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L’approccio antropologico alla

letteratura latina
Come si sa, quando un antropologo si reca sul campo ad analizzare una società diversa dalla
propria, la prima cosa che deve fare è un’operazione tanto basilare quanto difficile: togliersi
di dosso il (pre)concetto che tutte le idee, i comportamenti, insomma i segni, che
costituiscono la cultura in esame siano in qualche modo meno validi o, peggio ancora,
inferiori. Altrimenti cadrebbe in un atteggiamento, purtroppo molto comune (non mi
riferisco agli antropologi), come quello detto “etnocentrismo”. Il suo approccio sarà invece
improntato al relativismo culturale. Cioè: si tratta solo di una cultura diversa che ha la stessa
ragione d’essere e la stessa complessità della sua. Ebbene, studiando la letteratura latina
dovremo adottare questo atteggiamento. E mi riferisco in particolare alla consapevolezza
della distanza noi/loro, non tanto al fatto di valutare negativamente (anzi, semmai qui esiste
il problema contrario). Per molti versi, infatti, noi sentiamo una continuità tra la cultura
latina e quella in cui viviamo (basta il fatto che il latino, non il sanscrito, viene insegnato
nelle scuole italiane). In realtà pensare questa continuità spaziale (i latini vivevano in Italia
dove oggi viviamo noi) e temporale in termini di somiglianza è
molto fuorviante. Ogni cultura antica, specialmente una che ci ha lasciato molti documenti e ha
avuto un innegabile influsso sulla nostra (basti pensare, ad esempio, al fatto che è a Roma che
nasce il diritto come lo intendiamo oggi) viene reinterpretata a seconda delle esigenze, delle
visioni del mondo di quella moderna che via via la considera. Così nel nostro ‘400 se ne
selezionavano certi aspetti, nel ‘500 altri, nel ‘600 altri ancora e via dicendo. Insomma, gli antichi,
e specialmente gli autori latini, li facciamo parlare come vogliamo noi, adeguandoli alle nostre
esigenze presenti e via via spacciandoli come la versione “classica”, “autentica” ecc., più o meno
prestigiosa, di quello che siamo noi adesso. L’approccio antropologico, invece, cerca di studiare la
letteratura con la cultura che vi sta dietro come una delle tante culture diverse dalla nostra e
lontane nel tempo come nello spazio, che danno senso all’interminabile ricerca antropologica su
cosa significa essere Homo sapiens. Ciò ha portato innumerevoli vantaggi anche agli studiosi della
letteratura latina, come spero di mostrare in questo corso.
Una visione del mondo
Gli antropologi chiamano magia l’insieme di credenze e di pratiche messe in atto per
controllare il mondo visibile e invisibile incidendo sulla realtà pratica per cambiarne gli
effetti. Visto che la magia non è presente allo stesso modo in tutte le culture, l’antropologo
si è chiesto che cosa condizioni queste credenze. L’idea di base è che esistano delle visioni
del mondo, cioè delle immagini esaurienti della realtà, che una cultura adotta per dare un
senso a ciò che essa è. In altre parole, esistono delle cornici onnicomprensive, totalizzanti,
create dai membri di una società, entro cui trovano spazio tutti gli aspetti del reale, cioè
tutti gli assunti comuni sul funzionamento del mondo di cui la gente si serve per
interpretare le proprie esperienze. La magia in questo senso non è diversa dalla religione:
entrambe sono cornici interpretative onnicomprensive che sottendono a visioni del mondo.
Il popolo centro-africano degli Azande, descritto dall’antropologo E. E. Evans-Pritchard negli
anni trenta, offre un tipico esempio della magia come categoria interpretativa della realtà.
Presso gli Azande la magia è complementare alla stregoneria: la prima è definibile come un
insieme di credenze e pratiche utilizzate per controllare il mondo in funzione di certi scopi
specifici. La seconda, una sorta di magia usata sempre a fini malvagi che risiede in determinati
individui e si tramanda nelle generazioni, può essere considerata come un potere innato e non
umano di fare, consapevolmente o meno, il male. Gli Azande attribuiscono la morte sempre alla
stregoneria. Così come ogni evento sfortunato. Ad essa si può tentare di opporsi con la magia,
che vale però solo se la vittima si è comportata in modo ritenuto moralmente adeguato e non si è
cioè attirata volontariamente il male.
Magia e stregoneria
Perciò Evans-Pritchard notò che il sistema simbolico ed etico che tiene insieme la magia non è affatto
meno complesso o coerente di quello che tiene insieme una religione. Anche il sistema magia-
stregoneria sottende motivazioni morali che servono al mantenimento dell’ordine e quindi alla
sopravvivenza pacifica del gruppo. Se un solaio cade e uccide qualcuno per gli Azande è stregoneria,
cioè magia malvagia, anche se ognuno sa che sono state le termiti a mangiare le travi di legno. In altre
parole, la stregoneria viene sempre utilizzata per spiegare gli eventi in una chiave di lettura più
profonda, implementando la spiegazione apparentemente più ovvia. Se la persona coinvolta non
aveva nemici, la causa sarà che qualcuno dei vicini possiede la stregoneria e non lo sa. E la magia può
operare per neutralizzarla. Insomma, non si tratta, come riteneva l’antropologia ottocentesca, di un
pensiero “pre-razionale”, o “primitivo” (categorie poste dagli occidentali per giustificare la loro
presunta superiorità sulle popolazioni che sfruttavano con la colonizzazione). Infatti all’interno della
medesima società le visioni del mondo possono essere molteplici, addirittura contraddittorie, e
tuttavia convivere benissimo (si pensi, nella nostra società, all’esempio della scienza e della religione e
alle opposte spiegazioni da esse fornite sull’origine del mondo). È un dato di fatto che ognuno di noi
sa più o meno cosa s’intende per magia anche senza aver letto il resoconto dell’antropologo. Segno
che la magia è presente anche nella nostra società, magari in misura non così predominante, come
sistema simbolico (benché, più spesso, valutato negativamente).
Piccola storia degli studi 1
Fritz Graf, nel suo studio La magia nel mondo antico (Laterza, Bari 1995, rist. 2010) compie una delle
prime ricerche sull’argomento secondo categorie dell’antropologia contemporanea, uscendo
definitivamente dalla tentazione evolutiva rappresentata da quel testo così influente (ed enorme)
sulla magia che è Il ramo d’oro di James Frazer (la 1a ediz. it. è del 1925). Quest’ultimo, non solo
differenziava magia e religione ma considerava, appunto evolutivamente, la magia uno stato
“primitivo” e “pre-razionale”, poi scaturito nella religione e infine nella razionalità della scienza.
Magia e scienza sono caratterizzate dall’autonomia dell’agente di fronte alla divinità e sono entrambe
razionali, ma di una razionalità diversa. La religione si differenzia per assenza di razionalità e
sottomissione dell’agente al soprannaturale (chiaro il carattere “cristiano-centrico” come dice Graf, di
questa idea), laddove nella magia l’agente sfida la divinità per ottenere, come nella scienza, scopi
pratici. Mauss, allievo e nipote di Durkheim, opponeva all’individualismo di Frazer la concezione
della magia come fatto sociale, collettivo, della stessa matrice dei miti e dei riti della religione.
Malinowski, allievo di Frazer, spostò, com’è noto, l’interesse dall’origine della magia alla sua
funzione. Per Malinowski i Trobriandesi (la popolazione da lui studiata) praticavano la prima quando
la tecnica razionale era incapace di ottenere il risultato voluto. Da citare poi ancora Evans-Pritchard
che considera, anche lui, la funzione della magia, rintracciandola, come visto, nella possibilità di
giustificare gli accidenti dell’esistenza umana.
Piccola storia degli studi 2
Ma torniamo agli studi sul mondo antico. Graf è uno dei primi ad affrontare lo studio della magia nel
mondo antico secondo categorie non evolutive e finalmente al passo con i tempi. La sua soluzione
metodologica è quella di concentrarsi sul termine magia, termine che proviene direttamente dalla
cultura greca (cfr. greco antico magheía) cercando di rintracciarne il significato dalle fonti per
scoprire il senso che ad esso davano gli antichi, in modo così da scartare le nozioni frazeriane e post-
frazeriane o l’idea, etnocentrica, della separazione tra magia e religione. A questo riguardo, Graf
mette anche in guardia sulla necessità di adoperare via via il termine che definisce la magia nel
mondo antico a seconda dell’autore e del periodo considerato, ed è pertanto il primo a cercare di
definire la ricca terminologia che le fonti usano per questa nozione, in alternativa al già visto termine
greco. Ma naturalmente è da quest’ultimo che parte il suo studio del vocabolario magico antico.
È infatti dai Greci che i Latini assumeranno il termine, come del resto ci aspettiamo visto che, com’è
noto, l’influenza della cultura greca su quella latina, una vera acculturazione, si fa sempre più forte a
partire dall’epoca della media e della tarda repubblica rispetto all’epoca precedente (basti pensare
alla differenza, in pochi anni, tra la romanizzazione del testo omerico operata dallo sperimentatore
Livio Andronìco nella sua traduzione poetica dell’Odissea in saturni, rispetto all’introduzione
dell’esametro epico greco nella letteratura latina operata negli Annales da Ennio, che si
autoproclama reincarnazione di Omero, tanto se ne sente fedele seguace).
La magia in Grecia 1
Innanzitutto la parola per designare chi opera la magia (lo stregone) è una parola che, come
vedremo, la dice lunga sull’etnocentrismo dei Greci che la utilizzeranno dopo Erodoto. È a costui, il
grande storico greco del V secolo, che si deve la prima opera storiografica (le Storie) basata
sull’osservazione diretta dei fatti e corredata di lunghe digressioni etnografiche. Egli riporta la parola
mágoi usata dai persiani per indicare i loro sacerdoti: insomma, in origine il mágos è semplicemente
uno specialista di una religione non greca, senza connotazioni di sorta. Ma le cose cambiano presto.
Dopo Erodoto il termine mágos viene quasi subito associato alle figure itineranti del prete
mendicante (agýrtes), dell’indovino (mántis), del góes ( “piangitore” rituale, guaritore), professionisti
free-lance, diremmo oggi, di riti e culti privati e non di quelli ufficiali della pólis; costoro sono
ridicolizzati, fra gli altri, nell’Edipo re del tragediografo Sofocle (vv. 387 sgg.) come ciarlatani; poi da
Platone, che nella Repubblica (364b) dice che con le loro pratiche insegnano ai cittadini, anziché a
sottomettersi al volere degli dei, a tentare di persuaderli, corromperli con pratiche parallele a quelle
ufficiali, o ad operare altre pratiche pericolose per la pólis. Tra di esse anche quella che oggi
chiameremmo magia “nera” (ad es. soddisfare a pagamento la richiesta di gettare il malocchio e
nuocere ad un nemico personale). Anche Euripide, nella tragedia Oreste, parla delle “arti (téchnai) di
un mágos” in grado di far scomparire Elena nella sua dimora, attaccata da Ermione ed Oreste. Una
potere magico, quello della capacità di far scomparire, che ritroveremo tra poco anche nel mondo
latino.
La magia in Grecia 2
Per tutto il V sec. mágos, ma soprattutto la parola poi passata nel nostro magia, cioè
magheía, non corrispondono dunque a ciò che intendiamo oggi per magia, ma includono sia
i culti misterici privati con i loro sacrifici iniziatici, sia la divinazione e la magia nera. La parola
non è usata “in esclusiva” ma si trova accanto ad altre come quelle viste poco sopra.
Magheía, però, se ne differenzia in quanto “arte dei sacerdoti persiani”. Da qui, come
dicevamo, un ulteriore segno negativo, ed etnocentrico: i persiani non solo sono dei
bárbaroi, ma addirittura i nemici acerrimi delle póleis greche.
È nel corso del IV secolo che la parola per così dire “si sdoppia”: da un lato conserva
l’originario significato “etnografico” suddetto; dall’altro diventa una nuova parola con un
significato indipendente da riferimenti ai persiani: diviene, cioè, “magia” in modo simile a
come la intendiamo noi, ovvero un ambito autonomo nella sfera dei fatti religiosi, con la
differenza di includere, oltre a magia nera, guarigioni, ecc. anche le forme religiose non
ufficiali della pólis (culti estatici privati, misteri bacchici). Le fonti giunteci ne parlano molto
male. L’ipotesi è che i mágoi, questi professionisti itineranti, con l’affermarsi sia della
filosofia (da Platone in poi) che della medicina greca, siano divenuti molto scomodi per gli
stessi filosofi e medici. Questi ultimi non erano infatti meno marginali e itineranti dei mágoi e
possedevano le loro associazioni. Da notare che sia le fonti filosofiche che quelle mediche si
scagliano contro la magia in nome del rapporto sbagliato con gli dei che promuoverebbero nei
cittadini delle póleis; in particolare i medici di scuola ippocratica fanno appello non alla mancanza
di “razionalità” della magheía, ma al fatto che essa si fonderebbe su premesse sbagliate e non
naturali, al contrario della medicina (ma la stessa medicina greca non poteva arrogarsi, lo
sappiamo, questi diritti...). Frazer, come visto, riprenderà questi punti e con pari atteggiamento
etnocentrico.
La magia a Roma
Da adesso in poi, anziché riassumerle, andremo naturalmente a leggere ed analizzare le
fonti, come si addice ad un corso di letteratura latina.
Ebbene, anche a Roma come in Grecia i termini magus e magia appaiono solo in un
secondo tempo, quando nella cultura romana nasce una riflessione ad hoc sulla magia. Graf
nota anche le differenze più notevoli: anzitutto (1) il fatto che a Roma le pratiche della
stregoneria/magia nera sono sempre state “fuorilegge” e quindi punite dalle istituzioni;
dunque essere accusati di magia era cosa ben più grave che in Grecia. Inoltre (2), alla luce di
quell’acculturazione greca di cui abbiamo già parlato (cfr. il celebre verso di Orazio, Epistulae
2, 1, 156: Graecia capta ferum victorem vicit, “La Grecia [benché] conquistata [dai Romani]
vinse il [suo] feroce vincitore” [perché i Romani ne imitarono la lingua e la cultura]), i
Romani assumono anche le parole magia e magus dal greco. Le prime attestazioni si
trovano nell’età di Cesare (convenzionalmente fra 78 e 44. a. C.). Si tratta di due passi, uno
di Catullo, l’altro di Cicerone. Partiamo da quello di Catullo. Ma prima (breve notazione di
metodo), presupponendo, come già detto nella prima lezione, che chi legge sia in grado di
situare nel giusto contesto storico‐letterario l’autore di volta in volta incontrato
(in caso contrario bisogna fare riferimento ad un buon manuale di letteratura latina – cfr. sempre
la lez. 1), mi limiterò a riassumere brevissimamamente pochi dati rilevanti per ciascun autore; del
poeta Catullo, dunque, ricordiamo solo che si tratta di un grande innovatore, pur sempre,
naturalmente, nel solco della tradizione ellenizzante (ed “ellenisticizzante”) propria della sua
epoca, cui si devono tra l’altro le prime poesie d’amore in latino giunteci (benché egli non fosse il
primo poeta d’amore, si pensi ai preneoterici o agli altri neoterici); l’innovazione suddetta sta,
com’è noto, nell’emergere fortissimo del piano soggettivo.
Magus in Catullo
Il brano catulliano, l’epigramma 90, proviene dalla seconda macrosezione (65‐116) del Liber,
quella in distici elegiaci (un esametro più un pentametro dattilici [1 métron (o piede) dattilo
=—́ UU]), verso tipico della poesia greca a partire da Archiloco e poi divenuto tipico del
genere epigrammatico, quindi, in età alessandrina, anche della poesia erotica. Lo schema è
dunque:

__ __ __ __
—́UU, —́UU,—́|UU, —́ UU, —́ UU —́ X
__ __
—́UU, —́UU,—́|—́ UU, —́ UU, —́
[Dove, al solito, il segno “—́” indica sillaba lunga con caduta dell’accento metrico; “U” sillaba
breve e “X” sillaba anceps (=indifferentemente sostituibile con 1/2 brevi o 1 lunga) se non si trova
in fine di verso; altrimenti, se “X” è ultima sillaba di verso (come nell’esempio dell’esametro qui
sopra), indica sillaba indifferens ‘indifferente’, la cui durata può cioè essere indifferente perché
dovuta al gusto dell’interprete (come la nota finale di un brano musicale). Il segno “|” indica una
pausa (cesura) che cade in fine parola ma in mezzo al piede/métron e , infine, la lunga sopra le
due UU indica la possibile sostituzione delle due brevi con una lunga a formare uno spondeo (due
lunghe di seguito). Da notare che sia il primo verso del distico elegiaco, l’esametro, che il secondo,
il pentametro, sono “catalettici”, cioè privi della sillaba finale.].

Si tratta di un epigramma del “ciclo” di Gellio, amico‐nemico di Catullo, cui il poeta è solito, nel
puro modello aggressivo dell’epigramma (che discende direttamente da Archiloco, poeta lirico
greco del VII sec. a. C.), scagliare i suoi spesso salaci (e osceni) strali polemici. Ma leggiamone il
testo.
Magus in Catullo (2)
“Nasca un mago dall’incestuoso accoppiamento di Gellio e di sua 
madre e impari l’aruspicìna persiana:
infatti bisogna che sia generato un mago da madre e figlio 
se è vera l’empia superstizione religiosa dei persiani,
affinché egli, una volta ricevuto l’oracolo, veneri grato gli dei
mentre le pingui budella fa sciogliere sulla fiamma”.  

Nascatur magus ex Gelli matrisque nefando 
coniugio et discat Persicum haruspicium: 
nam magus ex matre et nato gignatur oportet, 
si verast Persarum impia religio, 
gratus ut accepto veneretur carmine divos 
omentum in flamma pingue liquefaciens. 
Note: ‐riga 2: haruspicium,  accusativo neutro (cfr. hira ‘interiore’ e specio ‘osservo’) rimanda 
all’arte divinatoria (haruspicīna), ben nota e praticata a Roma, di predire il futuro osservando 
le interiora.
‐riga 4: la prodelisione verast per vera est; ‐riga 5: omentum è la membrana che tiene le interiora
e per sineddoche le interiora.

Gellio, già accusato da Catullo di incesto con la madre e la sorella (ep. 89), è qui paragonato ad un
magus = prete persiano, per imitazione raffinata ed ellenizzante: si prendono infatti i persiani
come barbari e nemici e le loro pratiche “selvagge”, non tanto quelle divinatorie ma
soprattutto quelle sessuali, legate all’infrazione del tabù dell’incesto. Si tratta dunque, per
magus, di una semplice attestazione etnografica e dotta senza riferimenti particolari alla
magia come insieme di pratiche e visioni del mondo.
Un’attestazione di magus in
Cicerone
Più o meno coevo un passo di Cicerone dal De divinatione. Ancora, dunque, siamo in campo
divinatorio. Il De divinatione (“Sull’arte divinatoria”) rientra tra i lavori filosofici di Cicerone,
quelli scritti dopo la morte della figlia Tullia, nel 45, e prima di ritornare alla vita politica
dopo la morte di Cesare. Siamo negli ultimi due anni di vita. L’opera, in 2 libri, è un dialogo,
su modello platonico, tra lui ed il fratello Quinto, che nel I libro difende la divinazione alla
luce delle dottrine stoiche; nel II Cicerone stesso ne confuta l’efficacia e la veridicità, ma la
considera utile come strumento politico per controllare le classi più basse. Vediamo il passo.
È Quinto che parla, proponendo vari casi in cui le divinazioni si sono dimostrate esatte, e
non solo a Roma:
“C’è bisogno che citi dai Libri persiani di Dinone [storico greco del IV sec., ndr] la profezia che i
maghi rivelarono a Ciro, quel famoso antico re? Scrive Dinone che, in sogno, parve a Ciro che il
sole gli si posasse ai piedi; tre volte Ciro cercò di toccarlo con le mani, ma invano: il sole, girando
su se stesso, gli sfuggiva e si allontanava. I maghi – venerati in Persia come una stirpe di sapienti e
di dotti – da questo tentativo di afferrare il sole trassero la profezia che Ciro avrebbe regnato per
trent’anni. E così avvenne: giunse fino all’età di settant’anni, e il suo regno incominciò quando ne
aveva quaranta.” (trad. S. Timpanaro).

Quid ego, quae magi Cyro illi principi interpretati sint, ex Dinonis Persicis proferam? Nam cum
dormienti ei sol ad pedes visus esset, ter eum scribit frustra adpetivisse manibus, cum se
convolvens sol elaberetur et abiret; ei magos dixisse, quod genus sapientium et doctorum
habebatur in Persis, ex triplici adpetitione solis triginta annos Cyrum regnaturum esse portendi.
Quod ita contigit; nam ad septuagesimum pervenit, cum quadraginta natus annos regnare
coepisset.
Un’attestazione di magus in
Cicerone (2)
Si noti, al solito, la perfetta costruzione del periodo tipica dello stile di Cicerone, l’attenta
distribuzione di coordinate e subordinate attorno alla principale secondo un’architettura
assolutamente armonica e “classica” (è quella che viene definita la concinnitas ciceroniana,
ovvero la “armoniosa consonanza delle rispondenze” come traduce Alessandro Fo ‐ cfr. la
formazione da cum + cano ‘cantare’ cioè “cantare insieme”), cui concorrono i giochi di
parallelismi e contrapposizioni, chiasmi ecc. In questo caso si noti l’anafora di cum, e quod, il
ritorno chiastico (cioè ad “x” rispetto ai cola, i ‘pezzi’ della frase) del pronome di 3a persona
ei. E la sapiente interrogativa retorica iniziale introdotta dalla dubitativa (Quid...proferam?
“lett. “Perché dovrei citare...”?).
Ma veniamo al contenuto. Come si vede siamo ancora di fronte ad una notazione
etnografica, ma stavolta, a differenza della precedente attestazione catulliana, in cui, per
influenza greca, i magi appaiono connotati negativamente in quanto barbari (N. B.: quindi in
Catullo la magia non pare una cosa negativa in sé, ma in quanto appartiene ai persiani, la
cui religio – il primo senso in latino è, si ricordi, ‘superstizione’, non ‘religione’ – è bollata come
come impia ‘empia’ dallo stesso Catullo), qui il contesto è di apprezzamento (quod genus
sapientium et doctorum in Persis habebatur, lett. “la quale stirpe era ritenuta in Persia [come
composta] di sapienti e dotti”). In realtà è così ma solo perché siamo nel I libro e a parlare è
Quinto, che rappresenta, come visto, la pars construens del dialogo, portatore di una tesi in
favore della divinazione ,ma che viene poi dettagliatamente smontata dal personaggio di
Cicerone stesso nel II libro.
Un’attestazione di magus in
Cicerone (3)
Quanto all’uso del termine magus, si tratta di nuovo, come in Catullo, di un uso etnografico,
quindi denotativo e non connotativo in sé. Nel suo splendido commento al De divinatione
ciceroniano (Garzanti, Milano 1988), Sebastiano Timpanaro precisa infatti che i “maghi”,
prima di essere una casta sacerdotale sono “una tribù del popolo dei medi (fusosi poi coi
persiani) che acquistò dignità sacerdotale”, e che “furono piuttosto interpreti dei sogni e
astrologi che ‘maghi’ nel senso che questa parola assunse poi nell’antichità e ha
conservato”. Il commento conferma l’uso etnografico del termine in Cicerone e sottolinea la
netta distanza dal nostro magia come insieme di pratiche magiche corrispondenti ad una
precisa visione del mondo, senza dubbio “più underground” della religione ufficiale, ma
ancora ben presente (con le differenze già dette) nella nostra società.
Torniamo alla poesia di età repubblicana, o meglio, in questo caso, per pochi anni, a quella
dell’età successiva (Augustèa, 43 a.C‐14 d. C). Il giovane Virgilio, prima di divenire il poeta
epico e didascalico della corte di Augusto, scrive, tra 42 e 39 (quindi subito dopo la battaglia
di Filippi), una serie di brevi poemetti in esametri che ritraggono un ambiente fantastico e
leggero, che ha come raffinati protagonisti dei pastori‐poeti. Si tratta dei dieci componimenti
chiamati Bucoliche (lat. bucolica, sott. carmina, cioè “poesie sui pastori”, boukóloi in greco),
mentre i singoli componimenti vengono chiamati “ecloghe” (cfr. gr. ekloghḗ ‘[poesia] scelta’).
Virgilio, come altri letterati di questo periodo che importano per la prima volta e con
straordinario successo nuovi generi dalla Grecia, è il primo e più grande poeta bucolico latino.
Virgilio, ecloga VIII

In effetti, il modello per le Bucoliche è il poeta greco Teocrito di Siracusa (III sec. a. C), che,
nei suoi Idilli (‘scenette’), ispirati alla tradizione del mimo ellenistico, ritraeva, appunto,
scenette di vita quotidiana, rustica ma anche urbana, caratterizzate da vivi dialoghi (tipico il
momento del “canto amebeo” o “botta e risposta” tra due personaggi). Il nostro passo è
tratto dall’ecloga VIII, dal titolo Pharmaceutriae (‘incantatrici’), ispirato all’omonimo idillio di
Teocrito. Uno dei personaggi, il pastore Alfesibèo, risponde alla gara poetica con Damòne,
che ha appena recitato la sua canzone di disperazione per il tradimento subito dall’amata,
narrando dell’incantesimo amoroso di una ragazza incantatrice per recuperare, con
successo, l’amato Dafni. Ecco come inizia Alfesibèo:
“Porta l’acqua e con una morbida benda cingi questi altari
e grasse verbene brucia e maschi incensi,
perché io riesca con magiche cerimonie a deviare [verso di me]
i sensi sani dello sposo; qui non manca nulla se non i versi [magici]:
‘conducete dalla città a casa, o versi miei, conducete Dafni’.
I versi possono persino portar via la luna dal cielo,
con i versi Circe ha cambiato forma ai compagni di Ulisse,
con il canto il freddo serpente nei prati si schianta”.

Effer aquam et molli cinge haec altaria uitta 
uerbenasque adole pinguis et mascula tura, 
coniugis ut magicis sanos auertere sacris 
experiar sensus; nihil hic nisi carmina desunt. 
ducite ab urbe domum, mea carmina, ducite Daphnin. 
carmina uel caelo possunt deducere lunam, 
carminibus Circe socios mutauit Vlixi, 
frigidus in pratis cantando rumpitur anguis. 
Virgilio, ecloga VIII (2)
Metro: esametri dattilici catalettici (tipici del genere bucolico), cioè sei ‘misure’ (métra)
dattilic (cioè 6 volte —́UU), con l’ultimo dattilo privo di una sillaba (catalettico). Ma si
veda il primo dei due versi (proprio un esametro dattilico cat.) nello schema della lez. 4.
Note. -riga 1: imperat. di ex+fero (effĕro). –riga 2: adŏle, imperat. da ad+oleo (adoleo) dove
oleo è diverso da oleo “odorare” e si trova solo nei composti con senso “far bruciare”;
masculos, un tipo d’incenso (tus, -ris, n.) chiamato così perché veniva raccolto in grani a
forma di testicoli. -righe 3-4 sanos sensus: sanos “sani”, perché non innamorati, l’amore era
ritenuto una malattia.
Commento: L’imitazione teocritea fa pensare, per il rito descritto, che non si tratti di una
pratica romana ma greca; anche l’uso di verbenae, che può indicare le erbe in generale, era
tipico di molti riti greci, anche non magici. Sta di fatto che in questo passo di Virgilio magici
ritus, per la prima volta nella tradizione latina, designa dei riti magici.
Questa descrizione di un rito magico ha un interessante precedente in un frammento del
poeta d’età cesariana Levio, il più importante dei poeti cosiddetti “preneoterici” e
considerato un punto di passaggio tra questi ultimi e i poetae novi o neoterici (termine greco –
lett. ‘assai nuovi’ o ‘più nuovi’ - con cui Cicerone li definisce dispregiativamente), caratterizzati
dalla cura formale (labor limae), la brevità e il gusto dell’erudizione mitologica, tratti tipici della
poesia greca d’età alessandrina ed in particolare del poeta Callìmaco (III sec.). Quasi tutti i (pochi)
frammenti che di Levio possediamo sono tratti da una raccolta dal titolo greco di érōtos paígnia
(Erotopaegnia), lett. ‘scherzi d’amore’. Pur lontane dal soggettivismo catulliano, queste poesie
d’amore precorrono Catullo, che doveva dunque conoscerle bene, per vari aspetti (uno fra tutti,
lo stile denso di diminutivi).
Levio

Il frammento 27 di Levio ci permette di penetrare nell’antro di quello che anche noi


definiremmo un ‘mago’ (anche se il termine, come detto, non compare nel testo)
consentendoci di entrare in contatto con degli ingredienti e degli “attrezzi del mestiere”
tipici di uno stregone nel mondo greco.
“Estraggono tutti i filtri da ogni parte, Philtra omnia undique eruunt:
si cerca quello chiamato antipate, antipathes illud quaeritur,
le rotelle, i rombi, le bende, trochiscili, iunges, taeniae,
radicette, erbe, polloni, radiculae, herbae, surculi,
lucertole, magiche a coda doppia, saurae, inlices bicodulae,
umori di nitrenti cavalle”. hinnientium dulcedines

Note. –riga 2: antipathes è gr. antipathēs ‘una pietra usata come medicina’; -riga 3: attrezzi
magici, di cui gli iunges anche nel già citato Le incantatrici di Teocrito. I codici restituiscono però la
forma ungues, in tal caso sarebbero “tagli di unghie” (Courtney 1993). riga 5: inlex, -ĭcis, lett.
‘attraente’, ‘seducente’. Cfr. il verbo illicio. Si tratta di un termine chiave dell’incantamento, su cui
ritorneremo. –riga 6: lett. “dolcezze di nitrenti”. Si tratta dell’hippomanḗs, umore vaginale della
cavalla che veniva usato come filtro, raccolto o dal puledrino appena nato o dalla stessa cavalla
prima che fosse montata.
Levio (2)
Il frammento di Levio ci giunge perché è citato da Apuleio nella sua Apologia, 30. L’opera
(lett. ‘difesa’) consiste nell’orazione con cui Apuleio stesso si difende proprio dalle accuse di
magia. Si tratta di un autore del II sec. d.C. che si rivelerà naturalmente molto prezioso per
noi, e di cui avremo modo più avanti di parlare ampiamente.
Innanzitutto analizziamo brevemente il metro. Si tratta di dimetri giambici con sinafìa
(l’ultima parola del verso può essere spezzata in quello successivo). Il dimetro giambico è un
verso lirico formato da “due misure” (cfr. gr. dís ‘due’ e métra ’misure’) giambici, ovvero: X—́
U—|X—́ U —. Ma questo schema di base può variare molto.
Passiamo ora al contenuto.
La scena riportata dal frammento è chiaramente legata alla preparazione di un filtro
amoroso, come dimostra la menzione dell’antipate (pietra, o forse un corallo, usato per
attirare chi ti“respingeva”, cfr. gr. antipáschō ‘subire a propria volta’). Si tratterebbe, secondo i
critici, di un adattamento leviano de Le incantatrici di Teocrito e, proprio per questo, in quanto
appropriazione di motivi letterari greci, non ci sarebbe nessun legame con la realtà romana
coeva, a conferma che anche l’uso dell’aggettivo magicus da parte di Virgilio, che sembra tener
presente questo passo leviano, sarebbe ellenizzante e dotto.
Si tratta di una dimostrazione definitiva che in età repubblicana la lingua e la cultura romana, a
quanto è dato giudicare dalle fonti letterarie, non denotavano la magia con magus e magia... Ma
questo non vuol dire che non la praticassero, come vedremo nel seguito del nostro cammino.
La prova ciceroniana
Nella sua analisi delle attestazioni nelle fonti romane di età repubblicana del termine magus e simili
(magia, magicus), Fritz Graf conclude che per i romani di quest’epoca la sfera semantica legata a
questi termini non denotava la magia come la intendiamo noi. Come visto, infatti, le due parole nelle
prime attestazioni (Cicerone, Catullo) sono usate come termini etnografici, in modo, dunque
puramente esotico, per denotare pratiche non romane ma persiane.
È Virgilio il primo ad usare il termine nel modo più “normale” per noi, ma, di nuovo, per imitazione
delle fonti greche, che, come già visto nelle prime lezioni, a partire dal IV secolo già usano la parola
magheía (lat. e it. magia) in modo simile a come la usiamo noi. Dunque la mentalità dei romani di età
cesariana non operava nessun isolamento della magia in un ambito specifico del reale. Difficile
provare che davvero le cose a Roma stessero così e tacitare chi pensa che si tratti solo (ma è
comunque improbabile) di coincidenze, ovvero della fortuna che ha fatto sì che questi testi antichi e
non altri, dall’età antica, a quella tardo-latina e poi attraverso il medioevo, siano arrivati fino a noi per
opera di copisti o monaci amanuensi. Ma è proprio la fortuna ad aiutare in questo caso l’antropologo-
filologo. Bisogna tornare a sfogliare le pagine di Cicerone, ed in particolare quelle di Cicerone
avvocato. Mi riferisco naturalmente alle orazioni giudiziarie (quelle in difesa di “clienti” privati), che
furono per Cicerone prima strumento professionale e poi, mano mano che avanzò da homo novus
nella carriera istituzionale che lo porterà fino al consolato, strumento politico (orazioni politiche).
Cicerone, I n Vatinium 6, 14
E proprio tra le orazioni giudiziarie a sfondo politico di Cicerone, troviamo un passo che conferma in
modo incontrovertibile l’ipotesi sulla “non-magia” in età repubblicana. Siamo all’interno della Pro
Sestio (56), orazione in cui ribatte ad una causa per violenza intentata contro il suo amico e alleato,
Sestio, da Clodio, nemico personale di Cicerone. La Pro Sestio, già famosa perché vi compare tra
l’altro una descrizione dei costumi morali di Clodia, sorella di Clodio, forse la Lesbia di Catullo
(descrizione che sembra giustificare la gelosia di quest’ultimo...), è l’orazione in cui Cicerone coglie
l’occasione per esporre la propria teoria della concordia ordĭnum¸ la concordia tra le classi/fazioni più
forti (in particolare optimates, ovvero gli aristocratici filo-senatori, e populares, cioè i nobili filo-
tribuni della plebe, che intendevano appoggiarsi alle classi popolari di cui portavano avanti le
richieste, in primis la riforma agraria) a vantaggio dell’interesse della collettività per la pace sociale.
Uno stralcio del processo a Sestio ci è giunto raccolto nella In Vatinium testem interrogatio
(‘Interrogazione del teste Vatinio’) 6, 14, che riporta la confutazione del teste Publio Vatinio, già
pretore nell’anno del consolato di Cicerone (63) e suo nemico; Vatinio aveva testimoniato contro gli
amici di Cesare, Clodio e Sestio. Ecco il passo dell’orazione, in cui l’attacco Ciceroniano a Vatinio si
dipana, come tipico del suo stile oratorio, attraverso l’apostrofe, cioè l’accusa diretta all’avversario
usato come interlocutore, tra una serie di domande che accrescono, con una klímax (gr. ‘scala’,
ovvero gradazione) ascendente la serie di delitti da lui commessi a creare un effetto di incredulità.
Cicerone, I n Vatinium 6, 14 (2)
“E poiché dagli dei immortali vengono derivati gli inizi di tutte le grandi cose, voglio che tu
mi risponda, tu che sei solito definirti Pitagorico e portare avanti come scusa ai tuoi costumi
mostruosi e barbari il nome di un uomo dottissimo, quale depravazione così grande può
essersi impossessata di te, quale follia così grande da portarti, avendo tu intrapreso riti sacri
inauditi e abominevoli, solendo tu evocare le anime dei morti e fare sacrifici agli dei mani
con viscere di bambini, a disprezzare gli auspici grazie ai quali questa città fu fondata, con
cui tutto lo stato e il potere del console viene mantenuto, e ad annunciare al senato,
all’inizio del tuo tribunato, che i responsi degli àuguri e l’arroganza di quel collegio non
sarebbero stati di impedimento alle tue azioni?”
Et quoniam omnium rerum magnarum ab dis immortalibus principia ducuntur, volo ut mihi
respondeas tu, qui te Pythagoreum soles dicere et hominis doctissimi nomen tuis
immanibus et barbaris moribus praetendere, quae te tanta pravitas mentis tenuerit, qui
tantus furor ut, cum inaudita ac nefaria sacra susceperis, cum inferorum animas elicere,
cum puerorum extis deos manes mactare soleas, auspicia quibus haec urbs condita est,
quibus omnis res publica atque imperium tenetur, contempseris, initioque tribunatus tui
senatui denuntiaveris tuis actionibus augurum responsa atque eius conlegi adrogantiam
impedimento non futura?
Note: -riga 3: praetendere (prae+ tendo), lett.: ‘tendere davanti’, quindi anche nel senso di
simulare; quae...qui valgono come aggettivi interrogativi “quale” (quae pravitas, qui furor). -riga
4: ut consecutivo, regge i perfetti congiuntivi contempseris e denuntiaveris (righe 6 e 7);
cum...cum...cum + congiuntivo, traducibili con gerundio. –riga 8: non futura (esse) è l’infinito della
dichiarativa introdotta da denuntiaveris.
Cicerone, I n Vatinium 6, 14 (3)
Commento. Si tratta di un lungo periodo, che è un esempio perfetto della già citata
concinnitas ciceroniana, cioè la capacità di armonizzare le frasi (proposizioni) del periodo
attraverso parallelismi o opposizioni in modo da ottenere un effetto studiato. Qui, a
proposito di parallelismi, è evidente l’uso dell’anafora (ripetizione di una stessa parola
all’inizio di un colon, cioè di una proposizione). Un primo esempio è la triplice ripetizione di
cum alle righe 4-5. Ma anche, notevole, l’anafora con variatio di quae e qui (riga 3), ed
inoltre, ugualmente notevole, quella di qui te e quae te, rispettivamente alle righe 2 e 3. Ed
infine il quibus...quibus alle righe 5-6. L’anafora produce un ritmo incalzante che rende più
incisiva la serie di accuse che reggono questa apostrofe, ragione per cui Cicerone ha
ritenuto di non dover spezzare la frase con una pausa forte (un punto), ma di rovesciare “a
valanga” una serie di cola (pezzi di frase) affini stilisticamente e contenutisticamente (sono
tutti crimini di Vatinio).
Veniamo ora al collegamento con la magia. Graf ritiene, giustamente, di trovare in questo
duro attacco a Vatinio prova che all’epoca di Cicerone i romani non isolavano la magia in un
ambito specifico del loro modo di pensare. Senza dubbio, infatti, tra i crimini imputati a Vatinio ne
figurano due, l’accusa di evocare le anime dei defunti e quella di avere, durante certi riti, offerto
agli dei mani delle viscere di bambini, che noi avremmo chiamato “magia” e che in effetti in
epoca imperiale sarebbero stati, come vedremo, violentemente sanzionati. Ma Cicerone non
ricorre a categorie del diritto civile o penale per accusare Vatinio di questi fatti inaudita ec
nefaria, e neppure insiste come ci aspetteremmo (alla fine ‘cambia discorso’ e passa ad accusare
Vatinio di aver disprezzato auspici e àuguri). Sono dunque accuse che non corrispondono a
nessuna nozione magica precisa.
Girolamo
Il fatto è che questa mancanza di leggi specifiche legate ai crimini per magia è ancora più
eclatante se si confronta con quello che succede pochi anni dopo. La notizia ci giunge da
fonte tarda, cristiana. Si tratta nientemeno che di Girolamo, padre della chiesa vissuto nel IV
sec. a. C., nonché celebre autore della traduzione latina dei testi sacri dei cristiani che si
impose come definitiva per tutto l’Occidente di lingua latina. Ma veniamo alla sua notizia,
che è contenuta nel Chronicon (1980, 16), la “storia universale” composta da Girolamo nel
380 ca. (si tratta in realtà di una traduzione in latino delle tavole cronologiche di Eusebio di
Cesarèa, storico greco, già vescovo di Cesarèa in Palestina, vissuto fra il 256 ed il 339 d. C):

“Anassilào di Làrissa, pitagorico e mago, è cacciato via da Roma e dall’Italia da Augusto.”


