MADAME DE STAEL
La nobildonna Madame de Staël nel 1816 fece uscire un articolo, intitolato "Sulla maniera è l'utilità
delle traduzioni".
Questo articolo stimola la nascita del Movimento romantico in Italia, In pratica la nobildonna invita
Gli scrittori italiani a liberarsi dal culto del passato, per aprirsi alle nuove tendenze europee.
Questo articolo generò una vera e propria polemica tra neoclassici e romantici. Da una parte i
classicisti difesero la particolarità della cultura italiana: mistero, tenebre e orrore sono tipici della
cultura nordeuropea, mentre la visione armonica della vita È tipica della cultura Latina, da cui deriva
quella italiana.
Altri intellettuali accolsero invece le tesi di Madame de Stael e nel 1818 fondarono il conciliatore, da
cui diffondono le idee romantiche.
GIACOMO LEOPARDI
Leopardi nasce il 29 giugno 1798 nel borgo marchigiano di Recanati, in una famiglia della nobiltà
decaduta.
Il padre, conte Monaldo Leopardi era un filosofo politico con forte pensiero antirivoluzionario. La
Madre, marchesa Adelaide Antici.
Leopardi era un giovane brillante, tanto che già all'età di solo 10 anni non necessitava più di un
precettore. Infatti dagli 11 anni in poi imparò da solo il Greco, il Latino, l'inglese, Il Francese, lo
spagnolo, Il Sanscrito, il tedesco e l'yddish. A 15 anni scrive una piccola storia dell'astronomia e
diversi saggi di filosofia, in quegli anni le sue condizioni di salute iniziano a peggiorare. Leopardi
stesso definisce il suo studio nella biblioteca paterna "matto e disperatissimo" e furono responsabili
della scoliosi che gli provocò con il passare degli anni una doppia Gobba. Inoltre Giacomo rimase
sempre piccolo di statura a causa della sua malattia genetica rara, chiamata spondilite
anchilopoietica. Oltre ai problemi alle ossa, Giacomo aveva problemi alla vista e respiratori.
Leopardi ha un particolare concetto di Natura. Egli la definisce Matrigna, una madre non buona, non
dolce, che mette al mondo i suoi figli abbandonandoli al proprio destino, è la causa di ogni infelicità,
del dolore e Della Morte; Matura la prima svolta letteraria a soli 18 anni, passando
dall'enciclopedismo alla ricerca della bellezza negli autori antichi e moderni nel 1816.
L'amicizia con Pietro Giordani e l'apertura all'esterno, aumentano la sua insofferenza verso
Recanati e il suo paese che egli chiamava "Natío Borgo Selvaggio", da cui tenta la fuga nel 1819.
La crisi che ne consegue conduce alla seconda conversione letteraria, Dall'interesse estetico
all'approfondimento filosofico (dal Bello al Vero). Nel 1822 riesce finalmente a lasciare Recanati
per la prima volta e va a Roma, con soggiorno presso uno Zio. Roma però lo delude, piena di
ambienti mondani, per lui superbi e meschini. Questa delusione genera in lui un aridità interiore che
non lascia spazio alla poesia, questo "silenzio poetico" durerà dal 1823 al 1828. Il Desiderio di
viaggiare, tuttavia, resta vivo; ottenuto un assegno fisso dall'editore Stella, tra il 1825 e il 1828
viaggia tra Milano, Bologna e Firenze per poi trasferirsi a Pisa dove una ritrovata serenità segna la
fine del suo silenzio poetico e la stagione dei grandi Idilli. Nel 1830 Per necessità economiche è
costretto a tornare A Recanati per un periodo, dove trascorrerà "16 mesi di notte orribile". Poi
accetta l'offerta di collaborare con alcuni amici letterati e li raggiunge a Firenze, dove si trasferisce.
È qui che fa amicizia con lo scrittore Napoletano Antonio Ranieri e inizia una relazione con Fanny
Targioni Tozzetti da cui resta deluso. Ferito dalla delusione amorosa Giacomo realizza il ciclo di
Aspasia. Nel 1832 scrive il suo ultimo appunto sullo Zibaldone (il suo diario personale). Nell'ottobre
del 1833 Giacomo segue Ranieri, i 2 si trasferiscono a Napoli. A causa del colera, i due assieme
alla sorella di Ranieri, Paolina, sono costretti a spostarsi a Torre del Greco, qui scrive le sue ultime
opere. Con una salute cagionevole, Leopardi viene accudito da Paolina Ranieri, l'unica donna che
lo amo, sebbene si trattasse di un amore fraterno. Giacomo Leopardi muore il 14 giugno 1837 tra le
braccia di Antonio Ranieri.
LO ZIBALDONE
è un'opera vasta, scritta in un lasso di tempo ventennale da parte dell'autore e che raccoglie, in
ordine sparso, vari e numerosi pensieri, spunti, pareri, riflessioni sulla propria poetica, vita e modo
di intendere l'esistenza da parte dell'autore. Nello specifico tratta del rapporto tra uomo e natura, la
riflessione sul piacere, la teoria della poesia e insomma tutta la filosofia che sostiene e nutre la
propria poesia. All'interno dell'opera vi è l'evoluzione del pensiero leopardiano. Di per sé, lo
Zibaldone non nacque come opera strutturale: l'autore ne cominciò una libera scrittura su un proprio
quadernetto a soli diciannove anni, creando il primo nucleo di quella che sarebbe poi diventata
l'opera: nella prima parte infatti la stesura è confusionaria, non ordinata e molto casuale, poi dal
1827 viene reso un vero e proprio diario di vita, nel quale il poeta Annota gran parte della propria
esperienza letteraria e dell'evoluzione del suo pensiero. Il significato del libro dato dallo stesso
autore è quello di raccolta di pensieri, spunti tematici e filosofici, idee che andranno poi a maturare
in altre opere, minori o maggiori.
L’INFINITO
12 luglio 1820 data importante perché lui scrive l'infinito e poi ha pubblicato la teoria del piacere.
L'infinito si raggiunge attraverso la negazione del finito. Ad esempio una siepe impedisce di vedere
oltre ed è lì che l'immaginazione sfocia nell'infinito.
"Sempre caro mi fu quest'ermo colle"
C'è un colle a Recanati che si chiama il colle dell'infinito dove c'è una siepe che gli impediva la
visione dell'orizzonte.
Proprio perché la siepe gli impedisce la visione, comincia ad immaginare (si finge infiniti spazi)
l'infinito. È talmente preso da questa immaginazione che vi si perde assieme al suo cuore, ma è un
qualcosa che va al di là della sensazione fisica. Poi passa dalla dimensione visiva a quella
dell'udito. Lui sente il vento e immagina l'infinito silenzio che lo porta all'eterno e ai ricordi. Gli
tornano in mente le stagioni morte e quella presente. E il naufragare ( cosa negativa) in questo
infinito è per lui comunque piacevole (dolce).
Ci sono 2 momenti importanti:
1)La sensazione legata alla vista, infinito spaziale.
2)La sensazione legata all'udito, infinito temporale.
Ossimoro: paragona il naufragare (cosa brutta) ad una cosa bella.
I CANTI
Poesie scritte dal 1818 al 1836; quattro edizioni del libro: 1831, 1835, 1836, 1848. I Canti di
Leopardi sono uno dei libri di poesia più importanti dell’intera letteratura italiana, accostabile per
rilevanza al Canzoniere di Francesco Petrarca.
A differenza del Canzoniere petrarchesco, che delinea quasi un romanzo d’amore e che perciò si
presenta molto compatto e omogeneo, i Canti sono un libro dalle molte facce e dai molti registri
stilistici. Nonostante ciò, il libro dei Canti ha una sua logica unitaria. Essa è data dalla costante
inclinazione “teorica” del pensiero che si esprime nei singoli componimenti: da un testo all’altro, si
disegna, infatti, l’evoluzione di una concezione della storia, della vita, dell’animo umano. I Canti di
Leopardi si presentano, insomma, come il racconto poetico della storia del pensiero leopardiano,
che non smette mai di interrogare il senso dell’esistenza degli uomini e delle cose, ma trova
risposte parzialmente diverse nei diversi momenti del suo sviluppo. Il titolo "Canti", insolito per la
tradizione lirica italiana, non significa “canzoni”, ma indica semplicemente che i testi raccolti sono
componimenti lirici, a prescindere dalle loro specifiche caratteristiche metriche e stilistiche.
A SILVIA
È stata scritta 9 anni dopo l'infinito.
Il nome silvia deriva dalla Aminta di Tasso, la ninfa amata dall'autore. La ragazza in realtà si
chiamava Teresa Fattorini, figlia del Cocchiere di Casa Leopardi.
Giacomo affacciandosi dalla finestra della biblioteca dove studiava vedeva la modesta casa di
Silvia, e in particolare la finestra di fronte la sua era proprio quella di Silvia.
Ella morì nel 1918, la poesia è stata scritta 10 anni dopo la sua morte a Pisa.
"Silvia rimembri ancora quel tempo della tua vita mortale, quando beltà splendea nei tuoi occhi
ridenti"
Lui si rivolge a Silvia.
LA GINESTRA
Composto dall'estate all'autunno del 1836. Ci sono 3 copie manoscritte tutte di mano di Ranieri,
probabilmente dettate da Leopardi per la malattia agli occhi. Tutte e 3 scritte in modo diverso, 3
edizioni, come i promessi sposi. Il tema di fondo: da un lato la forza della natura e la sua distruzione
con l'uomo e le sue deboli costruzioni. Resta il pessimismo, in cui l'uomo non può essere al centro
delle cose ma viene distrutto dalla natura. Lui vede un'unione sociale contro la natura, ma che non
supera il suo pessimismo.
Poesia:
Sull'arida schiena del vesuvio, che porta morte (definito così per le sue eruzioni terrificanti).
Si rivolge all'odorosa Ginestra, che è l'unica che si trova sulle pendici del Vesuvio, contenta del
deserto che la circonda. Poi ripercorre la sua storia, ella vide le eruzioni del Vesuvio, come quella
che colpì Pompei e Ercolano. E anche chi passa in quel luogo ricorda. Egli scrive che gli uomini in
un "social catena" possono contrastare la Natura-Matrigna, proprio come fa la ginestra, fiore che
resiste nelle condizioni più difficili.
POSITIVISMO
Il positivismo è una corrente filosofica che si afferma in Francia è in Inghilterra nella prima metà
dell'Ottocento. Il positivismo afferma con forza l'importanza della Scienza e del suo metodo
scientifico che è uno strumento di indagine della realtà e del Progresso. Esso è simile all'illuminismo
quando afferma la propria fiducia nella scienza e nel progresso scientifico e tecnologico, ma è
anche simile al Romanticismo quando intravede nella storia il luogo in cui la ragione si afferma
progressivamente. Positivo, reale e che merita di essere considerato è perciò tutto ciò che può
essere analizzato utilizzando il metodo scientifico e tutto ciò che è utile. In parallelo al positivismo
abbiamo il realismo nell’impostazione del romanzo, poi in letteratura si affermano in Francia il
realismo e in Italia il verismo.
Il realismo è il movimento che ha dato origine al naturalismo e al verismo. Si tratta di un
movimento letterario che nasce nel 19esimo secolo con la necessità di fotografare la realtà ovvero
di descriverla in maniera oggettiva.
