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LETTERATURA ITALIANA

GIACOMO LEOPARDI – OPERETTE MORALI

In seguito alla prima esperienza fuori dal “natio borgo selvaggio”, il viaggio a Roma
– la sede delle antiche memorie, delle antiche vestigia – che si rivela però una solenne
delusione perché nessun monumento ha destato la sua curiosità e la sua attenzione; l’unico
«piacere» è stato, come scrisse in una lettera alla sorella Paolina, il momento in cui ha
visitato la tomba di Torquato Tasso;
Inoltre, avendo trascorso la maggior parte della sua vita tra le mura domestiche, non era stato
in grado di relazionarsi con il mondo.
Leopardi si trova così in un momento di piena crisi esistenziale in cui, dal 1822 al 1828,
abbandona la poesia.
Sono gli anni in cui si assiste il passaggio dal pessimismo storico al pessimismo cosmico.
Le Operette rappresentano il culmine della sfiducia nella natura: diventa “matrigna” e non
più “madre”, istilla nell’uomo il desiderio di felicità per poi negargliela costantemente.
È un ciclo di creazione e distruzione che coinvolge tutti gli esseri viventi e non lascia vie di
scampo.
Nel 1824 comincia la stesura dei primi «dialoghi e novelle lucianee», che vengono pubblicati
nel 1827 con il titolo di Operette morali. È un macrotesto che raccoglie tanti microtesti.
Vengono pubblicate dopo varie vicissitudini e l’aggiunta di ulteriori testi.
− La prima edizione conteneva 20 prose, stampate a Milano presso l’editore Stella nel
1827. L’anno precedente erano già usciti sull’“Antologia” di Firenze e sul milanese
“Nuovo Ricoglitore” il Dialogo di Timandro e di Eleandro, il Dialogo di Cristoforo
Colombo e di Pietro Gutierrez, il Dialogo di Torquato Tasso e il suo Genio
Familiare.
− Nella seconda edizione, pubblicata a Firenze da Piatti nel 1834, i testi diventano 22
per l’aggiunta del Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere e il
Dialogo di Tristano e di un amico.
− Viene preparata un’ulteriore stampa a Napoli presso l’editore Starita nel 1835, ma
viene bloccata dalla censura e si ferma dopo la pubblicazione del primo volume che
contiene 13 testi.
− La volontà dell’autore viene realizzata compiutamente solo da Antonio Ranieri
nell’edizione del 1845, dove troviamo il testo definitivo composto da 24 operette

Sin dal titolo risultano chiare le intenzioni dell’opera.


L’aggettivo “morale” introduce l’argomento filosofico: una filosofia tratta dai
comportamenti, dalla vita pratica, dalla “morale” degli uomini. Il
sostantivo “operette” allude a un genere letterario di tipo scherzoso e satirico.
La «leggerezza apparente» delle Operette è data da uno stile unico e innovativo.
Innanzitutto l’uso dell’ironia, che permea il testo a ogni livello, mettendo in risalto il
ridicolo e il comico degli atteggiamenti umani.
Leopardi prende spunto dai dialoghi dello scrittore greco Luciano di Samosata – II secolo
d.C. –, autore di testi satirici che prendevano di mira la società del tempo, i difetti degli
uomini e degli dèi.
Ogni operetta ha almeno un personaggio immaginario o fantastico, altra caratteristica tipica
Lucianea.
1.
STORIA DEL GENERE UMANO

Operetta composta a Recanati, tra il 19 Gennaio e il 7 Febbraio del 1824.