Anaxilaus Larisseus Pythagoricus et magus, ab Augusto Urbe Italiaque pellitur.

Purtroppo non c’è più di così, e resta il grande dubbio se il termine magus non sia stato
introdotto dallo storico Eusebio, da cui Girolamo traduce, o, come sarebbe più interessante
pensare, si tratti proprio del termine che sarebbe stato usato nel decreto senatorio con cui
Augusto avrebbe cacciato Anassilao; quest’ultimo, com’è evidente, è un personaggio che, al
pari del Vatinio di Cicerone, è sia pitagorico che stregone.
Le Dodici Tavole
Dato che ci stiamo occupando di processi, di decreti senatòrii, per cercare di rintracciare
indizi che ci possano portare a scoprire una “mentalità magica” a Roma, andiamo
direttamente a vedere se, nonostante l’assenza in età repubblicana di termini legati al
gruppo di magus, i Romani non conoscessero qualcosa di simile (ma abbiamo già visto che è
così).
Una prova inconfutabile ci viene da quel ricco repertorio di dati utili a ricostruire la cultura
romana dell’età delle origini (convenzionalmente dal 753 al 240 a.C) che sono le leggi delle
Dodici Tavole.
Com’è noto, le Dodici Tavole, o Legge/i delle Dodici Tavole, è il più antico codice di leggi
conosciuto prodotto nella Roma antica. Il codice è andato perduto, ma ce ne sono giunti
frammenti e singole leggi grazie agli autori latini successivi, che ne citano delle parti nelle
loro opere. La loro importanza è fondamentale perché si tratta, oltretutto, dei primi
documenti scritti, quelli da cui viene fatta ufficialmente partire la letteratura latina. La
promulgazione di queste leggi si fa tradizionalmente risalire agli anni 451-450 a.C., quando
un’apposita commissione di decemviri legibus scribundis (dieci magistrati addetti, lett. “alle leggi
da scrivere”) fu incaricata di redigere questo codice. Anche se caratterizzate da un
conservatorismo molto rigido, si tratta di una grande conquista per la plebe di Roma: fissare delle
leggi per iscritto, infatti, tolse l’arbitrio e l’esclusiva che sulla loro interpretazione - e quindi
applicazione - era stata esercitata dai giudici patrizi, i soli depositari, fino a quel momento, del
diritto basato sulle consuetudini (consuetudinario). Quest’ultimo era tramandato oralmente,
quindi affidato alla memoria di un gruppo ristretto che aveva tutto l’interesse di conservare per
sé il privilegio di “dettare” legge. Da qui l’importanza “democratizzante” della scrittura.
Le Dodici Tavole (2)
Naturalmente questi documenti ci restituiscono testimonianza fondamentale della lingua arcaica
(almeno di quella legislativa). Com’è noto queste leggi vengono caratterizzate dall’uso
dell’imperativo futuro, da periodi brevi e secchi e da frequenti scambi di soggetto, quest’ultimo del
resto quasi sempre sottinteso. E naturalmente ci restituiscono testimonianza di una cultura romana
delle origini contadine di Roma il cui sistema di valori (mos maiorum) si sa quanto i romani successivi
terranno in considerazione.
Ma veniamo alle testimonianze relative al “mondo magico”. Quasi tutti gli autori che citano le XII
tavole in proposito sono interessati alla stregoneria (o magia nera). Seneca (Naturales Quaestiones,
7, 2) ci fornisce un primo brano relativo ad una pratica che riguarda la scomparsa del raccolto di
grano dal campo:
“Anche presso di noi, nelle XII Tavole, si ammonisce che ‘nessuno faccia scomparire con incantesimi il
raccolto altrui’ ”.
Et apud nos in XII tabulis cauetur 'ne quis alienos fructus excantassit'.
Come si vede abbiamo tradotto il verbo exacantare, un composto da ex + canto, intensivo di cano
‘cantare’ (cfr. il sup. cantum), in un modo molto preciso. Prima di ritornare su questo significato e
aggiungere a questo altri frammenti interessanti in proposito, una piccola nota riguardo alla forma
exacantassit: è forma alternativa al latino classico excantavĕrit, participio perfetto congiuntivo.
Le Dodici Tavole (3)
La seconda testimonianza interessante ci viene da Plinio il Vecchio, il celebre scrittore e
“scienziato” latino del I sec. d. C. su cui avremo più avanti modo di tornare ampiamente. Nella sua
Storia Naturale (Naturalis Historia), Plinio riporta un’altra legge proveniente sempre dalla raccolta
delle XII Tavole e di argomento assolutamente analogo. Ecco il il brano pliniano (Hist. Nat. 28, 18):
“Che? Non esistono queste parole anche nelle dodici tavole delle stesse leggi [=nelle stesse Leggi
delle XII Tavole]: ‘chi avrà fatto scomparire le messi [altrui]’ e, in un altro passo, ‘chi avrà
pronunciato una formula di maledizione’? ”.
Quid? non et legum ipsarum in duodecim tabulis verba sunt: “qui fruges excantass<i>t,” et alibi:
“qui malum carmen incantassit?”
A darci una chiave interpretativa fondamentale è il significato dei due composti di canto, e cioè ex-
cantare ed in-cantare. Nel primo caso, come conferma la testimonianza precedente, si tratta di
“portare via (ex) con il canto”, ovvero pronunciando una formula che appare come qualcosa di
diverso dal parlato normale, un ‘canto’ insomma. Si ricordi infatti che cano e canto valgono non
solo ‘cantare’ ma anche il nostro ‘recitare’. Nel secondo si tratta di “cantare dentro (in)”. Se a
cantare si fa corrispondere ‘recitare formule magiche’ si capisce che si tratta di termini tecnici e
come tali caratteristici di un ambito particolare, un modo particolare di esperire la realtà.
Etimologia
Dunque anche se non si tratta proprio di un dominio della realtà definito con termini desunti dal gr.
magia, i latini d’età arcaica (che ancora non erano ellenizzati come saranno in seguito) conoscevano
qualcosa di assimilabile ad essa. E doveva essere qualcosa di ben diffuso e alla portata della
esperienza di tutti se vi si facevano leggi ad hoc.
Il frammento delle XII Tavole riportato da Plinio ci dà anche un’altra fondamentale informazione che
manca nel frammento restituitoci da Seneca. Si parla di malum carmen incantare. Ora, è noto che il
termine carmen costituisce il modo in cui i latini definiscono la poesia (poësis, dal greco, è termine
tardo). Ma l’area semantica coperta da questa parola copre anche molto più di quello che noi
intendiamo per poesia. La prima cosa che ci colpisce rispetto ai nostri due verbi, incantare ed
excantare, è il probabile rapporto che anche per carmen è rintracciabile con il verbo cano. Dal punto
di vista linguistico infatti si può mettere in relazione una derivazione del termine carmen da cano
ipotizzando una forma ricostruita *can-men e mettere questa formazione in analogia con un altro
termine probabilmente derivato anch’esso da una base verbale e dal suffisso denominativo –men. Si
tratta di germen ‘germoglio’, di cui di può ipotizzare una forma ricostruita *gen-men con gen- come
radice di gigno ‘genero’, un presente a raddoppiamento di un tema gen. ben attestato nel perfetto
del verbo (genui), il che porta ad ipotizzare un presente *geno non attestato. Per dissimilazione la
prima delle due nasali contigue (-n-) sarebbe passata a liquida (-r-).
Poesia e funzione poetica
Così carmen in latino designerebbe appunto tutte le forme di comunicazione che, come dice il
linguista Roman Jakobson, rientrano nella “funzione poetica della lingua” (quindi, prima
dell’introduzione a Roma della scrittura alfabetica, per via Etrusca, alla metà dell’VIII sec. a.C.,
designava la comunicazione orale di questo tipo). Con “funzione poetica della lingua”, Jakobson,
com’è noto, si riferisce ad un messaggio in cui, sia a livello della forma che a livello del contenuto dei
segni linguistici (cioè, ad esempio, sia a livello del suono di una parola che a livello del suo
significato), si possono stabilire parallelismi o contrapposizioni, e in ogni caso rimandi di tipo fonico
e semantico tali che il messaggio colpisca l’uditore/lettore (si pensi solo alla rima nel sistema
metrico accentuativo di una lingua come l’italiano, o alle successioni di sillabe nella metrica
quantitativa tipica di lingue antiche come il greco ed il latino). Un esempio tipico e molto facile da
comprendere di utilizzo di messaggi basati sulla funzione poetica della lingua nella nostra cultura
sono gli slogan pubblicitari, pensati per rimanere impressi nella mente del “consumatore” (perché
dovremmo essere “consumatori” e non persone per chi ci somministra questi slogan...), ed in effetti
ci colpiscono sia per la disposizione e la scelta delle parole che per il significato, quasi sempre
leggibile a più livelli (tipico l’uso della metafora), che quelle “figure di suono” mettono evidenza.
Ancora più forte, il messaggio pubblicitario, quando si lega ad un’immagine (quindi la funzione
“puramente” poetica della lingua va cercata nelle pubblicità ascoltate per radio). Mi astengo, perché
l’ambito è così familiare, dal fare esempi.
Un esempio dalla sfera religiosa
Ma torniamo al mondo latino. La cosa più naturale per noi è ovviamente prendere un esempio di
funzione poetica della lingua e della sua realizzazione nel carmen direttamente dalla cultura
romana. Questo ci permetterà anche, molto brevemente, di parlare del saturnio (lett. ‘italico’), il più
antico verso latino. L’esempio che prendiamo è quello di un antico carmen recitato in ambito
religioso, per celebrare un rito di purificazione e propiziazione del raccolto, a fine Maggio. È la festa
degli Ambarvalia (cfr. il prefisso amb- ‘intorno’ e arva ‘campi’). Infatti, durante questa festa
(interessante anche per segnalarci l’importanza, sempre molto forte nella religione romana, dei
culti privati), il pater familias conduceva una processione di vittime ‘intorno ai campi’ e quindi le
sacrificava con un sacrificio speciale detto suovetaurilia (perché l’animale sacrificato poteva essere
un sus ‘maiale’, un ovis ‘montone’ o un taurus ‘toro’).
È Catone, nel De agri cultura 141, a riportarci questa antica preghiera.
Com’è noto si tratta di un autore che percorre a lungo la cultura latina d’età arcaica (nasce nel 234 e
muore nel 149) e che è fondamentale nella storia della letteratura latina per essere da un lato il
fondatore della cosiddetta prosa tecnica (il De agri cultura ‘Sull’agricoltura’, la più antica opera latina
in prosa, è un manuale di economia agricola), e, dall’altro, per essere il primo storiografo latino che
abbandona la fase dell’annalistica in greco e scrive nella propria lingua.
Carm en lustrale
Ma torniamo al carmen riportatoci da Catone. Come al solito esaminiamone il testo a partire dalla
traduzione (di G.B. Pighi).

“Perché tu i morbi veduti e non veduti uti tu morbos uisos inuisosque,


la desolazione e la devastazione, uiduertatem uastitudinemque,
i mali delle piante e i maltempi calamitates intemperiasque
fermi, allontani e storni; prohibessis defendas auerruncesque;
e perché i raccolti e le biade, i vigneti e i virgulti utique tu fruges, frumenta, uineta uirgultaque
tu lasci aggrandire e venir bene, grandire beneque euenire siris;
i pastori e il bestiame conservi sani pastores pecuaque salua seruassis
e dia benessere e salute duisque bonam salutem ualetudinemque
a me, alla casa e alla nostra famiglia”. mihi domo familiaeque nostrae.
Metro: saturnio. Si tratta, com’è noto, di un verso problematico perché difficile ricondurlo ad uno
schema metrico ricorrente, il tratto che è sempre costante e che lo caratterizza è la forte pausa
centrale che separa il verso in due unità ritmiche, nella prima delle quali si trovano piedi giambici
(giambo: U —) e viceversa nella seconda parte, di piedi trocaici (trocheo: — U).
Carm en lustrale (2)
Lo schema di base del saturnio “puro” che ne deriva sarebbe il seguente (“||” = pausa forte):
X — X — | X — X || — X — X — —
Almeno, in questo schema rientra il famoso verso citato dal grammatico Cesio Basso (I sec. d.C:)
perché usato dalla potente famiglia dei Metelli per vendicarsi del poeta Nevio e dei taglienti saturni
da lui scritti contro di loro:
mălūm dăbūnt Mĕtēllī || Nāevĭō pŏētāe
da leggere:
malúm dabúnt Metélli / Náevió poétae.
Ma torniamo al nostro carmen lustrale, anzitutto con le note al testo:
-riga 1: uti=ut, ha valore finale e regge prohibessis (=prohibuĕris, perfetto congiuntivo) e gli altri
due congiuntivi, in questo caso forme di presente e non di perfetto, al r. 4. –riga 4: averrunces,
‘tenga lontano’, da averruncare, raro. –riga 6: siris = forma alternativa di congiuntivo presente di
sino ‘permettere’, dipende da ut. –riga 7: servassis=servaveris, dipende ancora da ut, di nuovo in
variatio rispetto alla forma di cong. pres, siris. –riga 8: duis=des (cong. pr. di dare);
duonam=bonam, forma alternativa.
Carm en lustrale (3)
E adesso veniamo al commento stilistico e contenutistico. La cosa che colpisce è il gioco davvero
intenso di corrispondenze ed alternanze giocate sui suoni (piano della forma) e sui significati (piano
dei contenuti). Alla riga 1 si parte con una figura etimologica (due parole derivate dalla stessa
parola, qui video) ma in opposizione semantica tra di loro (il secondo participio con valore
aggettivale è preceduto da in- con valore negativo). Alla riga 2 colpisce la coppia di sostantivi
allitteranti (allitterazione = due parole che iniziano con lo stesso suono, in questo caso v-) ed il
parallelismo dei due accusativi singolari con i due accusativi, ma plurali, della riga successiva
(calamitates intemperiasque). Si noti anche la rima, o meglio, l’omoteleuto (cfr. greco homós
‘uguale’ e teleutḗ ‘fine’, cioè parole ‘che hanno la stessa terminazione’) di –que tra le sillabe finali
dei primi 5 versi del carme. Alla riga 4, il tricolon, cioè tre parti (cola) in sequenza parallela ben
isolabili nella frase, costituito dai tre congiuntivi flessi alla II pers. sing. Alla riga 5 la doppia
allitterazione, prima di f- (fruges frumenta) poi di v- (vineta virgultaque). La rima interna di-que alle
righe 6 e 7 e quindi, sempre alla 7, la doppia allitterazione pastores pecuaque, seguita al verso
successivo, nella stessa posizione, da quella di duisque duonam. Da notare, infine, la disposizione
chiastica (cioè a “x”, corrispondente alla lettera X, chiamata chi in greco) delle parole nell’ultimo
verso, e cioè: la coppia pronome personale di 1 p. singolare+sostantivo in corrispondenza con la
coppia sostantivo+aggettivo possessivo di 1 p. plurale.
M alum carm en
È chiaro, leggendo questo carmen lustrale, cosa s’intenda per funzione poetica della lingua. La
disposizione molto mnemonicamente favorevole delle parole nel carmen non è casuale, ma
risponde alla maggiore o minore enfasi delle parole e del loro significato all’interno del
componimento. Si noti a questo proposito la posizione ‘tattica’ (perché posizione finale) delle
parole “me”, “casa” e “famiglia nostra”, che costituiscono il punto chiave di questo componimento
che, come visto, riproduce la formula di un rito privato e non pubblico, un rito condotto proprio
dalla figura guida del pater familias.
Quando ho detto mnemonicamente favorevole alludevo alla trasmissione orale di una preghiera
come questa e alla capacità di conservare degli ‘appigli’ fonici tipici di tutto ciò che viaggia
esclusivamente sul canale orale e deve essere ricordato (si pensi alle filastrocche caratteristiche
anche del nostro folclore, o anche agli epìteti omerici, ovvero alle formule omeriche, tipiche della
poesia epica greca, nata da un lungo periodo di tradizione orale portata avanti da cantori
professionisti anche dopo che i poemi omerici vennero messi per iscritto nel VII sec. a. C.).
Possiamo adesso tornare al nostro malum carmen incantare.
Ricordo che stavamo analizzando il frammento tratto dalla legge delle dodici tavole riportatoci da
Plinio. Avevamo tradotto malum carmen incantare con ‘pronunciare una formula di maledizione’.
Ora sappiamo che se carmen è nome generico per indicare qualsiasi tipo di poesia (anzitutto
quelle tramandate per via orale, con tutto l’insieme di elementi formali che ciò comporta),
l’aggettivo malum ‘cattivo’ ne sposta chiaramente il significato specializzando questo carmen
rispetto agli altri carmĭna, ad esempio quelli religiosi come il carmen lustrale.
M alum carm en (2)
Da qui il senso di ‘maledizione’, chiaramente riferita ad una persona, quindi una pratica affine a
quella che per noi (e per i greci) sarebbe la magia nera, la stregoneria.
Come si vede (ed avremo modo di confermarlo ancor meglio in seguito), il rapporto tra la poesia e
la stregoneria è fissato come un rapporto molto stretto nella cultura latina. E non pare certo un
caso che sia così. Come la poesia, attraverso la funzione poetica della lingua, riesce ad ‘intrecciare’
parole, cioè fatti di lingua, per mezzo di parallelismi ed opposizioni semantiche e formali, così la
magia riesce a fare la stessa cosa ‘intrecciando’ in rimandi continui di tipo simmetrico od
oppositivo cose e persone reali. Per illustrare cosa intendo dire, torniamo al frammento del poeta
preneoterico Levio, già visto nella lezione 6. Come si ricorderà il passo leviano riguardava la
preparazione di un filtro amoroso, cioè, in sostanza, una pratica in grado di attirare a sé qualcuno
che altrimenti sarebbe sanus, cioè privo della malattia d’amore, secondo la metafora riportataci da
Virgilio nel passo della VIII ecloga. Tra le “cose” che venivano usate nella preparazione del filtro
amoroso figurava l’antipate, pietra attira-persone, e le ungues. Queste ultime sarebbero “i tagli di
unghie” della persona amata, raccolti e mescolati agli altri ingredienti. Insomma, la magia agisce
come una metonimia, per contatto: se “tocca” una parte del corpo dell’amato riporta l’amato
stesso, così come una metonimia tocca una parte dell’oggetto per indicarlo tutto (cfr. l’uso di
“tetto” per indicare la casa, o “vela” per indicare la nave). Ma non basta.
Magia come poesia
Anche la metafora è ovviamente implicata in questo gioco di corrispondenze tra poesia e magia. La
parola metafora viene dal greco metaphorá, che significa “trasferimento”, in particolare
trasferimento del significato di una parola, dal significato letterale (denotazione) a quello
metaforico (connotazione). Si ha metafora quando il rapporto tra la cosa di partenza (denotatum) e
la cosa di arrivo (connotatum) avviene per sostituzione dell’una con l’altra, sostituzione innescata
da una somiglianza, un contatto metonimico tra le due. Ad esempio, dire “prendi la bottiglia per il
collo” crea un’opposizione tra il collo propriamente detto (denotatum), ed il “collo” di una bottiglia,
che diventa il significato trasferito e dunque connotato della metafora: il collo della bottiglia (il
cosidd. “soggetto” metaforico, cioè ciò che dobbiamo definire) si è dunque sostituito al collo del
corpo umano (il cosidd. “predicato” metaforico, cioè ciò che conosciamo già). Questo nella lingua
e, dunque, anche nella poesia.
Vediamo adesso la metafora in azione nella magia. Torniamo, per esemplificarlo, al passo
dell’ecloga VIII in cui la incantatrice preparava il filtro d’amore per riconquistare Dafni, il promesso
sposo. Tra le “cose” di cui si serve per costruire il suo filtro d’amore figurano dei mascula tura, cioè
degli incensi maschi. È chiaro che qui è in gioco una metafora, tra il predicato/denotatum, cioè ciò
che abbiamo già, e che in questo caso corrisponde all’incenso, e ciò che non abbiamo, il soggetto
della metafora, corrispondente all’amato da riconquistare.
Magia come poesia (2)
La metafora è innescata anche qui dalla somiglianza metonimica, cioè dal contatto tra i due:
infatti sia l’incenso che l’amato Dafni sono “maschi” (se questo è chiaro per Dafni, non lo è
per l’incenso, ecco perché Virgilio specifica mascula nel suo testo). Così, bruciare dei
“maschi incensi” significa bruciare l’amato, ovvero ottenebrare i suoi “sensi sani” attraverso
il fumo sprigionato dalla combustione, che è metafora, appunto, anche dei “sensi sani” che
se ne dovrebbero andare per lasciare il posto ai sensi ‘costruiti’ attraverso il rito del filtro
amoroso in modo che si ammalino d’amore per colei che ha preparato il filtro.
Insomma, siamo ancora all’interno della funzione poetica. Sia la poesia che la magia giocano
sui parallelismi e sulle opposizioni, cioè sulla metonimia e sulla metafora come due modi di
leggere i segni di cui è fatta la realtà così com’è esperita dall’essere umano attraverso la
cultura; questa realtà è quella ‘detta’ della lingua, e quella ‘vissuta’ della magia. Entrambe,
dunque, operano all’interno della funzione poetica di Jakobson, quella delle parole da un
lato e quella delle cose dall’altro. Un parallelismo che, se alla nostra mentalità appare molto
lontano e difficilmente esplicitato, non doveva certamente sfuggire a chi faceva parte della
cultura latina.
Ecco allora che si fa ancora più grande la forza, non solo poetica, ma antropologica, per dire così,
di quei versi virgiliani (cfr. lez. 6) che tornano come un vero e proprio ritornello nella seconda
parte dell’ecloga VIII, quando l’incantatrice che cercava (riuscendoci, peraltro) di incantare il suo
Dafni, cantava così:
“Conducete dalla città a casa, o versi miei, conducete Dafni”.
E ancora:
“I versi possono persino portar via la luna dal cielo,
con i versi Circe ha mutato forma ai compagni di Ulisse”.
Ex cantare
Ma torniamo di nuovo alle nostre leggi delle dodici tavole per esaminare gli altri
frammenti che, nel loro latino arcaico, ‘secco’ e solenne, ci riportano ad una
dimensione “magica”, seppur non concepita né chiamata così dai latini dell’età
arcaica.
Adesso abbiamo capito il significato di incantare, verbo tecnico della dimensione che
noi (e i greci) chiameremmo ‘magica’ o meglio stregonesca. L’altro verbo che
compariva nelle leggi era excantare, come riferimento, si ricorderà, all’incantamento
in grado di ‘portar via le messi dal (ex) campo di qualcuno’ per, evidentemente,
portarle nel proprio. Ancora Virgilio e ancora nell’ecloga VIII (vv. 95 sgg.) attesta in
effetti che questa deve essere l’interpretazione. È ancora la nostra innamorata
incantatrice a parlare:
“Queste erbe e questi veleni, colti nel Ponto
Meri stesso mi ha dato (nascono numerosi nel Ponto);
per mezzo di questi spesso ho visto Meri trasformarsi in lupo e nascondersi nelle selve,
spesso evocare le anime dai profondi sepolcri,
e trasportare altrove le messi seminate.
Conducete dalla città a casa, o versi miei, conducete Dafni”.

has herbas atque haec Ponto mihi lecta uenena


ipse dedit Moeris (nascuntur plurima Ponto);
his ego saepe lupum fieri et se condere siluis
Moerim, saepe animas imis excire sepulcris,
5 atque satas alio uidi traducere messis.
ducite ab urbe domum, mea carmina, ducite Daphnin.
Ex cantare (2)
Note: trad. M. Geymonat (con miei riadattamenti). –riga 1: il Ponto è il Mar Nero, su cui si affaccia la
Colchide, regione della mitica maga Medea; mihi va con dedit non con lecta. –riga 2: fieri, condere e
gli altri infiniti dipendono da vidi alla riga 5; Meri è nome convenzionale dei pastori virgiliani, si
ritrova nella ecl. IX. –riga 5: alio è avv. di moto a luogo, ‘altrove’; messis = messes, acc. pl.
Commento: A parte quello che abbiamo detto sulla “magia come poesia” (confronta di nuovo il
ritornello; “Conducete dalla città...”), il passo ci conferma il significato di excantare. Anche se Virgilio
scrive molto tempo dopo le XII Tavole, è noto che queste ultime continuano ad esercitare un valore
“antropologico” se non proprio giuridico per tutto l’arco temporale in cui si può parlare di cultura
latina (basti il fatto che venivano imparate a memoria nelle scuole). Ebbene, nel passo non si usa
esplicitamente il verbo excantare che compare nelle XII Tavole, ma qui la nostra ragazza incantatrice
(ovvero Virgilio) è abbastanza esplicita sul fatto che si tratta di “far passare (traducere) altrove” le
messi di un campo. Che questo altrove possa essere il campo di chi compie l’incantesimo, ce lo
conferma Servio, il noto commentatore di Virgilio, che ci restituisce anche un’ulteriore frammento
della legge delle XII Tavole in cui si sanziona il comportamento di chi “attira” il frutto del raccolto di
un campo altrui per trasferirlo nel proprio o comunque in proprio possesso. Ma leggiamo il passo.
P ellìcere
“ ‘Trasportare le messi altrove’: ciò avveniva per mezzo di certe arti magiche, perciò si trova nelle XII
Tavole [la frase] ‘e non attirare (pellicĕre) le messi altrui’. Cosa che anche Varrone e molti scrittori
confermano che venisse ad essere scoperta”.

traducere messes magicis: quibusdam artibus hoc fiebat, unde est in xii tabulis “neve alienam
segetem pellexeris”: quod et Varro et multi scriptores fieri deprehensum adfirmant.

Fondamentale, dunque, il verbo pellicěre. Si tratta di un composto da per-, che qui ha valore
rafforzativo, come stra- in italiano (cfr. l’italiano stramangiare, strafare ecc.); più il verbo lăcio
‘attirare’, (cfr. lax ‘esca’, ‘inganno’). Quindi pellicěre sarebbe ‘stra-attirare’, cioè ‘attirare con grande
forza’. E per i Latini dell’epoca di Virgilio questa forza in più, si intende, viene dal “mondo magico”
legato ai carmina. Interessante notare che Servio, il commentatore di Virgilio, usa esplicitamente il
nostro termine magicus (magicis artibus), segno che evidentemente nel IV sec. d.C, quando Servio
viveva, il mondo magico aveva un suo posto preciso isolabile all’interno della cultura di cui l’erudito
era parte. Come vedremo dal resto delle testimonianze letterarie che andremo ad analizzare, non
tarderà ad essere così anche per i Latini dell’età imperiale.
Tornando all’età repubblicana (ma anche in quella del giovane Virgilio poeta bucolico), abbiamo
appena detto che la capacità di ‘attirare con forza’ viene dal mondo magico legato ai carmina, o
almeno a certi di essi. Oltre ai già visti mala carmina, altri erano dotati di ‘forza’. Vediamo quali.
Un incantesimo “medico”
Sopra abbiamo già analizzato un passo di Catone. Torniamo ancora a questa figura fondamentale (e
non solo per la letteratura) dell’età arcaica per esaminare altri carmina che, anziché mala, sono
decisamente benefici. E qui il mondo magico si intreccia con quello che, nella nostra mentalità, è
l’ambito della medicina.
Ancora nel trattato De agri cultura (161) Catone, nel suo stile secco e pragmatico, consiglia il
paterfamilias in caso di lussazione.

“Per rimuovere le lussazioni con l’incanto.


Se c’è una qualche lussazione, con questo incantesimo diverrà sana: prenditi una canna verde lunga
4 o 5 piedi, dividila a metà per lunghezza e due uomini tengano [le due parti] presso le anche; inizia
a recitare l’incantesimo [seguente]: ‘moetas vaeta daries dardaries una petes’ fino a che non si
riattaccano. Buttaci sopra un ferro. Appena si sono riattaccate e toccate l’una con l’altra, prendi il
tutto (lett. ‘ciò’) in mano e taglia [la canna] a destra e sinistra; lega il tutto alla lussazione o alla
frattura: guarirà. Tuttavia tu ogni giorno canta: ‘huat, huat, huat ista pista sista i vostri danni
danneggerò’ ”.
Luxum ut excantes
Luxum si quod est, hac cantione sanum fiet. harundinem prende tibi uiridem
p. IIII aut quinque longam, mediam diffinde, et duo homines teneant ad
coxendices. incipe cantare 'moetas uaeta daries dardaries asiadarides una
5 petes' usque dum coeant. ferrum insuper iactato. ubi coierint et altera alteram
tetigerint, id manu prehende et dextera sinistra praecide; ad luxum aut ad
fracturam alliga: sanum fiet. et tamen cotidie cantato 'huat hauat huat ista pista
sista damnabo damna vestra'.
Medicina greca? No grazie
Note: -riga 1:; excantes, 2p. sing. cong. pres.; lett. “perché tu rimuova ecc.” –riga 2: quod
è agg. ‘qualche’; tibi, lett. “per te”. –riga 3: diffinde (dis+findo) ‘tagliare per lunghezza’. –
riga 4: moetas vaeta ecc. parole affini sul piano fonico ma apparentemente senza
significato. –riga 5: iactato, imper. fut. da iacto; coierint, tetigerint, futuri anteriori; id, lett.
‘ciò’, si riferisce all’oggetto che risulta dall’operazione, cioè le due canne tenute insieme con
sopra il ferro. –riga 6: praecīde (prae+caedo) ‘taglia’. –riga 7: fiet = erit; cantato imperat.
fut. di canto; huat hauat ecc. parole affini sul piano fonico ma apparentemente senza
significato, sino al finale (ricostruito dagli interpreti) damnabo damna vestra.
Prima del commento una piccola parentesi. Che Catone preferisse evitare i medici, allora
provenienti a Roma dalla Grecia, è del tutto coerente con le sue idee (cfr. la sua polemica
contro l’ellenizzazione lussuosa e dispendiosa per le casse pubbliche di nobili aristocratici
come gli Scipioni) e con la sua preferenza per le attività economiche tradizionali e fondanti
l’identità della classe dei piccoli e medi proprietari terrieri italici da cui proviene anch’egli. Di
ciò, oltretutto, dà prova il frammento dei libri precettistici ad Marcum filium in cui, sulla
medicina e i medici greci, Catone afferma:
“Hanno giurato tra di loro di uccidere con la loro medicina tutti i barbari [cioè i romani]”. 

iurarunt inter se barbaros necare omnis [=omnes] medicina.
Un incantesimo “medico” (2)
Torniamo al commento del testo di Catone. Anzitutto emerge un’altra parola chiave, cantio, con cui
egli definisce questo incantesimo; la parola è sempre legata a carmen attraverso il verbo canto,
intensivo di cano, da cui sia carmen che il sostantivo cantio derivano. Cantiones in quanto tali sono
dunque i due “incantesimi”, apparentemente privi di senso, ma estremamente ricchi di parallelismi
sul piano fonico. Alla riga 1 Catone ci ha appena dato un’altra prova inconfutabile sul senso di
excantare. Il ‘titolo’ di questo rimedio contro le lussazioni (ma anche le fratture) è infatti “per
rimuovere (ut excantes) una lussazione”. L’incantesimo dunque è un incantesimo di rimozione, che
funziona trasferendo qualcosa da (cfr. il prefisso ex‐) una parte ad un’altra, come nel caso delle
messi, con la differenza che qui non sappiamo bene dove il male, una volta rimosso, se ne va
esattamente; sta di fatto che esce dal corpo del paziente attraverso l’incantesimo e il rito che
l’accompagna. Quanto a quest’ultimo, è chiaro, di nuovo, come la magia proceda per coppie di
sostituzioni metaforiche e contatti metonimici: la canna è metafora dell’arto rotto o lussato (perché
anch’essa è stata rotta a sua volta, ciò che rappresenta la somiglianza per “contatto metonimico”
con l’arto stesso) a cui si sostituisce (predicato metaforico) e su cui in effetti viene legata, ma solo 
dopo che le due metà sono state ricongiunte in sostituzione, appunto, della ricongiunzione vera, 
quella delle ossa, che avverrà sull’arto guarito. Così la canna “tocca”, perché simile, l’arto 
(metonimia); ma contemporaneamente, sostituendosi ad esso, gli si oppone (metafora). 
Insomma, l’incantesimo opera quando, sostituendosi all’arto di cui è doppio metaforico, la canna 
provoca la sparizione del male che affligge l’osso: essa, infatti, da spezzata che era, si è saldata di 
nuovo e, al pronunciare le parole, la sua saldatura viene passata all’arto stesso (che così guarirà). 
È di nuovo poesia (carmen, cantio) come magia. E viceversa.
Magia e indici identitari
Ma, è bene ricordarlo, la mentalità di Catone non sente questo incantesimo come il nostro
“incantesimo”, ma come una pratica benefica affine semmai alla medicina. Ma, ed è un “ma”
importante, come visto dal passo dei libri ad Marcum filium, la sua idea di medicina (che possiede,
perché lui stesso usa la parola medicina) è assolutamente diversa, quasi opposta, alla nostra. Per lui
essa rappresenta non solo e non tanto qualcosa di inefficace, quanto, addirittura, qualcosa di
pericoloso. Al contrario, il paterfamilias per risolvere i problemi di salute, deve seguire pratiche
tradizionali di guarigione come le cantiones tramandate di generazione in generazione in quanto
mores maiorum; e perciò Catone le riporta nel suo “manuale”.
Medicina e magia, insomma, non sono per Catone due categorie propriamente opposte, ma solo
diverse in termini dell’ideale supremo per un romano, quello del mos maiorum in quanto insieme
delle pratiche e dei valori tramandati per tradizione. Perciò, in un certo senso, secondo l’idea di
Durkheim che i simboli e i sistemi di simboli propri di un certo gruppo (quindi anche i simboli relativi
a quelle cornici interpretative che fondano la
“religione” e la “magia”, che nella nostra cultura vengono differenziate) non servono solo per
comunicare il proprio significato arbitrario in sé (ad esempio la croce simbolo del sacrificio di
Cristo) ma anche un sotto‐significato (o più propriamente, un indice) di tipo identitario: usando
questo simbolo mi faccio “leggere” dagli altri come appartenente a questo gruppo e quindi esso
serve, in ultima analisi, a rinforzare il gruppo stesso. Secondo questa idea, la medicina è per
Catone una pratica non supportata dal valore indicale e identitario che la tradizione romana,
indipendentemente dalla loro efficacia, assegna invece alle cantiones e ai carmina. Anzi, è
pericolosa perché capace di portare pratiche e valori novi (novus ha accezione negativa in latino,
e vale ‘strano’, non il nostro ‘nuovo’) o “stranieri”, come in questo caso.
Varrone
Come si ricorderà, sopra, nella lezione 10, abbiamo analizzato il carmen lustrale riportatoci da
Catone come rito fondante la festa degli Ambarvalia.
Adesso ci occupiamo ancora di una festa, quella dei Meditrinalia, il cui rito fondante si centrava su
un altro carmen “benefico”, cioè ancora uno di quelli che, nella nostra prospettiva moderna,
definiremmo come “medico-magici”.
Il brano ci è riportato da Varrone (116-27 a.C.), nel suo trattato De Lingua Latina. Com’è noto,
Varrone è una figura molto importante che ha profondamente influenzato la cultura occidentale.
Non a caso Petrarca parlava di lui come del “terzo gran lume romano” con Virgilio e Cicerone.
Varrone è infatti il più grande erudito romano, cui si devono tra l’altro varie opere enciclopediche,
cioè riassuntive del sapere che un aristocratico romano doveva possedere. Si pensi solo che sulla
disposizione delle discipline di studio che egli aveva posto nell’opera Disciplinae in 9 libri, il
medioevo ha costruito i famosi Trivio (grammatica, dialettica, retorica) e Quadrivio (geometria,
astronomia, musica, aritmetica) delle artes lberales. Ma di questa e delle altre opere maggiori di
Varrone (cioè le Antiquitates romanae, vera e propria etnografia della cultura romana, le
Imagines, biografie di personaggi illustri corredate da un ritratto, e i Logistorici, cioè “discorsi” su
questioni filosofico-morali fatti pronuciare da un personaggio storico) non ci sono arrivati che
frammenti, mentre ci sono giunti 6 libri del De lingua Latina e l’intero De re rustica, anch’esso
dedicato alla gestione della “fattoria” (ma in effetti per questo periodo storico sarebbe più
corretto dire “latifondo”) su cui gli aristocratici romani fondavano tipicamente la propria
ricchezza.
Varrone, De Lingua Latina 6, 21

Torniamo alla nostra festa dei Meditrinalia ed al frammento riportatoci da Varrone nel De Lingua
Latina (6, 21). Ma prima di passare alla lettura ed al commento del brano, qualche informazione
preliminare. Come si evince dal nome (e come ci informa il grammatico tardo Festo), per
Meditrinalia si tratta di una festa dedicata alla dea Meditrīna, la divinità che aiutava nelle cure del
corpo. Chiara la derivazione del nome dal verbo medeor, medēri ‘curare’, come ci infoma
esplicitamente Varrone (questo, del resto, trattando il libro 6 di etimologia, è il motivo per cui egli ci
riporta il passo). Ma andiamo a leggere il brano varroniano:
“Nel mese di Ottobre vi è un giorno detto Meditrinalia dall’atto di curare, in quanto Flacco,
flamine [=sacerdote, ndr] di Marte, diceva che quel giorno si usava degustare e libare vino sia
nuovo che vecchio come cura. Cosa che anche oggi sogliono fare molti quando dicono:
‘Bevo vino nuovo e vino vecchio
e mi curo dal malanno nuovo e vecchio’ ” (traduzione M. Bettini).

