Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
2
Indice
Introduzione
2. I modelli di divismo
3. Postmodernità e divismo
Conclusioni
Bibliografia
3
Introduzione
4
l’avvento della televisione come punto di svolta e si illustreranno le
differenze fra il divismo “classico” pre-televisivo e il “nuovo” divismo
post-televisivo. Si rifletterà inoltre sulle differenze intervenute nel caso
specifico della comunicazione politica e si potranno evidenziare i
cambiamenti intercorsi nel tempo confrontando alcuni interventi di
studiosi italiani rispetto alla situazione attuale. Infine, nel terzo capitolo
si prenderà in considerazione la prospettiva postmoderna, che
contribuisce al tentativo di spiegare le trasformazioni avvenute riguardo
alla quantità e alla qualità delle rappresentazioni divistiche. Partendo
dalla convinzione che il mito, in qualunque sua forma, influenzi di molto
le dinamiche di costruzione dell’identità, si rifletterà sulla condizione
dell’identità individuale, sulla sua frammentarietà e sul bisogno di diversi
contributi che concorrano a formare un insieme di elementi utili alla
costruzione e alla trasformazione incessante di sé. In ultimo, un appunto
sul rischio dell’invisibilità: cosa succede quando l’individuo
contemporaneo si trova non-conoscibile dagli altri a causa della sua
estrema complessità?
Una piccola nota che assolverà ad alcune mancanze evidenti: durante
la fase di documentazione e poi in quella di stesura vera e propria, mi
sono imbattuta in una miriade di contributi, notando che questo
argomento coinvolge numerose e differenti sfere di interesse. Dovendo
circoscrivere la mia area di riflessione ho purtroppo sorvolato su molti
aspetti che avrebbero meritato un approfondimento a parte, ma che
avrebbero reso le mie connessioni mentali tra un concetto e un altro
pressoché infinite. Laddove ho sentito particolarmente queste mancanze
si troveranno dei brevi riferimenti.
5
1. IL DIVISMO COME FENOMENO
SOCIALE
1 B. K. Malinowski, “Il mito e il padre nella psicologia primitiva”, Newton Compton, Roma, 1976
6
rivolta a creare senso, ma il senso della vita cambia continuamente con il
cambiare della storia e della società: ecco che questa continua creazione
viene incontro al nostro bisogno di valori simbolici, valori che si
modificano nel tempo e che necessitano di forme sempre diverse tramite
cui esprimersi. Anche oggi, sebbene in modo diverso, creiamo miti e
questo perché sentiamo l’esigenza di sviluppare un immaginario
collettivo che ci comunichi il senso più profondo del vivere specifico nella
nostra società, nel nostro mondo attuale.
I miti hanno sempre avuto, e continuano ad avere, un ruolo
preponderante nella costruzione dell’identità sociale di ogni individuo:
costituiscono modalità di espressione, in forma irrazionale, ma
coinvolgente dal punto di vista emotivo, di aspirazioni, credenze e valori
morali. Attraverso i miti le società del passato, e in qualche modo anche
quelle del presente, costituivano un immaginario collettivo in cui ogni
individuo poteva ritrovare la sua identità, comune agli altri membri dello
stesso gruppo di appartenenza. La funzione più evidente del mito è infatti
quella di contribuire alla creazione di una mentalità uguale per tutta una
collettività e se anche il mito è creazione della fantasia, costituisce
comunque un sistema di credenze, di modelli, di valori a cui tendere che,
pur mettendo in gioco conoscenze tutt’altro che scientifiche, dimostrabili
o razionali, riesce a fornire unità a tutto il reale, espressione di una data
cultura.
I miti rispondono al bisogno fondamentale dell’individuo di
identificarsi, di riconoscersi in qualcosa che lo precede: tale
riconoscimento soddisfa il bisogno di un appoggio sociale. Questa
coesione, prodotta attraverso l’imitazione, riafferma l'appartenenza al
gruppo, limitando il timore dell'isolamento: “l'istinto gregario è un
7
tratto originario e irriducibile ad altre tendenze, per cui gli uomini sono
spontaneamente attratti ad unirsi tra loro”2.
Thomas Carlyle, negli anni ’40, lamenta la scomparsa dell’eroe nella
civiltà moderna3. Secondo la sua tesi, l’avvento del capitalismo e della
democrazia porrebbero fine al fenomeno dell’eroismo individuale. A
questo proposito, prendendo spunto dalle idee di Carlyle, scrive Gundle:
2 S. Freud, “Psicologia delle masse e analisi dell’Io”, in “Opere di Sigmund Freud”, volume IX
(1917-1923), Boringhieri, Torino, 1977, p. 262
3 Il lavoro di Carlyle risale al 1843, tradotto in italiano nel 1992 “Gli eroi: il culto degli eroi e
8
Se il mito è di natura simbolica e sempre funzionale, anche i miti che
oggi sono diffusi dall’industria culturale devono rispondere a certe
necessità e aspettative collettive che persistono poiché sono fortemente
radicate nell’uomo, tanto più che i miti non possono essere imposti. Anche
quelli moderni per penetrare e radicarsi devono dare risposte alle
domande latenti nell’attuale società: solo così il mito diventa il risultato di
un tacito accordo tra l’industria culturale e il suo pubblico.5
9
I miti, i divi, quindi, sono frutto della cultura e della società in cui essi
penetrano, incarnando i desideri, le aspirazioni, i valori di tale società.
Nella società contemporanea i miti sono principalmente frutto
dell’industria culturale, la cui elevata visibilità permette un’osservazione e
una conoscenza dei divi in precedenza inimmaginabile. La diretta
conseguenza è che nel tempo le star diventano sempre più familiari e, se
da un lato perdono, progressivamente, la loro aura mitica di
irraggiungibilità, dall’altro acquistano l’affetto e la tolleranza del
pubblico, della gente comune che li sente più vicini e più facilmente
assimilabili: “gli eroi restano eroi, cioè modelli e mediatori, ma
combinando in modo sempre più stretto e vario l’eccezionale e il
consueto, l’ideale e il quotidiano, offrono all’identificazione dei punti
d’appoggio sempre più realistici”8.
10
1.2 Definizioni e teorie
Fin dalle prime righe de “L’élite senza potere” del 1963, Francesco
Alberoni sottolinea che la letteratura sull’argomento “è molto deludente
se ci si accinge a studiare il fenomeno da un punto di vista sociologico”9.
E’ proprio la scoperta della totale mancanza di trattazioni rigorose che
spinge l’autore a tentare un lavoro di riflessione e formulazione del
fenomeno che facessero da “base per una sociologia del divismo” 10.
Oggi gli scritti sul divismo come fenomeno sociale rilevante sono,
naturalmente, più numerosi, ma tutti quelli, posteriori al 1963, che ho
preso in considerazione per approfondire l’argomento, partono da
Alberoni e dal suo lavoro, che rimane pietra di paragone e scritto
iniziatore per chiunque voglia occuparsi di divismo. Bisogna ammettere
che molti passaggi continuano ad avere validità anche dopo più di
quarant’anni e questi saranno punti fermi che non possono non essere
riportati. Alcune teorie possono essere invece messe in discussione e
aggiornate alla luce dei cambiamenti che sono avvenuti nella società in
generale, puntualmente riportati in lavori più recenti.
Il primo passaggio fondamentale per iniziare un percorso nel tempo
tra i diversi modelli di divismo è la definizione iniziale di Alberoni che
così spiega chi sono i divi:
11
essi pittori ed artisti celebri, personaggi investiti di potere pubblico in altri
paesi ma senza potere in quello di cui parliamo, quali regnanti e
aristocratici, persone ricchissime e bizzarre e persone che si sono distinte
per qualche attività eccezionale.11
12
secondi di prendere coscienza della propria condizione di sfruttamento
[…].
Allontanando gli uomini dalla coscienza della loro natura (sociale), li
distoglie dalle sorgenti dei loro naturali interessi e desideri e genera
aspirazioni, desideri, affetti, speranze fallaci, utili, in ultima analisi alla
perpetuazione dello stato di fatto. Il sistema culturale genera quindi dei
miti che mistificano la realtà e alienano l’uomo da se stesso. I divi non
sono che uno dei prodotti del sistema culturale […].13
13
sperimentare cosa significa essere un divo. Senza questo tipo di
“speranza” data dalla mobilità sociale, i divi non avrebbero senso di
esistere, perché non verrebbero attivati i meccanismi di
identificazione e proiezione nei loro riguardi.
Si evidenzia poi la fondamentale differenziazione che caratterizza la
teoria di Alberoni: sono molti i personaggi pubblicamente rilevanti, ma
solo coloro le cui azioni non sono valutate per le conseguenze che hanno
sulla collettività posso essere definiti divi. Secondo la sua teoria, infatti, i
componenti della cosiddetta élite del potere vengono giudicati per il loro
“agire di ruolo”, per le azioni che compiono in funzione della posizione di
potere che occupano. Al contrario, per quanto riguarda l’ élite senza
potere, essi vengono giudicati non tanto per il loro lavoro, quanto per la
loro vita privata, in sostanza, per il loro “agire in comunità”.
