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Cos’è la felicità?
E’ una domanda che ci poniamo in molti, ma la cui risposta ci è difficile da stabilire.
In questo nostro percorso attraverso l’incontro con Leopardi ci siamo soffermati sul
capire la condizione di felicità, dove la si possa trovare e se effettivamente si riesca a
raggiungerla.
Grazie a Leopardi ci siamo avventurati nel suo mondo, racchiuso fisicamente tra le
mura della sua casa nella piccola cittadina di Recanati, ma che in sostanza va ben oltre
la cara e vecchia siepe, simbolo dell’impavido desiderio di emergere verso l’infinito.
Ci siamo resi conto di come Leopardi non sia in realtà il pessimista di cui tanto si
sente parlare, ma bensì un uomo dall’inappagabile desiderio di vita e di esperienze.
In Leopardi abbiamo visto una luce in una costante sete di sapere frutto dell’enorme
ricchezza che ci ha lasciato.
L’AMICO LEOPARDI...
La maggior parte dei critici definiscono Leopardi come un pessimista, ma cosa c’è di
davvero pessimista in lui?
Un pessimista penserebbe che il suicidio sia la via più facile per terminare tutte le
sofferenze che la vita impone e qui abbiamo ricordato il caro Baudelaire che per
uscire dallo “Spleen” della sua vita tenta questo drammatico gesto.
Leopardi, invece, aveva un’idea precisa del suicidio, che per quanto possa fermare le
sofferenze, è “la cosa più mostruosa in natura”(1) e non ci appartiene.
La natura stessa, a cui non importa delle condizioni dell’uomo, ci ha donato
l’immaginazione, per crearci illusioni.
Ma ricordiamo infatti che al suo caro amico suicida Leopardi disse di pensare ai suoi
cari, all’affetto di Leopardi per lui e all’amore che lo aspettava, per uscire da quel
limbo di angoscia e disperazione.
Parlando di suicidio ricordiamo di Lepardi l’operetta morale “Dialogo di Plotino e
Porfirio” nella quale per l’appunto ricorre questo tema.
Il Dialogo, scritto nel 1827, propone un’immaginaria conversazione tra l’antico
filosofo neo-platonico Plotino e il suo discepolo Porfirio sui temi della vanità ed
inutilità della vita e della sconvenienza del suicidio.
Nella prima parte del dialogo Porfirio contesta il pensiero religioso contro il suicidio
sostenendo che la paura di un possibile aldilà non è necessaria ne per i cattivi che in
ogni caso restano tali,ne per i buoni, ma non è altro che un’inganno.
Infatti gli uomini, per paura delle pene che potrebbero subire dopo la morte, decidono
di non commettere quel gesto che li libererebbe dai male che avvertono.
È vero, infatti, che ogni essere vivente tende alla propria conservazione, ma è
altrettanto vero che ,sopratutto l’uomo, ricerca soprattutto la felicità.
L’uomo dunque non teme la morte in sé ma il dolore e il male e dato che essa è
l’unico modo per sfuggire all’infelicità e alla sofferenza, sarebbe profondamente
ingiusto che la ragione, che ci mostra questa come unica via di fuga, ci impedisse di
percorrerla.
Inoltre, se è lecito all’uomo vivere contro natura, come continuamente fa, perché non
dovrebbe essere lecito morire contro natura?
“E perché anche non vorremo noi avere alcuna considerazione degli amici; dei
congiunti di sangue; dei figliuoli, dei fratelli, dei genitori, della moglie; delle persone
familiari e domestiche, colle quali siamo usati di vivere da gran tempo; che, morendo,
bisogna lasciare per sempre: e non sentiremo in cuor nostro dolore alcuno di questa
separazione; né terremo conto di quello che sentiranno essi, e per la perdita di
persona cara o consueta, e per l’atrocità del caso? ” (2)
Plotino sostiene che può essere ragionevole togliersi la vita per le argomentazioni
riportate da Porfirio, ma è inumano e crudele, perché la morte ci separa da chi
amiamo e da chi ci ama, e questo è ulteriore fonte di dolore.
La ragione deve aiutarci nell’ affrontare le situazioni difficili e dolorose e non invece
per ignorare il dolore che produrremmo, uccidendoci, negli amici, nei parenti e in tutti
coloro che ci sono vicini.
Chi si uccide fa una scelta egoista, perché non pensa solo a se stesso.
Piuttosto che abbandonare gli amici, è meglio aiutarli a sopportare la vita, accettando
quella parte di male che il destino ci assegna.
Quando verrà la morte gli amici ci conforteranno e dopo che saremo morti ci
ricorderanno e ameranno ancora.
