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“L’identità è oggi come un vestito che si usa finché serve: sessuale o politica, religiosa o

nazionale è precaria come tutto della nostra vita”

Zygmunt Bauman ha l’occasione di approfondire il tema dell’identità nel 2004, con ‘’INTERVISTA
SULL’IDENTITA’”, a cura di Benedetto Vecchi, in cui il filosofo riflette sul significato di identità
contestualizzata nell’epoca della modernità liquida.
La prima cosa da svelare è la finta banalità di cui si riveste la questione dell’identità, che noi diamo per
scontata, ma che in realtà si pone in particolari circostanze, cioè quando ci viene chiesto di specificare la
nostra appartenenza o esclusione rispetto a un gruppo, oppure quando questa appartenenza ci viene negata.
Risulta cruciale, dunque, il contatto con la diversità, con l’Altro, per far fronte alla questione identitaria:
proprio il fenomeno della globalizzazione, indica Bauman, rendendo più visibile la presenza della differenza
e delle realtà alternative, ha messo in crisi la nostra persona, rendendo l’interrogarsi sulla propria identità un
momento necessario e fondamentale per l’esistenza umana.
E’ impossibile prescindere dall’Altro per la riflessione sulla propria identità, la quale “ha senso solo se tu sai
di poter essere qualcosa di diverso da ciò che sei, ha senso solo se hai una scelta e se cosa scegliere dipende
da te; ha senso, cioè, solo se tu devi fare qualcosa per consolidare e rendere << reale >> la scelta”.
Da questa breve frase di Bauman possiamo facilmente dedurre un’importante “verità” poco divulgata circa la
vera natura dell’identità: essa non è un fatto naturale, che appartiene intrinsecamente alla condizione umana,
ma si tratta piuttosto di una costruzione, un’invenzione, che entra artificiosamente a far parte della nostra
vita. Tale processo di costruzione necessita una relativa libertà di scelta.
L’identità è determinata da una molteplicità di fattori personali ed esterni e viene costruita sulla base di scelte
effettuate dai soggetti stessi. È possibile considerare l’identificarsi come “un atto di liberazione: una
liberazione delle strade tradizionali, delle autorità immutabili, delle routines preordinate e delle verità
incontestabili.”
A questo punto si possono delineare tre caratteri specifici (e imprescindibili) dell’identità, che costituiscono
anche le fondamenta del discorso teorico che questa tesi vuole affrontare: rapporto dialettico con l’Altro,
processo di costruzione, esercizio di libertà di scelta.
L’Identità dunque, segnata dal rapporto con la Differenza, si potrebbe definire come un’organizzazione
interna auto-costruita e dinamica, funzione unificatrice di più dimensioni, un sistema di tensione… ma tra
quali termini esattamente? Cos’è che “dialoga” con l’Altro al fine della costruzione identitaria?

Lo storica opposizione prevede l’Altro opposto al Sé. Fonte infinita di ricerche scientifiche, artistiche in
quanto soggetto di rappresentazione privilegiato (si pensi alla lunga storia della ritrattistica, passando per i
ritratti fotografici fino ad arrivare ai selfie odierni), problematiche filosofiche, da un punto di vista
prettamente psicologico, il Sé è la capacità mentale che rende capace un individuo di comprendere sé stesso
come un oggetto della propria attenzione e di essere consapevole di sé stesso.
Nella tradizione filosofica classica, così come nella religione è centrale e fondamentale per il discorso
ontologico su cui si fondano, il concetto di un ‘’vero Sé’’, che corrisponde all’anima intesa come nucleo
centrale e indivisibile. Il sé era riconosciuto e considerato come concetto unitario in cui esisteva un unico
nucleo centrale (il sé) da cui si sviluppava la conoscenza.
E’ fondamentale rompere con questa tradizione essenzialistica di pensiero, per adottare invece una visione
multidimensionale del Sé (e di conseguenza dell’Identità) molto più adeguata alla società contemporanea,
considerarlo nella sua pienezza in stretto rapporto dialettico con l’Altro, in una prospettiva evolutiva del
concetto di identità. Una nuova visione che non solo accetta la presenza necessaria dell’Altro ma la considera
anche parte integrante dell’identità, perché “Ciò che si pone, si oppone in quanto si distingue e niente è se
stesso senza essere altro dal resto.”
A favore di questa prospettiva si colloca il lavoro dell’antropologo Francesco Remotti pubblicato nel 1996
“CONTRO L’IDENTITA” partendo dalla “natura ‘plurale’ dell’Io” indaga il “carattere problematico della
sua identità” in modo che “questa coscienza si imponga e contribuisca a gettare una luce critica sulla
nozione stessa di identità” (Gianni Vattimo, in “L’Espresso”)

“L’alterità è presente non solo ai margini, al di là dei confini, ma nel nocciolo stesso dell’identità. Si
ammette allora che l’alterità è coessenziale non semplicemente perché è inevitabile (perché non se ne può
fare a meno), ma perché l’identità (ciò che “noi” crediamo essere la nostra identità, ciò in cui
maggiormente ci identifichiamo) è fatta anche di alterità. Si riconosce, in questo modo, che costruire
l’identità non comporta soltanto un ridurre, un tagliar via la molteplicità, un emarginare l’alterità; significa
anche un far ricorso, un utilizzare, un introdurre, un incorporare dunque (che lo si voglia o no, che lo si
dica o meno) l’alterità nei processi formativi e metabolici dell’identità.”