14
l’impossibilità dell’interazione diretta e la preclusione al possesso
impediscono il nascere di una dipendenza totale dall’altro, si può
affermare che proprio l’emotività suscitata dal pubblico ostacoli
l’occupazione di un potere istituzionale. In secondo luogo, si ritiene che il
divo non possegga le competenze professionali necessarie per esercitare
un potere di questo tipo. Terzo, si afferma che se il divo assumesse una
precisa qualificazione politica, smetterebbe di essere un riferimento per
la società in generale, identificandosi invece con una precisa classe
sociale.15
Infine, Alberoni richiama il concetto di carisma. Questa la definizione
di Max Weber di cui si serve anche il sociologo per le sue riflessioni:
Per carisma si deve intendere una qualità considerata straordinaria che
viene attribuita a una persona […]. Pertanto questa viene considerata
come dotata di forze e di proprietà sovrannaturali e sovrumane o almeno
eccezionali in modo specifico, ma accessibili ad altri, oppure come inviato
da Dio o come rivestito di un valore esemplare e, di conseguenza, come
duce.16
L’autore non crede che i divi siano figure carismatiche, sebbene vi sia
evidentemente una componente carismatica nella loro personalità.
Secondo Weber il carisma dovrebbe creare un rapporto di potere in cui il
suo portatore è vissuto come capo o guida. D’altra parte, nella definizione
che Alberoni fornisce di divismo si è sottolineato come esso non sia
dotato di potere d’autorità e come le sue decisioni non siano
materialmente rilevanti per i membri della collettività. Il carisma del divo
quindi, non porta alla reverenza, ma all’ammirazione e non costituisce un
15 Questi due ultimi concetti verranno messi in discussione da Enzo Kermol in un recente
volume, “Divismo vecchio e nuovo. La trasformazione dei modelli di divismo”, che
giustamente fornisce un’obiezione chiedendosi come, se davvero ci fosse questa preclusione
politica ai divi, abbiano potuto ricoprire ruoli istituzionali personaggi come Ilona Staller o
Arnol Schwarzenegger o, più vicino ai tempi in cui scrive Alberoni, Ronald Reagan, Domenico
Modugno o Gianni Rivera.
16 M. Weber, “Economia e società”, Comunità, Milano, 1962, vol. 1, p. 238
15
rapporto di autorità tra divo e pubblico. Riferendosi ad attori ed attrici
celebri, Alberoni scrive:
[…] Sofia Loren, Brigitte Bardot, Gragory Peck o Marilyn Monroe […]
Non si può […] individuare per questi personaggi un’attività specifica in
cui essi eccellano in modo sovrumano. Dovrebbe essere quest’attività
l’interpretazione della parte e la corrispondente capacità o abilità
dovrebbe essere l’abilità interpretativa. In realtà il giudizio di valore del
pubblico non è dato in questi termini. Se per Mina si dice che canta bene,
Per Brigitte Bardot non si dice che recita bene, né Greta Garbo è stata
quello che è stata in quanto grande interprete. Ciò che ha rilevanza per
questi personaggi non è il momento fondamentalmente passivo
dell’interpretazione, quanto il momento attivo della realizzazione di
alcune modalità di essere che tali personaggi compiono sullo schermo e
nella vita e che permettono agli altri di ottenere, attraverso un processo di
partecipazione, la soddisfazione fantastica di interne esigenze.17
16
1.3 Il rapporto tra fan e divo
18 A. Tudor, “Image and influence”, Allen and Unwin, Londra, 1974, p.80
19 Tale scoperta appartiene a Hendel, illustrata nell’intervento “Le bourse des vedettes”, in
“Communications”, n. 2, 1963
17
TIPI DI RELAZIONE STAR/SPETTATORE
Range di conseguenze
Auto- Proiezione
Alto identificazione
Range di
identificazione
star/spettatore Imitazione (di
semplici
Affinità caratteristiche
Basso emotiva fisiche e
comportamentali)
18
ĺ Proiezione: l’imitazione diventa proiezione “quando il processo
supera la semplice imitazione dell’abbigliamento, della capigliatura,
del baciare, e così via”21.
In sostanza, identificazione e proiezione sono una degenerazione di
atteggiamenti semplici e comuni come l’affinità emotiva e l’imitazione. Mi
soffermerò sugli effetti che prevedono un tipo di coinvolgimento
relativamente elevato e chiarirò quindi cosa si intende per identificazione
e proiezione.
Per identificazione intendiamo “quel processo per cui noi riviviamo in
proprio una situazione spirituale altrui”22, o più semplicemente un
processo psicologico con cui un soggetto assimila un aspetto, una
proprietà, un attributo di un’altra persona e si trasforma, totalmente o
parzialmente, sul modello di quest’ultima. Freud ha distinto tre varianti
di questo processo, che Musatti ha ulteriormente chiarito:
1. Identificazione per aspirazione, che si instaura con qualcuno di cui
vorremmo occupare il posto. In sostanza, nel caso specifico,
21A. Tudor, “Image and influence”, Allen and Unwin, Londra, 1974, p.81
22 C. Musatti, “Atti del convegno su film e integrazione psicologica nei rapporti sociali”, Vita e
pensiero, Milano, 1957, p. 124
23 E. Kermol, M. Tessarolo, “Divismo vecchio e nuovo: la trasformazione dei modelli di
19
avvenire, per esempio, in un momento successivo alla visione di un
film, per cui, dopo aver perduto il divo, lo spettatore ne ripropone
caratteristiche fisiche o comportamentali.
3. Identificazione per contagio, cioè il coinvolgimento che avviene nei
riguardi di colui “che si trova in una situazione esistenziale o affettiva
che è già simile a quella del soggetto”24. In questo caso lo spettatore
sceglie, magari inconsciamente, un personaggio che condivide con lui
una particolare situazione e, in questo modo, accentua la sua identità e
si arricchisce di esperienze non sue, ma assimilabili a una sua
situazione obiettiva.
Il secondo meccanismo è quello della proiezione, con cui si intende un
“processo psicologico per cui determinati atteggiamenti o impulsi del
soggetto vengono vissuti come atteggiamenti o impulsi dell’oggetto”25.
In pratica, il soggetto trasla sull’altro qualità, atteggiamenti, desideri
propri. Secondo Musatti la proiezione è un processo antecedente
all’identificazione e in qualche modo riesce a favorirla:
20
Kermol sostiene che sia difficile che questi meccanismi identificativo-
proiettivi, che agiscono a livello di “personaggio”, possano funzionare
anche riferiti ad attori o divi in genere, dato che questi ultimi sono dotati
di una concretezza e di una tangibilità che i personaggi dello schermo non
possiedono. Agiscono invece, secondo l’autore, altri meccanismi,
specialmente in occasione dell’eventuale presenza fisica del divo, che in
teoria dovrebbe dissolvere l’aura di divismo che avvolge la celebrità. In
questo caso si instaurano altri processi mirati a mantenere tale aura: per
esempio, “data la brevità dell’incontro”, può verificarsi “una
indiscriminata sopravvalutazione di atteggiamenti, modi e
caratteristiche vissute, e giustificate, ben al di sopra del loro reale
valore”27.
Alberoni introduce poi il concetto di fotogenicità, che riprende da
Cohen Seat:
Alberoni sostiene che le riflessioni fatte valgono anche nel rapporto tra
pubblico e divi al di fuori della situazione spettacolare, questo perché la
vita del divo è, per il pubblico, spettacolo a sua volta.
21
Il pubblico assiste alla loro vita attraverso i mezzi di comunicazione di
massa, come fosse uno spettacolo, una vita quasi romanzata che le
persone comuni non potrebbero mai esperire. Si instaura una
“interazione squilibrata (che è la condizione stessa dell’esistenza del
divismo)”29 che crea, a sua volta, l’aspirazione a un contatto concreto con
la star. All’interno di questo squilibrio coesistono due poli di tensioni:
quello di approssimazione e quello di avvicinamento. Il primo
rappresenta il desiderio del pubblico che il divo sia più simile a noi, il
secondo quello di poter vivere in qualche modo, per qualche istante, il
tipo di vita che egli conduce. Questa tensione è il presupposto
fondamentale perché esista un interesse verso la star: infatti, sia nel caso
che il divo fosse troppo simile a noi, sia nella situazione in cui tra
pubblico e divo ci fosse una differenza incolmabile, l’interesse verrebbe
meno.