Questa operetta rappresenta il prologo dell’intero libro.
In questa operetta morale, come il titolo lascia intendere, viene raccontata la storia
dell’umanità. Non si tratta né di un saggio antropologico né di un testo storiografico, è
piuttosto, una favola mitologica ricca di rimandi alla cultura classica. È presente il ricordo del
paradiso voluptatis di cui Leopardi parla nello Zibaldone, nel momento in cui interpreta il
libro della Genesi.
In questa favola mitologica Leopardi immagina che gli uomini siano stati creati tutti nello
stesso momento e tutti bambini, che in origine sono stati nutriti dalle api, dalle capre e dalle
colombe. Questi tutti riferimenti all’Inno a Zeus di Callimaco e ai Sofisti a banchetto di
Ateneo.
In questa prima fase della Storia del genere umano, chiamata anche età aurorale, - fino a
pag.90 - corrispondente alla sua infanzia, il mondo è più piccolo e meno vario di quello che è
adesso: non c’erano i mari, il cielo non aveva le stelle, e, ciò nonostante, gli uomini vivevano
contenti.
Essi immaginavano una realtà infinita e infinitamente varia, erano talmente contenti che in
questa fase nacquero le idee di infinità e di bellezza che tante speranze hanno alimentato
negli uomini nel corso dei secoli.
Terminata l’infanzia, però, gli uomini entrano in una seconda fase, l’età dell’oro,
corrispondente all’adolescenza, con la quale iniziano i problemi. Qui gli uomini sperimentano
la noia, cioè capiscono che il mondo di cui hanno esperienza non gli basta per essere felici.
Leopardi ha dedicato molte riflessioni alla noia, sia nelle Operette che nello Zibaldone.
Secondo lui la noia è il peggiore dei mali in cui si può incorrere, peggiore anche nel dolore.
Il dolore, infatti, si configura come un’obbiezione al nostro desiderio di infelicità, come un
ostacolo che ci impedisce di essere felici. Ma configurandosi in questo modo, il dolore ci
lascia almeno l’illusione che una volta rimosso potremmo essere felici per davvero. La noia,
al contrario, ci mostra che anche in assenza di ostacoli noi non riusciamo comunque a essere
felici e che quindi l'infelicità fa parte del nostro modo d’essere. La nostra struttura
esistenziale è incapace di raggiungere la felicità, questa la consapevolezza indotta dalla noia.
Di fronte a questi stati d’animo, gli uomini immaginati da Leopardi si dedicano ai viaggi, alle
scoperte, cercano di conoscere nuovi popoli, nuove terre per darsi nuovi stimoli e rendere la
vita più varia. Tuttavia, al termine di questo processo, capiscono che la realtà non è infinita
come l’avevano immaginata, al contrario è finita, limitata, al di sotto delle loro aspettative.
Alla luce di questa presa d’atto, molti uomini decidono di togliersi la vita. Se tutto quel che
c’è non è in grado di soddisfare il nostro infinito desiderio di felicità, tanto vale farla finita.
Questo evento scandalizza gli Dei, i quali sanno che il suicidio è contrario alle leggi della
natura, e i quali però non possono nemmeno donare agli uomini l’infinita felicità che
desiderano perché anche questo è contrario alle leggi di natura.
Qui emerge un'immagine negativa della natura, un'immagine distante da quella della natura
benigna precedentemente elaborata da Leopardi, ci avviciniamo al pessimismo cosmico.
Gli Dei decidono di venir fuori da questa situazione da un lato ampliando il mondo e
rendendolo più vario, dall’altro, donando agli uomini quello che Leopardi chiama il ‘popolo
dei sogni’, quelle immagini varie e indefinite che non sono l’infinito, ma che in qualche
modo lo scimmiottano. L’indefinito è un finito di cui non si vedono i confini, e che quindi
può essere scambiato per l’infinito. Grazie a questi accorgimenti, l’adolescenza del genere
umano si protrae molto a lungo, dura molto di più dell’infanzia.
Ma la noia non è stata sconfitta, tornerà a manifestarsi e in maniera sempre più forte, al punto
che gli uomini cominceranno a rammaricarsi quando un loro simile nasce e aggiuglie quando
un loro simile muore, perché hanno capito che l’unico rimedio all’infelicità è il morire, o
meglio ancora, il non nascere affatto.
In questo crescendo di insoddisfazione, frustrazione e infelicità, gli uomini arrivano ad
abbandonarsi ad azioni nefande, a dedicarsi a crimini di ogni tipo, frecciata anticristiana
questa di Leopardi. Leopardi, infatti, afferma che non è stando bene che si decide di dedicarsi
al male - come nel racconto del peccato originale -, ma è stando male che si decide di
dedicarsi al crimine.
Questo avvenimento irrita gli Dèi, Giove punisce gli uomini con il Diluvio, affidando a
Deucalione e Pirra – figure che Leopardi riprende dalla mitologia greca – il compito di
ripopolare l’umanità. Deucalione e Pirra lo faranno ma Giove decide di introdurre alcune
significative modifiche al modo di vivere degli uomini. In primo luogo, gli darà nuovi
desideri; in secondo luogo, gli darà problemi veri, problemi concreti; e per finire, gli donerà i
fantasmi, le illusioni.
I nuovi desideri sono tali da poter essere soddisfatti solo mediante il lavoro e questo allo
scopo di far sì che gli uomini si distraggano. La parola ‘distrazione’ è molto importante nel
lessico leopardiano. Mediante essa, infatti, gli uomini distolgono l’attenzione dalla loro
condizione esistenziale, pensano ad altro, e quindi riescono a rendere sopportabile l’esistenza.
Il lavoro ci impegna in questioni risolvibili e non ci fa pensare alla grande e irrisolvibile
questione della nostra esistenza.
I problemi concreti servono per far sì che gli uomini considerino la vita non una condizione
data ma una meta da raggiungere. Solo nel momento in cui gli uomini considerano la vita un
obbiettivo in cui tendere sono in grado di apprezzarla, solo quando la vedono più o meno
gravemente in pericolo sono in grado di amarla. Fin quando la prendono come una
condizione data, semplicemente, non sanno che farsene e il doversi misurare con i problemi
veri – come una malattia – può essere un modo per fargli apprezzare la vita.
In fine, le illusioni – altra categoria centrale nel pensiero di Leopardi – sono delle false
opinioni che però aiutano agli uomini a credere che la vita abbia un senso, a credere che ci sia
un buon motivo per viverla. Le principali sono le illusioni dell’onore, della gloria,
dell’amore.
Questi ulteriori accorgimenti fanno sì che il genere umano entri nella terza età della sua
storia, un'età che possiamo definire post-adolescenziale, giovanile, la quale dura ancora più a
lungo dell’adolescenza, ma con la quale non si è sconfitta la noia. La noia torna a farsi sentire
e con essa compare anche una nuova illusione, un nuovo fantasma, il fantasma della sapienza,
il quale promette agli uomini la conoscenza della verità, i quali sono eccitati da questa
prospettiva, tanto eccitati che cominciano a insultare gli dèi, a dire che non gli hanno
concesso la conoscenza della verità perché temono di essere eguagliati. A questo punto Giove
è furioso e decide di punire gli uomini nel modo peggiore possibile, peggiore anche del
diluvio, decide di dar loro la Verità in modo definitivo. Gli altri Dei si allarmano, pensano sia
una punizione troppo pesante. Giove sembra deciso, pensa che la verità faccia bene agli Dèi
perché gli mostra la loro grandezza, ma nuoce gravemente agli uomini perché gli manifesta
con evidenza inesorabile la loro nullità, la loro insensatezza.
Dopo aver conosciuto la verità gli uomini non possono più illudersi, non possono più pensare
di avere un onore, di poter ambire alla gloria, di avere degli affetti veri.
Gli uomini sono perciò costretti a capire che la vita, in fin dei conti, non merita di essere
vissuta.
Impietosito da questa condizione – e qui potremmo dire di essere nell’età moderna pag.106–,
Giove decide di lasciare agli uomini il fantasma di Amore, figlio della platonica venere
celeste, di quella bellezza che innalza l’animo. Solo grazie all’amore gli uomini riusciranno
ad affrontare la quarta età della loro storia, l’età adulta, quella che Gian Battista Vico avrebbe
chiamato l’età della ragione, nella quale l’acerbo vero si mostra con tutta evidenza. L’amore
infatti è quella illusione che più di tutte le altre è capace di modificare il nostro punto di vista.
Leopardi nei versi del pensiero dominante scriverà che il pensiero d’Amore è capace di farci
guardare la vita sott’altra luce che l’usata errando.
2.
DIALOGO D’ERCOLE E DI ATLANTE

Composta tra il 10 e il 13 Febbraio del 1824 e in seconda posizione fin dall’inizio;


È un'operetta dialogica, alla maniera di Luciano. Già dal vocativo iniziale richiama i Dialoghi
degli dei di Luciano.
Ci troviamo in una dimensione cosmica. Ercole è inviato da Giove ad Atlante per aiutarlo ad
alleggerirlo dal peso del mondo che il gigante regge sulle spalle. Ma Atlante confida ad
Ercole che “il mondo è fatto così leggero, che questo mantello che porto per custodirmi dalla
neve, mi pesa di più” perché il mondo è diventato così leggero tanto da volerlo portare al
collo come se fosse un ciondolo.
In esso non c’è più alcun movimento né si sente più alcun rumore.
Ercole, stranito, accetta l’invito di Atlante a provare a sorreggere la Terra e nota un’altra
anomalia: l’ultima volta la Terra gli batteva forte sul dosso come il cuore degli animali ed
emetteva un rombo continuo come se fosse un vespaio ma adesso gli sembra un orologio con
la molla rotta che non produce rumore.
Atlante prova ad ipotizzare che tutti gli uomini e animali si siano trasformati in vegetali,
come accaduto a Dafne. I due decidono di fare qualcosa per quel mondo in cui tutti sembrano
addormentati: si passano tra di loro il pianeta come se fosse una palla. Inizialmente i due sono
titubanti per paura di una reazione del padre, ma continuarono autoconvinti che lo stessero
facendo per il bene del mondo.
Ad un certo punto Atlante fa un lancio troppo corto e la Terra cadde dalle mani di Ercole,
battendo violentemente ma senza provocare alcun tipo di segno di vita, nessun rumore e
nessun movimento.
Atlante manda allora preoccupato Ercole a scusarsi immediatamente con il padre per
l’accaduto, ma prima di andare si ricorda di una sua conoscenza, Orazio, il quale sosteneva
che “l’uomo giusto non si muove se ben cade il mondo”. Così i due si trovarono d’accordo su
ciò, perché “il mondo è caduto e niuno s’è mosso”.
Il tema dell’operetta è la decadenza dell’umanità, l’uomo moderno si contraddistingue con
l’individualismo, che “dorme”, nel senso che preso dalle sue faccende personali non
percepisce i cambiamenti anche se il mondo stesse per cadere. Il mondo è diventato leggero
perché la volontà degli uomini di evolverlo è sopraffatta dall’egoismo.
È un’operetta che attraverso la parodia del gioco mostra il pessimismo storico e sociale che
caratterizza l’età moderna.
È fedele alla maniera di Luciano per la scelta dei personaggi mitologici e per la
trasformazione comica della grandezza eroica.
Leopardi scrive questa operetta come se fosse la continuazione dell’ultima fatica di Ercole.