Il naturalismo, nasce in Francia nella seconda metà dell'Ottocento, nasce dall'idea di descrivere le
cose con lo stesso metodo applicato alle scienze naturali, tutto deve essere visto, osservato e
sperimentato prima di essere scritto. L'esponente più importante del movimento è Emile Zola. Per
lui Lo scrittore non deve inventare la realtà, ma osservarla per poi riprodurla oggettivamente.
Mentre in Francia il naturalismo muove i successo oi passi, in Italia si sviluppa il verismo; questo
movimento letterario subisce enormemente l'influenza del positivismo e del naturalismo francese di
Zola. Le opere del verismo descrivono principalmente realtà dell'Italia meridionale e insulare,
eseguono due caratteristiche principali:
1. Il Canone dell’impersonalità ( le tecniche narrative vanno a raffinarsi e comincia a sparire
la figura del narratore. Infatti la Storia non ha più qualcuno che ci presenta il quadro generale della
situazione ma si svolge sotto i nostri occhi. Il narratore scopre con noi quella che sta accadendo. Il
romanziere costruisce il testo in modo da annullare la sua presenza nel racconto. È impassibile,
non vi sono pareri, la sua è una descrizione oggettiva. È il contrario dei promessi sposi, lì il
narratore è onnisciente (sa tutto di tutti) ed è palese (esprime anche delle opinioni))
2. Conseguente alla prima, la narrazione è distaccata e in terza persona
Tra gli esponenti più importanti abbiamo Giovanni Verga, Luigi Capuana e Federico de Roberto.
EMILE ZOLA
Nacque il 2 aprile del 1840 a Parigi, in Francia. È considerato uno dei maggiori esponenti del
naturalismo, Fu uno dei romanzieri Francesi più apprezzati, più pubblicati, tradotti e commentati in
tutto il mondo. Nelle sue opere Zola racconta il mondo delle Miniere e delle ferrovie; della
speculazione immobiliare e del capitalismo; della vita operaia e della prostituzione.
L'ASSOMMOIR
Viene pubblicato nel 1877 ( tradotto in italiano come lo scannatoio o l'ammazzatoio). Il titolo si
riferisce alla taverna dove i personaggi vanno a ubriacarsi di acquavite. La protagonista è Gervaise,
una donna che ha alle spalle una vita di stenti e di sofferenze, è delusa da Lantier, l'uomo di cui si è
fidata e con cui ha avuto due figli. Ella Continua a lavorare per mantenere i figli. Cede alla corte di
un operaio, Copeau, che la sposa, ma presto questi si infortuna sul lavoro, e i soldi scarseggiano.
Copeau si dà poi all'alcolismo e Gervais, nonostante il conforto dell'amicizia di un altro operaio,
Goujet, che l'ama In segreto, inizia a bere. Il suo degrado si completa quando L'Antico amante,
Lantern, venuto ad abitare presso di loro, tenta di sedurla. Disperata, Gervais cede alla tentazione
della prostituzione. Il marito morirà orribilmente in un ospizio e lei lo seguirà di lì a poco
concludendo un esistenza costellata di miseria.
GIOVANNI VERGA
Giovanni Verga nasce a Catania il 2 settembre del 1840, da una famiglia di Agiati proprietari terrieri.
In mancanza di scuole pubbliche, viene mandato alla scuola privata di Antonio Abate che faceva
leggere e commentare ai suoi allievi romanzi storici e poesie di carattere civile. Verga si forma
principalmente sui testi dei romanzi francesi. Frequentò la facoltà di legge dell'università di Catania,
ma interruppe gli studi per dedicarsi alla pubblicazione del romanzo i carbonari della montagna.
Decide quindi di dedicarsi solo alla letteratura e al giornalismo e fonda, con Nicolò Niceforo e
Antonio Abate, alcune riviste. Egli partecipò alle vicende legate alla spedizione dei Mille e trascorse
poi alcuni mesi a Firenze, da poco diventata capitale d'Italia dove si trasferì e conobbe Luigi
Capuana. A Firenze si immerge nella vita culturale e mondana, frequentando i salotti letterari e i
loghi più vivi del dibattito letterario.
Giovanni Verga È il maggior esponente del verismo, autore dei Malavoglia, delle novelle rusticane,
di Mastro Don Gesualdo; ma anche di novelle come: La roba, Rosso Malpelo o La lupa. Ha scritto
anche romanzi patriottici e mondani ma è conosciuto soprattutto per le sue opere veriste. Queste,
non solo, raccontano la sua terra Natale (la Sicilia), ma hanno anche un importante risvolto politico.
Nelle opere di Verga il punto di vista è quello dei vinti, persone che il progresso e la modernità
lasciano indietro; sono pescatori, contadini, muratori e minatori; persone comuni, vittime dello
sviluppo economico che non tiene conto di loro e delle loro vite.
Adesione al Verismo:La conversione letteraria, cioè la svolta radicale nel percorso artistico dello
scrittore, non può intendersi come un evento improvviso, Ma si giustifica Alla luce di un lungo
processo di maturazione ideologico e culturale, che Orienta la ricerca letteraria Verdiana verso i fatti
nudi e schietti che sono alla base della complessità del reale. In questo processo di maturazione
hanno giocato un ruolo di rilievo molti fattori biografici e ideologici, fra cui la allontanamento dalla
Sicilia, il sodalizio intellettuale con un altro scrittore catanese, Capuana, a cui si deve la decisione di
Verga di spostarsi nel capoluogo Lombardo, e la scoperta di romanzi di Zola
ROSSO MALPELO
è un'opera letteraria di Giovanni Verga. Rientra nel genere della novella ed è stata presentata nel
quotidiano “Il Fanfulla” nel 1878. Poi è stata pubblicata in Vita dei campi nella prima edizione e poi
nuovamente ripubblicata in una seconda edizione del 1897. La novella è ambientata in una cava di
Rena rossa. Questa è collocata a Catania tra i quartieri di Monserrato e la Carvana. Il protagonista
della storia è Rosso Malpelo, giovane dai capelli rossi. Il giovane fa il minatore in una cava di Rena
rossa, viene giudicato a causa dei suoi capelli rossi secondo la mentalità Popolare. Non si sente
amato nemmeno dalla madre che crede lui rubbi dallo stipendio che porta in famiglia. Solo il padre,
Mastro Misciu, gli vuole bene apertamente. Il padre, bisognoso di denaro, accetta il lavoro che
consiste nell' abbattere un pilastro per conto del datore di lavoro. Mentre lavora, un giorno, il pilastro
lo colpisce e Rosso Malpelo scava invano nell'arena rossa, ma il padre ne resta sepolto. La morte
del padre segnerà la sua esistenza. Alla cava andrà a lavorare un giovane chiamato ranocchio,
questi viene chiamato così per il suo modo di camminare claudicante. Rosso Malpelo, da un lato lo
protegge, dall'altro lo maltratta. Il suo intento è quello di fargli capire la crudeltà del mondo punto e,
dopo tempo viene trovato il cadavere di Mastro Misciu. Rosso Malpelo serba per sé gli oggetti del
padre in suo ricordo, in quei giorni muore anche ranocchio a causa della tubercolosi e per la fatica
da lavoro. Rosso Malpelo rimane solo, perché la madre si è risposata, mentre la sorella vive in un
altro quartiere. In seguito il ragazzo decide di avventurarsi In una galleria abbandonata. Dopo aver
portato con sé del cibo, si avventura in un cunicolo, non uscendone più. Spinti dal pregiudizio, gli
altri minatori hanno paura che non spunti all'improvviso. Infatti temono di vedere i suoi capelli rossi
e i suoi occhi grigi. La novella è un monito del Verga allo sfruttamento delle classi meno abbienti
siciliane del XIX secolo. Questa condizione è messa in particolar modo con le prime indagini svolte
dal Regno d'Italia. Ciò che emerge è il pregiudizio Popolare verso un povero ragazzo dai capelli
rossi. Nell'opera Verga fa trasparire un sentimento di pietà verso il protagonista. In genere gli autori
veristi non fanno trasparire emozioni e giudizi personali nelle loro opere. Rosso Malpelo è un vinto,
perché non può sfuggire al suo destino. Nell'opera si ricorre a varie tecniche narrative, ad esempio
viene utilizzato l'artificio dello straniamento; questa tecnica narrativa mostra un episodio come se
fosse strano, bizzarro. Il punto di vista dell'autore è un'altra tecnica utilizzata nell'opera, si usa un
linguaggio Popolare, con il ricorso al vialetto. La sintassi utilizzata e la paratassi. Si ricorre a frasi
semplici unite da virgole e congiunzioni.
LA LUPA
La novella di Verga La Lupa, pubblicata per la prima volta su rivista e successivamente oggetto di
una riduzione teatrale, appartiene alla raccolta Vita dei campi.
Ambientata in un piccolo paese siciliano, La Lupa racconta di una donna, gnà Pina,
soprannominata la Lupa dalla gente del posto per il suo comportamento e il suo aspetto: è una
donna che non va mai in chiesa e seduce gli uomini del villaggio. Ha una figlia, Maricchia, che non
può che piangere di nascosto per il suo destino infelice: con una madre del genere nessuno la
prenderà in moglie.
Un giorno la Lupa si innamora di Nanni, un giovane appena rientrato dal servizio militare, ma il
ragazzo, che ridendo rifiuta la donna, dichiara di desiderarne invece la figlia. Così, la Lupa costringe
Maricchia a sposarlo e accetta il matrimonio a una condizione: che i due vadano a vivere in casa di
lei, lasciandole un angolo per dormire (la roba).
Con questo stratagemma la donna può restare a contatto con il genero e portare avanti con
successo la sua bramosa opera di seduzione.
Maricchia arriva disperata a denunciare la madre in commissariato. Nanni confessa l’adulterio, ma
la denuncia non ha alcun risultato: le forze dell’ordine chiedono alla donna di lasciare la casa, ma la
Lupa rifiuta di farlo.
Le cose non cambiano nemmeno quando Nanni, poco dopo, viene colpito al petto dal calcio di un
mulo e, ritenuto in punto di morte, confessa ancora i suoi peccati e si pente. Ma una volta guarito, "il
diavolo torna a tentarlo" e non ha intenzione di smettere: "ammazzami", risponde la Lupa, "ma
senza di te non voglio starci". Al colmo della follia, Nanni capisce che l’unica soluzione per liberarsi
della donna è prenderla alla lettera e ucciderla.
La Lupa è una tra le novelle più note della raccolta Vita dei campi, anche e soprattutto grazie alla
sua conturbante protagonista. La sua sensualità aggressiva la rende per l’intero paese un diavolo o
una strega, dagli “occhi da satanasso”. La descrizione che Verga fa della donna è un classico
esempio di straniamento tramite regressione del punto di vista: il narratore si identifica con il punto
di vista del paese, senza prenderne le distanze, presentando i giudizi sulla donna e la visione che il
resto del villaggio ha di lei. La Lupa non solo è totalmente estranea alla concezione di donna della
mentalità popolare, non è mansueta e domestica, ma è anche contraria alle leggi che dominano la
vita di paese: la religione e la roba. Non si reca alle funzioni, né ha scrupoli a sacrificare la dote
della figlia pur di avere il genero vicino.