Infine, le varie forme di coinvolgimento che sono state descritte sono
particolarmente significative in relazione ai giovani: anche Alberoni si
sofferma su questo aspetto e sostiene che l’agire dei divi, in particolare il
loro agire in comunità (che è poi l’oggetto privilegiato di cronaca e
interesse del pubblico), rappresenta una “possibilità” di agire, che viene
sperimentata sul piano fantastico. In sostanza quindi, l’agire in comunità
della star,
in quanto realizza un “possibile”, permette degli “esperimenti mentali”
di cui alcuni hanno una funzione di socializzazione anticipatoria. Nei
giovani, rispetto agli adulti, l’identificazione è più piena, la partecipazione
fantastica più ampia ed intensa, l’innamoramento-adorazione più
profondo, e il comportamento pertanto ne resta maggiormente
influenzato.30
22
Questo concetto, espresso ormai quarant’anni fa, continua ad avere
valore anche oggi: se tempo fa i ragazzi assumevano “pose” alla Marlon
Brando anche nella vita reale, prolungando quindi la partecipazione
fantastica che aveva avuto inizio assistendo a uno spettacolo, oggi è facile
notare quanto i ragazzi rimangano influenzati dai divi della televisione,
ne assumano stile (in termini di abbigliamento o, in ogni caso, per quanto
riguarda l’aspetto esteriore) e atteggiamenti, modi di dire, etc. Nel
secondo capitolo si individueranno le modificazioni che sono avvenute
nel tempo, riuscendo a distinguere due grandi modelli di divismo; per ora
mi limito a evidenziare, magari ingenuamente e superficialmente, una
realtà di fatto, che tutti possiamo notare, ma che è significativa per la
descrizione degli effetti del coinvolgimento spettatore/divo che si sta
compiendo. Il ruolo della star è infatti “particolarmente efficace nella
fase d’indeterminazione psicologica e sociologica tipica dell’adolescenza,
quando la personalità è in cerca di se stessa”31.
31 E. Morin, “Le star”, Redifin-Edizioni Olivares, copyr. 1995, Milano, 1957, p. 158
23
1.4 I divi sono dei modelli?
32 L. Grieveson, “Nascita del divismo”, in “Storia del cinema mondiale”, G. P. Brunetta (a cura
di), Einaudi, Torino, 1999-2000
33 R. De Cordova, ”Picture Personalities: The Emergence of the Star System in America”,
24
costituivano come modelli etici, che la gente comune seguiva in quanto
rivestite di un’aura di autorevolezza data dal successo e dal loro status di
divi, e permettevano così al pubblico di conformare la loro condotta e
identità secondo le norme morali prevalenti. La star come modello etico
ha una funzione di guida per il pubblico nella mediazione delle complesse
trasformazioni dell’ordine sociale e morale nei primi decenni del ‘900,
indicano modelli di comportamento, vengono erette a ideali etici cui
conformarsi. Tale funzione viene tuttavia messa decisamente in
discussione agli inizi degli anni venti del ‘900, quando una serie di
scandali coinvolge alcuni divi e rivela al pubblico la reale immoralità e la
dissolutezza di Hollywood. La star come modello etico-morale non ha più
senso, tuttavia la loro vita continua ad esercitare un fascino presso il
pubblico. Se la gente continua a mitizzare personaggi ambivalenti, questo
si riconduce al concetto di mito che ho ripercorso nel primo paragrafo:
l’aspetto fondamentale del mito, dell’eroe, è che non si tratta mai di un
personaggio totalmente positivo, la peculiarità del mito è di essere
straordinario, di essere al di là della norma, di essere in qualche modo
eccezionale. Per questo la star, nonostante sia ormai evidente che non
possa offrire ideali morali a cui conformarsi, rimane un elemento di
fascino presso gli spettatori e i fan e, soprattutto, un veicolo pubblicitario
formidabile: sostanzialmente, da questi anni in poi, le star offrono
modelli di consumo, canoni estetici, modi di fare da imitare.
Lowenthal34 nel 1944 parla di “eroi contemporanei”, distinguendo tra
idoli della produzione, politici, industriali e professionisti, e idoli del
consumo, attori, sportivi e altri personaggi dello spettacolo. I modelli
proposti dalle due categorie sono ovviamente di tipo diverso: se i primi
offrono modelli imitativi dal punto di vista educativo, rappresentando la
possibilità di ascendere socialmente seguendo il loro esempio di successo,
25
i secondi sembrano agire in seguito alla casualità, sono modelli non
utilizzabili dall’individuo perché dettati da eventi imperscrutabili.
Morin, al contrario, sostiene la funzione essenziale dei divi nel favorire
la diffusione e l’interiorizzazione dei valori di realizzazione personale
promossi dalla cultura di massa. Secondo l’autore l’espressone
dell’individualità si realizza tramite l’imitazione di modelli divistici: i
processi di identificazione divistica poggiano sul bisogno di
autoaffermazione e i divi possono in questo senso funzionare da modelli.
Le imitazione dei modi di dire, delle pettinature, del modo di fumare una
sigaretta, degli abiti, hanno tutte un unico obiettivo, cioè avere successo,
imporsi, come sono stati capaci di fare i divi di cui si imitano le
caratteristiche. In relazione poi al rapporto tra star e adolescenti e sui
numerosi mimetismi che si realizzano in questa fase, “la star non è solo
informatrice, ma formatrice, non solo incita, ma inizia”35. Questa
funzione iniziatrice ha una certa rilevanza nell’adolescenza, fase in cui,
come abbiamo già detto, la personalità è in cerca di se stessa: il ragazzo
imita i comportamenti, le pose, i modi di fare delle star. Morin fa
l’esempio del bacio e, secondo quanto lui dice,
[la star] svela [...] le tecniche delle carezze e dei baci, sviluppa il mito
dell’amore miracoloso e onnipotente […]36
35 E. Morin, “Le star”, Redifin-Edizioni Olivares, copyr. 1995, Milano, 1957, p. 158
36
E. Morin, “Le star”, Redifin-Edizioni Olivares, copyr. 1995, Milano, 1957
26
volte, di imitare qualcuno che si è visto compiere quella azione, magari al
cinema.
Secondo Alberoni i divi non offrono modelli di comportamento, ma
sono piuttosto oggetti di valutazione, configurazioni del possibile,
portatori di esperienze fantastiche gratificanti e di evasione. Sono
membri della comunità che tutti possono osservare, criticare, sono
oggetti selezionati del pettegolezzo collettivo. Essendo personaggi ad
elevata osservabilità, ogni loro comportamento ha una certa rilevanza e
suscita qualche tipo di reazione in chi li osserva. E’ stato già ricordata
diverse volte la distinzione che l’autore compie tra élite del potere ed élite
senza potere. Nonostante questo, nonostante quindi i divi non occupino
posizioni istituzionali, essi esercitano un’influenza rilevante sui membri
della comunità: questa non dipende però da decisioni razionali, ma si
attua nel territorio delle emozioni, della fantasia. In ogni caso, è sbagliato
credere che l’agire dei divi, e di conseguenza l’influenza che essi
esercitano, sia accettata in modo acritico. I membri dell’élite senza potere
sono oggetto di valutazioni e critiche continue, “per cui essi svolgono
anche una funzione di esercizio di morale applicata a livello collettivo”37.
27
contemporanea: è indubbio che la presenza dei media, soprattutto della
televisione, sia decisamente più preponderante che in passato, è vero che
i giovani di oggi sono “figli della televisione”39, che in un certo senso
contribuisce a formarli e che permette loro di conformare i loro
atteggiamenti e comportamenti, soprattutto di consumo, agli usi
prevalenti mostrati dal medium televisivo. Tuttavia mi sembrerebbe
eccessivo affermare che i divi siano modelli di comportamento,
specialmente da una punto di vista morale ed etico40: l’insegnamento di
principi di vita avviene (ancora) per altre vie e mi sembra azzardato
affermare qualcosa di diverso e caricare personaggi dello spettacolo, che
tutti conoscono appunto in quanto personaggi e non in quanto persone,
di intenzioni formative. Mi pare più corretto (nonché dimostrabile)
affermare che le star influenzano certamente chi le segue, ma unicamente
da un punto di vista esteriore, di apparenza, di imitazione di canoni
estetici, in quanto veicoli per sognare o fantasticare o evadere verso un
mondo possibile: “la star diventa alimento dei sogni […]. Anche se questi
sogni non possono trasformarsi in azioni vere e proprie, questi sogni
affluiscono comunque alla superficie delle nostre vite concrete,
modellando i nostri comportamenti più plastici”41.
39 Questa definizione è stata ripresa da un paragrafo del lavoro di M. Tessarolo contenuto nel
volume già citato, “Divismo vecchio e nuovo: la trasformazione dei modelli di divismo”,
scritto in collaborazione con E. Kermol. Il riferimento all’elevato consumo di televisione da
parte dei giovani coinvolti nella ricerca è connesso al cambiamento che il divismo avrebbe
subito proprio a causa dell’avvento della Tv. Secondo l’autrice, “i messaggi televisivi si
accumulano nel tempo e finiscono con il sommare i loro effetti sulla personalità dei
comunicanti creando nuovi equilibri e modificando le configurazioni culturali esistenti. Si
stabilisce in tal modo un circuito che interessa la personalità e la cultura in modo tale che
ogni alterazione dei modelli culturali condiziona anche lo sviluppo della personalità” (M.
Tessarolo, 1998, p. 128)
40 Un discorso parzialmente diverso potrebbe essere fatto per gli sportivi, in particolare,
riguardo alla realtà italiana, al mondo del calcio. Data la visibilità e l’interesse suscitato da
questo sport nel nostro paese, i miti dei più piccoli sono spesso personaggi appartenenti a
questo mondo. Per questo, ma non solo, in presenza di un comportamento visibilmente
immorale e scorretto, le critiche verso i calciatori non vengono risparmiate e se ne
condannano duramente le azioni giudicate inappropriate, salvo poi essere velocemente
perdonati in seguito alle pubbliche scuse del “peccatore” (chi non ricorda l’episodio dello
“sputo” di Francesco Totti?). Questo tema offre molteplici spunti e intenzionalmente l’ho
escluso dalla mia riflessione.