1 Octobri mense Meditrinalia dies dictus a medendo, quod Flaccus


flamen Martialis dicebat hoc die solitum vinum <novum> et vetus
3 libari et degustari medicamenti causa; quod facere solent etiam
nunc multi cum dicunt:
5 novum vetus vinum bibo, novo veteri morbo medeor.
Varrone, De Lingua Latina 6, 21
(2)
Note: -riga 1: medendo, abl. gerundio di medeor; quod causale ‘perché’. –riga 2: solitum (sott. esse),
infinito con valore attivo (il verbo soleo, si ricordi, è semideponente), ma con valore impersonale in
aggiunta ad un infinito passivo (libari, degustari), lett. ‘soleva essere degustato’; hoc die abl. di
tempo. –riga 3: causa, abl., + genitivo funziona come una preposizione di causa (lett. ‘a motivo di
rimedio medicinale’). –riga 5: costruisci: novum [et]vetus vinum bibo, novo [et] veteri morbo
medeor. lett. ‘bevo vino nuovo e vecchio, curo malanno nuovo e vecchio’. Infatti il verbo medeor
‘curare’ si può costruire sia con l’accusativo che con il dativo, come in questo caso, della malattia
che si cura.
Commento: Interessante notare come sia il sacerdote (flamen) della dea Meditrina a dare credito
istituzionale a questo carmen “magico-medico”. In realtà, come osservato in precedenza, si tratta di
“magia” solo ai nostri occhi di lettori moderni: per Varrone, che riporta il passo nella stessa ottica
conservatrice del mos maiorum che avevamo già messo in evidenza per Catone, il rito sembra
antico (cfr. l’infinito perfetto solitum [esse]); e non sembra svolgersi necessariamente con le parole
riportate, che si riferiscono invece ad un uso coevo allo stesso Varrone, uso che acquista tanta più
autorevolezza in quanto si pone come continuazione (cfr. etiam nunc ‘ancora’) del rito fondante la
festa tradizionale dei Meditrinalia. Tutto ciò prolunga l’influsso della divinità Meditrina anche al di
là del giorno specifico della festa (ma comunque in un periodo dell’anno in cui si possa ancora
disporre di vino “novello”). Sappiamo bene quanto questo bisogno di preservare la continuità
della tradizione originariamente contadino-guerriera di Roma nella realtà metropolitana in cui
vivono i nostri intellettuali del I sec. a.C. fosse forte, specialmente nella mentalità “di classe” di
aristocratici conservatori come Catone o Varrone.
Varrone, De Lingua Latina 6, 21
(3)
Ma veniamo al carmen in sé. Di nuovo sono evidenti i tratti tipici dell’oralità: c’è un parallelismo
perfetto nell’ordine delle parole nelle due frasi:
novum vetus vinum bibo
novo veteri morbo medeor.
Infatti, anche se nella seconda i primi tre sostantivi sono al dativo e non all’accusativo, dal punto di
vista sintattico il valore dei dativi è lo stesso (è il verbo medeor che qui regge il dativo, mentre bibo
della prima frase regge l’accusativo). Rilevante la duplice allitterazione di vetus vinum e di morbo
medeor, l’uno nel primo l’altro nel secondo “pezzo” (colon) di frase. Di nuovo, questi giochi di
parallelismo fonico e “variazione sul tema” rimandano sia alla dimensione orale sia alla dimensione
“magico-poetica” tipica delle recitazioni di ambito curativo. Ci sono infatti due cose su cui il carmen
terapeutico deve ‘operare’, mettendole in opposizione metaforica: il vino ed il malanno. L’uno infatti
deve prendere il posto dell’altro. Come al solito il piano delle parole serve a mettere in azione il
piano della realtà (un filosofo parlerebbe di “piano logico” che interviene sul “piano ontologico”).
Come la funzione poetica della lingua anche la “funzione poetica della magia” agisce per
opposizione ed opera lo scambio tra vino e malanno. Ma perché lo scambio avvenga, i due
devono al solito “toccarsi” metonimicamente attraverso una somiglianza, che in questo caso sarà
l’esistenza di una versione “nuova” per entrambi: sia del vino che del malanno esistono infatti una
“versione” nuova ed una “versione” vecchia. Poi, stabilito questo contatto metonimico tra i due,
l’opposizione metaforica è pronta a partire operando lo scambio terapeutico: vino nuovo scaccia
malattia vecchia. Così il parallelismo (metonimico) tra gli aggettivi novum e vetus, che figurano
come prime due parole in entrambi i cola, preparano l’opposizione (metaforica) tra vinum e
morbo come terze parole, e quella tra bibo e medeor come quarte.
Varrone De re rustica 1, 2, 27
Ancora una testimonianza particolarmente interessante di carmen terapeutico ed ancora da
Varrone. Questa, tuttavia, a differenza della precedente, non proviene dal De Lingua Latina, ma
dall’altro trattato rimastoci, in questo caso integralmente: il De re rustica. Si tratta di un carmen
contro il mal di piedi contenuto in De re rustica 1, 2, 27. L’opera, com’è noto, è in tre libri, ciascuno
in forma di dialogo e dedicato ad un personaggio diverso. Il primo è dedicato alla moglie Fundania,
e riguarda in particolare come scegliere un podere ed impiantarvi le coltivazioni migliori. In
particolare, nel brano che ci interessa, un personaggio, Fundanio, che soffre di male ai piedi chiede
al compagno Stolone, che avrebbe voluto parlare dell’impianto di “bietole da radice” (betacei pedes
lett. ‘piedi di bietola’) di dirgli invece come guarire i piedi suoi. Al che Varrone comincia così:
“‐Preferisco piuttosto sapere dei piedi miei, piuttosto che come bisogna seminare le bietole da
radice [lett. ‘piedi di bietola’].
Stolone, sorridendo [disse]:
‐Te lo dirò con le stesse parole con cui egli [=un autore di nome Saserna] lo ha scritto: ‘Ho sentito
che Vel Tarquenna [diceva che], avendo i piedi cominciato a dolere a qualcuno che aveva pensato
a te, [tu] puoi guarirlo:
«Io penso a te
cura i miei piedi!
La terra si tenga il malanno
la salute resti qui
nei miei piedi».

Prescrive di cantare questo tre volte per nove, di toccare la terra, di sputare, e di cantare a
digiuno’ ”.
(trad. M. Bettini, con riadattamenti)
Varrone De re rustica 1, 2, 27 (2)
1 ‐Malo de meis pedibus audire, quam quem ad modum pedes 
betaceos seri oporteat. Stolo subridens: ‐Dicam, inquit, eisdem quibus 
ille verbis scripsit «Vel Tarquennam audivi, cum homini pedes 
dolere coepissent, qui tui meminisset, ei mederi posse: 
5 ego tui memini,
medere meis pedibus,
terra pestem teneto,
salus hic maneto
in meis pedibus.
10 hoc ter noviens cantare iubet, terram tangere, despuere, ieiunum 11cantare».
Note: ‐riga 1: quem ad modum=quemadmodum ‘in che modo’, introduce l’interrogativa indiretta.
–riga 2: oporteat=sia necessario; seri=inf. passivo da sero, sēvi, satum, ĕre ‘seminare’; dicam,
inquit, ecc... costruisci: dicam, inquit, eisdem verbis quibus ille scripsit ‘te lo dirò, disse, con le
medesime parole con le quali quello [lo] ha scritto’. –riga 3: Vel Tarquenna, è il mitico fondatore di
Tarquinii (Tarquinia) il centro religioso della dodecapoli etrusca. –righe 3‐4: costruisci: cum pedes
dolere coepissent homini qui tui meminisset, ei mederi posset. –tui ‘di te’, genitivo del pronome
personale tu, retto dal difettivo memini ‘mi ricordo’; stessa cosa alla riga seguente. ‐riga 6:
medēre, imperat. pres. di medeor. –riga 7: terra nom. (soggetto del seguente); tenēto imper. fut.
di 3a p. ‘tenga!’; ‐riga 8: hic avv. di stato in luogo ‘qui’; manēto ‘rimanga!’ imprt. fut. 3a p. –riga
10: costruisci: [ille] iubet hoc ter noviens cantare, ecc.; ter noviens, ‘nove volte’, numerale
distributivo di novem, lett. ‘tre nove volte’.
Varrone, De re rustica 1, 2, 27 (3)
Commento: Il brano è estremamente interessante. Anzitutto qui lo “scambio” che coinvolge il
dolore (il “malanno”, pestis, morbus ecc.) avviene attraverso un intermediario che entra in contatto
metonimico con il malato per via ‘telepatica’ diremmo oggi. Cioè la persona malata pensa a te e ciò
stabilisce il contatto, allora tu solo puoi pronunciare il carmen terapeutico, scambiandoti in qualche
modo al malato e trasferendo il male in un luogo dove non nuoccia, cioè a terra. La cosa più
interessante è però il lato cinesico (cioè quello relativo alla performance del rito) che viene
trasmesso molto dettagliatamente da Varrone. Se il canto del carmen è normale, qui c’è una
specialità in più che riguarda il numero di volte in cui cantarlo: da notare che la formula prescrive di
cantarlo per 27 volte, ma non si dice direttamente 27, bensì, in modo apparentemente complicato,
9 volte 3. Questo perché 3 e 9 sono numeri “magici” anche per gli antichi. Poi lo sputo, un atto
tipico di molti riti magici tuttora documentati a livello transculturale, che collega metonimicamente,
cioè per contatto, l’intermediario del male ai piedi alla terra, il target dello scambio magico‐
terapeutico dove il male deve dirigersi. Anche il digiuno rientra in molti riti più o meno “magici” (si
pensi solo alla comunione cristiana) come segno di purificazione.
Lex Cornelia (81 a.C.)
Torniamo all’ambito giuridico per esplorare un altro termine, fondamentale per restituirci ancora un
elemento basilare di una concezione che noi definiremmo “magica” (ma che ancora non abbiamo
visto corrispondere in questi termini alle categorie “pensate” dai membri della cultura che stiamo
prendendo in esame). Partiamo da Lucio Cornelio Silla, il primo dittatore romano extra termine (la
carica in origine doveva durare al massimo 6 mesi in situazioni di emergenza) nonché primo di una
lunga serie di politici caratterizzanti l’età di Cesare per il loro accentrare su di sé il potere a discapito
delle istituzioni repubblicane. Silla fece approvare nell’81 la lex Cornelia de sicariis et veneficiis, un
primo tentativo di frenare quei bagni di sangue cui egli stesso aveva in realtà contribuito in prima
persona (si pensi solo alle terribili “proscrizioni sillane”). Se sicarius infatti significa ‘assassino’ (cfr. la
derivazione da sīca ‘pugnale appuntito a lama ricurva’), il termine che più ci interessa à proprio
veneficium. Si tratta di un composto a secondo termine –ficus, da facio ‘fare’ (cfr. maleficus,
beneficus ecc.) più venēnum. Normalmente tradotto con ‘veleno’, venēnum è in realtà, al pari del
greco phármakon, un decotto di erbe usate a scopi vari, non necessariamente a fini negativi. Un
passo è significativo a proposito di questo uso del termine come
vox media, come direbbero i grammatici antichi (una tipica vox media è la parola fortuna, che in
latino non è né mala ‘cattiva’ né bona ‘buona’ in sé, ma equivale piuttosto al nostro ‘sorte’, e di
volta in volta va specificato se mala o bona...). Sarà anche una buona scusa per parlare un po’ di
Sallustio.
Venenum in Sallustio
Il passo in questione è tratto, appunto, dal De Catilinae coniuratione, la celebre opera del grande
Sallustio, lo storico dell’età cesariana che “reinventa” la monografia storica, opera centrata su un
fatto storico particolare di grande importanza, a dispetto della più diffusa tradizione storica latina
basata sulla narrazione di fatti anno per anno (annalistica). Dedicata com’è ad indagare le cause
della crisi della repubblica, la sua capacità d’indagine storica raggiunge le vette di profondità proprie
del suo modello, il greco Tucidide (460-399 a.C.), imitato da Sallustio anche nello stile che,
contrariamente alla concinnitas di Cicerone, è basato sugli arcaismi, sulla brevitas e sulla variatio
(rispettivamente ‘brevità’, cioè secchezza della frase e ‘alternanza’ nelle costruzioni sintattiche), una
lezione che non mancherà d’influenzare Tacito. Ma torniamo al passo sulla medietas del termine
venenum. Si tratta di Cat. 11, 3.
“Ma dapprima più l’ambizione dell’avarizia teneva in esercizio le menti degli uomini, tuttavia questo
vizio era più vicino ad una virtù. Infatti allo stesso modo l’ [uomo] buono e l’ [uomo] privo di
iniziativa desiderano per sé gloria, onore e comando militare; ma il primo si mantiene sulla retta
via, il secondo, poiché è privo di buoni strumenti, si misura con gli inganni ed i sotterfugi.
L’avarizia consiste nell’amore del denaro, che nessun saggio ha desiderato: essa, quasi imbevuta
di malvagi miscugli a base di erbe indebolisce il corpo e le capacità razionali [animum] di un
maschio. è sempre senza fine ed insaziabile, e non viene attenuata né dall’abbondanza né dalla
carenza”
Venenum in Sallustio (2)
Sed primo magis ambitio quam avaritia animos hominum exercebat,
quod tamen vitium propius virtutem erat. Nam gloriam honorem
3 imperium bonus et ignavos aeque sibi exoptant; sed ille vera via
nititur, huic quia bonae artes desunt, dolis atque fallaciis contendit.
5 Avaritia pecuniae studium habet, quam nemo sapiens concupivit:
ea quasi venenis malis inbuta corpus animumque virilem effeminat,
7 semper infinita <et> insatiabilis est, neque copia neque inopia minuitur.

Note: -riga 1: primo, avv. ‘dapprima’. –riga 2: quod vale hoc agg. dimostrativo ‘questo’; propius
neutro di propior ‘più vicino’, comparativo di prope, qui regge l’accusativo. –riga 4: nititur, da nitor,
v. dep., lett.=‘si appoggia’, regge l’ablativo. -riga 5: habet, uso idiomatico = ‘consiste’ (lett. ‘l’avarizia
ha l’amore del denaro’). –riga 6: inbūta, da imbuo ‘intridere’; “miscugli a base di erbe”, è la
traduzione di venena. –riga 7: minuitur, 3a p. sing. pass. da minuo, ui, ūtum, ĕre ‘diminuire’; copia e
inopia ablativi di causa efficiente
Commento: è chiaro che qui venena, essendo marcato dall’aggettivo malus,a,um ‘malvagio’,
dimostra di aver bisogno di una connotazione negativa, cioè di non essere di per sé connotato
negativamente. La traduzione più neutra e più equivalente al gr. phármakon potrebbe essere,
dunque, quella che abbiamo proposto, cioè ‘miscuglio a base di erbe’. Quanto all’intero passo,
bastano queste poche righe a mettere in evidenza le caratteristiche stilistiche di Sallustio.
Venenum in Sallustio (3)
Commento (continua). Si tratta anzitutto della variatio, cioè della ricerca apparentemente
‘disarmonica’ e perciò anticiceroniana per eccellenza di un andamento espressivo inaspettato (o
come direbbero i linguisti “marcato”) dei sintagmi nella frase, in modo da aumentarne la forza
drammatica. Ad essa si affianca la brevitas o ‘secchezza’ della stessa, che contrasta, di nuovo, con la
ridondanza ciceroniana; come anche, sempre anticiceroniana, è l’assoluta predilezione per la
paratassi (coordinazione) piuttosto che per l’ipotassi (subordinazione). Un esempio alla riga 2, nella
frase che inizia con Nam gloriam ecc. Si noti anzitutto la forma di nom. arcaico in -os (ignavos al
posto di ignavus) e la seguente coordinata avversativa che inizia con sed ‘ma’, in cui la correlazione
che ci si aspetterebbe “naturalmente” fra i due nominativi ille (=il primo, lett. ‘quello’) e hic (=il
secondo, lett. ‘questo’) è sorprendentemente disattesa. Invece del nominativo hic compare infatti il
suo dativo huic, quest’ultimo è senza dubbio richiesto dalla costruzione di desunt, ma poi viene a
perdersi il “contatto” sintattico con contendit della principale di cui hic, e non certo il dativo huic,
dovrebbe essere (come di fatto è) soggetto. Si tratta di variatio, sì, ma anche di brevitas, perché
Sallustio ha evitato di inserire una relativa regolare (cioè: hic, quia ei bonae artes desunt, dolis ecc.)
che avrebbe allungato, ma soprattutto spezzato il ritmo della frase. Si noti poi la prevalenza
nettissima delle coordinate: in tutto il periodo ci sono solo due subordinate (quia bonae artes
ecc.; quam nemo sapiens ecc.). Si tratta di marche stilistiche molto forti, che si oppongono al
periodare ciceroniano (ma come si sa tra i due non correva affatto buon sangue né le loro
simpatie politiche erano affini), e che avranno, come detto, un valido continuatore nientemeno
che in Tacito.
Veneficium e Veneficus (2)
Ma torniamo ai nostri due termini ed alla lex Cornelia de sicariis et veneficiis da cui eravamo partiti.
Adesso possiamo stabilire che veneficium, data la formazione da venenum + facere significa ‘azione
fatta attraverso un venenum’ cioè, letteralmente, attraverso un ‘miscuglio di erbe’ che di per sé non
è melvagio. Sta di fatto che la stessa lex Cornelia accosta i veneficia ai sicaria, e dunque non c’è
dubbio che qui questi venena si intendano usati per fini quantomeno illeciti. Del resto, in un testo
non troppo più recente, Cicerone accostava proprio i nostri veneficia alle cantiones che abbiamo già
visto in quanto ‘incantamenti’. Si tratta del suo dialogo Brutus, di fatto una preziosissima storia
dell’oratoria romana con protagonisti Cicerone stesso, Marco Giunio Bruto e Attico. Al paragrafo
271, si parla di un avvocato che, mentre sta discutendo una causa:
“[...] improvvisamente si dimenticò tutta la causa e diceva che ciò era avvenuto per i veneficia e gli
incantamenti di Titinia”
[...] subito totam causam oblitus est idque veneficiis et cantionibus Titiniae factum esse dicebat.
Di nuovo con veneficia qui si devono intendere, come fa Graf, “forme di azioni più sottili e meno
visibili” di quelle condotte dai sicarii, ma ugualmente nocive. Lo scopo della legge di Silla era infatti
quello di frenare i delitti che minacciavano direttamente la vita dei cittadini romani. Quindi ‘atti
nocivi nascosti’, condotti attraverso pratiche che noi definiremmo “magiche”.
Lex Cornelia
Tuttavia, come afferma Graf “la lex Cornelia non parlava semplicemente di venena, ma di venena
mala”. A conferma di quello che avevamo già scovato in Sallustio a proposito di venenum, anche
all’epoca di Silla questi veneficia non erano malvagi in sé, se si sente di nuovo il bisogno di specificare
mala. Qui, come nei mala carmina delle XII tavole, tutto ciò che noi chiameremmo “magia” viene
definito dai latini non in base all’uso di formule o incantamenti in sé, ma perché dotato di scopo
malvagio. Insomma, si tratta sempre di quella che, come abbiamo visto nelle lezioni iniziali, gli
antropologi definiscono stregoneria. Torniamo di nuovo all’accostamento di veneficia ai sicarii. È
chiaro che gli “atti nocivi nascosti” di cui parlavamo come traduzione di veneficia alla fine della
lezione precedente devono per forza avere a che fare con l’assassinio di una persona, cioè con la
capacità di provocare ugualmente la morte, anche violenta, ma in modo nascosto. Dunque non si
tratta affatto solo di somministrare veleni, come troppo spesso si pensa (o si traduce) incontrando
veneficia. I veleni, non che siano esclusi, sono solo uno dei possibili atti che possono rientrare nella
categoria di veneficium. Non a caso, come ricorda di nuovo Graf, la lex Cornelia sanziona come
veneficium anche gli incendi dolosi. Si pensi allora alla credibilità che poteva assumere nella mentalità
romana il fatto di attribuire ai cristiani gli incendi di Roma (attribuzione che ha notoriamente Nerone
come primo grande attore), dato che alla “setta” si attribuivano normalmente, come sappiamo bene
da Tertulliano, nefandezze di ogni tipo legate a riti “strani” e sicuramente inquietanti (che
contemplavano ad esempio il cannibalismo).
Lex Cornelia (2)
Tornando a veneficium, la traduzione che si ottiene alla fine è dunque quella di ‘stregoneria’. Sia
avvelenamenti che incendi rientravano di fatto in atti malvagi operati come veneficium da chi in
queste pratiche era esperto. Si tratta, appunto, del venefĭcus, ovvero lo ‘stregone’.
A questo proposito è significativo il fatto che i giuristi di età imperiale che commentano la lex
Cornelia siano estremamente attenti alle modalità messe in atto per distinguere l’assassinio
evidente da quello nascosto, cioè l’atto di un sicarius dall’atto di stregoneria. Era estremamente
importante, infatti, per la stabilità dell’ordine sociale, che si trovasse un colpevole specialmente nei
casi di morte improvvisa per cause ignote. Anche l’avvelenamento, come detto, o l’incendio, erano
attribuiti ad un atto di stregoneria. Quindi l’accusa di stregoneria era usata anche presso i latini per
dare una spiegazione a fatti altrimenti ignoti e che potevano scatenare, in mancanza di colpevoli
conclamati, terribili faide interne al gruppo. Al pari di quello che avevamo detto nelle prime lezioni a
proposito delle riflessioni fatte da Evans-Pritchard sulle funzioni della magia nera da lui analizzate
presso gli Azande, questo ricorso a categorie interpretative così totalizzanti non è troppo diverso,
per gli antropologi, dall’uso delle categorie “religiose” per spiegare il distacco del defunto dalla sua
funzione, non solo economicamente ma anche affettivamente attiva nel gruppo umano (così da
facilitare il “rientro” alla vita normale delle persone più vicine e più colpite dal dramma della “crisi
della presenza”, per dirla con De Martino). In entrambi i casi il ricorso alle cornici interpretative
totalizzanti serve al bene strutturale del gruppo ed al benessere psicologico dei singoli individui
che lo compongono.
Uno strano caso
Questo valore sociale della magia, oggi ben rintracciabile dagli antropologi nelle cosiddette società
“tradizionali” viene particolarmente messo in evidenza da un passo di Livio. Il grande storico latino
d’età augustèa scrive, com’è noto, la più completa storia di Roma ispirata al modello annalistico,
anche se noi possediamo solo la parte che riguarda le origini della città, la seconda guerra punica e
le guerre macedoniche fino alla battaglia di Pidna (167 a.C.). Anche se lo scrittore chiama la sua
opera Annales, nei manoscritti essa viene chiamata Ab urbe condita (lett. ‘dalla città fondata’ ossia
‘dalla fondazione della città’), titolo con cui è per lo più conosciuta dai moderni. Tipica di Livio è la
grande capacità narrativa, mentre lo stile è ciceroniano. Ma veniamo al passo che ci interessa.
Siamo nel 331 a. C., un fatto terribile sconvolge la città. Dei patrizi di rango consolare vengono
trovati morti, l’uno dopo l’altro, in circostanze simili. Livio pensa in realtà ad un’epidemia, visto che
ci sono segni di un peggioramento di salute che in brevi giorni li porta alla morte. Ma data l’alta
posizione sociale delle vittime meglio trovare un colpevole, magari un serial-killer. Quinto Fabio
Massimo, alto magistrato (è curule edile), nonché antenato del famoso “temporeggiatore”, si
occupa delle indagini. Ad un certo punto, sia come sia, una serva di una delle vittime gli confessa
apparentemente in modo spontaneo di essere a conoscenza di un fatto molto grave. Lo riferirà al
nostro alto inquirente ma solo sotto promessa che in ogni caso avrà salva la vita. Ecco il racconto
liviano.
Livio 8, 18
Rendo la traduzione molto letteralmente, quindi non sarà bellissima, ma almeno è fedele al
testo:
“Fabio velocemente riferisce la cosa ai consoli, i consoli al senato e, con il consenso
dell’ordine [senatorio], fu data fiducia alla latrice dell’informazione. Allora fu rivelato che la
città era tenuta in scacco da un inganno di donne e che delle matrone avevano cotto quei
miscugli di erbe e, se volessero seguire [lei] immediatamente, avrebbero potuto coglierle
sul fatto. Avendo seguito la latrice dell’informazione, trovarono certe [matrone] che
cucinavano quelle pozioni e trovarono altre [pozioni] nascoste. Essendo state riferite queste
cose nel fòro ed essendo state chiamate in giudizio tramite l’ufficiale giudiziario circa venti
matrone, presso le quali erano state scoperte [le pozioni], due di esse, Cornelia e Sergia,
ciascuna delle due [membro] di una gens patrizia, sostenendo esse che si trattava di pozioni
benefiche, essendo loro ordinato dalla latrice che ne confutava [le affermazioni] di berle
affinché provassero che lei era una falsa, essendosi prese del tempo per confabulare,
avendo riferito la cosa, dopo che il pubblico era stato allontanato, alle altre [matrone] e
anche quelle non rifiutandosi di bere, avendo bevuto la pozione di fronte a tutti, esse stesse
morirono tutte per lo stesso loro inganno”.
Livio 8, 18 (2)
Fabius confestim rem ad consules, consules ad senatum referunt
consensuque ordinis fides indĭci data. tum patefactum muliebri
fraude ciuitatem premi matronasque ea uenena coquĕre et, si
sequi extemplo uelint, manifesto deprehendi posse. secūti indĭcem
5 et coquentes quasdam medicamenta et recondita alia inuenerunt;
quibus in forum delatis et ad uiginti matronis, apud quas deprehensa
erant, per uiatorem accītis duae ex eis, Cornelia ac Sergia, patriciae
utrăque gentis, cum ea medicamenta salubria esse contenderent,
ab confutante indĭce bibere iussae ut se falsum commentam arguerent,
10 spatio ad conloquendum sumpto, cum submoto populo rem ad ceteras
rettulissent, haud abnuentibus et illis bibere, epoto in conspectu omnium
medicamento suamet ipsae fraude omnes interierunt.
Livio 8, 18 (3)
Note al passo: -riga 1: Fabius ecc. sott. refert, lett. ‘riporta’, cioè ‘riferisce’. –riga 2: ordinis,
lett ‘ordine’ ma qui si tratta dell’ordine per eccellenza, cioè il senato; indĭci è dativo di index,
ĭcis, lett. ‘colui che indica’, e non genitivo di indicium, ii ‘indizio’; patefactum, sott. est, lett.
‘fu messo allo scoperto’ (costruito impersonalmente); muliebri fraude, abl. di causa
efficiente. –riga 3: premi lett. ‘era premuta’, inf. pres. pass. di premĕre. –riga 4: si sequi ecc.
sott. se, cioè ‘se volessero [i senatori] seguire lei’; manifesto, avverbio; secuti, part. perf. con
valore attivo del deponente sequor, lett. ‘avendo seguito’ –righe 6-7: quibus in forum delatis
et ad viginti matronis [...] per viatorem accītis, ablativi assoluti: ad + numerale ha valore
avverbiale ‘circa’. –riga 7: accītis, part. perf. da accio, īvi, cītum, īre, comp. da ad+ cio
‘chiamare’; viator, lett. ‘usciere’, era il pubblico ufficiale che si occupava di recapitare
l’ordine di chiamata in giudizio. –riga 8: salubria , da salūber, is, e ‘salùbre’; contenderent,
impf. cong. retto da cum, lett. ‘sostenendo a parole’, regge l’infinitiva salubria esse. –riga 9:
ab confutante indice, lett.‘ dalla latrice che le metteva in discussione (confutare)’; iussae,
part. perf. da iubeo ‘ordinare’ con costruzione personale, cioè + nom. e inf., lett. = ‘essendo
state ordinate di bere’;ut se falsum commentam arguerent, letteralm.
‘affinché provassero che lei aveva inventato una cosa falsa’; commentam (sott. esse), inf. perf. da
com-mĭniscor, -mentus sum, i, deponente. –riga 10: spatio ad conloquendum sumpto, abl.
assoluto lett. ‘essendo stato preso uno spazio [di tempo] per parlare insieme’; submoto populo
abl. assoluto ‘essendo stato fatto muovere il populus [= i cittadini in armi]’. –riga 11: rettulissent,
ppf. cong. di refero, retto da cum alla riga 10; haud abnuentibus et illis bibere, abl. assoluto lett.
‘non negando di bere anche loro (et illis)’; epoto...medicamento, altro abl. assoluto, lett. ‘essendo
stata bevuta la pozione’. –riga 12: interierunt, perf. ind. da inter-eo, ivi, itum, ire, ‘morire’,
composto di eo.
Livio 8, 18 (4)
Commento: il passo di Livio appena letto è una testimonianza estremamente preziosa di
quello che abbiamo chiamato “valore sociale” della stregoneria a Roma. Che la notizia
dell’auto-avvelenamento delle matrone sia vera o meno, l’importante è che qui abbiamo la
prova di come la possibilità che delle morti apparentemente straordinarie possano ricevere
una spiegazione di tipo magico contribuisca al ristabilimento dell’ordine sociale. In altre
parole, si ha la prova che il ricorso a quella che noi chiameremmo “magia” era, anche nella
cultura latina, qualcosa di estremamente plausibile e addirittura valido a livello istituzionale.
Qui infatti è proprio il senato, la massima istituzione politica della Roma repubblicana, a
ratificare, confermandola, la morte per venificio dei dignitari romani, evitando quei grossi
problemi a livello di ordine pubblico che un assassinio impunito (perché operato da mano
ignota) avrebbe potuto innescare, e tanto più se vi erano coinvolti degli alti dignitari romani.
Da notare, nel nostro passo, a conferma di quello che avevamo già detto sull’uso di
venenum come vox media, come la parola possa dirsi assolutamente sinonimo di
medicamentum, termine che invece, per influenza della deriva semantica che dal latino ha
portato all’italiano, noi tenderemmo molto “istintivamente” a collocare in una sfera semantica
del tutto diversa, per noi affidabile e assolutamente benefica, come quella della medicina.
Abbiamo visto, tuttavia, che medicina per i latini non è in nessun modo in contrapposizione,
almeno in età repubblicana, con i carmina o le cantiones a scopo terapeutico. Anzi, tutto il
contrario.
Il punto della situazione
A questo punto, dopo aver esaminato molti aspetti della terminologia “magica” nella Roma
repubblicana, possiamo tirare delle prime conclusioni. Anzitutto è emerso come la sfera semantica
del canto, a partire da carmen per proseguire con cantio, excantare ecc., possa riferirsi, già a partire
dalle Leggi delle Dodici Tavole, ad atti magici legati al furto di grano e quindi alla messa in pericolo
del diritto di proprietà. Ma contemporaneamente abbiamo visto come questo uso non sia affatto
esclusivo: gli stessi termini infatti possono riferirsi anche a pratiche terapeutiche, quindi ad azioni di
tipo benefico. La distinzione quindi dipende esclusivamente dalle intenzioni di chi opera l’atto.
Inoltre è emerso un uso ‘neutrale’ (vox media) del termine venenum che va ad influenzare altri due
termini con cui vengono designate quelle che noi definiremmo pratiche “magiche”, cioè veneficium
e veneficus. Si tratta, per questi due termini, nientemeno che dei concetti che per noi coincidono
con la ‘stregoneria’ e lo ‘stregone’. Ancora all’età di Silla questi termini venivano usati per denotare
le morti di natura (apparentemente) inesplicabile in quanto contrapposte alle morti di natura
violenta. Solo in seguito, come vedremo, verranno estesi a designare qualsiasi atto di natura
stregonesca in generale.
Un’ultima conclusione riguarda i termini magus e magia che abbiano analizzato per primi. Non c’è
dubbio che in età cesariana entrambe le parole fossero appannaggio di letterati dotti che, ad
imitazione consapevole dei modelli greci, li usano come termini etnografici per indicare i
sacerdoti persiani. Lo confermano gli esempi di Cicerone e Catullo.
Il punto della situazione (2)
Abbiamo quindi visto che la prima attestazione del termine magus come sinonimo di venefĭcus
‘stregone’ è probabilmente da rinvenirsi in epoca augustèa, se bisogna prestare fede, come sembra,
alla notizia di Girolamo sulla cacciata del pitagorico Anassilào di Làrissa.
Seguiamo Graf con un’osservazione conclusiva di questa prima parte, a proposito delle figure di
“stregoni” professionisti. Come si ricorderà, dalle primissime lezioni, abbiamo visto che in Grecia
erano presenti diverse figure di questo tipo, cioè figure di specialisti itineranti che, tra le altre cose,
operavano pratiche di tipo magico. In particolare abbiamo visto la figura dell’agýrtēs, del góēs e del
mágos, preti itineranti che aiutavano, tra l’altro, nelle pratiche legate ai culti privati, nelle guarigioni,
ma anche negli incantamenti ecc. A Roma non si tratta di figure del tutto assenti: solo che le nostre
attestazioni romane coprono figure che sembrano specializzate nella sola divinazione. In particolare
si parla di figure come arùspici, àuguri, indovini, o Caldei. Chi sono esattamente?
Come si ricorderà abbiamo letto un passo dal trattato Sulla divinazione di Cicerone in cui
quest’ultima figurava come l’arte di solito ufficiale (ma non solo, come vedremo) di predire il futuro
attraverso varie tecniche.
Per vederci chiaro, approfondiamo brevemente, visto anche il legame così forte della divinazione, in
quanto cornice interpretativa anch’essa “totalizzante”, con la sfera della “magia”, che cosa
esattamente i Romani intendevano con questo termine.
La divinazione
Abbiamo già parlato del trattato fondamentale in materia, il De divinatione di Cicerone, di cui ci
siamo serviti per trarre informazioni sul magus, come si ricorderà. L’opera, un dialogo in due libri tra
Cicerone ed il fratello Quinto, è in effetti un pozzo di informazioni fondamentali sulla divinazione a
Roma (e non solo). Anzitutto cominciamo dal termine divinatio. Mi servo della preziosa prefazione
di Sebastiano Timpanaro all’edizione italiana (Garzanti, Milano, 1988 la prima edizione). “I romani
usarono il termine divinatio, connesso con divus (sinonimo più solenne di deus ‘dio’) attraverso
divinus (aggettivo = ‘divino’ e, più specificamente, ‘ispirato dalla divinità’ e, come sostantivo =
‘indovino’), da cui il verbo divinare (‘presagire il futuro’) e infine divinatio ‘capacità di divinare”
(Timpanaro 1988, pag. xxix).
Le forme di divinazione conosciute da Cicerone e praticate nella sua epoca non solo nel mondo
greco o in quello romano ma presso le altre culture che in Grecia e a Roma venivano
etnocentricamente definite “barbare”, erano varie e tante. Da qui il bisogno di fare ordine, sentito
dallo stesso Cicerone. Partiamo dunque dalla classificazione più importante, sempre rifacendoci
allo schema ciceroniano.
Si tratta della differenza generale tra:

a. divinatio naturalis
b. divinatio artificiosa.