LA ROBA
La roba è una novella di Giovanni Verga pubblicata per la prima volta sulla rivista “La Rassegna
Settimanale” nel 1880.
La tecnica narrativa che apre la novella è quella della narrazione indiretta per presentare la
ricchezza del personaggio principale: un viandante che attraversa la pianura di Catania, contempla
stupito la vastità delle proprietà di Mazzarò.
Poi lo stesso Mazzarò ci viene descritto seguendo un profilo sia fisico (basso e con una grossa
pancia) che psicologico, e quest’ultimo viene davvero ben delineato grazie al racconto di come
l’uomo abbia accumulato tanta “roba”. Mazzarò è un uomo che ha sacrificato tutto nella sua vita,
con fatica, perseveranza e ostinazione per accumulare più beni materiali possibili, ma è incapace di
godere dei benefici che possono scaturire da tanta ricchezza. Non ha famiglia, vive in condizioni di
povertà per non sprecare le sue ricchezze, lavora come un mulo nei campi. Non ha vizi, non ha
amici. Ha allontanato tutti nella sua vita, per paura che potessero sottrargli la sua roba.
La sua ribalta da povero bracciante sfruttato e sottopagato a proprietario di tutti i beni che sottrae a
quello che una volta era il suo padrone è un’ascesa sociale sterile. La sua scalata riesce grazie al
sacrificio e alla furbizia, ma una volta guadagnata una posizione migliore, l’uomo sembra mandare
in fumo ogni possibilità di crescita personale. Sleale nei confronti di chi lavora per lui e ossessionato
dall’accumulo della ricchezza, Mazzarò vive nel terrore della morte. Durante la sua vecchiaia
Mazzarò si rende conto di quanto vuota e povera sia, in senso metaforico, la sua vita, e dunque il
suo attaccamento ai beni materiali diventa, se possibile, ancora più tossico. Non avendo eredi né
conoscenti, va in fumo anche la possibilità di trasferire i suoi beni a qualcuno. Il pensiero di non
poter portare con sé i suoi beni nella vita ultraterrena lo fa addirittura impazzire e il testo si conclude
con una scena pietosa: lui che vaga nei campi, accecato dalla follia, distruggendo raccolti e
colpendo animali e gridando "Roba mia, vientene con me!”
IL CICLO DEI VINTI
I vinti sono dei predestinati alla sconfitta, non per un disegno superiore bensì per la loro condizione
sociale e, dalle circostanze che vivono, sono incapaci di cambiare le cose (questa concezione della
realtà si chiama determinismo). Il ciclo doveva comprendere i Malavoglia; Mastro don Gesualdo; La
duchessa di Leyra; L’onorevole scipioni e l’uomo di lusso, tuttavia Verga scrisse solo i primi due,
lasciando il progetto incompiuto. Questo accadde forse perchè l’autore avvertì un profondo
mutamento culturale (il Decadentismo). Nel progetto l'analisi verista sul terreno sociale doveva
prendere in considerazione i vari livelli sociali , dal più modesto alla ricca aristocrazia.
I Malavoglia, pubblicati nel 1881 e non riscuotono affatto successo, tanto che lo stesso autore li
definirà un fiasco.
Il romanzo si svolge negli anni successivi all’unità d’Italia, tra il 1863 e il 1878, ed è incentrato sulle
drammatiche disavventure di un umile famiglia di pescatori di Aci Trezza (nei pressi di Catania), i
Toscano, noti con il soprannome di Malavoglia.
La famiglia è composta da: il nonno, suo figlio, la moglie del figlio ed i loro cinque figli.
Le disavventure iniziano a partire dalla partenza del nonno (‘Ntoni) per il servizio di leva,
successivamente la famiglia cercherà di ripagare alcuni debiti e perderanno la loro barca (per
paradosso si chiama "Provvidenza") e più cercano di migliorare la loro condizione, più sembra che
meno ci riescano.
(Infatti alla fine anche il figlio ed i nipoti di pardon ‘Ntoni muoiono, partono per il servizio militare, si
indebitano)
Mastro Don Gesualdo: Il mastro Don Gesualdo, secondo romanzo del “ciclo dei vinti”, ha
un’elaborazione assai lunga, che occupa quasi interamente gli anni 80.
Abbiamo due versioni poiché la prima pubblicata nel 1888 non soddisfa pienamente l’autore che la
sottopone a una profonda revisione fino alla sua ristampa, nel 1889.
Il protagonista, Gesualdo, vive in un contesto sociale più elevato rispetto alla realtà dei Malavoglia e
rappresenta un borghese in una piccola città di provincia (Vizzini, nei pressi di Catania).
Nelle scelte di vita, Gesualdo è guidato da un criterio puramente economico e utilitaristico e viene
meno nei valori familiari (nei confronti della moglie e della figlia ≠ nei Malavoglia ritroviamo ancora il
valore familiare).
L’unica cosa che sembra contare è il possesso della "roba", beni materiali, mito mentale del mondo
visto da Verga (con la novella “La roba”).
Alla fine però, rimarrà un isolato, senza affetti, e accanto al nobiliare "Don", a cui ha diritto (poiché si
sposa con un’aristocratica), resterà indelebile il “Mastro", che rimanda alla sua attività manuale
(faceva il muratore prima di essere don).
Il romanzo ha pagine di grande drammaticità. Verga è un formidabile narratore ed in questo
romanzo si raggiunge la vera maturità artistica dell’autore.
FUTURISMO
Il futurismo è un movimento culturale di inizio 900, che si estese anche in letteratura.
Il suo fondatore è Filippo Tommaso Marinetti il quale pubblicò, nel mese di febbraio del 1909 su “Le
Figaro”, il cosiddetto primo Manifesto del futurismo nel quale egli riassunse i principi fondamentali
del movimento che si basano sul disgusto per le idee del passato, in particolare le tradizioni
politiche e artistiche. Marinetti e coloro che aderirono al Futurismo condividevano l’amore per
la velocità e la tecnologia. Per i futuristi, infatti, mezzi come l’automobile e l’aereo erano contornati
di un’aurea che li rendeva veri e propri miti.
Come i mezzi, anche le città industriali erano considerate tali, a conferma dell’idea che era
avvenuto quello che loro definivano il "trionfo tecnologico" dell’uomo sulla natura.
Le idee di Marinetti attrassero alcuni giovani, che presto iniziarono a farsi notare: in particolare
ricordiamo Umberto Boccioni, Carlo Carrà, e Luigi Russolo ai quali si deve l’estensione delle idee di
Marinetti all’arte visuale. Sono proprio loro, infatti, a rappresentare quella che può essere definita
una prima fase del movimento futurista in generale. Tra le caratteristiche principali del Futurismo in
letteratura troviamo la volontà di vedere finalmente la nascita di una letteratura rivoluzionaria,
ovvero priva di regole grammaticali, ortografiche e punteggiatura.
Furono proprio i futuristi in tal senso a sperimentare nuove forme di scrittura, dando vita a una vera
e propria poesia fatta di movimento e di libertà. Nella letteratura futurista non vi è spazio per la
sintassi tradizionale, le parole subiscono costanti modifiche e sono disposte sul foglio in modo da
evocare l’immagine descritta.
A partire dal 1912 il Manifesto tecnico della letteratura futurista compare per le Edizioni futuriste
di Poesia, la rivista fondata nel 1905 proprio da Marinetti, e successivamente, nel 1914, sulla rivista
fiorentina "Lacerba". Quest’ultima diventa presto la rivista ufficiale del futurismo.
Per i futuristi la guerra ebbe un valore particolare, era considerata espressione vitalista e
purificatrice. In tal senso i futuristi erano convinti nazionalisti, anche se il rapporto con il fascismo
non fu di facile gestione in seguito all’ostracismo culturale subito dal futurismo proprio dall’ideologia
fascista.
ESTETISMO
Negli ultimi decenni del 1800 è evidente la ricerca di una poesia nuova, con una total rinuncia del
culto del dato oggettivo che, invece, aveva caratterizzato il Positivismo e il Naturalismo. Da ciò
deriva l’Estetismo.
Il principio alla base dell’Estetismo è quello dell’arte per l’arte, che esalta il valore
della bellezza artistica e considera l’arte non assoggettabile alle regole della morale comune e priva
di intenti politici e civili.
Il principio dell’arte per l'arte è alla base del movimento estetico. Il principio dell’arte per l’arte esalta
il valore della bellezza artistica e considera l’arte non assoggettabile alle regole della morale
comune. Rifiuta quindi il Realismo e l’utilitarismo borghese. Vi è l’affermazione di un nuovo ruolo
dell’artista, non più “cantore” del progresso e della borghesia, ma individuo eccezionale al di sopra
delle persone comuni. L’esteta ha infatti orrore della vita comune, della volgarità borghese, di una
società dominata dall’interesse materiale e dal profitto. Si isola quindi in una sdegnosa solitudine,
circondato solo dalla bellezza e dall’arte.
Secondo le teorie dell’Estetismo l’artista deve vivere la propria vita come un’opera d’arte: da ciò
deriva la figura dell’esteta o dandy, cioè la persona aristocratica e raffinata che fa della sua vita una
continua ricerca del bello, della mondanità, degli oggetti più preziosi. Egli vuole trasformare la sua
vita in opera d’arte, sostituendo alla morale il culto del bello e l’esaltazione del piacere. L’esteta
nella sua assoluta amoralità può con indifferenza giungere a commettere il male, a compiere
crudeltà e delitti, può compiacersi di sprofondare nel vizio.
HUYSMANS
Huysmans è il massimo esponente del decadentismo francese. In modo particolare è un esponente
dell’estetismo. L’estetismo è una tendenza nata all’interno del decadentismo.
Controcorrente: romanzo principale di Huysmans. Questo romanzo è conosciuto anche con il
titolo A ritroso. Il protagonista di questo romanzo di stampo decadente è un aristocratico, Des
Esseintes. È un romanzo ambientato a Parigi di fine Ottocento e questo giovane aristocratico è la
tipica figura dell’esteta–edonista, ossia colui che ricerca il piacere. Questo aristocratico è l’unico
erede della sua famiglia, un giovane che si immerge nella vita mondana di Parigi solo che ne è
insoddisfatto e allora decide di allontanarsi dalla città di Parigi, andando a vivere in campagna.
Nella casa di campagna cerca di soddisfare tutti i propri piaceri, in modo particolare si circonda di
cose belle, dedica tutto il suo amore, la sua attenzione alla cura della casa in maniera maniacale.
Per esempio per rendere più bella la sua abitazione acquista una tartaruga e per adeguarla all’
arredamento le fa incastonare nel carapace delle pietre preziose. Il protagonista è un uomo di
cultura e quindi ha la casa piena di libri, anche essi preziosi perché li fa rilegare con carta pregiata.
Egli trascorre la sua vita leggendo, curando piante, crea dei profumi, degusta vari tipi di alcolici,
pensa e riflette sul mondo. A un certo punto questi manifesta una malattia isterica, i cui primi segni
sono evidenti con la cura maniacale della casa, poi ha delle allucinazioni, fino a quando non rimane
allettato, perché si sente ormai debole fisicamente e spiritualmente. Il romanzo si conclude con la
visita del medico che va a visitarlo e gli consiglia, per uscire dal suo stato, di tornate in città. Il
romanzo ha una conclusione aperta, perché Huysmans non ci dice quale sarà la decisione dell’
aristocratico. Il testo non è costituito da sequenze narrative, ma le sequenze sono descrittive e
riflessive, quindi è come se la storia non andasse avanti, ma si fermasse sulla figura del
protagonista, figura di esteta.
