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GIACOMO LEOPARDI

“LA FELICITA’, CONSIDERANDOLA BENE, E’ UN’TUTT’UNO CON


L’IMMAGINAZIONE”

Cos’è la felicità?
E’ una domanda che ci poniamo in molti, ma la cui risposta ci è difficile da stabilire.
In questo nostro percorso attraverso l’incontro con Leopardi ci siamo soffermati sul
capire la condizione di felicità, dove la si possa trovare e se effettivamente si riesca a
raggiungerla.
Grazie a Leopardi ci siamo avventurati nel suo mondo, racchiuso fisicamente tra le
mura della sua casa nella piccola cittadina di Recanati, ma che in sostanza va ben oltre
la cara e vecchia siepe, simbolo dell’impavido desiderio di emergere verso l’infinito.
Ci siamo resi conto di come Leopardi non sia in realtà il pessimista di cui tanto si
sente parlare, ma bensì un uomo dall’inappagabile desiderio di vita e di esperienze.
In Leopardi abbiamo visto una luce in una costante sete di sapere frutto dell’enorme
ricchezza che ci ha lasciato.

L’AMICO LEOPARDI...
La maggior parte dei critici definiscono Leopardi come un pessimista, ma cosa c’è di
davvero pessimista in lui?
Un pessimista penserebbe che il suicidio sia la via più facile per terminare tutte le
sofferenze che la vita impone e qui abbiamo ricordato il caro Baudelaire che per
uscire dallo “Spleen” della sua vita tenta questo drammatico gesto.
Leopardi, invece, aveva un’idea precisa del suicidio, che per quanto possa fermare le
sofferenze, è “la cosa più mostruosa in natura”(1) e non ci appartiene.
La natura stessa, a cui non importa delle condizioni dell’uomo, ci ha donato
l’immaginazione, per crearci illusioni.
Ma ricordiamo infatti che al suo caro amico suicida Leopardi disse di pensare ai suoi
cari, all’affetto di Leopardi per lui e all’amore che lo aspettava, per uscire da quel
limbo di angoscia e disperazione.
Parlando di suicidio ricordiamo di Lepardi l’operetta morale “Dialogo di Plotino e
Porfirio” nella quale per l’appunto ricorre questo tema.
Il Dialogo, scritto nel 1827, propone un’immaginaria conversazione tra l’antico
filosofo neo-platonico Plotino e il suo discepolo Porfirio sui temi della vanità ed
inutilità della vita e della sconvenienza del suicidio.

Nell’operetta Plotino cerca di dissuadere Porfirio dal togliersi la vita ma si rende


presto conto della difficoltà di trovare argomenti significativi per convincere l’amico
a cambiare il suo pensiero.

Nella prima parte del dialogo Porfirio contesta il pensiero religioso contro il suicidio
sostenendo che la paura di un possibile aldilà non è necessaria ne per i cattivi che in
ogni caso restano tali,ne per i buoni, ma non è altro che un’inganno.

Infatti gli uomini, per paura delle pene che potrebbero subire dopo la morte, decidono
di non commettere quel gesto che li libererebbe dai male che avvertono.

Inoltre, Porfirio afferma che il suicidio non è neppure contro natura.

È vero, infatti, che ogni essere vivente tende alla propria conservazione, ma è
altrettanto vero che ,sopratutto l’uomo, ricerca soprattutto la felicità.

L’uomo dunque non teme la morte in sé ma il dolore e il male e dato che essa è
l’unico modo per sfuggire all’infelicità e alla sofferenza, sarebbe profondamente
ingiusto che la ragione, che ci mostra questa come unica via di fuga, ci impedisse di
percorrerla. 

Inoltre, se è lecito all’uomo vivere contro natura, come continuamente fa, perché non
dovrebbe essere lecito morire contro natura?

Plotino nonostante cerchi di convincere Porfirio di non tentare questo gesto,riconosce


i motivi che lo hanno portato ad avere questo pensiero ma tenta ancora di persuadere
l’amico.

“E perché anche non vorremo noi avere alcuna considerazione degli amici; dei
congiunti di sangue; dei figliuoli, dei fratelli, dei genitori, della moglie; delle persone
familiari e domestiche, colle quali siamo usati di vivere da gran tempo; che, morendo,
bisogna lasciare per sempre: e non sentiremo in cuor nostro dolore alcuno di questa
separazione; né terremo conto di quello che sentiranno essi, e per la perdita di
persona cara o consueta, e per l’atrocità del caso? ” (2)

Plotino sostiene che può essere ragionevole togliersi la vita per le argomentazioni
riportate da Porfirio, ma è inumano e crudele, perché la morte ci separa da chi
amiamo e da chi ci ama, e questo è ulteriore fonte di dolore.

La ragione deve aiutarci nell’ affrontare le situazioni difficili e dolorose e non invece
per ignorare il dolore che produrremmo, uccidendoci, negli amici, nei parenti e in tutti
coloro che ci sono vicini.

