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'Riassunto di 'Postverità'' – Lorusso

Il termine postverità indica una strategia retorico-persuasiva in cui è prevalente la componente soggettive e
passionale su quella referenziale.

Dalla tv verità alla postverità

Pare che tutto sia iniziato tempo fa, e che dunque le cause siano da ricercare non tanto nel web, nei social, quanto
nella televisione: è la televisione che ci ha abituato a confondere verità e finzione, è lei che ha consegnato lo scettro
del microfono a gente comune senza speciali competenze.

La tv verità

Erano gli anni Ottanta quando si è iniziato a parlare di tv verità. La tv abdicava al ruolo di puro agente di spettacolo,
o a quello pedagogico, e sceglieva la strada della realtà: si proiettava all’esterno, verso i problemi quotidiani della
gente. Entrava in crisi così l’alternativa tra informazione e intrattenimento, che fino a quel momento aveva
modellato la tv, e iniziava a prendere piede qualcosa di ibrido, che intratteneva parlando di realtà. Successivamente,
si è parlato di infotainment. Dalla fine degli anni Ottanta siamo cioè nel pieno di quel regime che Umberto Eco ha
definito “neotelevisione”: il pubblico che interviene con le sue telefonate in diretta; si impone la logica del salotto,
ovvero la messa in scena di una situazione informale in cui la distanza fra tv (professionisti della tv) e pubblico si
riduce. È su questo sfondo neotelevisivo che si inseriscono le trasmissioni della tv verità, che sembrano rilanciare
l’idea di una finestra sul mondo, ma in realtà iniziano a costruire mondi in vitro (*indica fenomeni biologici riprodotti in provetta e non
nell'organismo vivente)
. La tv, anziché inquadrare il reale, ritagliandolo, selezionandolo e discutendone gli elementi di
interesse, inizia a costruirsi i “suoi” eventi.

In tutte le trasmissioni dell’epoca c’erano delle caratteristiche comuni:


 Una specie di ossessione per la realtà: era la realtà a legittimarle
 I fatti venivano colti per lo più nel loro accadere, come eventi in corso, in presa diretta; si dava cioè
un’illusione di presenza, e per questo di trasparenza
 La partecipazione della gente comune era cruciale: o come protagonista della realtà (i fatti raccontati
riguardavano spesso persone comuni) o come pubblico attivo in studio
 Lo spostamento verso il privato era radicale: nel parlare di realtà, di fatti, gli aspetti messi in luce non erano
tanto aspetti di rilievo politico, quanto fatti privati
 Spesso presupponevano un segreto da svelare

Emerge con chiarezza in queste trasmissioni un aspetto cruciale per pensare oggi il problema della verità e della
postverità: quello dell’affidamento; o meglio: del trasporto verso il discorso in atto di chi lo pronuncia. La televisione
ci ha abituati a un’adesione emotiva ai suoi portavoce (o, viceversa, a un’antipatia istintiva), basata su meccanismi di
identificazione, proiezione (…). L’affidamento cioè è stato declinato in proiezione emotiva: mi affido a chi è come
me, non tanto a chi ne sa più di me. Una verità che non è aderenza ai fatti del mondo ma autenticità.

L’iper-realtà dei reality

È sull’esasperazione della vita quotidiana come fosse la nostra, della vita dell’uno qualunque, che si gioca il passaggio
alla reality tv, nuova declinazione della tv verità: svolta della televisione verso la verità del vissuto. Ma questo
abbattimento tra realtà e finzione ha sortito effetti completamente diversi: non ha affatto de-automatizzato le
percezioni, ma al contrario ha naturalizzato la finzione; anziché mettere in rilievo la costruzione che c’è dietro ogni
messa in scena, ha “quotidianizzato” lo spettacolo, come fosse la nostra vita “vera”.

La verità dei reality si dà evidentemente sul piano emotivo: le situazioni messe in scena sono forzate (non false),
come forzato è il setting di un esperimento, ma quel che lì succede è autentico, risponde a pulsioni, azioni-reazioni,
vere. Si dà dunque un passaggio cruciale per capire come oggi possano circolare impunite tante postverità: il
passaggio dalla verità dei contesti alla verità dei sentimenti.

La real tv

Un’ulteriore evoluzione della tv verità e della reality tv sono gli attuali programmi di real tv, ovvero programmi i cui
protagonisti sono persone qualunque seppur “particolari”: super-grassi, super-magri, ossessionati dal pulito, dal
sesso, dagli abiti da sposa, sedicenni incinte, oppure esperti di acquari, di meccanica, di trucco o di cucina. insomma,
i programmi che ci sono oggi su Real Time.