Controcorrente è un romanzo rappresentativo di un'epoca europea di fine Ottocento, epoca in cui ci
sono degli intellettuali esponenti del decadentismo insofferenti della vita monotona borghese, una
vita che loro vedono grigia e triste perché proiettata al guadagno, legata al processo
di industrializzazione che si stava avviando in quel periodo.
DECADENTISMO
Il termine “decadentismo” fu usato all'inizio in senso dispregiativo, da quei critici che giudicavano
negativamente la nuova forma di poesia apparsa tra la fine dell'800 e l'inizio del 900. Poi il termine
fu accettato dagli stessi poeti come loro segno distintivo. I poeti Decadentisti sentono con
particolare sensibilità la crisi del loro tempo, la fine delle certezze ottocentesche nella scienza e nel
progresso essi si sentono sempre meno capaci di interpretare la realtà, e tanto meno di proporre
soluzioni ai delicati problemi, l'inquietudine che l'uomo avverte di fronte al mistero della realtà, che
sfugge a ogni tentativo di spiegazione scientifica e razionale. Il mistero sta all'esterno di noi, ma
anche nel nostro interno, tra le pieghe più nascoste del nostro animo. L'uomo sente di avere dentro
di sé forze oscure, sentimenti contraddittori e a volte inconfessabili. Spesso fra il mondo esterno e il
mondo interno coglie misteriosi rapporti e analogie. La poesia decadente tenta di esprimere questo
mistero, e non può farlo in modo allusivo, simbolico e istintivo. Essa dà molta importanza alla
musicalità dei versi, alle similitudini, alle immagini che possono in qualche modo andare oltre le
apparenze per giungere a una verità più profonda e nascosta. Quella decadente è quindi una
poesia di grande fascino, ma più difficile rispetto a quella tradizionale, in quanto non sempre basata
sulla logica e sulla descrizione oggettiva. La poesia decadente si sviluppa in Francia agli inizi
dell'800. In Italia i primi ad accogliere questa nuova sensibilità furono Giovanni Pascoli e Gabriele
D'Annunzio.
CHARLES BAUDELAIRE
Nacque a Parigi il 9 aprile 1821. Ebbe un’infanzia e un’adolescenza segnate dolorosamente dalla
morte del padre, prima, e dalle incomprensioni del patrigno, poi.
Dopo aver interrotto gli studi (venne espulso dal collegio nel 1839), fu costretto, per volontà della
famiglia, a imbarcarsi su una nave mercantile alla volta delle Indie, ma interruppe presto il viaggio e
rimpatriò per ragioni di salute.
Al raggiungimento della maggiore età, entrò in possesso dell’eredità paterna. Si abbandonò allora
a un’esistenza disordinata e dispendiosa, che lo portò a dilapidare in breve tempo il patrimonio.
La sua famiglia, preoccupata per le sue stravaganze (amori passionali e violenti, uso smodato di
alcol e droghe) lo fece interdire. Questo però non servì a riportare alla ragione il poeta che continuò
a vivere in modo sregolato.
Nel 1857 Charles Baudelaire raccolse e diede alle stampe le sue poesie, già del resto pubblicate su
riviste negli anni precedenti, in un volume intitolato Les Fleurs du Mal (I Fiori del Male), che ben
presto fu sequestrato e condannato sotto l’accusa di immoralità.
L’opera poetica di Charles Baudelaire è consegnata a I Fiori del Male. In essa esprime il
totale rifiuto verso ogni forma di convenzione e, di conseguenza, verso i canoni della tradizione
letteraria, l’avversione nei confronti della società borghese contemporanea, la percezione
dell’irreversibile crisi della società del suo tempo. Nel titolo stesso della raccolta c’è la chiave
interpretativa della poetica di Charles Baudelaire: il fiore è il simbolo della purezza, ma anche
dell’inutilità dell’arte. Come la vera arte nasce dalla sofferenza e dal male esistenziale, così il fiore
nasce dalla terra putrida per elevarsi poi verso il cielo. Il fiore non ha alcuna utilità pratica, ma vale
per la sua assoluta bellezza. Nascono da questo i concetti de “l’art pour l’art”, ovvero l’arte fine a se
stessa, come ricerca della bellezza e del piacere estetico, e quello di “poesia pura“, che rifiuta
l’impegno politico e sociale e si propone autonoma da ogni condizionamento morale, libera nella
sua soggettiva rappresentazione della realtà.
Quella di Charles Baudelaire è dunque una poesia incentrata sul valore evocativo e allusivo della
parola, su un'attenta ricerca formale, sulla perfezione musicale dello stile.
Per arrivare a questo risultato occorre prestare grandissima attenzione al lessico, il lettore deve
pertanto cogliere nel testo quelle parole-chiave che comunicano il significato principale del verso o
del componimento e che fanno da “guida” per la comprensione dell’intero testo.
CORRISPONDENZE
La poesia Corrispondenze è una vera e propria dichiarazione di stile poetico del suo autore: in
essa, infatti, Baudelaire esprime la propria concezione della poesia e del reale. La realtà concreta e
visibile, la Natura, nasconde in sè un'invisibile e segreta di legami e rapporti tra le cose; il poeta è
colui che, grazie a una sensibilità particolare e raffinata, è capace di intuire e riconoscere la foresta
di simboli che si cela dietro il reale e si incarica di rivelarla agli altri uomini. Da questa concezione
discende l'uso di un linguaggio particolare, evocativo, musicale, simbolico, completamente nuovo
rispetto a quello della tradizione poetica precedente, adatto a illustrare le corrispondenze segrete;
un linguaggio capace di seguire ed esprimere adeguatamente i percorsi dell'intuizione del poeta e
di renderla comprensibile. Il linguaggio simbolista, cioè che riflette una realtà che è simbolo di altro,
si distacca dal linguaggio poetico della tradizione. Il tema del sonetto è costituito dalle
corrispondenze, i legami cioè che si riconoscono nella realtà: ogni oggetto rimanda a qualcos'altro,
è simbolo di qualcos'altro. Spetta all'uomo e in particolare al poeta ritrovare e comunicare tali
simboli.
Questo messaggio si avvale dell'uso di due figure retoriche di significato. Nella prima quartina, la
Natura con i suoi alberi è assimilata mediante l'analogia a un tempio con le sue colonne. Nelle
terzine l'uso della sinestesia rende l'idea che le sensazioni si fondano in una vasta unità, in cui
ciascuna di esse richiama e corrisponde a un'altra: i profumi sono definiti infatti freschi, vellutati e
verdi, e le sostanze odorose ambra, muschio, incenso e benzoino tendono a commentare le
dolcezze estreme dello spirito e dei sensi.
GABRIELE D'ANNUNZIO
Gabriele D’Annunzio nasce a Pescara il 12 marzo 1863 da una famiglia agiata della media
borghesia.
Tra il 1881 e il 1891 vive a Roma tra incontri mondani, scandali, attività giornalistica e letteraria. Nel
1891 si trasferisce a Napoli e vi resta per qualche anno, partecipando alla vita artistica, culturale e
mondana partenopea.
Dopo una breve attività politica, tra il 1898 e il 1909, D’Annunzio si stabilisce in una villa
sontuosamente arredata, la Capponcina, vicino Firenze.
Nel 1910, perseguitato dai creditori, si ritira in «volontario esilio» ad Arcachon, vicino Bordeaux, in
Francia. Qui resta fino al 1915. Sono anni intensi di relazioni con gli ambienti intellettuali e mondani
francesi, di nuove esperienze culturali, di attività creatrice.
Scoppiata la Prima guerra mondiale, Gabriele D’Annunzio torna in Italia e si arruola come
volontario: partecipa a numerose imprese in terra, in mare e in cielo (tra esse la «Beffa di Buccari»
e il volo su Vienna del 1918).
Tra il 1919 e il 1921 libera con un gruppo di volontari la città di Fiume, che i trattati di pace non
avevano assegnato all’Italia. L’impresa riesce, ma D’Annunzio è costretto dal governo italiano ad
abbandonare la città.
Nel 1921, si ritira a vita privata nella sfarzosa villa di Gardone, sul lago di Garda, detta il
Vittoriale. Nel 1923, D’Annunzio dona il Vittoriale, non ancora completato e non ancora pagato,
all’Italia e agli Italiani.
Il Vittoriale, dichiarato monumento nazionale, è stato eretto a Fondazione un anno prima della
morte del poeta, avvenuta il 1° marzo 1938.
IL PIACERE
Il protagonista del romanzo è il conte Andrea Sperelli. È l’ultimo rampollo di una nobile famiglia. È
un uomo intelligente e colto, ma anche corrotto e depravato. Andrea ha un’amante, la bellissima
Elena Muti. A un certo punto Elena lo lascia per sposare un altro uomo. Egli, incapace di arrendersi
all’evidenza, entra in una totale crisi di valori e di ideali. Nel tentativo di dimenticare Elena e di
vendicarsi di lei, Andrea si getta nelle avventure galanti, ma tutto è inutile. Rimane ferito in un
duello, provocato dalla reazione gelosa di un marito offeso dalla sua intraprendenza. Nel corso della
lunga convalescenza nella villa di campagna presso sua cugina, la marchesa d’Ateleta, riassapora il
gusto di una vita più semplice. Nasce in lui il bisogno di una rigenerazione morale, si avvicina così
ai propri interessi di scrittore e artista. La pace è turbata dall’arrivo di un’amica della cugina, Maria
Ferres. Ella è caratterizzata da una femminilità delicata, spirituale, sensibile, ben diversa da quella
di Elena. A poco a poco Andrea stabilisce con Maria un’intimità affettuosa, che diviene vero e
proprio rapporto d’amore dopo il ritorno dei due a Roma. Nonostante sia riuscito a conquistare
l’amore di Maria, Andrea non riesce a dimenticare Elena, che ha cominciato a rivedere, dopo il
rientro a Roma. Anzi, l’amore per le due donne, Elena e Maria, finisce per diventare per lui un unico
amore.
Così, Andrea alimenta la sovrapposizione dei due sentimenti e delle due donne. Arriva a
consumare sulla inconsapevole e dolce Maria la sua passione per l’ormai perduta Elena, finché un
giorno mentre è abbracciato a Maria pronuncia il nome di Elena. Maria si accorge così con orrore
della situazione e se ne va, lasciando Andrea disperato e solo. L’importanza del romanzo, non solo
sul piano letterario, ma anche su quello di costume, risiede nel fatto che con esso viene introdotto in
Italia l'”eroe decadente“. Tanto diverso dall’eroe classico e dall’eroe romantico, l’eroe decadente è
un eroe chiaramente negativo: forse, più che un immorale è un amorale in quanto in lui il senso del
bello ha soffocato ogni nozione di bontà e di giustizia. È un individuo cinico e dissoluto. Animato da
una insopprimibile ansia di bellezza, calpesta ogni legge umana e divina, disprezza tutto ciò che è
mediocre e banale e persegue sensazioni e piaceri raffinati e squisiti.