3.
DIALOGO DELLA MODA E DELLA MORTE

Operetta composta a Recanati nel Febbraio 1824;


I temi che si intrecciano in quest’opera sono due: la satira della Moda e la Morte, la caducità,
intesa come precarietà del tempo.
L’opera ha un tono prevalentemente comico, ed è composta da una serie di battute dal
contenuto lugubre. La moda e lo scheletro che rappresenta la Morte volano uno accanto
all'altra e parlano delle sorti degli uomini, che tengono totalmente nelle loro mani.
Leopardi, che guarda con sfiducia e irritazione i tempi a lui contemporanei e non vede
positivamente la società della produzione industriale e dei consumi, considera la moda
simbolo di apparenza e vanità tipiche del consumismo.
Secondo il poeta, le mode si susseguono continuamente, perché una moda, per affermarsi,
deve aspettare che muoia quella che l'ha preceduta. Ecco perché per Leopardi la Moda e la
Morte sono sorelle: perché sono entrambe immortali ma figlie della caducità.
Moda e Morte rinnovano continuamente il mondo, la Morte minando direttamente la vita
delle persone, la Moda modificando elementi specifici come barbe, capelli o abiti avvalendosi
di pratiche e abitudini dolorose che gli uomini e le donne si infliggono autonomamente per
raggiungere la bellezza ideale.
I due personaggi hanno caratteristiche opposte: la Moda è gentile, civile, educata, che sa
come si parla, si rivolge alla Morte con “Madama”, personaggio del mondo moderno;
La Morte è rozza e vecchia, che parla raramente, tipico atteggiamento degli antichi senza
educazione, si rivolge alla Moda con “vattene al diavolo”, personaggio quindi del mondo
antico. È uno scheletro: non ci sente bene tanto che chiedere a Moda di urlare, la quale
accetterà anche se nel mondo moderno è maleducazione farlo.
4.
PROPOSTA DI PREMI FATTA
DALL’ACCADEMIA DEI SILLOGRAFI

Questa operetta è la quarta, scritta tra il 22 e il 25 Febbraio del 1824;


Si tratta di un testo con cui Leopardi abbandona, se pur solo momentaneamente, la forma
dialogo delle operette precedenti. La proposta di premi è un finto bando di concorso
promulgato da un altrettanto fittizia ‘Accademia dei Sillografi’, che in realtà sono stati poeti
burleschi vissuti nell’antica Grecia.
Leopardi non abbandona il suo discorso polemico nei confronti della modernità e del
progresso, costruito ricorrendo alle armi dell’ironia e della satira e che qui diventa più
centrale di quel che era stato nelle operette precedenti.
La Proposta è una satira nei confronti della meccanicizzazione della vita, della letteratura e di
quella civiltà delle macchine ritenuta dai moderni fonte di progresso e di felicità per gli
uomini.
Leopardi fa parlare in terza persona un’Accademia immaginaria, l’Accademia dei Sillografi –
denominazione che nell’antica Grecia veniva attribuita agli autori di poesie burlesche e
parodiche – il circolo di intellettuali, convinto che il progresso della tecnica possa estendersi
anche alle cose spirituali, indìce un insolito concorso che promette premi consistenti a chi
riesca ad inventare tre macchine che riproducano, rispettivamente, la prima l’amico perfetto,
la seconda un uomo artificiale in grado di realizzare opere virtuose e magnanime e la terza la
donna ideale, moglie fedele e devota, oltre che garante della felicità coniugale, rispondendo
così alla descrizione che ne fa Baldassarre Castiglione nel Cortegiano.
Come nel dialogo di Ruysch in cui sceglie come protagonista il grottesco scienziato olandese
per realizzare una sorta di satira del progresso scientifico, nella Proposta si serve della figura
dei Sillografi, autori di opere burlesche, per ridicolizzare alcuni aspetti della progressiva
meccanicizzazione del mondo che investe anche le opere letterarie.
Leopardi è consapevole che l’infelicità umana è stata accentuata proprio dal progresso
tecnologico che ha contribuito notevolmente al distacco dell’uomo dalla natura,
all’allontanamento dalle illusioni che davano senso e valore alla vita e alla conseguente
impossibilità di sfuggire al dolore e alla noia.
Leopardi intende ridicolizzare la pretesa degli uomini di risolvere con la tecnologia e con le
macchine le proprie imperfezioni e la negatività della propria esistenza.
Il bando è scritto in uno stile dal tono classicheggiante, organizzato secondo le linee di una
costruzione sintattica complessa che propone un uso frequente di gerundi e fa spazio ad un
nuovo genere letterario: il genere del ‘bando di concorso’.

