedi, non
protetto dalle guardie, ma acclamato dalla folla entusiasta, è una prova inconfutabile del-
la modestia e della popolarità di Traiano, opposte al fasto e all’altezzoso spregio verso i
sudditi dei sovrani che si fanno portare sulle spalle: «Tu, invece, dominando e spiccando
su tutti unicamente con la tua statura slanciata, non celebrasti una specie di trionfo sul-
la nostra rassegnazione ma sulla tracotanza degli imperatori» (Panegirico di Traiano, 22,
2; trad. F. Trisoglio).
Traiano incarna il ruolo del padre della patria, ma non si fregia e non abusa di un nome Padre
della patria
tanto impegnativo; piuttosto, manifesta ai cittadini cordialità e indulgenza come fa un
genitore verso i figli. Egli riconosce tutti e da tutti si lascia riconoscere (21, 4): così, al suo
passaggio, è circondato da una folla fiduciosa di bambini, giovani, vecchi, persino mala-
ti che lo guardano come se fosse dotato di un potere miracoloso e fosse in grado di dare
salvezza e salute; in sua presenza le donne provano soddisfazione della loro fecondità,
liete di partorire cittadini e soldati a un tale imperatore e condottiero. Un quadro in cui
s’intravede già quel che potrà diventare, in futuro, la celebrazione dell’imperatore divino
e ancora più tardi, in epoca cristiana, quella dei sovrani santi e taumaturghi.
Ma è l’ossequio dei senatori a essere degno di nota, soprattutto perché introduce un te- L’accordo
tra principe
ma che occupa circa metà dell’orazione: quello del e Senato
rapporto tra il principe e il Senato. Al suo in-
gresso nell’Urbe Traiano, seguendo i littori
insieme con i soldati, si lascia circondare «dal
fior fiore ora del Senato ed ora dell’ordine
dei cavalieri» (23, 3; trad. F. Trisoglio), senza
la protezione delle guardie del corpo e per
nulla sospettoso o pauroso. Plinio vuole su-
bito sottolineare l’intesa e il reciproco ri-
spetto tra senatori e imperatore, per sposta-

Traiano e il generale Susa, II sec., Colonna Traiana (particolare),


Roma, Foro di Traiano.

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G. Garbarino – Paravia [9]
PERCORSO TEMATICO Intellettuale e potere

re il discorso dal piano delle virtù morali del principe a quello degli equilibri istituziona-
li. Traiano si distingue dai suoi predecessori per la ferma lealtà verso le istituzioni di ori-
gine repubblicana, quali il Senato e il consolato, e per la capacità di riconoscere e valo-
rizzare sia il prestigio di senatori di antica nobiltà, sia i meriti di quei cavalieri e uomini
nuovi che attraverso un’onorata carriera erano approdati in Senato:
Finalmente dunque la nobiltà non viene più relegata nel buio, ma viene collocata in piena lu-
ce dal capo dello stato; finalmente quegl’illustri discendenti di grandissimi uomini, quegl’illu-
stri posteri della libertà non hanno più spavento dell’imperatore e non gliene fanno più: che
anzi, affrettando la loro carriera, conferisce loro una nuova dignità ed una nuova grandezza e
li rimette sullo stesso piano dei loro antenati [...]. Sono al centro del pubblico rispetto e sulle
labbra della fama dei grandi nomi che furono fatti uscire dalle tenebre della dimenticanza dal-
la magnanima accondiscendenza dell’imperatore, il quale si propone come suo scopo di con-
servare i nobili e di crearne degli altri.
(Panegirico di Traiano, 69, 5-6; trad. F. Trisoglio)

La punizione L’impegno dell’imperatore a collaborare con l’oligarchia è provato dalla determinazione


dei delatori
con cui punisce i delatori, cioè coloro che con una denuncia di lesa maestà volevano ar-
ricchirsi dei beni confiscati agli accusati, nonché da numerosi interventi a tutela della
proprietà e della sicurezza personale:
Quali fossero gli effetti causati dal mutamento dei tempi lo si vide soprattutto quando venne-
ro allora imprigionati i delinquenti più scellerati tra quei medesimi dirupi dove erano stati in
passato relegati i più integri galantuomini e quando ormai a riempire tutte le isole era lo stuo-
lo dei delatori mentre poco prima era stato quello dei senatori.
(Panegirico di Traiano, 35, 2; trad. F. Trisoglio)

Il principe Il principe ideale, che Plinio, portavoce dell’ideologia senatoria, vede incarnato in Traia-
ideale secondo
l’ideologia no, tutela dunque la libertas e la securitas, punisce i malvagi e premia i meritevoli, rispet-
senatoria ta le istituzioni e le leggi, garantisce la giustizia. Non è un despota crudele, ma un mo-
narca paterno, che si conforma agli antichi principi repubblicani della concordia ordinum
e del diritto al governo della nobilitas, pur riformulandoli così da renderli consonanti con
le esigenze moderne. A queste condizioni l’aristocrazia senatoria è pronta a fare la sua
parte:
Tutti prima di te avevano enunciato queste stesse cose e tuttavia prima di te non si era creduto
a nessuno. [...] Esiste infatti un mare tanto traditore come le lusinghe di quegli imperatori i
quali avevano una mentalità così incoerente ed una slealtà così maligna che era più agevole
stare in guardia dal loro sdegno che non dalla loro benevolenza? Nel caso tuo invece noi ti se-
guiamo sereni ed animosi dovunque ci chiami. Ci comandi di essere liberi: lo saremo; ci co-
mandi di proclamare in pubblico le nostre idee: le proclameremo. Finora infatti non ce ne sia-
mo rimasti inoperosi per qualche forma di apatia e per un intorpidimento che provenisse da
noi: lo spavento, il timore e quella disgraziata circospezione che si acquista a forza di pericoli ci
consigliavano di volgere via dallo stato (ma esisteva ancora qualche parvenza dello stato?) gli
occhi, le orecchie, le menti.
(Panegirico di Traiano, 66, 3-4; trad. F. Trisoglio)

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[10] G. Garbarino – Paravia
PERCORSO TEMATICO Intellettuale e potere

La celebrazione delle qualità personali di Traiano consentiva quindi al console-letterato Il Senato


collabora
di difendere il Senato, e con esso la nuova aristocrazia, dai sospetti di debolezza, letargia con il principe
o connivenza con i governi liberticidi succedutisi almeno fino a Domiziano. Il Senato
imperiale, in cui di fatto erano ormai rarissimi i rampolli dell’antica nobiltà gentilizia e
molto più numerosi gli homines novi o i cittadini ragguardevoli provenienti dalle colonie
e dai municipi non italici, era disponibile a collaborare con il principe, a patto di esserne
garantito. Garantito nella libertas e nella securitas, dovuta a coloro che si proclamavano i
migliori, in quanto difensori della virtù degli antichi e depositari degli antiqui mores, in
grado, per esperienza ereditata o cumulata direttamente, di fornire qualificati quadri bu-
rocratici e militari all’amministrazione imperiale.
Il panegirico testimonia insomma la persistente vitalità della concezione oligarchica Vitalità della
concezione
presso i ceti dirigenti romani. L’ideologia senatoria, come emerge dalle orazioni ufficiali oligarchica
o dalle lettere dei burocrati dell’impero (dello stesso Plinio o, nel IV secolo, di Simmaco),
continua, infatti, ad attingere a un’immagine idealizzata dei senatori come probi viri, in-
corruttibili custodi del severo rigore morale di derivazione repubblicana e gentilizia.
Un’immagine quasi mai aderente alla realtà, come mostra il confronto con i cupi affre-
schi di una società in rovina, relativi a un passato recente, suggeriti a Tacito dalla rinata li-
bertà. Leggendo Tacito e la sua sofferta denuncia della corruzione che in età imperiale
prese il sopravvento e che il senatus non seppe affatto contrastare, ci renderemo conto
che dietro all’enfasi celebrativa di Plinio si nasconde la consapevolezza, da parte del ceto
senatorio, che la collaborazione con l’impero rappresentava l’unica possibile difesa dei
tradizionali privilegi.

4. Dall’elogio del buon principe al ritratto


del tiranno
L’opera storiografica di Tacito, un intellettuale di famiglia senatoria che ricoprì impor- Tacito depreca
il potere
tanti incarichi politici e che tuttavia non rinunciò affatto a svelare la tirannia del potere imperiale
imperiale, si proponeva di raccontare la storia di Roma a partire dall’avvento del princi- tirannico
pato augusteo. Anche se lo storico non arrivò a trattare l’epoca a lui contemporanea,
quella di Nerva e Traiano, il nuovo clima di libertà che regnava sotto questi imperatori
costituì un termine di confronto frequentemente invocato per far risaltare il dispotismo
dei loro predecessori. Nella biografia del suocero Agricola, scritta cinque anni dopo la
sua morte, Tacito salutò il ritorno dei tempi più antichi, quando «i maggiori ingegni era-
no indotti non da spirito di parte o da ambizione personale a celebrare la virtù, ma solo
dal compenso della buona coscienza» (Agricola, 1; trad. A. Arici). Presentando l’opera, la
giustificò come un chiaro segnale dei tempi nuovi e mise in risalto il significato politico
dell’omaggio a Nerva e Traiano, restauratori della legalità e della libertà, tragicamente vi-
lipese dai successori di Augusto e in particolare dal crudele Domiziano:
Ora finalmente ci ritorna il coraggio; ma benché subito, all’inizio del suo felicissimo regno, Il coraggio
della parola
Nerva Cesare abbia conciliato insieme due cose un tempo incompatibili, il principato e la li- è possibile
bertà, e benché Nerva Traiano accresca di giorno in giorno la felicità presente, e la sicurezza dei con la libertà