ALCYONE
Alcyone di Gabriele D’Annunzio è il terzo libro delle Laudi del cielo, del mare, della terra, degli eroi.
Si tratta di una serie di cinque libri che costituiscono l’opera poetica fra le più note dell’autore, in cui
è sviluppato il concetto di superomismo.
Il terzo libro delle Laudi – Alcyone – comprende 88 componimenti stesi tra il 1899 e il 1903; è
pubblicato alla fine del 1903, ma con data 1904. Argomento dell’Alcyone è, in primo luogo, la storia
della stagione estiva, dal suo nascere in giugno sui colli di Fiesole e di Settignano tra ulivi e ruscelli,
al suo esplodere in luglio e agosto lungo le spiagge del mare Tirreno, tra la foce dell’Arno e quella
del Serchio, in mezzo a sabbie, pinete e fratte, al suo lento declinare, colto sempre sulle spiagge
della Versilia, sino al suo inevitabile morire nell’autunno prossimo. In secondo luogo, e
contemporaneamente, Alcyone è anche la storia di «un’operazione mitica» che porta l’uomo a
ricercare e a conquistare una condizione divina e poi a perderla irrimediabilmente. Manca in esso
sia la dimensione superumana in senso proprio che caratterizza gli altri libri sia quella tribunizia, da
poeta vate che rievoca le passate glorie e celebra le gesta eroiche del presente;la raccolta è una
celebrazione della natura, ma mancano sia la carica di vitalistico sensualismo sia quella
disposizione di languido e manierato abbandono che caratterizzava il Poema
paradisiaco;l’Alcyone è un momento di tregua che apre la strada a quella fase della produzione
dannunziana definita «notturna». Tra le liriche che compongono l’Alcyone di Gabriele D’Annunzio
ricordiamo: La sera fiesolana e La pioggia nel pineto.
IL PROGRAMMA POLITICO DEL SUPERUOMO
Cantelmo è un nobile disgustato dalla società dell'epoca e sogna uno stato d'élite, in cui immagina
di generare il futuro re di Roma (il superuomo), colui che doveva essere destinato alla guida
dell'Italia verso la conquista del mondo.
Il suo discorso si sviluppa in tre sequenze:
-La proclamazione dell'ideologia politica del superuomo, impregnata di estetismo e senso della
superiorità dei pochi sui molti, e la proclamazione del suo compito sociale: affermare il primato della
bellezza, intesa in senso lato.
-L'appello ai poeti, invitati a difendere la Bellezza e la tradizione (i libri, le statue, le tele) che da
essa deriva, a non contaminare la poesia con argomenti troppo bassi, e a rendersi coscienti della
propria superiorità intellettuale;
-L'appello ai patrizi a non scendere a patti con la gestione democratica della politica. I nobili devono
rivendicare la propria naturale superiorità di stirpe, che non può mescolarsi con l'esistenza comune
e volgare: essi per esempio non dovranno accettare il sistema delle votazioni, altrimenti si
ritroveranno governati dai loro sarti, cappellai, calzolai.
Il brano costituisce una violenta requisitoria (atto d'accusa) e, allo stesso tempo, un appello (invito
all'azione) e un proclama ideologico-politico.
Atto di accusa: lo sdegno verso lo spettacolo indecoroso della politica contemporanea.
Appello: il superuomo non sta inerte a guardare cosa accade; prende l'iniziativa per modificare la
realtà. Cantelmo costituisce un esempio concreto dell'oratoria superomistica: è un luogo monologo,
ricco di immagini preziose e di enfasi retorica che, in realtà nascondono una sostanziale povertà di
idee.
VERGINE DELLE ROCCE
Il protagonista è il nobile abruzzese Claudio Cantelmo. Egli è convinto di appartenere a una specie
superiore, ben diversa dalla volgarità del popolo e della borghesia, una specie quasi divina. È quindi
alla ricerca della donna adatta a generare il superuomo che guiderà l’Italia al suo destino di
potenza. La ricerca di Claudio Cantelmo converge su tre nobili sorelle, Violante, Anatolia e
Massimilla (sono loro le «vergini delle rocce» cui allude il titolo), figlie del principe Montaga.
Si tratta di una famiglia della nobiltà borbonica, in piena decadenza. Vive isolata in un’antica villa
ormai in sfacelo, nel culto ossessivo del passato, devastata dalla malattia e dalla follia.
È Anatolia la compagna scelta dal protagonista. Ella, delle tre sorelle, ha la maestà e la forza
interiore di una regina. La ragazza, però, non può seguire l’eroe nel suo cammino di gloria perché
deve accudire la madre demente, i fratelli deboli e malati, il vecchio padre.
Massimilla ha invece deciso di prendere i voti, dopo la morte prematura del suo promesso sposo.
Claudio soggiace quindi al fascino della bellezza di Violante. Questa, però, inebriandosi fino allo
stordimento, si sta uccidendo lentamente coi profumi.
Il romanzo termina senza una scelta definitiva. Lo snodo della vicenda, infatti, avrebbe dovuto aver
luogo nel secondo romanzo della trilogia, La grazia, mai scritto.
Ne Le vergini delle rocce la voce narrante è quella del protagonista stesso, il nobile abruzzese
Claudio Cantelmo.
Egli vorrebbe sposare una delle tre figlie di un principe borbonico per procreare il futuro sovrano.
Ma è difficile scegliere tra le tre belle principesse variamente attraenti e seducenti sullo sfondo di
magnifici e suggestivi scenari naturali.
Claudio Cantelmo è sostenitore della dottrina del superuomo. Egli è convinto che solo la classe
aristocratica ha il diritto e la possibilità di governare.
Disgustato della realtà politica contemporanea, dominata, a suo parere, da demagogia e da
corruzione, sostiene che i nobili devono tenersi lontani dalla lotta politica finché non verrà il giorno in
cui il popolo, oppresso dal disordine e dalla miseria, offrirà a uno di loro la corona regale, perché «le
plebi restano sempre schiave avendo un nativo bisogno di tendere i polsi ai vincoli».
Questo dominio dell’élite privilegiata deve poi essere finalizzato a una politica aggressiva verso
l’esterno: bisogna ridare a Roma una potenza imperiale, che la porti di nuovo a dominare il mondo.
Al di là del suo carattere lirico e visionario, un progetto del genere ha radici concrete nella realtà
sociale e culturale dell’ultimo decennio del secolo. Da un lato esplodevano infatti in Italia forti
conflitti sociali (le rivolte dei Fasci siciliani, le lotte contadine); dall’altro il governo contrastava con
estrema violenza queste tensioni, e gli ambienti più reazionari maturavano l’idea di un colpo di Stato
per eliminare le libertà politiche e civili e imporre un governo autoritario.
Erano per di più gli anni dell’imperialismo trionfante, in cui le grandi potenze conducevano una
politica aggressiva, tesa soprattutto alla conquista e al mantenimento di vasti imperi coloniali.
Anche l’Italia, pur essendo uno Stato di recente formazione, arretrato, povero e debole, si era
lanciata in una politica di conquiste coloniali. Il sogno imperiale compensava infatti le frustrazioni di
un ceto medio uscito deluso dal compimento dell’Unità; nauseato dagli intrighi politici e dalla
corruzione (recente era il clamoroso scandalo della Banca Romana), ma anche dal grigiore di una
realtà chiusa e immobile.
E proprio a questo pubblico si rivolgeva D’Annunzio, fornendo ad esso non solo evasioni
estetizzanti, ma anche sogni politici imperiali, eroici, aristocratici.
PIOGGIA NEL PINETO
È una lirica celebrativa della natura composta nel 1902, e che appartiene alla raccolta di poesie
scritte tra il giugno del 1899 e il novembre del 1903: l’Alcyone.
In tutto la lirica si compone di 128 versi, divisi in 4 strofe. I versi sono liberi e sciolti: non rispettano
dunque un numero preordinato di sillabe e non seguono uno schema fisso di rime. Si tratta di una
poesia molto musicale, in cui i suoni delle parole sono fondamentali al ritmo.
Il poeta e la donna che lo accompagna sono sorpresi dalla pioggia mentre passeggiano in un
bosco. Le gocce, cadendo sui rami e sulle foglie intonano una musica suggestiva, ridestano odori. Il
poeta e la donna, immersi nella fresca e profumata vegetazione, si sentono come trasformare in
creature vegetali, parti integranti della natura stessa. Continui infatti sono i segni di scambio tra
uomo e natura, fin dall’inizio, alla mancanza di «parole / umane» si contrappone la presenza di
«parole più nuove» parlate dalle gocce di pioggia e dalle foglie su cui queste picchiano.
Subito dopo, i volti dei due protagonisti sono definiti «silvani», mentre tutta la natura si trasforma in
un’immensa orchestra: ogni tipo di vegetazione rappresenta un diverso strumento. Finché la donna
si trasforma in un oggetto interamente naturale, vegetalizzandosi (il volto è come una foglia, i capelli
profumano come ginestre).
Più avanti, si dirà che entrambi i protagonisti si naturalizzano e vegetalizzano, così che il loro cuore
diventa come una pesca, gli occhi come sorgenti in mezzo a un prato, i denti come mandorle.
Sembra quasi affiorare il mito ovidiano della trasformazione di Dafne in arbusto allorché si dice che
la donna pare uscire da un albero e diventare, da bianca, verde.
GIOVANNI PASCOLI
A differenza di D’Annunzio, che ricercò una vita inimitabile, Pascoli visse un’esistenza solitaria e
schiva, priva di eventi pubblici di grande rilievo.
Nasce il 31 dicembre 1855 a San Mauro di Romagna (oggi San Mauro di Pascoli), in provincia di
Forlì, da famiglia benestante.
A sette anni Giovanni inizia gli studi nel collegio dei padri scolpi, a Urbino, dove rimane fino al 1871,
formandosi sui classici greci e latini. Il 10 agosto 1867, a San Lorenzo, accade il primo evento che
lo segnerà per il resto della sua vita: l’assassinio da parte di ignoti del padre. Evento segnante
perché il giovane Pascoli acquisisce un senso di ingiustizia sociale molto forte (poiché non si trovò
mai il colpevole). Ci saranno vari tentativi di colmare questo senso di giustizia con tante questione
politiche e di manifestazioni anarchiche, che nel 1879 lo porteranno a trascorrere 3 mesi di carcere.
Successivamente liberato, abbandona ogni idea politica e riprende gli studi, ottenendo la laurea
fuori corso (27 anni) con lode nel 1882 in letteratura greca. Nominato professore di greco e latino al
liceo classico di Matera, si trasferisce nel 1887 a Livorno, dove ci le sorelle Ida e Maria tenta di
ricostruire il suo nido familiare. Vince intanto il concorso internazionale di poesia latina di
Amsterdam, al quale parteciperà per molti anni consecutivi vincendo sempre il primo posto. Nel
1895, c’è un nuova tragedia che colpisce Pascoli: la sorella Ida si sposa e “abbandona” e “tradisce”
il poeta. Pascoli prende in affitto una casa (che poi comprerà) a Castelvecchio di Barga, che
considera come un rifugio e dove vive insieme alla sorella Maria.