Tutto questo rivela il “vero” carattere molteplice e frammentario insito nell’identità, perché la pone in una
condizione in cui il contatto con ciò che è Altro la porta a diversificarsi, a cambiare, ad evolversi. La
differenza è parte costitutiva e irrinunciabile dell’identità e del suo percorso formativo.
Non è più possibile considerare una persona come un’unità compatta, solida e separata da qualunque Altro.
Considerata l’identità in rapporto con l’Altro nel suo processo di costruzione, entra adesso in campo il suo
terzo specifico: la libertà di scelta. Cosa significa considerare l’identità come esercizio di libertà?
Alterità e identità non si collocano sullo stesso piano, ma si trovano in una situazione di equilibrio instabile,
una è predominante e l’altra marginale, la prevalenza di una o dell’altra dipende dalle nostre scelte, ma la
situazione si può sempre ribaltare.

“L’identità, allora, non inerisce all’essenza di un oggetto; dipende invece dalle nostre decisioni. L’identità è
un fatto di decisioni. E se è un fatto di decisioni, occorrerà abbandonare la visione essenzialista e fissista
dell’identità, per adottarne invece una di tipo convenzionalistico. Nella prima visione (…) l’identità “c’è” e
ha soltanto bisogno di essere “scoperta”; nella seconda visione (…) non esiste l’identità, bensì esistono
modi diversi di organizzare il concetto di identità. Detto in altri termini, l’identità viene sempre, in qualche
modo, “costruita” o “inventata”

Nonostante l’identità tenda a consolidarsi e a stabilizzarsi attraverso il processo di costruzione, essa è sempre
esposta alla varietà e al cambiamento, essa rimane comunque costruita su un terreno instabile che è quello
della natura umana.
Secondo Bauman, questo processo di costruzione si sviluppa di continuo, senza giungere mai al termine:

“Si diventa consapevoli che l’appartenenza e l’identità non sono scolpite nella roccia, non sono assicurate
da una garanzia a vita, che sono in larga misura negoziabili e revocabili; e che i fattori cruciali per
entrambe sono le proprie decisioni, i passi che si intraprendono, il modo in cui si agisce e la determinazione
a tener fede a tutto ciò.”

L’identità, nella sua incompletezza e nella sua imperfezione, è quindi uno Streben, un tendere verso
qualcosa, un processo in continuo divenire. L’identità si scopre come qualcosa che và inventato piuttosto che
scoperto. Essa rivela anche tutta la sua fragilità, che le deriva da “questo status precario e perennemente
incompleto” e allo stesso tempo, la dinamicità (fluidità) rappresenta anche una grande possibilità e una
grande libertà per il soggetto.
Si può rapportare, ed è quello che azzarda questa tesi, l’identità considerata in questi termini al processo
artistico; in quanto, l’opera d’arte è caratterizzata essenzialmente dalla relazione con l’Altro (il fruitore, la
realtà) ed è anch’essa un processo di costruzione e/o un processo performativo che dipende dalle libere (o
meno) scelte dell’artista.
Questa breve riflessione sui termini specifici dell’identità ci porta finalmente a essere consapevoli della “vera
natura” dell’identità, che è tutto tranne che “naturale”, bensì “artificiale”. In questo risiede l’aspetto più
problematico della questione identitaria: sia Francesco Rametti, che Judith Butler (partendo dalle riflessioni
decostruzioniste di Michel Foucault e Jacque Derrida) hanno portato alla luce il doppio processo di
costruzione e finzione che coinvolge l’identità, svelandone il lato più problematico.
L’identità sostanzialmente è finzione, per due motivi: “in quanto è costruita e in quanto a sua volta
“occulta” le operazioni che la pongono in essere”. Viene costruita e in secondo luogo essa và a nascondere
il procedimento artificioso attraverso il quale viene creata.
L’utilizzo di termini come cultura, identità, etnia, genere, è problematico poiché dà origine a immagini
distorte della realtà. Un “uso costitutivo” dei termini/concetti è quello di rappresentare l’idea di una umanità
frammentata e divisa in categorie e di conseguenza istituire distinzioni arbitrarie, conferendo loro una
concretezza che in realtà non possiedono, si dimostra in ciò l’inconsistenza di una visione essenzialista.
Per questo motivo l’identità è un tema rilevante e cruciale per la società: non si tratta solo di una questione
antropologica, psicoanalitica o personale, ma subdolamente anche politica.

