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Max Stirner
Jacques Mesrine
L'ISTINTO DI MORTE
NOCOPYRIGHT.
Titolo originale:
Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi
comunque favorisce questa pratica agisce in favore di chi desidera sapere e
conoscere, avvantaggia un sapere avverso al censo e opera in favore della
cultura di tutti.
Al suo rientro a casa, si rende conto di non essere adatto a inserirsi nel
mondo del lavoro e decide intraprendere la vita del fuorilegge. La sua vita
avventurosa contempla furti, rapine, incontri con prostitute, violenti liti con
sfruttatori, assassinii, amori, figli: una vita intensa nel corso della quale è
stato più volte arrestato ed è più volte evaso, anche da carceri di «massima
sicurezza», in Francia come in Canada. L'Istinto di morte ci svela questo
personaggio che negli anni '70 è diventato per i mass media un «nemico
pubblico numero 1», come venne definito in Francia, una primula rossa che
la polizia aveva ordine di prendere vivo o morto, e per il «movimento» di
quegli anni un simbolo della rivolta senza quartiere contro la società
borghese e capitalista e la sua giustizia.
INDICE.
Introduzione (di Roberto Moretto).
L'ISTINTO DI MORTE.
Annessi:
***
INTRODUZIONE.
La prima volta che ho sentito parlare di Mesrine è stato nel 1979; in via
Sacchi, vicino alla stazione torinese di Porta Nuova, un giornalaio esponeva
un "affiche" del periodico francese "Paris Match", la locandina segnalava un
articolo su Jacques Mesrine, il «pericolo pubblico numero uno» che,
recentemente evaso da un carcere speciale francese, conduceva una
battaglia pubblica per la chiusura delle stesse carceri speciali e aveva
appena sequestrato e «gambizzato» un giornalista di un quotidiano francese
di estrema destra.
Lessi per la prima volta questa sua autobiografia durante gli anni che passai
all'estero per sottrarmi ad alcuni mandati di cattura ispirati da sedicenti
pentiti a dir poco allucinati. Ricordo vivamente come la lettura, pur con
l'handicap del testo in francese (praticamente erano i primi testi francesi
che leggevo in questa lingua dopo gli anni della scuola dell'obbligo), mi
aveva catturato come pochi altri; praticamente passai due/tre giorni
immerso nella lettura... inutile dire che trovai molte posizioni etiche di
Mesrine perfettamente condivisibili. Curiosamente questa lettura ipnotica
del testo la ritrovai (accentuata) la seconda volta che, a distanza di anni,
rilessi il testo; ricordo che, essendo detenuto, avevo manifestato ai
compagni «fuori» la volontà di tradurre questa autobiografia, qualora
fossero riusciti a recuperarla. Anche qui lo lessi in un sol fiato: mi
consegnarono le fotocopie con la posta di mezzogiorno e finii la lettura alle
4-5 del mattino... fortunatamente ero in una cella singola e quindi non diedi
fastidio a nessuno.
Penso che il "fil rouge" che unisce sia la vita di Mesrine raccontataci
nell'autobiografia, sia i 18 mesi di libertà (e di vita) sia costituito dalla
categoria dell'amicizia, di un'amicizia che va - letteralmente - fino alla
morte. Questo è stato il mito fondante dell'agire politico (nel senso
esistenziale, di prassi di vita) di una generazione; con le radici affondate nel
mito amicale di Eurialo e Niso, si passa dall'epopea gruppale de "Il mucchio
selvaggio" per approdare alla prassi di un Mesrine o dei «banditi
metropolitani», così efficacemente descritti da Quadrelli, per arrivare (nel
'77 e dopo) ai gruppi informali di proletari organizzati in strutture (reti
amicali) armate libertarie. Come ben sintetizzò Corrado Alunni, l'imperativo
era "prendere i soldi, portare a casa tutti".
Già l'evasione era stata spettacolare: l'8 maggio 1978 (con François Besse e
Carman Rives) era nella sala colloqui della Santé con i suoi avvocati,
quando, da un pannello mobile del soffitto, estrasse 2 o 3 pistole e alcune
bombolette di gas C.S.; sequestrarono quindi le guardie e guadagnarono la
libertà... tranne lo sfortunato Rives, che cadde dalla fune sospesa tesa per
superare il muro di cinta e morì sul colpo. All'epoca i malpensanti dissero
che le armi in realtà le aveva portate l'avvocatessa di Jacques, la quale fu
persino inizialmente inquisita (e successivamente prosciolta) da questa
accusa.
A mo' di appendice, può essere utile spendere due parole sul «caso
Lebovici». Gérard Lebovici era un editore e produttore della "gauche"
radicale francese; pubblicò, come edizioni Champ Libre, praticamente tutti i
testi di Guy Debord e pubblicò anche "L'instinct de mort"; dopo la morte di
Mesrine produsse anche l'unico film serio (e autorizzato anche dalla figlia
Sabrina) su di lui. Nel 1984 lo ritrovarono al volante della sua Renault 30
T.X. in un garage vicino a Place de l'Etoile con 4 pallottole 22 long rifle nella
nuca... un'esecuzione da professionisti che puzzava tanto di servizi.
Mio padre ha scritto questa autobiografia nel 1976. A quel tempo, lo vedevo
ogni settimana al parlatorio della prigione di Fleury-Mérogis.
Per lui, "L'Istinto di Morte" era una requisitoria e non una difesa a proprio
favore. Tuttavia questo libro è stato proibito. Tuttavia i suoi diritti d'autore
sono stati sequestrati.
SABRINA M.
***
L'ISTINTO DI MORTE.
a Janou... la Moglie
a Francine... l'Amica
a Lizon
Joyce
Manine... il Coraggio
Reclusorio della Santé. La notte ha steso il suo velo sulle sofferenze del
mondo carcerario. Fa freddo, è inverno. Le luci si sono spente. L'ombra
delle sbarre si riflette sui muri sbiaditi delle celle quasi a imprigionare l'unica
evasione rappresentata dal sogno. Ogni cella nella sua oscurità racchiude
una storia, un dramma, un dolore, un uomo e la sua solitudine, che la notte
placherà o renderà ancor più pesante.
I muri spessi della sua cella non gli permettono di sentire i singhiozzi e gli
insulti che lancia il suo vicino. «Puttana... maledetta puttana!». Una foto di
donna per terra. La lettera che ha ricevuto stasera gli comunica che la sua
donna l'ha lasciato. Soltanto ieri, in una lettera precedente, lei gli parlava
d'amore. Lui l'ha confrontata al suo certificato di cornificazione e vomita il
suo rancore. Le luci si sono spente su questa constatazione. Forse soffre
davvero per il suo amore tradito, se non per il suo orgoglio. Un cornuto
libero, può essere divertente; un cornuto in gabbia, è sempre un dramma.
Può piangere, nessuno lo guarda; forse si piange addosso. «Dopo tutto
quello che ho fatto per lei, farmi questo.... puttana!». Sa di essere in
malafede. La sua donna, lui l'ha amata tra due squallidi furti. Ad ogni
sbronza l'ha accarezzata a colpi di ciabatta per dimostrarle di essere un
duro! L'ha infarcita di promesse sulle sue ricchezze future e illusorie. Per
due volte lei lo ha aspettato, nella speranza di vederlo cambiare. Poi, stanca
dei parlatori senza vita, gli ha scritto che non ce la faceva più; stavolta ha
incontrato un tipo a posto e vuole rifarsi una vita. Domani, lui s'inventerà
una storia per i ragazzi dell'aria. Si farà bello, giocherà al duro. Intanto,
piange come un bambino. I muri sono abituati a questo genere di
confidenze. Sono la carta assorbente di quasi un secolo di sofferenze.
La cella vicina rinchiude un bel tipo. Claude. Un rapinatore. Sono sei anni
che aspetta i suoi processi. Ha tentato senza successo diverse evasioni; non
si evade dalla Santé, ha voluto accertarsene. Non dorme ancora. Come ogni
sera, rivive una parte delle sue storie, prepara la sua difesa. Si fa avvocato,
sorride delle belle parole che ha intenzione di dire in risposta
all'osservazione che il procuratore non mancherà di fargli. Ha sempre
rubato; è un professionista. Anche la sua donna lo ha lasciato, tre anni fa;
senza storie... tutto regolare. Non si aspetta il proprio uomo per vent'anni.
Lui l'ha capito e le ha reso la libertà per mantenere intatti i suoi ricordi.
Addio e buona fortuna.... nient'altro.
Oggi, steso sul suo letto, non ha rimpianti. Per orgoglio o per incoscienza?
...Sicuramente per entrambe le cose. Non cerca scuse. Preferisce affrontare
il suo destino accettando di pagarne il prezzo.
- No, sto bene! Vedrai che bel bambino ti darò. Ti amo, lo sai, vero?
Per tutta risposta, lui accarezzò con le labbra la bocca offerta da Monique,
che non poté trattenere un grido di dolore.
- Stavolta lo sento arrivare, il diavoletto.
- Su, mi lasci lavorare senza fare quella faccia; andrà tutto bene.
Il parto fu difficile. Monique gemeva, spingeva con tutte le forze per favorire
la nascita. Fu così che vidi la luce, a testa in giù, dopo aver cacciato un urlo
per annunciare la mia venuta su questa terra. Mio padre, con ammirazione,
fissava i miei attributi maschili. Poi, rivolgendosi a Monique, con tono
stupito e commosso:
Come nido d'amore, avevano una camera con cucina che mia madre aveva
reso abitabile decorandola in modo gradevole. Qui era nata mia sorella. Per
arrotondare la paga di fine mese, entrambi lavoravano alla sera,
arrotolando sigarette in gran quantità o copiando indirizzi su delle buste.
Erano felici. La mia nascita li costrinse a traslocare. Fu così che feci i miei
primi passi in un «bicamere con cucina e servizi» che non lasciarono mai
più.
I miei primi «papà... mamma» uscirono dalla mia bocca tra l'ammirazione
della famiglia. Mio padre mi chiamava, la sua mano mi accarezzava i capelli
riccioluti e teneramente mi diceva, abbracciandomi:
Mi rimise a letto e si diresse verso la porta. Mia madre tornò vicino a me;
non piangeva più, ma le si leggeva negli occhi tutta la tristezza del mondo.
Non rividi più mio padre. Ogni volta che chiedevo di lui, mia sorella mi
diceva che era ammalato e che lo avrei rivisto presto. Questo vuoto mi
spezzava il cuore e, nonostante l'affetto di mia madre, mi sentivo perso
lontano da lui.
L'inverno fu molto più crudo. Mia madre ci aveva riuniti in cucina e vi aveva
sistemato il suo letto. Vivevamo in quell'unica stanza, perché le altre non
erano più riscaldate. Sentii la parola «guerra» per la prima volta dalla bocca
di mia nonna. La parola «prigioniero» tornava spesso nella conversazione
familiare. Poi, un giorno, senza capire bene gli avvenimenti, vidi riunirsi
tutta la famiglia; vi erano soltanto donne e qualche valigia semivuota
intorno a me. Mi fecero indossare abiti caldi e tutti lasciammo l'alloggio.
Un giorno, in piena notte, fui svegliato dalle sirene. Suonarono alla nostra
porta. Un uomo si precipitò da noi e disse a mia madre:
Mamma gli disse che preferiva rimanere nel suo alloggio, che in ogni modo
non sarebbe cambiato nulla se le bombe fossero cadute sulla nostra casa. Vi
furono altri allarmi. Mia madre prese la decisione di riportarci dai nostri
cugini in campagna, per maggiore sicurezza.