Nel legame esclusivo con la sorella, e viceversa, Pascoli però si reclude la possibilità di creare un
nuovo nucleo familiare, rinuncia quindi a formare una propria famiglia. Malato di cancro al fegato,
muore a Bologna nell’aprile del 1912.
Il simbolismo è un filone tipico del decadentismo. Si parla di poeta-veggente, il quale ritiene di avere
qualcosa in più e percepisce delle cose misteriose e cerca di esprimerle simbolisticamente.
Comincia dal momento simbolista il concetto per cui il lettore va a integrarsi con l’autore che
percepisce di quel linguaggio alcune cose soggettive. Nasce un rapporto relativo e SOGGETTIVO,
che si completerà solo nell’ermetismo (dove non c’è più la forma comunicativa di farsi
comprendere) ≠ Dante che parlava di annessi, connessi culturali e concettuali OGGETTIVI.
IL FANCIULLINO
“Il fanciullino” è lo scritto più importante di Pascoli intorno alla propria poetica. Fu pubblicato una
prima volta nel 1897 su «Il Marzocco» di Firenze e, nella redazione definitiva, nel 1902.
Ne “Il fanciullino”, in venti brevi capitoli, Pascoli enuncia:
-Iprincipi della sua concezione della poesia
-Dichiara le finalità che attribuisce al messaggio poetico
-Descrive i caratteri del codice stilistico di cui intende valersi per conferire alle sue liriche la
massima autenticità ed efficacia.
Criterio fondamentale della concezione che Pascoli ha della poesia è l’identificazione del poeta con
«il fanciullino». L’immagine del «fanciullino» indica, per metafora, la capacità di stupirsi davanti alle
cose, che è tipica dei bambini e che solo il poeta mantiene intatta durante tutta la vita, mentre gli
altri uomini, distratti da tanti interessi e preoccupazioni, troppo spesso non ascoltano la voce del
fanciullo. Il compito del poeta è quello di scoprire e rivelare agli uomini, il mistero che circonda la
vita delle creature e del cosmo. Ma non è necessario rivolgersi alle cose insolite o grandiose,
perché il sentimento poetico abbonda più nelle «minime nappine della pimpinella», la modesta
pianta campestre, che negli esotici «fiori delle agavi americane». Per Pascoli la poesia svolge
anche una funzione sociale. Infatti essa, rendendo gli uomini consapevoli del dolore dell’esistenza e
della vanità di ogni sogno, pone un freno al desiderio, che ci fa correre con l’ ansia per la via della
felicità, e, consolando dolcemente «le anime irrequiete», dispone gli uomini ad accontentarsi del
proprio piccolo mondo.
MYRICAE
La prima raccolta di poesie del Pascoli, scritta nel 1891, è dedicata al padre ed ha come titolo
“Myricae”, termine tratto dalle bucoliche di Virgilio: esso è posto infatti nella parte iniziale della
quarta bucolica: “humiles myricae”. La parola Myricae, accostata all’aggettivo humiles, evidenzia il
motivo georgico e costituisce una dichiarazione di umiltà da parte dell’autore, che all’interno della
raccolta propone una poetica che si eleva poco da terra (che non tratti quindi argomenti elevati). Il
tema dominante della raccolta è quello rurale: la campagna è contemplata e descritta nei suoi
momenti più suggestivi e malinconici; essa viene principalmente ritratta durante l’autunno, stagione
caratterizzata dalla nostalgia per l’estate e dall’attesa dell’inverno.
Nelle liriche che compongono la raccolta Pascoli sottolinea la modestia, l’umiltà e la quotidianità
tipici della vita agreste, caratteristiche evidenziate dall’avvicendarsi delle stagioni, dal succedersi
delle ore e dagli aspetti quotidiani, umili e dimessi del lavoro dei campi. La semplicità dei temi
trattati si accompagna ad un atteggiamento linguistico che consiste nel ricorso a termini popolari e
gergali e tecnici. Ad una prima e veloce lettura della raccolta, si potrebbe avere l’impressione di
trovarsi di fronte a testi di impronta verista, ma ad uno studio più accurato questa impressione viene
meno, in quanto all’interno della raccolta l’influenza del verismo è soltanto esteriore ed apparente.
Infatti, la raccolta pascoliana può essere paragonata alle “Novelle della Pescara” di D’Annunzio,
opera di impronta verista, in cui il verismo, proprio come in Myricae, è solo apparente. Con
D’Annunzio e Pascoli si assiste dunque al trascolorare del verismo.
X AGOSTO
Il 10 agosto 1867 Ruggero Pascoli, padre del poeta, fu ucciso da un ignoto mentre tornava a casa,
dove lo aspettavano i figli. Nella mente di Pascoli (allora appena dodicenne) rimase per sempre
impressa l’ingiustificata e improvvisa crudeltà di tale episodio.
Ancora a distanza di quasi trent’anni (precisamente il 9 agosto del 1896) egli pubblica questo testo
(raccolto poi nella quarta edizione di Myricae), che rievoca quella giornata in tutta la sua
drammaticità.
Le sei strofe di X Agosto sono tutte collegate da rapporti simmetrici: a due a due le quattro strofe
interne, ma anche la prima e la sesta. Infatti:
la seconda e la terza strofa si riferiscono all’uccisione di una rondine; la quarta e la quinta
all’assassinio di un uomo;la seconda e la quarta strofa descrivono con drammatica rapidità
l’uccisione dei due esseri innocenti mentre stanno tornando dai loro cari;la terza e la quinta, che
iniziano con un sintagma analogo («Ora è là…»; «Ora là…»), commentano le due morti con lo
stesso senso di sofferta e impotente protesta nei confronti dell’indifferenza del Cielo dinanzi agli
orrori della Terra.
Per quanto riguarda lo stile, la sezione centrale, tutta giocata sulla insistita similitudine
uomo/rondine, ha un andamento drammatico, con frasi brevi, paratassi marcata, punteggiatura fitta
e verbi frequenti, e presenta un lessico semplice e rare figure retoriche. Più raffinato appare invece
lo stile della quartina iniziale e di quella conclusiva, conformemente al carattere più generale del
tema trattato.
NOVEMBRE
Novembre è uno dei numerosi componimenti scritti da Giovanni Pascoli, incluso nella
raccolta Myricae e scritto nel 1891. Il poeta si riferisce alla cosiddetta Estate di San Martino che
invoca nell’autore sensazioni primaverili. La prima strofa del componimento ci introduce in
un paesaggio soleggiato quasi primaverile dove gli albicocchi stanno già per fiorire e il profumo del
biancospino si è già sparso. Il componimento prosegue finché la poesia cambia tono: l’avversativo
“ma” ci porta in autunno. Tutto intorno v’è silenzio: i rami secchi delle piante sembrano proiettati nel
cielo, il terreno fa rimbombare il suono del calpestio e le folate di vento fanno cadere le foglie. Il
freddo autunnale è arrivato, come la festività dei morti nel mese di novembre.
Il componimento non presenta un andamento lineare infatti ha un incipit solare, ma termina con la
figura del buio. La seconda strofa invece si apre con l’avversativo “Ma” capovolgendo così il tono
della poesia. Se nella prima strofa prevalgono l’elemento visivo ed olfattivo, nella seconda
quello visivo ed uditivo invece in quella finale solo quello uditivo.
Il tema della morte è molto più esplicito, infatti sia dal titolo che dal testo del componimento si
intuisce ciò infatti il poeta fa riferimento al fenomeno stagionale della cosiddetta “estate di San
Martino” preceduta dalla ricorrenza dei morti (2 novembre).
ITALO SVEVO
Svevo, il cui vero nome Aaron Ector Smiths, nasce nel 1862 da una famiglia borghese di origine
ebraica a Trieste. Nascendo in una città al confine, assimila con netto anticipo rispetto all’Italia le
novità provenienti dall’Europa. Il padre indirizza Svevo alla carriera commerciale e lo invia nel ad
imparare il tedesco e a concludere gli studi superiori nel collegio in Baviera.
Il giovane ritorna a Trieste nel 1878, dove si iscrive all’Istituto commerciale Revoltella di Trieste.
Nel 1880 il fallimento della ditta paterna costringe Svevo ad abbandonare gli studi a trovare un
impiego nella filiale triestina della banca di Vienna. Il grigio lavoro bancario occupa l’autore per 19
anni, durante i quali Svevo matura anche interessi letterari.
Nel 1892 Svevo pubblica a sue spese un migliaio di copie il primo romanzo, intitolato “Una vita”,la
prima pubblicazione non riscuote successo né di critica né di pubblico. L’insuccesso si ripete
tuttavia nel 1898, con il nuovo romanzo “Senilità”, incentrato sulla scelta di una vita grigia e protetta
dalle delusioni della vita.
L’ennesimo insuccesso induce l’autore a rinunciare alla scrittura e per ben 25 anni Svevo non scrive
più, fino al 1923. Il silenzio letterario viene rotto dalla pubblicazione “la coscienza di Zeno”.
In questi anni Svevo è assorbito dalla sua attività di imprenditore, che lo spinge a compiere diversi
viaggi d’affari all’estero, soprattutto in Inghilterra. È qui che incontrerà nel 1906 James Joyce,
famoso romanziere che gli darà delle lezioni private per migliorare il suo inglese.
James Joyce, insieme ad Eugenio Montale, saranno gli unici autori che riconosceranno la bravura
di Svevo e che lo porteranno a conoscere finalmente la notorietà.
Joyce infatti, invita l’autore a inviare una copia della coscienza di Zeno a due critici francesi che,
entusiasti, dedicano a romanzo nel febbraio 1926 un intero numero giornalistico.
Montale invece, scriverà sulla rivista milanese “l’esame” un saggio dal titolo Omaggio a Svevo,
contribuendo ad attirare su di lui l’interesse dei critici e del pubblico. È così che scoppia così il “caso
Svevo”.
Negli ultimi anni rimasti, (aveva più di 66 anni circa), l’autore continua scrivere. I progetti rimangono
incompiuti poiché la morte lo coglie improvvisamente, nel 1928, a seguito di un incidente stradale.
LA POETICA DELL'INETTO
Al centro dei romanzi di Svevo, c’è la figura dell’inetto, un antieroe debole e passivo, incapace di
agire in modo costruttivo e intento ad analizzare i propri conflitti interiori e la propria malattia, intesa
essenzialmente come debolezza della volontà e tendenza a un’ossessiva autoanalisi.
Il male di vivere, il dramma esistenziale è molto sentito tra il decadentismo e la prima guerra
mondiale (siamo a cavallo tra queste due epoche).
In Italia la tematica dell’inetto viene recepita in maniera “totale” da Italo Svevo e Pirandello. L’inetto
è letteralmente colui che non hai il coraggio di intervenire nella vita, non riesce a buttarsi in
quest’ultima e si sente escluso perché non partecipa pienamente. Questo perché a tanti dubbi
esistenziali e non hai il coraggio di buttarsi a capofitto (lo abbiamo già visto con Leopardi).
La tematica dell’inetto in Svevo, che è il più grande rappresentante, è presente in tutti e tre i
romanzi (Una vita, Senilità e La coscienza di Zeno).
Le tecniche narrative però sono diverse: in Una vita i personaggi si mostrano gradualmente, si
rivelano piano piano mentre invece in Senilità, i personaggi appaiono chiari fin da subito.