Non è un caso che la riflessione di Michel Foucault sul “potere” si coniughi alla critica del soggetto e
dell’identità. Nel 1976 Foucault pubblica “STORIA DELLA SESSUALITA’” nel quale ricostruisce una
genealogia della sessualità, indagando la relazione che esiste tra il sesso (e conseguentemente le categorie del
sesso e i ruoli di genere che vengono creati) e i dispositivi di potere, storicamente atti a normarlo. Foucault
rinviene un connubio tra il potere come dimensione repressiva e la sessualità come dimensione costruita da
questo potere, spostando, dunque, l’attenzione sull’identità sessuale (definizione ombrello che
impropriamente indica il sesso, l’orientamento sessuale e il genere).
Sapere e potere, congiuntamente, attuano un’azione di produzione scientifica e di verità assoluta sulla
sessualità, la quale diventa lo strumento principale su cui il potere può definire le sue strategie di controllo.
La sessualità, analizzata, spiegata e legittimata in maniera riduttiva, costituisce una meccanica della
repressione sociale e inaugura la categoria dell’anormalità.
In altre parole, l’istituzione delle categorie sessuali (legittime e non, vedi come si mantiene costante il
rapporto dialettico con l’Altro) portano inevitabilmente (e consapevolmente) a ingiustificabili politiche
discriminatorie in nome di una fantomatica e fantasmatica “naturalità”, che altro non è che la copertura e la
giustificazione dei meccanismi di censura attuati dal potere, con i quali ogni eventuale “devianza” viene
controllata.
In questo sistema di “biopolitica” (il termine foucaltiano di bio-potere indica l’esercizio di controllo che il
potere istituisce sul corpo arrivando, persino, a definire la relazione sociale che il soggetto intrattiene con i
suoi simili) descritto da Foucault troviamo ben indicato il punto in cui l’identità dell’individuo si incontra e
lega con la sua corporeità: la sessualità.

In quest’ottica, è chiaro che ancor più dell’identità in generale, è l’identità di genere una questione ancora più
rilevante e importante. Fondamentale per il discorso politico, ma estremamente sottovalutata, la cui
discussione viene puntualmente ostracizzata, soprattutto in Italia. In un Paese dove ancora vive e “terrorizza”
la “Teoria del gender” e dove si ospitano congressi internazionali “per affermare, celebrare e difendere la
famiglia naturale come sola unità stabile e fondamentale della società” (ovvero: per delegittimare tutte le
minoranze già discriminate e rese “irreali” “innaturali” dal potere discorsivo storico e universale) nel 2013 si
contavano soltanto 56 insegnamenti di genere, tra corsi di laurea triennali e magistrali, 12 corsi di
perfezionamento, 6 master e 4 dottorati. La sola Università di Berkeley (dove insegna Judith Butler, filosofa
post-strutturalista, il cui lavoro affronteremo nel prossimo paragrafo) offre più di 60 corsi in Gender studies
nel secondo semestre del 2013.

L’identità di genere

In una società fluida, dinamica, priva di punti di riferimento fissi e invariabili, sempre meno lineare e sempre
più sistemica e globale, fatta di cambiamenti rapidi e di scambi simultanei fra parti opposte del mondo,
l'identità non è più coerente, stabile e statica, bensì si assiste ad una sua moltiplicazione e proliferazione, così
come dei generi.
"Genere" è un termine che deriva dal latino genus, con una radice facente riferimento al “generare” e,
pertanto, ad una componente biologica. Tale parola (e il concetto che essa esprime), è mutuata dall'inglese
gender, vocabolo introdotto per la prima volta nel discorso scientifico dall'antropologa Gayle Rubin nel
1975, momento a partire dal quale ha iniziato a far parte sia del lessico accademico sia di quello comune.
Con "genere" si indicano le differenze socialmente e culturalmente costruite attorno all'identità femminile e a
quella maschile, spesso partendo dalle diversità biologiche e fisiche (in particolar modo quelle riproduttive)
prese a pretesto per fondare un'opposizione dicotomica di caratteri, predisposizioni, aspetti psicologici e
comportamentali che fondano un rapporto di potere e una gerarchia di ruoli. L'ordine di genere vigente,
continuamente imposto e tramandato, si fonda sull'eterosessualità e proprio per tale ragione si identifica
nell'opposizione di maschile e femminile, uniche due possibilità sessuali e identitarie considerate naturali e
legittime. La norma di genere (come suggerisce Judith Butler, si può parlare di eteronormatività) è
rappresentata da questo binarismo rigido e stereotipato, sebbene nella realtà umana e sociale esistano
molteplici interpretazioni dell'essere maschio e dell'essere femmina, nonché altri sessi, generi e orientamenti
sessuali, i quali, tuttavia, non rientrando nel modello regolativo, ne sono esclusi e vengono spesso
discriminati

“L'essere nel mondo degli individui è sempre un'esperienza vissuta da una posizione parziale e situata. Non
siamo genericamente individui, ma uomini, donne o persone transessuali, eterosessuali o omosessuali,
nativi/e o migranti e molto altro ancora. Siamo, dunque, un crocevia di differenze che informano la nostra
prospettiva sul mondo, ma che, allo stesso tempo purtroppo, si traducono in disuguaglianze che limitano la
possibilità di una cittadinanza piena per coloro che si collocano al di fuori o ai margini della norma. Se
l'esistenza concreta dei soggetti, infatti, ci parla di una pluralità di esperienze, i modelli culturali disponibili
per articolarle nello spazio pubblico sono tuttora estremamente normativi.”

Si tratta dell’esercizio di una biopolitica nel sistema teorizzati da Foucault.


Messo già in luce l’aspetto costruito del concetto di identità, il concetto di “identità di genere” risulta ancora
più costruito e istituzionalizzato.
La premessa teorica di questa tesi consiste nel superamento del determinismo biologico, a favore di una
visione che considera l'origine totalmente artificiale dei generi, evidenziandone il carattere performativo,
supportata soprattutto dalle ricerche e teorie di Judith Butler.
Il genere, è un fare, una pratica di vita attuata e reiterata dai singoli e dall'ambiente sociale in cui sono
inseriti, nel quale essa è regolamentata e controllata in maniera normativa restando però un’azione
performativa e contingente, per questo motivo è possibile proporre un parallelismo tra la “performance di
genere” e la “performance artistica”, considerare la prima come se fosse la seconda e analizzare la seconda
sotto il punto di vista della prima.
Il genere
«non è un'identità stabile o un luogo di agentività dal quale discendono i vari atti; al contrario, si configura
come un'identità costituitasi debolmente nel corso del tempo e istituitasi attraverso la ripetizione stilizzata
degli stessi atti.»