41 E. Morin, “Le star”, Redifin-Edizioni Olivares, copyr. 1995, Milano, 1957, p. 149
28
2. I MODELLI DI DIVISMO
42
E. Kermol, M. Tessarolo, “Divismo vecchio e nuovo. La trasformazione dei modelli di
divismo”, Cleup, Padova, 1999
29
2.1 Il divismo pre-televisivo: cinema e
nascita dello star-system
43 G. C. Castello, “Il divismo. Mitologia del cinema”, Edizioni Radio Italiana, Torino, 1957
30
L’evento che simbolicamente segna la nascita dello star-system, è il
passaggio dell’attrice Florence Lawrence dalla Biograph alla Indipendent
Motion Picture Company (IMP) nel 1910. Un esponente della casa di
produzione, Carl Laemmle, offrì all’attrice un compenso più alto e una
maggiore notorietà personale e organizzò un’imponente iniziativa
pubblicitaria per realizzare il suo scopo. Il produttore riuscì a
comprendere la mentalità popolare, interpretando i desideri e le curiosità
del pubblico e questa fu “la prima occasione in cui il nome di un attore è
diventato famoso per il pubblico”44.
Altrettanto decisivo fu l’avvento del lungometraggio intorno al 1912,
che intensificò le modalità di coinvolgimento del pubblico con i
personaggi. Il fatto poi che i lungometraggi potessero essere proiettati per
periodi più lunghi rispetto ai film in bobina, permise uno sfruttamento
pubblicitario più consistente, basato principalmente sugli attori che vi
recitavano. Le star divennero così un elemento di valore aggiunto, che
assicurava il successo al botteghino.
I produttori intuirono che questa popolarità poteva essere sfruttata a
fini economici e pubblicitari. Furono proprio le case cinematografiche,
infatti, a lanciare le prime riviste di settore. Inizialmente nate come
riviste di racconti brevi basati sulle storie dei film, cominciarono poi a
pubblicare fotografie di attori, interviste e in seguito informazioni sulla
vita privata delle star. In questo periodo
44 A. Walker, “Stardom: the Hollywood phenomenon”, Michael Joseph, Londra, 1970, p.37
31
La star come modello etico può servire per guidare i lettori/spettatori
nella mediazione delle complesse trasformazioni dell’ordine sociale e
morale nei primi decenni del XX secolo. […]45
La funzione della star come modello etico, come si è già accennato nel
primo capitolo, viene però messa in discussione agli inizi degli anni ’20,
quando una serie di scandali coinvolgono alcuni divi. Tuttavia i fan
continuano a nutrire, nei confronti dei divi, il desiderio di conoscere gli
aspetti più intimi della loro vita privata, convinti inconsciamente che la
vita delle star fosse del tutto diversa da quella delle persone comuni, ricca
di particolari scandalosi e straordinari. Gli articoli sugli amori, gli eccessi,
i crimini, le origini delle star si fecero sempre più frequenti. Secondo
alcuni autori questa curiosità un po’ morbosa per gli aspetti più
scandalosi delle vita dei divi, potrebbe essere spiegata con l’ipotesi
secondo cui, grazie alla vita dissoluta della star, le persone comuni
sperimenterebbero ciò che normalmente non farebbero mai: vivrebbero,
in pratica, il “peccato” senza il rischio della sanzione. Le descrizioni dei
divi, della loro ricchezza, dei loro eccessi, della loro vita straordinaria,
verrebbero vissute come una configurazione del possibile, un’esperienza
di cose gratificanti e fantastiche, una porta sul mondo dell’evasione dalla
vita quotidiana della gente comune.
Lo star-system fu, ed è in un certo senso, un’organizzazione
industriale e pubblicitaria di proporzioni enormi. Ad inizio secolo sono i
divi a fare da mezzo di propaganda verso i miti consumistici,
pubblicizzando articoli femminili e ogni altro genere di beni di consumo:
32
del secolo. Lary May dice che le star sono un mezzo privilegiato per la
diffusione e il consolidamento di nuovi ideali di consumo, in quanto
dimostrano efficacemente l’idea che non si può trovare soddisfazione nel
lavoro, ma nel consumo e nel divertimento.46
Non solo: le star stesse sono merci: i divi vengono lanciati sul mercato
“come si lanciano nuovi prodotti commerciali imponendoli all’attenzione
del pubblico” 47.
Una volta imposto un nuovo volto si lavorava per mantenere attorno
ad esso un alone mitico, senza cui una stella non poteva essere tale. Come
scrive Morin,
Una nuova mitologia quindi, che fa dei divi degli “oggetti significanti”
che racchiudono in sé proposte di consumo e di atteggiamento, il tutto
mediato e condotto dalle case di produzione cinematografica.
Questa prima fase del divismo hollywoodiano raggiunse il suo
massimo splendore tra le due guerre, fino all’avvento del cinema sonoro.
Molti hanno sostenuto che con la nascita del sonoro ci sia stata una de-
46
L. Grieveson, “Nascita del divismo”, in “Storia del cinema mondiale”, G. P. Brunetta (a cura
di), Einaudi, Torino, 1999-2000
47
E. Morin, “Le star”, Redifin-Edizioni Olivares (copyr. 1995), Milano, 1957, p. 123
48 E. Morin, “Le star”, Redifin-Edizioni Olivares (copyr. 1995), Milano, 1957
33
divinizzazione delle star e che, se nei primi anni del cinema le star erano
divinità, eroi, in seguito diventano essenzialmente figure di
identificazione. Riportando alcune parole di Walker,
Una perdita di illusione fu certamente uno dei primi effetti che i film
sonori ebbero sul pubblico. […] quando iniziano a parlare, gli idoli una
volta silenziosi subiscono una perdita di divinità. […] Le loro voci li
rendono reali come le persone che le guardano.49
34
La seconda fase del divismo cinematografico, successiva al 1930 fino al
1960 vede quindi le star partecipare alla vita dei comuni mortali. Non
sono più dèi inaccessibili, suscitano forse meno adorazione ma più
ammirazione.
35
cinematografica aprì spazi di libertà per gli attori e aumentò le loro
possibilità di guadagno. Questo minore controllo da parte delle case si
tradusse però, oltre che in un maggior successo degli attori, anche nella
fine dei privilegi concessi alle star. La riduzione del pubblico, favorita dal
consumismo domestico, accentuò poi queste restrizioni e il cambiamento
sensibile dell’apparato divistico hollywoodiano. L’industria
cinematografica continuò a produrre star, ma la “mistica del glamour”,
secondo Gundle, venne da quel momento in poi perpetuata dall’industria
dell’alta moda e da quella dei prodotti di bellezza, dai rotocalchi e dalla
televisione.
Si esaurì così il potere del primo modello di divismo. L’ingresso e
l’influenza di queste nuove variabili rese, così, irripetibile il divismo
hollywoodiano dell’età d’oro dello star system.
36
2.2 Il divismo post-televisivo: da star a
“meteore”
37
nelle forme di trasmissione, ma rimane punto essenziale per
supportare il fenomeno divistico;
3. La creazione di infiniti modelli divistici. Se a teatro le star erano
poche decine e ancora meno i ruoli interpretati, con il cinema, le star
diventano poche centinaia e aumentano le “tipologie” di personaggi da
rappresentare. Con la televisione però si assiste a un aumento
vertiginoso delle persone che possono essere considerate divi e sono
migliaia anche i modelli interpretati. Si può dire che attualmente tutti
gli archetipi sociali hanno un loro corrispondente divo televisivo e che
la tv è diventata un mezzo che non scontenta proprio nessuno;
4. La durata temporale della figura divistica. Le tipologie di divismo
attuali si possono dividere in due categorie: ci sono divi di “lunga
durata”, che mantengono durante la loro carriera lo status che veniva
assegnato ai vecchi divi cinematografici, e i divi di “breve durata”,
creazione della televisione. Solitamente queste star, che si rivelano
delle vere e proprie “meteore”, derivano da un’elevata frequenza di
passaggi televisivi in cui una persona appare per un periodo più o
meno breve. Possiamo includere in questa categoria tutti i personaggi
nati dai reality show, i campioni dei telequiz, etc. Nonostante la loro
popolarità sia limitata in termini di tempo, per il breve periodo in cui
sono protagonisti del mezzo televisivo e della cronaca rosa, godono di
tutte le caratteristiche del divo classico;
5. Diverse motivazioni nell’uso del divismo. Alla base del divismo
contemporaneo vi sono motivazioni non inconsce ( quindi non legate a
pulsioni sessuali, etc.) connesse soprattutto al mantenimento del
sistema sociale e al suo controllo e all’incentivazione di vendita di
prodotti industriali non assimilabili normalmente ai divi (surgelati,
catene di ristoranti, etc.);
6. Utilizzo pilotato dei fan. Attualmente, anche poche decine di fan in un
programma televisivo, racchiusi in uno spazio stretto possono dare
38
l’impressione di una folla adorante. Pure in passato i veri fan, quelli
che si abbandonavano ad un’adorazione che sfiorava l’isteria, erano
pochi e con il tempo, oltre che le forme di divismo, è cambiato anche
lo status del fan. Quelli che più si avvicinano al fan “classico” sono
coloro che si riuniscono per manifestazioni sportive o concerti. Il
“nuovo” fan, invece, segue le vicende del suoi beniamini seduto
davanti alla tv, comodamente da casa propria.