Ci sono diversi atteggiamenti che l’inetto assume:
chi accusa la vita per non saperla vivere,
chi acchiappa nuvole, ovvero rincorre una vita immaginaria
Chi si fa trasformatore passivamente dagli eventi
Svevo, identifica l’intellettuale moderno con l’inetto, in apparenza escluso da una società tutta tesa
al profitto.
L’inetto non appare più come l’unico malato nel contesto della perfetta sanità borghese, ma colui
che, grazie a una visione più sensibile, comprende le incongruenze del vivere e smaschera il
conformismo di una società che si fonda su certezze illusorie.
Svevo quindi, sotto certi punti di vista, rivaluta la figura dell’inetto.
LA COSCIENZA DI ZENO
La coscienza di Zeno è il terzo romanzo di Italo Svevo, scritto dal 1919 al 1922 e pubblicato nel
1923, dopo il lungo silenzio letterario dell’autore. Raggiunge il successo nazionale e internazionale
grazie a Eugenio Montale, che in un articolo del 1925 tesse le lodi del romanzo, e a James
Joyce, amico di Svevo, che fa conoscere il romanzo in Francia.
Innovativa è la struttura del romanzo, costruito ad episodi e non secondo una successione
cronologica precisa e lineare. Il narratore è il protagonista, Zeno Cosini, che ripercorre sei
momenti della sua vita all'interno di una terapia di psicoanalisi. La Coscienza si apre con
la Prefazione del dottore che ha avuto in cura Zeno e che l'ha indotto a scrivere la sua
autobiografia. Il protagonista si è sottratto alla psicoanalisi e il medico per vendetta decide di
pubblicare la sue memorie. I sei episodi della vita di Zeno Cosini sono:Il fumo, La morte di mio
padre, La storia del mio matrimonio, La moglie e l’amante, Storia di un’associazione
commerciale e Psico-analisi. Ogni episodio è narrato dal punto di vista del protagonista, e il suo
resoconto degli eventi risulta spesso inattendibile; egli presenta la sua versione dei fatti, modificata
e resa come innocua in un atto inconscio di autodifesa, per apparire migliore agli occhi del dottor S.
Dopo una Prefazione e un Preambolo sulla propria infanzia, nel terzo capitolo Zeno scrive del suo
vizio del fumo (Il fumo): fin da ragazzino il protagonista è dedito a questo vizio, da cui cerca
inutilmente di liberarsi con diversi tentativi infruttuosi, testimoniati dalle pagine di diari e dai libri
(noché dai muri...) su cui vengono scritte la data e la sigla u.s. (ultima sigaretta). Infine per liberarsi
dal fumo il protagonista si fa ricoverare in una clinica, da cui fugge, corrompendo con una bottiglia
di cognac l’infermiera che lo sorveglia. L’episodio del fumo permette a Zeno di riflettere sulla propria
mancanza di forza di volontà e sull'incapacità di perseguire un fine con forza e decisione. Tale
debolezza è attribuibile al senso di vuoto che egli sente nella sua vita, e all’assenza nella sua
infanzia di una figura paterna che fornisca regole e norme comportamentali.
Il secondo episodio (La morte di mio padre) è appunto incentrato sulla figura del padre di Zeno. Il
protagonista-narratore analizza il difficile rapporto con il genitore, che non riesce a identificare come
figura di riferimento e guida. Zeno infatti non ha mai tentato di stabilire un rapporto affettivo e di
reciproca intesa con il padre. Quando quest'ultimo è colto da paralisi, il figlio, in cerca di
approvazione e giustificazione, prova ad accudirlo prima che sia troppo tardi. Ma durante la notte, il
padre viene colpito da un edema cerebrale. Ormai incapace di intendere e volere l’uomo è destinato
a morte certa, e Zeno spera, per evitare ulteriori sofferenze al padre e soprattutto fatiche per se
stesso, in una fine rapida e indolore. Nell’estremo momento della morte in un gesto incontrollato il
padre schiaffeggia il figlio, per poi spegnersi; gesto che segnerà irremediabilmente il protagonista e
ne orienterà tutti i malcelati tentativi di spiegare quel gesto, o di giustificare il proprio atteggiamento.
Terzo evento del romanzo (La storia del mio matrimonio) è la storia del matrimonio di Zeno. Il
protagonista, dopo aver conosciuto Giovanni Malfenti, uomo d’affari triestino, inizia a frequentare la
sua casa e la sua famiglia. Zeno si innamora di una delle quattro figlie di Malfenti, Ada, la più bella,
che però è innamorata di un altro, Guido Speier. Il protagonista si dichiara ad Ada, da cui viene
rifiutato. Si rivolge allora anche alle tre sorelle con la stessa proposta di matrimonio, ma tale
proposta viene accolta solo dalla meno affascinante, Augusta, che tuttavia sa garantire all’uomo un
matrimonio borghese ed apparentemente felice, dato che entrambi i coniugi vedono realizzati i
loro desideri inconsci (e cioè, trovare una seconda "madre" per il protagonista, o trovare un marito
per Augusta). In questo capitolo il personaggio appare come l’inetto dei due romanzi
precedenti (Una vita e Senilità): immerso nelle sue fantasie, viene trascinato dagli eventi senza
essere in grado di scegliere.
Il quarto episodio della vita di Zeno è la storia dell’amante (La moglie e l'amante): in un desiderio di
conformarsi a un costume sociale il protagonista trova una giovane amante, Carla. La relazione con
la donna si rivela ambigua per Zeno, che da una parte non vuole far soffrire la moglie, mentre
dall’altra è attratto dall'esperienza trasgressiva del tradimento coniugale. La storia con Carla (nei
confronti della quale Zeno prova sia desiderio che senso di colpa) si conclude, tuttavia quando la
ragazza, stanca delle contraddizioni del protagonista, sposa il suo insegnante di canto, mentre
Zeno ritorna dalla moglie incinta.
In Storia di un’associazione commerciale si assiste invece al fallimento dell’azienda messa in piedi
da Zeno e Guido, marito di Ada, a causa dello sperpero del patrimonio da parte di
quest’ultimo. Guido, dopo due tentativi di suicidio simulati per avere ulteriore denaro dalla moglie e
salvare così l'impresa, riesce erroneamente a uccidersi. Zeno, dopo aver sbagliato corteo funebre,
riscuote successo negli affari, ma ciò non serve a conquistargli le simpatie di Ada, che ormai lo
disprezza e parte per il Sudamerica.
Infine nell’ultimo episodio, intitolato Psico-analisi, Zeno riprende, dopo sei mesi di interruzione, a
scrivere le sue memorie, per ribellarsi al medico, esprimendo il suo disprezzo e il suo rifiuto per la
psicoanalisi. Ma in questo ultimo atto si rende conto che la malattia interiore di cui si sentiva vittima
e da cui riesce a curarsi è una condizione comune a tutta l’umanità e che coincide con il progresso
del mondo intero. Il romanzo si conclude con una drammatica profezia di un’esplosione che
causerà la scomparsa dell’uomo dalla faccia della Terra.
UNA VITA
Il protagonista è Alfonso Nitti. Il padre, medico condotto, è morto, lasciando la famiglia in
ristrettezze. Alfonso Nitti lascia dunque il paese e la madre e si trasferisce a lavorare a Trieste,
presso la banca Maller. Afflitto da noia e insoddisfazione per la propria mediocre esistenza, sogna
di diventare scrittore. L’occasione per il riscatto della sua vita gli è offerta da un invito a casa
del padrone della banca, Maller. Qui conosce Annetta, la figlia di Maller, forte e altezzosa, e il
cugino di lei, Macario, un giovane sicuro di sé con il quale stringe amicizia. Annetta, anch’essa con
ambizioni letterarie, gli propone la scrittura a due mani di un romanzo. Alfonso Nitti avvia una
relazione con la donna, ma questa non gli dà né nuovi entusiasmi né gioia autentica. Anzi, nel
momento in cui gli si prospetta l’occasione di chiedere la sua mano, fugge al paese natale
accampando come pretesto una malattia della madre. Tornato al paese, trova effettivamente la
madre gravemente ammalata. Dopo la sua morte ritorna di nuovo a Trieste e trova la situazione
mutata. Annetta, sdegnata con lui, si è fidanzata con il cugino ed egli viene retrocesso a una
posizione impiegatizia inferiore. Alfonso Nitti affronta indignato il signor Maller, ma nell’emozione si
lascia sfuggire frasi che vengono interpretate come ricatti. Scrive ad Annetta e le chiede un
appuntamento, per una definitiva spiegazione. Ma all’appuntamento si presenta il fratello, che lo
sfida al duello. Alfonso, sentendosi «incapace alla vita», si suicida, ponendo fine al senso di inutilità
e inadeguatezza che lo attanaglia
Italo Svevo pubblicò il suo primo romanzo Una vita nel 1892; avrebbe voluto intitolarlo Un inetto, ma
fu sconsigliato dall’editore, che riteneva il titolo poco accattivante. E invece era quello un titolo
emblematico, perché definiva la condizione fondamentale del protagonista: un inetto, un uomo
debole e irresoluto, perennemente oscillante tra buoni propositi e incapacità di mantenervi fede.
Alfonso Nitti non è la vittima di una società spietata, che stritola gli individui più deboli, come
accadeva ad esempio per i personaggi di Giovanni Verga. Al contrario, egli è soprattutto vittima di
se stesso, delle sue indecisioni e delle sue tortuosità psicologiche, che lo rendono incapace di
avere un sano e positivo contatto con la realtà. L’inettitudine è il segno distintivo di Alfonso Nitti,
come lo sarà dei protagonisti degli altri due romanzi, Emilio Brentani (in Senilità) e Zeno Cosini
(in La coscienza di Zeno).
SENILITÀ
Senilità, il secondo romanzo di Svevo (il primo è Una vita), esce nel 1898. Incorre in un insuccesso
peggiore di quello precedente. Il protagonista è Emilio Brentani, trentacinquenne, un modesto
impiegato, che dopo la pubblicazione di un romanzo sfortunato continua ad alimentare fiduciose per
quanto sterili ambizioni letterarie. Vive una esistenza monotona e rinunciataria, diviso tra le
mansioni dell’impiego e le consuetudini convenzionali della convivenza con una sorella nubile di
poco più giovane, Amalia. Un giorno Emilio, che ha accumulato nell’anima un’intensa carica di
desideri insoddisfatti, scopre improvvisamente la possibilità di una sconosciuta felicità quando si
imbatte in Angiolina, una bella ragazza del popolo, scaltra e ambigua sotto l’apparente semplicità.
Emilio si propone semplicemente di divertirsi senza impegnarsi, imitando il comportamento da
dongiovanni dell’amico scultore Stefano Balli, uomo dalla forte personalità. In realtà si innamora
perdutamente della ragazza, idealizzandola e trasformandola nella sua fantasia in una creatura
angelica. Ben presto scopre la vera natura di Angiolina: ha numerosi amanti, è cinica, menzognera,
rozza e volgare, ma non riesce a staccarsi da lei. Il possesso fisico a cui finalmente arriva (in verità
per iniziativa di Angiolina) lo delude e lo lascia insoddisfatto, perché ha avuto non la figura ideale
che ama, ma la donna reale, di carne, che disprezza. Anche l’amico Balli si interessa della ragazza:
la prende come modella per una statua e la ragazza si innamora di lui. Nel frattempo la sorella
Amalia vive un’avventura parallela e analoga alla sua: la grigia zitella, che non ha mai conosciuto la
vita e il godimento, si innamora di Stefano Balli e, non osando rivelare i suoi sentimenti, trova
appagamento solo nei sogni. Emilio se ne accorge e allontana l’amico da casa sua; Amalia
comincia a drogarsi con l’etere finché non si ammala di polmonite, che la condurrà alla morte.