Chi si uccide fa una scelta egoista, perché non pensa solo a se stesso.

I dolori della vita si possono sopportare e vale la pena di preoccuparsene troppo, né


per conservarla né per lasciarla.

Piuttosto che abbandonare gli amici, è meglio aiutarli a sopportare la vita, accettando
quella parte di male che il destino ci assegna.

Dobbiamo vivere e confortarci a vicenda, aiutandoci scambievolmente per “compiere


questa fatica della vita”(3).

Quando verrà la morte gli amici ci conforteranno e dopo che saremo morti ci
ricorderanno e ameranno ancora. 

“Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella


parte che il destino ci ha stabilita, dei mali della nostra specie. Si bene attendiamo a
tenerci compagnia l’un l’altro; e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso
scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita”.(4)

Noi non vediamo il pessimismo in Leopardi ma l’aspirazione verso quella felicità


illusoria per cui gli uomini nutrono speranza.
Fu caro a Leopardi il tema della “rimembranza”, ovvero il ricordo dei tempi passati, la
giovinezza perduta in uno “studio matto e disperatissimo”, ma il cui ricordo è grato di
ricordare Anche in “A Silvia”, abbiamo un ricordo felice di lei e del suo canto che si
trasforma in tristezza non appena inizia a parlare della sua morte.

UN DIARIO DI PENSIERI
Alla luce di queste considerazioni siamo partiti dal suo diario personale, lo Zibaldone,
in cui descrive appunto il suo sentire, la varietà dei suoi interessi e delle sue
riflessioni.
Partendo dalla teoria del piacere Leopardi identifica la felicità nel piacere
descrivendola come un tutt’uno con esso. “la felicità, considerandola bene, è tutt’uno
col piacere”(5)
Il piacere dal punto di vista leopardiano non è altro che un desiderio infinito e
irrealizzabile a cui, ciò nonostante, l’uomo tende, attirato da un vana consolazione di
speranza e illusione.
Da questo punto di vista si percepisce la vicinanza di Leopardi con il filosofo
Schopenahuer secondo il quale “La vita oscilla come un pendolo tra il dolore e la
noia”(6), a considerazione del fatto che l’uomo ricerca il piacere all’infinito nella sua
esistenza ma non raggiunge mai la piena soddisfazione di sé.
Il sentimento della nullità di tutte le cose, la insufficienza di tutti i piaceri a riempirci
l’anima e la tendenza verso un’infinito che non comprendiamo,forse proviene da una
ragione più materiale che spirituale.
L’anima umana mira sempre, anche se sotto vari aspetti al piacere e questo desiderio
non ha limiti,perciò non può avere fine in questo o in quell’altro piacere ma termina
solo con l’esitenza,dunque l’uomo non esisterebbe senza questo continuo desiderio.
Nessun piacere è mai eterno e nessun piacere è immenso ma ogni cosa che esiste in
natura è finita. Leopardi dice infatti che data appunto l’impossibilità che un piacere
sia infinito,anche fosse un piacere che avete provato una volta e che vi ha
condizionato la vita,non per questo l’animo umano sarebbe “pago”,ovvero
pienamente soddisfatto.
Leopardi afferma che la somma felicità possibile nel mondo si realizza quando
l’uomo vive “quietamente nel suo stato con una speranza riposata e certa di un
avvenire molto migliore”(7), chiamando così in causa il concetto a lui molto caro di
speranza. In seguito aggiunge che “la vita continuamente occupata è la più felice,
quando anche non sieno occupazioni e sensazioni vive e varie”(8), anche perché
queste svariate attività servono a distrarre l’uomo dal cercare continuamente la felicità
ed il piacere.

CHE POSTO HA L’UOMO NEL MONDO?


In questo ambito ci siamo cimentate nell’analizzare il pensiero di Leopardi riguardo
alla natura riferendoci all’operetta morale ”Il Dialogo della Natura e di un
Islanlandese”.
La Natura, immaginata da Leopardi, è un essere gigantesco da cui il povero islandese
fugge in giro per il mondo tentando di non incontrarla.
Ma giunto in Africa eccola lì, una grande madre ostile che confessa di non aver
bisogno dell’esistenza dell’uomo per sopravvivere e che l’uomo non è altro che un
abitante di questo mondo.
Leopardi insieme all’amico islandese ci comunica la condizione dell’uomo sempre in
cerca di qualcosa che chiama piacere o felicità, una ricerca infinita e sofferente e che
provoca in lui ansie e paure di non essere al massimo dei suoi obiettivi.
E anche qui Leopardi ci mostra il concetto di speranza, quella speranza a cui gli
uomini alludono e di cui, nel contempo, si illudono fino a che, sovrastati dalla ragione
e dalla scienza, abbandonano la loro ricerca del piacere.
Ma la ragione è sempre frutto di verità?
Possiamo noi riuscire ad essere veramente felici se diamo retta alla nostra ragione? O
a volte è necessario abbandonarla e dedicarci esclusivamente ai sogni e
all’immaginazione?
A tal proposito Leopardi ci ha voluto insegnare come in realtà la nostra
immaginazione possa andare oltre la semplice e pure verità.
Abbiamo preso spunto dalla sua celebre poesia “L’Infinito”.
In questo testo in base alle nostre considerazioni Leopardi vuole comunicarci molto di
più di quello che è.
Leopardi descrive il suo IO che viaggia verso l’infinito e noi questo IO l’abbiamo
interamente immaginato.
Leopardi si trova a Recanati, seduto davanti a una siepe che lo separa dalla realtà che
vorrebbe conoscere, esplorare ma, ciò nonostante, questa siepe e questo colle gli sono
cari contemplati a lungo fin dai primi anni della sua vita.
Leopardi non vede, non sa cosa c’è aldilà della siepe ma lo immagina “quelli
interminati spazi”(9) e quei “sovrumani silenzi”(10) e la “profondissima quiete”(11)
sembrano così vicine e vive.
Leopardi si immerge nel suo pensiero, rendendolo vivo.