In queste considerazioni sono descritti fenomeni che sono facilmente
riconoscibili nel panorama televisivo contemporaneo. Sono sempre di più
i personaggi che vengono considerati divi, spesso non dal pubblico ma
eletti tali dalla televisione, regina di autoreferenzialità, e di conseguenza
dalla stampa di settore. Basta un programma riuscito, una fiction di
discreto successo per far vivere, anche magari per un tempo limitato, ad
un qualsiasi personaggio televisivo, lo status di divo.
Castello nel suo lavoro ci informa che nella scelta degli attori di cui
scrive, ha ritenuto che
L’indice più valido per stabilire l’importanza di un attore sul piano
storico fosse dato dal suo potere di “resistenza al tempo”. […] Il tempo ha
di per sé stabilito una gerarchia di valori […]: i nomi della Pickford, di
Valentino e della Garbo sono tuttora in grado di evocare qualcosa anche
nella mente di chi non abbia mai avuto occasione di ammirarli. […]
Nessuno potrebbe dire quale eco siano destinate a suscitare tra trent’anni
le Audrey Hapburn o le Kim Novak di oggi. La storia del divismo registra
infinite mode, infiniti “furori”, spentisi con la stessa rapidità con cui si
erano manifestati.54
54 G. C. Castello, “ Il divismo. Mitologia del cinema”, Edizioni Radio Italiana, Torino, 1957
39
pronuncia. Possiamo dire che davvero il tempo è il criterio secondo cui
dividere i veri divi da quelli frutto di mode e furori passeggeri.
In un certo senso queste sono considerazioni che possono valere anche
oggi, anche per un medium diverso dal cinema, per cui scrive Castello,
quale è la televisione. Ci sono personaggi quasi-mitici della televisione e
altri, la maggior parte a dir la verità, che al contrario si sono rivelati delle
“meteore”. Tuttavia, secondo la mia opinione, non è un fenomeno su cui
passare sopra in modo troppo ingenuo. La televisione di oggi, bella o
brutta che sia, rappresenta la società in cui vive e trasmette. Anche se la
loro incidenza è amplificata dal mezzo e dalla sua diffusione, i personaggi
che la popolano sono pur sempre riflesso dei desideri e di realtà, magari
anche ristrette, presenti nella società attuale e sarebbe superficiale, a mio
avviso, ignorarli. Come abbiamo detto, anche se per poco tempo, questi
personaggi beneficiano di una condizione che in passato veniva riservata
solo a vere e proprie stelle del cinema. Hanno ricchezza, visibilità, hanno
fans interessati realmente alla loro vita privata. Le persone parlano di
loro e comprano i prodotti che pubblicizzano, i giornali vendono migliaia
di copie grazie ad articoli sulla loro vita, danno corpo a un vortice di
interessi e pubblicità. I ragazzi si vestono come il loro personaggio
preferito, le ragazzine sognano di avere l’aspetto e il successo delle
soubrette televisive. Anche se è un fenomeno che può durare per un
periodo più o meno breve, esiste pur sempre e non lo si può ignorare.
In definitiva, la vera novità delle forme di divismo nate dall’avvento e
dalla diffusione del mezzo televisivo, è il divismo “di breve durata”. Per
sintetizzare, scrive Kermol:
40
settimane al massimo, ottengono tutti i benefici del divo, con l’unica
clausola del venire rapidamente dimenticati, e quindi sostituiti, con altri
divi, anch’essi destinati ad una breve notorietà.55
41
[…] Il giornalista deve far sapere , deve dire tutto senza preoccuparsi
troppo del livello di comprensione che sembra non essere importante. Ad
assumere importanza è invece l’ottica di presentazione dell’argomento che
definisce il divertimento e lo spettacolo. Nelle diverse modalità in cui la
divulgazione appare, e forma delle figure “divistiche”, esistono i giornalisti
scientifici, gli scienziati divulgatori e coloro che “dimostrano” che cosa
conoscono: giochi a quiz tendono a formare “personaggi” che diventano
famosi anche se per brevi periodo di tempo. Il mondo divistico è più
popolato di “meteore” che non di “stelle”.56
Questo tipo di divo non sembra avere quasi più niente di sacro […]. Se
si può ancora parlare di Olimpo, quello moderno è un luogo
sovrappopolato in cui le aspirazioni e i bisogni si ritrovano a livello molto
basso in modo da essere adeguati a un numero ampio di persone: i miti
sono lontani, solo lo mitologia della felicità è (sembra) a portata di
mano.57
42
2.3 La personalizzazione della
comunicazione politica: una caso (quasi)
inedito di divismo
43
sono i divi. Perciò questi ultimi, a loro volta, debbono apparire
politicamente neutrali.58
44
Quindi, esisterebbe una certa valutazione degli aspetti più
strettamente privati dei politici (sebbene Tosi sottolinei che questo
avvenga in misura molto minore in Italia rispetto ad altri paesi), ma
questo tipo di attenzione avrebbe una funzione di controllo rispetto a
quanto condiviso nella società di riferimento. Infatti, ai politici “sotto
osservazione” non verrebbe comunque riconosciuta l’indulgenza che
viene riservata ai divi, che vengono giudicati con una morale molto più
tollerante di quella comune, “tanto da costituire quasi un’élite di
trasgressione dei valori tradizionali codificati nella sfera dell’intimità”.61
Analizzando alcuni giornali del tempo Tosi scrive:
45
Se questa era la situazione rilevabile alla fine degli anni ’60, è
abbastanza facile intuire quanto la realtà si sia modificata nel tempo.
Buonanno già intuiva come si stesse verificando un sensibile
cambiamento tra le due tipologie di élite, del potere e senza potere. Infatti
si sta assistendo, da una parte, a politici che espongono la loro vita
privata e, dall’altra, a divi che escono dalla loro neutralità politica
assumendo impegni sociali.
Fondamentale in questo percorso per spiegare tale cambiamento è il
rilevamento della preponderanza della comunicazione politica fondata ed
esercitata dalle persone, piuttosto che dai partiti. Il sistema dei media ha
infatti influito decisamente su questo fenomeno. In una raccolta di saggi
sulle evoluzioni della politica in Italia negli ultimi anni, Mazzoleni scrive:
46
Una rassegna attenta degli studi sul voto negli Stati Uniti, sembrerebbe
concludere che l’identificazione con il partito non è più la principale
componente che determina la scelta di voto. Quello nordamericano, però,
non è un caso isolato. Nelle democrazie occidentali si assiste a uno
spostamento di rilevanza dalle organizzazioni alle persone. “La vecchia
politica è la politica delle organizzazioni, partitiche ma anche sindacali. La
nuova politica è la politica delle persone, della personalizzazione”
(Pasquino, 1992).64
47
eccessive, qualcosa di vero e osservabile nel panorama della politica
contemporanea c’è. Durante le elezioni, in campagna elettorale, è
particolarmente evidente e Sartori si riferisce proprio a questa condizione
particolare quando dice che
48
si può estendere alla politica in generale e non solo relegarlo alla
condizione particolare delle elezioni. Stiamo assistendo a una progressiva
“personalizzazione” della comunicazione politica, per cui assume
maggiore influenza la “faccia” di una persona” e ciò che dice quella
precisa persona, piuttosto che tutto l’apparato partitico-istituzionale che
le sta dietro.
Questa personalizzazione, può giustificare il fenomeno descritto da
Buonanno, secondo cui, come già accennato, tra l’élite del potere e l’élite
senza potere, si starebbe verificando un progressivo cambiamento, e
mentre aumenta l’attenzione al privato dei politici, si assiste a una presa
di posizione politica da parte di alcuni divi.
Se il nostro assunto fondamentale, che fa da sostrato a tutte le
considerazioni contenute in questo lavoro, è che senza immagine non vi è
divo, possiamo intuire che questo concetto può funzionare più che bene
anche per la comunicazione politica, il che conforta tutte le riflessioni su
questo argomento. Nel titolo di questo paragrafo ho inserito fra parentesi
la parola “quasi” inedito per qualificare la personalizzazione della
comunicazione politica. Oggi il mezzo che fornisce immagini dei politici è
la televisione e ci sembra che in precedenza nulla possa aver potuto
rispondere all’esigenza di farsi vedere come riesce a fare questo medium.
In effetti è così da un certo punto di vista, ma non dobbiamo dimenticare
che l’immagine in sé è sempre stata uno strumento dei detentori del
potere politico per mostrarsi ed entrare nelle case e nelle vite della gente.