Emilio lascia il capezzale della sorella morente, per recarsi all’appuntamento con Angiolina, deciso
ad abbandonarla definitivamente e a dedicarsi completamente alla sorella. Ma l’addio non avviene
con la dolcezza e la dignità sognate: Emilio scopre l’ennesimo tradimento della ragazza, si lascia
trasportare dall’ira e la insulta violentemente. Dopo la morte di Amalia, Emilio torna a rinchiudersi
nel guscio della sua senilità, guardando alla sua avventura come un «vecchio» alla sua «gioventù».
E nei suoi sogni fonde insieme le due figure fondamentali della sua vita, Amalia e Angiolina, unendo
nella memoria l’aspetto dell’una con il carattere dell’altra.
Anche in questo secondo romanzo, come nel primo Una vita, il protagonista è un inetto: per quanto
cautelose misure egli prenda nei confronti della realtà, per quanto si sforzi e pretenda di assumerne
il controllo, questa continuamente gli sfugge e lo respinge, relegandolo irrimediabilmente nel suo
circolo di pena e di solitudine. L’inettitudine di Emilio in Senilità come quella di Alfonso in Una vita è
presentata da Italo Svevo come una malattia dell’anima e la descrive insistendo sulle
contraddizioni, sull’altalena di buoni sentimenti e cinismo, illusione e disillusione, slanci d’affetto e
scoppi d’ira. Il romanzo viene così costruito su una serie di opposizioni
– salute/malattia; gioventù-vecchiaia; attitudine-inettitudine – che troveranno la loro forma più
compiuta ne La coscienza di Zeno.
LUIGI PIRANDELLO
Nasce ad Agrigento nel 1867, pur avendo scritto centinaia di novelle è ricordato per i lavori teatrali.
Appassionatosi alla letteratura in giovane età, frequentò diverse università e si laureò in Germania.
La malattia mentale della moglie si aggraverà notevolmente, questo sotto un punto di vista letterario
è molto interessante poiché lo avvicinò agli studi di psicologia, compresi quelli di Freud (la follia
verrà espressa molteplici volte nelle sue novelle). Fondò la compagnia del teatro d'arte di Roma,
con la quale porta le sue opere in tutto il mondo e molte furono trasportate al cinema. Interventista
nella prima guerra mondiale, fu favorevole al fascismo, probabilmente in modo opportunistico (fu
l'appoggio di Mussolini a permettere a Pirandello di diventare direttore del teatro d'arte di Roma).
Muore, il 10 dicembre e il funerale sarà povero e silenzioso, creando non poco imbarazzo al regime
fascista, che avrebbe garantito una solenne cerimonia di stato.
Pensiero e Poetica
Dalle opere letterarie di Pirandello emerge una visione della realtà complessa e paradossale,
improntata su un pessimismo che rispecchia il senso di disorientamento e disagio esistenziale del
900. Il fallimento degli ideali ottimistici e positivisti e la filosofia dei Maestri del sospetto
(Schopenhauer, Nietzsche, Freud, Marx) portano al crollo di certezze e valori secolari, sostituiti da
un atteggiamento di relativismo. La realtà unica delle cose non si può cogliere né oggettivare,
poiché esistono tante realtà soggettive. Su queste basi, Pirandello elabora una sua visione della
realtà; la realtà è percepita secondo tre categorie: Paradosso, Iperbole, L'Assurdo. Queste
categorie esprimono l'assurdo e l'irrazionalità. Pirandello non scrive opere di fantasia, anche lui ha
sempre gli occhi puntati sulla realtà tuttavia ripudia il verismo. Egli punta gli occhi sul surrealismo
poiché la verità non è coglibile, ma ci sono soltanto tante verità.
Pirandello si avvicina alle teorie del filosofo francese Bergson, egli vede tutta la realtà come parte di
un flusso Vitale in continua trasformazione dominato dal caos. Nella dimensione sociale, l'uomo
assume non una ma diverse forme che corrispondono hai diversi ruoli che la società gli attribuisce.
La persona quindi, si riduce a essere una maschera.
La concezione della realtà elaborata da Pirandello si riflette Nel saggio critico intitolato l'umorismo.
L'autore sostiene che il filone dell'arte moderna non consiste più nella costruzione dei personaggi
coerenti benzina e l'analisi Critica Della contraddizione dell' essenza. Pirandello sostiene che l'arte
umoristica deve fondersi soprattutto sull'analisi e sulla riflessione per mettere in luce i contrasti tra
ciò che appare e ciò che è.
L'artista non deve limitarsi alla percezione di un contrasto tra apparenza e realtà, ma deve
analizzare a fondo le ragioni e comprendere le cause dei comportamenti dei suoi personaggi. Al
centro delle sue opere ci sono la vita interiore di personaggi deboli e inetti incapaci di vivere e
tormentati da un continuo ragionare su se stessi che non porta a nessuna azione.
Per Pirandello il teatro è il luogo in cui svelare l'artificiosità delle condizioni sociali, riducendo i suoi
attori a maschere nude. Su questa base inserisce all'interno delle trame dei personaggi ragionatori,
che osservano dall'esterno e con distacco le vicende. Questa prima fase, è detta "Teatro del
grottesco", Pirandello si serve del teatro allo scopo di rivelare l'inautenticità della vita stessa che
tende a rappresentare nel metateatro. Con "6 personaggi in cerca di autore" si teorizza e si porta
sulla scena il principio dell'impossibilità del teatro di rappresentare la vita. Il personaggio creato
dall'artista era un'entità autonoma e coerente, portatore di un suo dramma, che però gli attori e
registra si mostrano incapaci di rappresentare se non in termini di vuota finzione. La questione si
risolve in una riflessione pessimistica sui limiti dell'arte drammatica stessa.
L'UMORISMO
È il testo teorico più significativo che comprende la poetica e la filosofia di Pirandello. Il saggio si
divide in due parti: La prima è una parte storico-letteraria, la seconda è intitolata "essenza, caratteri
e materia dell'umorismo". Nella prima parte, suddivisa in sei capitoli, Pirandello espone la storia del
termine umorismo e rintraccia nella storia della letteratura Europea numerosi esempi di arte
umoristica. Nella seconda parte, l'autore esprime la nascita della poesia umoristica, generata dal
sentimento del contrario, cioè dalla riflessione sul contrasto tra apparenza e realtà. L'arte
umoristica, viene contrapposta all'arte epica è tragica, poiché deriva dalla consapevolezza del venir
meno di ogni certezza. Latitudine critica verso la realtà induce a creare personaggi incoerenti e
contraddittori, ma proprio per questo più verosimili rispetto agli eroi della letteratura tradizionale.
Il sentimento del contrario: viene messo a fuoco la distinzione tra umorismo e comicità
attraverso il ricorso a un'immagine esemplificativa. La visione di una vecchia signora
imbellettata Sono uscita da prima l'avvertimento superficiale di un incongruenza. Ciò suscita
il riso, il sentimento comico che, nella metafora di Pirandello, come l'immagine riflessa da
uno specchio: qualcosa di labiale è superficiale. Se però interviene la riflessione, si potrà
allora pensare che la donna forse si è agghindata in modo ridicolo nel pietoso tentativo di
risultare ancora attraente per un marito più giovane di lei: allora dall' avvertimento del
contrario si passa al sentimento del contrario a cui corrisponde l'umorismo.
La vita come flusso continuo: ci si sofferma su alcune categorie che saranno fondamentali
per l'intera produzione pirandelliana e che costituiscono il cuore della sua poetica. Da
questa pagina Il critico Adriano tilgher terrà infatti i due concetti di vita e forma per definire le
due entità in perenne contrasto nell'esistenza dell'uomo contemporaneo, quale Pirandello La
ritrae. Se il conflitto c'è, le entità in lotta non hanno tuttavia uguale forma: più o meno
esplicitamente Pirandello assegna alla vita una potenza non realmente imbriglia abile o
comunque non contenibile in assoluto. Essa pulsa tempestosa è in distinta al di sotto della
superficie delle forme, entro gli argini che l'abbiamo costruito elaborando Nobili concetti e
astratti ideali su cui si modella una coscienza individuale. Ma il flusso della vita è in tutti ed è
perciò sempre possibile il suo straripamento: allora le forme fittizie degli affetti, dei doveri e
delle abitudini possono venire travolte.
LE NOVELLE PER UN ANNO
Pirandello decise di riorganizzare tutta la produzione novellistica e di inserire tutti i racconti in
un'unica opera sotto il titolo di novelle per un anno, per un totale di 360 novelle. Ne un i 225, però
poi morì. Presenta una struttura enigmatica, perché le novelle non sono disposte né in ordine
cronologico, nei in modo tematico. L'opera è un'allegoria della varietà della vita, del suo carattere
insensato è frantumato, in cui domina il flusso distruttivo del tempo. Il titolo pone in rilievo il tema del
tempo, visto come regno del caos. I caratteri complessivi delle novelle per un anno sono: la
tendenza al grottesco e all'isolamento espressionistico (i personaggi sono spesso deformi e
grotteschi), il paesaggio è la sua disarmonia rispetto all'uomo (il paesaggio è distaccato è ironico
scenario delle sventure umane, non partecipa allo stato d'animo dell'uomo), la struttura delle novelle
non è narrativa ma è una narrazione discorsiva (gioca sul dialogo e conversazione).
Il treno ha fischiato: la novella è rappresentativa della struttura dialogica di molti scritti che
mostrano una verità relativa, aperta a continui ribaltamenti. Al centro vi è la vicenda
emblematica di un impiegato, belluca, condannato a un'esistenza monotona e alienante,
nella sua famiglia sono tutti non vedenti, all'improvviso, il fischio di un treno apre uno
squarcio su un oltre imprevisto, facendo intravedere al personaggio la possibilità di
un'identità diversa, più autentica appunto il confine tra la libertà rivendicata è l'accusa di
pazzia e però molto sottile si scaglia contro il suo capo a lavoro e viene chiuso in un
ospedale psichiatrico).
IL FU MATTIA PASCAL
Scritto nel 1903, il romanzo ruota interamente attorno al tema dell'identità individuale: quella di
Mattia Pascal e del suo Alter Ego, Adriano meis. Il romanzo, scritto in prima persona, e il racconto
da parte del protagonista della propria vita e delle vicende che l'hanno portato ad essere il "fu" di se
stesso.
Prima premessa: la prima delle due premesse affronta la questione del nome, connessa
con quella della crisi d'identità del personaggio. Il tema del nome è strettamente correlato
alla perdita di un soggetto coerente e immutabile. Il fu Mattia Pascal rientra nel suo ruolo
inutile di bibliotecario, custodia di un sapere caotico e non più in grado di fornire certezze.