La cascina era isolata. Avevamo come unici vicini i genitori dei miei cugini,
che avevano anche loro un allevamento. Il mio cugino più vecchio era il
sindaco del paese vicino, Savigny-Lévescault, che si trovava a due
chilometri dalla cascina. Mi mandarono a scuola là. Non vi imparai molto
perché frequentavo in modo molto irregolare, dato che i lavori della cascina
richiedevano la mia presenza. Con i miei amichetti giocavamo alla guerra.
Ci eravamo fabbricati delle mitragliette di legno. Mille volte si cadeva morti,
mille volte si riprendeva il combattimento. Le ragazze partecipavano ai
nostri giochi; curavano le nostre ferite immaginarie fasciandoci coi nostri
fazzoletti lerci. Imparai ad amare quelle armi di legno; passione che non mi
lasciò più.
E poi, un giorno, si udirono delle esplosioni. Mio cugino ci fece salire su una
torre che sovrastava la cascina. Da lì, assistemmo a un vero combattimento
in piena regola. Dalla nostra postazione si scorgevano uomini che
correvano. Raffiche di pallottole facevano volare in mille pezzi le finestre
della casa. Alcuni uomini in distanza sparavano su altri uomini. I tedeschi
abbandonavano Poitiers. In seguito allo sbarco in Normandia, per loro era la
disfatta. Sulla via del ripiegamento, gruppi di resistenti gli tendevano
imboscate. Come quella che gli tesero sulla strada della cascina. I tedeschi
erano molto numerosi; pochi di loro si fermarono per sparare. Il convoglio
infatti non si fermò. Poi gli spari cessarono; una decina di soldati tedeschi
entrarono nella cascina per fare razzia. Eravamo nascosti e mio cugino ci
ordinò di non muoverci e di restare in silenzio. Poi i soldati scomparvero, le
braccia cariche di vettovaglie.
Mio cugino gli fece segno di seguirlo e l'uomo scomparve dalla mia vista.
Sarebbe poi stato ammazzato quindici giorni dopo in un altro attacco nei
pressi di Saint-Julien-L'Ars.
Seppi che erano stati ritrovati diversi corpi e che mio cugino il sindaco si era
occupato di dar loro una degna sepoltura. Qualche giorno dopo, l'aia della
cascina fu invasa dalle auto dei resistenti. Per la prima volta, li vedevo in
pieno giorno. Avevano la barba lunga e i loro visi stanchi facevano paura a
vedersi. Alcune donne col cranio rasato erano in piedi in mezzo a tutti quegli
uomini che le insultavano. Non capivo. Ero turbato davanti a quelle donne in
lacrime. Gli uomini versavano loro del vino sulla testa trattandole da...
puttane dei crucchi, carogne, cagne.
Una di loro aveva il viso segnato dalle botte e aveva una croce uncinata
dipinta in fronte. Non diceva niente, ma piangeva. Uno dei partigiani si
accorse che il mio sguardo la fissava. Era già venuto in cascina, ma faticai a
riconoscerlo; era terrificante, vomitava il suo odio. Si rivolse a me:
La sua mano si posò sul colletto del vestito e lo tirò con brutalità,
strappando la stoffa e lasciando apparire i seni. Incoraggiato dalle risa dei
compagni, si accanì sui brandelli di stoffa e si mise ad accarezzare la
ragazza che si dimenava, insultandola.
- Se andava bene per i tedeschi, va bene anche per noi, maledetta vacca!
Non è vero, ragazzi?
Si avventarono tutti su di lei. Lei cadde in fondo al camion. Uno degli uomini
alzò il calcio del suo fucile e la colpì urlandole degli insulti. Quella non si
rialzò.
Ero lì, fissavo quello spettacolo. Avevo scoperto per la prima volta la nudità
di una donna. Nonostante la mia giovane età, la cosa mi aveva sconvolto.
Non capivo quell'odio, quell'accanimento a far soffrire una donna. Mio
cugino si accorse della mia presenza e mi ordinò di rientrare in casa. Non
aveva un'aria soddisfatta per quanto accadeva e si rivolse ad uno dei capi
dei partigiani che diede ai suoi uomini l'ordine di partire. I camion lasciarono
la cascina tra urla e risa. Andai alla finestra per vedere la donna, con la
speranza che si rialzasse. No, niente! Forse l'avevano uccisa. Non ne seppi
mai più nulla.
Vi furono molte altre visite. E poi, un giorno, mia madre venne a cercarci.
Seppi da lei che la guerra sarebbe presto finita e che potevamo ritornare a
Parigi con lei. La mia prima frase fu:
- E papà, lo rivedrò... ritorna?
- Sì mamma, ho finito.
Come un'erba cattiva, imparai i vizi della strada. Vi ritrovavo gli amici che
come me sognavano soltanto di fare la guerra.
Un giorno, di ritorno da scuola, il mio sguardo cadde come per abitudine sul
balcone di casa nostra. Mamma mi faceva dei gesti. Al suo fianco c'era un
uomo, con la mano destra sulla sua spalla.
Senza fiato per i due piani che avevo fatto saltando i gradini, mi fermai di
colpo davanti alla nostra porta. Lui stava là, a braccia aperte, il suo viso e il
corpo erano smagriti. Nel suo sguardo si leggeva una grande stanchezza. Mi
sollevò, posai la testa sulla sua spalla e scoppiai in singhiozzi.
- Non piangere più, piccolo mio, sono ritornato; non ti lascerò mai più.
La vita riprese il suo ritmo normale. Mio padre impiegò un anno a rimettersi
in salute. Fu ricoverato varie volte in ospedale prima di potere riprendere a
lavorare. Era coraggioso e ricominciò pian pianino il suo commercio di
ricami che aveva creato poco prima della guerra.
Nella mia strada, avevamo formato una banda. Ero proprio fiero di esserne
il capo. Combattevamo contro la banda di una via vicina battaglie piuttosto
violente per dei ragazzini della nostra età. Mi capitava di tornare a casa con
le labbra scorticate o l'occhio gonfio. Papà pareva contento che non mi
lamentassi mai. Anzi, sembrava soddisfatto di vedere che ero capace di
battermi e difendermi. Nella mia banda, c'era una ragazzina carina
soprannominata «la Pulce». Qualche volta, ci nascondevamo in cantina.
Giocavamo a fare i grandi offrendoci le labbra in baci inesperti ma pieni di
tenerezza. Avevamo i nostri segreti e un sacro terrore di farci sorprendere
dai nostri genitori. Scoprivamo le nostre differenze con timidezza e
divertimento. Gli amori dei bambini sono sempre puliti. Non avevamo
nessuno a cui confidare quei primi desideri. Avevamo un po' vergogna di
quei giochi. Io avevo dodici anni, lei undici. Parlavamo dei grandi, dei nostri
genitori, con molta severità. Eravamo sempre d'accordo nel dire che non ci
capivano. Con «la Pulce» facevo progetti di viaggi. Beninteso, ci eravamo
promessi di non lasciarci mai. Avevamo suggellato questa promessa
facendoci l'un l'altro un dono. Sarei presto stato separato da lei e nessuno si
rendeva conto del vuoto che questo avrebbe provocato in me.
L'iniziale gioia provocata dal ritorno di mio padre si era affievolita. Lo avevo
immaginato come un fratello maggiore a cui poter dire tutto e con cui
potere condividere i miei giochi. Troppo preso dal suo lavoro, mi rifiutava,
senza saperlo, ciò che più mi mancava: la sua «presenza». Mi voleva bene,
lo sapevo, ma mi lasciava crescere senza vedere né correggere i miei
difetti. Gli rimproveravo un po' questa mancanza di interesse. Avrei voluto
che mi interrogasse a lungo su quel che avevo fatto nelle mie giornate, che
mi facesse ripetere le lezioni e mi sgridasse per non averle imparate. No,
niente di tutto ciò accadde. Lui era lì, ma viveva come ai margini della mia
vita. Ma le cose parvero cambiare.
Dal suo ritorno e a furia di lavorare, era riuscito a migliorare i risultati della
sua attività... Ed è con orgoglio che presi posto nella nostra prima auto.
Beh, non era nuova, ma una buona occasione. I miei genitori avevano preso
la patente insieme. Mia madre l'aveva ottenuta al primo tentativo. Papà
aveva dovuto provarci due volte. Lo avevo preso in giro, assieme al sorriso
ironico di mia madre. Dentro di me ero offeso per lo scacco di mio padre.
Per me, lui era invincibile.
Quell'auto ci permise di fare lunghe gite nei boschi nei fine settimana. Mi
sentii più vicino a mio padre, perché facevamo lunghe passeggiate;
facevamo tutto insieme, andavamo a pesca, la sua passione. Quei week-
end risultavano piuttosto cari in spese d'albergo. Mio padre decise di
comprare una vecchia cascina, il più possibile vicina a un fiume. Incaricò
mia madre di scovare qualcosa di bello. Lei ci riuscì in meno di un mese. La
casa era in uno stato pietoso, ma aveva stile, con le sue travi a vista e il
tetto di vecchie tegole di terracotta. La prima volta che ci andammo,
dovemmo strappare le erbacce per aprire la porta d'ingresso. I vetri delle
finestre erano rotti, i muri rovinati, ma subito mi piacque molto. La
immaginavo una volta rimessa a posto, e soprattutto vi vedevo il luogo in
cui sarei stato vicino a mio padre nei fine settimana.
Ero a tre metri. Perché mai feci il gesto di puntarle contro la mia arma? Non
si preoccupò neppure della mia reazione. La vedevo nel mirino. Continuava
a cantare. Il mio dito premette il grilletto con un gesto abituale. La
detonazione mi fece sobbalzare perché credevo che l'arma fosse scarica.
Cessato il canto... il silenzio. Giaceva ai piedi dell'albero, sanguinante, con il
petto squarciato dal piombo. Provai una sensazione di vuoto totale. Che
cosa avevo fatto? L'avevo uccisa. Non era possibile. Presi il suo corpicino
caldo in mano. Una macchia rossa si disegnò sulla mia pelle come per
marchiarmi del mio crimine. Mi misi a singhiozzare con degli «oh, no!»... Le
mie lacrime cadevano sulle sue piume come per impregnarle del mio
dispiacere e ridarle vita. Mi ci vollero dieci minuti buoni per calmarmi. La
mia carabina giaceva a terra come un oggetto vergognoso. Mi odiavo per il
mio gesto. Parlavo alla mia cincia morta. Avevo appena scoperto che
un'arma uccideva; non avevo mai sparato a un animale. Mi piacevano
troppo per farlo. Il mio gesto era stato accidentale, ma non me lo
perdonavo. Avrei dato la vita perché quella cincia potesse rivivere e il suo
canto mi concedesse il suo perdono. Con gesto infantile le scavai una
piccola tomba. Fu sicuramente il più bel funerale che ebbe un uccellino.
Avevo avvolto il suo corpo con petali di rose e circondato di fiori selvatici il
tumulo formato dalla terra che la ricopriva. Una piccola croce fatta di
ramoscelli indicava come nei cimiteri che lì... si era spenta una vita. Per
quanto strano possa parere, nel corso della mia vita ripensai sempre con
una certa tristezza al mio gesto. Quella cincia era forse quello che di buono
c'era in me e che avevo ucciso. In ogni caso, mai più in vita mia ho sparato
ancora a un uccello.
Quando mia madre mi vide tornare a casa, non capì perché provassi un tale
dolore. Mi vergognavo troppo del mio gesto per parlargliene. Per diverse
settimane, andai in pellegrinaggio in fondo al giardino. Il dio delle cince
ricevette sicuramente il mio messaggio, perché altre cince, con il loro canto,
vennero a comunicarmi il suo perdono. Durante la settimana mi capitava di
andare a passare una serata dalla nonna paterna. Le volevo bene. Il suo
viso pieno di rughe era bello perché nobilitato dall'età. I suoi capelli
argentati raccolti in chignon le conferivano classe. Mi confidavo con lei. Ma
poiché idolatrava mio padre, mi criticava sempre per il mio comportamento
nei confronti dei miei genitori. Poi passarono i mesi.