E qui è necessaria subito una precisazione. Si tratta dell’equivoco che i due termini potrebbero
generare nella traduzione “istintiva” con “naturale” e “artificiosa”.
Divinazione, classificazioni
Il rischio è quello di usare le espressioni “naturale” e “artificiale” invertendone il significato rispetto a
ciò che significavano in latino. Come sottolinea ancora Timpanaro: “il latino natura, come il greco
phýsis, riferito alla divinazione non è l’opposto della divinità del “soprannaturale”, anzi è, secondo la
concezione stoica [quella ripresa da Cicerone, ndr] tutt’uno con la divinità o un aspetto di essa; e la
divinazione naturale è quella in cui si attua un intervento diretto della divinità, la quale rivela il futuro
all’uomo parlandogli in stato di veglia o, più spesso, di sogno [...] o dandogli la capacità di “vedere” il
futuro in punto di morte o [...] “impossessandosi” di una persona rendendola come folle e parlando
per bocca sua” (Timpanaro 1988, xxx). Da qui il termine usato per la divinazione appena definita
come “naturale”, dai greci, ovvero mantiḗ sott. téchnē ‘arte’, cioè ‘arte profetica’. Il profeta in greco
è infatti mántis, lett. ‘indovino’, un termine derivato dal verbo máinesthai ‘esser folle’ con
riferimento al fatto che il dio si impossessava dell’indovino che faceva da medium (‘tramite’)
rendendolo folle ed utilizzandolo per interpretare i segni che egli dava. Come si sa la divinità che in
Grecia soprintendeva alle attività divinatorie in generale era Apollo. Mentre gli indovini da lui invasati
erano più spesso figure femminili, cioè delle profetesse: si tratta, tipicamente, delle sibille. E la
divinazione “naturale” presso i romani? I romani “importano” l’armamentario greco, ma
conoscevano figure analoghe anche prima, così come i celti (parlo qui di quelli presenti nella
penisola). La divinità italica, o meglio laziale, dell’invasamento (insomma, una sorta di Apollo laziale)
era Fauno, mentre i mánteis ‘indovini’ greci corrispondevano ai vates romani.
Divinazione naturale

E qui, attraverso il vates, troviamo un primo punto di contatto con i carmina, le cantiones, ecc.
insomma tutto l’inventario romano che abbiamo messo in relazione con il cosiddetto “mondo
magico”. Infatti il vates ‘indovino’ (la parola non sarebbe di origine romana ma celtica) cantava la sua
profezia. Da qui il verbo che significa ‘dare profezie’ cioè vaticinari, un composto dal già visto vates +
l’ormai noto verbo cano ‘cantare’ (la ă diviene ĭ nel composto).
Un’altra forma di profezia per divinazione “naturale” in ambiente romano attestataci da Cicerone è
quella che, anziché attraverso il profeta invasato dal dio, avviene tramite le voces, cioè le voci
misteriose che si sentono in giro e mandate da chissà quale divinità. Come ci attestano sia Livio che
Cicerone a queste voci i Romani dettero delle “personalizzazioni”. Interessante in particolare il passo
ciceroniano (De divinatione 1, 101):
“Spesso anche si narra che nelle battaglie si udirono le voci dei Fauni, e nel corso dei tumulti
parole che predicevano il vero mandate chissà da dove [...]. Non molto prima che la città fosse
presa dai Galli, si udì una voce proveniente dal bosco sacro a Vesta, che dai piedi del Palatino
scende verso la Via Nuova: la voce ammoniva che si ricostruissero le mura e le porte; se non si
provvedeva Roma sarebbe stata presa dai nemici. Di questo ammonimento, che fu trascurato
allora, quando si era in tempo a evitare il danno, fu fatta espiazione dopo quella terribile disfatta:
dirimpetto a quel luogo, fu consacrato ad Aio Loquente un altare, che tuttora vediamo protetto
da un recinto.” (trad. S. Timpanaro).
De divinatione 1, 101
Saepe etiam et in proeliis Fauni auditi et in rebus
turbidis veridicae voces ex occulto missae esse dicun-
tur […]. Nam non multo ante urbem captam exau-
dita vox est a luco Vestae, qui a Palatii radice in
5 novam viam devexus est, ut muri et portae refice-
rentur; futurum esse, nisi provisum esset, ut Roma
caperetur. Quod neglectum tum, cum caveri poterat,
post acceptam illam maximam cladem expiatum est;
ara enim Aio Loquenti, quam saeptam videmus, ex-
10 adversus eum locum consecrata est.
Note: -riga 1: etiam et ecc. Etiam ‘anche’ va con dicuntur alla riga 2 (lett. ‘spesso anche sono
dette’, cioè ‘spesso anche si dice’); mentre et è da correlarsi con l’altro et alla riga 1, cioè ‘sia...sia’.
–riga 1-2: in rebus turbidis, lett. ‘nelle cose torbide’, cioè ‘nelle situazioni turbolente’; missae esse,
‘erano state inviate’, dipende dal nominativo + infinito richiesto dalla costruzione personale di
dico (dicuntur lett. ‘sono dette’; costruisci: voces dicuntur missae esse ex occulto, lett. ‘voci sono
dette essere state mandate da [un luogo] occulto’. –riga 5: devexus, agg. = ‘inclinato’, lett. ‘è
inclinato verso la Via Nuova’; ut completivo con verbi di dire che “spiega” di quale voce si tratta,
lett. ‘(cioè) che fossero rifatte le mura e le porte’. –riga 6: futurum esse ut, qui vale come infinito
futuro di fio, nel senso di fit ut + cong. ‘accade che’, sempre dipendente da exaudita vox est. –riga
7: tum...cum ‘allorquando’. –riga 8: expiatum est, impersonale, lett. ‘fu espiato’. –riga 10:
exadversus, prep. + acc. ‘di fronte a’.
Divinazione artificiale
Commento: come si vede dal passo del De divinatione appena tradotto, queste voci vengono
“divinizzate”, cioè ribattezzate con un nome. Qui Cicerone parla di Aio Loquens (ma altre fonti
attestano anche la forma Aio Locutius). Si tratta com’è evidente di un nome costruito sui due verbi
aio e loquor che significano rispettivamente ‘affermare’ e ‘parlare’. Un’altra divinità connessa con
l’invio di voci era Giunone detta Monēta cioè ‘ammonitrice’ (cfr. il verbo moneo).
Questo per quanto riguarda la divinazione chiamata naturale da Cicerone. Veniamo adesso alla
seconda macro-tipologia, quella della divinazione “artificiale”. Partiamo di nuovo dalla importante
notazione preliminare di Timpanaro: “Per comprendere l’altro termine, ‘divinazione artificiale’
(divinatio artificiosa) [...] non bisogna pensare né ad una artificiosità come escogitazione più o
meno ingannevole e sforzata [...] né a ciò che noi chiamiamo ‘arte’ come attività distinta dal
pensiero [cosiddetto] logico. L’ars, come la téchnē greca, è anzitutto una tecnica, un ‘artigianato’
(dai più umili fino ai più alti significati). Anche quando gli antichi parlano di poesia, distinguono
l’ingenium, cioè l’ispirazione, dono innato, dall’ars, cioè dalla raffinatezza stilistica, frutto di lungo
studio, potremmo anche dire di ‘mestiere’ nel senso migliore del termine. Nella divinazione
‘artificiale’ l’uomo non ha la rivelazione immediata del futuro, non subisce un raptus, ma riceve
dalla divinità un ‘segno’. [...]. Tale segno impressiona l’uomo per la sua maggiore o minore
eccezionalità e gli fa supporre che esso sia il preannuncio di qualcosa che avverrà in futuro o anche
di qualcosa che, già accaduto, è rimasto ignoto[...]” (continua).
Divinazione artificiale (2)
“ (continua) L’interprete non è un ‘invasato’; pretende anzi in un certo senso di essere uno
‘scienziato’ ”. (Timpanaro 1988, pp. xxxiii-xxxiv).
Insomma, la divinazione artificiale è una disciplina di tipo “tecnico-scientifico” come diremmo noi, e
in effetti Cicerone stesso l’accosta alla medicina, alla meteorologia, all’agronomia. Con la sola
differenza, però, che l’interprete deve essere comunque, pur, come detto, non “invasato”, comunque
ispirato dall’alto, per così dire. Perché il segno si può presentare come un segno del tutto “naturale”.
Hanno una parte privilegiata come distributori di “segni”, non solo a Roma, ma anche in Grecia e
presso gli etruschi, gli animali: tipicamente gli uccelli, ma anche i serpenti, le viscere degli animali
uccisi. A proposito di uccelli, ecco i primi due grandi termini relativi all’auspicīna, l’arte della
divinazione artificiosa dai segni provenienti dagli uccelli: l’auspicium e l’augurium, praticamente
sinonimi, che indicano sia il segno ‘ornitologico’, per dir così, che il risultato della sua interpretazione.
I due interpreti addetti a ciò sono rispettivamente l’auspex (un composto da avis ‘uccello’ e -spex, da
specio ‘osservare’) e l’àugur, la cui etimologia è però molto incerta. Come sappiamo la divinazione
tramite auspicia e auguria ha un ruolo istituzionale preciso: esistono dei collegi ‘statali’ di auguri
incaricati di divinare ufficialmente prima di intraprendere atti importanti a livello della comunità, ed i
magistrati, specialmente i consoli, avevano l’esclusivo diritto di “trarre gli auspicia” (auspicia habēre);
donde la successiva deriva semantica di auspicium come sinomino di imperium ‘comando militare’ e
auspex come sinonimo di comandante.
Divinazione artificiale (3)
Quello che gli àuguri fanno è sostanzialmente accertarsi del consenso o del dissenso degli dei
rispetto ad una certa azione che sia un privato cittadino sia un magistrato hanno idea di
intraprendere. Il volo degli uccelli e le conclusioni ad esso relative differivano, ci informa Cicerone,
in Grecia e a Roma. Per i greci il volo da destra era fausto, quello da sinistra infausto; ma il contrario
per i romani. Tutto però dipendeva dalla disposizione iniziale dell’augure: era rivolto verso nord
quello greco, verso sud quello romano. Ma poiché il volo fausto era per entrambi quello che
arrivava da oriente, si tratta solo di un problema relativo. Oltre che di volo, gli auguri si occupavano
di polli e di come mangiavano, se molto o poco (si portavano dietro dei polli in una gabbia, accuditi
da un pullarius ). Gli aruspici (cfr. hira ‘budella’ e il solito specio) erano gli altri vates che operavano
accanto o in alternativa agli àuguri. Essi osservavano le interiora etratte degli animali sacrificati
(donde anche il nome di extispicīna – da exsta ‘cose che escono fuori’ + specio – oltre al più noto
haruspicīna, per questa tecnica). Si tratta di un’ars in cui erano particolarmente versati gli etruschi,
ed infatti i romani utilizzano sempre aruspici di origine etrusca. Dal termine haruspex viene molto
probabilmente anche l’altro termine che poi si specializza per ‘indovino’ in generale, e cioè hariŏlus.
Altre due tecniche di divinazione artificiale erano l’interpretazione di omĭna (cfr. os ‘bocca’), cioè
parole pronunciate in modo del tutto spontaneo da chicchessìa ma interpretabili come presagi
buoni o cattivi; e le sortes, cioè legnetti con incise parole o lettere con cui formare frasi, estratti a
caso da un bambino. Da ultimo i prodigi (monstra, portenta, ostenta, prodigia) cioè avvenimenti
di origine, sì, naturale, ma strani e straordinari (nascite trigemellari, terremoti ecc.) e quindi letti
come avvertimenti dell’ira divina.
Catone, De agricultura 5, 2
Torniamo dunque ai nostri rapporti tra ambito “magico” e divinazione. Stavamo parlando, come si
ricorderà, delle differenze tra Grecia e Roma ed avevamo detto, seguendo Graf, che una di esse
consiste nella mancanza a Roma della figura dello specialista itinerante che, tra le altre pratiche,
operava anche atti di tipo “magico”. In particolare per la Grecia avevamo elencato la figura
dell’agýrtēs, del góēs e del mágos, preti itineranti che aiutavano, tra l’altro, nelle pratiche legate ai
culti privati, nelle guarigioni, ma anche negli incantamenti o nella divinazione. A Roma non si tratta
di figure del tutto assenti: solo che le nostre attestazioni romane coprono figure che sarebbero
specializzate nella sola divinazione. O almeno questo è quello che sostiene Graf. Proprio in virtù di
questa affermazione di Graf abbiamo appena approfondito, seppur brevemente, il tema della
divinazione (con l’aiuto di Cicerone) in modo da essere in grado di individuare più esattamente
queste figure e di leggere le fonti ad esse relative cercando di chiarire i legami tra “mondo magico”
e divinazione. Vedremo, tra un attimo, che probabilmente l’affermazione di Graf è un po’ troppo
generalizzante. Ma prima, per “ripassare” quali sono queste figure di specialisti itineranti attive
anche a Roma (ma apparentemente, ripeto, nella sola divinazione) leggiamo un passo di Catone.
Si tratta di nuovo di un brano tratto dal De agricultura, il primo trattato latino in prosa che ci è
arrivato completo e che, a differenza del successivo De re rustica di Varrone, scritto ormai del
tutto dopo le guerre di conquista, riguarda la gestione di una proprietà terriera ancora di media
estensione.
De agricultura 5, 2 (2)
Catone, al solito, sta dando precetti di parsimonia nella gestione della proprietà, e, riferendosi al
villicus, cioè al “fattore”, dice quali cose gli debbano essere proibite (5, 2):
“Che non voglia comprare qualcosa all’insaputa del padrone, e neppure nascondere qualcosa al
padrone. Non tenga nessuno scroccone. Non voglia consultare nessun aruspice, augure, indovino o
Caldeo”.

ne quid emisse uelit insciente domino, neu quid dominum celauisse uelit.
parasitum ne quem habeat. haruspicem, augurem, hariolum, chaldaeum ne quem consuluisse uelit.

Note: siamo al solito di fronte al latino secco e pragmatico che caratterizza lo stile catoniano,
almeno in questo trattato. –riga 1: ne quid: si tratta del pronome indefinito quis, quid ‘qualcuno,
qualcosa’, equivalente al più comune aliquis, aliquid, ma, a differenza di questo, usato in frasi
ipotetiche e sempre in posizione enclitica, tipicamente dopo congiunzioni come si, nisi, num, ne. Qui
in particolare quis figura in una esortativa negativa introdotta, regolarmente, da ne quid ecc.=
‘che non voglia comprare nulla’; emisse: inf. pref. di ĕmo, ēmi, emptum, ĕre ‘comprare’. Catone
usa degli infiniti perfetti (celavisse, consuluisse) dove ci aspetteremmo degli infiniti presenti. ne
quid emisse velit: lett. ‘che non voglia aver comprato nulla’. –riga 2 sgg.: ancora esortative
negative con quem acc. di quis che in questo caso vale com agg. quem parasitum=parasitum
aliquem ‘un qualche scroccone’. Lett. ‘ Che non abbia alcun aruspice, augure, indovino, caldeo
ecc.’
De agricultura 5, 2 (3)
Commento.
Tra i precetti dati al villicus perché mantenga al meglio la proprietà che il padrone gli ha affidato
figura quello di non tenere in casa nessuno “scroccone” (parasitus). Quindi Catone passa a
specificare di quali “scrocconi” si tratta: haruspex, augur, hariolus, chaldaeus. I primi tre li
conosciamo, si tratta di tre specialisti di divinazione “artificiosa”: arùspice (esperto di divinazione
dalle viscere degli animali), àugure (esperto di divinazione dai segni degli uccelli) e hariŏlus.
Quest’ultimo, originariamente sinonimo di haruspex, viene poi a specializzarsi come sinonino di
divinus ‘indovino’ in generale. Resta da definire chi sia il Chaldaeus. Ma basta tornare al nostro De
divinatione per trovare un’indicazione molto chiara da parte di Cicerone. Il passo si trova in de
divinatione 1, 2:
“Nella quale nazione (vi sono) i Caldèi - chiamati (così) non dalla (loro) tecnica ma dal (loro)
popolo - si ritiene che, con l’incessante osservazione delle stelle, abbiamo fondato una scienza
per poter predire che cosa sarebbe successo a ciascuno e con quale destino ciascuno era nato”.

1 Qua in natione Chaldaei - non ex artis, sed ex


gentis vocabulo nominati - diuturna observatione
3 siderum scientiam putantur effecisse, ut praedici posset,
quid cuique eventurum et quo quisque fato natus esset.
Chaldaei
Note a de divinatione 1, 2: -riga 1: Qua in natione: lett. ‘nella quale nazione’, qua vale come
aggettivo. Cicerone ha appena parlato degli assiri, quindi la “nazione” cui si riferisce qui è appunto il
popolo degli assiri. –riga 2: ex gentis vocabulo lett. ‘(chiamati) dal nome del popolo’. Infatti, come
specifica Timpanaro: “ I caldèi, stanziati nella Mesopotamia meridionale, avevano esteso il loro
dominio nei secoli vii-vi a.C. su tutto il cosiddetto ‘impero neo-babilonese’ (anche Siria e Palestina).
Ma la loro rinomanza nell’astrologia fece sì che in greco e in latino (e anche in ebraico) il loro nome
significasse senz’altro ‘astrologi’ ” (Timpanaro 1988, 234). –riga 3: putantur lett. ‘sono ritenuti’
(costruzione personale dell’infinitiva, il cosiddetto nominativo+infinito). Costruisci:Chaldaei
putantur scientiam effecisse diuturna observatione siderum, lett. ‘i Caldei sono ritenuti aver
prodotto una scienza con la incessante osservazione delle stelle’, ovvero: ‘si ritiene che i Caldei ecc.’;
ut praedīci posset lett. ‘affinché possa essere predetto’. –riga 4: cuique, dat. del pronome quisque
‘ciascuno’, poi ripetuto poco dopo; costruisci: quid eventurum (esset) cuique et quo fato quisque
natus esset; eventurum esset, costruzione perifrastica attiva, con part. futuro + verbo sum.
Commento: come ci conferma Cicerone, e come abbiamo appena letto nel passo di Timpanaro, la
rinomanza dei Caldei, questa popolazione della Mesopotamia meridionale, nell’astrologia, rende il
nome etnografico (caldèo) sinonimo di “astrologo”. Si tratta dello stesso meccanismo che abbiamo
visto in greco per il termine etnografico magus, ancora usato come tale in età repubblicana a Roma.
De divinatione 1, 132
Torniamo adesso ai nostri “specialisti itineranti” in cose “magiche” a Roma. Come visto si tratta di
varie figuri di “divinatóri”, ivi compresi gli astrologi, a conferma dell’affermazione di Graf che, a
differenza della Grecia, le figure di ‘itineranti’ presenti a Roma sarebbero solo connesse alla
divinazione. Come dirà anche Quinto, il fratello di Cicerone protagonista del De divinatione che
sostiene la veridicità di quest’ultima nel I libro dell’opera, non si tratta affatto di figure negative in
generale, solo che, tra molti interpreti seri ed effettivamente preparati nell’arte divinatoria, vi sono
tanti ciarlatani. Ed è qui che Quinto introduce un elemento che sembra ignorato dall’analisi di Graf
ma che ci dice molto, in realtà, sulla presenza a Roma anche di itineranti specializzati in forme di
divinazione più propriamente “magico-stregonesca”. Leggiamo questo interessantissimo passo che
si trova proprio alla fine del I libro dell’opera ciceroniana. Un passo importante, che apre al II libro,
quello in cui Cicerone “smonta” la tesi sulla veridicità della divinazione sul piano filosofico-
scientifico.
Ecco il passo (De divinatione 1, 132):
“Ora affermerò solennemente quelle cose: che non riconosco gli estrattori di sortes, né coloro
che fanno gli indovini a motivo di denaro e neppure le evocazioni delle anime dei morti, che il tuo
amico Appio era solito utilizzare; insomma, non stimo un fico secco un àugure marso, o degli
arùspici di villaggio, o degli astrologi del Circo [massimo], o i profeti di Iside, o gli interpreti di
sogni; infatti costoro non sono indovini né per sapienza né per tecnica”.
De divinatione 1, 132 (2)
Nunc illa testabor, non me sortilegos neque eos,
qui quaestus causa hariolentur, ne psychomantia
quidem, quibus Appius, amicus tuus, uti solebat,
agnoscere; non habeo denique nauci Marsum augurem,
5 non vicanos haruspices, non de circo astrologos,
non Isiacos coniectores, non interpretes somniorum;
non enim sunt ii aut scientia aut arte divini.

Note a De divinatione 1, 132: -riga 1: costruisci: nunc testabor illa: me non agnoscere sortilegos ecc.;
testabor, fut. pres. del verbo deponente testor, -āri, lett. ‘attesto’, ‘parlo come testimone”, termine
tecnico del processo romano; sortilegos, sono chiaramente gli indovini che estraggono le sortes,
‘legnetti’ che abbiamo già visto usati per predire il futuro; formazione da sor(t)s + legĕre ‘scegliere,
leggere le sortes’. –riga 2: quaestus causā, lett. ‘a causa di guadagno’, quaestus è gen.
sing. della 4a declinazione; hariolentur, dal deponente hariolor lett. ‘faccio l’hariŏlus’;
psychomantia: termine greco, lett. ‘arte di indovinare dalle anime’; si tratta precisamente delle
evocazioni dei morti, su cui ritorneremo nel corso di queste lezioni; ne…quidem ‘neppure’. –riga
3: quibus è ablativo retto da uti e riferito al plurale psychomantia, lett. ‘che Appio, l’amico tuo,
soleva usare’; Appius: si tratta di Appio Pulcro, già citato in divin. 1, 29 come bonus augur, cioè
‘ottimo augure’ di cui in genere (ma non in questo caso) Quinto si fida (continua).
De divinatione 1, 132 (3)
Note (continua):
–riga 4: non habeo nauci: si tratta di una costruzione di habeo con genitivo di stima, lett. ‘non stimo
niente’, o ‘non stimo una bazzecola’. In realtà etimologicamente naucum è sconosciuto (c’è chi
traduce, paretimologicamente, “guscio di noce” per indicare qualcosa che non vale nulla); marsum:
appartenente al popolo abruzzese dei marsi, che insieme ai vicanos della riga seguente si riferirà a
indovini tipici delle campagne e poco accreditati. –riga 5: vicanos, lett. ‘da villaggio (vicus)’, si tratta
di arùspici non ufficiali per eccellenza, arùspici “di strada”; de circo ecc.: si tratta di astrologi che
giravano nei pressi del Circo massimo, come ci attesta anche Orazio (Satire 1, 6, 113). –riga 6: Isiacos
coniectores, lett. ‘congetturatori [=interpreti] di Iside’. Il culto di Iside fu introdotto a Roma in età
sillana.
Commento: Fondamentale tra tutte le figure chiaramente itineranti di divinatori ‘da strapazzo’ citati
da Quinto, il richiamo ad una figura che si colloca in pieno all’interno del nostro “mondo magico”,
ed in particolare di quello greco, ma evidentemente già entrato anche a Roma: quella dello
psychomantis, cioè dell’indovino (màntis) interprete delle anime (psychái), s’intende quelle dei
morti. Come si ricorderà, avevamo già trovato questa pratica tra le accuse durissime rivolte da
Cicerone a Vatinio nel brano tratto dall’omonima orazione ciceroniana studiato nella lezione 8. In
quel caso si trattava di una pratica legata al presunto pitagorismo di Vatinio, e comunque sospetta
per Cicerone, ma non in quanto tale. Qui invece la pratica sembra criticata in quanto tale, come
forma non credibile di ciarlataneria legata alla divinazione. Sta di fatto che tra gli indovini
itineranti elencati per il mondo latino questo passo attesta anche una figura che noi non
esiteremmo a definire di “stregone” e che in effetti troveremo poi catalogata così anche nella
letteratura successiva. Sia come sia, questa testimonianza rappresenta una conferma del legame
stretto tra divinazione e “mondo magico-stregonesco” a Roma.
La magia in Plinio
Siamo pronti adesso per fare un salto temporale abbastanza netto ed andare ad esaminare la prima
fonte antica che ci parla esplicitamente ed in modo molto dettagliato della “magia”, in una maniera
che. almeno a prima vista, pare affine a ciò che per noi è la magia nella nostra mentalità moderna.
Si tratta del celebre capitolo normalmente definito “storia pliniana della magia” dagli interpreti
moderni. Questa testimonianza si rivela fondamentale per noi non solo, ovviamente, perché si
concentra sull’argomento che stiamo indagando riportandoci l’opinione di un romano, ma
soprattutto perché, come vedremo tra un attimo, testimonia di un cambiamento radicale avvenuto
nella mentalità latina rispetto all’epoca repubblicana o tardo repubblicana che abbiamo analizzato
finora.
Ma prima, come al solito, qualche parola sull’autore in modo anche da situarne la testimonianza nel
giusto quadro storico-letterario. Si tratta di Plinio il Vecchio (Como 24.d.C-Stabia 79 d.C), il famoso
erudito e “scienziato” latino, celebre per essersi precipitato sul luogo, alla notizia dell’eruzione del
Vesuvio nel 79 d. C., non tanto, come si crede, per osservare da vicino il fenomeno, ma per dare
soccorso alla popolazione in qualità di prefetto della flotta imperiale di stanza in Campania. Il nipote
Plinio il Giovane, oltre a raccontarci i dettagli della sua eroica morte, ci dà molte notizie sullo zio e
sulle molte opere da lui scritte. Plinio il Vecchio fu infatti anche un grande grammatico ed un
grandissimo storico. E questo emerge bene dall’opera che di lui ci è giunta integralmente: la
Naturalis Historia.
Plinio
Ma prima di esaminare quest’opera, scopriamo qualche dettaglio della biografia e delle opere
pliniane. Questo non solo perché Plinio è di Como, e quindi vicino alla sede della nostra università,
ma perché di solito su di lui vengono diffusi falsi miti, come quello della “morte dello scienziato
Plinio”, “protomartire della scienza sperimentale”, come lo definì Calvino.
Anzitutto si tratta di un alto funzionario imperiale che appena ventenne prestò servizio militare in
Germania con il giovanissimo Tito. Da qui la prima opera storica, i Bella Germaniae, ampiamente
riutilizzate da Tacito nela sua Germania. Sotto l’imperatore Claudio si ritira a vita privata per
dedicarsi allo studio. Di questo periodo un suo manuale di grammatica, ampiamente citato dai
grammatici posteriori e quindi giuntoci frammentario: il Dubius sermo, sui problemi legati alle
ambiguità linguistiche. Dal 69, con Vespasiano al potere ed il passagio dalla dinastia giulio-claudia a
quella flavia, Plinio rientra nella vita pubblica dove riceve incarichi di rilievo. Del 70 è l’opera cui
Plinio credeva di legare la propria fama post-mortem e che in effetti lo rese celebre: l’opera storica A
fine Aufidi Bassi, ovvero la storia romana da dove l’aveva interrotta lo storico Aufidio Basso (andava
dal 50 al 70 d.C), non giuntaci. Plinio la dedica a Vespasiano, di cui doveva esaltare la figura, ma,
proprio per evitare accuse di piaggerìa, sceglio di farla pubblicare postuma. Un rigore ed una
dedizione che si ritrovano nella fine stessa dello scrittore romano, che muore il 25 Agosto del 79
d.C. nell’evento di cui abbiamo già detto. Ad informarci con grande precisione le famose epistole
che il nipote (nonché figlio adottivo), Plinio il Giovane, indirizza allo storico Tacito descrivendo, in
un modo rimasto celebre, la figura dello zio. Queste stesse virtutes, rigore e dedizione, sembrano
confermate, come afferma Gian Biagio Conte, dalla mole e dallo scopo della Naturalis Historia.
La Naturalis Historia
Si tratta di un’opera monumentale da molti punti di vista (non solo per l’estensione ma anche per la
fortuna che essa ha avuto nella storia del pensiero occidentale): la Naturalis Historia (lett. ‘storia
naturale’) in 37 libri. L’opera, vera e propria summa del sapere antico, ha infatti goduto di una
fortuna ininterrotta nella storia occidentale. Quella di Plinio è una visione della natura non solo
antropocentrica, in cui cioè l’essere umano figura come un “beniamino” della natura visto che ha
saputo piegarla ai propri bisogni, ma soprattutto romanocentrica, in cui cioè la cultura romana
figura come la migliore e l’Italia la terra maggiormente toccata dalla fortuna, date le proprie risorse
e la propria bellezza. L’opera, che racchiude enciclopedicamente, tutto il “ciclo” del sapere tecnico e
“scientifico” (tra virgolette perché non si può certo parlare di scienza nel senso moderno del
termine) dell’epoca, è infatti rivolta all’élite romana, cioè all’attuale (dell’età di Pllinio) e futura
classe dirigente. Le informazioni pliniane sono infatti desunte, come confessa con orgoglio lo stesso
autore comasco all’inizio della sua opera, da autori greci e romani, ma non solo, in grado di
insegnare al meglio come muoversi nella realtà naturale con successo e senza pericolo.
Quest’ultimo non può che venire, secondo Plinio, dall’ignoranza delle cose naturali. Non solo. Per lui
“natura” è sinonimo di “vita” e, secondo una modalità tipica di certo stoicismo romano, tale
concezione della natura e della sua potenza “è ciò che chiamiamo dio”, come dice Plinio stesso (Nat.
Hist. 2, 27). Quindi il titolo, Storia Naturale, significa “indagine conoscitiva (in questo senso Plinio
usa il termine Historia) della natura”; ovvero, in altre parole, “scienza della natura”.
La praefatio pliniana
L’opera è “enciclopedica” anche nel nostro senso, ovvero perché è fatta, data l’ampiezza degli
argomenti trattati, per la consultazione. In questo senso risulta fondamentale il libro primo che,
dopo un’introduzione con dedica al futuro imperatore Tito, contiene un lungo indice degli
argomenti trattati nei vari libri. Una lettura di passi tratti dal proemio (o meglio praefatio) della
Naturalis ci permetterà non solo di entrare nel laboratorio di quel grande autore che è Plinio il
Vecchio, ma anche di situare nel giusto contesto storico letterario i brani sulla magia di cui abbiamo
già detto sopra e che andremo a leggere tra poco.
La praefatio all’opera consta di una epistola dedicatoria a Tito, figlio dell’imperatore Vespasiano.
Leggiamone un passo (pr. 12-14). Partiamo al solito dalla traduzione cui seguirà, dopo il testo latino
e le rispettive note, il commento.
“Così alla mia sfrontatezza si è aggiunto anche questo, (cioè) il fatto che ti ho dedicato questi
volumetti di utilizzo assai leggero. Infatti né lasciano spazio al genio, che del resto in me è così
mediocre, né ammettono digressioni o arte oratoria o discussioni o casi meravigliosi o eventi
mirabili, cose divertenti a dirsi o gradevoli a chi legge. Viene narrato [da me] un argomento arido, il
mondo naturale, cioè la vita; e quest’ultima nella sua parte più umile e di numerosi argomenti cose
o con termini rozzi o stranieri, addirittura anche barbari, che devono essere usati con una premessa
di decenza”
La praefatio pliniana (2)
Meae quidem temeritati accessit hoc quoque, quod
levioris operae hos tibi dedicavi libellos. nam nec ingenii
sunt capaces, quod alioqui <i>n nobis perquam mediocre
erat, neque admittunt excessus aut orationes sermonesve
5 au<t> casus mirabiles vel eventus varios, iucunda dictu aut
legentibus blanda. sterilis materia, rerum natura, hoc est
vita, narratur, et haec sordidissima sui parte a<c> plurimarum
rerum aut rusticis vocabulis aut externis, immo barbaris
9 etiam, cum honoris praefatione ponendis.
Note al testo: -riga 1: costruisci: hoc quoque accessit meae temeritati, lett. ‘ciò anche si aggiunse
alla mia temerarietà’; accessit = 3a pers. pf. di accedo; quidem ‘così’; quod = ‘il fatto che’ (lett. ‘la
qual cosa’). –riga 2: levioris operae , gen. di qualità, lett. ‘di impegno assai leggero’; leviōris,
comparativo assoluto di lĕvis ‘leggero’. –riga 3: alioqui ‘del resto’; perquam, avv. = ‘eccessivamente’.
–riga 4: excessus, acc. pl. 4a decl.; sermones, lett. ‘discorsi’. –riga 5: casus, eventus, acc. pl. 4a decl.;
dictu, supino pass. di dico, lett. ‘a dirsi’. –riga 6: legentibus , part. pres. dat. pl. di lego, lett. ‘a coloro
che leggono’; costruisci: narratur [sott. a me] sterilis materia, hoc est
vita. –riga 7: sordidissima parte, abl. di limitazione, lett. ‘limitatamente alla sua parte più sordida’,
cioè ‘nella sua parte ecc.’; plurimarum rerum, lett. ‘di più cose’, gen. di qualità; -riga 8: externis,
qui = ‘stranieri’; immo ‘addirittura’. –riga 9: ponendis, gerundivo di pono, lett. ‘da porre’, riferito a
vocabulis; honoris prefatione, lett. ‘con una premessa di onore’, cioè giustificando che vale
effettivamente la pena usarli benché vocaboli “barbari”.
La praefatio pliniana (3)
Commento.
Emerge in questa celebre prefazione dedicatoria a Tito l’atteggiamento di Plinio verso la sua
materia. Egli specifica, in un modo divenuto esemplare, che l’argomento da lui affrontato è “arido”
(sterili materia) e che i suoi “libretti” sono di facile consultazione, “leggeri” e poco impegnativi.
Addirittura dice espressamente che non contengono “ingenium”, cioè talento. Nonostante ciò è così
“sfrontato” da dedicare l’opera a Tito, il figlio e futuro successore dell’imperatore Vespasiano. Ma si
capisce immediatamente perché. Nonostante la sua umiltà (o forse falsa modestia), la sua opera
parla “della natura, e cioè”, specifica Plinio, “della vita”. Insomma, in realtà si tratta dell’argomento
più alto possibile. Quello che Plinio vuol dire è che il suo modo di parlare della vita non è né da
oratore, né tantomeno da filosofo o da poeta, ma da uomo pratico che non disdegna di dichiarare
apertamente (questa parte non ho scelto di riportarla, ma segue il passo appena letto) che la sua
trattazione non è originale, ma ripresa da un numero molto alto di autori, che Plinio cita una ad uno
“a differenza”, dice Plinio, “di molti altri autori che ho ‘pizzicato’ aver ripreso testi altrui senza citare
la fonte”. Insomma, il plagio non è cosa nuova, e per Plinio non ha senso, visto che la sua è un’opera
di consultazione (enciclopedica) non un’opera di poesia (fermo restando il fatto che per gli antichi
l’originalità vera non esiste; ed in effetti per noi moderni il mito dell’artista originale a tutti i costi è
recente - per la precisione risale al romanticismo).
La praefatio pliniana (4)
Quella di Plinio è, quindi, per autoammissione, un’opera non originale, e nondimeno fondamentale
in quanto parla della “vita in tutti i suoi aspetti minimi”: sordidissima parte vale sì ‘umilissima parte’,
ma anche ‘più bassa’ nel senso che riguarda gli aspetti non solo meno nobili ma più infinitesimali,
molteplici (cfr. righe 7-8, ac plurimarum rerum) e apparentemente più comuni; basti il fatto che
Plinio parla di insetti, di vermi, di molluschi, di spugne, ma anche di sassi, di pietre, di semi, di
ghiande ecc.
Altro aspetto che emerge nel passo riportato, anche se apparentemente in modo marginale, è
quello dell’etnocentrismo, ovvero “romacentrismo” pliniano. Naturalmente mi riferisco al passo in
cui egli si scusa con il lettore e con il suo illustrissimo dedicatario per l’uso che è ‘costretto’ a fare
non solo di termini “stranieri”, “ma addirittura barbari”. Da precisare che per “stranieri” (externi),
senza ulterori specificazioni, i romani dell’epoca intendono i greci. Mentre il termine barbari,
connotato in senso negativo anche nella ripresa che ne ha fatto l’italiano, si riferisce a tutti gli altri
popoli “inferiori”. L’uso è evidentemente ripreso dal greco, essendo il termine greco (lett. = ‘che
balbetta’). Si tratta di una prova che l’ellenizzazione, dopo quasi tre secoli di conquista romana del
mondo greco, ormai è entrata a far parte in modo profondo della mentalità romana. Queste
osservazioni, sia quella della “umiltà” della materia che quella dell’ellenizzazione “avanzata”,
riemergeranno ancor più quando tra un attimo ci occuperemo di come Plinio descrive il “mondo
magico” attraverso categorie tanto più interessanti per noi perché “spontanee” e “basse” e nello
stesso tempo figlie, almeno in parte, dell’ormai imperante influsso culturale greco.
NH 27, 10
Passiamo adesso alla lettura dei passi della Naturalis Historia che Plinio dedica alla magia. Oltre al
già citato incipit del libro XXX, la cosiddetta “storia pliniana della magia”, vi sono passi significativi
nel libro XXVIII. Dall’analisi di queste testimonianze emergerà una seconda concezione romana della
“magia”, caratterizzante stavolta l’età imperiale.
Nel libro XXVIII Plinio parlerà dei rimedi medicinali tratti dagli animali; nei primi paragrafi del libro il
grande erudito comasco fa delle riflessioni davvero insostituibili per noi, che toccano tra l’altro
pratiche con cui ormai abbiamo una certa familiarità. Vediamo di cosa si tratta in un primo stralcio
di questa parte iniziale del libro 28.
Partiamo al solito dalla traduzione, cui seguirà, dopo il testo latino e le rispettive note al testo, il
commento.
Il passo è tratto per l’esattezza da NH [Naturalis Historia] 28, 10:
“La prima cosa sui rimedi [tratti] dall’essere umano è una questione grandissima e sempre senza
risposta, (cioè) se le parole e gli incantamenti delle formule magiche valgano qualcosa. Se ciò è
vero, converrà che venga accettato dall’uomo che sono necessarie, ma la credenza di ciascuno dei
più saggi, presi ad uno ad uno, lo rifiuta; tuttavia la vita nel suo complesso ed in tutti i momenti lo
crede vero senza accorgersene”.
NH 27, 10 (2)
Ex homine remediorum primum maximae quaestionis
et semper incertae est, polleantne aliquid verba et
incantamenta carminum. quod si verum est, homini
acceptum fieri oportere conveniet, sed viritim sapientissimi
5 cuiusque respuit fides, in universum vero omnibus horis
credit vita nec sentit.
Note: -riga 1: remediorum ex homine, lett. ‘dei rimedi [tratti] dall’uomo’: primum vale come avv.
‘per prima cosa’. –riga 1-2: maximae quaestionis et semper incertae est; il genitivo si spiega come
“genitivo di pertinenza“, cioè quello che, tipicamente unito al verbo essere come in questo caso, si
traduce con la locuzione ‘è proprio di’; qui la traduzione letterale è quindi: ‘la prima cosa (primum) è
[propria] di una questione massima e sempre incerta’. –riga 2: polleantne: polleant è il congiuntivo
presente, 3a persona pl. da polleo ‘essere potente, essere valido’; -ne è l’avverbio interrogativo
enclitico (cioè una parola che nella pronuncia fa tutt’uno con la parola che la precede) e significa
“se”; qui introduce l’interrogativa indiretta ‘se valgano qualcosa’; aliquid vale appunto ‘qualcosa’. –
riga 3: quod si verum est, costruisci: si quod [=id] verum est, cioè ‘se questo è vero’, lett. ‘se la qual
cosa è vera’. –riga 3-4: homini acceptum ecc; homini è dativo dipendente da
conveniet ‘converrà’, vb. impersonale che regge tutta la seguente “infinitiva nell’infinitiva”, cioè
acceptum fieri, ovvero ‘venire ad essere accettato’ (cioè ‘essere accettato’, equivalente ad un
infinito pf. passivo da accipio), che a sua volta regge l’infinito oportēre, altro verbo impersonale,
che significa ‘essere necessario, importare’ (continua).
NH 27, 10 (3)
Note: (continua) -riga 4: viritim, avv. = ‘uno ad uno’; sapientissimi ecc, costruisci: fides sapientissimi
cuiusque respuit= lett. ‘la fiducia di ciascun sapientissimo respinge’, ovvero ‘la credenza di tutti i più
saggi rifiuta [ciò]’; respuit 3a persona prf. ind. da respuo, ĕre, ‘respingere’, sott. id ‘ciò’, cioè il fatto
che occorra credere nelle formule magiche. –riga 5: in universum avv. = ‘in generale’, ma nel senso
di ‘presa tutta insieme’, ‘nel complesso’; vero, cong. avversativa ‘però, tuttavia’; omnibus horis, abl.
lett. ‘a tutte le ore’. –riga 6: credit ‘crede’, sott. id ‘ciò’; nec sentit, lett. ‘ e non lo sente’, cioè ‘non se
ne accorge’.
Commento: la prima cosa che emerge dalla traduzione è che il latino di Plinio è simile a quello di
Catone (ma privo di arcaismi), cioè secco, ovvero estremamente sintetico, ciò che lo rende spesso di
difficile traduzione. Il passo è estremamente indicativo per un antropologo. Plinio, infatti, fa
emergere quella che abbiamo definito fin qui la “mentalità” propria della sua cultura, cioè l’insieme
di credenze normative che vengono accettate semplicemente perché ci sono e perché le seguono
tutti senza chiedersene il perché. Si tratta proprio di quello che un antropologo sul campo va a
cercare nella cultura che studia, cioè le norme inconsapevoli, la cultura come l’avevamo definita, lo
si ricorderà, nelle lezioni introduttive. Insomma, Plinio si pone sulla sua cultura esattamente le
stesse domande che si pone un antropologo moderno, le stesse che ci stiamo ponendo noi,
impegnati ad indagare una società che è però ‘altra’ dalla nostra, ma di cui Plinio rappresenta, come
appena visto, un testimone preziosissimo.
NH 27, 10 (4)
Analizziamo adesso il contenuto del breve (ma intenso) passo che abbiamo appena letto. Anzitutto
troviamo conferma di quello che avevamo già detto sul rapporto strettisimo nella cultura latina tra
parole, poesia e mondo magico. Ritroviamo di nuovo, infatti, il riferimento alle “parole” e agli
“incantamenti dei carmina”, cioè dei canti usati a scopo di sortilegio. Dapprima Plinio pone il
problema della loro veridicità su un piano oggettivo, parlando della “grandissima questione” se
queste pratiche abbiano valore o meno; ma è chiaro che posta così, senza nessuna
contestualizzazione, la domanda è destinata a rimanere “sempre priva di risposta” (sempre incerta).
Nell’ipotesi però che si tratti di pratiche valide, “converrà”, dice Plinio, “ che l’essere umano accetti
che sono necessarie”. Colpisce questa parola “necessarie”, in realtà resa in modo ancora più
inequivocabile nel latino di Plinio dal semplice uso del verbo oportēre ‘essere necessario’. E colpisce
ancora di più se compariamo questo passo con quello che Plinio dirà nella sua “breve storia della
magia” all’inizio del libro trenta, un paio di libri più avanti.
Lì, come vedremo, Plinio assumerà una posizione estremamente dura nei confronti di quella che noi
definiremmo “magia”. Qui, all’opposto, ritiene certe pratiche “necessarie” a dispetto, addirittura,
dei “più saggi” che le reputano false. Ma “necessarie” a cosa? Plinio lo spiega subito dopo. Sono
essenziali, nientemeno che alla vita, intesa non come vita biologica, naturalmente, ma come vita
culturale, quell’insieme di norme che, come visto, costruiscono la realtà quotidiana di ognuno e che,
solo per questo, perché servono a mantenere unito il gruppo, sono “necessarie”.
NH 27, 13
Ecco altre conferme di questa analisi “antropologica” di Plinio, o meglio, come diremmo noi, di
questa idea che il mondo magico rappresenti un insieme di credenze che determina la “visione del
mondo” propria di un gruppo umano. E che si tratti di “mentalità” in Plinio emerge chiaramente,
visto che nella lunga ed interessantissima serie di esempi da lui forniti all’inizio del libro 28 sulle
credenze e sulle pratiche “magiche” dei romani rientrano anche pratiche che noi inseriremmo
piuttosto nella categoria di “religione” (ma abbiamo visto che l’antropologo fa delle differenze solo
esterne e non di sostanza su questi due “dominii culturali”, religione e magia). O pratiche che noi
considereremmo “superstiziose” (ma guarda caso la parola latina che individua la superstizione è
proprio religio).
Ne troviamo ulteriore conferma leggendo un altro passo di questa parte iniziale del libro 28. Si
tratta in particolare di NH 27, 13. Prima, al solito, la traduzione, cui seguirà, dopo il testo latino e le
rispettive note al testo, il commento.
“Oggigiorno crediamo che le nostre Vestali possano trattenere sul luogo con una formula di
preghiera degli schiavi in fuga non ancora usciti dalla città, tuttavia, se una volta sola viene accettato
questo ragionamento, e il fatto che gli dei possano ascoltare fino in fondo alcune preghiere o essere
mossi da alcune parole, bisogna ammettere [che sia così] su tutta la questione”.
NH 27, 13 (2)
Vestales nostras hodie credimus nondum egressa
urbe mancipia fugitiva retinere in loco precatione, cum,
si semel recipiatur ea ratio, et deos preces aliquas exaudire
4 aut ullis moveri verbis, confitendum sit de tota coniectatione.