Non si tratta di un'essenza preesistente, bensì di un prodotto sociale:


Il genere, perciò, anche nelle sue forme più elaborate, più astratte o più stravaganti, è sempre un "risultato"
[...]. Il genere è qualcosa che si fa concretamente, e che si fa nella vita sociale; non è qualcosa che esiste
prima della vita sociale stessa, o al di fuori di essa.

Il genere, in quanto elaborato, appreso e attuato, è anche dinamico, adatto per la definizione di fluido: esso,
non avendo radice naturale bensì sociale, muta a seconda del periodo storico e in base alla cultura di
riferimento. Se il genere è un processo sociale sempre in movimento e in definizione, riconoscere il suo
carattere storico significa ammetterne anche la contingenza, cioè sapere che esso può subire delle
rielaborazioni e che, così come ha avuto un inizio, può anche avere una fine.
Se consideriamo i grandi cambiamenti che il genere ha subito nel Novecento grazie alle contestazioni e alle
teorizzazioni del femminismo, nonché dei movimenti omosessuali, transessuali e queer, e a cui è ancora
sottoposto, possiamo ipotizzare (sperare) che in futuro la categoria analitica del genere cambi volto e
conformazione oppure perda considerevolmente importanza da non essere più preso come pretesto di
discriminazione e alienazione sociale.
Il genere, formulato in base a una forte asimmetria tra i sessi, è molto utile per capire rilevamento e la
disamina delle disparità sociali, che storicamente si verificano a sfavore delle donne: le differenze fisiche
naturali tra maschio e femmina sono state tradotte in una serie di disuguaglianze sociali nel corso della storia.
Tenere conto anche della presenza (o assenza?) femminile nella società, del suo specifico contributo nelle
dinamiche sociali e delle relazioni che intercorrono tra donne e uomini moltiplica le possibilità di analisi e di
interpretazione dei fenomeni, spesso osservati nell'ottica di un unico sesso. E’ stato proprio grazie alla
riflessione femminista è emersa l'esistenza di un pregiudizio epistemologico consistente nell'adozione del
maschile in qualità di soggetto universale, con la conseguente esclusione della componente femminile dai
contesti considerati: si tratta del fallogocentrismo.
Il termine "genere" (e il concetto di identità di genere) esprime dunque il passaggio da diversità naturali a
squilibri sociali e la gerarchia presente in questi ultimi.
Tener conto del genere non significa solamente addizionare ai nostri dati un dato prima trascurato, ma
aprire una prospettiva diversa sul panorama dei dati nel suo complesso. Non si tratta di colmare un'assenza
(non solo), ma di riesaminare criticamente l'insieme.»23

Questa nuova prospettiva apre possibilità di riflessione sulle comuni strategie politiche del femminismo e su
di un (utopistico) futuro, in quanto suggerisce l'idea che il genere debba essere ridefinito e ristrutturato in
connessione con una visione di eguaglianza politica e sociale che investa non soltanto i sessi, ma anche le
classi e le razze.24
Questa revisione è fondamentale perché il genere è un aspetto basilare della società, non come ulteriore
settore al fianco degli altri, bensì come dimensione trasversale che tesse la realtà e il nostro modo di pensarla
e viverla.

Judith Butler: la performatività di genere come occasione di sovversione

Negli anni ’90 si è registrato un interesse verso la questione dell’identità e del genere, in concomitanza a una
sempre più forte rivendicazione dei diritti degli omosessuali e un rinnovato interesse teorico del
femminismo. Il periodo coincide prorio con la ri-scoperta e rivalutazione dell’attività dell’artista (che oggi
definiremmo “gender fluid”) Claude Cahun, grazie al lavoro di François Leperlier pubblicato nel 1992.
Nel 1990 Judith Butler pubblica “QUESTIONE DI GENERE. IL FEMMINISMO E LA SOVVERSIONE
DELL’IDENTITA’”, libro che ha segnato un punto di svolta del femminismo e citato come uno dei testi
fondanti della teoria queer.
Possiamo considerare Judith Butler, filosofa post-strutturalista, uno dei punti di riferimento teorici più
importanti e significativi in merito alle questioni di genere, e del pensiero contemporaneo in generale.
Fin dall'inizio di questa tesi abbiamo messo in evidenza come l’identità abbia una natura frammentata e
“fittizia” in quanto costrutto sociale e l’identità di genere, nel suo specifico sia l'elaborazione socioculturale
delle differenze fisiche di maschi e femmine, dunque la trasposizione della dualità sessuale ad un livello
culturale e sociale che rinchiude gli individui all'interno della dicotomia di sesso e di genere, obbligando chi
fuoriesce da tale schema binario a conformarvisi oppure a pagare il prezzo della discriminazione.
La questione di genere è di cruciale importanza in quanto fa da sfondo all'esistenza come dimensione
trasversale a tutte le altre. La contrapposizione del maschile e del femminile prodotta e legittimata dai diversi
contesti sociali e l'oppressione subita dalle donne, sono da tempo l'emblema della differenza e della
problematica di genere.
La realtà si caratterizza per una complessa varietà di possibilità sessuali e di genere e quanto queste siano
strabordanti rispetto alla rigida opposizione di femminile e maschile posti in relazione eterosessuale,
soprattutto se consideriamo l'attuale contesto sociale in continuo divenire. Tale dicotomia risulta palesemente
irrealistica e obsoleta, i modi di vivere l'essere uomo e l'essere donna sono molto più eterogenei di quanto
prescrivono i loro rispettivi stereotipi, anche perché al fianco e oltre a queste due possibilità identitarie ne
esistono altre, consistenti in maschi e femmine omosessuali e bisessuali, nonché in persone intersessuate e
transessuali.
La discriminazione di genere riguarda anche costoro oltre che le donne. La lotta femminile e le attuali
problematiche relative possono essere comprese in modo migliore se considerate all'interno di un ordine di
genere che emargina anche tutte quelle configurazioni non rientranti nella dicotomia sessuale eterosessista.