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G. Garbarino – Paravia [11]
PERCORSO TEMATICO Intellettuale e potere

cittadini non sia soltanto speranza e desiderio, ma valida fiducia nel realizzarsi di questo, tut-
tavia per la naturale debolezza umana i rimedi operano meno prontamente dei mali; e come i
nostri corpi crescono con lentezza, si estinguono a un tratto, così riesce più facile soffocare l’at-
tività degli ingegni e l’emulazione che richiamarle in vita: subentra infatti la dolcezza dell’i-
gnavia stessa, e l’inerzia, dapprima odiosa, alla fine si ama. In verità, se per quindici anni, gran-
de spazio della vita mortale, molti sono scomparsi per casi fortuiti, e i più animosi per la ferocia
dell’imperatore, pochi siamo sopravvissuti – per così dire – non solo ad altri, ma a noi stessi, es-
sendoci stati tolti proprio nel mezzo della vita tanti anni, per cui i giovani sono passati alla vec-
chiezza, i vecchi quasi ai confini stessi dell’esistenza, gli uni e gli altri in silenzio. Tuttavia non
mi rincrescerà di aver messo a paragone tra loro, sia pure con parola disadorna e rozza, il ri-
cordo della servitù passata e la testimonianza del bene presente.
(Agricola, 3; trad. A. Arici)

La «parola Tacito pronuncia qui l’elogio del principe in carica, ma lo fa in forma indiretta, prefe-
disadorna»
rendo allo stile solenne ed enfatico dei panegirici la «parola disadorna e rozza» imposta
dalla fedeltà ai fatti storici; rifiuta, inoltre, la convenzione cortigiana di magnificare il pre-
sente per riproporre invece l’inquietante storia di Agricola. Se la vita del suocero, che fu
quella di un leale servitore dell’impero, non poteva che essere accolta come modello da
imitare, la sua morte proiettava l’ombra lunga del delitto di Stato e rievocava il terrore di
un potere dispotico. Ma proprio il coraggio di una scelta tanto audace diveniva segno
tangibile della recuperata fiducia dell’intellettuale, che considerava la libertà di dire il ve-
ro come l’unico baluardo contro la servitù.
Anche nelle sue opere maggiori, le Historiae e gli Annales, l’impegno di Tacito si orienta
Il rispetto verso la ricostruzione minuziosa dei fatti, eroici e criminosi, per ristabilire il rispetto del-
della verità
la verità. Egli dichiara apertamente che dopo la battaglia di Azio, quando «nell’interesse
della pace, fu utile rimettere il potere a uno solo» (Historiae, I, 1; trad. A. Arici), gli scrit-
tori erano diventati servitori. Scampato alla ferocia di Domiziano e alla narcosi del si-
lenzio imposto dalla crudeltà dei tempi, Tacito cerca di riparare alla cancellazione della
memoria storica risalendo gli anni del principato con un’indagine a ritroso. Questo non
significa mettere apertamente in discussione l’ineluttabilità del potere monarchico: il
suo interesse non si rivolge tanto alla forma del potere, quanto alle ragioni storiche e an-
tropologiche che resero possibile la corruzione morale, dilagata sotto il governo dei
principi.
Perché Lo storico si interroga dunque su come sia avvenuta una così radicale e generalizzata de-
la decadenza
dei costumi
cadenza dei costumi, per cui i valori dominanti, dopo un secolo di principato, risultano
essere quelli che un tempo erano considerati vizi: ambizione di potere, cupidigia di faci-
li ricchezze, sfrenata lussuria. Tacito lascia intendere che in epoca recente abbiano agito
in profondità i guasti provocati da Nerone, di cui negli Annales ricostruisce, momento
per momento, la progressiva degenerazione, fino alla bestiale empietà del tiranno.
Il modello Attratto dai piaceri illeciti, Nerone si accendeva per donne bellissime e disposte a «equi-
negativo
di Nerone voche e segrete dissolutezze» (Annales, XIII, 12; trad. B. Ceva), per compiacere le quali
non esitava a compiere i peggiori delitti. È per amore di Poppea, figura che «ebbe tutte le
doti, fuor che quella di un animo onesto» (Annales, XIII, 45; trad. B. Ceva), che Nerone
cominciò a farsi rapire in un vortice di scelleratezze e in una catena inarrestabile di delit-
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[12] G. Garbarino – Paravia
PERCORSO TEMATICO Intellettuale e potere

ti: dall’omicidio dei congiunti (fratellastro, madre e moglie) a quello dei più stretti colla-
boratori (Burro e Seneca) e di scrittori divenuti odiosi (Lucano e Petronio). E come se
non bastasse tanta empietà a rivelare la perversione morale del principe, Tacito indugia
sulla sua sconvolgente capacità di simulare, di volta in volta, indifferenza, innocenza, do-
lore. Davanti agli inequivocabili sintomi dell’avvelenamento di Britannico, Nerone tran-
quillizza i commensali fingendo di riconoscere i segni di una crisi epilettica:
standosene sdraiato con l’aria di nulla sapere, andava dicendo che si trattava del solito attacco
di epilessia, di cui, fin da bambino, Britannico soffriva e che a poco a poco la vista e i sensi sa-
rebbero ritornati.
(Annales, XIII, 16; trad. B. Ceva)

La notte seguente all’assassinio di Agrippina, il principe, quando «ne comprese tutta la


mostruosità» (Annales, XIV, 10; trad. B. Ceva), fu impietrito dalla paura e reso folle dal-
lo spavento, ma già al mattino si sentì rincuorato dall’adulazione dei tribuni che si ralle-
gravano per la sua incolumità, fingendo di credere alla menzogna del delitto tentato con-
tro di lui dalla madre. E allora «egli, con infingimento contrario, si mostrava ora
addolorato e quasi adirato contro di sé per l’incolumità sua, e piangente per la morte del-
la madre» (Annales, XIV, 10; trad. B. Ceva). Più tardi si sarebbe discolpato di fronte al Se-
nato sostenendo di aver agito per legittima difesa contro Agrippina, cui veniva rimpro-
verata una sfrenata ambizione, verosimile per chi sapeva che la smania del potere l’aveva
persino resa disponibile all’incesto con il figlio. In relazione alla moglie Ottavia, donna
«di specchiata onestà», Nerone non esita ad avanzare accuse di adulterio e «di procurato
aborto, per la consapevolezza del suo illecito rapporto» (Annales, XIV, 63; trad. B. Ceva),
per ripudiarla e farla uccidere con un’efferatezza infame:
Stretta in catene le furono aperte le vene per tutte le membra e poiché il sangue per lo spaven-
to scendeva con troppa lentezza fu uccisa con l’immersione in un bagno caldissimo. A tutto
questo si aggiunse una più atroce crudeltà, poiché ebbe troncata la testa, che fu portata a Roma
ed offerta agli sguardi di Poppea.
(Annales, XIV, 64; trad. B. Ceva)

All’empietà di siffatti delitti si aggiungono le blasfeme offerte agli dèi che regolarmente li
accompagnano, denunciando il totale sconvolgimento dell’ordine morale di un’intera
società:
Tutti coloro che le vicende di quei tempi conosceranno dalle opere mie e da quelle d’altri, ri-
tengano per certo che, ogni volta che il principe ordinò esili o stragi, furono rese grazie agli dèi,
e che quelle cerimonie che un tempo avevano caratterizzato fausti eventi ora erano il segno di
pubbliche sventure.
(Annales, XIV, 64; trad. B. Ceva)

Nerone è il tiranno che costruisce le «pubbliche sventure»; eppure dopo la sua morte fu Le pubbliche
sventure
evidente che c’era chi lo rimpiangeva. Nel 69 d.C., l’anno dell’anarchia militare e della e la tirannide
guerra civile, proprio tra i soldati non mancava chi si accendeva «al ricordo di Nerone e
nel rimpianto della sfrenata licenza di un tempo; in generale, tutti erano spaventati al
pensiero di cambiare servizio» (Historiae, I, 25; trad. A. Arici). L’empietà era diventata
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G. Garbarino – Paravia [13]
PERCORSO TEMATICO Intellettuale e potere

un modello interiorizzato nei militari e nei generali, negli uomini d’affari e nei burocra-
ti, nonché in molti senatori: qui si può ritrovare una spiegazione al fatto che appena die-
ci anni dopo la tirannide di Nerone fu possibile quella di Domiziano. Una società com-
pletamente frantumata, un Senato sempre assediato e impegnato nell’adulare il tiranno
di turno, l’endemica fragilità della disciplina militare fino alla violenza contro i capi e al-
la ribellione contro l’imperatore legittimo: tale il volto di Roma dopo la morte di Nero-
ne. L’impero, per la grandezza dei suoi confini e per lo smisurato potere personale con-
centrato nelle mani del principe, ha dunque potenziato la bramosia di potere (potentiae
cupido) fino a corrompere le tre istituzioni cardine di Roma, senatus populusque ed exer-
citus:
L’avidità del potere, antica e innata nei mortali fin dall’inizio, si sviluppò coll’ingrandirsi del-
l’impero e non ebbe più freno: ché nelle fortune modeste il buon accordo era facilmente man-
tenuto.
(Historiae, II, 38; trad. A. Arici)

L’isolamento Le istituzioni non hanno retto perché pur non mancando, nemmeno nei momenti più
dei probi viri
cupi e disperati, esempi grandiosi di uomini liberi, come Germanico sotto Tiberio, Cor-
bulone o Tràsea Peto sotto Nerone, Agricola sotto Domiziano, essi rimasero isolati. La
ristabilita legalità impone dunque all’intellettuale fedele alla libertas repubblicana e al-
l’autorità istituzionale del Senato di restituirli alla memoria collettiva per mantenere vi-
vo il valore della responsabilità. Per Tacito l’intellettuale, in forme diverse rispetto a Se-
neca, deve alimentare la discussione, vitale per una società, sulla relazione tra politica e
morale, tra l’esercizio del potere e la responsabilità che esso comporta. La sua riflessione
sarà valorizzata, non a caso, in epoca moderna dai moralisti politici del XVII secolo.