5.
DIALOGO DI UN FOLLETTO
E DI UNO GNOMO

Operetta composta tra il 2 e il 6 marzo 1824 e compare fin dalla prima edizione –1827 –
Nella prima stampa, il dialogo occupava la sesta posizione, mentre nell’edizione definitiva è
situato nella quinta, per l’eliminazione del Dialogo di un lettore di umanità e di Sallustio.
In questo testo un folletto e uno gnomo sbeffeggiano la credenza dell’uomo che il mondo sia
fatto a suo esclusivo uso e consumo. Il mondo, invece, potrebbe esistere e sopravviverebbe
ugualmente anche se gli esseri umani si estinguessero.
Questo dialogo sviluppa un ragionamento serrato che si articola in una serie di punti:
– La notizia della fine dell’uomo: lo gnomo racconta al folletto di essere stato incaricato da
suo padre di scoprire che fine abbiano fatto gli uomini, giacché è da tempo che non se ne
vede nessuno in giro. Il folletto, citando un verso di una tragicommedia del ‘700, gli spiega
che gli uomini sono tutti morti, si sono estinti.
– Le conseguenze dell’assenza degli uomini: il mondo procede anche in assenza del genere
umano. Senza i calendari, il computo dei giorni può essere effettuato grazie all’andamento
della luna. I giorni della settimana rimarranno senza nome, ma saranno ugualmente
fuggevoli. Qui il tema della caducità del tempo presente in altre delle operette.
– Le cause dell’estinzione umana: gli uomini, spiega il folletto, si sono estinti facendosi
guerre a vicenda, oziando, conducendo vite disordinate, nuocendo contro la natura e
rovinandosi l’esistenza. E spiega che anche nelle ere passate alcune specie di animali si sono
estinti e di loro rimangono solo tracce fossili.
– Discussione sulla finalità del mondo: lo gnomo concorda con il folletto sul fatto che tutte le
specie animali credano che il mondo sia stato creato per loro, anche gli stessi gnomi e folletti.
– La falsa presunzione degli uomini: più di tutte le altre specie però è l’uomo a ritenere che il
mondo sia stato creato per lui, e che sia dunque di sua proprietà, padroni addirittura di specie
da loro sconosciute.
– Conclusione: l’uomo pensa che anche l’universo sia sua proprietà; ma ora che l’uomo si è
estinto non si deve credere che i pianeti abbiano smesso di girare e che si siano vestiti a lutto
per lui. Tutto continua come prima anche senza l’essere umano.
6.
DIALOGO DI MALAMBRUNO
E DI FARFARELLO

Questa operetta è stata scritta tra l’1 e il 3 Aprile del 1824;


Leopardi, nel Dialogo di Malambruno e di Farfarello, si chiede se è possibile assaporare un
momento di piena, autentica felicità su questa terra. È un tema ricorrente, forse questione
maggiormente sofferta dell’intera riflessione filosofica.
È un dialogo molto vivace che espone una tesi pessimistica con un tono satirico, il classico
“riso amaro” leopardiano.
È la prima delle operette in cui compare un personaggio-uomo: Malambruno, un mago come
quello presente nel Don Chisciotte di Cervantes, capolavoro che portava sempre con sé
quando abbandonava Recanati.
È lui ad aprire il dialogo e lo fa invocando uno dei diavoli dai nomi bizzarri tratti dalla
tradizione letteraria di Dante, Pulci e Lippi, del regno del re Belzebù affinché esaudisca un
suo desiderio.
Per questo motivo compare Farfarello – ripreso dalla quinta bolgia della Divina Commedia di
Dante, più precisamente dai canti XXI-II-III dell’Inferno – che, ponendosi al servizio del
mago, può farlo ricco, potente e pieno di donne come desidererebbero la maggior parte degli
uomini terreni, ma Malambruno rifiuta sempre e chiede al diavolo di renderlo “felice per un
momento di tempo”.
La risposta del servitore è negativa ma il mago insiste e pretende di essere almeno liberato
dall'infelicità. Ma, ancora una volta, la risposta di Farfarello è deludente: dice si può vincere
l'infelicità solo a patto di non amarsi «supremamente»; il che, come dice Malambruno,
sarebbe possibile solamente «dopo morto».
Farfarello non crea illusioni al mago, gli dice che l’unico modo per sfuggire all’infelicità è il
sonno o i momenti che alterano i sensi del pensiero, come ad esempio le sostanze alcoliche.
Chiaro riferimento di quest’ultimo rimedio è nel finale del Dialogo di Torquato Tasso e del
suo Genio familiare quando lo Spirito se ne sta per andare e dice a Tasso che abita “in
qualche liquore generoso”.
L’ultima frase di Farfarello rimanda al tema del suicidio secondo ragione, altro rimedio
all’infelicità.
7.
DIALOGO DELLA NATURA E DI UN’ANIMA

Operetta composta tra il 9 e il 14 Aprile 1824;


In questo testo vi è un’anima che poco prima di incarnarsi nel corpo di un uomo, sente
l’esigenza di porre alcune domande alla natura. Quest’ultima, nell’atto di darle la vita, ha
pronunciato una frase ambigua che da un lato voleva essere un augurio ma che dall’altro
suonava come un ordine.
Rivolgendosi all’anima, la Natura ha detto “vivi, e sii grande e infelice”, citazione nascosta
di D’Alembert.
L’anima protesta, non vuole essere infelice e quindi chiede alla natura che male avesse fatto
ancor prima di nascere per meritare una simile pena. La natura non capisce il senso di questa
domanda –“Che pena, figliuola mia?” – .
Notiamo come le risposte della Natura non sono quasi mai adeguate di fronte alle domande
dell’anima. Stratagemma con cui Leopardi vuole sottolineare come gli uomini non debbano
aspettarsi risposte dalla Natura.
La Natura, rivolgendosi all’anima, la chiama “figliuola mia”, un atteggiamento affettuoso
che mostra come la Natura, in questo dialogo, non sia ancora Matrigna.
L’anima non ha ancora capito perché la Natura le abbia augurato l’infelicità, ma la Natura si
giustifica dicendo che lei è la causa dell’infelicità negli esseri viventi, ma non lo fa
volontariamente, lo fa perché è costretta ad aderire alla volontà del fato. È lui che prescrive
l’infelicità di ogni vivente e la Natura deve adeguarsi.
L’infelicità a cui andrà incontro quest’anima sarà bilanciata da un importante bene, la
grandezza. Quest’anima si incarnerà in un corpo d’uomo, l’essere più perfetto dei viventi.
Inoltre, non si incarnerà in un uomo qualsiasi, si incarnerà in un grande uomo, destinato a
godere di una grande fama e gloria dopo la sua morte.
Potrà godere di grande gloria solo pagando il prezzo di una grande infelicità.
L’anima replica che tutta questa gloria non le sembra un gran bene se messa al cospetto della
felicità: lei vorrebbe essere felice, non grande.
Dal momento che per la Natura nessun essere vivente può essere felice, l’anima le chiede di
incarnarla nell’essere meno significante della Terra così potrà godere di un’infelicità minore.
A questa proposta la Natura accetta; non accetta la proposta seguente: l’anima le chiede di
farla vivere poco così da poter porre fine allo stato di infelicità. La Natura le dice che non sa
se potrà esaudirlo e con tono vago le dice che conferirà con il destino.