Era uno dei migliori collegi francesi. Quello di Juilly. Era tenuto da
oratoriani. Ero molto indietro. Eppure non trovarono di meglio che mettermi
in quinta moderna facendomi saltare una classe. Mancandomi le basi che gli
altri allievi invece possedevano, feci subito fatica a seguire. Ero mediocre,
tranne che nelle materie che mi interessavano, ossia matematica e
geografia. Mi sfogavo poi sui campi sportivi. La disciplina era severa e la
messa obbligatoria. Avevo fatto amicizia con diversi ragazzi. Di notte, nel
dormitorio, aspettavamo che il sorvegliante terminasse il suo giro per uscire
dal letto e riunirci in un grande armadio che serviva a riporre gli attrezzi per
la pulizia. Fumavamo le nostre prime sigarette. Eravamo cinque; ci
coprivamo la testa con cappucci fatti con pezzi di vecchie lenzuola.
Avevamo formato un clan. Ognuno a turno saltava il muro alla sera per far
provviste di sigarette e cherry-brandy nel piccolo bar del paese. Passavamo
dal retro e la padrona con un sorriso complice ci consegnava quello che
eravamo andati a cercare. Sapevamo che se ci avessero beccati, ci
avrebbero subito espulsi. Ma poiché il nostro gruppetto era composto da
giovani duri con un punto in comune: non far nulla in classe, ognuno di noi
disse agli altri che non gliene importava nulla di essere sbattuto fuori da
quel maledetto collegio.
Talvolta mia madre veniva a trovarmi alla domenica e mi portava con uno
dei miei amici a mangiare nel nostro piccolo bar. Mai mio padre si scomodò
a venire. Lo vedevo durante i permessi di fine mese. Qualche volta ero
punito e costretto a restare in collegio. Avevo la rabbia nel cuore. Mi
ribellavo spesso. Passarono così due anni. I miei voti erano catastrofici. Ero
passato in quarta, ma nel luglio 1951, all'avvicinarsi delle vacanze, mi
guardai bene dall'annunciare a mio padre che ero stato bocciato. Dovevamo
andare in vacanza a Hossegor. Fu nella sala da pranzo dell'albergo che mia
madre mi diede la notizia che già conoscevo:
Un paio di schiaffi misero termine alla mia frase. Ero molto arrabbiato e mi
rifugiai nella mia camera gridando di fronte a tutte le persone che mi
guardavano:
- Me ne frego... Me ne frego...
Per diversi giorni, mia madre mi proibì di andare in spiaggia. Era la mia
punizione. Nel corridoio dell'albergo, mi capitò di incrociare una magnifica
ragazza. Aveva lunghi capelli neri che le accarezzavano le spalle. I nostri
occhi s'incontrarono e la luce che vi brillò fu il suggello del mio primo amore
di ragazzo. Si chiamava Christiane. Sembrava un tipo selvatico, i suoi occhi
neri come il carbone mi sconvolgevano. Più grande di me, con i suoi
diciassette anni, mi impressionava. Ero orgoglioso di portarla in spiaggia;
l'ammiravo, bevevo le sue parole. Il nostro primo bacio ebbe luogo nella
camera di mia madre. Avevo accostato le persiane perché l'oscurità mi
aiutasse a nascondere la timidezza. Avevo una persona grande davanti a
me e non volevo che scoprisse la mia inesperienza. Non era più esperta di
me e la nostra storia ebbe la bellezza e la purezza della nostra età. Durò
per tutto il tempo delle vacanze. Né mia madre né i suoi genitori
sospettarono qualcosa. Con il mio temperino ci eravamo fatti un taglio al
polso e avevamo mischiato il nostro sangue in pegno di fedeltà. L'avevo
visto fare in un film. Alla sera, da solo nel mio letto, sognavo viaggi e
avventure. Ne ero sempre l'eroe... Salvavo Christiane dai peggiori pericoli e
finivamo sempre su un'isola deserta. La realtà ricuperò il suo primato con la
fine delle vacanze. La nostra separazione ci fece male, perché lei abitava
molto lontano da Parigi e non ero sicuro di rivederla. Promettemmo di
scriverci. Nessuno capì come mai Christiane pianse quando ci salutammo.
Fu lei l'indiretta responsabile della mia prima fuga, un anno dopo.
- Certo, che cosa credi, che sono vergine? E' carina, almeno, la tua amica?
- Di', Bébert, ne conosci di veri duri con rivoltella e tutto il resto? Sai che
cosa voglio dire...
Ascoltavo Bébert con ammirazione. Ero nel mondo dei sogni. Iniziai anch'io
a squadrare un po' di più le spalle, quando Bébert mi fece segno,
mostrandomi un bar, che eravamo arrivati. Entrammo. Il bar era illuminato
con luci soffuse. C'erano delle ragazze al banco. Altre erano al tavolo dei
clienti, uno dei quali aveva fatto scivolare la sua mano sotto la gonna di una
bionda che ridacchiava e che mi guardò con un sorriso scanzonato a fior di
labbra.
- Salve, ragazzi. Venite qui da queste signore. Ah! Sei tu il famoso Jacky.
Bébert non fa che parlare di te. Pare che ne facciate delle belle, voi due!
La sua grossa mano strinse la mia fino a farmi male. Ma resistetti alla
pressione. Poi ci presentò. Una delle ragazze si chiamava Carmen, l'altra
Sarah. Sapevo che Sarah era l'amica di cui mi aveva parlato Bébert. Mi
sentii arrossire quando, invece di stringermi la mano, mi disse:
- Dai, diamoci un bacino. To', siediti vicino a me, e tu, Bébert, posa il culo
vicino alla mia amica.
- Vi offro un bicchiere, ragazzi? - chiese il padrone.
Ci fece servire del cognac. E io che ero già brillo!... Bébert spiegò che non
avevamo molto tempo. Quanto a me, sigaretta in bocca, mi sforzavo di
essere naturale di fronte a quella ragazza che mi aveva messo il braccio
sulla spalla. Sentivo la sua mano accarezzarmi la nuca.
Avevo messo in quel bacio tutta la mia giovane sapienza ed ero fiero del
risultato. Il mio sguardo incrociò quello di Bébert come per dire: «Hai visto,
amico mio?». Sarah si doveva essere resa conto che ero più giovane di
quanto avevo dichiarato e aveva trovato quel complimento per farmi
piacere. Abituata agli uomini, aveva capito che mi dovevo rilassare. Presi le
sue labbra un'altra volta. Bébert ci interruppe.
- Senti, Sarah, vai di sopra con il mio amico? Io vado con Carmen.
- Va bene, andiamo!
- Paghi tu?
- No, paga il mio amico per tutti e due. Tu darai a Carmen la sua parte. Ti
va bene, pollastrella? - disse Bébert accarezzando il sedere di Carmen.
Poi di fronte a me si tolse il vestito. Non indossava altro che uno slip, che fu
levato allo stesso modo. Io stavo lì a guardarla. Il suo petto dal profilo
perfetto mi fece pensare a quella donna che i partigiani avevano spogliato
davanti a me. Il desiderio mi pervase e, aiutato dall'alcol, radunai tutto il
mio coraggio. Mentre si lavava accovacciata sul bidet, avevo posato il mio
tirapugni sul tavolino per impressionarla. Avevo indosso solo gli slip quando
si voltò. Non mi ero mai sentito tanto idiota. I suoi occhi si posarono
sull'arma. Nuovamente fece un sorriso ma non disse nulla.
- Lasciami fare.
- Ti è piaciuto, Jacky?
I suoi occhi neri mi guardavano teneramente e non potei mentirle. Ora non
me ne importava più.
- A parte le noie che potrei avere, hai ragione, non cambia nulla. Ma i tuoi ti
lasciano uscire a quest'ora?
L'ora! Non ci pensavo più. Erano le due del mattino; dovevo rientrare a
mezzanotte, alla fine del presunto film che eravamo andati a vedere.
Sì, avevo dimenticato due cose: di pagarla, e il mio tirapugni. Tirai fuori i
soldi e le diedi tutto, tenendomi soltanto gli spiccioli.
La luce era accesa alla finestra di casa mia. Erano passate le tre del
mattino. Non avevamo più abbastanza soldi per pagarci un taxi. Mi
domandavo che bugia avrei potuto inventare per cavarmi dai guai. Mio
padre e mia madre erano sull'uscio. L'unica cosa che ricevetti fu un bel paio
di schiaffi prima di qualsiasi spiegazione.
- Tuo padre era andato a vedere dove potevi essere. Il film è finito a
mezzanotte... Dove sei stato?
Avevo una voglia matta di rispondere che mi ero appena fatto una puttana,
soltanto per vedere che faccia avrebbero fatto tutti e due. Ma, più prudente,
iniziai una spiegazione confusa. Mio padre mi prese per il braccio dicendomi
di andare a letto e che ne avremmo parlato l'indomani. Mi addormentai
pensando a Sarah, al suo corpo. Quella scoperta del piacere sessuale era
stata per me una compensazione dell'amore che avrei voluto dare dal punto
di vista puramente sentimentale alle persone intorno a me. Sarah era stata
dolce, il suo corpo mi aveva liberato dei piaceri solitari. Mi sentivo uomo. Mi
aveva detto «caro». La mia inesperienza non poteva sapere che per lei tutti
gli uomini erano suoi cari per il tempo di una scopata. Me ne innamorai
ripensandoci. Solo quando l'alcol che avevo bevuto cominciò a torturare il
mio stomaco e a fare del mio letto una nave in preda alla tempesta
dimenticai momentaneamente il mio amore nascente a favore del lavabo
dove vomitai trippe e budella.
Era giorno quando mia madre mi scosse per mandarmi a scuola. Non avevo
una gran bella cera. Ero livido.
- Hai visto la tua faccia? Mi domando dove sei potuto andare ieri sera con il
tuo amico Bébert! Ehi! Sto parlando con te!
- In ogni modo, è l'ultima volta che esci con quel cialtrone. Non voglio più
rivederlo qui; hai capito bene?
- Ascolta, Jacky, te lo devo dire, la seratina era per farti piacere. Ma la mia
amica non la ripeterà. Perché se si facesse prendere con un ragazzino della
tua età, la madama la sbatterebbe in galera. E allora, lascia perdere, va
bene? Non cominciare questo cine... Sarah è una puttana. Il suo mestiere è
farsi gli uomini. Non sa che farsene di tipi della nostra età. Se le vuoi bene,
comincia a lasciarla in pace e non provare a tornare in quel bar senza di
me, altrimenti ti spacco la faccia. Hai capito bene?
- D'accordo, non t'arrabbiare. Era tanto per parlare.
Quel che mi aveva detto Bébert mi aveva chiarito le idee. Avrei rivisto
Sarah, quattro anni dopo. Abbiamo riso di gusto quando le ho confidato i
miei pensieri di quel tempo.
Continuavo a non trovare il dialogo con i miei. Litigavo con mia madre per
ogni banalità. A scuola, facevo sempre meno. La mia unica passione era il
cinema. I film di gangster e i western occupavano il mio tempo e la mia
mente. A casa, avevo due pistole giocattolo che non mi lasciavano mai. In
strada, con gli amici, erano sempre liti e dimostrazioni di forza. Quella
passione per le armi avrebbe assunto una grandissima importanza nel mio
destino di criminale. Giovanissimo infatti, attraverso giochi insignificanti in
apparenza, mi sono condizionato alla preparazione dei delitti che avrei
commesso. Non ho fatto altro che ripetere nella realtà quello che mi ero
abituato a fare per gioco. Con l'unica differenza che i miei giochi da adulto
sono spesso finiti nel sangue. Ma questa è un'altra storia.