5. Il furor del tiranno


L’incubo Nerone dunque per Tacito è stato inequivocabilmente un despota di intollerabile cru-
del tiranno
deltà e immoralità. Ma già durante il suo regno lo stesso Seneca rifletteva sulla natura
del tiranno. Oratore e politico di carriera, il filosofo aveva rischiato due volte la con-
danna a morte sotto Caligola e Claudio e aveva vissuto un lungo esilio in Corsica. Co-
me per vendetta, nel dialogo De ira (41 d.C.) aveva dipinto Caligola che, mentre assi-
steva a uno spettacolo, disturbato da tuoni e fulmini e livido d’ira contro Giove, gli
gridava il verso omerico «toglimi di mezzo o tolgo io di mezzo te». Alla fine dell’opera
non aveva neppure nascosto la sua simpatia per gli assassini del princeps, poiché non si
poteva «sopportare un uomo che non sapeva sopportare Giove» (De ira, I, 20, 9; trad.
A. Marastoni). Alla morte di Claudio poi, insieme con l’elogio funebre ufficiale che Ne-
rone avrebbe letto in Senato, aveva composto l’Apokolokýntosis, beffarda parodia dell’a-
poteosi dell’imperatore. In queste opere Seneca aveva denunciato ora in termini razio-
nali e morali, ora nella forma della satira menippea, le degenerazioni dei detentori del
potere assoluto.
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[14] G. Garbarino – Paravia
PERCORSO TEMATICO Intellettuale e potere

È difficile pensare che Seneca non sapesse leggere i delitti e gli intrighi di Nerone come Seneca mette
in scena
un segnale preoccupante di continuità con il dispotismo sanguinario dei predecessori. E il tiranno:
infatti proprio negli anni Cinquanta, quando era precettore e poi influente consigliere Thyestes
del giovane imperatore, Seneca compose per il discepolo amante della poesia e poeta al-
cune tragedie in cui direttamente o indirettamente ritorna il tema del potere: non più
attraverso l’elogio del principe clemente, ma per mezzo della rappresentazione dei peri-
coli della tirannide. Particolarmente significativo è il Thyestes, in cui viene analizzata in
tutta la sua mostruosità la figura del tiranno Àtreo, posseduto dall’ira e autocompiaciu-
to della sua implacabile ferocia. La vicenda si svolge a Micene dove Àtreo, meditando di
vendicarsi del fratello Tieste che gli ha insidiato il regno e si è invaghito della moglie, per-
petua la catena di orrendi delitti che gravano sulla casa degli Atridi. Fingendo di volersi
riconciliare con il fratello, lo fa rientrare a Micene con i figli e li uccide, offrendoli in pa-
sto al padre ignaro in un macabro banchetto.
È di scena un tiranno, dunque, che nel disprezzo di ogni legge umana e divina si con- Àtreo
si contrappone
trappone didascalicamente al rex iustus descritto dall’autore nel De clementia. Nel dialo- al principe
go con una guardia, che cerca di dissuaderlo dal crimine, Àtreo nega una per una le ra- filosofo
gioni della clemenza. Egli vuole vendicarsi con un delitto insuperabile: «Su, anima mia, fa
qualcosa che la posterità non possa mai approvare, ma né anche mai passare sotto silen-
zio. Devo osare un’infamia atroce, sanguinosa, tale che mio fratello l’avrebbe desiderata
sua. Non puoi vendicarti di un crimine se non lo superi» (Thyestes, vv. 192-196; trad. G.
Giardina); non teme affatto il giudizio del popolo: «Il maggiore vantaggio dell’autocrazia
è che il popolo è costretto del pari a sopportare e a lodare gli atti del suo despota» (vv.
206-208); dice di preferire la lode falsa a quella autentica perché «Una lode sincera tocca
spesso anche all’uomo comune, quella falsa non ad altri che al potente. I cittadini devo-
no volere quel che non vogliono» (vv. 211-212); non crede affatto, come sovrano, di do-
ver sottostare alla comune legge: «Probità, devozione, lealtà sono valori buoni per un pri-
vato; i re possono muoversi a piacer loro» (vv. 217-218); non vuole essere giusto ma
crudele: «Un tiranno mite può sopprimere subito: nel mio regno la morte è una grazia da
ottenere» (vv. 247-248). E il suo furore dissacratore si traduce in fatti concreti: Àtreo pro-
cede all’omicidio divenendo sacerdote della sua stessa empietà. Il messaggero che riferi-
sce minuziosamente al coro, cioè ai cittadini di Micene, la successione degli eventi lo pre-

Nell’iniziale Q, Àtreo e Tieste consumano


il macabro banchetto; a sinistra, arrivo
di Tàntalo e Tieste ad Argo, XIV sec.,
miniatura dal Thyestes di Seneca,
in Tragedie, codice Reg. Lat. 1500, Città
del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

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G. Garbarino – Paravia [15]
PERCORSO TEMATICO Intellettuale e potere

senta inferocito dall’ira e lo paragona al leone: «Come in una selva Armena il crinito leo-
ne, vittorioso dopo una grande strage, si sdraia in mezzo alla mandria con le fauci intri-
se di sangue e, benché abbia scacciato la fame, non lascia la sua furia» (vv. 732-735; trad.
G. Giardina).
Àtreo è la negazione evidente del saggio stoico. Quest’ultimo si conforma alle leggi di na-
tura, cioè alle leggi della ragione, della morale e del fas; Àtreo, al contrario, viola ogni leg-
ge della natura e agisce guidato dal nefas. L’uno realizza ed esprime al massimo grado ciò
che c’è di più umano nell’individuo; l’altro è la negazione di ogni umanità. Mentre il sag-
gio domina le passioni, Àtreo proprio cedendo alle passioni si sente un dominatore:
Àtreo Ora mi levo alla stessa altezza degli astri e al di sopra di tutti, toccando con il capo superbo la
si sostituisce
agli dèi sommità del cielo. Ora tengo in pugno gli onori del regno, il trono di mio padre. Congedo gli
dèi: ho toccato il vertice dei miei voti. Va bene, così basta, ormai è abbastanza anche per me. Ma
perché dovrebbe essere abbastanza? Andrò sino in fondo, riempirò il padre dei cadaveri dei
suoi figli. Perché non si opponesse alcun ritegno, il giorno s’è ritirato: avanti dunque, finché il
cielo è vuoto. Se almeno potessi trattenere dalla fuga gli dèi e trascinarli con la forza a vedere
tutti la cena vendicatrice! Ma basta che la veda il padre.
[...]
Mi piace vedere di che colore si farà scorgendo le teste dei figli, che parole si lascerà sfuggire il
suo dolore in quel primo attimo, come senza più fiato per lo stupore il corpo gli si irrigidirà.
Questo è frutto della mia opera. Non voglio vederlo quando sarà già infelice, ma mentre di-
venta infelice.
[...]
Il padre beva misto al vino il sangue dei propri figli: avrebbe voluto bere il mio piuttosto.
(Thyestes, vv. 885-895; 903-907; 917-918; trad. G. Giardina)

Dopo aver compiuto il crimine, con un’ironia sadica, Àtreo, che ormai pensa e agisce
contro gli uomini e contro gli dèi, si attribuisce gli onori del regno. Ma non incarna l’a-
nima del mondo: il cielo sopra di lui è vuoto. Il suo mostruoso accanimento è tanto più
tragico perché, a ben guardare, dà origine a una nefanda sfida del personaggio, comple-
tamente solo, con se stesso: egli si lamenta infatti che anche gli dèi lo fuggono, invece di
assistere al banchetto vendicatore. Àtreo, lasciando trionfare nell’animo l’ambizione, l’i-
ra e il furore, mostra che dove non c’è ragione prende il sopravvento il totale disordine
morale, fino al trionfo del nulla assoluto.
Tieste Ma Seneca non si limita a mettere in scena l’orrore per la tirannide; sa fin troppo bene
è tentato
dal potere
che l’ambizione è un sentimento umano complesso e che, per dirla con Platone, in ogni
uomo sonnecchia un tiranno. Perciò ad Àtreo contrappone Tieste, che è vittima e non
carnefice, ma deve anch’egli la propria rovina alla tentazione del potere. Tieste, attraver-
so l’esilio, ha capito quanto sia preferibile la vita tranquilla, lontana dalle corti piene di
delitti, e come il regno sia un falso bene. Eppure, quando il fratello gli fa balenare la pos-
sibilità di condividere il potere e i figli ambiziosi lo incoraggiano ad accettare, egli non sa
opporsi: anziché mettere in guardia i giovani inesperti sul valore illusorio del potere, ce-
de egli stesso alla seduzione, senza dare ascolto all’inquietudine che lo pervade e ai foschi
presentimenti. La saggezza stoica, che predica il distacco dai beni materiali e l’autosuffi-
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[16] G. Garbarino – Paravia
PERCORSO TEMATICO Intellettuale e potere