È oggi fondamentale, comprendere i meccanismi di genere all'interno dei contesti globali e nelle
configurazioni transnazionali, non solo per rendere visibili quali siano i problemi posti dalla parola genere,
ma per combattere le false forme di universalismo che sono al servizio di un implicito, e a volte esplicito,
imperialismo culturale. Il fatto che il femminismo abbia sempre combattuto la violenza (sessuale e non)
degli uomini nei confronti delle donne, dunque, dovrebbe oggi servire come base per un'alleanza con gli
altri movimenti, dal momento che la violenza fobica contro i corpi rappresenta il punto di unione
dell'attivismo antiomofobico, antirazzista, femminista, trans e intersessuale.546

Il pensiero di Butler, dunque, amplia il punto di vista del femminismo e della questione di genere, collocando
la problematica femminile all'interno di una dinamica che prevede l'esclusione anche di altre identità.
Il suo lavoro, ritenuto “quanto di più serio e interessante abbiamo oggi su questa faccenda spinosa” è stato
fondamentale perché tematizza alcune questioni cruciali.
Innanzitutto, sottolinea il carattere costruito e performativo del genere, in virtù del quale è possibile scorgere
l'opportunità della decostruzione e del cambiamento.
In secondo luogo, Butler mette in luce che, la rigida imposizione del binarismo (composto dal maschile e dal
femminile come uniche possibilità sessuali naturali e identità legittime) è generato dall'impostazione della
norma eterosessuale che si auto-fonda e considera naturale e legittima a propria volta.
Infine, la sua riflessione si interroga in modo concreto sulle conseguenze che tale sistema di genere ha sulla
vivibilità dell'esistenza di chi non è considerato normale, in regola e intelligibile: benché non riconosciute,
queste persone esistono e la discriminazione, per loro, non è solo l'esperienza vissuta un giorno, ma quella di
un'intera vita nella quale vengono precluse loro risorse materiali e simboliche.
Particolarmente interessanti e importanti per il lavoro di questa tesi due punti teorici strettamente legati tra
loro, esposti da Butler: la perfomatività di genere e la sovversione.

Diana Crane: l’abbigliamento alternativo come occasione di sovversione

Non è casuale la scelta della citazione che apre questo lavoro e posta a inizio capitolo, ne riassume
efficacemente il concetto principale.
La similitudine che Bauman fa dell’identità, paragonandola a un vestito, è particolarmente significativa.
L’abbigliamento riveste un ruolo importante nella costruzione sociale dell’identità, essendo uno degli
indicatori più visibili del genere e dello status sociale, e quindi utile per mantenere o sovvertire confini
simbolici.

“L’abito non ha mai un utilizzo principalmente funzionale, e certamente non è un fatto naturale”

Oltre alla fluidità e dinamicità intrinseca nel concetto di “moda”, che ben rappresenta “la società liquida” in
cui siamo immersi, anche il rapporto con l’Altro è uno specifico dell’abbigliamento, che non è solo una
scelta totalmente libera e personale, in quanto

“Gli abiti sono fatti per essere indossati nello spazio pubblico; ci vestiamo per gli altri”.

Diana Crane nel 2000 pubblica “QUESTIONI DI MODA. CLASSE, GENERE E IDENTITA’
NELL’ABBIGLIAMENTO”, 10 anni dopo che uscì il già citato e influente libro (citato anche dalla Crane
stessa) di Judith Butler. Probabilmente la citazione a Butler la si può trovare anche nel titolo, il quale ha la
stessa impostazione e ben tre parole chiave in comune.
Il lavoro di Crane si può considerare un apporto importante al lavoro di Butler dal punto di vista dei simboli
di sovversione: la studiosa offre un punto di vista nel quale l’attenzione per il fenomeno moda e la scelta
dell’abbigliamento si intrecciano con quella per le sue implicazioni sociali, attraverso “l’analisi del ruolo
sociale della moda nella realtà contemporanea, alla luce di quello che essa ha svolto negli ultimi 150 anni”.