9.
LA SCOMMESSA DI PROMETEO

Operetta composta tra il 30 Aprile e l’8 Maggio 1824;


L’impianto è lucianesco, inizia con un registro burocratico-accademico come quello della
Proposta di premi fatta all’Accademia dei Sillografi. Inoltre, è simile a quest’ultima operetta
perché anche qui viene bandito un concorso.
L’operetta si apre con una data indeterminata del regno degli dèi: “trentatremila dugento
settantacinque del regno di Giove”. La data fantasiosa e il tono solenne di questo inizio
ricordano l’inizio del Giudizio delle vocali di Luciano.
Era stato indetto un concorso per le divinità, un modo per passare il tempo e per ingannare la
noia: avrebbe vinto una corona d’alloro il dio o la dea che aveva fatto l’invenzione più
meritevole.
Il primo premio venne vinto da Bacco, l’ideatore del vino; il secondo da Minerva, che aveva
prodotto l’olio, necessario alle unzioni che gli dèi fanno dopo il bagno; e il terzo da Vulcano,
il dio del fuoco, il quale aveva creato una pentola di rame che funzionava ottimamente a poco
prezzo (stoccata nei confronti del progresso).
Il valore delle tre invenzioni oscilla da un massimo di sacralità, cioè il vino, e un massimo di
prosaicità, cioè la pentola economica. Questo crea una forte dissonanza e una carica
dissacrante della premiazione.
Tutti gli dèi accolsero il verdetto favorevolmente, tranne Prometeo, che era scontento in
quanto riteneva di meritare la vittoria perché aveva forgiato l’uomo, la più perfetta delle
creature.
Il dio era afflitto da calvizie, un motivo in più per volere la corona.
Prometeo, volendo dimostrare che l’uomo era la più perfetta delle creature, scese in tre luoghi
diversi della terra insieme a Momo, che rappresentava il punto di vista dell’autore.
Dopo la narrazione della gara, la storia si può dividere in tre parti che corrispondono alle
tappe percosse da Prometeo e Momo per dimostrargli che l’uomo era il più perfetto fra le
creature.
I due però sulla terra avranno tre incontri, tutti terribili: un selvaggio che divora il proprio
figlio per sfamarsi, una vedova arsa viva in memoria del defunto marito; un uomo per bene e
di condizione agiata che uccide sé stesso e la propria famiglia per noia della vita.
Momo allora ricorda a Prometeo che nessun animale oltre all’uomo avrebbe mai fatto un
gesto del genere. Prima di esser andati in tutti e cinque i continenti del globo, Prometeo
rinuncerà alla scommessa, pagando il pegno.
Sul finale dell'operetta il dialogo si sposta sulle circostanze che hanno portato gli esseri
umani alla civiltà. Momo accetterà la tesi che il mondo sia ottimo e perfetto se Prometeo
ammetterà che contenga anche tutti i mali possibili. Mali la cui colpa non viene ancora
attribuita da Leopardi alla natura e per il momento li attribuisce all’incivilimento.

11.
DIALOGO DI TORQUATO TASSO
E DEL SUO GENIO FAMILIARE

Operetta datata 1-10 Giugno 1824;


Proviene dai dialoghi di Tasso, in particolare il messaggiero, pubblicato nel 1582, del quale
condivide i motivi della prigionia, della solitudine, del sogno in rapporto alla realtà e della
consolazione.
Tasso diventa il protagonista dell’operetta, un esempio di reverenza da parte di Leopardi nei
confronti del suo poeta preferito, sentito vicino nel dramma della vita privata e nella malattia.
Il tono pacato dell’operetta, i ragionamenti pazienti e dismessi rimandano all’immagine del
sogno, condizione principe in cui l’essere umano può rivivere sentimenti profondi.
La cornice del dialogo è il carcere di Ferrara, in cui il poeta è rinchiuso per presunta infermità
mentale. Imprigionato dietro le sbarre, a Tasso non rimane altro intrattenimento che il
ricordo, l’immaginazione e il sogno.
Nella solitudine della prigione gli appare il Genio familiare, uno spirito che abitualmente
visita la cella del poeta e con cui Tasso si intrattiene dialogando.
Il primo tema dell’operetta sono le donne, che stimolano la fantasia e l’immaginazione degli
uomini. Tasso confida al Genio la nostalgia per la sua amata Leonora e rimpiange il tempo in
cui era giovane, pieno di forza e di illusioni.
Il Genio gli propone allora di fargliela comparire in sogno, facendo riflettere il poeta sul fatto
che la lontananza e l’immaginazione sono condizioni essenziali per aumentare la bellezza
dell’oggetto desiderato – questo concetto, tipicamente romantico, è sviluppato anche nella
poesia Alla sua donna –.
I due riflettono così sul fatto se la donna sognata sia migliore di quella reale e alla protesta di
Tasso di ricevere un sogno in cambio della vera Leonora, il Genio inizia con la prima delle
tre domande che scandiscono il Dialogo: «Che cosa è il vero?» *p258
La riflessione*1-259 sul ricordo/sogno risponde a questa domanda in favore dell'immaginazione
che supera comunque e sempre l’amaro vero: il sogno è incomparabilmente più bello e più
emozionante. Tasso con amarezza e disincanto concluderà*2-260 introducendo la questione del
desiderio che, secondo lo Zibaldone, è per sua natura irraggiungibile.
Successivamente ci troviamo di fronte alla seconda domanda: «Che cosa è il piacere?» *p261
In base a quanto sostiene Leopardi, il piacere è sempre un evento passato o una speranza
futura. Esso è, insomma, una sensazione di cui nessuno può fare effettiva esperienza.
Alla terza domanda – «Che cosa è la noia?» *263 – Leopardi risponde dicendo che la noia e il
dolore sono le sole esperienze consentite all’uomo durante la vita. La noia è un desiderio
puro: è la percezione della vita non alterata da nessun altro sentimento.
Leopardi nell’operetta la paragona all’aria, per la capacità di infiltrarsi ovunque, essendo
“tenuissima, radissima e trasparente”. Il suo peso è per l’uomo insopportabile, tanto che
secondo l’autore qualsiasi condizione è da preferirle, persino uno stato di travaglio.
Il dolore è invece la condizione necessaria per poi tornare, una volta che scompare o si
interrompe, a provare felicità, che altro non è che il sollievo dallo stato di sofferenza –
“piacer figlio d’affanno” si legge ne La quiete dopo la tempesta –.
I modi migliori per placare la noia sono gli espedienti per distrarsi, come il “sonno”,
l’“oppio”, il “vino” e lo stesso “dolore”. Quest’ultimo, sostiene il Genio, “è il più potente di
tutti: perché l'uomo mentre patisce, non si annoia per niuna maniera”.
Lo spirito consola anche Tasso sul tema della solitudine: egli gli spiega come la solitudine
non sia da disprezzare perché ha il potere di farci tornare l’amore per la vita e la voglia di
rientrare “nella società degli uomini”.
Dopo queste parole il Genio, vedendo che il poeta sta per addormentarsi, dolcemente se ne va
e quando Tasso gli chiede dove abita lo spirito, in tono ironico, risponde: “in qualche liquore
generoso”.
12.
DIALOGO DELLA NATURA
E DI UN ISLANDESE

Operetta composta nel Maggio 1824.