Conclusione

La televisione ci ha reso familiari almeno tre pratiche cruciali per la nostra contemporaneità:
 Intimità come parametro di veridicità. Ha legittimato la rilevanza pubblica del privato, stravolgendo
completamente i confini fra sfera pubblica e sfera intima. L’intimità è diventata parametro di veridicità: più
qualcosa attiene al personale, più è autentico e veritiero. E siccome l’intimità ha a che fare anzitutto con
passioni, pulsioni e sentimenti, queste componenti emotive sono diventate la cifra della verità. Se un tempo
la verità era oggetto di giudizio, oggi è oggetto di sentire
 Privatizzazione del reale + Neutralizzazione degli esperti. In funzione di questa “privatizzazione” del reale,
ha legittimato i saperi quotidiani, banali, pratici. Il sapere non emerge più come effetto di un processo di
apprendimento e competenze guidato, una trasmissione di sapere dall’esperto al neofita, ma come qualcosa
che appartiene all’individuo in sé, oppure che l’individuo può acquisire da solo senza bisogno di nessuno.
Sono quindi state neutralizzate le autorità esterne, gli “esperti” veri e propri
 Ha preso forma un soggetto che ha doppia natura: la “gente”, allo stesso tempo sovrapersonale ma fatta di
individui privatissimi

Così arriviamo a un doppio movimento che nutre e prepara il clima di postverità che preoccupa oggi: da una parte
una moltiplicazione di verità, dall’altra un’ossessione per la realtà. Quasi paradossalmente, nel regime della
postverità la verità non sfuma per sottrazione e negazione, ma per moltiplicazione ed eccesso (è così tanta che crea
confusione).

La verità della rete

Echo chambers e altre conferme

La rete da una parte diffonde, dall’altra isola. È il fenomeno delle echo chambers. Nella rete, per come oggi è
organizzata, si creano delle sfere ideologiche abbastanza impermeabili, dove rimbalzano idee tra loro simili che si
fanno eco reciprocamente. Perché avviene questo? Perché l’informazione in rete è sempre più personalizzata. I
social in particolare, ma anche i siti di ricerca, non offrono a tutti gli stessi contenuti, non aggiornano gli utenti allo
stesso modo, ma distribuiscono informazioni calibrate sui consumatori: sui loro gusti, i loro interessi, le loro
preferenze. Eli Parise ha parlato di filter bubble.

Le echo chambers, dunque, si creano perché ciascuno di noi, nelle sue ricerche, riceve aggiornamenti filtrati dalle
proprie abitudini, dai propri acquisti, dalle proprie curiosità, e non da un condiviso rilievo sociale. E se alla mia
attenzione vengono sottoposte sempre, e sempre più, notizie che corrispondono alle mie preferenze, difficilmente
arriverà al mio sguardo qualcosa di radicalmente nuovo, o dissonante, o imprevedibile. Nelle bolle in cui ciascuno di
noi si trova:
- Le verità sono assolute, perché non sono messe in discussione, non hanno contraltari
- la categoria di autorità è svuotata. La parola chiave è disintermediazione. L’idea di poter prescindere dalle
mediazioni ci è sembrata liberatoria. Ma su Google News un filtro di selezione e orientamento c’è
comunque; quindi c’è comunque un’istanza di manipolazione del sapere, che filtra a monte – senza lasciarne
traccia – il dicibile. Per l’utente si crea un effetto di contatto diretto col reale, l’impressione, l’illusione di quel
contatto, perché non c’è una firma che dichiara la propria azione. La dissimulazione della mediazione, però,
non è effettiva disintermediazione
- Tutto risulta estremamente credibile

Tutto ciò corrisponde a un meccanismo cognitivo che tutti mettiamo normalmente in atto: il confirmation bias, per
cui tendiamo a muoverci entro lo spazio di convinzioni già acquisite. Evitiamo la dissonanza. Preferiamo non ci sia.
Ma il problema è che questo meccanismo cognitivo normale di semplificazione e gestione della complessità, che
spontaneamente e individualmente mettiamo in atto, qualche azienda lo ha tradotto in algoritmo, facendone un
dispositivo di gestione dell’informazione.