Sempre caro mi fu quest'ermo colle,


E questa siepe, che da tanta parte
Dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s'annega il pensier mio:
E il naufragar m'è dolce in questo mare

Leopardi si incammina in uno spazio immaginario perdendosi in quella immensità che


è in grado solo l’anima umana di percepire.

In un breve riepilogo del nostro percorso, Leopardi, a noi caro, ci ha insegnato che
non sempre la vita va come ci sia aspetta.
Spesso chi immagina Leopardi, ha in testa l’immagine di un uomo depresso e senza
speranza, affogato in un pessimismo cosmico.
Ma cosa c’è quindi di davvero pessimista in lui?
Di un Leopardi che, negli ultimi anni di vita, sorride delle sue sventure?
Se fosse stato davvero pessimista, non avrebbe di certo avuto l’idea di un manualetto
sulla felicità, dedicato all’uomo.
Di Leopardi non sentiamo il pessimismo, sentiamo il bisogno costante di trovare una
verità, di dare un senso a quello che ci circonda, una profonda aspirazione alla felicità,
che purtroppo non gli appartiene.
In leopardi abbiamo visto speranza, e ricordiamo Eugenio Montale, anch’egli a noi
caro.
Ciò che li lega è la costante ricerca di una felicità quasi irraggiungibile, il non perdersi
d’animo mai, quello che ci hanno insegnato questi due grandi poeti.
Se ne “I limoni” si sente la speranza riaffiorare nel cuore di Montale, in Leopardi
quella speranza si trova in quasi tutte le poesie.
Entrambi i poeti ci hanno trasportate in un viaggio di speranza senza fine.
Leopardi ci ha insegnato che la vera felicità non sta nel materiale, che l’uomo si
abitua alle cose che ottiene e se ne annoia...
Questa felicità non esiste nella realtà, ma solo nell’immaginazione. La felicità la si
trova nella speranza di attendere un futuro migliore e nell’essere costantemente
indaffarati, in modo da non cercarla per poi non rimanere delusi, producendo un
effetto contrario a quello desiderato.
Ma solo più tardi, Leopardi cominciò a parlare di una felicità che non è altro “che
contentezza del proprio essere e del proprio modo di essere, soddisfazione, amore
perfetto del proprio stato, qualunque del resto esso stato si sia, e fosse anco il più
spregevole”(12)
In queste poche parole, troviamo un Leopardi che ama se stesso, la felicità è proprio
questa, riuscire ad accettarsi e amarsi.

Nulla di più saggio.

Leopardi ci ha insegnato ad amarci e noi gliene siamo grate!

(1) Operette morali, Frammento sul suicidio,(1827)


(2) Operette morali,Dialogo di Plotino e Porfirio,(1827)
(3)https://it.wikisource.org/wiki/Pagina:Leopardi_-
_Operette_morali,_Gentile,_1918.djvu/346
(4) Operette morali,Dialogo di Plotino e Porfirio,(1827)
(5) https://it.wikisource.org/wiki/Pagina:Zibaldone_di_pensieri_I.djvu/300
(6) Aforisma tratto dall’opera “Il mondo come volontà e rappresentazione” di
Schopenhauer
(7) https://it.wikisource.org/wiki/Pagina:Zibaldone_di_pensieri_I.djvu/213
(8) https://it.wikisource.org/wiki/Pagina:Zibaldone_di_pensieri_I.djvu/307
(9) Infinito,verso 4, libro “Il piacere dei testi”
(10)Infinito,verso 5,libro “Il piacere dei testi”
(11) Infinito,verso 6, libro “Il piacere dei testi”
(12) Zibaldone di pensieri VII

1
BIBLIOGRAFIA

- “IL PIACERE DEI TESTI”


- https://it.wikisource.org/wiki/Pagina_principale
- STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA, VOL.11,”Leopardi e la letteratura
del Rinascimento”, Giulio Ferroni

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