Note al testo: -riga 1: Vestales. Si tratta delle Vestali, sacerdotesse sacre a Vesta, la dea della terra e
del focolare (Estìa in greco), chiamata anche Ops, Cybele o Terra, moglie di Coelus e madre di
Saturno. Vestales nostra hodie ecc., costruisci: hodie credimus Vestales nostras precatione retinēre
in loco mancipia fugitiva nondum egressa urbe. Credimus ‘crediamo’, regge tutta l’infinitiva che
segue. Il sogg., desunto dalla 1a pers pl. è “noi” nel senso di ‘noi romani’. Nondum ‘non ancora’;
egressa, part. prf. con valore attivo dal deponente egredior ‘uscire fuori [a piedi]’. –riga 2: mancipia,
acc. pl. da mancipium, lett. ‘ciò che si prende con la mano’ (manu capere), con cui si designavano
‘tutti i beni legalmente posseduti’ dal dominus’, tra cui gli ‘schiavi’ e quindi, per metonimia,
‘schiavo’. Precatione, la precatio era una formula solenne di preghiera. –righe 2 sgg.: costruisci: cum
confitendum sit de tota coniectatione si semel ecc.; cum + cong. con valore avversativo, regge
confitendum sit, perifrastica passiva impersonale da confiteor ‘confessare’, cioè
‘bisogna confessare’. si semel recipiatur lett. ‘se una volta sia accettato’, riferito al sogg. ea ratio,
cioè ‘questo ragionamento’; recipiatur regge anche i seguenti infiniti exaudīre e movēri. –riga 4:
de tota coniectatione: coniectatio =‘premessa’, cioè ‘bisogna ammetterlo anche per tutto il resto
delle pratiche magiche’.
NH 27, 13 (3)
Commento. Ancora una volta ci colpisce la capacità critica di Plinio, la lucidità della sua indagine.
L’erudito comasco fa qui un’analisi che potremmo definire di tipo “strutturalista” (prendendo
naturalmente le dovute distanze dallo strutturalismo moderno). Mi riferisco al fatto che egli
considera effettivamente la magia non come un insieme di fatti isolati, ma, come dicevamo,
fondanti una parte fondamentale di quella “mentalità magica” che, Plinio lo mostra bene,
caratterizza la società cui egli stesso appartiene. Infatti non è ammissibile, afferma Plinio, accettare
solo una parte delle credenze relative all’efficacia magica di parole e carmina vari. Si tratta di un
sistema dove “tutto si tiene”: impossibile escludere una parte senza escludere anche il resto. Plinio
accoglie dunque l’idea della magia come “cornice interpretativa” onnicomprensiva della realtà, o,
come dice Plinio, della vita. E non è un caso che il suo esempio qui sconfini nel campo, solo
superficialmente diverso, della religione. La sua idea è che le formule pronuciate dalle Vestali per
trattenere gli schiavi fuggiti ma ancora presenti nel circolo “magico” rappresentato dal perimetro
della città non siano diverse da quelle che i romani pronunciano in altre circostanze per stornare i
pericoli o prevedere le conseguenze non sempre controllabili di una certa azione. Insomma, Plinio si
trasferisce dal campo di quella che anche per noi è “religione”, a ciò che invece chiameremmo
“superstizione”, e che (cosa che non soprende alla luce di quello che abbiamo appena detto) i
romani chiamavano appunto religio ( su cui si legga la scheda antropologica “Il significato di religio”
a pag. 256 del manuale di storia della letteratura Il bosco sacro).
NH 28, 14
Avevamo detto che Plinio, nella sua trattazione del “mondo magico” nel libro 28, si trasferisce dal
campo di quella che anche per noi è “religione” a ciò che invece chiameremmo “superstizione”. Ma
la differenza per i romani, come emerge dalla scheda antropologica che abbiamo indicato alla fine
della lezione precedente (bastino gli opposti atteggiamenti al riguardo di Cicerone e Lucrezio) non è
troppo netta per la mentalità romana. Comunque, in questa visione della “magia” che sconfina nella
“superstizione”, Plinio introduce anche un elemento tipicamente romano, quello della tradizione. Al
passo appena visto alla fine della lezione precedente, infatti, segue immediatamente questa
osservazione (NH 28, 14):
“Così i nostri antenati hanno creduto ininterrottamente a tali cose, ed anche alla più impossibile tra
di esse, (cioè) che si stornino anche i fulmini”.
Prisci quidem nostri perpetuo talia credidēre, difficillimumque ex his, etiam fulmina elĭci.
Note al testo: perpetuo: avverbio = ‘costantemente’; talia, acc. neutro pl. di talis, e ‘tali cose’;
difficillimum ex his lett. ‘e la più difficile tra queste’; credidēre = credidērunt 3a pers. pl. prf. credo;
elĭci, inf. pass. da elicio ‘stornare’; l’infinito passivo dà significato impersonale.
Commento. Il fatto che gli antenati le ratificassero è stimolo a continuare tali pratiche e credenze: è
la tradizionale forza del mos maiorum.
Una caduta di Cesare
Andiamo avanti con una rassegna, che speriamo interessante: una piccola ‘antologia’ delle
“superstizioni” riportate da Plinio, sempre nei primi paragrafi del libro 28. Naturalmente si tratta
anche di passi che ci permetteranno ulteriori osservazioni sul valore “culturale” attribuito da Plinio a
queste credenze. Il primo esempio riguarda nientemeno che un personaggio come Giulio Cesare,
cosa che, a livello di analisi letteraria, pone questo passo di Plinio fra quegli espedienti retorici che
gli antichi chiamavano exemplum. Si tratta di un modo per rafforzare le tesi sostenute nel proprio
“discorso” inserendo un piccolo racconto, appunto “esemplare”, che ha come protagonista un
personaggio storico (si pensi al repertorio di exempla scritto da Valerio Massimo in età giulio-claudia
ad uso degli oratori e giuntoci quasi integralmente).
Il passo è tratto da Naturalis Historia 28, 21 e rientra anche in un certo gusto pliniano per
l’aneddoto (ma raramente fine a se stesso). Eccone la traduzione:
“Narrano che il dittatore Cesare, dopo la pericolosa caduta di un [suo] carro, non appena si sedeva
fosse sempre solito garantirsi la sicurezza dei viaggi dopo aver ripetuto per tre volte una formula
magica (carmen), cosa che adesso sappiamo che fa la maggior parte della gente”.
Caesarem dictatorem post unum ancipitem vehiculi casum ferunt semper, ut primum consedisset,
id quod plerosque nunc facere scimus, carmine ter repetito securitatem itinerum aucupari solitum.
Una caduta di Cesare (2)
Note al testo: -riga 1: costruisci: ferunt Caesarem dictatorem post unum ancipitem vehiculi casum
semper securitatem itinerum aucupari ecc. Ferunt vale ‘narrano, tramandano’ (uno dei quattro
significati del difettivo ferre); il verbo regge l’infinitiva che ha come soggetto Caesarem dictatorem e
come verbo dipendente aucupari; lett. ‘tramandano (che) Cesare dittatore dopo una pericolosa
caduta di veicolo sempre si guadagnasse la sicurezza dei viaggi ecc.’; ancipitem ‘pericoloso’,
significato figurato dell’agg. anceps, -cipĭtis, lett. ‘a due teste’, cioè ‘ambiguo’, poi anche
‘imprevedibile’, quindi ‘pericoloso’. Vehiculum ‘veicolo’, cfr. il verbo veho, vĕho, xi, ctum, ĕre ‘portare
su un mezzo di trasporto’, quindi anche ‘viaggiare su un mezzo di trasporto’. Casum, sostantivo della
4a decl. = ‘caduta’; cfr. cado, ĕre ‘cadere’. –riga 2: ut primum ‘non appena’; consedisset, 3a per. sing.
pf. cong. di consīdo, sēdi, sessum, ĕre ‘sedersi’; id quod nunc plerosque facere scimus, lett. ‘ciò che
adesso sappiamo che la maggior parte [plerosque] fa’. È l’infinitiva retta da scimus ‘sappiamo’;
plerosque, acc. pl. di plērusque, răque, rumque ‘la maggior parte’. –riga 3: carmine ter repetito, è
l’ablativo assoluto con soggetto carmen, lett. ‘essendo stata la formula magica ripetuta tre volte’;
repetīto è part. pf. pass. di rĕ-pĕto, īvi, ītum, ĕre ‘ripetere’; ter è numerale distributivo ‘tre volte’;
itinerum, gen. pl. di iter, ineris ‘viaggio’; aucupari, lett. ‘cacciare uccelli’ (aves capĕre), inf. pres. da
aucŭpor, ātus, ari, verbo deponente; quindi, lett. ‘procacciarsi la sicurezza’, ma la sfumatura di senso
non è rendibile in italiano.
“Perle” antropologiche
Il racconto “esemplare” di Plinio è molto interessante oltre che prezioso per noi, perché attesta in
modo esplicito (cfr. “ cosa che adesso sappiamo che fa la maggior parte della gente”) l’uso diffuso di
carmina usati a scopo scaramantico, diremmo oggi. Anche Cesare si affida al potere magico del
numero tre, ma soprattutto a quello del carmen. Si tratta di nuovo di una forma di “superstizione
magica” o “magia superstiziosa” che dir si voglia, attribuita nientemeno che ad un personaggio così
illustre come Cesare; una ragione di più, per Plinio, per considerare la pratica non inutile, ma degna
di essere ripetuta. Quindi Plinio stesso crede alla magia? La risposta è, di nuovo, che non si può
parlare di “magia” nel senso nostro, ma di carmina scaramantici e di rimedi “magico-medici” che
servono per curare le malattia (ricordiamoci che il libro 28 della Storia naturale pliniana è dedicato
ai rimedi ricavati dagli animali, a partire dall’essere umano). Per ora sappiamo che, quanto a questi
ultimi, è vero che Plinio stesso dedica intere sezioni del suo “vademecum sulla natura” a tali rimedi;
pare quindi evidente che egli stesso “creda” nella loro efficacia: non si tratterà di una fiducia basata
su motivazioni di tipo “scientifico”, come diremmo oggi, bensì di motivi legati sia alla lunga
tradizione che ha diffuso queste pratiche portandole dal passato al presente pliniano, sia al loro
attuale “successo”, cioè alla loro diffusione, tra i suoi concittadini. A questo proposito, proseguiamo
nella nostra piccola antologia dei casi “magico-superstiziosi” pliniani, dato anche il loro alto valore di
“perle” antropologiche, vere finestre che ci permettono di entrare in modo autentico nella realtà
quotidiana dei romani esplorando le pieghe più intime della loro mentalità.
Starnuti, tavoli ecc.
Leggiamo dunque un altro breve passo tratto dalla lunga lista di esempi di “superstizione magico-
religosa” contenuti nel libro 28 della Naturalis Historia di Plinio.
Si tratta per la precisione di NH 28, 26:
“Richiamare mentre si starnutisce un piatto di portata o una tavola da pranzo, viene considerato fra
le cose malauguranti se dopo non si mangia qualcosa”
Sternumento revocari ferculum mensamve, si non postea gustetur
aliquid, inter diras habetur.
Note: sternumento, .Lett. ‘con uno starnuto’; ferculum, cfr. fero ‘portare’, è il piatto di portata, ciò
che viene portato o con cui si porta il cibo in tavola; mensa ‘tavola’, ma si deve pensare ai piccoli
tavolini che venivano messi davanti a ciascun triclinio e poi ritirati insieme ai piatti alla fine di un
pasto (naturalmente parlo per coloro che appartengono alle classi agiate, come lo stesso Plinio); si
non ecc. Lett. ‘se dopo non venga gustato qualcosa’, ovvero ‘a meno che dopo non si sia gustato
qualcosa’: il presente congiuntivo passivo gustetur ha significato impersonale; questo vale anche
per il seguente habetur ‘è considerato’, significato tipico del passivo di habeo ‘avere’; inter diras , è
sottinteso res, cioè, lett. ‘tra le malvagie cose’.
Starnuti, tavoli ecc. (2)
Commento: alcuni dettagli ci sfuggono, ma il quadro è chiaro: siamo in ambiente conviviale. Al solito
sono a lavoro i meccanismi di quella che abbiamo chiamato “funzione poetica della magia”. Lo
starnuto è considerato dai romani l’avvertimento di una divinità. È come se chi starnutisce dicesse:
“attento!”. Il riferimento qui viene interpretato come attinente, è chiaro, ad un evento considerato
nefasto come, tipicamente, la morte. “Richiamare” un piatto è infatti percepito come un atto di
presenza e quindi di vita, mentre portarlo via è un atto di assenza, quindi di morte. Il contatto
metonimico è infatti quello, senza dubbio frequente e attestato non solo nella cultura romana, tra
cibo=vita e digiuno=morte. Da qui la compensazione, la neutralizzazione, dello starnuto con
l’assunzione di cibo. Insomma, se lo starnuto avviene nel momento di assenza/morte, cioè quando il
piatto non è presente, bisogna compensare subito con un ritorno alla “vita” metaforica mangiando
qualcosa (presumibilmente dal piatto di un altro commensale e non, come alcuni interpreti
traducono, dallo stesso piatto che viene riportato).
Ma leggiamo ancora un altro breve esempio di superstizione magico-religiosa. Stavolta si tratta di
NH 28, 28:
“Dicono che i miscugli d’erbe medicinali lasciati su un tavolo per caso, prima di essere assunti, non
funzionino”.
Medicamenta, priusquam adhibeantur, in mensa forte deposita negant prodesse.
Starnuti, tavoli ecc. (3)
Note: medicamenta, abbiamo già visto ampiamente, qualche lezione fa, di cosa si tratta; la
traduzione migliore rimane ‘miscuglio d’erbe’; qui ho aggiunto “medicinali”; priusquam ‘prima che’,
regge il pres. cong. pass. adhibeantur ‘siano usate’; forte, abl. di fors, fortis ‘sorte’, avv. =‘per caso’;
deposita, part. pf. da depono ‘deporre’, lett. ‘deposti’, riferito a medicamenta; negant ‘dicono che
non’; prodesse ‘giovare’, inf. presente da prōsum, -fŭi, prōdesse, composto di sum.
Commento: può valere in questo caso la stessa relazione presenza/assenza vista nel caso
precedente. Fondamentale l’uso dell’avverbio forte ‘per caso’, che implica un “trattamento” della
pozione medicinale non consono al potere che in essa si trova: “per caso” implica infatti
“abbandono” e quindi “assenza”, in questo caso riferita all’efficacia del prodotto.
Adesso un’osservazione conclusiva, prima di tornare alla trattazione pliniana della “magia” in
generale.
Sopra abbiamo chiamato questi casi (e i molti altri presenti in Plinio che qui non abbiamo inserito)
degli esempi di “superstizione magico-religiosa”. Ma negli ultimi casi esaminati dov’è la “religione”?
Se sopra, infatti, avevamo già visto come Plinio introducesse esempi per noi tipicamente
riconducibili alla sfera religiosa (cfr. il caso delle Vestali e delle loro preghiere per trattenere gli
schiavi fuggitivi nel perimetro della città), dov’è qui il legame con la “religione”? La risposta ce la dà
Plinio stesso che, proprio dopo aver introdotto il caso dello starnuto a tavola, inserisce un
commento molto chiaro. Lo leggiamo in NH 28, 27.
Esempi magico-religiosi? (2)
“Queste pratiche le hanno istituite quelli che credevano che gli dei intervenissero in ogni affare ed
in ogni momento, e perciò li vollero placare anche di fronte alle nostre mancanze”.
haec instituēre illi, qui omnibus negotiis horisque interesse credebant
deos et ideo placatos etiam vitiis nostris reliquerunt.
Note: -riga 1: instituēre = instituērunt, 3a pers. pl. pf. ind. di instituo ‘instituire’; omnibus negotiis,
lett. ‘tutti gli affari e le ore’; -negotia è, etimologicamente, tutto ciò che “non è otium”, cioè tutto
ciò che non è il nostro “tempo libero”. Negotiis e horis sono dativi dipendenti da interesse, inf. pres.
di inter-sum, fŭi, esse, composto di sum che significa ‘prender parte’ (lett. ‘essere fra’). –riga 2:
placatos reliquērunt, lett. ‘li lasciarono placati’; placatus, part. pf. ma usato come aggettivo da placo,
are ‘riconciliare’, quindi placati vale lett. ‘riconciliati’; vitia ‘difetti’, ‘mancanze’. Il senso è che queste
pratiche superstizioso-magiche servono a riconciliarci agli dei in ogni circostanza, compensando, per
così dire, le nostre “umane imperfezioni”.
Commento: è chiaro che qui Plinio riconduce le credenze superstiziose direttamente alla sfera degli
dei. Sembra trasparire un certo scetticismo sulla presenza di queste divinità sparse ovunque (è noto
che i romani avevano, oltre a quelle ufficiali, moltissime “micro-divinità” specializzate nei minimi
aspetti della vita quotidiana, i cosiddetti indigitamenta).
Esempi magico-religiosi? (2)
“Queste pratiche le hanno istituite quelli che credevano che gli dei intervenissero in ogni affare ed
in ogni momento, e perciò li vollero placare anche di fronte alle nostre mancanze”.
haec instituēre illi, qui omnibus negotiis horisque interesse credebant
deos et ideo placatos etiam vitiis nostris reliquerunt.
Note: -riga 1: instituēre = instituērunt, 3a pers. pl. pf. ind. di instituo ‘instituire’; omnibus negotiis,
lett. ‘tutti gli affari e le ore’; -negotia è, etimologicamente, tutto ciò che “non è otium”, cioè tutto
ciò che non è il nostro “tempo libero”. Negotiis e horis sono dativi dipendenti da interesse, inf. pres.
di inter-sum, fŭi, esse, composto di sum che significa ‘prender parte’ (lett. ‘essere fra’). –riga 2:
placatos reliquērunt, lett. ‘li lasciarono placati’; placatus, part. pf. ma usato come aggettivo da placo,
are ‘riconciliare’, quindi placati vale lett. ‘riconciliati’; vitia ‘difetti’, ‘mancanze’. Il senso è che queste
pratiche superstizioso-magiche servono a riconciliarci agli dei in ogni circostanza, compensando, per
così dire, le nostre “umane imperfezioni”.
Commento: è chiaro che qui Plinio riconduce le credenze superstiziose direttamente alla sfera degli
dei. Sembra trasparire un certo scetticismo sulla presenza di queste divinità sparse ovunque (è noto
che i romani avevano, oltre a quelle ufficiali, moltissime “micro-divinità” specializzate nei minimi
aspetti della vita quotidiana, i cosiddetti indigitamenta).
NH 28, 19
L’analisi di un ultimo passo del libro 28 della Naturalis Historia ci permette di tornare alla trattazione
pliniana della magia ribadendo la diffusione di quella mentalità che, alla luce di quanto visto finora,
possiamo definire “superstizioso-magico-religiosa”.
Si tratta di un brano importante, che, partendo da un altro esempio di superstizione magico-
religiosa, torna a legare direttamente sfera magica e poesia, e per giunta con riferimento ad autori i
cui passi “magici” conosciamo già. Il brano ci permetterà altresì di introdurre un excursus sulle
cosiddette defixiones, i riti di magia nera più praticati nel Mondo Antico.
Ecco il passo, tratto da Naturalis Historia 28, 19:
“Non c’è certo nessuno che non teme di essere colpito da formule malvagie. A ciò rimanda (il fatto)
che vengano rotti i gusci delle uova o delle chiocciole che ciascuno abbia sorbito, o (il fatto che)
vengano perforati. Da qui vengono l’imitazione a scopo d’innamoramento degli incantesimi di
Teocrito, presso i greci, di Catullo, presso di noi e, più recentemente, di Virgilio”.
Defīgi quidem diris precationibus nemo non metuit. huc pertĭnet ovorum,
2 quae exorbuerit quisque, calices coclearumque protinus frangi aut […]
3 perforari. hinc Theocriti apud Graecos, Catulli apud nos proximeque
4 Vergilii incantamentorum amatoria imitatio.
NH 28, 19 (2)
Note al testo: -riga 1: defīgi infinito presente passivo di defīgo, xi, xum, ĕre‘, lett. ‘immobilizzare’,
cioè ‘stecchire’, verbo fondamentale del lessico “magico”; precationibus, lett. ‘formule di preghiera’,
le abbiamo già viste usate dalle Vestale. Ma mentre, in quel caso, il lettore ‘istintivamente’ potrebbe
avere il dubbio, trattandosi di sacerdotesse, che la magia potesse entrarci poco a vantaggio della
religione, ora abbiamo la certezza di quello che non ci siamo stancati di ribadire: categorie come
religione e magia sono legate a Roma (e pure con la medicina) e queste “formule di preghiera” sono
in realtà la stessa cosa dei mala carmina dell’età repubblicana, come dimostra l’aggettivo dirus, a,
um ‘malvagio’, sinonimo di malus, a, um. Nemo non, lett. ‘nessun non’ che, dato l’uso delle
negazioni in latino (doppia negazione=affermazione) vale ‘tutti’. Metuit ‘3a pers. pf. ind. di metuo,
ŭi, ūtum, ĕre ‘temere’. Huc avv. di moto a luogo, lett. ‘(verso) qui’. Pertinet lett. ‘attiene’.
L’espressione huc pertinet, che regge gli infinitifrangi e perforari, può tradursi ‘a questo rimanda (il
fatto che)’. –riga 2: costruisci: frangi aut perforari calices ovorum coclearumque quae quisque
exorbuerit, cioè ‘(il fatto che) sono rotti o perforati i gusci delle uova e delle chiocciole che ciascuno
avrà sorbito’; exsorbeo,ui, ēre ‘sorbire’. –riga 3: hinc , avv. di moto da luogo ‘da qui’, sottinteso sunt
‘cio ‘vengono (lett. ‘sono’) –righe 3-4: costruisci: hinc (sunt) imitatio amatoria incantamentorum
Theocriti apud Graecos, Catulli apud nos proximeque Vergilii, cioè, lett.: ‘da qui l’imitazione
amatoria degli incantesimi [=l’imitazione degli incantesimi amatorii] di Teocrito presso i Greci, di
Catullo presso di noi e, più recentemente, di Virgilio”.
NH 28, 19 (3)
Si tratta ancora di una pratica “magico-superstiziosa”, cui si aggiunge, interessantissimo per noi, un
riferimento letterario a scrittori che, evidentemente attraverso i brani che di essi abbiamo letto,
affrontano il tema magico. Si tratta dei già visti passi di Catullo e di Virgilio, che nell’Ecloga VIII imita
appunto dalle Incantatrici di Teocrito, l’unico autore “greco” citato da Plinio. La cosa importante è
che Plinio riunisca nella stessa “mappa concettuale”, per così dire, sia una pratica magico-
superstiziosa, sia una di quelle pratiche che per noi sono “magia” in senso stretto come gli
incantesimi erotici, quelli fatti per attirare a sé una persona amata. Si tratta di una conferma
ulteriore che anche all’epoca di Plinio i due campi non sono separati per i Romani, e che il “mondo
magico” romano comprende filtri amorosi e pozioni medicinali in una stessa categoria insieme ad
incantesimi amorosi e formule di preghiera recitata per ottenere una “grazia”, come si direbbe in
termini cristiani. Ma che si tratti di magia a tutti gli effetti, anche per le pratiche che abbiamo
definito “magico-superstiziose”, è confermato dall’uso pliniano di una parola chiave del mondo
magico latino come il verbo defigĕre, che abbiamo tradotto in termini più affini alla nostra cultura
con ‘colpire’, ma che in realtà significa ‘immobilizzare’ (cfr. la formazione da de+ figo, verbo che
significa ‘fissare’ e ‘conficcare’, quindi defigere ‘rendere immobile’). Qui Il senso sembra affine a
quello del nostro ‘(far) restare di stucco’. Quest’ultima sarebbe probabilmente la traduzione
migliore, visto che, come vediamo bene dal passo di Plinio, si tratta proprio del verbo usato per
indicare l’effetto di una pratica magica su qualcuno.
Defigere
Sennonché, la traduzione ‘far restare di stucco’, ottima sul piano della corrispondenza etimologica,
implica per noi stupore (si pensi alla frase ricorrente di un celebre personaggio dei cartoni animati)
e non ha nulla a che vedere con il fatto che le defixiones indicano, dall’epoca imperiale in poi, vere e
proprie pratiche di “magia nera”, cioè quelle legate alle maledizioni rivolte contro una persona
particolare.
Un’occhiata alle attestazioni del verbo defigĕre in latino evidenzia come si tratti originariamente di
un verbo della lingua religiosa usato in età repubblicana. Cicerone, nel De legibus (2, 8), lo usa con il
senso di ‘dichiarare in modo definitivo’: senza alcuna possibilità, insomma, di tornare indietro.
L’idea è sempre quella, implicita nel senso basico del verbo figere, di rendere immutabile, quindi di
‘fissare’ qualcosa. Questo in ambito religioso (ma come visto i due piani, religioso e magico, non
sono così separabili…). Il primo uso in ambito propriamente “magico” si trova solo in età augustèa,
nella elegia 7 del libro 3 degli Amores di Ovidio (43 a.C-18 d.C). Si tratta di uno dei grandi poeti
elegiaci di età augustèa, sicuramente il più prolifico fra i tre di cui ci sono rimasti i componimenti (gli
altri due sono Tibullo e Properzio) e certamente, prima di cadere in disgrazia ed essere esiliato da
Augusto nel Ponto (8 d.C), il più celebrato. Gli Amores sono una raccolta di elegie in tre libri, che
presenta tutti i topoi tipici dell’elegia latina: il poeta innamorato, una relazione non ufficiale,
desiderio e gelosia, i tradimenti della donna amata ecc. Ma, a differenza degli altri due elegiaci, in
Ovidio prevale lo scherzo e l’autoironia su una passione stravolgente, “totalizzante”.
Am ores 3, 7
Ci serviremo, come si sarà capito, di Ovidio per entrare in quest’altro fondamentale ambito della
magia romana, quello della magia nera e delle defixiones ad essa legate. Stavamo giustappunto
approfondendo il legame tra l’etimologia del verbo defigere e la pratica magica ad essa legata.
Torniamo agli Amores. Siamo nel terzo ed ultimo libro, elegia 7, versi 23 sgg. Siamo in una situazione
molto critica per il nostro poeta, che, come tutti i poeti elegiaci, riferisce in prima persona
esperienze legate alle sue pene amorose (ma in seguito Ovidio aprirà il genere elegiaco ad ambiti
tematici molto più ampi): si trova infatti a letto con Corinna, la donna amata. Una personaggio che
Ovidio, a differenza degli altri poeti elegiaci, dipinge in modo piuttosto evanescente, senza
attribuirle un carattere definito (niente a che vedere, insomma, con la Lesbia di Catullo o con la
Cinzia di Properzio). Sennonché Corinna ha senz’altro “un corpo incantevole” ed è il momento di
approfittarne. Ma stavolta, al contrario di altre volte in cui si è comportato in modo particolarmente
onorevole fornendo “prestazioni” di grande rilievo, il fisico del poeta non risponde, diciamo così,
alle esigenze della situazione, con tutto quello che da ciò, come s’immagina, può seguire. Inizia
dunque un dialogo del poeta con se stesso, un dialogo fatto di vergogna, imbarazzo, tentativi vani di
rimediare una situazione ormai compromessa, e soprattuto cercare di capire i perché di questa
débâcle. Tra le tante ipotesi che Ovidio fa a se stesso, quella cui dar più credito (e del resto la più
comoda da molti punti di vista) ha proprio a che fare con la magia. Vediamo in che modo leggendo il
passo in questione.
Am ores 3, 7 (2)