Nel periodo delle feste di Natale, il direttore della mia scuola mi fece
chiamare.
Ero quindi espulso ancora una volta. Per tutto il tragitto di ritorno a casa, mi
domandai come avrei spiegato la faccenda ai miei. Ero sconcertato. Era una
fortuna per me che il direttore avesse consegnato la lettera a me piuttosto
che spedirla per posta. Mi dava il tempo di riflettere.
Una volta raccolto tutto, mi accorsi che erano già le cinque del mattino.
Portai la mia valigia in cantina e tornai a coricarmi come se niente fosse. Al
risveglio, finsi di prepararmi per andare a scuola dicendo a mia madre che
dovevo partire un po' più presto. Bevvi il mio ultimo caffè in famiglia, con
calma, con il mio segreto nel cuore. Fra poco sarei stato liberato da quel
mondo di adulti che non mi capiva; stavo per vivere la mia vita. Presi la
cartella e, dopo aver abbracciato i miei genitori e aver detto loro arrivederci
a sera, varcai la porta. Non appena l'ebbi richiusa, posai la cartella sullo
zerbino, con la lettera di espulsione e un'altra lettera in cui spiegavo ai miei
genitori che non volevo più vivere così, che partivo per sempre; gli chiedevo
scusa per il dolore che causavo, ma consigliavo loro di non preoccuparsi per
me. Scesi velocemente in cantina a recuperare la valigia. E non appena ebbi
superato l'angolo della strada, cominciai a correre. Un taxi mi portò in
stazione. Da lì presi il treno per Béziers.
Mio padre, quando uscì per andare a lavorare, inciampò in quanto avevo
lasciato sull'uscio. Non capì perché non mi ero confidato con lui. Mai aveva
immaginato che avrei potuto fare una fuga. Mia madre scoppiò in singhiozzi.
Fecero venire Bébert che, fedele alla sua promessa, giurò di non essere al
corrente di niente. Frugarono fra le mie cose. Nella cartella, mia madre
scoprì una lettera di auguri di Natale indirizzata a Christiane. Non l'avevo
imbucata. Ne concluse a ragione che quella dimenticanza era sicuramente
dovuta al fatto che avevo intenzione di incontrarla. Io, nel frattempo, ero
sistemato nel mio compartimento e mi lasciavo cullare dai movimenti del
treno. Non avendo quasi dormito la notte precedente, mi addormentai.
Fui risvegliato dai rumori della strada. Era giorno. Dopo essermi lavato e
aver fatto colazione, lasciai l'albergo. Acquistai una bella cesta di rose rosse
da offrire alla mamma di Christiane. I suoi genitori erano gioiellieri. Avevo
apprezzato la loro gentilezza nel corso delle vacanze. Non li avevo mai
sentiti alzare la voce rivolgendosi ai loro figli. Respiravano la gioia di vivere,
quella stessa gioia che risplendeva sul viso della mia selvaticona. Fui
enormemente stupito, arrivando all'indirizzo indicato, di trovarmi di fronte a
un'enorme gioielleria su più piani. La semplicità che avevano dimostrato
non poteva lasciar immaginare l'entità della loro ricchezza. Timidamente
varcai la porta del negozio. Non appena la madre di Christiane mi scorse, si
precipitò verso di me, con il sorriso sulle labbra, e la dolcezza che lessi nel
suo sguardo mi scaldò il cuore. Ero quindi benvenuto. Mi abbracciò; da
parte mia, inventai una spiegazione della mia visita. Le offrii le mie rose.
Sentivo la sua emozione. Non potevo immaginare che, conoscendo la verità
sulla mia fuga, il mio gesto aveva ancora più importanza ai suoi occhi. Mi
disse che Chris stava per tornare e che restavo a pranzo con loro.
Lei arrivò verso mezzogiorno. Come era cambiata! Più nulla della
selvaticona dei miei sogni, ma una bellissima ragazza molto rigida nella sua
divisa da collegio. Ne rimasi sconcertato. Ci abbracciammo da bravi ragazzi
in presenza di sua madre. Ma credo che anche se fossimo stati soli non
avrei osato posare le mie labbra sulle sue come ai tempi della nostra storia
delle vacanze. Non la riconoscevo più. Parlammo del più e del meno.
Finalmente capii la follia del mio progetto. La mia immaginazione mi aveva
fatto creare dei personaggi come avrei voluto che fossero; la realtà me li
mostrava come erano in realtà. Dopo il pranzo, andammo in salotto ad
ascoltare musica. Poi la conversazione si spostò sui miei studi, sui miei
genitori. Restai sul vago. Li trovavo tutti troppo gentili. Mi davano
l'impressione che stessero parlando a un malato grave. Mi spiegarono che
talvolta i ragazzi si sentono trascurati dai genitori troppo occupati a
guadagnarsi da vivere per la famiglia. Mi chiedevo dove volessero andare a
parare. Poi, d'improvviso, squillò il telefono. La madre di Chris andò a
rispondere; il suo sguardo incrociò il mio come per cercare la reazione che
le sue parole avrebbero scatenato.
- Sì, è tua madre che chiede se le tue vacanze stanno andando bene; ti
vuole parlare; ascoltala, ragazzo mio.
Persi tutto il mio colore. Non era possibile. Con tutta la fatica che avevo
fatto per fuggire, mi avevano già ritrovato. Presi la cornetta e pronunciai un
timido:
- Pronto, mamma...
Mia madre fu molto gentile. Mi spiegò la gravità del mio gesto, il dolore e la
preoccupazione che la mia partenza avevano provocato. Mi disse che mio
padre mi aveva perdonato ma che ora dovevo tornare a casa. Che saremmo
ripartiti su nuove basi. Che dovevo assolutamente aver fiducia in loro.
Ascoltavo, con le lacrime agli occhi, pieno di speranza e di rimorsi. Ero
troppo giovane per nascondere il mio dolore. Terminata la conversazione, la
madre di Chris mi spiegò che fin dall'inizio conosceva la verità. Mi tirarono
su di morale. Chris mi chiese con dolcezza perché lo avevo fatto. Quando le
dissi: «Per te», mi spiegò il lato infantile del mio gesto. Non rise di me
quando le parlai del mio progetto riguardo all'isola deserta. Mi riportò alla
realtà dell'esistenza. La sera, mi riaccompagnarono al treno dopo essere
passati a prendere le mie valigie in albergo. Non avevo amoreggiato
neanche un momento con la mia selvaticona. Ci salutammo con la mano
quando il treno si mise in movimento. Non la rividi mai più.
Mio padre fu convocato dal direttore della scuola tecnica. Parve molto
sorpreso di apprendere che saltavo molto spesso le lezioni. Lo fu ancora di
più quando gli presentarono i miei voti che non corrispondevano affatto a
quelli che aveva firmato da un anno a questa parte. Si scoprì subito che
avevo due libretti: uno compilato dagli amici e che presentavo a mio padre
ogni mese e un altro, quello vero, che avevo sempre firmato da me
imitando la sua firma. Mio padre mi schiaffeggiò davanti al direttore
dicendomi:
Ancora una volta, mi misero alla porta. Mio padre decise di mandarmi a
lavorare, non vedendo altre soluzioni.
Mi fecero entrare in una delle maggiori ditte di tessuti di lusso di Parigi. Ero
magazziniere. Tra le sete e i cartoni polverosi, imparai a misurare, tagliare,
piegare le ordinazioni. Guardavo gli anziani con i volti segnati dalla
monotonia del loro lavoro. Giurai a me stesso di non durare molto in quel
genere di vita spenta e senza sorprese. Non volevo diventare come loro.
Talvolta ricevevamo la visita di un'attrice famosa, che veniva a scegliere da
sé il suo tessuto, accompagnata dalla sua sarta. Fu così che vidi la
magnifica Zsa-Zsa Gabor. Tutta la direzione la riveriva. Fu la mia prima
lezione: se vivi nell'ombra, non ti avvicinerai mai al sole. Non correvo il
rischio di essere notato, nell'angolino con il mio grembiale grigio! Un giorno,
mi chiesero di andare a consegnare un pacco all'hotel Ritz che era a soli
cento metri dal negozio. Quando mi dissero che era per Audrey Hepburn, il
mio cuore si infiammò. Come tutti i ragazzi della mia età, me ne ero
innamorato quando avevo visto per l'ennesima volta il suo film "Vacanze
romane". Mi fecero salire dalle scale di servizio e, con mia grande delusione,
non potei consegnare io stesso il pacco. Fu la mia seconda lezione: non
bisogna prendere le scale di servizio.
- Ebbene! che scusa ha oggi? La sveglia che non ha suonato o un guasto del
metrò?
Avevo una gran voglia di mandarlo a quel paese e di rispondere che il fatto
di tagliare la mia stoffa con dieci minuti di ritardo non avrebbe cambiato la
faccia del mondo. Ogni volta mi faceva entrare nel suo ufficio e perdeva una
buona mezz'ora a spiegarmi i benefici della puntualità in un'azienda. Da
parte mia, gli rispondevo che spesso facevo degli straordinari che
raramente mi venivano pagati. Imparai così una terza cosa: chi si trova in
basso nella scala è nato per farsi rimproverare per tutta la vita. Dopo un
anno di questo trattamento, quello che doveva accadere accadde.
Ero stupito e senza fiato. Non ci conoscevamo. Non l'avevo mai vista prima
di quel ballo; e lei, senza falsi pudori, si era rivolta a me come a un vecchio
amico.
- Perché no!
- Sì, va bene.
Mi chiedevo se aveva ben capito che cosa volevo esattamente. I riflessi dei
suoi grandi occhi neri erano di per sé una promessa di molti sì. Ballammo
tutta la notte. Il suo corpo sodo si incollava al mio nei lenti. Mi faceva
impazzire. Le nostre labbra si erano sfiorate a più riprese in una carezza
furtiva. Mi faceva male il basso ventre. Mi eccitava e lo sapeva. Non avevo
mai desiderato una ragazza quanto quella. Molto era dovuto al suo fascino
esotico. Non avevo mai fatto l'amore con una ragazza di colore.
Senza altre formalità oltre l'invito al primo bicchiere che mi aveva chiesto di
offrirle, mi propose di andar via.
Non ebbi la curiosità di chiederle per andare dove. Uscimmo. Subito, senza
problemi, mi offrì le sue labbra. Poi mi disse:
- Non posso portarti a casa mia. Ho dei fratelli e non gli farebbe piacere. Tu
ce l'hai una camera?
- Io, ventitré.
- Se vuoi, puoi sempre telefonarmi. Tutti i sabati vado a ballare nello stesso
padiglione di ieri sera.
- Sai, Jacques, quando abbiamo fatto l'amore ero già incinta di un mese.
Non di te, è ovvio. Ma voglio che tu lo sappia se continuiamo a frequentarci
regolarmente. Per me è una catastrofe, soprattutto se i miei venissero a
saperlo. Devo assolutamente abortire. Non conosci un medico, per caso?
- Ma, io non conosco nessuno per queste faccende. Dunque, sei incinta!
Perché ti preoccupi, non devi far altro che sposare il tipo che te l'ha fatto.
Forse non sai neppure chi è, - dissi con ironia.
- Mi hai preso per una puttana, perché sono andata a letto subito con te?
Era furibonda.
Nel mese successivo, la rividi con molta regolarità. Lydia aveva tentato di
abortire mandando giù una gran quantità di chinino. Senza risultato.