cienza interiore, rimane davvero lontana e separata dalla vita reale degli uomini comuni,
se anche questo vecchio, dopo averla sfiorata, non sa rinunciare alla fascinosa illusione di
condividere il regno con il fratello.
L’Àtreo che matura la decisione della feroce vendetta non è semplicemente un folle, ben- Il tiranno
minacciato
sì un tiranno che conosce perfettamente gli uomini e le loro debolezze, su cui si basano
le leggi spietate del governo. La sua psicologia è continuamente minata dalla paura e dal
sospetto, non solo perché la sua crudeltà gli fa terra bruciata intorno, ma anche perché sa
che in ogni uomo si nascondono in potenza quei vizi che chi detiene il potere può libe-
rare: la lussuria, l’odio, la cieca avidità.
Nel costruire il suo personaggio, Seneca va dunque al di là della meccanica contrapposi- Il sovrano
non può essere
zione tra principe clemente e tiranno, fino a mettere in discussione la possibilità stessa di clemente
un potere moderato: il sovrano che conosce la propria situazione e l’animo umano non
può permettersi di essere clemente. Àtreo non compie il male per il male, ribaltando in
forma perfetta l’agire del principe sapiente che segue la virtù per se stessa, bensì agisce
per vendetta e contemporaneamente per paura, sentendo il suo potere minacciato dal ri-
vale. Il terrore come garanzia di sicurezza del regno (il famoso detto «mi odino, purché
mi temano») giustifica qualunque delitto al di fuori della morale: e, nel caso di Àtreo, la
dismisura criminosa si fonda proprio sulla convinzione che la morale valida per i re non
coincide quasi mai con la morale comune. Così il tiranno, del tutto isolato dalla comu-
nità dei cittadini, dei quali disprezza il consenso, e persino dall’umanità intera, con cui
non condivide più la legge morale, abbozza già la grande questione del pensiero politico
moderno: la separazione machiavelliana tra morale e politica.

6. Giulio Cesare come Nerone


Nipote di Seneca, e come lui suddito di Nerone di cui conosce bene l’efferatezza, Lucano La guerra
empia
affronta il poema epico apparentemente sulle orme di Virgilio, ma in realtà decostruen- di Lucano
dolo dall’interno. Il poeta non lo dedica infatti alle guerre vittoriose contro i nemici
esterni, attraverso cui è cresciuta la gloria nazionale, ma al conflitto empio per definizio-
ne, il Bellum civile tra Cesare e Pompeo, da cui ha inizio l’assolutismo imperiale. Virgilio,
come abbiamo visto, giustificava la guerra civile come premessa necessaria per l’avvento
di un principato pacificatore; al contrario Lucano nel Bellum civile insinua l’idea della
miseria morale dell’impero proprio additando l’empietà degli eventi che gli hanno dato
origine. La guerra civile non è un semplice episodio, per quanto doloroso, della storia di
Roma: essa segna la scomparsa delle istituzioni repubblicane che costituivano l’ossatura
dello Stato. Con la decisione di Cesare di combattere contro il genero, le divinità abban-
donano l’Urbe, decretandone la rovina: «La grandezza precipita su se stessa: gli dèi pose-
ro questo limite alla crescita della prosperità» (Bellum civile, I, vv. 81-82; trad. R. Badalì).
Lotte e stragi sanguinose, eserciti agguerriti che si affrontano per distruggersi, il sopruso
fatto legge, Roma che soccombe di propria mano: questo l’argomento annunciato nel
proemio.
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G. Garbarino – Paravia [17]
PERCORSO TEMATICO Intellettuale e potere

La guerra L’incipit è dunque all’insegna del sovvertimento politico ed etico: in esso si annuncia la
civile segna
il sovvertimento fine della storia in un mondo trascinato alla rovina, giacché i popoli sono tutti quanti
politico ed etico implicati nel misfatto, al seguito dei due disperati contendenti.
L’ironia In questo scenario viene evocato Nerone con un encomio che, seppur solenne, è difficile
dell’encomio
a Nerone non giudicare ironico. Valeva la pena di attraversare gli orrori della guerra civile, dichia-
ra Lucano, se si pensa che il loro esito finale è il regno di Nerone:
Se poi i fati non hanno trovato altro mezzo per l’avvento di Nerone e a caro prezzo si appre-
stano gli eterni regni per gli dei [...] non ci lamentiamo più ormai: approviamo questi nefandi
delitti, se essi hanno avuto tali conseguenze [...] purtuttavia Roma deve molto ai conflitti civi-
li, dal momento che tutto ciò si è realizzato per te. Te – allorquando, completato il periodo del
tuo soggiorno terreno, salirai, il più tardi possibile, verso gli astri – accoglierà la reggia del cie-
lo [...] ogni nume si ritirerà dinanzi a te e la natura ti lascerà il diritto di decidere qual dio vor-
rai essere e dove collocare il tuo regno sull’universo. Ma non scegliere la tua sede nella zona del-
l’Orsa né in quella opposta, dove si trova il caldo polo australe, donde vedresti la tua Roma
con una traiettoria obliqua: se tu graverai su una sola parte dell’etere immenso, l’asse dell’uni-
verso sentirà il tuo peso. Equilibra con un’orbita centrale la massa del cielo: quella zona dell’e-
tere sereno sia libera del tutto e nessuna nube sia di ostacolo dalla parte di Cesare. Allora il ge-
nere umano, deposte le armi, pensi a se stesso e ogni popolo si ami vicendevolmente: la pace,
diffusa per il mondo, chiuda le ferree porte del tempio di Giano apportatore di guerra. Ma tu
per me sei fin da ora un dio e se io, accogliendoti nel mio petto, divengo poeta [...] tu basti ad
infondere forza e ispirazione per un poema romano.
(Bellum civile, I, vv. 33-66; trad. R. Badalì)

Nerone Come Virgilio faceva discendere Augusto dal pio Enea, così Lucano presenta Nerone
è il discendente
di Cesare come l’erede di Cesare: se si dovesse prendere alla lettera ciò che scrive, la temeraria sfi-
da di Cesare contro la patria e gli dèi sarebbe storicamente accettabile proprio per aver
aperto la strada al regno di Nerone. Senonché il principe non viene elogiato per quel-
lo che sta facendo in vita; al contrario, l’elogio dell’imperatore si riduce a immaginare
che, una volta morto, risiederà tra gli astri e di là ristabilirà finalmente la pace. Egli in-
somma farà del bene a Roma solo dopo che se ne sarà andato. L’iperbolico innalza-
mento del principe al cielo è sorprendente e ambiguo perché non scaturisce da azioni
degne di gloria e a tutti note, né si giustifica per la discendenza da un eroe epico che
effonda su di lui una luce divina: la guerra civile non serba gesta gloriose da emulare,
bensì crimini e nefandezze da condannare, e Cesare appartiene alla categoria degli eroi
negativi, è un sovversivo e un feroce tiranno. Lucano non condivide le attenuanti sto-
riche secondo le quali i veri responsabili della guerra civile sarebbero gli intrighi ordi-
ti dal Senato e da Pompeo. Per lui, Cesare è un ambizioso mosso da una bramosia di
potere e da una ferina volontà di combattere; gode alla vista del sangue e dei cadaveri;
non conosce l’amore, ma solo la lussuria che lo fa schiavo della dissoluta Cleopatra.
L’eroe dunque non emana luce, ma proietta ombre tanto più fosche quanto più ade-
renti, nei fatti, all’uomo Nerone che Lucano conosce da vicino; e l’eredità della guerra
civile è vitale e sinistra dal momento che, come Cesare, anche Nerone vuole il mondo
in schiavitù e si compiace per la strage e per il sangue. Su questo sfondo, per definizio-
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[18] G. Garbarino – Paravia
PERCORSO TEMATICO Intellettuale e potere

ne antieroico e in netta opposizione all’epica tradizionale, il principe diviene il dio di


un’umanità in balia della fortuna e del caos, completamente abbandonata dagli dèi
messi in fuga dal disprezzo delle leggi umane e divine. La pretesa dell’imperatore di es-
sere salutato come un dio è rispettata, ma in una forma tanto irriverente che parrebbe
nascondere il delitto di lesa maestà.