Nel primo indice occupa la tredicesima posizione, ma viene spostata in dodicesima in seguito
alla soppressione del Dialogo di un lettore di umanità e di Sallustio.
Non c’è più quella tipologia di dialogo mimetico, non si tratta neppure di un dialogo ma di
una requisitoria, ovvero di quesiti che non trovano una soluzione razionale. C’è uno scambio
di battute tra i protagonisti ma l’incipit si apre con la voce del narratore. Quindi il dialogo è
racchiuso in una cornice narrativa.
Il tessuto linguistico vede affiancati termini di natura tecnico-scientifica e arcaico-
latineggiante, uniti ad un linguaggio familiare e colloquiale delle battute che connettono i due
lunghi discorsi dell’islandese.
È basato sul genere del racconto filosofico tipico del ‘700 francese. È l’operetta della svolta,
del mutamento di prospettiva nella concezione della Natura che apre l’ultima versione del
pessimismo cosmico: non più ‘madre benignissima’ ma ‘matrigna tirannica e spietata per
uomini e animali’.
Nelle operette precedenti la causa della sofferenza è posta nell'uomo stesso, si evidenzia qui,
per la prima volta, il passaggio di Leopardi da una concezione positiva e benefica della
Natura a quella contraria di Natura matrigna, crudele e indifferente.
La datazione di questo testo corrisponde anche alla fase del silenzio poetico – un momento di
oblio che va dal 1824 al 1828 durante il quale Leopardi smette di punto in bianco di
comporre poesie – in cui cambia la sua visione della natura.
Per comporre quest’opera, Leopardi prende ispirazione dal V canto del poema epico-
portoghese “I Lusiadi” dell’autore 500esco Luís Vaz de Camões. È Leopardi stesso a
scriverlo in una nota alle Operette Morali.
Altri dettagli, come la notizia delle statue colossali di pietra situate sull’Isola di Pasqua, sono
tratte dai diari del navigatore francese Jean-François de La Pelouse.
In questa opera l’umanità e la natura sono impersonificate e dialogano sul senso della vita.
Prendendo spunto da un'opera del filosofo illuminista francese Voltaire – Storia di Jenni o il
saggio e l’ateo, 1775 – in cui il filosofo parla delle minacce naturali, quali gelo e vulcani, a
cui sono sottoposti gli islandesi, Leopardi sviluppa l'idea di un Islandese che viaggia,
fuggendo dalla Natura, alla ricerca della tranquillità. Ma giunto in Africa, in un luogo
misterioso ed esotico, incontra proprio colei che stava evitando, con la forma di una donna
gigantesca dall'aspetto "tra bello e terribile": la Natura.
L’uomo non è per niente felice dell’incontro, e confessa alla Natura di aver viaggiato per
tutto il mondo cercando un luogo in cui vivere senza l'assillo di climi estremi, aria cattiva e
malattie, purtroppo non trovandolo mai.
La Natura, sorpresa per l'ingenuità dell'Islandese, dichiara di non essere per nulla interessata
alla sorte della specie umana. Anzi, dice, l’umanità potrebbe sparire da un giorno all’altro
senza conseguenze rilevanti.
Quello che le interessa, dice ancora la Natura, è perpetuare il meccanismo della vita, fatta
ovviamente anche di sofferenza fisica, malattia e morte.
L’islandese prova ad obiettare, e si chiede a chi possa piacere una condizione simile.
Per tutta risposta, la natura lo uccide, lasciando appeso il suo interrogativo.
Nel Dialogo, il rapporto tra uomo e Natura è materialistico e fine a sé stesso: è un ciclo
perpetuo di creazione e distruzione. Una visione pessimistico-materialista che si profila ora
per la prima volta nelle Operette morali e che avrà la sua dimostrazione filosofica nel
Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco, scritto nell’anno successivo.
Ma Leopardi ci ricorda subito dopo che la sofferenza non può essere elusa, anzi: è parte
fondante della vita. Per Leopardi le leggi che governano la natura non possono e non
potranno mai essere intese come buone o provvidenziali.
Nonostante Leopardi sia un classicista, non personifica la Natura come fosse una divinità
antica. In quest’opera la Natura è piuttosto un’idea filosofica, che si distacca dai classici greci
a lui cari, e trova ispirazione in quel racconto filosofico di cui parlavamo all’inizio, formulato
da Voltaire nel suo Candide.
14.
DIALOGO DI FEDERICO RUYSCH
E DELLE SUE MUMMIE

Il dialogo è datato in A 16-23 Agosto 1824;