Le echo chambers sono rette da tre dinamiche:


 Polarizzazione: costruiscono una socialità polarizzata su posizioni che non comunicano
 Testi normativi: per gestire la credibilità e l’autorevolezza delle posizioni che in questi spazi chiusi si
affermano si rende necessaria la costruzione di alcuni desti di riferimento, testi-parametro, che si in questo
senso si fanno normativi: dettano legge.
 Funzione fatica: si fanno discorsi per spiegare i propri discorsi; dichiarazioni per illustrare le parole usate
nelle proprie dichiarazioni

Sono, quelle delle echo chambers, tipiche comunicazioni io-io: comunicazioni in cui non è prioritario il dialogo con
l’altro, ma è prioritario il rafforzamento auto-identitario, e in cui quindi più che il progresso del discorso troviamo un
continuo processo di autoconferma del già detto.

Ecco perché nel web, fra social, motori di ricerca, siti di aggregazioni di informazioni, le verità sono tante e piccole:
sono personalizzate. La natura del problema sta nella moltiplicazione della verità: fenomeno che non sempre
corrisponde alla diffusione di bugie.

L’illusione del fact checking

Il fact checking, ossia verifica dei fatti, è il più delle volte solo un’illusione, il simulacro di una verifica responsabile,
che in realtà nasconde e dissimula la delega ad altre fonti di informazione, che riteniamo più affidabili. La verifica
dunque non è materia di corrispondenza (corrispondenza tra ciò che si dice e ciò che è successo davvero), bensì
materia di confronto, condivisione e credibilità.

Ciò su cui il fact checking dovrebbe più realisticamente basarsi è il confronto tra fonti di informazioni diverse; strada
per certi versi più complessa, perché non è un gioco 1 a 1 (discorso-realtà) bensì un discorso con attori multipli (tante
voci quante sono quelle che riteniamo rilevanti). Emerge un’idea molto confusa di cosa il fact checking sia. Si oscilla
fra il campo semantico del controllo, quello del giudizio, della pulizia, dell’analisi, della realtà tout cort. Alcune
organizzazioni si propongono come soggetti di un’azione cognitiva (decodificare, controllare…), altre di un’azione
moralizzante (pulire, giudicare), altre ancora di un’azione quasi trasparente di restituzione del reale. In queste
diverse operazioni emerge tutta la vaghezza del fact checking se pensato in rapporto al solo obiettivo di verificare la
corrispondenza ai fatti, o verificare la verità dei fatti.

L’affidabilità non può essere irrazionale moto di adesione. L’affidabilità è credibilità, fiducia nella persona che parla e
corrispondenza ai saperi consolidati (dove “corrispondenza” viene intesa non come rispecchiamento, adesione, ma
come adeguatezza). Fino a quando continueremo a pensare di poter verificare i fatti prescindendo dalla credibilità di
chi parla resteremo nell’equivoco dell’oggettività del vero, mentre il più delle volte ciò che conta (e ciò che abbiamo
a disposizione) sono oggettività di competenze, autorevolezza, attese soddisfatte o smentite.

Nel 2017, Facebook ha prodotto in merito al problema delle bufale un documento tre tipologie di operazioni sulle
informazioni:
- False news (articoli intenzionalmente scritti per dare false notizie)
- False amplifiers (notizie elaborate da account falsi)
- Disinformation (informazioni non accurate ma diffuse comunque intenzionalmente; in questi casi non c’è
forse la costruzione strategia di un falso)

La scomparsa dei fatti

I fatti si fanno

Il problema non è che i fatti esistano ma che possiamo pensare di poterli restituire così come sono. Una riflessione
sulla postverità non può non porsi questa domanda: cosa sono i fatti? Sono qualcosa di separato dai discorsi che li
costituiscono? Se sono autonomi dai discorsi, come possiamo accedervi e restituirli? E se invece sono prodotti dai
discorsi, come possiamo fidarci? Che rapporto c’è e deve esserci, tra media e realtà?

Ci sono sempre fatti interpretati. La realtà si dà sempre entro certi schemi interpretativi, entro certi modelli, entro
certi lessici e convenzioni. Al di fuori di quegli schemi, di quei modelli, di quei lessici, non è che quella stessa realtà
non esista, ma è diversa. È una lunga catena di mediazioni e interazioni quella che fa sì che eventi, forze, elementi
prendano una certa forma e, come tali, diventino realtà. I fatti non sono tali a monte, ma sono tali a valle di qualcosa,
di pratiche e interpretazioni che consentono loro di emergere. Ipotizziamo che esista la vita su Marte: finché non
entra in contatto col nostro mondo per noi non esisterà (per quanto esista sul pianeta Marte); significa che le cose
assumono esistenza dentro degli universi di cultura.