7. Dio punisce il tiranno


Seneca, Lucano e Tacito ritraendo i loro tiranni testimoniavano la resistenza morale del- Il ritratto
del tiranno
l’intellettuale a un potere dispotico e indegno. Ma durante tutta l’età imperiale il ritratto come tópos
del tiranno divenne anche un tópos scolastico, desunto soprattutto dal teatro greco e pro- scolastico
posto come oggetto di esercitazione nelle scuole di retorica. Se l’intenzione pedagogica
era quella di mostrare un modello paradigmatico di vizi pubblici e privati, i testi decla-
matori che ne risultarono offrono immagini stereotipate del tiranno, che costituirono
certamente un repertorio retorico di largo uso. Il tiranno è un uomo temerario, guidato
da sfrenate passioni, deciso a calpestare le leggi, a violare la libertà e la sicurezza dei cit-
tadini, a non curarsi del consenso. Non esita a uccidere e a torturare, a spogliare templi e
a depredare patrimoni, a violare matrone e rapire fanciulle e giovinetti. La crudeltà, la
cupidigia e la lussuria lo condannano a vivere nel sospetto, odioso e odiato. Il suo regime
finisce talvolta grazie al coraggio di un tirannicida, che agendo nell’interesse di tutti re-
stituisce la libertà e la sicurezza alla collettività e ottiene perciò lodi e fama; talvolta, in-
vece, per vendetta divina, dal momento che il tiranno nella sua empietà viola insieme
con le leggi umane anche quelle divine.
Questa tipizzazione scolastica è evidente nel De vita Caesarum di Svetonio: nel caso di Il carattere
mostruoso
Tiberio, Caligola, Nerone e Domiziano, principi dal carattere mostruoso, il potere asso- degli imperatori
luto enfatizza in misura tragica i loro vizi innati, la lussuria, la propensione a sperpera- di Svetonio
e di Lattanzio
re, l’avidità, la superbia e la crudeltà. Il medesimo tópos ricorre in forma altrettanto ri-
petitiva in un’altra raccolta di biografie, il De mortibus persecutorum (“Le morti dei
persecutori”) di Lattanzio, scritta dopo l’editto di Costantino del 313, quando fu rico-
nosciuta ai cristiani la libertà di professare pubblicamente la loro religione. L’autore cri-
stiano ricostruisce la storia delle persecuzioni a partire da Nerone fino a Diocleziano e
Galerio, suoi contemporanei. I responsabili delle persecuzioni sono tutti tiranni san-
guinari e crudeli, seduttori di donne e sodomiti, come propone appunto lo stereotipo
scolastico.
Ma il dato specifico di quest’opera è l’importanza data alla morte dei persecutori: essa è La morte
dei persecutori
segno della punizione divina ed è inflitta secondo la legge del contrappasso per provoca- è segno
re al malvagio sofferenze corrispondenti ai suoi peggiori peccati. Il superbo e spietato del castigo
divino
Nerone, che aveva condannato a morte Pietro e Paolo, venne precipitato dal trono, reso
inerme e fatto sparire d’un tratto «affinché sulla Terra non si conoscesse neppure il luo-
go della sepoltura di una belva tanto esecranda» (De mortibus persecutorum, 2). Decio
morì sul campo di battaglia e il suo corpo fu lasciato insepolto, pasto per le belve. A Va-
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G. Garbarino – Paravia [19]
PERCORSO TEMATICO Intellettuale e potere

leriano toccò una vergognosissima schiavitù come prigioniero dei Persiani: il re si servi-
va di lui come sgabello ogni volta che saliva sul carro.
Diocleziano Le morti peggiori, causate da malattie orrende, sono riservate ai persecutori più crudeli
e Galerio
e nefandi, Diocleziano e il suo successore Galerio. Diocleziano, che nel 303 ordinò l’ulti-
ma terribile persecuzione, sovvertì il mondo con l’avidità e la crudeltà. La riorganizza-
zione amministrativa e militare del vasto impero è descritta come fonte di infinite soffe-
renze per le popolazioni, annientate da un carico insopportabile di tasse, donativi e leve.
Diocleziano si circondò di uomini dissoluti, come il fratello Massimiano Erculeo che
ostentava la sua sodomia e pretendeva, in nome dell’imperatore, di avere a disposizione,
ovunque capitasse, le figlie dei nobili strappate con la violenza alle loro famiglie. Ma la
sua colpa peggiore fu di accogliere in casa quale genero Galerio, «peggiore di tutti gli uo-
mini malvagi di ogni tempo» (De mortibus persecutorum, 9) e di abdicare in suo favore.
Costui prima indusse Diocleziano a perseguitare i cristiani con un’efferatezza mai vista,
pronto com’era a torturare e bruciare tutti coloro che si rifiutassero di sacrificare agli dèi
pagani (capitoli 9-11); poi, divenuto imperatore, unì alla crudeltà una vergognosa im-
moralità. Egli, ad esempio, si divertiva a designare personalmente i cristiani da dare in
pasto agli orsi per godersi lo spettacolo prima di sedere a tavola.
La vendetta di Dio fu implacabile e si realizzò con un’agonia protrattasi in entrambi i ca-
si per un anno intero: Diocleziano impazzì e vide, nei rari momenti di lucidità che la ma-
lattia gli concedeva, il declino del suo potere (capitolo 17); Galerio si ammalò di un’ulce-
ra ai genitali che si allargava sempre più e che nessuna cura, per quanto radicale, riusciva
ad arrestare: la cancrena in lento avanzamento corrose le viscere finché il corpo si de-
compose, divorato dai vermi tra dolori indicibili (capitolo 33).
La descrizione Lattanzio descrive la malattia di Galerio con un intento chiaramente allegorico: il disfa-
allegorica
della malattia
cimento della carne e le viscere che generano vermi fanno misurare attraverso la perce-
di Galerio zione sensibile la mostruosità morale del
tiranno, che si nasconde nella sua anima.
«Il fetore pervade non solo il palazzo, ma
tutta quanta la città» e quando, nell’estre-
mo tentativo di attenuargli la sofferenza, i
medici applicano alla ferita marcescente
carni di animali cotte e calde per attirare i
vermi con il calore, la scena che si presenta
ai loro occhi è davvero orrenda: rimosse le
fasciature, si vide che «la peste feconda
aveva generato un’abbondanza di vermi
ancora maggiore» (capitolo 33). Solo nel
momento in cui il corpo ha perduto del
tutto la sua forma, finalmente Galerio si ri-
volge a Dio, riconoscendo nella malattia la

Paolo condotto al martirio, IV sec., rilievo,


Roma, Grotte Vaticane.

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[20] G. Garbarino – Paravia
PERCORSO TEMATICO Intellettuale e potere

punizione divina e decidendosi, ormai in punto di morte, a dettare un editto di tolleran-


za in favore dei cristiani e a far aprire le prigioni.
L’immagine raccapricciante delle viscere in putrefazione che generano vermi e l’ossimo- Dio vendicatore
degli uomini
ro pernicies fecunda, impiegato per descrivere la malattia di Galerio, svelano pienamente e della legge
il significato allegorico della vita e della morte di tutti gli imperatori empi: dall’empietà divina
non può che derivare una mostruosità intollerabile e devastante, che alla fine suscita la
giusta ira di Dio, vendicatore degli uomini e della legge divina così oltraggiati. Per il cri-
stiano, il cielo sopra il tiranno non è mai vuoto e proprio la sua morte prova che Dio è il
solo re davvero impareggiabile in giustizia e potenza, contemporaneamente padre mise-
ricordioso e spietato giudice. Lattanzio, e come lui gli altri scrittori cristiani da Orì gene
ad Agostino, non elaborano un nuovo modello di Stato, bensì cristianizzano quello pa-
gano: l’imperatore è ancora potente ed eccelso, superiore a tutti gli uomini, ma rimane
subordinato a Dio, del quale deve rispettare la legge. L’impero terreno è l’immagine di
quello celeste e l’imperatore diviene il vicario di Dio cui si deve obbedienza, onore e ri-
spetto (anche se non l’adorazione), a condizione che la sua legge non sia in contrasto con
quella di Dio. Quando l’imperatore cerca di ispirare le norme della città terrena a quelle
della città celeste, allora è buon pastore e padre del suo popolo e possiede le quattro virtù
cardinali della temperanza, saggezza, giustizia e fortezza (che sono poi le virtù stoiche);
altrimenti è un peccatore tanto più empio quanto più sono elevate la sua posizione e la
sua responsabilità.

8. La sopravvivenza del modello pagano


del buon principe
Lattanzio e gli scrittori cristiani che dal II secolo in poi si impegnarono a far dialogare il Uno storico
pagano,
messaggio degli Apostoli con la cultura pagana non esauriscono la complessità culturale Ammiano
dell’impero romano nella sua fase più tarda. Nel IV secolo, quando Costantino e i suoi Marcellino
successori, garantita ai cristiani la piena libertà di culto e anzi una posizione sempre più
privilegiata nello Stato, ottengono in cambio la loro piena collaborazione nell’esercizio
del potere, esiste ancora una storiografia pagana che formula giudizi diversi sia sull’im-
pero sia sulle persecuzioni anticristiane. È il caso di Ammiano Marcellino, lo storico più
significativo della tarda latinità, che si propone di continuare la storia del principato ri-
prendendola dal punto in cui Tacito l’aveva interrotta. L’autore, che non appartiene alla
classe senatoria e non si sente implicato direttamente nella politica imperiale, pur aven-
do ricoperto posizioni di rilievo come ufficiale dell’esercito, raccoglie l’eredità tacitiana
della critica morale verso la corruzione della società, condividendo con il predecessore
un sostanziale pessimismo antropologico. Libero dunque da ogni sospetto di adulazione,
egli si propone di riferire fatti veri con assoluta imparzialità, non escludendo tuttavia il
suo giudizio sugli avvenimenti e sui loro protagonisti. A partire da queste premesse egli
traccia un memorabile ritratto di Giuliano, detto dai cristiani l’Apostata, unico tra i suc-
cessori di Costantino ad aver tentato di rivitalizzare l’antica religione; nella raffigurazio-
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G. Garbarino – Paravia [21]
PERCORSO TEMATICO Intellettuale e potere

ne di questo imperatore risulta evidentissimo il bisogno da parte della classe politica e in-
tellettuale di modelli positivi in cui riconoscere i valori della tradizione e a cui affidare la
difesa di un’identità culturale minacciata.
Un memorabile Il ritratto dell’imperatore dimostra la grandissima ammirazione dello storico-soldato
ritratto
dell’imperatore (così si definisce Ammiano), riproponendo nella forma dell’elogio funebre i tópoi propri
Giuliano del panegirico, che esaltavano le virtù necessarie per un buon governo; Giuliano fu:
Uomo certamente degno di essere annoverato fra i geni eroici, ammirabile per le illustri im-
prese e per l’innata maestà. Poiché, a giudizio dei sapienti, quattro sono le virtù principali, la
temperanza, la saggezza, la giustizia e la fortezza, alle quali si aggiungono altre doti esteriori
quali la scienza militare, la buona fortuna e la liberalità, Giuliano con vivissimo zelo le coltivò
sia tutte assieme che singolarmente.
(Historiae, XXV, 4, 1; trad. A. Selem)