“Eppure di recente due volte la bionda Clide, tre la procace Pito e tre Liba, furono sottoposte di
continuo alla mia prestazione; e ricordo che nello spazio limitato di una notte Corinna pretendeva
da me, ed io li ho retti, nove “numeri”. Il mio corpo, stregato da un miscuglio di Tessaglia, mica viene
meno? Mica mi stanno danneggiando, misero (che sono), una formula e un’erba magica, o una
maga ha stregato il mio nome su una rossa cera e ha spinto aghi sottili in mezzo al fegato? Colpita
dalla formula [magica], Cerere [=il grano] svanisce in sterile erba; colpite dalla formula le acque
della fonte vengono meno, le ghiande (cadono) dai lecci e l’uva incantata cade dalle viti, e i frutti
cadono senza nessuno che li tocchi”.
1 at nuper bis flava Chlide, ter candida Pitho,
ter Libas officio continuata meo est;
exigere a nobis angusta nocte Corinnam
me memini numeros sustinuisse novem.
5 Num mea Thessalico languent devota veneno
corpora? num misero carmen et herba nocent,
sagave poenicea defixit nomina cera
et medium tenues in iecur egit acus?
carmine laesa Ceres sterilem vanescit in herbam,
10 deficiunt laesi carmine fontis aquae,
ilicibus glandes cantataque vitibus uva
decidit, et nullo poma movente fluunt.
Am ores 3, 7 (3)
Note al testo: -riga 1: nuper avv. ‘di recente’; bis ‘due volte’, ter ‘tre volte’. -riga 2: continuata est, 3a
p. pf. pass. di continuo, are , lett. ‘unire’, ‘mettere insieme’, che qui si può tradurre ‘fu sottoposta di
continuo’; officio meo, lett. ‘al mio dovere’. –riga 3-4: costruisci: memini Corinnam exigĕre a nobis,
angusta nocte (et memini) me numeros sustinuisse novem, cioè: ‘ricordo che Corinna pretendeva da
noi (=da me) in una notte angusta (= nonostante la notte fosse breve) ed io ricordo di aver retto
nove numeri’. Exigere ‘esigere’, cioè ‘pretendere’, si costruisce con a + abl. della persona da cui si
pretende. –riga 4: sustinuisse, inf. perf. da sustineo, tinui, tentum, ēre, lett. ‘aver sostenuto’. –righe
5-6: Num è avverbio interrogativo che introduce una domanda retorica a risposta negativa. La
traduzione migliore resta ‘mica…?’. mea corpora ‘il mio corpo’, lett. ‘i miei corpi’, ma è plurale
cosiddetto “poetico” (ovvero il plurale, che forma un dattilo, entra più facilmente nel metro del
singolare). Thessalico veneno, ‘miscuglio d’erbe tessalo’: la Tessaglia è la terra in cui Medea, la maga
più celebre del mito, si trasferisce quando sposa Giasone, che ne diventa re grazie al suo aiuto (poi
tradito). Devōta, dal verbo devoveo: lett. ‘devoti’, ‘votati’, cioè ‘tenuti attaccati’, nel senso di
‘stregati’. Si tratta di un vero e proprio sinonimo di defigo, con cui il verbo condivide il significato di
‘bloccare, immobilizzare’. Anche la devotio, infatti, era un incantesimo di magia nera, come la
defixio, con la differenza che la prima aveva dimensione pubblica, la seconda privata (vd. pag. 124
del testo di Graf, ed in generale, sulle defixiones, approfondire il cap. 5) (continua).
Am ores 3, 7 (4)
Note al testo (continua): –riga 6: misero, sott. mihi, cioè ‘a me misero’, dipende da nocent, lett.
‘nuocciono’. –riga 7-8: costruisci: sagave defixit nomina [sott. mea] poeniceā cerā et egit tenues
acus in medium iecur, cioè ‘o una maga ha stregato [lett. ‘fissato’ con la magia] il mio nome su una
[tavola di] cera rossa e ha spinto dei tenui aghi in mezzo al fegato’. Ho tradotto defixit con ‘stregare’,
che si usa anche nel senso di ‘far rimanere di stucco’ (ma esclude il nostro legame fuorviante con un
certo cartone animato…). Poeniceā cerā, ablativo, si tratta della tavoletta di cera che, con le lamine
di piombo ed il papiro, era il supporto scrittorio più diffuso dell’antichità. Vedremo nel commento in
cosa esattamente consistono questi riti di defixio, la maggior parte dei quali è stata trovata scritta su
lamine di piombo (continua). –riga 9: Ceres è la dea delle messi, quindi, per estensione, le messi
(continua). Laesa, part. pf. da laedo ‘ledere, colpire’, quindi ‘colpita’ dal carmen (magico); carmine è
infatti abl. di causa efficiente, come alla riga seguente. –riga 10: deficiunt ‘vengono meno’, ha come
soggetto fontis aquae; mentre (riga 11) decĭdit ‘cade’ ha come sogg. uva e, attraverso un sottinteso
decĭdunt, il precedente glandes ‘ghiande’; ilicibus e vitibus sono abl. dipendenti da decidere: traduci
[non c’è bisogno di “costruire” secondo l’ordine delle parole italiane]: ‘(cadono) dai lecci le ghiande
e, incantata, dalle viti cade l’uva’. –riga 12: nullo movente, abl. assoluto, lett. ‘non muovendo(li)
nessuno’.
Am ores 3, 7 (5)
Commento. Al di là della situazione, estremamente chiara, descritta da Ovidio come solo lui può
fare, risultano fondamentali per la nostra indagine le righe 5-8. Le ripropongo:
“Il mio corpo, bloccato (devotus, a, um) da un miscuglio d’erbe (venenum) di Tessaglia, mica viene
meno? Mica mi stanno danneggiando, misero, una formula (carmen) e un’erba magica, o una maga
ha bloccato (defixit) il mio nome su una rossa cera e ha spinto aghi sottili in mezzo al fegato”.
Nella traduzione proposta sopra ho tradotto i sinonimi devoveo e defigere con “ha stregato”, ma
qui, visto che siamo ad analizzare, ho preferito il senso basico di ‘immobilizzare’, ‘bloccare’, anche se
quest’ultimo per noi non possiede nessun riferimento al mondo magico. Sia come sia, è chiaro che
questa “maga” può essere senza dubbio un equivalente della nostra “strega”. A proposito di strega,
Ovidio usa il termine saga, aggettivo legato al verbo sāgĭo, īre ‘presagire’ (ma il significato basico è
‘percepire acutamente’, si dice del fiuto dei cani) che sottintende il sostantivo mulier, o femina, cioè
‘donna presaga’ (le “maghe” non si occupavano solo di defixiones ma anche di divinazione). Ma
torniamo all’ipotesi magica di Ovidio. Si tratta naturalmente di “magia nera”, cioè di stregoneria.
Anzitutto il poeta pensa ad una pozione magica; la parola usato è proprio venenum, di cui abbiamo
già parlato a proposito di Sallustio nella lezione 17. Qui però la parola non sembra possedere quella
medietas, quella neutralità, che caratterizzava la testimonianza sallustiana: non c’è infatti nessun
aggettivo che connoti questi ‘miscugli di erbe’, il che fa propendere per un definitivo spostamento
verso la sfera ‘malvagia’.
Am ores 3, 7 (6)
Questa idea che si tratti di un venenum “malvagio" è rafforzata dall’aggettivo Thessalicus,a,um ‘della
Tessaglia’; il rimando è naturalmente a Medea, cioè alla maga per eccellenza del mito, a cui
quest’ultimo attribuisce celebri atti di stregoneria. Ma che si tratti una pozione magica usata a scopi
maligni è chiaro anzitutto dall’uso dell’aggettivo devotus ‘fisso, bloccato’, detto del corpo del poeta
(con inevitabile riferimento ad una parte specifica). Abbiamo già anticipato come la devotio sia un
rito di maledizione praticamente identico alla defixio e come entrambi i verbi da cui questi sostantivi
derivano rimandino al significato di ‘immobilizzare’, ‘bloccare’.
Anche la seconda domanda retorica che Ovidio si pone sulle cause della propria inaspettata (e a
sentir lui incredibile) impotenza si muove su un territorio che conosciamo bene come quello dei
carmina e delle pozioni a base di erbe.
L’elemento decisamente nuovo è invece rappresentato dall’ipotesi che viene per ultima: “o una
maga ha bloccato (defixit) il mio nome su una rossa cera e ha spinto aghi sottili in mezzo al fegato?”.
L’impressione è quella di trovarsi di fronte a pratiche per noi oscure ma che, chiaramente, per un
romano dell’epoca di Ovidio dovevano essere (ed infatti abbiamo prove molto ampie che fosse così)
pratica ordinaria. Si tratta infatti di uno scenario che gli studiosi non esitano a definire come tipico di
una defixio. Ovidio, insomma, si sente la vittima di un rito di magia nera e nel ricostruire il possibile
svolgersi degli eventi nel “laboratorio” della strega, ci riporta almeno due momenti fondamentali di
una defixio.
Defix io : tipologie
È stupefacente (o forse no) constatare l’altissimo numero di testimonianze relative alle nostre
defixiones che ci sono arrivate dall’archeologia. E questo è anche il motivo per cui le defixiones, cioè
i malefìci, riti magici rivolti contro persone precise, sono stati molto più studiati di altri aspetti della
magia antica. Nel rimandare, sulle defixiones, al capitolo ad esse dedicato da Graf nel testo d’esame
(pag 115 sgg.), cerchiamo di riassumere quei punti essenziali che ci permetteranno, tra l’altro, di
interpretare correttamente tutti i riferimenti presenti nel passo di Ovidio.
Le defixiones erano fondamentalmente delle richieste di aiuto alle divinità degli inferi, considerate le
divinità del male anche nel mondo antico, affinché prendessero “in consegna” e danneggiassero
una persona odiata per vari motivi: in testa, naturalmente, l’amore; ma frequentissime anche le
documentazioni ritrovate su defixiones di altro genere, tanto che Auguste Audollent, lo studioso
francese che riunì tutti i testi greci e latini relativi alle defixiones non compresi nelle celebri
Inscriptiones Graecae di Richard Wuensch (1897), tentò di classificarle. Nell’opera Defixionum
tabellae scritta nel 1904, Audollent individuò 5 tipi di defixiones: Quelle che lui chiama iudicariae,
“con cui si cerca di nuocere agli avversari di un processo” (Graf); quelle amatoriae “che hanno per
scopo di suscitare un amore appassionato nella persona amata” (Graf); quelle agonisticae “nel
contesto agonistico del circo o di altri spettacoli” (Graf); quelle contro ladri e calunniatori e quelle
contro rivali per questione economiche.
Defix io : il rito
Veniamo adesso alla descrizione della pratica relativa ad una defixio, magari proprio quella che
Ovidio pensa di aver subito (probabilmente una defixio amatoria). Qualcuno, di cui Ovidio non è a
conoscenza, deve essere andato da una specialista in malefici, una saga, come la chiama il nostro, a
chiederle di operare una defixio. La saga avrà chiesto particolari sulla vicenda, dopodiché avrà
preparato gli strumenti della defixio. Prima avrà modellato, o fatto modellare dal cliente, una
statuetta della persona da colpire. Le istruzioni al riguardo, riportate in un papiro egiziano e citate
da Graf (p. 134), parlano proprio di “cera”. La figura dovrà essere somigliante alla vittima e dovrà
essere rappresentata inginocchiata e con le braccia legate dietro la schiena. Poi le istruzioni dicono
di prendere 13 aghi di bronzo e di conficcarli nel cervello, nelle orecchie, negli occhi ecc. con una
formula precisa che recita “io trafiggo la tale parte della tale persona affinché essa pensi solo a me”
(cit. in Graf, p. 134). Poi, pronunciando altre parole precise, bisogna prendere un supporto
scrittorio, che di solito è una lamina di piombo (ma può essere anche cera o papiro, come detto) in
cui incidere la stessa formula pronunciata, accompagnandola da altri gesti e parole rituali. Una volta
preparato (spesso si inserisce la figurina dentro una scatola di piombo con il testo scritto sulla
lamina che fa da coperchio), si deve affidare il tutto al “postino infernale”, che sarà un persona
morta (meglio se prima del tempo) nella cui tomba si getterà la lamina che da essa verrà
cortesemente recapitata, se non ad Ade o Proserpina in persona, anche, più semplicemente, a
demoni infernali di rango meno elevato incaricati di “prendere il controllo” sulla vittima.
Defix io : il rito (2)

Nella prossima pagina si può vedere l’immagine (tre pose della stessa figura) di una statuetta di
defixio ritrovata in Egitto, all’interno di una tomba. Questa celebre e impressionante statuetta
“vudù”, probabilmente risalente ai primi secoli d.C., era contenuta dentro una scatola, insieme alla
relativa lamina di defixio. Oggi conservata al Museo del Louvre, la figurina ritrae una giovane donna,
nuda, inginocchiata, legata e infilzata da 12 aghi nelle parti del corpo che servono al contatto con
l’esterno, quello che si vuole “bloccare” (defigere); le parti in questione sono quelle del contatto
percettivo e intellettuale (cervello, bocca, occhi), quelle del contatto fisico (mani e piedi) e quelle
del contatto sessuale (vulva, seno, natiche).
Storia pliniana della magia
Ed eccoci di nuovo a Plinio, che avevamo lasciato nella lezione 30 per occuparci della magia nera a
Roma. Passiamo ora dal libro XXXVIII al libro XXX, nella cui parte iniziale, come si ricorderà, Plinio
traccia una “breve storia della magia”. Come vedremo il suo atteggiamento al riguardo presenta
delle differenze nette rispetto a quello che avevamo scoperto sulla magia a Roma in età
repubblicana. Perciò si tratta per noi di una testimonianza fondamentale: perché marca l’emergere,
in età imperiale, di una concezione molto diversa di “magia”. Ma andiamo per ordine.
Il libro XXX è il terzo dei libri sui rimedi medicinali tratti dagli animali. Mentre il libro precedente
inizia con una “breve storia” della medicina, qui Plinio fa altrettanto, ma con la magia. È importante
ricordare che la magia è citata dall’erudito comasco in un contesto relativo al sapere medico. Si
ricorderà come per Catone medicina e magia fossero più o meno la stessa cosa, ma, come emergerà
da questi passi pliniani, le cose adesso sono ben diverse. Il fatto di trovarsi in un contesto medico
condiziona sicuramente Plinio, che rispetto alla magia ha assunto l’atteggiamento dei medici greci,
da lui del resto in gran parte utilizzati nelle parti mediche della Naturalis Historia. Avevamo già visto,
nella lezione 4, come per i Greci si tratti di una differenza che non è da porsi in termini di razionalità
vs. irrazionalità come faremmo noi oggi, alla luce della nostra mentalità occidentale e post-
illuministica. Si tratta solo di un sistema che parte da pemesse sbagliate: è quindi un problema di
“cosmologia” come direbbero gli antropologi, e non di razionalità.
Storia pliniana della magia (2)
I medici greci, di cui Plinio riprende le posizioni, criticavano infatti i mágoi proprio per la loro
concezione cosmologica “sbagliata” in particolare con riferimento agli dei in quanto fautori di rimedi
medici efficaci se correttamente interprellati dai mágoi stessi. Così facendo uscivano da quello che
per i medici greci era uno studio “naturale” facendovi entrare elementi soprannaturali. Sarà proprio
per questo che i toni assunti da Plinio appaiono davvero molto duri. Il libro XXX inizia infatti con le
parole magicas vanitates, cioè le “magiche imposture”, e ribadisce la posizione di Plinio al riguardo:
egli combatterà con tutte le sue forze questa che è fraudolentissima artium, ovvero “la più
fraudolenta delle arti”. Si noti che la magia ha a tutti gli effetti rango di ars, cioè di “tecnica”,
esattamente come la medicina. A questo proposito è importante notare che in tutta la NH Plinio
non usa mai il termine magheía, bensì sempre le locuzioni magicas vanitates ‘magiche imposture’ e
il prestito greco magiké (sott. téchnē) = lat. magica (sott. ars), cioè ‘arte magica’.
Proprio per questo, perché è un’ars, si pone come pericolosa, e tanto più perché, Plinio ne è
consapevole, “ha esercitato la più grande influenza in ogni luogo e quasi in ogni tempo”. Ma qual è il
motivo di questo successo della “magia” (come la intende Plinio)? L’autore latino non ha dubbi sul
motivo: la magia ha infatti “abbracciato (complector) le tre altre artes che hanno il massimo potere
(imperiosissimae) sulla mente umana”. Si tratta, prosegue Plinio, della: medicina, della religione, e
dell’astrologia.
Storia pliniana della magia (3)
Ma non basta. Rispetto a queste tre artes di cui la magia si è impossessata, “nessuno dubiterà che
essa sia nata prima di tutto dalla medicina (natam primum e medicina nemo dubitabit)”. Questo
perché “fingendo di promuovere la salute si è insinuata nell’umanità come una medicina più alta e
più autorevole”; ed avrebbe fatto ciò “attraverso le risorse della religio, rispetto alle quali ancora il
genere umano brancola nel buio” (mantengo il termine latino religio poiché, come visto, il
significato dela parola comprende sia la nostra “religione” che la nostra “superstizione”). Infine, per
completare il suo successo universale, “ha aggiunto le artes mathematicas, non essendoci nessuno
che non sia avido di conoscere il proprio futuro e che non creda che queste informazioni si possano
ottenere nel modo più verace dal cielo”. Naturalmente con artes mathematicae Plinio intende qui
l’astrologia, la scienza che attraverso i numeri indaga il futuro: siamo, insomma, di nuovo nel campo,
già visto della divinazione. Quindi: la magia si è affermata a partire dal campo medico,
impossessandosi contemporaneamente delle risorse della religio e di quelle della tecnica
divinatoria.
Plinio prosegue la sua storia parlando di come la magia si sia diffusa a Roma dalla Persia di
Zoroastro, la terra in cui ha avuto origine, passando attraverso una lunga tradizione che tocca Circe
e le sirene omeriche ma anche filosofi come Pitagora, Empedocle, Democrito e Platone. È in
particolare a Democrito che Plinio assegna la massima colpa di aver diffuso la magia nel mondo
greco-romano con i suoi scritti influentissimi.
Storia pliniana della magia (4)
Di nuovo l’ottica di Plinio è “medico-centrica”, visto che parla di una “meravigliosa coincidenza”:
quando Democrito diffonde e sviluppa in “occidente” la magia, Ippocrate sviluppa la medicina.
Comunque sia, dal resoconto pliniano emerge che la magia ha un suo percorso di ars coerente nei
secoli.
Un'altra caratteristica fondamentale della magia in Plinio è che si tratta di una cosa che viene da
fuori, non di una cosa romana; il che non si sposa certamente con l’atteggiamento etnocentrico
dell’erudito comasco.
Riassumendo: Plinio accoglie sulle “imposture magiche” il punto di vista dei testi medici greci e
condanna la magia soprattutto perché “si sostituisce” alla medicina usando gli strumenti della
divinazione. Ma è chiaro che in questo libro XXX la sua concezione della magia non solo è molto
diversa, come ci si aspetta, dalla nostra, ma anche molto diversa dalla concezione della magia in età
repubblicana che abbiamo già visto. Anzitutto Plinio non tocca la “magia nera”, cioè le defixiones, e
neppure le “superstizioni magico-religiose” cui aveva fatto allusione nel lbro XXVIII in termini ben
più pacati e molto più “antropologici”. Semplicemente: queste non sono per lui "magiche
imposture”, ma pratiche ben radicate nella tradizione romana. Plinio, insomma, guarda alla magia
con le categorie culturali di certi intellettuali greci (medici, si badi bene, non filosofi!) introducendo
un elemento etnocentrico come quello della non romanità; tutto ciò spiega il giudizio
pesantemente negativo sulla magia nel libro XXX.
M agicus in Plinio
Come notato nella lezione precedente, l’atteggiamento pliniano sulla magia presente nel libro XXVIII
era, dal nostro punto di vista, diverso da quello del libro XXX. Questo è vero, sì, ma solo se si adotta
il nostro modo “moderno” di intendere la magia. Ad esempio, per noi sia i rimedi medico-magici
che gli incantesimi fanno parte di una stessa “sfera” della realtà che definiremmo “magica”. Per
Plinio sicuramente non è così. Ambiguo semmai è l’uso pliniano del termine magicus. Come visto,
nella sua ‘sparata’ contro la magia quando nel libro XXX ne traccia la storia, Plinio usa
espressamente il termine magicus (parla infatti di “imposture magiche” o magicas vanitates). Qui
certamente il termine sembra aver perduto quella neutralità etnografica che avevamo notato
nell’uso dagli autori del periodo repubblicano, quando magicus significava qualcosa che riguardasse
il popolo dei ‘magi’, ovvero un sinonimo di ‘persiano’, senza connotazione alcuna. Ma è
propriamente un termine negativo in sé? La risposta è chiaramente no. L’aggettivo adesso denota
attività operata nella sfera magica che in sé non sono negative, come mostra l’uso stesso
dell’espressione magicae vanitates, in cui l’accezione negativa è data dal sostantivo vanitas
‘impostura’, e non dall’aggettivo magicus. Quindi, a giudicare dal libro XXX, magicus significa:
(1) “che riguarda l’arte magica”. Quest’ultima intesa come una tecnica che combina in sé i saperi di
altre tre artes, ovvero della medicina, della religione e della divinazione astrologica.
M agicus in Plinio (2)
Se adesso torniamo al “proemio” del libro XXVIII, si ricorderà come qui non si parlasse affatto di
magica ars nel senso visto in (1), e tantomeno Plinio sparava a zero contro le magicae vanitates. Lì
si trattava di esempi di superstizione cha abbiamo definito “magico-religiosa” o anche di magia
nera. Ma Plinio non si riferiva a tutto ciò usando il termine magicus. Parlava invece di (dirae)
praecationes, di incantamenta, di defixiones e di carmina. Detto questo, appare molto facile la
conclusione seguente: Plinio usa magicus solo nell’accezione (1), cioè come ars magica; tanto è
vero che in tutti gli altri casi (incantamenti, excantamenti, superstizioni magico-religiose, defixiones)
usa di volta in volta i classici termini “magici” d’età repubblicana come carmen, in-cantamentum, ex-
cantatio, veneficium ecc. Una ricerca anche superficiale delle attestazioni di magicus nella HN
mostra però che non è sempre così. Cioè che Plinio usa magicus anche per questi altri casi, e quindi,
in un certo senso, lo usa in modo simile a come faremmo noi. Le attestazioni sono poche (4 su 23),
ma tanto basta. Vediamone una, presente in NH 28, 105. Plinio sta elencando, com’è solito fare, una
serie di rimedi tratti dagli animali. Molti sono quelli che riguardano la iena:

“(Dicono) che gli escrementi o le ossa presenti quando (la iena) è uccisa sono potenti contro le
insidie magiche”
M agicus in Plinio (3)
Note al testo: reddĭta, part. perfetto da reddo ‘rendere’, lett. ‘rese’; interimatur, 3a persona sing.
cong. passivo di interĭmo ‘uccidere’; pollēre, inf. da polleo ‘essere valido, potente’. L’infinito dipende
da un sottinteso verbo dicunt ‘dicono’.
Commento. È chiaro in questo passo come, con insidiae magicae, Plinio prenda in considerazione la
magia nera e non certo la magia “medico-divinatoria”. Si tratta, per insidiae magicae, di un
sinonimo di malum carmen, o di veneficium.
È la prova di quello di cui ci eravamo già accorti. Plinio ha un’idea della magia coerente con le
necessità didattiche della sua opera e cerca perciò, all’inizio di una sezione importante come quella
medica nel libro XXX, di tracciare in modo chiaro per il lettore romano i confini della sua ‘parte
pericolosa’. Il suo uso incoerente nel corso dell’opera del termine magicus, applicato anche
all’ambito della magia nera, mostra che probabilmente l’aggettivo stava prendendo quel significato
che ritroveremo nella seconda età imperiale, cioè di “magia” pressappoco nel senso in cui la
intendiamo noi.
Del resto, che l’idea così negativa sulla magia espressa da Plinio all’inizio del libro XXX fosse frutto di
una posizione dottrinale più che di una convinzione personale o anche (cosa che più ci interessa qui)
della mentalità romana, emerge in modo diretto da un’osservazione fatta da Plinio nello stesso libro
30, apparentemente en passant (e perciò tanto più preziosa).
Magia “culturale” in Plinio
Avevamo parlato di una osservazione fatta en passant da Plinio, in grado di confermarci come la
nozione di magia da lui espressa nel libro XXX sia figlia di una posizione dottrinale e didascalica,
legata sicuramente all’intento formativo ed enciclopedico della sua opera, più che di una tendenza
culturale, cioè relativa alla mentalità magica in vigore nel suo gruppo umano. Plinio del resto aveva
confermato di “credere” nella magia nel libro XXVIII.
L’osservazione è contenuta in NH XXX, 17
“Insomma si può essere persuasi così: che (l’arte magica) è detestabile, inutile, vuota, pur avendo
tuttavia certe ombre di verità”
proinde ita persuasum sit, intestabilem, inritam, inanem esse, habentem tamen
quasdam veritatis umbras

