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Riassunto di “Uomini e no” – Elio Vittorini

Trama

Siamo nel gennaio dell’inverno del ’44. La storia si apre con un uomo che vede, nella folla, il gomito e la spalla di
una donna. I dialoghi che hanno da lì in poi fa pensare che i due si conoscono da tempo. Lui è Enne 2, lei è Berta
(36 enne). Dialogando a casa di una vecchia e conoscente di lui, una certa Selva, veniamo informati che Enne 2 è
stato in prigione da maggio fino a metà agosto, e che è tornato a lavorare da poco, da due settimane.

Salutata Berta, rileva la rivoltella dalla borsa di una signora (Lorena) con la quale aveva un appuntamento, e
insieme ad altri tre ragazzi mette in pratica un agguato al capo del tribunale, sparandogli.

In dialogo con la sua immaginazione, chiede a sé stesso di poter tornare bambino e di entrare nell’infanzia di
Berta. Diventa un bambino di dieci anni che incontra, nella Sicilia dove lei abitava da giovane, la Berta che ha dieci
anni. Lo fa con un obiettivo: fermarla. C’è un perché: «Non voglio che incontri quell’uomo.» (*pag. 30) Il perché si
dispiega proseguendo nel racconto (Berta ha sposato un altro uomo, poi ha conosciuto Enne 2).

Segue la scena in cui fa l’amore con Lorena, che è la sua portatrice d’arma. Fa l’amore con lei per «Vedere se sono
ancora un uomo.» (*pag. 34) Dopodiché, si riunisce con il comando dei patrioti e insieme decidono di attaccare, nella
stessa notte, nuovamente il tribunale: l’obiettivo è di anticipare i piani fascisti ed evitare le loro rappresaglie (che
per ogni uomo dei loro trovato morto ne fucilavano dieci come contrappasso). Riescono ad uccidere il capo del
tribunale appena eletto; alcuni di loro muoiono, altri si mettono in salvo. L’indomani, la città si risveglia con i corpi
per le vie: sono dei partigiani caduti lottando, ma anche di innocenti, di persone prese e uccise nella notte per
vendetta.

I tedeschi, per vendicare i nove morti, decidono di prelevare dal carcere centodieci persone (che poi diventeranno
cento): una decina per ogni loro morto, e cinque per ogni cane (due) dei loro uccisi. Anche qui, l’autore mostra
l’insensatezza di queste scelte e di chi le prende: «L’idea di poter consegnare al plotone di esecuzione solo degli
operai sembrava confortante […], quasi liberatrice. Come un male minore.» (*pag. 140) Viene raccontata l’uccisione di
un uomo, Giulaj, per aver ucciso (per legittima difesa) un cane del capitano: l’uomo viene fatto spogliare e
sbranare dai cani.

Tentano un assalto alla caserma dove dorme Cane Nero. L’attacco va male, due partigiani muoiono, il volto di
Enne 2 viene pubblicato sui giornali. I compagni gli propongono di partire: deve lasciare Milano per mettersi in
salvo, qualcuno potrebbe riconoscerlo e venderlo ai tedeschi (tanto che succede, col tabaccaio dove Enne 2
andava a comprare le sigarette che fa la spia). Però Enne 2 decide di rimanere, e mentre sente Cane Nero venire
su dalle scale, l’autore ci lascia col dubbio su chi sia morto (dal momento che il racconto si interrompe con Enne 2
con due pistole in mano).

Il finale della storia chiude e rafforza il messaggio del libro. Un operaio, su suggerimento di Enne 2 mandato a
imparare il mestiere di combattere dai compagni Orazio e Metastasio, uccide due tedeschi che vanno in moto, poi
altri due («Non fa nemmeno effetto così mentre corrono» (*pag. 203)), e quando propone di uccidere un tedesco
faccia a faccia in un bar, gli vede il volto triste, l’espressione tipica di un operaio come lui era, e si rifiuta di
ammazzarlo. “Non l’hai fatto fuori?”; “Era troppo triste” (*pag. 206)

Messaggio

È un romanzo che vuole trasmettere (e ci riesce) l’insensatezza della guerra, l’assenza di reali (se non stupidi)
motivi per farla, per mettere un uomo comune contro un altro uomo comune in nome di qualcosa che né uno né
l’altro sono in grado di capire, se non sotto forma di slogan di parte: «Essi avevano, ognuno, una famiglia: un
materasso su cui volevano dormire, piatti e posate in cui volevano mangiare, una donna con cui volevano stare; e
i loro interessi non andavano molto più in là di questo, erano come i loro discorsi. Perché, ora, lottavano? Perché
vivevano come animali inseguiti e ogni giorno esponevano la loro vita? Perché dormivano con una pistola sotto il
cuscino? Perché lanciavano bombe? Perché uccidevano?» (*pag. 49)
(…)
«Perché, se non erano terribili, uccidevano? Perché, se erano semplici, se erano pacifici, lottavano? Perché, senza
aver niente che li costringesse, erano entrati in quel duello a morte e lo sostenevano?» (*pag. 54)

Credo che tutta la storia, e molto di più del suo significato, si possa riassumere in una frase che la coscienza di
Enne 2 (o la coscienza di Berta stessa) dice di lei, dopo aver sfilato vicino ai corpo senza vita lasciati in strada:
«Niente di quello per cui lei è vissuta è in quello per cui loro sono morti.» (*pag. 119)

Un male che è intrinseco nell’uomo: nasce, cresce e prospera per opera dell’uomo: «Diciamo oggi: è il fascismo.
Anzi: il nazifascismo. Ma che cosa significa che sia il fascismo? Vorrei vederlo fuori dell’uomo, il fascismo. Che cosa
sarebbe? Che cosa farebbe? Potrebbe fare quello che fa se non fosse nell’uomo di poterlo fare? Vorrei vedere
Hitler, e i tedeschi suoi se quello che fanno non fosse nell’uomo di poterlo fare. Vorrei vederli a cercar di farlo.
Togliere loro l’umana possibilità di farlo e poi dire loro: Avanti, fate. Che cosa farebbero? Un corno, dice mia
nonna.» (*pag. 171)

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