Le virtù morali Ciascuna delle virtù di Giuliano, chiaramente derivate dalla teorizzazione della monar-
chia ideale di ascendenza stoica, è illustrata in rapporto a precisi comportamenti e con-
corre a descrivere un uomo tanto rigoroso con se stesso da poter pretendere dagli altri la
medesima rettitudine. Manifestavano la sua temperanza la castità e «la frugalità del suo
tenor di vita e della sua mensa» (Historiae, XXV, 4, 4; trad. A. Selem), più conformi allo
stile di vita del filosofo che a quello dell’imperatore. La saggezza, conseguente a una
profondissima esperienza delle arti della guerra e della pace e mai disgiunta dalla corte-
sia, lo faceva esigere per sé «tanta deferenza quanta riteneva che lo preservasse dal di-
sprezzo e dall’insolenza» (XXV, 4, 7). Giudice inflessibile, «si mostrava censore rigidissi-
mo nel regolare i costumi, sereno spregiatore delle ricchezze e di tutte le cose mortali»;
nell’amministrazione della giustizia «sebbene non fosse crudele, ispirava terrore» (XXV,
4, 8) e tuttavia sapeva mitigare le pene con la sua innata clemenza. Il comportamento te-
nuto in guerra, in cui non si risparmiava e non si sottraeva alla battaglia, ma rimaneva
accanto ai soldati soprattutto nei momenti di maggior pericolo, testimoniava infine la
sua fortezza (XXV, 4, 10). Queste qualità, perseguite con sorprendente coerenza, fecero sì
che Giuliano fosse «profondamente amato e nello stesso tempo temuto» (XXV, 4, 12).
Certo non mancavano al suo carattere dei difetti: spesso parlava
troppo, esagerava nell’interpretare i presagi, era più superstizioso
che religioso, eccedeva nei sacrifici, gli piacevano gli applausi e de-
siderava di essere lodato, ma ne era consapevole e permetteva agli
altri di correggerlo (XXV, 4, 17-18).
Le qualità Alla fine, per completare il ritratto di un imperatore perfetto
fisiche
ma in carne e ossa, non poteva mancare la descrizione del suo
aspetto esteriore, che aggiungeva all’altezza morale la bellezza
del volto e di un corpo atletico:
Era di media statura, aveva le chiome morbide come se fos-
sero pettinate e portava un’ispida barba che finiva in

Ritratto di Giuliano l’Apostata, IV sec., rilievo in calcedonio,


Parigi, Cabinet des Medailles.

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[22] G. Garbarino – Paravia
PERCORSO TEMATICO Intellettuale e potere

punta. Gli occhi splendevano di fulgida bellezza ed indicavano l’acume della sua mente. Aveva
belle sopracciglia, naso molto dritto, la bocca un po’ troppo grande con il labbro inferiore ca-
dente. Il collo era largo ed alquanto curvo, le spalle ampie e forti. Dal capo alla punta dei piedi
era ben formato, per cui era robusto ed un ottimo corridore.
(Historiae, XXV, 4, 22; trad. A. Selem)

Non è di una bellezza statuaria, fredda nella sua perfezione; eppure il rilievo dato ai trat-
ti imperfetti, come la bocca troppo grande e il collo largo e curvo, nulla toglie al fascino
della sua figura: per Ammiano Marcellino l’imperatore Giuliano è chiaramente un eroe,
splendente nella sua straordinaria umanità.
In questo elogio funebre non viene mai impiegato l’aggettivo “divino”, pur ricorrendo Un elogio
funebre senza
tutti gli elementi che avevano reso tale Traiano per Plinio. Evidentemente lo storico panegirico
vuole innanzitutto convincere della verità del suo racconto e per dare ragione della sua
devozione all’imperatore defunto si attiene a un maggiore realismo linguistico, op-
portunamente ornato secondo gli schemi retorici dell’encomio, ma per nulla in sospet-
to di adulazione; e senza mascheramenti afferma con assoluta chiarezza l’ammirazione
personale per Giuliano. In un momento in cui i modelli culturali pagani sono assorbiti
all’interno della concezione cristiana e riformulati nel linguaggio della nuova dottrina,
l’intellettuale conservatore aggiunge agli strumenti che la retorica gli offre la sincerità
del suo giudizio come argomento persuasivo. Se, come Tacito, Ammiano non s’illude
sulla qualità dei suoi tempi, resi bui dal potere dispotico, dallo strapotere degli eserciti,
dalla corruzione dell’aristocrazia, sente probabilmente con un’urgenza nuova il valore
degli esempi positivi in cui cercare la forza per resistere e orientarsi in un mondo in ra-
dicale trasformazione.

9. Il poeta Virgilio e l’imperatore Adriano


nel Novecento
La riflessione sul potere non si esaurisce certo con la tarda antichità, ma accompagna la
storia culturale europea fino ai giorni nostri e spesso, come dimostra ad esempio il tea-
tro tragico, attinge dal mondo antico temi e forme.
Nel Novecento, quando l’Europa conobbe gli orrori dei totalitarismi, non mancarono le
rivisitazioni di personaggi romani che con il potere assoluto furono personalmente im-
plicati. Vanno segnalati almeno due romanzi in cui gli autori, affidandosi alla voce degli
antichi, riflettono sul loro personale rapporto con la politica e sul ruolo che la cultura in
genere e la letteratura in particolare devono svolgere rispetto al potere. Si tratta di La
morte di Virgilio dell’austriaco Hermann Broch, pubblicato nel 1945, e delle Memorie di
Adriano della belga Marguerite Yourcenar, pubblicato nel 1951. Entrambi gli autori emi-
grarono negli Stati Uniti, il primo per scampare alla persecuzione nazista, la seconda per
sfuggire all’orrore della guerra. L’uno e l’altra scrissero a partire dall’efferatezza della ti-
rannide moderna e dalla tragica devastazione della seconda guerra mondiale; ma, tra-
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G. Garbarino – Paravia [23]
PERCORSO TEMATICO Intellettuale e potere

sponendo la loro esperienza nel lontano passato romano, attribuirono al tema della li-
bertà dell’intellettuale e della libera speculazione il valore di principio inviolabile nella ci-
viltà occidentale.

9.1 La mor te di Vir g ilio di Her mann Broch

Il Virgilio Broch cominciò a pensare al suo romanzo nel 1938, quando, scrittore già famoso, fu in-
morente
di Broch è carcerato dai nazisti che avevano appena occupato l’Austria. In un momento così dram-
un intellettuale matico per le sorti della libertà, l’autore immagina un Virgilio non appagato dalla gloria
disperato
raggiunta, ma disperato per i compromessi cui si è abbassato con la composizione del-
l’Eneide. La morte di Virgilio racconta infatti la crisi di coscienza del poeta augusteo che,
in punto di morte, si interroga sul rapporto tra poesia e politica e si accusa di aver tradi-
to le ragioni dell’arte: componendo un poema epico destinato alla glorificazione dello
Stato e del principe, egli ha sporcato la poesia, destinata a un puro canto mistico, e l’ha
compromessa con gli interessi propri della contingenza storica. Chiede perciò agli amici
di bruciare il manoscritto. Solo dopo una faticosissima discussione con Augusto in per-
sona Virgilio cambia idea e affida il manoscritto al principe in cambio di una contropar-
tita, la liberazione di un gruppo di schiavi.
Il principio Nel dialogo serrato tra il poeta e il principe vengono evidenziate le principali questioni
di utilità
e quello poste dalla difficile coesistenza delle ragioni del potere politico e di quelle della libera
di verità speculazione, dal rapporto cioè tra il principio dell’utilità e quello della verità. Per Virgi-
lio è solo l’azione politica che «va misurata secondo il criterio della validità politica»,
mentre la poesia deve rispondere al criterio «della perfezione artistica» (La morte di Vir-
gilio; trad. A. Cecchi, Feltrinelli, Milano 1982, p. 360) e perseguire l’unico fine della co-
noscenza. Per Augusto invece «anche l’opera d’arte deve servire all’utile della collettività
e perciò allo stato» (La morte di Virgilio, cit., p. 361).
Tra il principe A partire da questa opposta concezione i due interlocutori non si intendono affatto, pur
e il poeta non è
possibile intesa parlando entrambi di doveri e di bene pubblico. Augusto crede infatti che gli individui
«facendo parte del popolo, sono proprietà dello stato onnipotente, gli appartengono con
tutto ciò che sono e posseggono» (La morte di Virgilio, cit., p. 420). E se la somma realtà
è lo Stato, l’arte ha il compito di esaltarlo come garante della pace e del benessere per tut-
ti i cittadini. Virgilio, al contrario, chiede che «all’arte non s’impongano doveri di alcuna
specie, né il dovere di servire lo stato, né altri doveri, perché ciò sarebbe la negazione del-
l’arte» (La morte di Virgilio, cit., p. 383). Egli considera illusoria la grandezza dello Stato
romano di fronte al «regno dello spirito», sorretto dalla dignità e dalla libertà dei singoli
uomini, dotati di un’anima a immagine di quella divina (La morte di Virgilio, cit., p. 419).
Lo scontro Attraverso i personaggi, Broch evoca dunque un conflitto di valori proprio del suo tem-
resta irrisolto
po: in Virgilio si riflette l’idea di uomo propria dell’umanesimo cristiano, incentrata sul-
la libertà dell’intelletto e sull’assoluto valore della persona, mentre Augusto si fa porta-
voce della superiorità dello Stato sui singoli individui, così come è stata teorizzata dai
totalitarismi novecenteschi. Lo scontro è apparentemente senza via d’uscita, se si rimane
sul piano dialettico e non si cede alla prova di forza. Alla fine però Virgilio, sopraffatto
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[24] G. Garbarino – Paravia
PERCORSO TEMATICO Intellettuale e potere

dalla morte che avanza, concede ad Augusto il manoscritto e ottiene la promessa del ri-
scatto per i suoi schiavi, attenuando il sentimento della sconfitta con la consolazione che
la sua resa ha, nell’immediato, conseguenze umanitarie. Il romanzo non dà soluzioni; si
limita a proporre il tema dell’esperienza speculativa e del suo valore all’interno di un
contesto più ampio di riflessione sulla crisi sociale e morale della modernità.