Note al testo: persuasum sit, 3a. persona sing. perfetto passivo di persuadeo, es, suasi, suasum, ēre
‘persuadere’. Il verbo è costruito impersonalmente al passivo, con il dativo (qui un nobis sottinteso)
della persona che è persuasa. Lett. ‘fu persuaso a noi’. Lo stesso persuasum sit regge l’infinitiva
seguente: intestabilem, inritam ecc. (sott. artem magicam) esse cioè: ‘che l’arte magica è
detestabile, inutile ecc.’; habentem tamen, lett, ‘tuttavia avendo’, ma qui tamen conferisce al
participio presente valore concessivo ‘pur avendo’.
Magia “culturale” in Plinio (2)
Insomma, Plinio non può nascondere la propria appartenza and una cultura come quella romana in
cui la magia era una cornice interpretativa onnicomprensiva, cioè parte integrante non solo
dell’immaginario religioso, ma anche di quello medico e, più ampiamente, cosmologico-esistenziale,
come dimostrano i casi di superstizione magico-religiosa analizzati qualche lezione fa. In fondo si
tratta di aspetti che sembrano, dove più latenti, dove meno, estremamente diffusi a livello
interculturale, non ultimo, come sappiamo bene, nella nostra società odierna. Ed ora come allora ci
sono affaristi pronti a farne un business. Mentre scrivo queste lezioni ogni tanto utilizzo la rete,
oltre che i libri “veri”, per rintracciare dati bibliografici che potrebbero, affidati solo alla memoria,
risultare un po’ evanescenti e, cercando delle informazioni a proposito di un lavoro su Apuleio, il
celebre oratore-mago di cui tra pochissimo parleremo, mi è balenato sullo schermo più di un
“banner pubblicitario” che, evidentemente prendendo la mia ricerca come una richiesta di aiuto
magico da parte di un professionista, cercava di convincermi a consultare questo o quel “sensitivo”,
“mago” ecc. per una “Legatura [sic] amorosa”. Data la situazione, non ho potuto fare a meno di
notare come questa “legatura” rimandi in modo estremamente preciso alla ritualità delle
defixiones, nonché, addirittura, al termine con cui queste erano chiamate dai greci: katádesmoi,
cioè, letteralmente ‘legature’. Al solito, si tratta di analogie tra culture umane diverse, stupefacenti
fino ad un certo punto. Una società complessa la nostra, dove la magia convive con la scienza… Ma
non era così, sempre con i debiti distinguo, anche in quella di Plinio?
Apuleio
Ma andiamo avanti, sempre utilizzando Plinio come nostro informatoresul campo, con la nostra
indagine antropologico-letteraria della magia nel Mondo Antico. Lo facciamo stavolta seguendo più
da vicino Graf, che andiamo a raggiungere nel capitolo terzo del suo libro, quello intitolato “Ritratto
del mago, visto dall’esterno”. Mentre tutto il capitolo è dedicato per l’appunto ad Apuleio, il primo
paragrafo (“Preludio repubblicano”, a pag. 59) ci riporta ad una splendida pagina pliniana su un caso
giudiziario in cui l’imputato deve difendersi da un’accusa di magia.
Prima di entrare nell’aula del foro romano dove si svolge il processo descritto da Plinio, qualche
precisazione a proposito di Apuleio. Si tratta di un personaggio che non può non avere un posto di
rilievo in un corso come questo. Autore tardo, nato a Madaura, nell’odierna Algeria, attorno al 125
d.C., Apuleio era uno di quei conferenzieri itineranti, nonché maestri di retorica, che popolavano i
primi secoli dell’impero romano e che stupivano con applauditissime e seguitissime performances
oratorie il loro pubblico. Famoso per averci lasciato il secondo dei due grandi “romanzi”
dell’antichità latina (Le Metamorfosi o L’Asino d’oro), Apuleio è anche celebre proprio per i suoi
rapporti con la magia. La sua opera di riferimento in proposito è l’Apologia (da pronunciare
apològia) o Pro se de magìa Liber, ovvero ‘testo in proprio favore sulla magia’. Si tratta della
trascrizione dell’orazione pronunciata in propria difesa durante il processo che gli fu intentato con
l’accusa di aver usato le sue arti magiche per sedurre e sposare la ricca vedova Pudentilla, dai
parenti di lei.
Apuleio (2)
Apuleio vinse il processo. La sua orazione, ovviamente, vista l’accusa di mago e la relativa autodifesa
(apologia) condotta in prima persona da un letterato del suo calibro, ci permette una visione
privilegiata sulla nozione di magia all’incirca un secolo dopo Plinio (il processo si svolse nel 159).
Visto che a questo processo ed alla miriade di informazioni riferite da Apuleio è dedicato il terzo
capitolo del testo di Graf (che naturalmente invito caldamente a leggere) mi limiterò solo a
riassumere i punti fondamentali per noi. La cosa che risulta più notevole è la coincidenza pressoché
esatta, ma naturalmente con una valutazione della magia molto diversa, rispetto alla “breve storia
della magia” pliniana. La tesi di Apuleio è infatti che i suoi accusatori prendano per magia cose che
non sono tali non sapendo affatto che cos’è la magia. In un certo senso potrebbe sembrare una
mossa pericolosa. Apuleio infatti rivela di conoscere molto bene che cos’è la magia. Ma ciò, invece
di ingenerare sospetti ulteriori, convince i giudici. Anche perché, spiega Apuleio, esistono due tipi di
magia. La magia “vera” è infatti anzitutto un’ars buona e “gradita agli dei immortali, che questi sa
bene onorare e venerare”; ha una lunghissima storia che parte da Zoroastro e coinvolge personalità
del calibro di Pitagora, Empedocle o Platone, per il quale in particolare Apuleio non ha mai nascosto
una profonda ammirazione. Si tratta di personaggi cui Apuleio è orgoglioso di somigliare perché
“solleciti scrutano la provvidenza ordinatrice dell’universo e onorano devòti gli dei […]: mi
congratulo con me stesso di essere anch’io annoverato tra tanti e tali personaggi” (apol. 27).
Magia In Apuleio
Anche da questo breve stralcio emerge con chiarezza come torni, nella concezione di magia
manifestata da Apuleio, l’idea pliniana di un’ars con una sua lunga e ben consolidata tradizione, che
ha rapporti illustrissimi con la filosofia, ma che, soprattutto, si mette al servizio della religione
A questo proposito Apuleio dice cose molto significative quando parla della figura del mago: “Come
io leggo in numerosi autori, mago è nella lingua dei Persiani quello che è da noi il sacerdote; e allora
qual delitto è dopo tutto essere sacerdote, avere la conoscenza, la scienza, la pratica delle
ordinanze rituali, dei precetti della religione, delle regole del culto […] (trad. C. Marchesi)”.
Come si vede, Apuleio parte, sì, dalle premesse di Plinio, ma arriva ad una conclusione opposta: che
cioè la magia, proprio perché si occupa di cose divine, è buona e per di più gradita agli dei.
Sembra davvero che, sia nel caso di Apuleio, sia nel caso di Plinio, essere maghi a Roma rappresenti
ancora una nozione tipicamente media, cioè, in un certo senso, neutrale: il mago è anzitutto un
tecnico. Che poi, come fa Plinio, non si dia credito alla sua ars oppure lo si faccia, è un altro paio di
maniche. Si ricordi, a questo proposito, che la concezione negativa della magia derivava in Plinio
anzitutto dal fatto che la magia si sostituiva pericolosamente alla medicina. Tanto che lo stesso
Plinio, per enfatizzare il suo punto, aveva detto che, delle tre artes di cui la magia si è “appropriata”,
la medicina era quella da cui essa, “nessuno dubiterà di ciò”, aveva tratto la propria origine.
Magia In Apuleio (2)
Apuleio, al contrario di Plinio, non menziona mai il rapporto tra magia e medicina. E ne ha ben
donde, dal momento che in quel caso, invece degli illustri filosofi che prende in considerazione,
avrebbe dovuto citare i maghi-divinatori itineranti che si occupano congiuntamente di medicina,
divinazione e religione. Quest’ultima, si badi bene, non però, come dice Apuleio, situata in una
dimensione pubblica e quindi, nella mentalità greco-romana, “politica” (nel senso di pòlis ‘città’) per
eccellenza, bensì nella dimensione più trasversale e in certi casi più sospetta dei culti privati. Non è
infatti un caso che gli accusatori di Apuleio insistano proprio su questo punto asserendo, ad
esempio, che “Apuleio ha in casa un oggetto che adora religiosamente”. Non sorprende che Apuleio
non si difenda, come ci aspetteremmo, riprendendo coerentemente le sue premesse, cioè dicendo
che se così fosse non ci sarebbe nulla di male perché comunque la sua è la magia “buona” e gradita
alle divinità che attraverso di essa vengono opportunamente venerate. No, Apuleio sa che questa
dimensione, di culto privato rivolto a divinità sconosciute, non rientra tra le virtutes di un buon
romano. Del resto quando parla di magia buona e religiosa dice che i maghi “onorano devotamente
gli dei”, tradendo, in quel “devotamente” un riferimento alla religione “accettata” che ha come
oggetto gli dei rappresentanti e rappresentativi della comunità. A questo proposito, riconoscerà sì di
possedere una figurina in legno d’ebano che tiene in casa, ma specifica che è un piccolo Mercurio
ed una “statuetta non magica (magicus) ma solenne e comune” (apol. 63).
Magia In Apuleio (3)
Essenziale proprio l’aggettivo “comune” (commune), cioè ‘tipico della comunità sociale’
(communitas) in cui sia Apuleio sia i suoi accusatori vivono, a ribadire dunque la dimensione
condivisa, e quindi palesemente accettabile, dei suoi culti domestici. Del resto, come si ricorderà,
Plinio aveva iniziato la sua trattazione della magia riallacciandosi alla, a noi ben nota, prima
denotazione “etnografica” del nome magus (cfr. “che nella lingua persiana è quello che da noi è il
sacerdote”), senza, ovviamente, nessuna delle connotazioni etnocentriche che potevano spingere
altri romani (ed anche Plinio, in verità) a sminuire tale ruolo. Questo si deve indubbiamente anche al
fatto che all’epoca di Apuleio l’espansionismo è oramai finito e l’amministrazione romana si dedica a
realizzare in pieno la partecipazione paritaria di ogni provincia ad una rinvigorita unitarietà politica.
Siamo sotto il principato di Adriano, un imperatore costantemente in viaggio nelle zone più lontane
da Roma, fautore della realizzazione di un impero cosmopolita e universale. La paura dello
“straniero” è quindi del tutto assente dall’ottica di un romano del Nordafrica come Apuleio.
Riassumendo, il mago, in quella romana e in molte altre società è, come l’arte che egli pratica, figura
ambigua o meglio neutrale: la sua accettazione o meno da parte della comunità dipende da quali
tipi di magia egli pratica, quella “buona” o quella “cattiva” (la cui esistenza Apuleio non nega).
Questa elasticità dell’ambito magico, questa sua medietas, come l’avevamo definita, ci permette di
fare una riflessione sul ruolo sociale della magia che accomuna decisamente la realtà romana a
quella di altre culture, antiche o contemporanee.
Il processo a Cresimo
Abbiamo appena parlato della paura del diverso, inteso come diverso etnico. Tornando a Plinio, ci
imbatteremo in un’altra accusa di magia che si incentra, stavolta, sulla paura del diverso sociale. Ad
essa ci riallacceremo per quella riflessione interculturale sul “ruolo sociale” della magia che
avevamo promesso alla fine della lezione precedente.
Stavamo appunto entrando nell’aula di un processo per magia. Torniamo all’età repubblicana,
perché probabilmente il dibattimento giudiziario è del II sec. a.C. Ma è comunque Plinio (NH XVIII,
41-43) a parlarcene, ed a commentare con gli occhi di un romano del I sec. d.C. Ricordo che i libri
XII-XX della Naturalis Historia sono dedicati al mondo vegetale. Il XVIII in particolare è un
vademecum del buon agricoltore romano. Si sa quanto l’agricoltura fosse fondamentale nel sistema
economico del Mondo Antico, ed il mondo romano non fa eccezione. Si ricordi anche che
l’agricoltura ricopriva per un romano un ruolo speciale perché considerata l’attività dei padri per
eccellenza, quella che segna la forza fisica ma soprattutto quella spirituale e morale di un romano
autentico. Perciò, e non per la magia, Plinio riporta il fatto. Sul banco degli imputati figura Gaio Furio
Cresimo, accusato di excantatio dai suoi vicini. Graf sottolinea giustamente lo “scarto sociale” tra
costoro ed il nostro Furio Cresimo: quelli ricchi, questo un ex-schiavo divenuto liberto. Per giunta di
origine non romana, dato che il cognomen, Cresimus, è greco (si ricordi che, nel sistema onomastico
romano, dopo l’emancipazione, lo schiavo assumeva il nome personale come cognomen). I vicini
sono particolarmente invidiosi di Furio Cresimo, dato che i suoi campi producono più dei loro.
Il processo a Cresimo (2)
Non basta. Ad enfatizzare tanto più lo scarto sociale tra imputato e accusatori, Plinio ci dà
un’indicazione molto precisa per classificare questi ultimi come appartenenti all’élite dei ricchi
proprietari terrieri romani (ne parleremo nel commento al passo).
Ma Furio sa come difendersi, e costruisce un’orazione difensiva basata non tanto sulle parole
(comunque semplici ma estremamente efficaci), bensì su una straordinaria performance
certamente ben organizzata e preparata con cura. Ecco il testo pliniano:
“Gaio Furio Cresimo, un liberto, ottenendo nel suo campicello veramente piccolo dei frutti molto
maggiori di quanto i suoi vicini [li ottenessero] dai loro [campi] sterminati, era [tenuto] in grande
invidia, come se attirasse le messi altrui con delle stregonerie. Per tale motivo chiamato in giudizio
dall’edile curule Spurio Albino, temendo la condanna perché bisognava che andassero al voto le
tribù, portò in tribunale ogni [suo] strumento agricolo, condusse la sua servitù robusta e, come dice
[lo storico Calpurnio] Pisone, “ben curata e ben vestita”, gli strumenti di ferro forgiati
splendidamente, le pesanti zappe, i vomeri poderosi, i buoi ben pasciuti. Dopodiché disse: ‘Queste
sono le mie stregonerie, o Romani, e non posso mostrarvi o portare nel foro i lavori a lume di
candela, le veglie e i sudori’. E così fu assolto all’unanimità”.
Il processo a Cresimo (3)
1 C. Furius Cresimus e servitute liberatus, cum in parvo
admodum agello largiores multo fructus perciperet, quam
ex amplissimis vicinitas, in invidia erat magna, ceu fruges
alienas perliceret veneficiis. quamobrem ab Spurio Albino
5 curuli <aedile> die dicta metuens damnationem, cum in
suffragium tribus oporteret ire, instrumentum rusticum
omne in forum attulit et adduxit f<am>iliam suam validam
atque, ut ait Piso, bene curatam ac vestitam, ferramenta
egregie facta, graves ligōnes, vomeres ponderosos, boves
10 saturos. postea dixit: “Veneficia mea, Quirites, haec
sunt, nec possum vobis ostendere aut in forum
adducere lucubrationes meas vigiliasque et sudores.”
omnium sententiis absolutus itaque est.
Note al testo: -riga 1: cum…perciperet: costruisci: cum fructus multo largiores perciperet= lett.
‘ottenendo raccolti molto più abbondanti’; multo= ‘molto’ con comparativo (qui largior che regge il
successivo quam). –riga 3: costruisci: (fructus largiores) quam [sott. perciperet] vicinitas ex
amplissimis [sott. agellis]; cioè, lett. ‘(raccolti più abbondanti) di quanto i vicini [lett. ‘il vicinato’]
(percepisse) da (campi) ampissimi’. In invidia magna erat, lett. ‘era in grande invidia’ (continua).
Il processo a Cresimo (4)
Note al testo (continua): Ceu= seu, cioè ‘come se’, regge perlicĕret, impf. cong. da perlicio (o pellicio)
‘attirare, attrarre’; lett. ‘come se attraesse’. –riga 5: die dicta, abl. assoluto, lett. ‘stabilito il giorno’
(dicere qui = ‘stabilire’), ma l’espressione ha anche valore idiomatico, ovvero ‘stabilire il giorno del
processo’, quindi ‘chiamare in giudizio’. La traduzione è: ‘essendo stato indetto il processo dall’edile
curule Spurio Albino’ ; cum in suffragium… costruisci: cum oporteret tribus ire in suffragium, lett.
‘poiché bisognava che le tribù andassero al voto [=cioè votassero per la condanna o meno di
Cresimo; si tratta dunque di un processo di grande importanza pubblica]’; tribus è acc. pl.
dell’infinitiva dipendente da oportēret, cong. impf. dal verbo impersonale oportet ‘è necessario’; -
riga 7: attulit, 3a p. sing. pf. ind. da affero 'portare'; adduxit, 3a p. sing. pf. ind. da adduco 'condurre',
lett. ‘portò [instrumentum ecc.] e condusse’. Familiam, lett. ‘gli schiavi della casa’ (NB. non il nostro
‘famiglia’). -riga 8: ut ait Piso ‘come dice Pisone’; si tratta di Calpurnio Pisone Frugi, uno storico
romano di tradizione annalistica vissuto nell’età dei Gracchi. –riga 10: veneficia 'stregonerie', ne
abbiamo già parlato sopra (lez. 18); Quirites : Cresimo usa il termine più autorevole con cui
chiamare i romani in contesto civile, discendenti dei Sabini della città di Cures e di Quirino,
soprannome di Romolo. L’appellativo Romani era invece più usato in contesti militari. –riga 12:
lucubrationes ‘ sono le ore di lavoro notturno, quindi passate a lume di candela (cfr. lux 'luce'). –riga
13: omnium sententiis, lett. ‘con i giudizi (sententiae) di tutti [i giudici]’= ‘all’unanimità’; absolutus
est: 3a p. pf. ind. pass. di absolvo ‘assolvo’, lett. ‘fu assolto’.
Magia risolutore sociale
Commento. Cresimo sa che non può non colpire i suoi giudici in un processo pubblico come questo
quando dichiara di essere solo un agricoltore molto più bravo dei suoi vicini, che hanno, sì, molto più
denaro di lui, ma mancano di una qualità fondamentale. I vicini di Cresimo, infatti, benché cittadini romani
da generazioni, hanno dimostrato semplicemente minor impegno di questo umile liberto nel rendere il
campo produttivo. Visto che tale impegno si chiama “lavori notturni, veglie, sudori” e rientra nei doveri del
buon contadino-soldato, cioè del cittadino romano par excellence che vive secondo il mos maiorum,
impossibile che i giudici, tra cui i membri tradizionalisti delle tribus (tribù, cioè clan) romane, non
assolvano Cresimo all’unanimità, specialmente di fronte alla sempre temuta decadenza per eccesso di lussi
che caratterizzerebbe l’élite aristocratica romana all’indomani della conquista della Grecia (è una linea
rossa ininterrotta di moralismo romano che attraversa la letteratura latina almeno da Catone in poi). E
questa élite aristocratica deve essere proprio quella cui appartiene il “vicinato” che accusa Cresimo di
veneficium e, in particolare, di excantatio (crimine che conosciamo bene dalle Dodici Tavole) delle messi
altrui nel proprio campo. Plinio non lo dice esplicitamente, ma che ci sia un forte scarto sociale è evidente
da un indizio inequivocabile: quello dell’umile liberto è infatti un “campicello molto piccolo”, mentre il
vicinato possiede “campi [al plurale] ampissimi”. Eppure le sue rese erano “molto più abbondanti” di
quelle dei vicini “invidiosi”.
Magia risolutore sociale (2)
Ma veniamo al ruolo sociale che la magia assolve nella cultura romana antica come in altre culture antiche o
moderne.
Abbiamo già visto come Plinio sottolinei l’appartenenza di Cresimo ad un basso strato sociale. Questo si aggiunge
al fatto che egli è un oriundo greco. Come nota Graf: “Il conflitto scoppia nel momento in cui i raccolti del povero
Cresimo, un anno dopo l’altro […] non corrispondono più al suo livello sociale, il che, nella condizione
concorrenziale che oppone rivali ineguali, costituisce un rovesciamento dello scarto originario. Né basta: il povero,
il liberto, minaccia di diventare persino più ricco degli altri, il che mette in pericolo le strutture sociali” (Graf , p.
61).
Ecco allora che, contro un possibile ribaltamento dell’ordine sociale accettato e costruito come tale dalla classe
dominante romana, ordine sociale che non può permettere ad un appartenente della classe subalterna di umiliare
dei ricchi proprietari terrieri, interviene la magia. Essa è lo strumento non solo sociale ma anche concettuale
adottabile come possibile soluzione al rovesciamento, alla distruzione dell’ordine di fronte ad una situazione
altrimenti irrisolvibile con le leggi ordinarie. Di cosa si poteva accusare uno come Cresimo? Così Cresimo è
accusato di magia (o meglio di “stregoneria”) dai suoi ricchi vicini: un’accusa che comportava l’espulsione dalla
comunità, la perdita dei beni, il ritorno, insomma ad una condizione schiavile. Il magistrato, l’edile curule, indice
un processo pubblico che, mettendo in gioco il mantenimento dell’ordine sociale dell’intera comunità, si celebra
nel foro romano davanti ai comitia tributa, i rappresentanti dell’intera società romana.
Magia risolutore sociale (3)
E qui la funzione della magia, di risolutore sociale, fa gioco, ma, contrariamente a quello che si aspettano i suoi
accusatori, proprio per risolvere il conflitto a vantaggio del parvenu Cresimo. La magia sancisce l’entrata a pieni
diritti dell’umile liberto nel mondo dei romani autentici, addirittura umiliando chi si credeva tale e non era. Ecco in
proposito le parole, illuminanti, di Graf: “Siamo in presenza di un nuovo scarto, che rovescia ancora una volta il
rapporto sociale tra liberto e cittadini ricchi: è l’antico schiavo orientale che appare come un romano perfetto. La
reazione delle tribù è immediata e unanime: i suoi concittadini riconoscono la bontà delle sue spiegazioni e
accettano d’integrarlo nello status cui Cresimo aspirava. Ed egli ne ricava una reputazione la quale fa sì che Plinio
si ricordi ancora di lui come di un bell’esempio degli antichi costumi. L’uomo accusato di magia è dunque un
marginale che con le sue azioni ha messo in moto un corso di eventi che sembrava minacciare le strutture sociali:
il suo successo ha provocato una crisi in seno al gruppo. Scopo del processo di magia è risolvere la crisi, o
escludendo per sempre colui che minaccia le strutture sociali [il cosiddetto “pericoloso deviante”, ndr], o
integrandolo definitivamente. In entrambi i casi, le strutture sociali verranno riaffermate e l’ordine ristabilito.
Attraverso questo processo di magia, attraverso questo gioco di rotture e di spostamenti, un uomo venuto da
fuori viene saldamente integrato nella società (p. 62)”. Ecco la magia nel suo ruolo di “risolutore” sociale: qui ha
funzionato nel “gioco di rotture” come una colla, ma sappiamo che in molti altri casi può lavorare come una
mannaia.
Magia e romanzo
Nella lezione 39 abbiamo parlato di Apuleio, della sua costruzione della magia così come ci appare
nell’Apologia, l’orazione (o almeno la versione sicuramente posteriore e rimaneggiata che Apuleio ne
pubblica) con cui si difende dall’accusa di magia. Ma possiamo ‘liquidare’ Apuleio solo così in questo
nostro corso sulla magia nel mondo latino? La domanda è retorica e la risposta si sarà capita: no davvero.
Apuleio è infatti anzitutto un grande autore e non si possono trascurare (anche perché sono
estremamente divertenti) i riferimenti alla magia che egli ci restituisce anzitutto nel suo splendido
‘romanzo’, Le Metamorfosi. Del resto quando abbiamo parlato della magia nell’Apologia (rimandando
anche, lo ricordo, all’ampia analisi condotta in proposito da Graf nel terzo capitolo del nostro testo
d’esame) non avevamo evidenziato abbastanza un aspetto dell’intera orazione: Apuleio di magia ne sa
eccome. E in fondo, se non è un mago vero e proprio (ma nessuno ne è troppo sicuro) in senso
tradizionale, senz’altro era, com’è stato detto, “un mago di parole”. Sta di fatto che egli, alla luce di quello
che per lui era un “mago”, cioè un filosofo spinto dalla curiositas a conoscere i rapporti profondi tra natura
e divino, un po’ mago si sentiva. Ce lo ha detto lui stesso nel passo dell’Apologia in cui chiama mago anche
il suo idolo filosofico, il personaggio cui vuole assomigliare: Platone. Tuttavia, malgrado le sue intenzioni
sicuramente oneste, Apuleio non sapeva che, al di là delle posizioni intellettuali, la categoria magica
funziona anzitutto, come abbiamo visto, da “risolutore” sociale, da “colla” o da “mannaia” con cui si dà un
posizione definta, rispettivamente integrata o disintegrata, ai chi sta “ai margini” del gruppo.
Mauss e Hubert
Questa funzione di “controllo della marginalità” attribuita alla categoria magica deve molto, come ci
ricorda Graf alla fine del suo terzo capitolo, all’opera di quel grande socio-antropologo francese che è
Marcel Mauss (ed il gruppo dei collaboratori all’Année sociologique che con lui lavorarono). Mauss scrisse,
con Henri Hubert, nel 1904, un celebre articolo intitolato Esquisse d’une théorie générale de la magie
(Appunti di una teoria generale della magia) in cui viene formulato il celebre principio che “la pubblica
opinione crea il mago”. Pur nell’enfasi, oggi ritenuta eccessiva, sulla forza totalizzante della pressione
sociale sugli individui, questo lavoro servì a mettere per la prima volta l’accento non solo sulla forza sociale
della magia, ma soprattutto sulla sua universalità o, come diremmo oggi, sulla sua interculturalità. Graf,
adattando questo principio maussiano alla concezione magica espressa da Apuleio nella sua idea che il
mago sia in realtà un “filosofo del divino”, cioè un “filosofo teologico”, conclude con una riflessione sulla
cultura di cui il nostro autore antico è “informatore”: ovvero che, nella società di Apuleio, “ogni interesse
anormale per il sacro può condurre al sospetto di magia”.
E proprio su questa dimensione ambigua della relazione magico-religiosa sono incentrati, coerentemente
con la posizione espressa da Apuleio nella Apologia, gli episodi di stregoneria presenti ne Le Metamorfosi.
Ma prima di passare ad introdurre il romanzo e quindi alla lettura dei passi, facciamo il punto sulla storia di
questo genere all’interno della letteratura greco-romana.
Romanzo antico
Anzitutto il termine romanzo. Il termine come lo conosciamo nasce solo nel medioevo francese e significa
originariamente “opera scritta in lingua romanza” cioè in volgare, non in latino. Sono gli interpreti moderni
a definire con questo nome un genere che di fatto nell’antichità greco-romana non ha un nome. O meglio,
ce ne ha tanti (in greco si va da lògos ‘discorso a mùthos ‘racconto’, apòlogos ‘favola’ecc.; in latino i nomi
suonano per noi altrettanto generici: fabula, fabella, enarratio, historia, argumentum, exemplum fictum
ecc.). Il romanzo antico nasce in ambiente greco, in età ellenistica. È opinione comune tra gli studiosi che
esso prenda il posto, come genere di “massa”, di quelli che erano stati la poesia epica (épos) ed il teatro
nei periodi precedenti. È noto infatti che quest’ultimo, con l’avvento delle grandi monarchie ellenistiche,
perde il suo carattere di catalizzatore della pòlis qual era stato il teatro dei tre grandi tragici (Eschilo,
Sofocle, Euripide) o quello del commediografo Aristofane, per divenire teatro di puro intrattenimento o
riflessione morale realistica incentrata sui rapporti meno pericolosi, quelli che riguardano la rete personale
di parenti e amici (il genere tragico decade completamente in età ellenistica, a tutto vantaggio della
commedia). Al puro intrattenimento legato alla nuova dimensione forzatamente disimpegnata e
autoreferenziale dell’ex-cittadino della pòlis divenuto suddito di un monarca, si deve anche la nascita del
genere del romanzo greco.
Romanzo greco
Leggendo i titoli dei romanzi greci giuntici ci possiamo fare una prima idea degli schemi narrativi ricorrenti.
Titoli come La storia di Cherea e Callirore di Caritone (fine I sec. d.C.), Abrocome e Anzia di Senofonte
Efesio (II sec. d.C.), Amori pastorali di Dafni e Cloe di Longo o Meraviglie al di là di Tule di Antonio Diogene
(I sec, d.C.) ci riportano a storie di amanti impegnati in avventure rocambolesche ed errabonde, fatte di
rapimenti, ricongiungimenti, agnizioni, spesso in terre meravigliose ed esotiche. Modesta la
caratterizzazione dei personaggi, era l’intreccio la parte forte del romanzo greco antico. Il modello
fondamentale è naturalmente Omero, di cui gli autori di questo genere seppero riprendere strutture
narrative come l’inizio in medias res (cioè nel bel mezzo del racconto) o il racconto nel racconto
(metaracconto) per fornire al lettore l’antefatto inizialmente taciuto, ma soprattutto come una scusa per
inserire nella trama principale una miriade di racconti minori, anche piuttosto licenziosi e di una comicità
spesso “sguaiata”. Tanto che dei romanzieri si specializzarono proprio in questo tipo di narrazione, breve
ma “intensa”, e ne nacque un “genere nel genere” che in latino prese il nome di fabula Milesia, cioè
‘racconto di Mileto”, visto che l’autore più celebre era Aristide, originario di quella città, che intitolò la sua
opera più famosa appunto Racconti di Mileto (Milesiakà). Nel II sec. d. C., il retore Luciano di Samòsata fa
una fortunata parodia del genere romanzesco da cui, esagerando la stranezza dei luoghi e degli eventi,
ottiene un vero e proprio “romanzo fantastico”, di cui la sua Storia vera (questo il titolo, che è tutto un
programma…) rappresenta senza dubbio un prototipo.
Romanzo latino
Allo stesso Luciano è stato attribuito (ma falsamente, pensano oggi gli interpreti) un romanzo breve, affine
piuttosto al genere della fabula milesia, che ha avuto grande successo e di cui ci ricorderemo quando, tra
poco, torneremo ad Apuleio: si tratta di Lucio o l’asino, un racconto in prima persona centrato sulla
metamorfosi del protagonista (il Lucio del titolo) in un asino, ad opera, inutile sottolinearlo, di una magia.
A Roma il romanzo greco arriva, a quanto ci è dato sapere, a delle vette apparentemente non raggiunte
dagli autori ellenici. Anzitutto è evidente il successo del genere in ambiente latino (ma lo stesso valeva per
quello greco). Purtroppo ci sono rimasti solo tre romanzi, di cui tuttavia due sono veri capolavori. Del
primo, il Satyricon di Petronio, abbiamo solo delle parti, ma tanto basta per fare del romanzo uno dei testi
latini senz’altro più riadattati, rifatti, rappresentati del Novecento. Leggendo Petronio, infatti, con i suoi
protagonisti antieroici per eccellenza, il suo realismo, la sua raffinata e mai affettata ironia, sembra di
leggere non solo Rabelais o Cervantes, ma direttamente autori del Novecento, maestri della beat
generation come Kerouac o Salinger. Tuttavia, tutti i paragoni con gli autori contemporanei, si sa, lasciano
ampio spazio alla soggettività del giudizio… Anche perché, negli ultimi due autori citati, potrebbe essere
avvenuto l’esatto contrario: essere stati influenzati loro da Petronio. Nonostante Petronio sia senza ombra
di dubbio il più grande romanziere del mondo antico, la sua riscoperta è infatti avvenuta solo nel
Novecento. E il perché è molto chiaro…
Romanzo latino (2)
I contenuti del Satyricon ci presentano personaggi “ai margini”, vagabondi divisi tra situazioni bohémiennes
dove l’ambiente dei bassifondi, i contenuti fortemente erotici, di matrice sia etero- ma soprattutto
omosessuale (la coppia protagonista, tipica del romanzo greco d’amore, è costituita da due ragazzi), i
problemi con la giustizia, la messa alla berlina della morale o dei costumi condivisi, costituiscono un filo
conduttore difficile da far passare in versione “purgata” al lettore. Questo aspetto “birichino”, per citare il
poeta M. Chiamenti, del romanzo, non gli ha consentito di circolare liberamente, men che meno di toccare
i banchi della scuola (o di certe università) fino ad anni passati, non troppo lontani da quelli che viviamo
oggi. Ma ciò che emerge dalle pagine di Petronio è un quadro della realtà e della vita che travalica
senz’altro i confini di genere e fa dell’opera un “capolavoro immortale”, come si legge nelle fascette
pubblicitarie di molti libri esposti in libreria (ma in questo caso è proprio vero).
E visto che abbiamo parlato di personaggi “ai margini” (con tutto quello che abbiamo detto sulla magia
come controllo della marginalità del gruppo e via dicendo), non possiamo non trovare, anche nel
Satyricon, una storia di magia. Questa, però, ce la riserveremo per il “gran finale” di questo corso. Prima di
passare ad Apuleio, un’ultima notazione sulla novità formale più spiccata del Satyricon: il suo continuo
alternare regolarmente parti in prosa e parti in verso (prosimetro), alla maniera di quel sottogenere
letterario chiamato satira menippea (vd. Bosco sacro, pag. 284).
Le m etam orfosi
L’altro romanzo capolavoro è, dicevamo, quello di Apuleio, che invece ci è arrivato integralmente. Già nel
titolo (o meglio nel titolo alternativo) Asinus aureus (lett. ‘l’asino d’oro’) emerge la ripresa della fabula
Milesia dal titolo Lucio o l’asino già introdotta sopra. La storia, come nel modello, si svolge in Tessaglia, che
come sappiamo bene è terra di magia. Ed è proprio la magia, in un certo senso, insieme alla curiositas, uno
dei fili conduttori della storia, incarnati (è proprio il caso di dirlo) da Lucio, l’eroe trasformato in asino che
(conservando le sue facoltà e passioni tutte umane) si muove tra mille peripezie fino a tornare umano
grazie ai poteri della dea Iside, di cui egli si dichiara un fedele ed al cui culto chiede, ed ottiene, di essere
iniziato. Iside gli appare infine direttamente, con un mantello nero su cui rifulgono le stelle, in mezzo la
luna luminosa e, sull’orlo, frutta e fiori. Si tratta di un’allegoria della natura e dei suoi “misteri” che Lucio,
alla fine del viaggio, conoscerà. Un romanzo iniziatico, dunque, di un devoto di Iside (Apuleio dà indizi
chiari per capire che dietro al personaggio di Lucio si nasconde egli stesso). Per capire meglio il
riferimento, ricordo che il culto egiziano di Iside e Osiride si è diffuso a Roma nel II sec. d.C. Alla base c’è
questo mito: Osiride aveva insegnato al genere umano la coltura del grano e della vite, ma il fratello Seth
(rappresentato, com’è noto, proprio col volto di asino) lo uccide barbaramente. Iside, moglie e sorella di
Osiride, ne seppellisce i brandelli e, con il figlio Horus, si vendica di Seth. Osiride diviene il dio dei defunti
che rigenera, ogni anno, Iside, la vita naturale che esplode in frutti e fiori all’inizio di ogni primavera (inizio
dell’anno per gli antichi), garantendo la vita umana.
Le metamorfosi (2)
Se nell’idea di Apuleio, come visto, essere mago significa essere un filosofo teologico che indaga i rapporti
tra divinità e natura, allora la storia del protagonista delle Metamorfosi, che diviene un fedele e poi un
iniziato al culto di Iside, invitato dalla dea in persona, è la storia di una iniziazione alla “magia”, almeno nel
senso di Apuleio. Prova ne sia che l’ultimo libro, l’undicesimo, del romanzo, quello dedicato ad Iside, alla
sua apparizione (epifania) e all’iniziazione vera e propria di Lucio, è dominato anziché dall’atmosfera
“milesia” dei precedenti 10 libri, da un tono serio e dalla fiducia in una provvidenza superiore.
Ma andiamo a leggere un brano che riguarda direttamente la magia e che è per l’appunto la descrizione
dell’evento che dà il titolo stesso di “metamorfosi” (gr. = ‘trasformazione’) al romanzo. Si tratta della prima
metamorfosi, quella di Lucio da essere umano in asino. Siamo nel libro III; il protagonista si trova sempre in
Tessaglia, terra di magia, ed è ospite di un uomo ricco e avaro la cui moglie, di nome Panfila, è proprio una
strega. Lucio, che nel frattempo ha una relazione con l’ancella di questa, Fotide, le chiede, al solito spinto
da una curiositas irrefrenabile, di farlo assistere di nascosto alla trasformazione della padrona in gufo.
Esaudito nel suo desiderio e rimasto rapito da ciò che ha visto, vuole anch’egli trasformarsi in uccello, e
con l’aiuto di Fotide, che entra furtivamente nella stanza della maga Panfila, si procura un ingrediente
magico. Ecco il seguito del racconto nelle parole di Apuleio (metam. III, 24-25).
Lucio mutato in asino
“Assicurando ancora e ancora queste cose, con la più grande trepidazione scivolò nella stanza e tirò fuori il
barattolo dalla cassetta. Io lo abbraccio e lo bacio e lo prego di accordarmi voli favorevoli, butto via in
fretta tutti i miei vestiti, avidamente ci tuffo le mani, prendo un po’ di unguento, e me lo sfrego lungo tutto
il corpo. E già libravo le mie braccia in su e in giù, gesticolando a imitare un uccello. Niente piumine, però,
né pennette, piuttosto i peli mi si ispessiscono in setole e la pelle tenerella si indura in cuoio, e in cima ai
palmi delle mani, perso il numero, le dita si rapprendono in singoli zoccoli, e dalla fine della spina dorsale
mi spunta fuori una coda portentosa. E già il volto è enorme, prominente la bocca, si spalancano le froge,
le labbra pendule: e anche le orecchie crescono a dismisura, irte di peli. Né in questa desolante
metamorfosi riesco a vedere altra consolazione se non l ‘incremento – ora che Fotide però non posso più
possederla – delle mie parti basse.
Non avevo più speranza di salvezza. Consideravo ogni mia parte del corpo: non mi vedevo volatile, ma
asino. Volevo lamentarmi di quanto Fotide aveva combinato, ma, già privato di voce e gesti umani, feci
quel che potevo: abbassai il labbro inferiore e, guardandola di sbieco con occhi tuttavia umidi, reclamavo
senza poter parlare”.
(Traduzione: Alessandro Fo)
Lucio mutato in asino (2)
Haec identĭdem adseuērans summa cum
trepidatione inrepit cubiculum et pyxidem depromit
arculā. Quam ego amplexus ac deosculatus prius
utque mihi prosperis fauēret uolatibus deprecatus
5 abiectis propĕre laciniis totis auide manus immersi et
haurīto plusculo uncto corporis mei membra perfrĭcui.
Iamque alternis conatibus libratis brachiis in
auem similis gestiebam: nec ullae plumulae nec usquam
pinnulae, sed plane pili mei crassantur in setas
10 et cutis tenella duratur in corium et in extimis palmulis
perdĭto numero toti digiti coguntur in singulas
ungulas et de spinae meae termino grandis cauda procedit.
Iam facies enormis et os prolixum et nares
hiantes et labiae pendulae; sic et aures inmodicis
15 horripilant auctibus. Nec ullum miserae reformationis
uideo solacium, nisi quod mihi iam nequeunti
tenere Photidem natura crescebat.
Ac dum salutis inopia cuncta corporis mei considerans non
auem me sed asinum uideo, querens de facto Photidis
20 sed iam humano gestu simul et uoce priuatus, quod
solum poteram, postrema deiecta labia umidis tamen
oculis oblicum respiciens ad illam tacitus expostulabam.
Lucio mutato in asino (3)
Note al testo: -riga 1: identĭdem , avv. ‘ripetutamente’; adsevērans, part. pr. adsevēro ‘confermando con
decisione’, il sogg. è Fotide; inrēpit, perf. da irrēpo, (in+repere) ‘si insinuò’, regge l’acc. cibuculum;
deprōmit, 3a p. pf. ind. deprōmo ‘tirò fuori’; -riga 3: arculā ‘dal cofanetto’; quam ego ecc: costruisci: ego
amplexus ac prius deosculatus quam (=eam) utque ecc., lett. ‘avendolo io abbracciato [sott. pyxidem ‘il
barattolo’] e prima baciato’; deprecatus e deosculatus sono part. pf. di vb. deponenti, quindi hanno valore
attivo. –riga 4: costruisci: et deprecatus ut mihi favēret prosperis volatibus , lett. ‘e avendolo supplicato
affinché mi favorisse con voli favorevoli [cioè: sicuri]; favēret, 3a p. impf. cong. faveo ‘favorire’, dip. da ut
‘affinché’, o ‘che’ (è comunque un ut completivo, cioè dipende da deprecatus); volatibus, abl. pl. da
volatus, us 'volo'. –riga 5: abiectis totis laciniis, abl. assoluto, lett. ‘gettati tutti i (miei) vestiti’; propĕre ‘in
fretta’; avide ecc. lett. ‘avidamente le mani immersi’. –riga 6: haurīto…uncto abl. ass., lett. ‘attinto [da
haurio] un po’ di unto’; perfricui 3a s. pf. di perfrĭco, cui, cātum, e ctum, āre ‘strofinare’. –riga 7-8:
iamque…gestiebam, ecc. lett. ‘e già, con alterni [=in su e in giù] tentativi, sollevate le braccia, a uccello
simile, gesticolavo’; librati brachiis abl. ass. librare, lett. ‘tenere a bilancia (libra) cioè ‘stare a braccia
aperte’; in avem similis, qui similis è costruito con in+acc. nec ullae ecc. ‘né alcuna piumina [lett. ‘né alcune
piumine’] né da alcuna parte [usquam è avv. di luogo] pennette’. –riga 9: sed plane, lett. ‘ma addirittura’;
crassantur, vb. dep. ‘diventano grossi’ (cfr. crassus,a,um ‘spesso’ [agg.]) [sott. trasformandosi] in setole’
(continua).
Lucio mutato in asino (4)
Note al testo (continua). –riga 10: durātur, altro vb. dep. derivato da un agg., stavolta anziché da crassus
da durus,a,um ‘duro’, lett. ‘la cute tenerella si indurisce [trasformandosi] in cuoio’; extĭmis = extrēmis
palmulis ‘all’estremità dei palmi’ [lett. ‘agli estremi palmi’]. –riga 11: perdĭto numero ecc. abl. ass., lett.
‘perso il numero, tutte le dita si riuniscono in singoli zoccoli’; coguntur ‘si riuniscono’, 3a p. pl . prs. ind.
pass. da cogo ‘riunire’, qui con significato riflessivo anziché propriamente passivo. –riga 12: de spinae
meae termino, lett. ‘dalla [qui de ha senso di moto da luogo] fine [=terminus,i, lett. ‘limite’] della mia spina
(dorsale)’; grandis cauda procedit, lett. ‘procede una grande coda’. –riga 13-14: iam facies ecc.. lett. ‘già ho
(sott. habeo o mihi sunt) una faccia enorme, una bocca prominente, narici larghe [lett. hiantes =
‘aprentesi’, part. pres. di hio], labbra pendule ecc.’. –riga 14-15: sic et aures ecc., lett. ‘così anche le
orecchie si drizzano di peli [= diventano pelose] con enormi incrementi [abl. di modo, auctibus, abl. pl. da
auctus,us, cfr. augeo ‘aumentare’]’. nec ullum ecc.: costruisci nec video ullum solacium miserae
reformationis nisi, cioè ‘non vedo alcuna consolazione [solacium] della [solacium regge il gen.] misera
riformazione [=termine latino sinonimo di gr. metamorphosis]’; nisi quod ecc.: lett. ‘se non il fatto (che) a
me che più non posso [part. pres. dat. di nequeo ‘non posso’] possedere [lett. ‘tenere’, ma qui con
evidente valenza sessuale] Fotide, la natura [termine elegante per dire ‘membro virile’] cresceva’. Questa
‘superdotazione’ di Lucio ritornerà varie volte, inutile dirlo, nella trama del romanzo.
Lucio mutato in asino (5)
Note al testo (continua). –riga 18: ac dum, costruisci: ac inopiā salutis, considerans cuncta corporis mei,
dum video me non avem sed asinum ecc, lett. ‘e nella mancanza di salvezza, valutando tutte le cose del
mio corpo [cioè ‘ciascuna parte del mio corpo’], mentre mi vedo non uccello ma asino…’; querens ,
part. pres. del depon. queror ‘lamentarsi’; lett. ‘lamentandomi su [de] l’atto [factum] di Fotide’. –riga
20: simul et ‘e insieme’. voce e humano gesto sono abl. dipendenti da privatus ‘privato (di)’; quod
solum poteram ‘la sola cosa che potevo’. –riga 21-22: postremā deiectā labiā ‘ablativo assoluto, lett.
‘abbassato [deicio, da de+iacio, lett. ‘gettare in basso’] l’estremo labbro’; l’abl. fem. sing. labiā è da
labia,ae ‘labbro’, una forma meno comune del neutro labium,ii. umidi ecc., costruisci: tamen respiciens
oblicum umidis oculis, lett. ‘tuttavia, guardando obliquamente [oblicum=obliquum, qui neutro che vale
come avverbio] con occhi umidi (di lacrime)’; ad illam ecc.: lett. ‘a lei tacito [cioè ‘pur incapace di
parlare’] reclamavo’; expostulo è lett. ‘domandare (postulo) animatamente’, che poi passa
metaforicamente a ‘reclamare, rimproverare’ o anche, con accezione più forte, ‘insultare’.
Commento. L’errore di Fotide è costato caro a Lucio, che però è vittima, anzitutto, della propria
curiositas. Apuleio sottolinea il momento della metamorfosi ed insieme il forte disappunto di Lucio ma,
anziché forzare troppo i toni drammatici, mantiene il tono ‘milesio’ della storia facendo riflettere Lucio
sull’unico vantaggio che nel cambio da uccello (mancato) ad asino poteva avere.
Lucio mutato in asino (6)
Commento (continua). Inutile notare la grande efficacia del “monologo interiore” di Lucio, con quello
splendido finale in cui ci si immagina proprio il suo tentativo di coprire Fotide di tutti gli insulti possibili,
senza però essere in grado di emettere una parola. Infatti, come Apuleio aggiungerà poco dopo:
quamquam perfectus asinus […] sensum tamen retinebam humanum, cioè ‘sebbene asino perfetto,
tuttavia conservavo coscienza umana’. Questo è un dato importante nel percorso iniziatico di Lucio, che, lo
ricordiamo, è anche allegoria del genere umano guidato dall’errore prima di raggiungere l’illuminazione
finale attraverso l’epifania divina. E di quest’ultima c’è disperato bisogno, così almeno la pensa Apuleio,
visto che il mondo in cui si muove Lucio è un mondo terribile, fatto di ladri, assassini e di persone (a parte
un solo caso) votate al male (la sola eccezione riguarda un medico, nel libro X - ma visto quello che
sappiamo sui rapporti tra magia e medicina potrebbe non essere un caso...). A proposito di magia, qui
assistiamo ad una classica magia di trasformazione. Si tratta del punto di arrivo estremo di quella che
abbiamo chiamato “funzione poetica della magia”: nella metamorfosi infatti il rapporto di opposizione
metaforica, con i suoi contatti metonimici, è immediatamente evidente a livello di percezione del reale. La
metafora che sottintende ogni atto magico diventa insomma evidente anche sul piano ‘letterale’,
denotativo, della relazione tra soggetto e predicato metaforico. Cioè: ‘Lucio è già un asino’ perché si
comporta
come tale (asino in senso metaforico). Attraverso la metamorfosi, la magia non fa che realizzare
concretamente, rendendola subito evidente, questa verità altrimenti occulta. E, così facendo,
offre una nuova visione della realtà che porterà, anche nel caso di Lucio, ad una “risoluzione”
finale attraverso la reintegrazione dell’eroe in un mondo palingeneticamente diverso, quello in cui
egli non sarà più un asino, sia in senso metaforico che letterale, perché conosce la luce del culto
di Iside.
Licantropia in Petronio
Ed eccoci al “gran finale” petroniano, come preannunciato. Altra magia di trasformazione con la storia, un
ennesimo intermezzo milesio, dell’incontro con un uomo-lupo (di cui Plinio ci attesta bene la credenza in
NH VIII, 81).
Di Petronio, cha abbiamo già presentato, aggiungiamo solo che egli è contemporaneo di Nerone ed è quasi
sicuramente da identificare con l’arbiter elegantiae della corte neroniana descritto da Tacito in Annali XV. Il
brano che leggiamo rientra nel frammento più lungo (e più celebre) rimastoci, la cosiddetta “cena di
Trimalcione”, un liberto d’origine asiatica straricco che ostenta la sua fortuna invitando il nostro gruppo di
“sbandati” ad un banchetto dalle portate e dai “numeri” impressionanti (basti il cinghiale arrosto da cui
vola fuori uno stormo di tordi), dove i dialoghi tra i convitati vengono resi con un capolavoro di
immedesimazione linguistica che mette in evidenza le loro diverse provenienze sociali, restituendoci
documenti eccezionali sulla cultura romana “viva” del I sec. d.C. Si va dagli “errori” linguistici (sentiti come
tali dai letterati, ma in realtà le lingue si muovono attraverso quelli di volta in volta considerati “errori”) dei
liberti di livello sociale più basso, alla “cultura letteraria” ostentata dal padrone di casa, fatta di colossali
errori assolutamente comici (ad es. durante la recitazione di versi omerici da parte di attori greci,
interrompe per riassumere ai convitati - immaginarsi come - la trama dell’Iliade). Delle due storie di magia
raccontate a banchetto riportiamo quella sul licantropo riferita da Niceròte (che divideremo in tre parti,
ciascuna con relative note al testo, cui seguirà il commento finale).
Licantropia in Petronio (2)
Ecco dunque la prima parte. A parlare Niceròte (il nome è di origine greca - del resto il romanzo si
svolge in una città della Magna Grecia – e significa ‘che vince in amore’). L’ex schiavo parla proprio
come ci si aspetterebbe da uno schiavo, con qualche “errore” di sintassi, qualche parola non proprio
raffinata, ma con un’efficacia straordinaria.
“Quando ero ancora schiavo, abitavamo in Vico Stetto; ora è la casa di Gavilla. Lì, come vogliono gli
dei, cominciai ad amare la moglie dell’oste Terenzio: conoscevate Melissa la tarantina, bellissimo
bocconcino. Ma io, per Ercole, non me la curai (solo) per il fisico o per le sue abilità sessuali, ma più
perché era bencostumata. Se le chiesi qualcosa, mai mi fu negato; ha guadagnato un asse, (ne) ebbi
la metà; lo deposi nel seno di lei e mai fui ingannato. Il suo compagno morì nel (suo) podere. E così,
di riffa o di raffa, feci e disfeci in qual modo potessi arrivare a lei; infatti, come dicono, nelle
ristrettezze si vedono gli amici.
Per caso il (mio) padrone era uscito per Capua per togliersi dai piedi delle belle cianfrusaglie. Colta
l’occasione, io persuado un ospite nostro a venire con me (fino) al quinto miglio. Era difatti un
soldato, forte come Orco. Leviamo il culo intorno ai canti del gallo, la luna splendeva come a
mezzogiorno”.
Licantropia in Petronio (3)
'Cum adhuc servirem, habitabamus in vico angusto;
nunc Gavillae domus est. ibi, quomodo dii volunt,
amare coepi uxorem Terentii coponis: noveratis Me-
lissam Tarentinam, pulcherrimum bacciballum. sed
5 ego non mehercules corporaliter <illam> aut propter
res vene[ra]rias curavi, sed magis quod benemoria fuit.
si quid ab illa petii, numquam mihi negatum. fecit assem,
semissem habui: in illius sinum demandavi, nec umquam
fefellitus sum. huius contubernalis ad villam supremum diem obiit.
10 itaque per scutum per ocream egi aginavi, quemadmodum ad
illam pervenirem: <scitis> autem, in angustiis amici apparent.
forte dominus Capuae exierat ad scruta scita
expedienda. nactus ego occasionem persuadeo hospitem
nostrum ut mecum ad quintum miliarium veniat.
15 erat autem miles, fortis tamquam Orcus. apoculamus
nos circa gallicinia, luna lucebat tamquam meridie.
Licantropia in Petronio (4)
Note al testo: -riga 1: cum adhuc servirem, lett. ‘mentre ancora ero schiavo’; servīrem, impf. cong. servĭo,
īvi and ii, ītum, īre ‘essere schiavo’. vico angusto; vicus,i è anzitutto una strada o un quartiere di una città
(continua). –riga 3: coepi 1a p. pf. ind. del difettivo coepi, isse, ‘cominciare’. copōnis=caupōnis, gen. di
caupo ‘oste’; noverātis 2a p. pl. ppf. ind. del difettivo novi,isse ‘conoscere’, che, a differenza del precedente
coepi, ha significato di presente cioè novi = ‘conosco’, quindi qui il ppf. sarà tradotto come impf., cioè
‘conoscevate’. –riga 4: bacciballum ha fatto scorrere fiumi d’inchiostro perché si trova solo qui.
Evidentemente si tratta di un appellativo molto colorito dai toni quasi certamente sessuali. Tarentina ‘ di
Taranto. Le tarantine erano rinomate per le loro abilità sessuali (cfr. il frammento della Tarentilla di Nevio).
–riga 5: mehercules ‘per Ercole!’ serve ad aumentare, rendendolo ridicolo, il tono della giustificazione (cui
nessuno crede –cfr. il corporaliter che segue - dato che le ostesse nel mondo romano erano tipicamente
delle prostitute, le osterie praticamente dei bordelli); corporaliter avv., lett. ‘corporalmente’. –riga 6: res
venerarias, lett. ‘le cose di Venere’, cioè ‘le sue abilità sessuali’. benemoria, agg. fem. riferito a Melissa; è
un composto sicuramente non di uso dotto (cfr. la formazione da bene + mos , lett. ‘di buoni costumi’). –
riga 7: negatum, sott. est = 3a p. pf. pass. negare, lett. ‘fu negato’; assem 'un asse', unità di misura
monetaria. –riga 8: semissem, acc. sing. da semis, ssis ‘la metà’. –riga 9: fefellitus sum, 1a p. sing. pf. ind.
pass. di fallo, is, fefēlli, falsum, ĕre ‘ingannare’; se non fosse che, dato il supino falsum, il part.
pf. “regolare” da cui ricavare il passivo è falsus, quindi la forma sarebbe dovuta essere ‘falsum
sum’; il liberto parla uno slang molto più colorito del latino di Cicerone, che da qui possiamo
intuire ben diverso dal latino parlato: Petronio è per noi fondamentale anche a livello di storia del
latino. -riga 9: supremum diem obiit, lett. ‘incontrò il (suo) ultimo giorno’; ad villam, lett. ‘presso il
podere’. –riga 10: per scutum ecc. ‘di riffa o di raffa’, lett. ‘per scudo o gambale’; egi eginavi, 2
perf. ind., rispettiv. da ago e da un verbo aginare, prob. di significato simile; l’espressione forse
vale ‘pensa che ti ripensa’. –riga 12-13: Capuae: il locativo anziché l’acc. di moto; ad scruta ecc.:
una finale con ad+gerundivo, lett. ‘per levarsi dai piedi delle belle cianfrusaglie’. scita=pulchra
‘belle’; nactus, prt. pf nanciscor ‘ottengo in sorte’; qui=‘acchiappata’. -riga 15: apoculamus, lett.
‘leviamo il culo’; circa gallicinia, ‘verso i canti del gallo’, da gallus+cano ‘cantare’.
Licantropia in Petronio (5)
Procediamo con la seconda parte della storia di licantropia. Il racconto di Niceròte prosegue da dove
l’abbiamo lasciato: il nostro schiavo ha lasciato la sua ragazza alla locanda e se n’è appena andato
fuori per una passeggiata sul far del giorno, con ancora la luna piena. Con lui un ospite della locanda,
un soldato “forte come Orco”. Sono appena arrivati ad un cimitero.