Fu pubblicato per la prima volta nell’edizione delle Operette morali del 1827 collocandosi in
quindicesima posizione tra il Parini, ovvero della gloria e i Detti memorabili di Filippo
Ottonieri. Nell’edizione napoletana del 1835, in seguito all’esclusione del Dialogo di un
lettore di umanità e di Sallustio, il dialogo del Ruysch salì al quattordicesimo posto ma la sua
collocazione tra Il Parini e l’Ottonieri rimase invariata.
All’interno delle Operette sono due i testi che trattano del rapporto problematico e critico tra
Leopardi e la scienza: il Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie e la Proposta di
premi fatta dall’Accademia dei Sillografi.
Attore principale dell’operetta è Federico Ruysch (1638-1731), scienziato e medico olandese
che perfezionò il metodo anatomico, ma che deve gran parte della sua notorietà a una
particolare pratica di conservazione dei cadaveri che lo condusse, attraverso l’iniezione di
preparati innovativi, a ottenere delle mummie assai diverse da quelle del passato.
Se quelle antiche, infatti, esprimevano chiaramente l’aspetto della morte nella loro
caratteristica secchezza (si pensi a quelle egizie), Ruysch riuscì a dare alle sue “creazioni”
un’apparenza di vita.
Lo scienziato allestì inoltre un vero e proprio museo di tali composizioni macabre, che a noi
oggi sembrano raccapriccianti, ma che, collocate nel loro contesto storico, rispondono al
gusto bizzarro dell’epoca barocca.
Leopardi trae spunto dall’Eloge de Monsieur Ruysch, scritto dal filosofo e letterato francese
Bernard de Fontenelle (1657-1757), e finge che queste mummie conservate nello studio dello
scienziato prendano a parlare al compiersi di un ben preciso ciclo cosmico causato da un
singolare allineamento dei pianeti, fenomeno conosciuto come «anno grande e matematico».
Prende così avvio il Coro dei morti, seguito da un fitto dialogo tra Ruysch e le sue mummie
sul tema della morte.
Altro testo dal quale Leopardi prende spunto per diverse operette è Storia naturale di Buffon,
anche se una delle domande che lo scienziato pone alle mummie ricorda Petrarca “deh,
dimmi se ‘l morir è sì gran pena”.
Ruysch osserva spaventato le creature dal buco della serratura e, del momento in cui entra in
scena, si nota uno stacco brusco di tonalità rispetto al momento del canto: egli viene
presentato come un personaggio caricaturale che trema da capo a piedi e tenta invano di
tutelare la propria dignità di scienziato rivendicando sia la paternità delle sue creature a cui ha
preservato il corpo dalla corruzione ma afferma pure di essere pronto a “riammazzarele” pur
di non accollarsi eventuali spese economiche per mantenerle.
Il contrasto tra il linguaggio del coro e il Dialogo fa venir fuori il carattere vero del Ruysch
leopardiano, personaggio stravagante in grado di creare geniali composizioni macabre di
mummie, ma che ‘suda freddo’ per lo spavento nel constatare che i ‘suoi’ morti hanno osato
addirittura intonare un canto; quei morti che, sebbene siano stati da lui stesso mummificati e
quindi preservati dalla corruzione, sono in un certo qual modo ‘resuscitati’, sfuggendogli di
mano.
Lo scienziato seicentesco, dunque, entrato in conflitto con la sua stessa invenzione,
manifesta un chiaro timore del potere occulto della natura, che negli stessi anni si esprime in
un’altra figura di ‘non morto’, la ‘creatura’ di Victor Frankenstein, creato nel 1817 da Mary
Shelley.
L’incontro inusuale con le mummie cantanti si collega però forse in modo più diretto ad un
episodio analogo che appartiene alla letteratura classica e alla scena orripilante descritta da
Lucano nel VI libro del Bellum civile, quando la maga Eritto, consultata da Sesto Pompeo,
resuscita per un breve periodo di tempo un soldato per fargli predire le future sorti della
guerra.
A questo punto uno dei morti prende la parola e rassicura lo scienziato: le mummie hanno un
quarto d’ora per conversare con i vivi, al termine di questa resurrezione ripiomberanno nel
sonno eterno. Senza particolari slanci emotivi, Federico Ruysch decide di dialogare col
morto.
Egli ha un’opportunità straordinaria e irripetibile; eppure, sfrutta male il tempo a
disposizione: interroga la mummia nel tentativo fallimentare di comprendere quali siano le
sensazioni provate in punto di morte ma si ricorda solo allo scadere del tempo di porre al suo
interlocutore la domanda cruciale ovvero come ci si accorga di non essere più vivi.
Si tratta di una domanda di natura gnoseologica e funerea che non ha risposta: il quarto d’ora
è infatti scoccato, le mummie tornano nel loro silenzioso oblio e l’operetta si conclude con il
ritorno alla normalità e, con esso, la possibilità di dormire.
Leopardi, come sempre avviene nelle Operette morali, stravolge i topoi narrativi della
tradizione, degradando l’immagine dello scienziato e criticando in tal modo le pretese della
scienza di interpretare i misteri dell’universo.

17.
ELOGIO AGLI UCCELLI

Operetta composta tra il 29 Ottobre e il 5 Novembre 1824.


Elogio degli uccelli è la diciassettesima operetta della raccolta, nella quale il solitario Amelio
– filosofo neoplatonico più volte citato nella Vita di Plotino ad opera di Porfirio tradotta in
latino da Leopardi nel 1814 – diventa il nuovo travestimento leopardiano e, successivamente,
fonte di ispirazione dell'episodio immortalato nel Dialogo di Plotino e di Porfiri (22.)
Il lessico è aulico simile a quello nella Storia del genere umano
di Amelio viene calamitata dal canto degli uccelli dei quali ammira il loro temperamento,
capaci di gioire della vita in modo autentico e disinteressato, indipendentemente dalla
presenza di eventi eclatanti che li spingano a farlo. Questo lo induce a impugnare carta e
penna e a buttar giù una serie di annotazioni che diverranno un vero e proprio elogio alla
meravigliosa specie volatile.
Già dall’inizio gli uccelli vengono considerati come le più liete creature del mondo ed
ostentano la loro felicità con il loro canto allegro e soave che riesce a trasmettere sensazioni
positive ed un sorriso agli uomini. Viene poi fatto un confronto con gli altri animali che “non
fanno festa” - richiamo ai primi versi de La quiete dopo la tempesta: «Passata è la
tempesta:/odo augelli a far festa» - al contrario degli uccelli appaiono malinconici come se le
campagne verdi, le ampie vedute, il sole e la bellezza della natura non gli appartenessero.
La fonte con la quale Leopardi conduce il paragone dell’ilarità degli uccelli con la gravità di
tutti gli altri animali è ripreso dall’opera “Histoire naturelle” di George-Louis Leclerc conte
di Buffon.
- Nell’ operetta le nozioni vengono spogliate del loro valore scientifico per tramutarsi in
motivi poetici. Leopardi pose attenzione agli uccelli facendone non un oggetto di studio,
piuttosto di meditazione -
Un'eccezione viene fatta per le lepri che, come recita il passo di Senofonte - storico e scrittore
ateniese contemporaneo di Platone - la notte si rallegrano «dello splendore della luna piena,
facendo lunghi salti e giocando, fan le pedate distanti e confuse». Questo passo è messo a
frutto anche ne La vita solitaria e nell’abbozzo drammatico Erminia.
Gli uccelli... gioia: Questo passo riprende con delle variazioni quanto detto all’inizio secondo
una tecnica compositiva che mira a creare un effetto ritmico e fonico di movimento che
corrisponde alle qualità degli uccelli.
Successivamente notiamo “cantano”, verbo che ricorrerà più volte, in varie forme del
paradigma. Nelle righe seguenti Leopardi descrive i comportamenti di questi animali
rifacendosi alle nozioni lette nel Discorso sulla natura degli uccelli di Buffon. Scrive che gli
uccelli cantano “in sulla mattina allo svegliarsi”, che sono attratti da ciò che sembra ameno e
leggiadro anche a noi come le acque pure e lucenti o le verzure liete; anche gli allettamenti -
termine che indica la preparazione di un terreno per attirare e catturare la selvaggina - e gli
uccellari che nascondono le trappole vengono preparati con criteri umani.
Pag.446 In questo passo Leopardi ci offre uno spunto di riflessione: «quello che noi
chiamiamo naturale, non è; anzi è piuttosto artificiale: come a dire, i campi lavorati, gli
alberi e le altre piante educate e disposte in ordine, i fiumi stretti infra certi termini e
indirizzati a certo corso, e cose simili, non hanno quello stato né quella sembianza che
avrebbero naturalmente.»; Anche la natura, quindi, è oramai cosa artificiata.
Con una postilla di rinvio al testo di Buffon, Leopardi scrive che anche il canto e la voce
degli uccelli è più gentile, più dolce e modulato nelle parti in cui c’è più civiltà; essendo liberi
traggono caratteristiche dalle sedi in cui sono abituati a stare. In questo caso Leopardi ci
lascia con il dubbio: il lettore può restare incerto se quel ‘provvedimento’, cioè aver assegnato
il ‘luogo alto’ agli uccelli per ricreare gli altri viventi con la voce, sia una finzione poetica o
abbia un fondamento di vero.
Gli uccelli adesso vengono identificati come “creature vocali e musiche” cioè creature con
capacità musicali e vocali, aggettivi che trasfigurano gli uccelli in rappresentazioni di angeli o
di anime libere dal peso della terrestrità. Il loro canto è di conforto sia agli uomini che a tutti
gli altri animali e il piacere deriva non dalla soavità dei suoni ma dall’allegria che il canto
trasmette.
Il canto viene paragonato alla risata umana. Da questo punto in poi ha inizio quella
digressione sul riso che per alcuni critici costituisce il nucleo originale dell’operetta, per altri
un inutile digressione. Gli uccelli sono gli unici tra gli animali a partecipare del privilegio che
l’uomo ha di ridere; ma mentre gli uomini praticano il riso solo occasionalmente o come
segno di follia, per gli uccelli sarebbe una condizione abituale.
Leopardi sottolinea argutamente il fatto che quanto più si è consapevoli della propria
infelicità e miseria, tanto più si è inclini a riderne. Il riso viene addirittura paragonato a una
specie di pazzia momentanea.
Pag.451 Sembra che gli uccelli non provino mai noia dato che hanno sempre qualcosa da fare,
passano da un luogo all'altro con facilità e in poco tempo, sono sempre in movimento. Questo
li rende più felici rispetto alle creature che privilegiano la quiete e l’ozio.
L'uomo invece ama principalmente l'ozio, si muove solamente per le proprie necessità.
Successivamente si ribadisce che gli uccelli sono sempre in movimento, vanno e vengono di
continuo e quando sono in un posto non stanno mai fermi. uomo,quiete \ uccelli,moto
Le qualità fisiche degli uccelli corrispondono a quelle che hanno nell'anima. Avendo l'udito e
la vista così acuta - con cui vedono gli spettacoli della natura - è scontato che abbiano una
grande forza, vivacità e uso dell'immaginazione. Ovviamente non l’immaginazione profonda
e angosciosa che ebbero Dante e Tasso, ma quella ricca, varia e fanciullesca.
Paragona i fanciulli con gli uccelli, per la loro vispezza. Afferma che la natura degli uccelli
sia perfetta in quanto godono più di tutti della bellezza della natura.
Conclude facendo un paragone tra lui e Anacreonte: come Anacreonte nella XX ode
desiderava potersi trasformare in un qualcosa che potesse permettergli un contatto con la sua
amata, anche Leopardi voleva, per un po’ di tempo, trasformarsi in uccello, «per provare
quella contentezza e letizia della loro vita».
A testimonianza della straordinaria attualità di cui Leopardi è promotore, basti notare che il
suo desiderio di essere trasformato in un uccello è espresso, all’interno di questa operetta, tra
il 1820 e il 1830. Un pensiero assai similare viene messo in musica intorno al 1990 dal
grande Lucio Dalla nel testo della canzone “Le rondini”
Vorrei girare il cielo come le rondini
E ogni tanto fermarmi qua e là
Aver il nido sotto i tetti al fresco dei portici
E come loro quando è la sera chiudere gli occhi con semplicità
(Lucio Dalla, “Le rondini”)
18.
CANTICO DEL GALLO SILVESTRE