La necessità di un accordo

Secondo Peirce, tutta l’attività umana altro non è che una lunga catena interpretativa, definita “fuga” proprio perché
inesausta, tendente all’infinito. In questa fuga, ogni gesto, atto, parola, per essere anche solo concepito ha bisogno
di passare per una mediazione interpretativa (uno schema, un modello, un’immagine, una qualche forma
precedente). Non c’è mai immediatezza o intuizione pura. Ogni elemento di realtà deriva da interpretazioni
precedenti ed è strumenti di interpretazioni successive. Tali interpretazioni successive non avranno tutte lo stesso
peso. Alcune saranno più solide, più condivise, diventeranno verità condivise, abitudini del pensiero: abiti
interpretativi. Altre si estingueranno da sé.

Di fronte alle sfumature favolistiche della realtà, il nuovo realismo si presenta anzitutto come un ritorno alla
autonomia del testo. In “Manifesto del nuovo realismo”, scrive Ferraris:

“È chiaro che per sapere che l’acqua è H2O ho bisogno di linguaggio, di schemi e di categorie. Ma che l’acqua sia H 2O
è del tutto indipendente da ogni mia conoscenza, tant’è che l’acqua era H 2O anche prima della nascita della chimica,
e lo sarebbe se tutti noi scomparissimo dalla faccia della terra”

Ci sono dunque fatti e interpretazioni; non è vero che non c’è distinzione e non c’è una sequenzialità tra gli uni e le
altre: se non ci fossero i fatti, non ci sarebbero interpretazioni.

In “I limiti dell’interpretazione”, Umberto Eco scrive:

“… perché ci sia interpretazione, ci deve essere qualcosa da interpretare – e se pure ogni interpretazione non fosse
altro che l’interpretazione di una interpretazione precedente, ogni interpretazione precedente assumerebbe, dal
momento in cui viene identificata e offerta a una nuova interpretazione, la natura di un fatto”

Si media tra versioni diverse della verità, in ragione di interessi diversi, mettendo alla prova tali versione, e via via
facendo la realtà. Questa differenza di priorità implica spostare l’attenzione dal piano ontologico (cosa sono le cose)
al piano epistemologico e gnoseologico (come conosciamo le cose, entro quali quadri conoscitivi).

Il punto è che non c’è un livello autonomo di realtà, di cose che esistono indipendentemente da noi. Il punto è,
inoltre, che tale livello è per noi inaccessibile e come tale non pertinente. Fra l’inconoscibile della realtà inattingibile
e la soggettività variegata degli enunciati, si dà un livello che è quello sociale, in cui i soggetti accordano i propri
comportamenti, le proprie credenze, le proprie mediazioni interpretative, dando origine a delle regolarità piuttosto
stabili: non immutabili ma stabili.

Negli argomenti del nuovo realismo il livello percettivo è spesso invocato quale livello di base, luogo di partenza di
ogni attività interpretativa dell’uomo. Tuttavia, questo riferimento alla percezione è molto problematico. Anche il
piano percettivo, infatti, si costruisce entro quadri di riferimento. Nei discorsi mediatici, proprio la percezione è oggi
il livello su cui sempre più si gioca, per raccontare narrativamente la realtà e confondere piano del reale e piano della
finzione. Per via sensibile, lo spettatore sente e verifica la “verità” della rappresentazione. I sensi non mentono; i
senso sono il livello in cui si tocca la realtà: questo è il presupposto di base, e i media cavalcano questo pregiudizio,
concentrandosi sull’esasperazione del dettaglio percettivo. Non si tratta di realismo; si tratta di qualcosa più vicino
all’impressionismo, che ricorre allo stimolo percettivo per far rivivere (veramente) certe sensazioni. La percezione
rivela nel discorso mediatico tutta la sua finzionalità e, a contempo, tutto il suo potenziale di verità. Essa non è
l’alternativa reale alla finzione. Non sussiste l’opposizione realtà-finzione.

Conclusione

Vero e falso sono tali solo dentro un sistema di riferimento, e dunque il realismo ha le sue evoluzioni, così come la
verità. Dire che le verità cambiano col tempo non significa abdicare alla verità; dire che oggi la realtà comprende
elementi che un tempo non c’erano e che sono stati costruiti dall’uomo, non significa abdicare all’oggettività della
realtà; dire che le verità che si affermano come vincenti riflettono interessi e logiche di potere non significa dire che
siamo in un mondo di complotti ai nostri danni.
Le verità, quindi, sono costruzioni sociali, sempre. E valgono come verità solo poste certe premesse, ovvero entro
certi quadri. Realtà e verità non sono la stessa cosa, e non possono esserlo; non possono corrispondersi. Il punto
discriminante è che la verità è un giudizio e si dà entro un sistema discorsivo; la realtà, invece, è in se stessa, ma
come tale può essere (ed è spesso) inattingibile.