Cominciavo ad amarla. Lei faceva di tutto per questo. Mi aveva presentato
ai suoi fratelli che mi avevano adottato. Una sera, andammo a cena dal suo
padrino. Il discorso cadde sul suo stato. Avevo bevuto più del dovuto. Lydia
scoppiò in pianto. Il suo padrino la consolò come poté.
- Non ti rendi conto! Se papà viene a sapere che sono incinta, mai mi
lascerà tornare a casa. Dio mio, come farò a uscire da questo guaio!
L'ascoltavo con un'idea pazza in testa. Ero forse un piccolo duro, ma avevo
un'anima da san bernardo, sempre pronto a volare in aiuto della vedova e
dell'orfano. Non seppi mai perché presi la decisione senza pensare che le
mie giovani spalle non erano abbastanza solide per reggerla, ma mi sentii
dire:
- Ascolta, Lydia, c'è una soluzione. Se ti sposo, tuo padre non potrà
rimproverarti nulla.
- Perché no! L'amo. E' un po' come se adottassi il suo bambino. Soltanto
che non è ancora nato. Farò quindi credere ai miei che è mio. So che i miei
genitori saranno fin troppo contenti di vedermi andare via di casa.
- Hai messo incinta una ragazza, è normale che la sposi - mi disse mio
padre.
Il colore non cambiava niente, per loro. Furono conquistati da lei al primo
incontro. Appariva come una ragazza di buona famiglia nel suo bel
completino. Vedevano in lei la studentessa seria che forse avrebbe riportato
il loro figlio sulla buona strada. Da parte mia, facevo di tutto perché
avessero di lei una buona impressione... Quasi dicevo che l'avevo avuta
vergine. Dissi di conoscerla da diversi mesi. Sapevo che mia madre non
avrebbe mancato di fare il calcolo riguardo al bambino che aspettava. Se
avessi confidato il mio segreto a un adulto, mi avrebbe aperto gli occhi e
riportato alla realtà. L'unica cosa che mio padre trovò da dire era che il mio
gesto era nobile. Un ragazzino di diciotto anni e mezzo completamente
disorientato, senza lavoro stabile, che pensa solo a divertirsi e vuole
sposare una donna incinta di un altro... Nobile! Se mi avesse detto che ero
troppo giovane per una simile responsabilità, forse tutta la mia vita sarebbe
stata diversa. Non fu il caso...
- Buongiorno, Sarah.
- Non dirmi che quel ragazzino con il tirapugni sei tu. Caspita, sei cambiato.
Sei bello, ora. Certo che mi ricordo, abbiamo riso tanto con la mia amica
Carmen quando le ho raccontato la scena. Non t'arrabbiare, ma eri piuttosto
buffo! Se vuoi, sono libera questa sera...
- Vedremo... Guardi il mio anello? Eh, sì, sono sposato... per così dire...
- Ma sei completamente idiota ad aver sposato quella tizia! E' mai possibile,
alla tua età, Jacques! Ti rovinerai la vita, con quella negretta.
- Sai cosa faremo? Sali con me, passiamo la notte insieme... No, gratis! In
ricordo del mio verginello. D'accordo?
- Laggiù, avrà l'occasione di dare prova delle sue capacità. Ho notato che le
piacciono le armi! Stia attento, ragazzo mio, la guerra non è un gioco!
Buona fortuna e cerchi di comportarsi bene. Penso sinceramente che lei sia
un tipo coraggioso, ma la sua rivolta interiore fa di lei un uomo aggressivo.
Il combattimento cambierà tutto questo, può starne certo. E' nel sangue e
nel fango che si conosce il proprio vero carattere di militare e di uomo.
Prima della partenza, rividi per un'ultima volta Lydia. Fu realmente l'ultima,
perché il mio divorzio fu pronunciato un anno dopo. Tentò di scrivermi, ma
non lessi mai le sue lettere. Per me, non era mai esistita. Il piccolo fu
affidato ai nonni materni e scomparve dalla mia memoria come se non fosse
mai nato.
- Di', signore, non ci farete del male, vero? Non porterai via il mio papà...
Non abbiamo fatto niente di male, noi. Di', perché ci fai questo?
Quel ragazzino, con le sue parole, mi riportò nel tempo a quindici anni
prima. Un'altra guerra, altri soldati, un altro ragazzino che chiedeva nel
cortile di una cascina a un ufficiale tedesco di restituirgli suo padre. Provava
quello che io avevo provato. Oggi, ero io il tedesco. La mia mano accarezzò
i suoi capelli neri e ricci. Tirai fuori il mio pugnale da combattimento; lui
fraintese le mie intenzioni e cacciò un urlo di paura soffocato dai singhiozzi.
- Li libero, a che serve portarceli via? In fondo, non abbiamo niente contro
di loro. Sai bene quanto me dove andranno a finire dopo. Noi non ce ne
facciamo niente di questi due. Lo faccio per il ragazzino, non cercare di
capire.
- Qualcuno è contrario?
I miei amici mi fecero segno che non gliene importava nulla. Ma il sergente
avanzò verso di me.
Il più vecchio dei due mi fissò fiero. Leggevo nel suo sguardo tutta la sua
gratitudine.
- Perché?
- Per me; via ora, e non pensare che ti spareremo alle spalle. Ti puoi fidare
di me, sei libero.
- Potrei risponderle perché no! No, non è perché sono separato da mia
moglie. Non cerco la morte per disperazione amorosa. E' da molto tempo
che non conta più nulla per me. Ma ho sempre pensato che potevo
affrontare il pericolo. Cerco forse di dimostrarlo a me stesso. Sono stato un
cattivo figlio per i miei genitori, un pessimo allievo per i miei professori, un
cattivo marito per mia moglie. Per una volta che faccio qualcosa di valido,
non mi chieda il perché! Credo di farlo per me stesso.
- Lei sa come me che sono indisciplinato, non mi piace l'esercito. Quello che
mi piace, è l'azione. Mi piace rischiare la pelle, le dà un certo valore. So che
lei penserà che sono matto; ma il pericolo mi inebria. Controllare la propria
paura per svolgere la propria missione, è forse questo, essere un uomo! So
anche che mio padre, per la prima volta, è fiero di me. Questo semplice
fatto vale tutti i rischi che ho corso.
- Sai che ti ho proposto per una nomina e una decorazione al valor militare?
- Ah, sì? Non lo sapevo. Ma non mi sono dato volontario per collezionare
medaglie, lo sa, comandante. Presto riprenderò la vita civile, sinceramente
ho paura di non riuscire più a riadattarmici. Sa che vado pazzo per le armi
da fuoco. Per me è una passione, l'odore della polvere mi inebria, un'arma
in mano mi ha sempre dato una gradevole sensazione. Può anche sorridere,
ma se sono diventato un bravo soldato non è per patriottismo, ma soltanto
per il gusto dello scontro. Ho visto morire troppi uomini per credere a una
causa giusta per cui sono morti. Quello che è grave per me è che ora la vita
degli altri uomini, come la mia, non ha più importanza.
- Non parlare così, ragazzo mio. Un uomo che muore, è una madre che
piange, una donna che soffre e spesso un bambino che non rivedrà mai suo
padre. Non perdere mai il rispetto della vita, ragazzo, perderesti te stesso.
Lavora seriamente per il tuo ritorno alla vita civile. Se mantieni le stesse
idee farai una brutta fine, stanne certo, è la strada diretta per il carcere.
Non fare la tua guerra personale trovando delle scuse per farla.
Stavo per rientrare finalmente in famiglia. Dal 1957 fino ad aprile 1959 ero
ritornato solamente una volta in permesso. Avevo evitato di parlare di
quello che facevo; per i miei genitori, stavo tranquillamente seduto in
ufficio. Mai avevo detto loro che combattevo. Preferivo evitare loro questa
preoccupazione. Ma il 10 aprile 1959, quando mio padre, che era venuto a
prendermi alla stazione, vide le mie decorazioni, lessi la fierezza nel suo
sguardo.
Non sapeva ancora che la mia vita criminale stava per cominciare per non
smettere più. Fu per lui la sola e unica volta in cui poté essere fiero di me.
Dopo ventotto mesi di guerra, ritrovai finalmente la mia città con le sue luci,
il suo odore e i suoi rumori. L'esercito mi aveva trasformato. Fisicamente,
avevo sviluppato i muscoli e il mio metro e ottanta per 80 chili mi dava una
certa prestanza nei confronti delle donne. Dal punto di vista morale, la mia
psiche aveva subito un duro colpo. La notte dormivo male, mi svegliavo di
soprassalto. Ero diventato molto aggressivo e violento. Mi sentivo uno
straniero a casa mia. Chi mi parlava della guerra d'Algeria mi faceva
innervosire con le sue frasi fatte e le idee false sul problema. Faticavo a
dimenticare quanto avevo visto, ma l'azione mi mancava. Avevo riportato
una pistola automatica calibro 45, ricordo preso sul cadavere di un
combattente dell'F.L.N. L'avevo fatta passare di nascosto. Molto spesso la
tiravo fuori per pulirla, la contemplavo e mi passavano per la mente le più
folli idee.
Poiché ero ritornato senza un soldo in tasca, fu mio padre a darmi di che
partire in vacanza. Trascorsi diverse settimane in Costa Azzurra. Al ritorno,
dovevo pensare a lavorare. Accettai, anche se non a cuor leggero, un posto
da rappresentante in una ditta di pizzi di lusso. Dovevo far visita alle grandi
sartorie per presentare la collezione. Quel mestiere era molto vicino a quello
di mio padre. Mi sarebbe piaciuto lavorare con lui. Ma mi teneva alla larga
dalla sua stessa ditta e come in passato mi faceva lavorare per gli altri. Ne
provavo una certa amarezza e compresi che da quel lato nulla era
cambiato. Non mi piaceva il mestiere che facevo. Non mi piaceva ricevere
ordini dal mio padrone, in una parola non mi piacevano gli obblighi. Il clima
fra lui e me era teso. La sua faccia rubiconda, le sue maniere ossequiose
me lo rendevano antipatico. Avevo una folle voglia di assestargli un pugno
sul muso. A più riprese ci furono discussioni. E' vero che sul lavoro non
facevo molto, ma abbastanza per i soldi che mi davano, o perlomeno questo
è quello che pensavo.
La notte uscivo molto spesso. Avevo rivisto Sarah. Mi trovava cambiato. Più
uomo. Ma anche più irritabile. Cambiavo amante con grande regolarità, non
volendo legarmi a nessuna. Lasciavo da parte ogni sentimento, pensando
soltanto al piacere che mi potevano dare. Eppure avevo incontrato una
brava ragazza che non chiedeva altro che condividere la sua vita con me.
Nel momento in cui mi aveva parlato di matrimonio, avevo rotto con lei.
Avevo già fatto un'esperienza in quel campo e non avevo intenzione di
ripetere la stessa idiozia. E poi, un giorno, cominciai a giocare alle corse di
cavalli. Per mia disgrazia, mi capitò di vincere le mie prime scommesse. Ne
presi quindi l'abitudine, la fortuna girò e molto spesso la mia paga era già
spesa prima ancora di guadagnarla. Chiedevo prestiti ai miei colleghi. Venne
il momento in cui facevo fatica a restituirli. Da quando ero tornato, vivevo
con i miei. Spesso scoppiavano litigi con mia madre. Durante uno di questi,
le mie parole nei suoi confronti le fecero male. Non avevo altra scelta che
andarmene; è quello che feci. Non avevo quasi denaro in tasca, soltanto
qualche vestito e la mia inseparabile pistola automatica. Il mio avvenire era
tra i più bui. Ero depresso ma con una rabbia di vivere nel profondo di me
stesso. Quella violenza interiore mi faceva immaginare soluzioni estreme
per tirarmi fuori dalle mie misere condizioni di vita.