“La moda e l’abbigliamento, come cartine tornasole, offrono indizi per discernere i legami tra struttura
sociale e cultura e per tracciare i percorsi delle culture materiali nelle società frammentate”

Allo stesso tempo, questo lavoro si rapporta pure a quello di Bauman dal punto di vista dell’analisi sociale.
Lo sfondo storico dell’analisi di Crane è infatti lo stesso di Bauman, cioè il momento del passaggio dalla
società moderna (diciannovesimo – prima metà del ventesimo secolo) alla società postindustriale (seconda
metà del ventesimo secolo – ventunesimo secolo) con la sua cultura postmoderna. Entrambi i sociologi
parlano e problematizzano la stessa società frammentata con la sua cultura complessa e multicodificata.

“La maniera in cui le persone percepiscono la struttura sociale e concettualizzano le loro identità al suo
interno è mutuata nel corso del ventesimo secolo. In questo volume io considero l’abbigliamento come un
ambito strategico per studiare i mutamenti nel significato dei prodotti culturali in relazione ai mutamenti
delle strutture sociali, nel carattere delle organizzazioni culturali e in altre forme di cultura. Gli abiti e gli
stili dell’abbigliamento alla moda sono “veicoli” di un’ampia gamma di significati ideologici, ovvero di
questioni sociologiche cruciali.”

Secondo il sociologo americano Daniel Bell, il passaggio a una società postindustriale con una cultura
mediatica postmoderna ha accresciuto le possibilità di autoespressione e diminuito i vincoli tradizionali
organizzativi, dunque le persone godono di una libertà senza precedenti di costruire nuove identità al di fuori
delle sfere economica e politica.
Fisher sostiene che la Depressione degli anni Trenta fu una crisi sia sociale che economica, che produsse
un’ansia profonda per l’identità e specialmente per l’identità di genere. A suo parere, in questo periodo le
idee dominanti di mascolinità e femminilità erano in continuo mutamento.
A favore della sua tesi, è importante considerare che, effettivamente, proprio gli anni Trenta corrispondono
all’apice della carriera della star hollywoodiana Marlene Dietrich, le cui eroine erano impegnate in una sorta
di “travestitismo”. L’attrice, infatti, simbolo di emancipazione femminile (e non solo) era solita a indossare
vestiti da uomo e soprattutto i pantaloni, non ancora sdoganati nell’abbigliamento femminile, proponendo
una nuova immagine di donna che rompeva con l’ideale del ruolo di genere che vedeva la donna passiva e
subordinata all’uomo, innocente e ingenua, la “femme enfant” idealizzata da André Breton, musa ispiratrice
del lavoro degli artisti (uomini) surrealisti.
Ritornando al giorno d’oggi, Diana Crane indica che:

“In questa realtà contemporanea i vestiti hanno gradualmente perso la loro importanza economica, ma non
quella simbolica. Infatti la moda oggi è alla portata di persone di ogni livello sociale e per questo risulta
essere più ambigua e sfaccettata in linea con la natura estremamente frammentata delle società
postindustriali contemporanee”.

Ciò che questo lavoro mette in luce è come, ingiustamente, nell’immaginario collettivo intorno al discorso
“moda” sia sempre presente un’aura di frivolezza, eccentricità, esclusività, che impedisce di valutare il
fenomeno in tutta la sua complessità.
Recentemente i sociologi hanno iniziato a comprendere che i manufatti hanno il potere di esercitare una sorta
di “azione” culturale.

“L’abito come manufatto “crea” comportamento attraverso la sua capacità di imporre identità sociali e di
mettere persone in grado di far valere identità sociali latenti, così come esso può essere vissuto come una
camicia di forza”.

Un meccanismo, questo, che ricalca perfettamente quello del genere, largamente argomentato dalla Butler,
come qualcosa di “naturalizzato” più che “naturale”, una performance a tutti gli effetti.
Per Butler (anche per Bauman e Rametti, abbiamo visto) non esiste una soggettività sostanziale, unitaria e
monolitica che esprime una natura o essenza interiore, piuttosto è possibile parlare di soggetto performativo.
I soggetti vengono percepiti come ontologicamente fondati e dati, ma in realtà essi sono l'esito, e non
l'origine, di una costruzione performativa che passa attraverso le azioni, il linguaggio, i significati conferiti,
in modo che emerga l'apparente naturalità ed essenzialità dell'Io.
Viene dunque negata l'origine biologica della diversità: il genere è fabbricato mediante una stratificazione e
un consolidamento di significati e simboli, tra cui i capi di abbigliamento.

Il genere, è dunque, una costruzione che regolarmente occulta la propria genesi; il tacito accordo collettivo,
che riguarda la performance, la produzione e il mantenimento di generi distinti e polarizzati quali finzioni
culturali, è oscurato dalla credibilità di tali produzioni, e dalle punizioni che conseguono se non si
acconsente a crederci; la costruzione ci «impone» di credere nella sua necessità e naturalità.555

In questo senso, Butler si accorda con le parole di Simone de Beauvoir quando afferma che «donna non si
nasce, lo si diventa», mettendo in evidenza il carattere performativo del genere.
Dal momento che il genere è performativo esso non può essere posto e interpretato all'interno di una
dinamica che ragiona separando ciò che è vero da ciò che è falso, anche la sola distinzione non ha ragion
d'essere. Allora, se l'originale non esiste, non esiste nemmeno la copia: non ci sono generi veri o falsi,
autentici o distorti.