Kermol, nota che
49
a quelli esaminati, aveva invaso l’Europa, oltre che con le proprie truppe,
anche con i ritratti, dai medaglioni ai disegni, dalle stampe ai quadri.67
50
guardiamo le personalità politiche con occhi diversi rispetto a quanto
facevamo trent’anni fa. Oggi ci incuriosiscono gli aspetti più privati dei
politici, essi sono diventati oggetto di cronaca rosa, sappiamo di più sulle
loro famiglie, d’estate vengono pubblicate sulla stampa scandalistica foto
delle loro vacanze, “paparazzate” su ciò che fanno al mare, ci divertiamo a
vedere un politico con gli amici sulla spiaggia, come una persona
normale. Oggi sappiamo cosa fanno nel loro tempo libero, quali sono i
loro hobby e le loro passioni al fuori del loro ruolo istituzionale.
Probabilmente non sono “divi” come lo erano Marlon Brando o
Humphrey Bogart, ma sono ugualmente oggetto del pettegolezzo
collettivo e questo interesse non è più dettato unicamente da un’esigenza
di controllo, solo per verificare se il loro comportamento è aderente a
valori socialmente condivisi.
Un’ultima riflessione su questo argomento: qualche tempo fa, in piena
campagna elettorale, mi è capitato di sfogliare un quotidiano nazionale.
Si era alla vigilia di un confronto decisivo fra i due candidati, le esigenze
di par-condicio erano pressanti e lo spazio che aveva uno doveva essere
esattamente lo stesso che aveva l’altro, anche sul quotidiano. Un articolo
occupava la seconda e la terza pagina, al centro due foto a figura intera
dei due candidati, sui lati due colonne con informazioni riferite ad
ognuno dei due, che servivano evidentemente e riportare le notevoli
differenze fra i candidati: per entrambi era indicata data di nascita, luogo,
altezza, tipo di laurea conseguita, titolo della tesi; poi numero di figli,
vacanza ideale, hobby, sport praticati, strumenti suonati, se il candidato
era intonato o stonato, cravatta e tipo di giacca preferiti, etc.
Ora, prendendo in considerazione tali osservazioni, possiamo ancora
sostenere, senza alcuna ombra di dubbio, che la vita di chi occupa
posizioni di potere non ci interessa, né ci incuriosisce, o che ci
incuriosisce esclusivamente per controllare se rispettano alcuni valori che
tutti, socialmente, condividiamo?
51
3. POSTMODERNITA’ E DIVISMO
52
3.1 La società dell’incertezza
68 J. F. Lyotard, “La condizione postmoderna: rapporto sul sapere”, Feltrinelli, Milano, 1979
69 S. Lash, “Modernismo e postmodernismo. I mutamenti culturali delle società complesse”,
Armando, Roma, 2000
53
La principale differenza fra modernismo e postmodernismo, così come
vengono intesi da Lash, sta nel fatto che, mentre il primo produrrebbe
una differenziazione, con il secondo si attuerebbe invece un processo di
de-differenziazione. Con la modernizzazione ogni sfera culturale
godrebbe di un’autonomia assoluta, con la postmodernizzazione al
contrario si assisterebbe a un avvicinamento fra ambito culturale e
sociale, nel senso che, se nel primo caso il modernismo fu un
cambiamento che coinvolse solo la cultura alta, il postmodernismo
avrebbe consentito una “disgregazione dei confini tra cultura alta e
cultura popolare e col concomitante emergere di un pubblico di massa
per la cultura alta”70. In questa “inedita immanenza della cultura nel
sociale, le rappresentazioni assumerebbero anche una funzione di
simboli”71. Ciò che è fondamentale evidenziare, poi, è il modo in cui
avviene la significazione: non più attraverso parole, ma attraverso
immagini. In questo caso, si tratterebbe
54
reale dipinto è esso stesso un’immagine. Ciò che in sostanza cambia è ciò
che percepiamo: tutto quello che percepiamo, in televisione, in rete, nelle
riviste che leggiamo, sono immagini, rappresentazioni.
non più soltanto una cosa prossima, vicina a chi organizza delle
relazioni, ma diventa evento o esperienza anche non prossima all’attore.
[…] Infatti lo stile di vita di un individuo postmoderno occidentale è
sempre più staccato dai luoghi concreti. Ogni individuo si costruisce una
55
personale mappa di spostamenti e relazioni, vive in diverse comunità,
organizzazioni, può attivare o frequentare newsgroup etc. La diffusione
dei telefonini o di internet o della tv satellitare sono chiari esempi di
personalizzazione di relazioni.74
74 C. Baratta, “Le identità deboli e la perdita del padre nella società contemporanea”, in
“M@gm@”, vol. 2, n. 4 ottobre/dicembre 2004
75 C. Baratta, “Le identità deboli e la perdita del padre nella società contemporanea”, in
56
relazioni, delle appartenenze, delle modalità tradizionali di costruzione
della propria identità, etc. I confini fra gli oggetti che conosciamo, le
percezioni che ci permettono di rapportarci al mondo sono sempre più
caratterizzate da una fluidità contraddittoria; le tradizioni e i modi di
pensare e di vedere il mondo, che fino a qualche tempo fa erano
considerati pienamente accettati, condivisi e univoci, sono ora
insoddisfacenti e non adeguati alla realtà incerta in cui viviamo. In
mancanza di sistemi di senso stabilmente condivisi che consentano di
originare identità e gruppi definiti, il consumo diventa il riferimento
simbolico principale. Consumare diventa un valore, un modo per fissare
nuove appartenenze ed identità, sebbene precari ed “usa e getta” come i
beni di consumo.
57
si tratti, come è stato accennato, di condizioni temporanee e facilmente
sostituibili.
Le questioni da affrontare per riflettere in modo completo sulla
postmodernità sarebbero evidentemente numerose, rilevanti per
comprendere la realtà contemporanea, ma penso esulerebbero
dall’argomento principale di questo lavoro. Le riflessioni finora fatte sulla
condizione postmoderna e, in special modo l’ultimo concetto che ho
rilevato, possono senz’altro aiutarmi a fare un passo successivo
nell’individuare i cambiamenti avvenuti nel fenomeno divistico e nel
rapporto tra fan e divo. Se la precarietà, la temporaneità, il consumo,
sono connotati tipici dell’epoca postmoderna, anche le riflessioni fatte nel
precedente capitolo, relative al nuovo divismo post-televisivo, assumono
un’ulteriore e più chiaro significato: il cosiddetto divismo di “breve
durata” appare così perfettamente compatibile alla condizione che è stata
descritta in questo paragrafo. La ricerca di continue e inedite ridefinizioni
di sé e del proprio immaginario, il rivolgersi al sistema dei beni di
consumo per fissare nuovi gruppi e nuove abitudini socialmente
condivise cui conformarsi, è visibilmente affine allo star-system
contemporaneo: la televisione, soprattutto, ci “propina” numerosi divi
che mantengono tale status per un periodo di tempo limitato, ma che, in
questo tempo limitato, la gente segue e verso cui attua un qualsiasi genere
di identificazione. Kermol propone questa definizione:
58
3.2 Identità frammentate
osservazioni non avrebbero senso se applicati a realtà diverse da questa. Basta pensare a ciò
che si sta verificando negli ultimi anni nel mondo islamico (ma questo è solo uno dei tanti
esempi che si potrebbero fare) per notare come la differenziazione sia vissuta come un
eccesso e la reazione a tale eccesso sia il ritorno alle grandi appartenenze, in questo caso
religiose, per ridefinire spazi e orizzonti precisi di identità e azione.
81 M. S. Di Gennaro, “Soggettività e costruzione dell’identità individuale: l’approccio
59
autodeterminazione, dall’altro produce disorientamento, incertezza,
precarietà, tanto da configurare le identità individuali come mosaici, le
cui tessere vengono fornite da svariati ambiti di esperienza e azione. La
ricchezza di opportunità permette all’individuo di modellarsi sulla
variabilità di situazioni esperite: moltiplica i suoi interessi, le
appartenenze, le attività che svolge e, di conseguenza, il potenziale
disorientamento che ne deriva. Lash82 ha ingegnosamente coniato
l’espressione di “etica della sopravvivenza”: in sostanza l’individuo, di
fronte alla molteplicità ed eterogeneità del mondo contemporaneo e delle
possibilità che offre, finisce per adattare la propria identità di volta in
volta a ciò che gli capita.
Se la vita quotidiana e individuale assume così la caratteristica della
discontinuità e del dinamismo, anche i legami fra individui sono sempre
più deboli e precari. Pensiamo alla vita organizzativa, a quanto siano
deboli i legami che abbiamo per esempio con i colleghi di lavoro, che
abbiamo oggi ma che domani potrebbero essere diversi. Debole è il
legame che abbiamo con un ruolo e soprattutto con il futuro, sempre più
imprevedibile e incerto, erede di un presente estremamente dinamico e
pregno di attese, bisogni, obiettivi sempre nuovi. L’individuo
postmoderno appare sempre più come elemento che si plasma su
collettività e gruppi diversi: “la crisi della modernità ha quindi condotto
alla costruzione di un’identità frammentata, in base alla quale ciascun
soggetto, nelle interazioni, è caratterizzato dal possesso di più
personaggi o maschere”83. Diventa così decisamente complesso definire
tutte le diverse appartenenze che caratterizzano l’individuo postmoderno,
anche considerando che i valori, le aspettative di ogni singola collettività
da cui l’uomo desume parte della sua identità, possono essere, e spesso lo
sono effettivamente, divergenti o addirittura conflittuali.