9.2 Le Me mor ie di Adr iano di Marguer ite Yourcenar

Nel romanzo di Marguerite Yourcenar è di scena un imperatore filosofo, grande viaggiatore Un imperatore
filosofo
per tutte le province, amante della cultura greca giudicata di insuperabile attualità. Adriano fu e poeta
scrittore in latino e in greco, poeta dell’amore e della morte, irresistibilmente attratto dalla
bellezza e dall’arte. Suoi i famosi versi d’addio all’anima che sta per lasciare il corpo: Animu-
la vagula, blandula, / hospes comesque corporis, / quae nunc abibis in loca / pallidula, rigida, nu-
dula, / nec ut soles dabis iocos (“O mia piccola anima volubile, carezzevole, / ospite e compa-
gna del corpo, / che ora te ne andrai in luoghi / piuttosto squallidi, freddi, piuttosto spogli, /
senza far più gli scherzi usati”).
Proprio questi versi sono posti in epigrafe alle Memorie di Adriano, per avvertire il lettore che La biografia di
un imperatore
non si tratta della biografia paludata di un imperatore romano. Come dichiara il titolo, è l’uo- scopre l’uomo
mo a scoprirsi nella sua intimità più segreta in dialogo con se stesso. Ormai vecchio e malato,
Adriano sente avvicinarsi la fine e, come per sottrarsi alla morte o per «entrarvi ad occhi aper-
ti» (Memorie di Adriano; trad. L. Storoni Mazzolani, Einaudi, Torino 1963, p. 276), si rivolge
al nipote Marco Aurelio e ripercorre la giovinezza, i viaggi, le campagne militari, l’ambizione
di divenire principe, il matrimonio di convenienza con la figlia di Traiano. Non tace l’impe-
gno per rafforzare l’impero, pur sentendolo al tramonto, ma ritiene di dover scandagliare in
profondità soprattutto gli aspetti della sua vita di
natura esistenziale e affettiva: l’amicizia intellettuale
con Plotina, moglie di Traiano, con la quale ap-
profondì l’indagine sull’esperienza umana, analizza-
ta anche negli aspetti più inquietanti; l’amore per il
giovane Antìnoo, morto suicida e che gli sconvolse
l’anima; la difficoltà di accettare la morte che si ac-
compagna alla malinconia del distacco, anche quan-
do interviene il soccorso della filosofia:
La verità che mi propongo d’esporre qui non è
particolarmente scandalosa, o meglio non lo è
nella misura in cui non c’è verità che non susciti
scandalo. Non m’aspetto che i tuoi diciassette an-
ni ne capiscano qualcosa; ci tengo, tuttavia, a
istruirti, fors’anche a urtarti. I precettori che t’ho
scelto io stesso ti hanno impartito una educazio-

Copertina delle Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar.

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G. Garbarino – Paravia [25]
PERCORSO TEMATICO Intellettuale e potere

ne severa, sorvegliata, forse troppo protetta, dalla quale tutto sommato m’aspetto un gran be-
ne per te e per lo Stato. Qui, ti offro, a guisa di correttivo, un racconto scevro di preconcetti e di
astrazioni, tratto dall’esperienza di un uomo, me stesso. Ignoro a quali conclusioni mi trasci-
nerà questo racconto. Conto su questo esame dei fatti per definirmi, fors’anche per giudicarmi
o, almeno, per conoscermi meglio prima di morire.
(Memorie di Adriano, cit., p. 21)

Una vita L’Adriano della Yourcenar, alla fine della vita, lascia dunque prevalere l’anima del filo-
tortuosa come
quella di tutti sofo-umanista inquieto su quella dell’imperatore in uniforme e corregge per il nipote
gli uomini il ritratto di sé che aveva tracciato nelle relazioni ufficiali, dove «ragioni di interesse
pubblico e di decoro mi hanno costretto a ritoccare alcuni avvenimenti» (Memorie di
Adriano, cit., p. 21). La sua vita è stata tortuosa come quella di tutti gli uomini e per
nulla orientata «al suo scopo come una freccia» (Memorie di Adriano, cit., p. 24), a
guisa di quella degli eroi; anzi ricercare l’autenticità e il significato del proprio esiste-
re aveva spesso comportato un senso fastidioso di inadeguatezza rispetto alle regole
della convenienza e generato diffidenze imbarazzanti persino in Traiano. Del rappor-
to con questo imperatore-soldato, per nulla borioso e a cui riconosce un altissimo
senso di responsabilità verso lo Stato e una sincera benevolenza nei suoi confronti,
Adriano dice:
Gli ispiravo scarsissima fiducia. [...] Uomo di scarsa cultura, nutriva un rispetto commovente
verso i filosofi e i letterati, ma altro è ammirarli alla lontana, altro avere al proprio fianco un
giovane luogotenente invasato di letteratura. Ignorando ove si trovassero i miei principi, i miei
freni, riteneva che ne fossi sprovvisto, e alla mercé degli istinti. Però non avevo commesso mai
l’errore di trascurare il servizio: la mia reputazione di ufficiale lo rassicurava, ma, per lui, non
ero che un giovane tribuno promettente, da sorvegliare da vicino.
(Memorie di Adriano, cit., p. 50)

Il sogno L’uomo Adriano ha dunque nettissima coscienza della frattura fra le tortuosità esisten-
di smarrimento
ziali e morali di una vita vissuta e la reputazione ufficiale connessa a un ruolo; tra il de-
siderio di inseguire sempre nuovi orizzonti, per evadere in un altrove liberi dai vincoli
sociali e morali che costringono a percorsi obbligati, e la spinta altrettanto forte verso il
radicamento in una rete di relazioni e nella sicurezza delle consuetudini o dei privilegi. E
così, ricordando la sua giovinezza al seguito dell’imperatore alla volta del Caucaso, rin-
nova la trepidante emozione del suo sogno non di conquista, bensì di smarrimento nel-
le steppe dell’Asia:
Esser solo, senza beni, senza prestigio, senza alcuno dei benefici d’una qualsiasi cultura, tra uo-
mini nuovi, nel cuore di mondi vergini... Va da sé che era solo un sogno, il più breve di tutti.
Quella libertà che inventavo non esisteva che nella mia fantasia: presto mi sarei creato di nuo-
vo tutto quello a cui avrei rinunciato [...]. Ciò nonostante, quel sogno mostruoso, che avrebbe
fatto fremere i nostri avi, saggiamente confinati nella loro terra del Lazio, io l’ho fatto, e l’aver-
lo avuto solo un istante mi rende diverso da essi per sempre.
(Memorie di Adriano, cit., pp. 47-48)

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Un sogno proibito e mostruoso cui tuttavia la Yourcenar attribuisce il merito di rendere Il disadatta-
mento morale
positivamente diverso chi lo compie. Infatti Adriano, anche se si adattò alla corte di di Adriano
Traiano quando fu «costretto, più o meno, a viverci» (Memorie di Adriano, cit., p. 58),
non aderì completamente a quell’ambiente in cui tutto gli spiaceva «salvo il bel viso di
Plotina» (Memorie di Adriano, cit., p. 58) e dove provò ripugnanza per la «volgarità di-
sgustosa» (Memorie di Adriano, cit., p. 59) dei veri intimi dell’imperatore. Dovette mo-
strare «la cortesia indispensabile verso tutte quelle persone tanto diverse: deferente verso
gli uni, compiacente verso gli altri, triviale quando occorreva, abile, ma non troppo»
(Memorie di Adriano, cit., p. 59), ma non scambiò mai la convenienza con la lealtà since-
ra. E, da imperatore, seppe guardare con disincanto il potere, fino a privarlo di ogni idea-
lizzazione, almeno nell’intimo della sua coscienza: «Noi siamo funzionari dello Stato,
non siamo Cesari» (Memorie di Adriano, cit., p. 116). Viaggiando nelle province misurò
che la potenza non regala il dominio del mondo:
non ho mai avuto la sensazione di appartenere completamente a nessun luogo, neppure alla
mia dilettissima Atene, neppure a Roma. Straniero dappertutto, non mi sentivo particolar-
mente isolato in nessun luogo.
(Memorie di Adriano, cit., p. 118)

La tragica fine di Antìnoo lo sconvolse con un tormentoso e depressivo senso di colpa:


Antinoo era morto... Lungi dall’amarlo troppo [...] non avevo amato abbastanza quel fan-
ciullo da obbligarlo a vivere. Cabria, che, nella sua qualità di iniziato orfico, considerava il
suicidio un delitto, insisteva sull’aspetto sacrificale di quella fine; provavo io stesso una spe-
cie di gioia orrenda a ripetermi che quella morte era un dono. Ma ero solo a misurare quan-
to fiele fermenti nel fondo della dolcezza, quanta disperazione si celi nell’abnegazione,
quanto odio si mescoli all’amore. […] Se con quel suo sacrificio aveva sperato di proteg-
germi, aveva dovuto credersi amato ben poco per non sentire che perderlo sarebbe stato
per me il peggiore dei mali.
(Memorie di Adriano, cit., p. 191)

La figura dell’imperatore Adriano evocata dalla Yourcenar non è dunque disgiunta da Perché il ritratto
ufficiale
quella del letterato, del viaggiatore, del poeta, dell’amante, ma prende forma da tutte que- e segreto
ste per rivelarsi, come dice la stessa autrice, «la più ufficiale, che era, al tempo stesso, la di un principe

più segreta» (Taccuino di appunti, in op. cit., p. 286). Se si considera che l’opera fu scrit-
ta a partire dal 1948, dopo l’epilogo tragico delle tirannidi moderne, macchine di morte
tecnologicamente efficienti, questo romanzo si colora di un’istanza etica piuttosto forte:
che un imperatore romano proponga una riflessione sul potere come parte della sua vi-
ta di uomo, al di là dell’autenticità storica del personaggio, è un richiamo alla responsa-
bilità per i potenti di oggi. Per governare bene bisogna conoscere l’esperienza umana nel-
la sua complessità e varietà e, perché ciò sia possibile, va garantita la libertà degli uomini
in generale e degli intellettuali in particolare. L’autrice spiega in forma lapidaria che la
scelta di scrivere di un imperatore romano era il frutto diretto del suo incontro con la
storia del Novecento: «L’esser vissuta in un mondo in disfacimento mi aveva fatto capire
l’importanza del Princeps» (Taccuino di appunti, in op. cit., p. 286).
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Analisi e scrittura
Saggio breve
Argomento
L’atteggiamento dell’intellettuale nei confronti del principe

Documenti

1. Augusto

Personalmente amministrò la giustizia con assiduità e talvolta sino a che si faceva notte, quando non si
sentiva bene di salute, faceva disporre la sua lettiga davanti al tribunale o, anche, rendeva giustizia stando
in casa a letto. E la giustizia amministrò non solo con estrema diligenza ma anche con indulgenza grande.
[...] Riformò le leggi, e alcune le rifece del tutto, come quella contro il lusso, sugli adultèri e sulla sodomia,
sui brogli, sui matrimoni fra le diverse classi sociali. [...] Il nome di “Signore” lo aborrì sempre, come un’in-
giuria e un obbrobrio. Una volta che durante uno spettacolo di teatro, a cui egli assisteva, in un mimo si
pronunciò il verso: o padrone giusto e buono! E tutto il pubblico, unanimemente balzando in piedi, ap-
plaudì come se fosse stato per lui, subito represse con l’espressione del volto e con il gesto quell’adulazio-
ne poco decorosa, e il giorno appresso la biasimò con un editto molto severo; e dopo questo fatto non
permise, neppure ai figli e ai nipoti suoi, né sul serio né per ischerzo, che lo chiamassero “Signore”, e vietò
complimenti di tal genere anche fra essi stessi. [...]
Certo che si macchiasse di adulteri non lo negano nemmeno i suoi amici, ma lo scusano dicendo che li
commetteva non per libidine, ma con lo scopo preciso di riuscire più facilmente a conoscere i disegni de-
gli avversari, attraverso le rispettive mogli. Marco Antonio gli rinfaccia, oltreché di aver sposato Livia in
fretta e furia, di aver condotto via, dalla sala da pranzo del marito e in sua presenza, alla camera da letto la
moglie di un ex console [...]; di aver ripudiato Scribonia perché si era lamentata (non aveva peli sulla lin-
gua) dell’eccessiva potenza di un’amante di lui; di procurarsi donne per i suoi piaceri per mezzo di amici
che facevano spogliare madri di famiglia e vergini di età adulta e le esaminavano, come se fosse il mercan-
te di schiavi Toriano a metterle in vendita.
(Svetonio, De vita Caesarum, Augustus, 33-34; 53; trad. I. Lana)

2. Tiberio

Insisté a lungo nel rifiutare il principato, benché non avesse minimamente esitato né ad impadronirsene
né a farne uso, anche con il circondarsi di una guardia del corpo, cioè con la forza effettiva e con l’appa-
renza del potere: con una ridicola commedia che più sfacciata non poteva essere, ora rimproverava gli
amici che lo esortavano, perché non sapevano qual bestia feroce fosse l’impero; ora teneva in sospeso il
senato, che lo pregava e gli si prosternava a’ ginocchi, con risposte equivoche e con astute esitazioni. [...]
Pian piano si rivelò principe e, benché per molto tempo si mostrasse di umore variabile, tuttavia appar-
ve in molti casi piuttosto ben disposto e pronto a fare il bene dello Stato. E in un primo momento si li-
mitava a intervenire per evitare abusi. E così annullò alcune decisioni del senato; molto frequentemente
si offriva per dar consigli ai magistrati, quando giudicavano dal loro tribunale, e si poneva a sedere ac-
canto o di fronte a loro, al posto d’onore. [...]
˘

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Nel suo ritiro a Capri escogitò anche camere con divani, per darsi in esse a segrete oscenità: lì fanciulle e
giovinetti corrotti, da ogni parte raccolti […] si prostituivano davanti a lui. [...] Ma si macchiò di colpe in-
fami, ancor più gravi e vergognose, tali che appena si possono riferire e sentir riferire, ma che non è nep-
pure possibile credere. [...] Poi con il passare del tempo si dedicò anche a rapine. Si sa con certezza che
Gneo Lentulo Augure, che possedeva un ingentissimo patrimonio, fu da lui spinto, a forza di paure e di an-
gosce, alla disperazione e alla morte e a non lasciar altro erede, morendo, fuor di lui stesso. [...] Oltre gli
amici di antica data e i suoi familiari, aveva chiesto per sé venti fra i più ragguardevoli cittadini di Roma
perché lo assistessero con il loro consiglio negli affari di Stato: di tutti questi lasciò in vita, sani e salvi, non
più di due o tre: tutti gli altri li colpì, quale per un motivo, quale per un altro, e fra di essi Elio Seiano, la cui
fine portò seco la strage di molti. Molti indizi stanno a provare come frattanto egli vivesse, non solo odia-
to e detestato da tutti, ma anche preda del terrore più vivo e oggetto pure di contumelie.
(Svetonio, De vita Caesarum, Tiberius, 24; 33; 43-44; 49; 55; 63; trad. I. Lana)

Consegna
Sviluppa l’argomento in forma di saggio breve, utilizzando i documenti che lo corredano e facendo riferi-
mento al percorso che hai letto. Da’ un titolo alla tua trattazione e indicane la destinazione editoriale. Non
superare le quattro o cinque colonne di metà di foglio protocollo.

Guida allo svolgimento


1. Riassumi in due paragrafi, di una quindicina di righe, i concetti principali che ricavi dal percorso in meri-
to all’atteggiamento dell’intellettuale di fronte al buon principe e al tiranno.
2. Leggi i passi tratti dal De vita Caesarum di Svetonio e scrivi un terzo paragrafo, della stessa lunghezza dei
precedenti, in cui metti in evidenza la tipologia di principe cui l’autore fa riferimento nelle sue descrizioni.
3. Per concludere, confronta la posizione di Svetonio sul principato con quella di Tacito ed evidenzia punti di
contatto e divergenze.

BIBLIOGRAFIA

Per un approfondimento delle trasfor- Aspetti del pensiero storico latino, Ei- Per l’analisi dei singoli autori sono utili
mazioni del principato e della società naudi, Torino 1978 • D. LANZA, Il tiran- riferimenti: G. REALE, La filosofia di Se-
imperiale si rimanda all’opera di sintesi no e il suo pubblico, Einaudi, Torino neca, saggio introduttivo a Seneca, Tut-
Storia di Roma, a cura di A. GIARDINA - 1977 • P. GRIMAL, Seneca, Garzanti, Mi- te le opere, Bompiani, Milano 2000 • A.
A. SCHIAVONE, Einaudi, Torino 1999, lano 1992 • R. TABACCO, Il tiranno nelle MICHEL, Tacito e il destino dell’impero,
pp. 339-540 • Studi sui rapporti tra in- declamazioni di scuola, in I. LANA (a cu- Einaudi, Torino 1974 • G. B. CONTE, Il
tellettuali e potere a Roma si trovano ra di), I principi del buon governo secon- proemio della Pharsalia, in “Maia”, n.s.,
in I. LANA, Sapere lavoro e potere in Ro- do Cicerone e Seneca, cit. • A. GIARDINA - 1966, n. 18 • A. MOMIGLIANO, Ammiano
ma antica, Jovene, Napoli 1990. M. SILVESTRINI, Il principe e il testo, in Marcellino e la Historia Augusta, in
Per lo studio delle rappresentazioni del AA.VV., Lo spazio letterario di Roma Quinto contributo alla storia degli studi
potere si segnalano i seguenti testi: A. antica, Salerno, Roma 1993, vol. II, pp. classici e del mondo antico, Edizioni di
LA PENNA, Fra teatro, poesia e politica 579-613 • E. AUERBACH, Mimesis. Il rea- Storia e di Letteratura, Roma 1975.
romana, Einaudi, Torino 1979, in par- lismo nella letteratura occidentale, Ei-
ticolare le pp. 128-165 • A. LA PENNA, naudi, Torino 1981, vol. I, pp. 58-86.

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