Il fatto che la realtà di genere sia creata attraverso performance sociali accettate culturalmente significa
che anche le nozioni stesse di un sesso essenziale e di una mascolinità o femminilità vera o costante sono
costruite come parte della strategia che occulta il carattere performativo del genere e le possibilità
performative di far proliferare configurazioni di genere al di fuori delle cornici restrittive del dominio
maschilista e dell'eterosessualità obbligatoria. I generi non possono essere né veri né falsi, né reali né
apparenti, né originali né derivati.611

Eppure, nonostante ciò, si è costretti a vivere in una società in cui le possibilità di genere sono soltanto due e
vengono presentate come sostanziali, stabili, univoche e polarizzate, nonché vere.

Il genere, in effetti, viene costruito in ossequio ad un certo regime di verità e di falsità che non solo
contraddice la sua stessa fluidità performativa, ma è asservito a una politica sociale di regolamentazione e
di controllo di genere. Performare un genere in modo errato dà inizio a una serie di punizioni, sia aperte
che subdole, mentre performarlo in modo corretto conferma il fatto che vi sia, dopotutto, un essenzialismo
dell'identità di genere. Che questa certezza lasci spesso posto a uno stato d'ansia, che la cultura punisca o
marginalizzi prontamente chi fallisce nel performare l'illusione di un essenzialismo di genere, dovrebbe
essere un segno abbastanza chiaro del fatto che la verità o la falsità del genere sono mere coercizioni
sociali, in nessun modo necessariamente a livello ontologico.612

La teoria di performatività di genere implica un ruolo importantissimo della moda nel fornire l’occorrente
per commentare, parodiare e destabilizzare le identità di genere, senza necessariamente attenuare i vincoli
sociali imposti dal genere.
Da parte di molte studiose femministe, però, lo studio della moda è stato snobbato e criticato in quanto da
loro considerato una forma di dominio maschile e capitalista.
Proprio Simone de Beauvoir giocò un ruolo fondamentale nella formulazione di una visione femminista della
moda. Alla fine degli anni sessanta e negli anni settanta le femministe si opposero risolutamente alla moda.
Diversamente dalle donne che le avevano precedute, esse furono più critiche verso i discorsi di
manipolazione della femminilità impliciti negli stili di abbigliamento, che verso gli abiti in sé.
Crane però fa notare come tali critiche manchino di riconoscere il fatto che “uomini e le donne possono
usare i più indegni frammenti della cultura capitalista proprio per criticare e superare tale cultura”
Anche questo ci rimanda alle teorie della Butler, cioè all’atto della sovversione (delle identità di genere) che
per essere tale deve inevitabilmente provenire dall’interno della “norma”.
Dato che il genere non esprime un’essenza preesistente, non esiste un prima che si sottrae alla presa delle
regole discorsive in atto: l'abietto, il diverso e il discriminato, l’Altro (come nel caso dell’identità in
generale) sono tutte edificazioni dello stesso impianto di genere predominante. Chi è ritenuto estraneo alla
norma è definito in relazione ad essa, la sovversione si colloca dentro al sistema stesso.
L’eteronormatività produce il diverso e il discriminato realizzandosi in rapporto ad essi:

“La matrice esclusiva attraverso la quale si formano i soggetti richiede, dunque, la produzione simultanea
di un ambito di esseri abietti, coloro che non sono ancora "soggetti" e che costituiscono il confine esterno
all'ambito del soggetto”.

Indicando che “La costruzione non è in opposizione alla capacità di agire; è la scena necessaria della
capacità di agire” e il compito dunque è quello “di forgiare un futuro a partire da materie prime
inevitabilmente impure”.
Il meccanismo della sovversione sta proprio nella sua "natura" performata ed elaborata: se la norma di genere
è il prodotto di una perpetua ripetizione di atti che tenta di stabilizzarsi nel corso del tempo, l'identità di
genere non riuscirà mai a determinarsi una volta per tutte e rimanendo sempre esposta al fallimento, al
cambiamento e diverse interpretazioni.
L’identità di genere viene costruita da atti continuamente reiterati che cercano di avvicinarsi il più possibile a
un ideale di genere e di rappresentarne la sostanziale essenza ma che:

«Nella loro occasionale discontinuità, rivelano l'infondatezza temporale e contingente di questo


"fondamento". Così, le possibilità di una trasformazione del genere vanno rinvenute proprio nella relazione
arbitraria tra questi atti, nella possibilità di un fallimento nella ripetizione, une de-formità o una ripetizione
parodica che mette in evidenza l'effetto fantasmatico dell'identità costante quale costruzione politicamente
labile.621”

Il soggetto e la sua azione emergono nel processo performativo sociale e di genere, anche quando sono
considerati abietti, allora la possibilità di sovversione va rinvenuta all'interno di questo stesso sistema
produttivo, come un atto che è paradossalmente consentito dal carattere fluido e plasmabile del genere,
condizione dell’azione differente:

«La riconcettualizzazione dell'identità come effetto, cioè come qualcosa di prodotto o generato, apre la
possibilità di "azione" [agency] che sono insidiosamente escluse da posizioni che considerano le categorie
dell'identità come fondative o fisse.»638

In questo ambito, l’abbigliamento gioca un ruolo importante nel sostenere la visibilità di discorsi alternativi
sui ruoli di genere e come mezzo per azioni sovversive.
La psicologa femminista Nancy Henley spiega che questo accade “poiché il genere è il fattore principale che
determina il modo in cui le persone si relazionano reciprocamente”, dunque l’ambiguità di genere o
qualsiasi cosa che devi un’immediata riconoscibilità dell’identità, “risulta essere per molti altamente
disturbante.”
Per spiegare la costruzione dell’identità e la resistenza all’egemonia attraverso l’abbigliamento è necessaria
un’interpretazione di come gli abiti esprimano significato.