82 C. Lash, “La cultura del narcisismo”, Bompiani, Milano, 1981
83 C. Baratta, “Le identità deboli e la perdita del padre nella società contemporanea”, in
“M@gm@”, vol. 2, n. 4 ottobre/dicembre 2004, p. 3
60
La differenza fondamentale fra l’uomo premoderno e l’uomo
postmoderno sta quindi nel fatto che mentre il primo trovava e definiva
se stesso in un orizzonte di senso condiviso, certo ed immutabile della sua
comunità di appartenenza, per il secondo questa è una condizione
pressoché impossibile da ricreare: come è stato già accennato, il senso
comune, l’unità della tradizione, l’appartenenza univoca ad una
collettività, sono elementi che si sono decisamente affievoliti, che hanno
perso significato nella realtà contemporanea, fluida e discontinua.
L’individuo postmoderno deve definire da solo, per proprio conto, chi è e
chi vuole essere e questo è un processo mai definitivo, ma in continuo
cambiamento.
In relazione all’argomento di mio interesse, si può dire che il mito
abbia molto a che fare con la costruzione dell’identità individuale. Nel
primo capitolo ho affrontato la questione della funzione del mito e ho
affermato che esso ricopre un ruolo importante nel costituire un
immaginario collettivo, un orizzonte condiviso in cui gli individui
possano ritrovare se stessi. Anche nell’epoca postmoderna, l’uomo
continua da aver bisogno di riferimenti, seppur precari e temporanei, cui
rifarsi per definire se stesso e chi vuole essere. Il riconoscimento soddisfa
il bisogno che ha l’uomo di appoggio sociale, di ottenere conferme sulle
sue modalità di comportamento o di pensiero: il desiderio di non sentirsi
solo è l’istinto primario anche e soprattutto nella società del
cambiamento, in cui ogni cosa appare incerta e precaria, i ruoli, le
identità, i legami, la posizione sociale, persino, nel caso specifico, lo
status di star. Se la televisione o comunque lo star system odierno
produce divi come si producono prodotti industriali in serie, è perché la
società ha bisogno di questa mobilità incessante. Molte sono le identità
che ognuno possiede, molte sono le maschere che indossiamo
adattandole ai numerosi contesti in cui agiamo, molti sono i personaggi
in cui ci riconosciamo, magari anche parzialmente. E se queste identità
61
sono provvisorie e momentanee, provvisoria e momentanea sarà pure la
condizione di divo a cui assurge la maggior parte dei personaggi dello
spettacolo lanciati principalmente dalla televisione: tale condizione
persisterà fino a che il bisogno degli individui, di coloro che si
riconoscono in uno specifico personaggio, non sia esaurito. A quel punto
nuovi bisogni temporanei dovranno essere soddisfatti e nuovi divi “usa e
getta” saranno utilizzati dall’industria dello spettacolo.
Le identità postmoderne sono identità frammentate. Ogni frammento
deve rifarsi a un modello da imitare o a cui fare semplicemente
riferimento. Ecco che l’individuo postmoderno diviene individuo
eclettico, nel senso che molti elementi, anche contraddittori, convivono in
lui, magari squilibrati, sicuramente eterogenei, indubbiamente contenuti
nello stesso involucro complesso che definisce l’identità di una persona.
La realtà rispecchia perfettamente la condizione dell’individuo
contemporaneo (ma vale anche il contrario!) e il sistema dei miti subisce
le stessa sorte di contraddittorietà, precarietà e temporaneità. Il modo in
cui esso sopravvive a questa indeterminatezza è il fornire un continuo
ricambio di divi e miti e che rispondano alla fondamentale funzione di
soddisfare le esigenze sempre mutevoli degli individui: infatti, non solo
nello stesso individuo convivono più personalità ed identità, ma egli le
modifica continuamente per adattare se stesso all’evolversi della realtà e
delle situazioni che esperisce.
62
3.3 Il “divismo diffuso”
84 C. Baratta, “Le identità deboli e la perdita del padre nella società contemporanea”, in
“M@gm@”, vol. 2, n. 4 ottobre/dicembre 2004, p. 6
85 C. Baratta, “Le identità deboli e la perdita del padre nella società contemporanea”, in
63
Il mondo contemporaneo vive senza dubbio nella civiltà delle
immagini. La proliferazione dei mezzi di comunicazione di massa, ma
soprattutto il fatto di comunicare e conoscere per immagini (ossia per
rappresentazioni, come rilevava Lash in riferimento alla condizione
postmoderna), ha reso la nostra esistenza di uomini occidentali un
percorso in cui intervengono in ogni secondo della giornata immagini,
sotto forma di manifesti pubblicitari, video, aggiornamenti televisivi in
tempo reale, etc. L’espressione del “bombardamento” di immagini è
senz’altro usurata, ma in effetti coglie la sostanza della realtà e della vita
quotidiana di ognuno di noi. Tutto è diventato immagine, la
rappresentazione che si dà di sé è diventata la sostanza di come noi
veniamo conosciuti dagli altri. Forse Baratta esagerava quando diceva che
gli uomini stanno diventando invisibili a causa della loro complessità e
inconoscibilità, ma se rifletto su come, per esempio, la gente vive oggi il
rapporto con la televisione, forse qualcosa di reale nelle parole dell’autore
esiste. Egli sostiene che dare rappresentazione di sé, rendersi visibili in
qualche modo, magari occupando posizioni di riconoscimento, possa
essere l’antidoto all’invisibilità. Se fosse così, sarebbe spiegato con quanto
entusiasmo la gente partecipi a occasioni in cui rendersi visibili alla
maggior parte degli “altri”, per esempio a programmi televisivi su storie
di vita quotidiana. Ci si è convinti che l’unico modo per rendersi
conoscibili sia esporre la propria identità (o una delle nostre identità): da
qui la sovraesposizione mediatica diffusa, l’imperante desiderio di farsi
vedere, di mostrare se stessi per affermare la propria esistenza. Questo
dato di fatto contribuisce a spiegare in parte il fenomeno
dell’allargamento del fenomeno divistico: chiunque può diventare divo,
anche se per un tempo limitato, e in questo modo affermare se stesso,
uscire dall’anonimato della vita quotidiana, dall’invisibilità sociale,
appunto. I divi perdono la loro aura di irraggiungibilità perché diventano
sempre più prossimi alla gente comune, anzi, spesso coloro che
64
assurgono a tale ruolo, sono stati fino a pochi minuti prima delle persone
del tutto comuni.
Ma questo processo di allargamento del fenomeno divistico non
riguarda solo le persone normali che espongono se stesse per affermare la
propria identità. I cambiamenti nel sistema divistico avvengono anche in
funzione di nuove pratiche ad esso relative e ai personaggi che vengono
considerati divi nella società frammentata contemporanea.
Il divismo contemporaneo spazia praticamente in tutte le categorie
sociali: dal chirurgo toracico […] all’astronauta (Neil Armstrong, John
Glenn), dallo sportivo (Messner, Borg, Tyson) all’industriale (Agnelli per
l’Italia, Rockfeller per gli Usa) al “negativo” mafioso […]. Infatti non è più
il divo “universale” […] a dettare comportamenti e mode, ma sono questi
muovi divi “parziali” a uniformare per imitazione i settori professionali ed
economici che li riguardano […].86
65
alla star viene a mancare lo star system, in quanto il “divismo diffuso”,
la provenienza dei modelli dalla vita reale, e non dal mondo
cinematografico, toglie l’aura dell’irrealtà e dell’invenzione. La
moltiplicazione dei modelli è dovuta alla cultura di massa (stampa, riviste,
Tv, pubblicità) e alla sua sottocultura.88
Quando Morin sostiene la decadenza dei divi in effetti coglie una
verità innegabile: non esistono più personaggi che fanno sognare,
evadere, che vivono nelle nostre fantasie e che sembrano esistere in un
Olimpo felice al di fuori della realtà. L’epoca contemporanea forse non ne
ha nemmeno più bisogno: gli individui hanno a lungo lottato e richiesto
di poter decidere autonomamente chi essere e chi scegliere come modello
di riferimento ed ispirazione. Oggi i divi sono tutti e nessuno, sono così
tanti che possono soddisfare qualsiasi esigenza di riconoscimento
nell’uomo contemporaneo. Ogni tipo umano, ogni comportamento
sociale, anche il più comune, ha il suo rappresentante nel sistema dei divi
e così come l’individuo cambia identità continuamente per adattarsi alla
molteplicità delle situazioni che esperisce tutti i giorni, anche i divi sono
diventati miti “intercambiabili”, che si indossano e si smettono come
fossero vestiti, da adattare alle contingenze che si affrontano. Tutto
questo sarà anche triste al confronto di ciò che evocavano
nell’immaginario della gente i divi “classici”, il mistero, l’irraggiungibilità,
il fascino, ma è il prezzo che paghiamo in cambio dell’infinita libertà che
abbiamo nella società contemporanea di essere chi decidiamo di
diventare.