Salendo le scale che mi portavano alla stanza dei miei amici, ero ben
lontano dall'immaginare dove mi avrebbe condotto la mia prima impresa.
Se l'avessi saputo avrei fatto dietrofront per salvarmi da me stesso?
Onestamente non lo credo. Non avevo le doti morali per ammettere il mio
errore. Non potevo barare con me stesso, mi conoscevo; la sola cosa che
ignoravo erano i miei limiti. L'avvenire mi avrebbe provato che non ne
avevo.
- Sai, io non ce la faccio, avrei troppa paura di farmi prendere. Ma voi due
fate quel che volete. Tu qui sei a casa tua, fino a che non mi chiedi di
nascondere tre cadaveri sotto il letto.
- E anche il mio parere. Non c'è bisogno di una pistola per svuotare un
appartamento.
- Non pensi sia stupido andare a lavorare per guadagnare una miseria? Non
hai cambiato idea? - gli chiesi.
- No, vecchio mio. Tu sei libero di seguire la tua strada, ma io non ti seguo.
E poi, chi vi porterà i pacchi quando sarete in prigione? - disse sorridendo.
Mi rispose una vecchia. Ma sì, certo, avevo sbagliato piano! Il signor Morel,
il macellaio, stava al quarto, la porta a sinistra. Dopo essermi scusato e
aver ringraziato, con quell'informazione raggiunsi con Paul il quarto piano.
Paul, con gli occhi brillanti di soddisfazione, non poté trattenere la sua gioia.
- Guarda quanti soldi! Ti rendi conto che ce n'è più di quanto potrei
guadagnare in tre anni di lavoro?
- E ci sono voluti trenta minuti perché tutto fosse nostro - dissi. - Vedi che
avevo ragione. Questa è la soluzione. Basta osare. Noi abbiamo osato e
siamo stati ricompensati. Bene, facciamo le parti. Per i gioielli e le
cianfrusaglie cercheremo un ricettatore.
- Chi parla?
- Chi vuoi che sia... Il tuo eroe, bambina bella - dissi scoppiando a ridere. -
Stasera offro io e tu non lavori! Arrivo con due amici. Fa' mettere lo
champagne al fresco.
- Sì, senza dubbio sei pazzo, caro mio! E poi non è il tuo compleanno.
- Sì, cara! Oggi compio un giorno, perché sono nato oggi e...
Sarah mi guardava stupita; sapeva che non avevo i mezzi per permettermi
dei lussi, mi aveva sempre visto al verde.
Sul momento fece finta di non capire, poi scosse la testa con un'aria
maliziosa e un mezzo sorriso sulle labbra.
Poi, guardandomi:
- Grazie caro, per aver pensato a me la tua prima serata da canaglia. Conto
dunque qualcosa per te?
- Ti voglio bene e tu sei sempre stata gentile con me. E poi questa sera era
importante averti con me, tutto qui.
Facemmo l'amore e Sarah, che era di tutti, fu realmente mia quella notte.
Sentivo che mi si era data come una donna innamorata e non come una
puttana. Con il corpo sudato e placato, la testa sulla mia spalla, mi disse:
- Sai che ti amo, caro? E' straordinario: sette anni fa, un pivello che voleva
fare il duro si offriva la sua prima puttana e oggi la stessa persona,
diventata un uomo e un vero duro, è ancora nel mio letto... Perché,
Jacques?
- Non sono nel tuo letto, bella, sei tu che sei nel mio - le dissi rivolgendole
un sorriso canzonatorio.
- Hai ragione. Sono una stupida. Scusami, non volevo farti arrabbiare. Mi
perdoni?
- Non c'è niente da perdonare, Sarah. Stiamo bene così, niente deve
cambiare. Ho intenzione di fare molti soldi e se un giorno dovrò finire in
prigione me ne fotto. Dai, vieni ... dimentichiamo tutto.
- Cosa credi! Non penso ad altro. E poi, i soldi finiscono in fretta. In questi
giorni ci rimettiamo al lavoro, d'accordo?
Lui approvò.
- Vedo che gli affari ti vanno bene. Non è necessario che mi spieghi. Ho
capito.
- Ma no, papà, non hai capito. Ciò che faccio non è molto legale. Traffico un
po' con la Svizzera, nulla di grave, ma rende.
- Eh, non devi mica credere... Faccio soldi, ma senza fare niente di male.
OK?
Forse mi credette, forse preferì far finta di credermi, per non essere
obbligato a proibirmi di entrare in casa sua, cosa che avrebbe fatto se
avesse conosciuto la mia vera attività. Lasciandolo mi sentii bene. Mi
consideravo un tipo importante. In fin dei conti non ero che un piccolo ladro
d'appartamenti che aveva avuto fortuna. Questa rischiava di finire, ma per
il momento, con le tasche piene di soldi e due graziose ragazze al mio
fianco, mi sentivo un po' come Al Capone.
Non avrei tardato ad affrontare le dure regole del gioco; la mia reazione
sarebbe stata violenta e senza pietà. Credevo alla parola data, all'amicizia
assoluta, a certi principi, all'onore della malavita. La realtà era un'altra: ero
alla scuola del vizio, dell'imbroglio e delle carognate. Per diventare vecchi
bisogna colpire per primi. Questa regola sarebbe divenuta la mia e avrebbe
fatto di me un uomo dalle reazioni imprevedibili.
Una sera decisi di fare una visitina a Sarah. Quel gesto avrebbe avuto
conseguenze molto gravi per me. Sarebbe stato alla base del mio primo
regolamento di conti. Avrei scoperto di avere un naturale istinto da killer.
Vivendo in una giungla, mi sarei comportato da belva. Non sapevo ancora di
essere capace di certe cose, eppure mi comportai come un vero
professionista.
Fui molto sorpreso d'apprendere che Sarah non lavorava più nel bar dove
avevo l'abitudine d'incontrarla. Ne fui contrariato. E' vero che era molto che
non le telefonavo. Le sue amiche m'indicarono il suo recapito. Suzon, che
era l'amica del cuore di Sarah, mi disse solamente di fare attenzione.
Quando le chiesi perché avrei dovuto fare attenzione, non rispose. Capii che
il suo magnaccia doveva essere uscito di prigione. Forse era al corrente
della mia storia con Sarah. Poco importava la sua reazione. Se non era
contento, avevo intenzione d'affrontarlo. Fu dunque con rabbia che entrai
nel bar. Paul era con me, ma non era armato. Non ero ancora riuscito a
fargli accettare che le armi, nel nostro mestiere, erano una cosa normale.
Minaccioso, s'avvicinò un po' troppo. Mal gliene incolse. Con un gesto rapido
avevo sfoderato la mia calibro 45 e l'avevo colpito in faccia con il calcio
dell'arma. Crollò sanguinante ai miei piedi. I suoi amici fecero il gesto
d'intervenire. Puntai l'arma nella loro direzione, con aria cattiva.
- Il gioco è finito. Se uno di voi alza il culo, o prova solo a muovere un dito,
gli sparo. Forza! Tutti con le mani sul tavolo e niente scherzi, se no tiro nel
mucchio.
In quel momento, la porta del bar s'apri. Sarah vide Paul, poi me, infine
tutta la scena. Lanciò un grido, che era una preghiera soffocata
dall'emozione.
Forse pensava che stessi per sparare nel mucchio. Si avvicinò e vide l'uomo
a terra.
- Tu sei pazzo. Guarda cosa hai fatto... Oh! Dio mio, ma...
Le risposi ironico:
Cosa? Avevo sentito bene? Quel tipo a terra era il suo magnaccia. Un arabo
sfruttatore della mia Sarah. E' vero che non le avevo mai posto la domanda.
La rabbia che provavo doveva leggersi nei miei occhi, perché Sarah aveva
l'aria terrorizzata. Avevo una voglia pazza di usarlo come bersaglio.
- Vuoi dire che questo mucchio di merda è il tuo esattore? E in più, dai la
tua passerina a un topo di fogna... a un figlio di cagna araba. Mi fai schifo...
Poi lasciai andare il mio piede destro in pieno sulla faccia di Ahmed che,
sorpreso, non ebbe il tempo di parare il colpo. Questa volta era al tappeto
per K.O. Sarah aveva appena lanciato un gridolino di dolore, senza reagire.
Avevo ucciso qualcosa in lei.
- Ebbene, vecchio mio, bisognerà fare attenzione, perché non finirà certo
così. Hai visto la reazione di Sarah? Eppure le vuoi bene alla ragazzina!
Paul decise d'armarsi anche lui, perché eravamo in guerra. Riunii altri due
amici, Guido il siciliano e Jacky, un ragazzo serio con il quale avevo già
lavorato. Guido mi fece comprendere la gravità del mio gesto del giorno
prima. Una sola soluzione era possibile: attaccare per primi. Tutti e due
erano d'accordo a spalleggiarmi in caso di bisogno.
Bisognò attendere la sera, perché avevo solo il numero del bar per
contattarla. Verso le 22 riuscii a telefonarle. Mi disse che si era sparsa voce
della mia reazione della sera prima. Ci si domandava chi io fossi. Quanto ad
Ahmed, dovevo fare attenzione: era un duro, ma aveva pochi amici, visto
che in affari non era dei più regolari. Sì, mi cercava e aveva giurato di farmi
la pelle. Quando le chiesi di Sarah, la sua voce si spezzò. Sì, l'aveva vista.
Ma...
- Ma cosa, Suzon?
Un sorriso si formò sulle mie labbra. Io non dovevo giurare niente, perché
ero certo di prenderlo per primo. Stabilimmo di portare Sarah a casa di
amici. Poi avremmo deciso che cosa fare.
- L'unica cosa che c'è da fare! Scusami per ieri, non avevo il diritto di
giudicarti. Una volta regolata la questione, non ci vedremo più, Sarah. Ci
salutiamo qui, è meglio per tutti e due, perché gli sbirri rischiano di metterci
il naso il giorno che Ahmed raggiungerà l'inferno dei papponi.
Lei non rispose, ma si rannicchiò tra le mie braccia. Sapeva che uno dei due
sarebbe morto. Dalla sua reazione si capiva che sperava fosse Ahmed. Il
viso mi si era indurito, i miei lineamenti erano scavati dall'odio che
albergavo. La mia mano le accarezzò i capelli, la stessa mano che avrebbe
ucciso colui che aveva osato massacrare il bel viso della mia puttanella.
Progettavo freddamente quell'omicidio, senza alcuna emozione, ben
sapendo che mi sarebbe potuto costare l'ergastolo, se non addirittura la
morte, se mi avessero preso.
- Sistemerò tutto per te. Non temere. Quel figlio di cane non alzerà mai più
le mani su di te, farò quel che serve.
Di ritorno a casa, ci mettemmo d'accordo con Guido sul piano che avevo in
mente. Non volevo lasciare alcuna traccia della morte di Ahmed. Ci
dirigemmo quindi verso la proprietà dei miei genitori. Durante la settimana
non c'era nessuno. Sapevo dov'erano le chiavi. Una volta arrivati sul posto,
presi un piccone e una pala e anche una decina di sacchi di iuta che erano
nel magazzino delle patate. Con tutto il materiale ci avviammo verso il
bosco, che si trovava proprio dietro la proprietà dei miei. Ci avevo
passeggiato a lungo da ragazzo e ne conoscevo gli angoli più reconditi e in
autunno era frequentato solo da qualche cacciatore. Con tutto il materiale
arrivammo al luogo che avevo scelto per scavare una fossa destinata ad
Ahmed. Guido mi osservava sorridendo:
- In caso di guai non potrai certo sostenere che non c'è stata
premeditazione!