Operetta composta nel Novembre del 1824.


È la ventesima e ultima operetta della prima pubblicazione ma retrocede in diciottesima
posizione per la collocazione del Dialogo di Timandro e Eleandro e poi del Frammento
apocrifo di Stratone da Lampsaco.
È scritta nel periodo in cui Leopardi approfondisce la sua riflessione filosofica, in particolare
per quanto riguarda “l’acerbo del vero”, elemento che insieme all’espediente narrativo del
“manoscritto ritrovato” accomuna questo testo con “Storia del genere umano”. La narrazione
non sarà più dell’alba della vita nell’universo, ma del suo futuro tramonto.
L’operetta è strutturata in due parti: un prologo in cui è possibile notare gli auctores –
l'autore del manoscritto, il traduttore e il gallo – e qui viene introdotto il pretesto del
ritrovamento di un antico manoscritto orientale che riporta il Cantico di un gallo silvestre e
che Leopardi afferma di tradurre per il lettore.
La seconda parte è il cantico vero e proprio, un gallo selvatico, gigantesco e immobile tra
terra e cielo, recita quotidianamente il suo introibo mattutino per richiamare il mondo alla
vita, un rito che dovrebbe significare il ritorno della vitalità, un annuncio di resurrezione, ma
che al contrario è un annuncio di desolazione che ricorda agli uomini la verità di un’esistenza
fatta di dolore, interrompendo la tregua concessa loro dal sonno, una “particella di felicità”.
Il risveglio del mattino rappresenya il fatto di prendere consapevolezza dell’inconsistenza
delle illusioni che caratterizzano la vita umana. Il mattino è anche “l’ora meno trista”, tempo
della speranza, perché l’uomo potrebbe avere delle aspettative e pensieri dolci per il nuovo
giorno. Questo è il tema della felicità dell’attesa, in seguito svolto nel Sabato del villaggio.
Come nel notturno del pastore errante dell’Asia in cui un individuo interroga la luna, in
questa operetta il Gallo interroga il Sole, interlocutore muto, chiedendogli se nel corso dei
secoli abbia mai visto qualche essere beato o felice o, in generale se abbia mai visto la felicità
nell’universo.
La mancanza di risposte da parte del Sole è essa stessa una risposta inesorabile, cioè che la
vita è male. Così il Gallo ritorna alla sua precedente funzione – ‘mortali destatevi’ –.
Il Gallo ricorda che per tutti gli esseri mortali, non solo l’uomo, “la massima parte del vivere
è appassire”. In questo processo di invecchiamento è incluso anche l’universo - pag.471 -.
In questo passo viene quindi sancita la totale mancanza di un senso della vita per tutti gli
esseri dell’universo. Il finale non offre nessuna speranza di individuare un perché
all’esistenza, in quanto il senso viene inghiottito nel nulla; pertanto, la vita rimane un mistero.
Perché vivere la vita se è destinata al nulla? Non è meglio non-essere piuttosto che essere,
sapendo che l’esistenza comporta necessariamente la sofferenza?
Nonostante in un passo dello Zibaldone Leopardi abbia affermato che “il non-essere sia
preferibile all’essere”, in realtà qualche anno più tardi con la Ginestra, ribalterà questa
visione pessimistica, invitando l’uomo a vivere eroicamente con dignità, umiltà e soliedarietà
la sua breve vita, nonostante tutto.
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