“Il vestiario, come forma di comunicazione visiva non verbale, è un mezzo potente per fare affermazioni
sociali sovversive, poiché quest’ultime non sono necessariamente costruite o recepite a un livello conscio o
razionale.”

Un esempio di questa sovversione dal punto di vista della moda, è rappresentato da quello che Diana Crane
identifica come “stile alternativo” di un gruppo “marginale” di donne che contraddicevano il ruolo ideale di
genere (lavoratrici, nubili, indipendenti dagli uomini) dei primi anni del ventesimo secolo.
Questo stile rappresenta un campo prezioso per esaminare le relazioni tra i discorsi egemonici e i discorsi
marginali, in quanto si discosta enormemente dalla moda “ufficiale” del tempo, proveniente dalla Francia,
tuttavia è stato di rado analizzato e preso in considerazione nei manuali di storia della moda.
Questo abbigliamento rappresentava (consciamente o inconsciamente) una forma di resistenza non verbale e
consisteva nel combinare degli elementi tipici dell’abbigliamento maschile (cravatta, cappello, giacca,
camicia) invariabilmente con capi di abbigliamento femminile.
Nettamente differente dal travestitismo, questo stile costituiva una sorta di rovesciamento simbolico del
messaggio dominante del vestiario femminile.

“Attraverso un processo di rovesciamento simbolico, ai capi associati al vestiario maschile, venivano dati
nuovi significati, soprattutto quello dell’indipendenza femminile, che sfidavano i confini di genere.”

Lo stile alternativo, relativamente poco costoso e non difficile da imitare (a differenza del travestitismo), era
trasversale ai confini di classe.

“Questo stile illustra il processo che precede e accompagna il mutamento sociale, per mezzo del quale i
significati dei simboli gradualmente si adattano al cambiamento delle definizioni dei ruoli e delle strutture
sociali”.

L’abbigliamento alternativo costituì un elemento importante nel determinare cambiamenti di atteggiamento,


che erano il presupposto indispensabile per i mutamenti strutturali.
La storia dello stile alternativo del diciannovesimo secolo lascia pensare che i discorsi dominanti riguardo al
genere non si affermano completamente attraverso la comunicazione verbale; ma la comunicazione non
verbale che implica rovesciamenti simbolici gioca un ruolo ancora più importante, perché influisce sulla
gente sia consciamente, sia inconsciamente.

Dopo la prima guerra mondiale emerse un nuovo tipo di stile alternativo associato con le subculture lesbiche
di New York, Londra, Parigi, che però non trovò larga adesione al di fuori di questi circoli. Invece di
combinare alcuni capi di abbigliamento maschile con quelli femminili, questo stile era molto più vicino al
travestitismo. Per via dell’aspetto “teatrale” e il totale cross-dressing caratteristici di questo stile, esso risulta
rapportabile allo stile dei costumi di Leonor Fini e Claude Cahun, che analizzeremo nel xy capitolo.

Dall’analisi di Diane Crane, risulta che in genere, sono coloro che appartengono a minoranze, basate sulla
razza, sull’etnia o sull’orientamento sessuale a usare gli stili come mezzo per esprimere la loro identità e
resistenza alla cultura dominante. L’espressione di simboli non verbali tramite l’abbigliamento era un mezzo
per sfidare un’ideologia di genere repressiva.
La minoranza gay, come quella afroamericana, è una fonte importante di innovazioni stilistiche per
apparenze costruite in modo da esprimere la propria identità. I loro appartenenti mettevano in discussione le
definizioni esistenti di mascolinità e femminilità, e facevano esperimenti con le identità e gli stili di vita di
genere.
Il fascino della moda consiste nei modi in cui essa continuamente ridefinisce le tensioni sociali e personali e
le traduce in nuovi stili.
Secondo Thomposn e Haytko i consumatori utilizzano

“i discorsi della moda per forgiare distinzioni e confini sociali che li autodefiniscono, per costruire
narrazioni di storie personali, per interpretare le dinamiche interpersonali delle loro sfere sociali, per
capire il loro rapporto con la cultura del consumo e per trasformare e… contestare categorie sociali
convenzionali, in particolare quelle con forti associazioni di genere.”

Se si ripensa al diciannovesimo secolo, quando in mancanza di altre forme di potere, le donne, vittime
“privilegiate” dell’oppressione di genere, hanno saputo utilizzare l’abbigliamento dello stile alternativo come
(unico) simbolo non verbale e mezzo di auto-espressione e resistenza alla cultura dominante, si può riflettere
sull’enorme forza che risiede nell’abbigliamento e nella moda, che soprattutto per le donne è stata e lo è
tuttora, una forma importante di cultura mediatica.

La performatività di genere e la sovversione dell’identità che costituiscono le teorie fondamentali (e il


contributo più importante) del pensiero di Judith Butler, nonché quelle da cui si muove questa tesi, risultano
particolarmente adatte e per una riflessione sulla moda e sull’abbigliamento come sistema mediatico e forma
di espressione personale.

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