La sua grassa risata risuonò nell'auto. Guido era un vero duro. Molto più
vecchio di me, non era certo al suo primo cadavere. Ci sarebbe voluto ben
altro per commuoverlo.
- Sì, lo ucciderò. Soprattutto per quello che ha fatto a Sarah. In ogni modo
ti tengo fuori dalla storia. Non ho intenzione di coinvolgerti in un omicidio.
Non abbiamo bisogno di te. Me la caverò con Guido.
- Sì, è dentro che discute con un tipo che sembra essere il padrone del bar.
Non sembra stare molto in guardia, ha appena sollevato la testa al mio
ingresso. Che facciamo se escono insieme?
Lo seguimmo. Avevamo due auto. Io ero con Paul, Guido con Jacky. Ci
eravamo messi d'accordo sul modo di agire. Se avesse imboccato una
strada poco frequentata lo avremmo bloccato. Altrimenti avremmo atteso
che tornasse a casa. La macchina guidata da Jacky lo seguiva. Io mi tenevo
a una trentina di metri di distanza. Prese la direzione di Place Clichy; poi,
dopo diverse manovre, s'infilò in una stradina. Paul, a un mio cenno, diede
un colpo di fari a Jacky. Ciò voleva dire «adesso, chiudilo». Tutto accadde in
pochi secondi. Sorpreso dalla macchina che lo aveva superato e gli bloccava
il passaggio, Ahmed non si era neanche girato. Balzai fuori dalla macchina.
Quando voltò la testa e capì, vide una 45 puntata su di lui. Aprii la sua
portiera. Era livido.
Guido mi aveva raggiunto ed era già salito sulla macchina, piazzandosi sul
sedile posteriore. Anche lui aveva l'arma in mano. Mi rivolsi ad Ahmed:
Sapevo che l'unica cosa che non bisogna mai dire a un uomo braccato è che
si ha intenzione di ucciderlo, perché a quel punto rischierà il tutto per tutto.
Lasciandogli una speranza, si neutralizza il suo istinto di autodifesa. A meno
che non si abbia a che fare con un vero professionista. Ahmed non lo era.
- Che cosa vuoi da me? Non ho fatto niente! Dove vuoi portarmi? - mi disse.
- Dove deciderò che devi andare. Siamo noi a tenere le redini, non credi? Il
mio amico ti ammanetterà dietro la schiena e ti perquisirà. Una volta
arrivati ti libero. Ma se fai l'eroe t'uccido; sarebbe stupido visto che voglio
sistemare le cose con te. Non voglio darti alcuna possibilità prima di trovare
un accordo, perché so che sei coriaceo e vendicativo.
Tutto si era svolto molto rapidamente. I miei amici rimasti nelle altre
macchine mi fecero segno che la situazione era tranquilla. Nessuno aveva
assistito alla scena. Non sarebbe cambiato niente, i nostri numeri di targa
erano contraffatti.
Dentro di me ridevo da solo; era così ingenuo da credere che questo viaggio
avesse un biglietto di ritorno? Volevo vedere fino a che punto era capace di
arrivare. Certo non gli mancava la faccia tosta, perché mi chiese:
Parve credermi.
Lo sentii esitare.
Pensai: «Pezzo di merda, anche tu starai bene, fra poco!». Guido gli offrì
una sigaretta e gliela accese. Ora ero certo che lui pensasse di cavarsela.
Arrivammo in meno di un'ora. Visto che la proprietà era isolata, non c'era
pericolo di disturbare i vicini. Aprii il cancello e le tre vetture entrarono. La
faccia di Ahmed cambiò espressione. Aveva notato che non c'erano luci alle
finestre. Con una voce angosciata disse:
- Sì, idiota, ci siamo noi. Avanti, scendi, dobbiamo parlare seriamente della
piccola e di quel che le hai fatto.
Nel suo sguardo si leggeva la paura. Guido aveva impugnato l'arma e con
violenza buttò fuori Ahmed dalla macchina. Entrammo in casa. Offrii da bere
ai miei amici. Poi Paul e Jacky si prepararono a partire. Non volevano
partecipare al seguito; eravamo d'accordo così. Mi lasciarono una macchina.
Jacky prese quella di Ahmed per andare a buttarla in uno stagno che gli
avevo indicato e che conosceva perché ci eravamo andati a pescare
insieme. Sarebbe tornato con Paul e l'altra macchina una volta finito il
lavoro.
- Sporcherà - mi disse.
Gli diede due colpi di manganello nelle costole. Ahmed lanciò un grido di
dolore.
Conoscevo tutti gli angoli del bosco e mi ci sarei orientato anche a occhi
chiusi. Arrivati al luogo prescelto, senza avvertirlo, colpii nello stomaco
Ahmed, che crollò con un tonfo sordo sulla terra ricoperta di foglie. Gemeva
ininterrottamente sotto il bavaglio.
- Il tuo letto, mucchio di letame. Il tuo viaggio finisce qui. Ma prima ascolta!
E' Sarah che mi ha dato le informazioni per trovarti! Sì, l'ho vista, è per
questo motivo che ti ucciderò con il coltello. Sentirai la morte penetrarti
piano piano. Voglio che tu la senta arrivare. Le pallottole in testa sono per
gli uomini. Voglio che tu senta la morte prenderti. Non sei altro che un cane
bastardo, e per giunta vigliacco.
Grugnì sotto il bavaglio. Il mio pugno lo colpì al plesso solare. Crollò ai miei
piedi. Porsi la torcia a Guido.
Poi, tirando fuori la mia daga, tolsi la sicura. Scattò come la lama della
ghigliottina, prezzo che avrei pagato se un giorno mi fossi fatto beccare. Ma
me ne sbattevo altamente. Niente era importante, se non Sarah e la mia
vendetta. Guido illuminò il volto di Ahmed. La lama d'acciaio penetrò sotto il
ginocchio destro. Sussultò e un grido gli sfuggì di bocca nonostante il
bavaglio.
Guido gli aveva messo il piede sul collo, per impedirgli di muoversi. La mia
lama lo colpì all'altezza del fegato; la vidi penetrare lentamente e un
sussulto del suo corpo la fece affondare fino all'elsa. Il colpo non l'aveva
ucciso, perché si contorceva dal dolore. Guido mi fece un cenno.
- Non ho mai visto un tipo come te, amico, e dire che ne ho visti!
Poi, voltandomi verso il luogo dove Ahmed era sotterrato, sputai in quella
direzione dicendo:
Al mattino feci un rapido giro nel bosco; tutto era perfetto, a parte alcuni
arbusti tagliati rimasti vicino alla fossa. Li presi e li sparsi un po' più
lontano. La natura aveva ripreso il suo corso. Sotto terra marciva un porco.
Sugli alberi gli uccelli cantavano la loro gioia di vivere liberi, indifferenti alle
crudeltà di cui solo gli uomini sono capaci. Il mio crimine poteva sembrare
orribile all'uomo della strada. Invece rientrava appieno nelle leggi della
mala. Per gli uomini una pallottola in testa. Per le carogne come Ahmed...
una morte da carogna. Non provavo né rimorso né soddisfazione. Avevo
scoperto in me un'anima da killer, che escludeva qualsiasi sentimento o
pietà per i miei nemici. Eppure rispettavo la vita, ma solo quella delle
persone che vivevano fuori dal mio ambiente. L'uomo della strada non
rischiava niente con me; eravamo in due mondi totalmente differenti. Le
sue leggi non erano le mie e non avevano alcun peso su di me. Non avevo
paura né della prigione né della condanna a morte.
Quando tutto fu finito, riprendemmo la strada per Parigi. Qualche ora più
tardi telefonai a Sarah.
- Ascolta, piccina. E' tutto finito, sei libera. Non mi hai mai conosciuto, salvo
che come cliente. Mettiti in sesto e cambia aria. Non credo che ci
rivedremo; buona fortuna e dimentica tutto.
Una sera andammo tutti e tre in un nuovo locale. L'orchestra suonava jazz e
rock'n'roll. Avevamo già bevuto qualche bicchiere; io ero un buon ballerino
e sicuro di me invitai una giovane spagnola molto tipica. La sua bellezza mi
aveva colpito fin da quando ero entrato. I suoi grandi occhi neri le ornavano
il viso come due pietre d'ossidiana, i capelli le ricadevano fino alle anche
rendendola ancora più sensuale. Al mio invito rispose con un rifiuto. Forse
non sapeva ballare il rock, o era accompagnata? Per nulla offeso scelsi
un'altra dama. Poi si arrivò alla gara di rock'n'roll in un ambiente fumoso, al
ritmo di chi batteva il tempo con le mani. Mi cercai una buona partner. Vidi
una graziosa ragazza seduta al bar che, dal modo in cui gesticolava, pareva
saper ballare. Avvicinandomi capii che era sposata. Dopo aver chiesto al
marito il permesso di partecipare alla gara con lei, prendemmo posto sulla
pista. Danzava meravigliosamente, lasciandosi condurre senza esitazioni.
Conosceva il rock e il suo ritmo. Senza difficoltà arrivammo in finale. Ero
scatenato. Avevamo come avversari una coppia di tedeschi. Abituato
com'ero alle cantine di Saint-Germain-des-Prés ero certo di vincere la gara
e sotto uno scroscio di applausi fummo dichiarati vincitori. Invitai la coppia
e i tedeschi al nostro tavolo e bevemmo lo champagne avuto in premio. Ne
feci portare altre due bottiglie. In quel momento, il mio sguardo si spostò in
direzione della mia bella spagnola. Lei ricambiò il sorriso. Ma certo,
entrando ero un tipo qualunque! Adesso ero un vincitore, lei era come le
altre donne. Non avevo intenzione di ricevere un altro rifiuto e, per proporle
di ballare il lento che l'orchestra ora suonava, le feci un cenno da lontano.
Lei si alzò. Non riuscii a trattenere un sorriso di soddisfazione. Avanzando
verso di lei, le presi la mano per condurla in pista.
Non ne potevo più di sentire il suo corpo sodo giocare sotto le mie dita e
senza molte speranze le feci capire che volevo prendere un po' d'aria. Fui
sorpreso di sentirla accettare. La mia macchina era davanti alla porta. Lei vi
salì in maniera naturale. Mi si riaccese la speranza. Non era dunque così
inibita come voleva far credere. Con i miei amici facevamo campeggio libero
e avevamo una tenda immensa con tutti i comfort immaginabili. Era in una
pineta affacciata sul mare. La condussi fino all'imbocco della stradina e
fermai la macchina. Le sorrisi e, prendendole la mano, le dissi: «Vieni». Lei
mi sussurrò qualcosa che non compresi e, per farla tacere, le baciai le
labbra. Mi restituì il bacio con foga... Sicuramente avevo risposto alla sua
frase!
Mi guardò in una maniera che mi sconvolse. Dalla mia bocca uscì la parola
«grazie». Era un grazie che mi sgorgava dal cuore. Lei ne comprese appieno
il significato, perché sorrise dicendomi: «"Te quiero franchouti".»
Presi diverse coperte per conservare il calore che ci univa. Il fatto che
questa ragazza mi si fosse donata mi turbava. All'inizio, l'avevo presa per
una di quelle ragazze facili, sempre pronte ad aprire le gambe.
Nell'ambiente che frequentavo ci ero abituato. Ma ora non ci capivo più
niente, perché colei che dormiva teneramente al mio fianco aveva meno di
ventitré anni e ben altri uomini avrebbero dovuto corteggiarla e cercare di
averla. Perché io e così in fretta? Non ero né più bello né più brutto di un
altro. Le donne hanno questo d'insondabile: possono resistere a lungo a un
uomo che frequentano, per poi donarsi a uno sconosciuto, quattro ore dopo
averlo incontrato. In ogni caso, ero felice di ciò che mi aveva offerto. Lei era
bella ed ero molto contento di essere stato il primo!