UN DIARIO DI PENSIERI
Alla luce di queste considerazioni siamo partiti dal suo diario personale, lo Zibaldone,
in cui descrive appunto il suo sentire, la varietà dei suoi interessi e delle sue
riflessioni.
Partendo dalla teoria del piacere Leopardi identifica la felicità nel piacere
descrivendola come un tutt’uno con esso. “la felicità, considerandola bene, è tutt’uno
col piacere”(5)
Il piacere dal punto di vista leopardiano non è altro che un desiderio infinito e
irrealizzabile a cui, ciò nonostante, l’uomo tende, attirato da un vana consolazione di
speranza e illusione.
Da questo punto di vista si percepisce la vicinanza di Leopardi con il filosofo
Schopenahuer secondo il quale “La vita oscilla come un pendolo tra il dolore e la
noia”(6), a considerazione del fatto che l’uomo ricerca il piacere all’infinito nella sua
esistenza ma non raggiunge mai la piena soddisfazione di sé.
Il sentimento della nullità di tutte le cose, la insufficienza di tutti i piaceri a riempirci
l’anima e la tendenza verso un’infinito che non comprendiamo,forse proviene da una
ragione più materiale che spirituale.
L’anima umana mira sempre, anche se sotto vari aspetti al piacere e questo desiderio
non ha limiti,perciò non può avere fine in questo o in quell’altro piacere ma termina
solo con l’esitenza,dunque l’uomo non esisterebbe senza questo continuo desiderio.
Nessun piacere è mai eterno e nessun piacere è immenso ma ogni cosa che esiste in
natura è finita. Leopardi dice infatti che data appunto l’impossibilità che un piacere
sia infinito,anche fosse un piacere che avete provato una volta e che vi ha
condizionato la vita,non per questo l’animo umano sarebbe “pago”,ovvero
pienamente soddisfatto.
Leopardi afferma che la somma felicità possibile nel mondo si realizza quando
l’uomo vive “quietamente nel suo stato con una speranza riposata e certa di un
avvenire molto migliore”(7), chiamando così in causa il concetto a lui molto caro di
speranza. In seguito aggiunge che “la vita continuamente occupata è la più felice,
quando anche non sieno occupazioni e sensazioni vive e varie”(8), anche perché
queste svariate attività servono a distrarre l’uomo dal cercare continuamente la felicità
ed il piacere.
In un breve riepilogo del nostro percorso, Leopardi, a noi caro, ci ha insegnato che
non sempre la vita va come ci sia aspetta.
Spesso chi immagina Leopardi, ha in testa l’immagine di un uomo depresso e senza
speranza, affogato in un pessimismo cosmico.
Ma cosa c’è quindi di davvero pessimista in lui?
Di un Leopardi che, negli ultimi anni di vita, sorride delle sue sventure?
Se fosse stato davvero pessimista, non avrebbe di certo avuto l’idea di un manualetto
sulla felicità, dedicato all’uomo.
Di Leopardi non sentiamo il pessimismo, sentiamo il bisogno costante di trovare una
verità, di dare un senso a quello che ci circonda, una profonda aspirazione alla felicità,
che purtroppo non gli appartiene.
In leopardi abbiamo visto speranza, e ricordiamo Eugenio Montale, anch’egli a noi
caro.
Ciò che li lega è la costante ricerca di una felicità quasi irraggiungibile, il non perdersi
d’animo mai, quello che ci hanno insegnato questi due grandi poeti.
Se ne “I limoni” si sente la speranza riaffiorare nel cuore di Montale, in Leopardi
quella speranza si trova in quasi tutte le poesie.
Entrambi i poeti ci hanno trasportate in un viaggio di speranza senza fine.
Leopardi ci ha insegnato che la vera felicità non sta nel materiale, che l’uomo si
abitua alle cose che ottiene e se ne annoia...
Questa felicità non esiste nella realtà, ma solo nell’immaginazione. La felicità la si
trova nella speranza di attendere un futuro migliore e nell’essere costantemente
indaffarati, in modo da non cercarla per poi non rimanere delusi, producendo un
effetto contrario a quello desiderato.
Ma solo più tardi, Leopardi cominciò a parlare di una felicità che non è altro “che
contentezza del proprio essere e del proprio modo di essere, soddisfazione, amore
perfetto del proprio stato, qualunque del resto esso stato si sia, e fosse anco il più
spregevole”(12)
In queste poche parole, troviamo un Leopardi che ama se stesso, la felicità è proprio
questa, riuscire ad accettarsi e amarsi.
1
BIBLIOGRAFIA