66
Conclusioni
67
convenzioni, di nuovi gruppi, di nuove modalità di integrazione sociale. I
divi stessi sono beni di consumo: già in passato, nell’era del divismo
“classico”, le star erano utilizzate in quanto merci, di esse venivano
venduti i prodotti che pubblicizzavano, ma anche la loro stessa vita, la
loro intimità, i loro modi di fare o di parlare, le loro pose. Morin dice che
ogni centimetro della star è merce e questa caratteristica è andata sempre
più ampliandosi. Nel “nuovo” divismo post-televisivo ogni tipo umano è
rappresentato, ognuno può ritrovare un po’ di se stesso tra i numerosi
personaggi proposti. Ogni individuo può attingere tra essi per ridefinirsi e
trasformarsi e trovare più punti di riferimento, anche se fallaci, che
rispondano al desiderio di utilizzare completamente la libertà di scegliere
chi essere. Tali bisogni sono temporanei e i divi della televisione (ma non
solo), connotati da estrema caducità, rispondono perfettamente a tale
esigenza. Di essi si vende in sostanza la loro funzionalità momentanea:
vengono sfruttati dallo star system, ma anche dagli spettatori, fino a
quando il loro motivo di esistere in quanto divi non viene esaurito.
Gli individui non rimangono mai uguali a loro stessi, evolvono ogni
giorno e lo fanno per necessità oltre che per scelta, per sopravvivere in
una realtà che ha come caratteristiche fondamentali l’incertezza, la
debolezza dei legami, la frammentarietà delle identità. In questo contesto
si può comprendere il motivo per cui i riferimenti, i modelli di imitazione
o ispirazione sono molteplici, così come lo sono le identità di un unico
individuo. Se un tempo essa era definita in base alla professione svolta,
allo status sociale, ora questo tipo di identificazione è insufficiente per
definire chi si è: il rischio, come si è visto, è che la complessità delle
persone finisca per renderle inconoscibili e quindi invisibili. In questo
senso si può spiegare il desiderio della gente di apparire, la
sovraesposizione mediatica, la proliferazione di reality show, di tv-verità,
di storie di vita quotidiana che affollano i palinsesti televisivi.
68
Nuovi divi dunque, persone comuni, soubrette televisive che durano
una o due stagioni, etc. Fra essi ho voluto inserire, quasi per
provocazione, anche una categoria di professionisti che ha fatto della
visibilità l’elemento irrinunciabile per ottenere consensi: dire che i politici
sono divi può sembrare eccessivo, ma è senz’altro corretto affermare che
negli anni la comunicazione politica si è evoluta sempre più in senso
personalistico, che ciò che si vede in televisione sono dei visi, non
ideologie, non partiti, bensì individui che divengono facce familiari per la
gente comune. Così trova forse spiegazione la crescita di attenzione per la
loro vita privata, l’abbondanza di articoli che descrivono i loro gusti
personali, la loro intimità, aspetti che esulano dalla loro attività
professionale e che appartengono al loro agire sociale. Alberoni ha
distinto fra élite del potere ed élite senza potere, differenziando così il
tipo di interesse e attenzione della gente: riguardo ai primi, essi vengono
osservati e giudicati rispetto al loro “agire di ruolo”, ossia solo in
riferimento alla loro professione; riguardo ai secondi, il giudizio si rivolge
al loro “agire in comunità”, alla loro vita personale. E’ evidente oggi che
questa distinzione ha perso parte della sua efficacia: delle personalità
politiche si sa sempre più riguardo alla loro vita privata, dei divi, che
Alberoni connotava “senza potere”, si conoscono gli orientamenti politici,
e alcuni di essi assumono posizioni istituzionali di potere. Quando
l’autore elenca delle barriere atte a scongiurare un’assunzione di potere
da parte di un divo, non poteva prevedere come sarebbe stato il contesto
odierno: di molte star oggi si conosce la fede politica e raramente si è
verificata una disaffezione della parte del pubblico di orientamento
opposto. Inoltre, alcuni divi hanno assunto ruoli di potere e hanno
dimostrato di saper svolgere il loro compito ottenendo il consenso della
gente: per citare i casi più famosi, pensiamo a Ronald Reagan, attore che
ha ottenuto la presidenza degli Stati Uniti, o ad Arnold Shwarzenegger,
che è diventato governatore della California. E se pensiamo all’Italia,
69
sono diverse le personalità politiche che hanno un passato televisivo: chi
come giornalista (per esempio Piero Marrazzo, che è stato recentemente
eletto presidente della Regione Lazio, o Lilly Gruber, che è deputato al
Parlamento Europeo) chi come showgirl (pensiamo a quanto fece parlare
l’entrata in parlamento di Gabriella Carlucci), etc. In questi e molti altri
casi, le convinzioni di Alberoni in proposito alla netta separazione fra élite
del potere ed élite senza potere vengono disattese.
Anche se con un’intensità minore, i divi di oggi continuano ad
esercitare fascino nella gente che li segue. Molti sono ancora persuasi che
la vita delle star sia totalmente diversa da quella della gente comune e in
molti casi è così. Tempo fa, interessandosi alla vita dei divi, alla loro
esistenza dissoluta e avventurosa, si esperivano situazioni che mai una
persona normale avrebbe potuto vivere. In tal modo, come si è detto, si
viveva il peccato senza il rischio della sanzione. In un certo senso questa
caratteristica del divismo si mantiene inalterata nel tempo, infatti anche
oggi ci interessiamo al loro modo di vivere, alle loro splendide case, ai
loro eccessi. Tuttavia il coinvolgimento emotivo e affettivo è decisamente
minore che in passato: siamo molto lontani da quando alcune ragazze si
suicidarono alla morte di Rodolfo Valentino. E’ raro che si instauri tra
divo e fan una relazione ad alto coinvolgimento. In riferimento alla
tabella di Tudor (p. 15), è improbabile che si verifichino episodi di
identificazione o proiezione: in un mondo in cui le relazioni sono sempre
più instabili e temporanee, prevalgono categorie psicologiche come
l’imitazione o la semplice affinità emotiva. In sostanza, è senz’altro
frequente che le persone imitino stile, modo di vestire o modi di dire di
un divo, o che, semplicemente, un certo personaggio “ci piaccia” e che ci
diverta seguire le sue vicende. E’ però quasi impossibile che possano
avere luogo fenomeni quali l’identificazione e la proiezione in riferimento
ad un personaggio reale: essi richiedono un tipo di coinvolgimento che
l’uomo contemporaneo non è più disposto a concedere e che le velocità
70
dei cambiamenti delle dinamiche sociali, dei gusti, delle mode prevalenti,
non permetterebbero.
Abbiamo così perduto personalità inimitabili, che appartengono al
passato, ma su cui lo star system hollywoodiano fece un lavoro perfetto,
tanto che ancora oggi alcuni volti o alcuni nomi sanno suscitare una
sensazione di irripetibilità. Il tempo, addirittura la loro morte, ha
aumentato questa sensazione e li ha fatti entrare nel nostro Olimpo
personale, li ha resi dei personaggi storici che ai nostri occhi hanno
contribuito a cambiare la società e i suoi modelli.
La memoria è una costante nel nostro mondo: il ricordare è diventato
una pratica fondamentale per recuperare qualcosa che si stava perdendo
e che dia riferimenti certi nell’incertezza presente. Ho ripetuto diverse
volte il concetto dell’identità-mosaico: come i miti, noi viviamo di
sedimentazione continua, di contributi diversi, non siamo entità
definitive, ma la dimostrazione più evidente della trasformazione
continua della natura. Noi siamo identità aperte, recuperiamo il passato,
lo utilizziamo per orientarci e parallelamente non vogliamo dipendere da
esso: siamo il risultato dell’irrisolvibile tensione tra il desiderio di
appartenenza e la volontà di allontanarsi dalle convenzioni, per
mantenere, almeno all’apparenza, la sensazione di avere la libertà di
auto-definirsi.
71
Bibliografia
T. Carlyle, “On heroes, hero-worship, and the heroic in history”, Londra, 1843,
trad. it. “Gli eroi: il culto degli eroi e l’eroico nella storia”, Milano, 1992
72
L. Grieveson, “Nascita del divismo”, in “Storia del cinema mondiale”, G. P.
Brunetta (a cura di), vol. 2, tomo 1, Einaudi, Torino, 1999-2000
S. Gundle, “L’età d’oro dello Star System”, in “Storia del cinema mondiale”, G.
P. Brunetta (a cura di), vol. 2, tomo 1, Einaudi, Torino, 1999-2000
E. Morin, “Les stars”, Du Seuil, Parigi, 1957, trad. it. “Le star”, Redifin-Edizioni
Olivares, Milano, copyr. 1995
73
C. Musatti, “Atti del convengo su film e integrazione psicologica nei rapporti
sociali”, Vita e pensiero, Milano, 1957
A. Tudor, “Image and influence: studies in sociology of film”, George Allen and
Uwin, Londra, 1974
74