“Arrivammo fra le tombe. Il mio uomo cominciò a farla sulle lapidi, ma io continuo canterellando e
conto le lapidi. Poi come mi girai a guardare il compagno, quello si spogliò e sparse i vestiti lungo la
strada. Avevo ‘l’anima al naso’, stavo come morto. Allora quello pisciò intorno ai suoi vestiti e
all’improvviso divenne lupo. Non pensate che io scherzi; non stimo i soldi di nessuno al punto da
mentire. Ma - questo cominciavo a dire - dopo che divenne lupo, cominciò a ululare e scappò nel
bosco. Io all’inizio non sapevo dove fossi, poi arrivai al punto di sollevare i suoi vestiti: ma quelli
erano diventati di pietra. Chi (poteva) morire se non io? Comunque strinsi la spada e, taratatà,
ammazzai gli spettri fino a che non arrivai a casa della mia ragazza. Entrai da fantasma, svaporai quasi
l’anima, il sudore usciva a fiotti sulla fronte, gli occhi di un morto, a stento mi sono mai ripreso”.
Licantropia in Petronio (6)
17 Venĭmus inter monimenta: homo meus coepit ad stelas
facere, sed ego <pergo> cantabundus et stelas numero.
deinde ut respexi ad comitem, ille exuit se et omnia
20 vestimenta secundum viam posuit. mihi anima in
naso esse, stabam tamquam mortuus. at ille circum-
minxit vestimenta sua, et subito lupus factus est. nolite
me iocari putare; ut mentiar, nullius patrimonium
tanti facio. sed, quod coeperam dicere, postquam
25 lupus factus est, ululare coepit et in silvas fugit. ego
primĭtus nesciebam ubi essem, deinde accessi ut
vestimenta eius tollerem: illa autem lapidea facta sunt.
qui mori timore nisi ego? gladium tamen strinxi et
†matauitatau† umbras cecidi, donec ad villam amicae
30 meae pervenirem. in laruam intravi, paene animam
ebullivi, sudor mihi per bifurcum volabat, oculi mortui,
vix umquam refectus sum.
Licantropia in Petronio (7)
Note al testo: -riga 17: venĭmus, pf. ind. 1a p. pl. venio; ad stelas ‘sulle lapidi’;
monimenta=monumenta. –riga 18: facere ‘fare’ (sott. ‘un bisogno corporale’: i cimiteri, situati lungo
le strade e appartati, erano frequentemente usati allo scopo); pergo cantabundus, lett. ‘continuo
canterino’ (in attesa dell’‘espletazione’ non breve, come si deduce anche dal ‘contare le lapidi’ che
segue). –riga 19: respexi, 1a pf., ind. da respicio, lett. ‘girarsi a guardare’; exuit, lett. ‘si spogliò’. –riga
20: secundum, prep. + acc.=‘lungo’. mihi anima in naso esse . Esse, inf. di sum (che + dat. vale
’avere’) è un infinito narrativo e si traduce come un imperfetto. “Avere l’anima al naso”, vuol dire
‘morire’ (si credeva che, morendo, l’anima uscisse da lì). circumminxit, 3a. sing. pf. da circum-
mingere, lett. ‘pisciare intorno’. –riga 22: subito ‘improvvisamente’. nolīte imperat. di nolo (lett. ‘non
voglio’, ma + infinito=imperativo negativo), cioè ‘non crediate!’, che regge l’infinitiva me iocari ‘che
io scherzi’. -riga 23: ut mentiar ecc. costruisci: nullīus patrimonium tanti facio ut mentiar, lett. ‘di
nessuno il patrimonio stimo tanto da mentire [lett. ‘che io menta’]; tanti (gen. di stima) facio ‘stimo
tanto’; ut valore consecutivo. –riga 26: primĭtus avv. ‘dapprima’; accessi ut: accedere + ut + cong. =
’arrivare al punto di’. –riga 27: facta sunt, 3a pl. pf. del difettivo fio ‘divenire’. –riga 28: qui mori ecc.,
lett ‘chi morire [inf. storico] di paura se non io’. -riga 29: matavitatau: si tratta di
lettura incerta (cfr. le due cruces “†”), qui resa con un’interiezione onomatopeica riferita a “infilzai
le ombre” che segue (cecīdi, 1a p. pf. caedo ‘uccido’). –riga 30: in larvam = ut larva, ‘come uno
spettro’; -riga 31:ebullivi animam: ebullio, da ex+bullio lett. ‘bollire via’, cioè ‘bollire tanto che
l’acqua si asciuga ed il vapore (=l’anima) se ne va’. sudor mihi ecc. lett. 'il sudore mi volava per il
biforco’ [su bifurcum, lett. ‘forchetta a due denti’, fiumi di interpretazioni, forse le due vene della
fronte, quindi la fronte…]. –riga 32: refectus sum, 1a p. pf. pass. (qui con senso medio) da reficio
‘ristabilirsi’.
Licantropia in Petronio (8)
Segue la terza parte della storia di licantropia.
Abbiamo lasciato il nostro Niceròte nel bel mezzo di una sconcertante situazione. Il suo compagno
occasionale di passeggiata notturna si è appena trasformato in lupo ed è fuggito nelle tenebre. Egli allora,
sfidando la paura notturna di spettri vari con la spada, riesce a tornare alla locanda della sua ragazza.
“La mia Melissa cominciò a meravigliarsi del perché stavo a passeggiare così tardi e disse: ‘Se tu fossi
arrivato prima, almeno ci avresti potuto aiutare; infatti è entrato un lupo nel podere e tutte le bestie, come
un macellaio… ha sparso il loro sangue. E comunque non l’ha fatta franca, anche se è fuggito; infatti un
nostro servo gli ha trafitto il collo con la lancia’. Come udii queste cose, non potei più chiudere occhio, ma,
a luce chiara, mi precipitai a casa del nostro Gaio come un oste derubato, e non appena giunsi in quel
luogo in cui i vestiti erano diventati di pietra, non trovai nulla se non del sangue. Come arrivai a casa, il mio
soldato giaceva a letto come un bove, e un medico curava il suo collo. Capii che quello era un lupo
mannaro*, e in seguito non avrei potuto mangiare con lui del pane nemmeno si mi avessero ucciso.
Vedano gli altri cosa pensare di questa cosa; io, se mento, mi si scateni contro la rabbia dei vostri numi
tutelari”.
* Lat. versipellis, lett. ‘volta-pelle, indica anche uno stregone tanto abile da cambiare forma. Cfr. Plauto,
Anfitrione 123.
OBIETTIVI FORMATIVI DEL CORSO
Il corso ha l’obiettivo di far conseguire allo studente i seguenti risultati formativi:

1. In riferimento a conoscenza e capacità di comprensione:

a. riconoscere e comprendere la differenza culturale, le sue implicazioni, cominciando


dall'imparare a pensare analiticamente il rapporto tra il proprio modo di vivere la realtà e
quello dei membri di una società antica come quella latina in quanto ricostruibile dai testi
giunti fino a noi;
b. conoscere la cultura di cui i testi sono espressione, con particolare riferimento alla
“nostra” nozione di magia;
c. avere una visione complessiva della storia della letteratura latina con particolare
riferimento agli autori incontrati nel corso;
d. conoscere, comprenderne e tradurne i testi presentati.
OBIETTIVI FORMATIVI DEL CORSO (segue)
2. In riferimento a conoscenza e capacità di comprensione applicate (e in parte anche
ad autonomia di giudizio e abilità comunicative):

a. saper collocare in un quadro diacronico i principali generi letterari latini, insieme agli
autori più cospicui che li rappresentano;
b. saper leggere la magia come categoria antropologica rintracciabile nella cultura latina;
c. saperla analizzare operando riflessioni comparative sia in termini di differenze
“noi/loro” che rispetto ai tratti rinvenibili in altre culture incontrate in monografie
etnografiche o per esperienza diretta;
d. saper tradurre correttamente, nonché analizzare, contestualizzare e commentare i testi
presentati nel corso delle lezioni, oltre che dal punto di vista storico-letterario, anche da
quello antropologico; il tutto in modo autonomo e personale;
e. mostrare di saper usare una terminologia appropriata alla disciplina.
SYLLABUS (= ELENCO DEI VARI ARGOMENTI TRATTATI NELLE LEZIONI DEL CORSO)
Il corso si intitola: “Letteratura e magia nella cultura latina” ed ha lo scopo di percorrere
la letteratura latina cercando di ricostruire le idee e le visioni del mondo relative alla
“magia” così come emergono dai testi che questa cultura ha prodotto.
Il corso si articolerà nei seguenti nuclei tematici generali:
Antropologia e Mondo Antico;
Magus a Roma
Poesia e “magia”
“Magia” e divinazione
La magia in Plinio
Superstizione e magia
“Magia” e religione a Roma
Magia nera a Roma: le defixiones
Apuleio mago
Licantropia in Petronio
EVENTUALI PROPEDEUTICITA’ CONSIGLIATE:

Trattandosi di un corso di laurea magistrale, prerequisito indispensabile è la conoscenza


della lingua latina.

MODALITA’ DI SVOLGIMENTO ESAME:

Gli esami si svolgono in forma scritta in tutte le sedi di eCampus. Nelle sedi di Novedrate
e Roma è possibile inoltre sostenere solo l’orale, oppure lo scritto più eventuale orale.

Regolamento per lo svolgimento degli esami di profitto


METODI DI ACCERTAMENTO DEI RISULTATI DI APPRENDIMENTO E MODALITA’ DI
VALUTAZIONE:
Sia nelle domande aperte (in caso di modalità scritta) che negli orali, lo studente dovrà
mostrare il raggiungimento degli “obiettivi formativi del corso” espressi sopra (vd. i
“descrittori di Dublino” ai punti 1 e 2). Questi ultimi sono anche riassumibili come: a.
conoscenza delle nozioni fondamentali presenti nel programma d’esame (a cominciare,
ad es., dalla nozione di cultura nelle sue varie accezioni tecniche); b. apprendimento di
definizioni e termini tecnici della disciplina; c. comprensione dei legami tra gli stessi ed i
concetti trattati nonché loro applicazione all'analisi di casi di studio (ovvero dei testi
presentati, in questo caso); d. capacità di rielaborare in modo personale e critico le
conoscenze acquisite nonché di esprimere giudizi autonomi; e. proprietà espressive ed
utilizzo dei termini tecnici della disciplina; f. aver sviluppato tecniche di apprendimento; g.
capacità di tradurre correttamente, sapendo commentare in modo autonomo e
contestualizzando i testi secondo categorie antropologico-letterarie come quelle proposte
nel corso.
Puntieggio:
Insufficiente 0-17; Sufficiente 18-21; Buono 22-24; Molto buono 25-27;
Ottimo 28-30
BIBLIOGRAFIA:

Testo d’esame:
Fritz Graf, La magia nel mondo antico, Laterza, Roma-Bari, ristampa 2009 (euro 10,50).

Manuale di storia della letteratura latina consigliato (di preferenza):


Maurizio Bettini (a cura di), Nemora. Letteratura e antropologia di Roma antica (in due
volumi), Firenze, La Nuova Italia 2005 (e successive ristampe e riedizioni).

-Suggerimenti bibliografici:

Versnel, H. S. 1991. “Some Reflections on the Relationship Magic-Religion”. Numen, 38, 2


(Dec., 1991), pp. 177-197.
Bettini, M. 2000. “Sosia e il suo sosia: pensare il ‘doppio’ a Roma”. In (dello stesso
autore) Le orecchie di Hermes. Studi di antropologia e letterature classiche, Torino,
Einaudi, pp. 148-176.
-Suggerimenti bibliografici (segue)

Rives, J. B. 2002. “Magic in the XII Tables Revisited”. The Classical Quarterly, 52, 1
(2002), pp. 270-290.

Il docente è naturalmente disponibile per fornire ulteriori suggerimenti bibiliografici.

N.B. Si specifica l’obbligo di completare la preparazione per l’esame integrando i materiali


disponibili sulla piattaforma con la lettura, imprescindibile, del testo d’esame.
I contenuti
Eccoci adesso all’approfondimento più «discorsivo» di quello che avete già trovato nella scheda corso
precedente. Partiamo dall’obiettivo del corso. Come detto, si tratta di percorrere la letteratura latina
cercando di ricostruire le idee e le visioni del mondo relative alla “magia” così come emergono dai
testi che questa cultura ha prodotto. Si tratta di penetrare il modo in cui i latini pensavano il mondo
magico, cercando di mettere in evidenza le differenze tra il loro e il nostro modo di concepirlo. Visto
che abbiamo a che fare con aspetti relativi alla cultura, è chiaro che non possiamo prescindere dalla
scienza che fa di essa il proprio oggetto privilegiato: l’antropologia.

Si tratta, in effetti, di una scienza comparativa che, oltre a cercare di ricostruire i caratteri tipici di una
singola cultura, li rapporta alle altre, a cominciare da quella da cui il ricercatore proviene; così, proprio
il raffronto noi/loro si rivela il tratto più tipico dell’approccio antropologico allo studio della realtà
umana. In questo caso, invece di intervistare persone in carne ed ossa, non possiamo che far parlare i
testi “vivi” che queste hanno prodotto, con tutto ciò che tale operazione implica in termini di analisi
degli autori, dei contenuti, dei generi, dello stile, della lingua ecc. Tutti aspetti necessari per una
ricostruzione delle coordinate storico-sociali in cui situare quegli stessi autori, insieme alla mentalità
che avevano dietro.
Quanto ai contenuti, cominceremo con un paio di lezioni metodologiche in cui definiremo l’approccio
antropologico che ci guiderà nell’analisi degli autori e dei testi che costituiscono materia d’esame.
Quindi parleremo del concetto antropologico di magia ed in particolare della magia nelle società
cosiddette “tradizionali”. Infine, sempre molto sinteticamente, dello “stato dell’arte” sugli studi della
magia nel mondo antico. Andremo poi ad analizzare prima la magia nel mondo greco ed, infine, la
magia nel mondo latino. Naturalmente, visto che si tratta del percorso tematico fondamentale del
corso, quest’ultima sarà analizzata attraverso la lettura dei testi, che comprenderanno più autori e
generi, sia in prosa, che in poesia. Per i testi in poesia fornirò lo schema metrico, ma verrà richiesta
una lettura metrica solo per l’esametro (il metro dell’epica e della poesia didascalica) ed il distico
elegiaco (metro della poesia lirica). Negli altri casi naturalmente si tratta di uno sforzo “facoltativo”, ma
comunque apprezzato.
Veniamo ora ai testi. Accanto, ovviamente, al testo in originale di ogni brano, verrà riportata la
traduzione, di cui cercherò di dare versioni più attinenti possibile alla lettera del testo. Seguirà una
breve sezione di “note” in cui segnalerò le parole o i passi più difficili e tutto ciò che potrebbe
complicare la comprensione del testo, insieme, naturalmente, a ciò che invece si mostrerà utile per il
commento. A tal proposito, proprio il commento al testo seguirà le note. Il commento riguarderà da un
lato la contestualizzazione del passo nell’opera da cui è tratto, i tratti contenutistici e formali notevoli e
naturalmente la sua attinenza al tema magico.
Requisiti minimi
Requisito minimo di partenza sarà dunque, anzitutto, una conoscenza di base del latino che
vi possa permettere di orientarvi in modo sufficientemente adeguato ad una comprensione
non superficiale dei testi. Tutti i brani saranno naturalmente presentati in traduzione
italiana, con testo latino a seguire. Ma ne riparleremo tra poco quando descriveremo nel
dettaglio la prova d’esame.
Quanto alle altre competenze che si richiedono, si tratta di essere in grado di situare ciascun
brano e ciascun autore nel preciso contesto storico-letterario. Io naturalmente non vi
lascerò “sguarniti” durante le lezioni, ma ogni volta farò in modo di darvi, dei singoli autori e
dei brani tratti dalle loro opere, informazioni sintetiche per permettervi immediatamente di
inquadrare il personaggio in un periodo, in un genere, guidandovi nella memorizzazione dei
suoi tratti caratteristici di stile, contenuto ecc. o sulla sua importanza e le ragioni della stessa
all’interno della storia letteraria. A voi, tuttavia, il compito di allargare di volta in volta, sul
manuale di storia della letteratura, le informazioni che lo riguardano, riprendendo o
approfondendo nel caso in cui vi rendiate conto che le vostre conoscenze al riguardo
abbiano bisogno di essere “spolverate”.
A questo proposito, due parole più precise sul manuale da tenere sempre a portata di mano nel
momento in cui vi accingete allo studio.

Si tratta, perché particolarmente approfondito sul piano antropologico, di: M. BETTINI (a cura di),
Nemora. Letteratura e antropologia di Roma antica, due volumi, Firenze, La Nuova Italia 2005 (e
successive ristampe e riedizioni)..

Al limite (solo per chi lo possedesse già) lo si può sostituire con quello, più tradizionale, di G.B.
CONTE, Letteratura latina manuale storico dalle origini alla fine dell'impero romano, Milano, Le
Monnier (e versioni alternative dello stesso, tipo Storie e testi della letteratura latina ecc.)..

In generale qualsiasi manuale “serio” su cui abbiate studiato al le superiori può andar bene. (nel
dubbio naturalmente scrivetemi)
Cultura e letteratura latina
Come visto, in questo corso ci occuperemo di magia. Si tratta di un tema che percorre in modo senza
dubbio notevole la letteratura latina. Ma, com’è chiaro, essendo la letteratura emanazione di una
società, e quindi di una cultura, è quest’ultima che terremo presente come punto di riferimento nelle
nostre lezioni. La letteratura, dunque, come “mediatore culturale”, cioè come un “informatore”
intervistato in una ipotetica ricerca sul campo condotta all’interno di una cultura, non
dimentichiamolo, diversa dalla nostra e lontana da noi (anche se solo nel tempo e non nello spazio)
come quella latina.
Come avrete già capito (cfr. “informatore” e “ricerca sul campo”) si tratta di un approccio di tipo
antropologico allo studio della letteratura. L’antropologia è infatti la scienza che studia le culture
umane (cfr. il greco antico ánthropos ‘essere umano’). Da essa, dunque, dovremo partire prima di
addentrarci nell’analisi degli autori latini e dei loro testi, anche perché (ultimo ma non meno
importante) la magia è uno dei campi della cultura più studiati dagli antropologi.
Anzitutto un piccolo ripasso di quello che è l’antropologia (i suoi metodi, l’oggetto di studio ecc.) e di
come essa definisce la nozione fondamentale di cultura; poi vedremo come ciò ci servirà per studiare
la letteratura latina. Questa parte introduttiva terminerà con le prossime 2 lezioni, in cui andremo a
vedere come gli antropologi definiscono la magia in generale, e quindi come essa è stata studiata con
particolare riferimento al mondo greco.
L’antropologia e la nozione di
cultura
L’obiettivo basilare di un approccio antropologico alla realtà: la scoperta improvvisa del
diverso da sé, o meglio la realizzazione che la propria realtà quotidiana, inconsapevolmente
accettata come “normale” e “data una volta per tutte”, è in effetti relativa. Si tratta di un
prodotto di qualcosa che è stato appreso e che non è innato come può esserlo la capacità di
camminare o quella di parlare. L’acquisizione di questa consapevolezza avviene grazie al
confronto con una comunità diversa dalla propria, che esprime una cultura diversa dalla
propria.
Cos’è la cultura? Una prima definizione può essere proprio: un insieme di idee e
comportamenti comuni ad una particolare società, che gli esseri umani imparano non in
modo consapevole ma in quanto, semplicemente, fanno parte di quella società.
Nondimeno, esiste anche una parte innata nell’idea di cultura, perché è chiaro che anche gli
esseri umani hanno evoluto per selezione naturale la cultura come adattamento alla vita
nel proprio ambiente, così come gli elefanti hanno evoluto la proboscide. La cultura così intesa
(detta Cultura, con c maiuscola) è un “organo del cervello” ed è uguale per tutti gli
esseri umani. Ma la cultura di cui si può occupare l’antropologo non è questa, che è astratta, ma il
suo prodotto socio-storico, cioè quello che di essa si vede in una determinata società: usi,
costumi, modi di pensare, ecc. Cioè la cultura come insieme di segni appresi nel gruppo cui
siamo stati esposti dai primi anni di vita.
Cosa inserirei nelle caselle in rosso?
Scrivi sotto la mappa le risposte corrette.
N.B. Per un eventuale riscontro dal docente carica l'attività sull'eportfolio (se non riesci a
scrivere direttamente nel pdf -nello spazio bianco sotto la mappa- le risposte alle domande in
rosso, puoi caricare un semplice file di testo con le risposte, ciascuna con il relativo numero).
Cultura è comunicazione
Attraverso la ricerca sul campo gli antropologi intervistano i membri di una cultura per ricavarne
informazioni che permettano loro non solo di descrivere la singola cultura (etnografia) ma di fare
comparazioni tra culture (etnologia) per distinguere, magari, quali tratti sono tipici di una determinata
cultura (tratti culturali), quali invece sono universali (transculturali). In effetti i tratti culturali si possono
vedere come semplici variazioni dei tratti transculturali. Tutte le culture, ad esempio, onorano i defunti, ma il
modo di farlo varia da cultura a cultura. Da dove queste differenze? Il motivo di base è semiotico. La cultura,
e le varie culture umane, come detto, sono fatte di segni (basti pensare a quel campo fondamentale della
cultura che è la lingua) e i segni più usati dalla scimmia umana sono quelli arbitrari, quelli cioè in cui il
rapporto tra la forma (si pensi ai suoni della parola tavolo) e il contenuto (il suo significato) non ha nessun
motivo di essere ma è dovuto ad un codice, cioè ad un accordo convenzionale tra i membri di una stessa
cultura (accordo che nella fattispecie si chiama lingua). Ecco la ragione semiotica per cui le lingue (e le
culture) sono diverse tra di loro: tra gli innumerevoli segni fonici che l’essere umano può produrre con
l’apparato fonatorio per parlare una lingua, i gruppi umani selezionano solo un numero ridotto di fonemi (i
segni minimi per distinguere una parola dall’altra – quelli riprodotti, di solito malamente, nelle lettere
dell’alfabeto). È statisticamente impossibile che, a meno che non siano entrate in contatto tra di loro, due
culture selezionino gli stessi segni dando loro gli stessi significati, ad esempio gli stessi fonemi per i suoni
delle stesse parole.
Aquae Ferventes
L’archeologia, come dicevo, ci ha restituito moltissime di queste “lettere” agli dei inferi perché
prendano il controllo, bloccandone le azioni, di persone odiate per vari motivi. La varianti del caso
sono molte, ma fondamentalmente lo schema rimane quello descritto. È ovvio che, per motivi
puramente fisici, le defixiones scritte su papiro o su cera che ci sono giunte siano pochissime, al
contrario di quelle su lamine di piombo. Per “fissare” (defigere) i testi di queste ultime si può
leggere, sempre nel testo diGraf, la trascrizione della defixio contro Q. Lentinio Lupo trovata,
anziché nella solita tomba, nel santuario delle Ninfe costituito da una sorgente vicino ad Arezzo. Si
noti la ricerca della precisione terminologica, per non turbare (non si sa mai) le divinità.

“Q. Letinio Lupo, che è chiamato anche Caucadio, che è il figlio di Sallustia Veneria o Veneriosa: è
quest’uomo che io consegno, dedico, sacrifico presso la vostra potenza divina, affinché voi, Aquae
Ferventes, a meno che preferiate esser chiamate Ninfe o con qualche altro nome, affinché voi
l’uccidiate, lo sgozziate”
Ecco il testo latino (per la traduzione, anallsi linguistica e commento vd. videolezione relativa)
Q. Letinium Lupum, qui et vocatur Caucadio, qui est filius Sallustiae Veneriae sive Veneriosae,
hunc ego apud vostrum numen demando devoveo desacrifico, uti vos Aquae ferventes, sive vos
Nimfae sive quo alio nomine voltis adpellari, uti vos eum interimatis interficiatis intra annum
istum.
(da A. Audollent, Defixionum tabellae, Parigi 1904 (DT 129)

Altri luoghi tipicamente deputati erano pozzi, tubature dell’acqua, le soglie delle case.
L’importante è che si fosse trattato di luoghi vicini al mondo sotterraneo, cioè il mondo degli dei
inferi, quelle divinità chiamate anche ctonie.

Si tratta, come nota Graf, di un movimento verso il basso che contrasta con il movimento verso
l’alto, quello, cioè, verso gli dei che abitano il cielo (superi), caratterizzante invece il culto pubblico
a Roma: uno di quei rovesciamenti tipici delle pratiche magiche a livello interculturale.
“Fissare su cera”
Adesso, tornando finalmente al passo ovidiano, abbiamo gli strumenti per interpretare in che senso
il “nome” del poeta potrebbe essere stato “fissato su una rossa cera” e che cosa questo implica.
Anzitutto la cera. Il fatto che sia rossa non fa altro che aumentare la dimensione di ribaltamento
magico di cui abbiamo già parlato nella lezione precedente: rispetto al colore giallo chiaro di una
normale tavoletta scrittoria (ricordiamoci che la cera degli antichi era pura cera d’ape), la maga avrà
tinto la cera con del rosso tratto, tipicamente, dai molluschi da cui si otteneva il famoso color
porpora (l’aggettivo usato da Ovidio è proprio Poeniceus ‘rosso-porpora’, ma letteralmente =
‘cartaginese’, visto che i fenici - ed i cartaginesi erano i fenici più vicini a Roma - erano i migliori
estrattori di porpora di mollusco dell’antichità...). La tavoletta rossa avrà dunque attirato
maggiormente l’attenzione delle divinità infere a cui era diretta. Quanto alla “cera”, nei nostri
resoconti sulle defixiones, l’abbiamo incontrata in due casi: a proposito del materiale usabile per
modellare la figurina da infilzare e del supporto scrittorio, la tavoletta di cera, più diffuso
nell’antichità. Nel primo caso, si può pensare che per “fissare il nome sulla cera” la maga abbia
inciso il nome del poeta direttamente sulla statuetta (una pratica corrente, come dimostrano molti
reperti archeologici); nel secondo caso si può pensare che Ovidio si riferisca non alla statuetta ma al
nome fissato sulla cera tramite la scrittura della “lettera” rivolta alla divinità infera affinché prenda
controllo del poeta. Ciò costituisce l’altro dei due momenti fondamentali in una defixio, che dunque
sarà stata una di quelle “fissate” su cera e non su una lamina di piombo.
4 ragioni per defigere
A questo punto possiamo riprendere il tema del significato etimologico di defixio e del suo possibile
legame con la pratica di magia nera che ha preso questo nome. Il legame con il “fissare” potrebbe
risultare da almeno le seguenti circostanze:
1. il fatto che nel rito di defixio “si fissa” su testi il destino della persona;
2. il fatto che quado subisce la defixio la persona, se il rito ha siccesso, sarà perennemente affidata
alla divinità infera e quinidi sarà immobilizzata, “fissata” in una condizione di completa perdita della
propria autonomia:
3. il fatto che durante il momento della costruzione della figurina che rappresenta la vittima della
defixio, su di essa vengano “fissati”, cioè “conficcati” (si ricordi che anche quest’ultimo senso rientra
nel significato basico del verbo figere) degli aghi nelle parti vitali della persona.
4. Un quarto legame con il significato di ‘fissare’, stavolta nel senso di ‘immobilizzare, bloccare’ si
rintraccia tornando alla nostra statuetta e al nome che la defixio ha in greco. Quest’ultimo è
katádesmos, formato da katá ‘in basso’ e ‘desmós’, sostantivo deverbale dal déōmai ‘legare’.
Letteralmente, dunque, katádesmos sarà l’atto di “legare verso il basso” (Graf). Lo stesso Graf non
esclude affatto un rapporto con il mondo sotterraneo, anche se katá potrebbe avere solo un valore
rafforzativo, cioè ‘legare forte’. Così, sarebbe il momento della “legatura” della vittima, una
legatura non solo metaforica ma, attraverso la statuetta, letterale del suo corpo, a caratterizzare
questo rito per i Greci. E ciò costituirebbe anche il quarto legame con il senso di ‘fissare’,
‘immobilizzare’ presente in defigere.
Licantropia in Petronio (9)
33 Melissa mea mirari coepit, quod tam sero ambularem,
et “si ante” inquit “venisses, saltem nobis adiutasses;
35 lupus enim villam intravit et omnia pecora tamquam lanius
sanguinem illis misit. nec tamen derisit, etiam si fugit;
servus enim noster lanceā collum eius traiecit”.
haec ut audivi, operire oculos amplius non potui,
sed luce clara Gai nostri domum fugi tamquam copo
40 compilatus, et postquam veni in illum locum in quo
lapidea vestimenta erant facta, nihil inveni nisi sanguinem.
ut vero domum veni, iacebat miles meus in lecto tamquam
bovis, et collum illīus medicus curabat. intellexi illum
versipellem esse, nec postea cum illo panem gustare
45 potui, non si me occidisses. viderint alii quid de hoc
exopinissent; ego si mentior, genios vestros iratos habeam’
Licantropia in Petronio (10)
Note al testo: -riga 33: mirari, inf. ps. miror ‘meravigliarsi’. quod ‘perché’. –riga 34: si ante…aiutasses,
ipotetica della irrealtà con i 2 cong. ppf. (aiutasses=adiutavisses ‘avresti aiutato’, regge il dat. nobis ‘noi’). –
riga 35: pecora, non ‘pecore’ (ovis in lat.) ma ‘animali d’allevamento’ in generale. lanius 'macellaio'. –riga
36: sanguinem mittere lett. ‘spargere sangue’; derīsit, 3a s. pf. = ‘derise’, ma deridēre vale anche, come qui,
‘farla in barba a’. –riga 37: lanceā ‘con la lancia’; traiēcit, 3a. s. pf. da traicio ‘trafisse’. –riga 38: haec ecc.,
costruisci ut haec audivi ‘come udii queste cose (o ‘parole’, sott. verba). –riga 39: luce clarā (sott. factā)
abl. ass. ‘fattasi chiara la luce‘=‘in pieno mattino’; tamquam copo compilatus ‘come un oste derubato’,
l’espressione si riferisce ad una favola di Esopo in cui l’oste è derubato da un cliente che si finge lupo
mannaro. –riga 42: ut=‘appena’; vero avv. ‘comunque’. –riga 44: intellexi ecc.: lett. ‘capii (che) quello era un
lupo mannaro’ (NB: versipellis, lett. ‘volta-pelle’, è anche lo stregone) –riga 45: potui, pf. di possum, qui con
valore di “falso condizionale”, cioè=‘avrei potuto’ (com’è noto in lat. possum vale ‘posso’ ma anche ‘potrei’
–in lat. manca il condizionale – purché la frase abbia un sogg. determinato; non ‘qualcuno’, ‘un certo’, in
cui usa il cong.); occidisses, 2p. s. ppf. cong. ‘tu mi avessi ucciso’ (la 2a p. è gnomica, vale cioè come un
impersonale ‘neanche se mi uccidessero’, cfr. il nostro “neanche morto”). viderint, cong. pf. con valore
concessivo ‘vedano (pure)’; trad.: ‘gli altri vedano pure cosa pensare di ciò’. –riga 46: ego si ecc., lett. ‘io, se
mento, abbia i vostri numi irati (contro di me)’;
Habēre aliquem iratum, è l’ennesima ‘frase fatta’ usata da Niceròte, tra proverbi ed espressioni
brusche quanto colorite.
COMMENTO. La magia di cui è testimone Niceròte è, di nuovo, una metamorfosi, quindi un
“punto d’arrivo estremo” del mondo magico. La credenza nei lupi mannari è tipica, com’è noto,
del folclore occidentale, che la lega, com’è anche in questo episodio, al mondo dei morti (cfr. la
notte, il cimitero, la luna simbolo di Proserpina); questi ultimi considerati dai romani ombre
vaganti intorno al proprio sepolcro, in comunicazione perenne con i vivi attraverso i sogni, i
maghi, o, come in questo caso, quei personaggi insospettabili - e tanto più terrificanti - che sono i
versipelles.
Ultime raccomandazioni
Spero che il “gran finale” petroniano vi sia piaciuto ed abbiate toccato con mano quanto Petronio, una
fonte incredibile di informazioni sulla lingua e la cultura latina, fosse anzitutto un grandissimo letterato. In
fondo il suo latino non è neppure troppo difficile da tradurre (com’è noto il latino “parlato” era molto più
simile al nostro italiano…). A questo proposito, veniamo proprio a ciò che dovrete portare all’esame in
termini di traduzione. Naturalmente sono consapevole che questo corso è indirizzato a studenti di filologia
moderna; molti di voi potrebbero non aver neppure mai studiato il latino. È quindi naturale che non
possiamo pretendere da tutti delle traduzioni parola per parola. L’importante, tuttavia, è che anche chi
non è in grado di dominare la lingua latina, si legga bene sia la traduzione italiana che le “note al testo”
(che contengono anche osservazioni fondamentali di natura non solo linguistica!). Chi riuscirà a portare
all’esame anche i brani in traduzione, è chiaro, avrà una carta in più ai fini della valutazione finale; ma
anche chi, pur non dominando il latino, dimostrerà di aver fatto un tentativo di leggere il testo in lingua
originale facendosene un’idea. Al riguardo fate affidamento, oltre che sulle citate “note al testo”, anzitutto
sul raffronto con la traduzione italiana, con cui ho cercato di rendere il senso dei brani in modo quanto più
possibile fedele alla “lettera” del testo latino, rispettando cioè anche l’ordine delle parole dell’originale (il
che non avrà sempre prodotto delle traduzioni eleganti…).
Congedo
Spero di cuore che questo corso sulla magia nella letteratura romana possa avervi stimolato ad
approfondire la conoscenza di un “mondo” e di una letteratura che qui non avete visto che “in
pillole”. Io mi sono molto divertito a prepararlo per voi, e so che avrete modo di suggerirmi idee per
miglioralo, insieme, magari, a suggerirmi nuove riflessioni sul tema. Spero anche (ultimo ma non
meno importante) che il corso abbia contribuito a farvi conoscere un approccio come quello
antropologico, che si sta rivelando sempre più fruttuoso nella sua applicazione allo studio delle
letterature antiche (e non solo lì, poiché ci insegna a valutare le differenze culturali come una
risorsa, una caratteristica irrinunciabile del nostro animale umano).
A questo punto, davvero grazie di cuore per avermi seguito e un grosso “in bocca al lupo” a tutti,
nonché:
bene valēte et vivĭte!
Andrea Guasparri

P.S. Sarò a tutti coloro che vorranno segnalarmi (di persona o per posta elettronica) inevitabili errori
o incongruenze, su cui mi scuso in anticipo.

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