Verità, discorsi, accordi

La verità è discorso

Ciò con cui l’uomo si trova confrontato è sempre una realtà in discorso, vale a dire una realtà che si manifesta in una
qualche forma di mediazione discorsiva. In prospettiva semiotica, la verità non dipende dalla realtà, bensì dalla
costruzione discorsiva della realtà. La verità, per chi ha sguardo semiotico, si dà in rapporto a due categorie:

- l’apparire: non può prescindere dalla dimensione comunicativa (di qualcuno che dice qualcosa)
- il discorso: dimensione della manifestazione

La verità è ciò che sembra tale, che risulta tale, nel discorso. La verità si costruisce in una catena di effetti di verità. L’
effetto di verità è solo la risultante di una serie di strategie discorsive, che fanno emergere il piano della realtà
descritta; viceversa, l’effetto di menzogna si ha ogni volta che un discorso manifesta una configurazione che non
corrisponde a ciò che è presupposto nella realtà; quando si facesse intendere, col proprio discorso, di dire molto
meno di quello che la realtà in effetti racchiude, si costruisce un effetto di segreto.
Quando leggiamo articoli, ascoltiamo servizi di informazione o discorsi politici, siamo destinatari di un’operazione di
manipolazione. E così crediamo, aderiamo, o critichiamo, sospettiamo, ma non sulla base di verifiche, bensì sulla
base di effetti di senso che non hanno a che fare col confronto col reale, ma con l’idea di verità che abbiamo e con il
modo in cui il discorso ce la restituisce.

Più che alla verità come categoria sovrastorica (cioè immutabile), la semiotica ritiene più opportuno guardare alle
veri-dizioni, cioè ai discorsi che costruiscono le verità. Il “quadrato della veridizione” concepisce tutta la
comunicazione come un’inevitabile “creazione di illusioni” (di realtà, verità…).

La verità è una possibile bugia

Il segno è tutto ciò che può essere usato per mentire (qualcosa che può stare al posto di qualcos’altro ri-
significandolo).

Segue l’esempio di Eco sui tipi possibili di falsificazione: cosa è un doppio (tante copie di un libro), uno pseudo-
doppio (tante copie di un libro, ma di cui uno è firmato, e quindi non ha lo stesso valore del suo corrispondente), una
contraffazione (un quadro spacciato per opera di Picasso ma realizzato oggi), un falso (la stesura di un documento ad
hoc che determini certe conseguenze). E riflette su come autenticità, verità, validità siano in realtà categorie per
niente sovrapponibili.

La verità è una storia convincente

Il regime della postverità e quello dello storytelling presentano non irrilevanti punti di convergenza: centralità delle
emozioni, coinvolgimento in prima persona dei destinatari, sensazione di prossimità e protagonismo, impressione di
manipolabilità del reale. Non esistono testi che ricorrono alla narratività e testi che invece ne fanno a meno. Tutti i
testi, tutti i discorsi, tutto ciò che produce senso sono informati da una logica narrativa.

La notizia è sempre meno pensata come documento e sempre più pensata come racconto. È come se oggi la
capacità narrativa fosse un valore in sé, un segno di distinzione giornalistica, una competenza che attrae subito
consenso. Spesso, alcuni siti costruiscono una notizia che si inserisce in una sceneggiatura narrativa già consolidata,
aggiungono elementi di novità che di solito costituiscono solo un caso in più rispetto alla narrativa già affermata, e
così propongono una storia catalizzante. Per questa doppia natura (di conferma e di intensificazione) anche se non
è vera, risulta essere una “bella storia”. La logica narrativa della postverità non procede per slittamenti ma per
esasperazioni: dato un frame, si collocano in quel frame casi episodici che lo confermano (e nel confermarlo, lo
esasperano).
Rispetto a questa uniformità di fondo in cui siamo immersi, la moltiplicazione di verità cui assistiamo cambia allora di
senso. È una forma di frattalizzazione, non di accrescimento. Non si producono più verità (cosa che
corrisponderebbe a una moltiplicazione di paradigmi e versioni del reale, dunque a una complessificazione) ma più
occasioni di variare le medesime verità (cosa che corrisponde a un gioco di rifrazioni e variazioni sul tema che è
ridondanza, confusione, non effettiva diversificazione), creando così una enorme cassa di risonanza alle proprie
passioni, alle proprie convinzioni, ai propri pattern narrativi.

La verità è accordo

La comunità peirciana non è una funzione quantitativa ma un’istanza di verifica. La verità è anzitutto il legame sociale
– dunque qualcosa che si dà sul piano etico e politico.

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