Era completamente sbronzo. Da parte mia ero furioso, perché la mia bella
spagnola sembrava spaventata. Se fosse stata una ragazza qualunque,
gliela avrei lasciata senza rimpianti perché si sollazzassero il basso ventre.
Non sarebbe certo stata la prima volta che ci dividevamo una ragazza. Ma
interpretai la proposta come un insulto e gli dissi:
Poi, avvicinando la mano alle coperte, fece il gesto di tirarle via per scoprire
la nudità di Soledad. Questa volta gli risposi brutalmente:
- Lascia stare!
Mi dispiaceva per il mio gesto. Eravamo amici e gli tesi la mano per aiutarlo
a rialzarsi, dicendogli:
Era vero, ero nudo come un verme. Girandomi, vidi che Soledad sorrideva.
Tutti insieme scoppiammo a ridere. Fu in quel momento che arrivò Jacky. Si
reggeva appena sulle gambe e ci guardò con lo sguardo annebbiato. Con
voce incerta mi disse:
- Cosa succede qui? Ho sbagliato strada e sono cascato qualche metro più
giù.
Poi, guardando Soledad, fece un piccolo gesto con la mano:
- Buongiorno a te!
Mi ero messo gli slip e avevo lasciato Soledad a rivestirsi. Mi ero allontanato
con i miei amici. Ci eravamo bevuti a garganella una bottiglia di porto
ciascuno quando lei ci raggiunse. Le porsi un bicchiere. Sapevo che non mi
capiva, ma le dissi:
Si sedette vicino e mi fece segno di aver capito. Esibì il migliore dei suoi
sorrisi. Paul non poté fare a meno di dire:
- Guardala! E toccato al più brutto dei tre riempire il suo pozzo d'amore...
non c'è giustizia, signori miei. Domani mi ritiro in convento...
Poi scoppiò in una grassa risata e si consolò con la sua bottiglia di porto.
Per tutte le vacanze, fu per me un'amante molto abile nei giochi d'amore,
ma possessiva e gelosa a non finire. Era una ragazza in gamba, sempre
allegra e sorridente. Mi cantava delle canzoni d'amore nella sua lingua.
Cominciavo ad amarla. Da parte loro, i miei amici l'avevano adottata. Avevo
fatto molti progressi con lo spagnolo e potevamo conversare insieme. Il
giorno della partenza per lei fu un dramma, feci fatica a farle accettare che
dovevo rientrare nel mio paese.
Non avevo alcuna intenzione di portarla con me. Tenevo troppo alla mia
libertà. Le lasciai il mio indirizzo, spiegandole che questa separazione
sarebbe stata un buon test per verificare i sentimenti che provavamo l'uno
per l'altra. Non mi rendevo conto che le stavo spezzando il cuore. Mi si era
donata e io partivo con poche speranze di rivederla. Quando le nostre due
auto partirono, Soledad piangeva. Avevo una voglia pazza di dirle: «Vieni»,
ma non potevo offrirle niente, se non una vita emarginata che non avrebbe
certamente accettato. Diventò una sagoma indistinta nello specchietto
retrovisore. Scomparve in una nube di polvere.
Paul ebbe difficoltà a rimanere serio mentre si dirigeva verso le scale. Feci
segno ai proprietari di entrare.
Le dissi:
- Ispettore, ispettore!
Nei giorni successivi ricevetti una lunga lettera dalla mia spagnola. Era la
quinta dal mio ritorno. Mi supplicava d'autorizzarla a raggiungermi a Parigi.
Mi era mancata e non potevo negare che ne ero innamorato. Le diedi
dunque una risposta affermativa. E fu così che dieci giorni più tardi andai a
prenderla in stazione. Era sempre bellissima e mi si gettò tra le braccia.
Bevvi dalle sue labbra come un assetato, lei era la mia oasi d'amore, per
me - che vivevo in acque torbide - rappresentava una fonte d'acqua
limpida. Nessuna donna mi aveva mai guardato in quel modo. Aveva lo
sguardo del sole, che io ignoravo poiché vivevo solo di notte.
Arrivati al mio appartamento, ne fece il giro come una proprietaria. Era ben
arredato e lei ne fu sorpresa. Dopo essersi rinfrescata, riapparve nel mio
accappatoio rosso. La sua pelle vellutata mi suscitava fantasie da stupro.
Non potei impedire alle mie mani di andare alla ricerca del suo corpo. Le
avevo preparato un pranzo che mandammo giù in fretta e furia. Ci
avviammo verso la camera da letto, dove le dissi con ironia che saremmo
andati a riposare. Il suo corpo infuocato mi trascinò in una danza d'amore.
Le mie labbra rifecero conoscenza con la sua pelle. Amavo il suo odore di
donna, che non assomigliava a nessun altro; vivevamo l'amore in una
maniera totale. Lei mi si dette con furore. Poiché ero stato il primo, mi
sentivo lo scultore del suo corpo e trasformavo il mio piacere nel suo
piacere. Scoprivo che l'amore era il totale dono di sé per il piacere dell'altro.
Placato il nostro desiderio, mi guardò con tristezza. Sembrava imbarazzata
a parlare.
Timidamente, come una bambina colta in fallo, mi rispose nella sua lingua,
che ormai capivo perfettamente.
- Sono ammalata, Jacques. A Tossa del Mar mi hai trasmesso una malattia.
Sicuramente non avevo ben compreso, perché non sapevo di avere alcuna
malattia nascosta.
- Ehi! E' mio figlio che è dentro di te, di questo sono sicuro!
Fu in quel momento che capii che Soledad non sapeva niente di me.
Pensava fossi un tipo perbene ed era molto lontana dall'immaginare che
vivevo di furti. Non avevo alcuna intenzione di cambiare modo di vivere.
Volevo essere libero nei miei movimenti. Potevo andare bene come amante,
ma sapevo che sarei stato un pessimo marito. Non ero certo fedele, ero
violento e molto indipendente. Inoltre, sapevo che la sua gelosia e la sua
rettitudine le avrebbero precluso l'accesso al mio ambiente. Non avevo
intenzione di metterla al corrente delle mie attività, benché certe donne
siano più salde di certi uomini di fronte all'azione e alle difficoltà. Lei
sarebbe stata la madre di mio figlio. Non si poteva far vivere un fiore
selvatico sul letamaio che era il mio ambiente. Decisi quindi di non dirle
nulla, per il momento.
- Mi hai rotto con le tue domande. Se sei così stupida da non aver capito,
non capirai mai. I soldi vado a prendermeli, capisci... Sono un ladro di
professione, ecco! Falcio il grano dei borghesi. Mi piacciono le puttane, i bar
e vaffanculo!
- No! Jacques! Non è vero. Non sei un ladro... lo dici per ferirmi.
- Cosa farò, io? ... e il nostro bambino, credi che abbia bisogno di un ladro
per padre? ... ma ti rendi conto?
Si nascose la testa fra le mani. Io, invece di essere tenero e consolarla, fui
durissimo:
- E allora? E' un mestiere come un altro! Eppure spendi bene la grana che ti
do. I tuoi vestiti non sono poi così male, e sono sempre pagati con soldi
rubati. Tutto ciò che c'è qui proviene dai furti.
Pronunciò una frase che mi fece trasalire:
La mia era una rabbia omicida, ma di fronte al suo turbamento la tirai verso
di me e la strinsi fra le braccia.
- Non dire mai più una cosa simile, ragazzina. Mio figlio, non ho bisogno di
rubarlo... E' mio.
Pianse sulla mia spalla come mille altre volte. Ci furono molte altre scenate,
ma, stanca di tentare di cambiarmi, accettò l'inevitabile. Le sue forme
cominciavano ad arrotondarsi. Mi divertivo ad appoggiarle l'orecchio sul
ventre per sentir vivere il mio bambino. Avrei anche voluto cambiare, ma
ero troppo impegnato nel crimine per fare marcia indietro e poi mi
crogiolavo in quel mondo notturno e losco. In realtà non avevo la volontà di
cambiare. Inoltre, avevo preso la cattiva abitudine del gioco e lasciavo
buona parte del mio denaro guadagnato in fretta sui tappeti verdi dei circoli
privati e dei casinò. Le mie debolezze erano come una droga della quale non
avevo la volontà di liberarmi. Rifiutandomi di vedere la realtà della vita,
m'inoltravo nel crimine e ne facevo una cosa naturale, diventavo sempre
più duro, incosciente del male che facevo a me stesso. Diventavo un
professionista e coloro che mi stavano intorno mi trattavano come tale,
temendo le mie reazioni, perché nei momenti di collera ero estremamente
violento. Persino mamma Lulù cominciò a temermi, dal giorno in cui mi vide
conciare in malo modo la faccia di un suo cliente in seguito a una stupida
discussione.
Con Guido avevamo organizzato una spedizione in rue d'Isly. C'erano due
casseforti da aprire nella casa di un consulente finanziario. Volevamo
approfittare del weekend per fare il colpo. La porta da aprire si trovava al
primo piano e aveva lucchetti e serrature d'ogni tipo. Ma una finestra
dell'appartamento dava sulle scale. Era sufficiente una piccola scalata per
arrivarci e rompere un vetro che non aveva alcun sistema d'allarme.
Cominciammo a lavorare intorno alle ventidue, perché prima la strada era
molto trafficata. Dopo aver aperto la finestra del pianerottolo, mi arrampicai
per raggiungere quella dell'appartamento. Due colpi di diamante sul vetro,
una gomitata, un rumore di vetri infranti e il passaggio era libero. I miei
due amici mi raggiunsero. Al piano terra si sentiva il rumore di stoviglie
provenire da un ristorante che stava per chiudere.
Il fascio della torcia illuminava stanza dopo stanza. C'erano due casseforti.
Una era di medie dimensioni, ma l'altra era enorme e non vedevo come
avremmo potuto aprirla. Prima di metterci al lavoro decidemmo di
ispezionare tutti gli uffici e controllare se fossero presenti sistemi di allarme.
Paul era scoraggiato.
Dopo trenta minuti di lavoro, tutto procedeva per il meglio, ma poi scoppiò
il casino, il trapano si bloccò con un ultimo rantolo asmatico.
Paul mi guardò disperato. Guido invece non perse la calma. Prese la parola:
In piena notte, rompemmo la porta a vetri del ferramenta, per poter infilare
la mano e aprire il chiavistello. Paul era nervoso perché il rumore che
avevamo fatto era in grado di svegliare l'intero edificio. La porta dava sul
corso e la varcai con la massima naturalezza.
In poco tempo avevo riempito la sacca con tre trapani. Ne avevo anche
approfittato per svuotare la cassa, che conteneva solo poco denaro. Paul mi
fece trasalire.
- Gli sbirri!
Mi precipitai vicino alla vetrina per vedere all'esterno. In effetti c'erano due
motociclisti della polizia che percorrevano il corso molto lentamente,
controllando i due lati della strada. Mi augurai che non notassero il vetro
rotto. Paul guardò la mia mano che impugnava la calibro 45.
- Ma sei armato... eppure avevi detto...
- Sta' calmo, se ne vanno. Sei un po' nervoso stasera! Non ti ho mai visto in
questo stato.
- Siete voi?
- Eh sì!
- Anch'io lo sono. Non penserai che esca nudo di notte! Non ti abbiamo
detto niente perché ci avresti letto tutto il codice penale... e di sicuro non
ho l'età per farmi vent'anni e comunque ero d'accordo con Jacques.
Paul non insistette, poiché non era certo il luogo per intavolare una
discussione. Cambiò argomento.
- C'è un problema! E' troppo tardi per continuare senza svegliare tutti.
Dobbiamo attendere domani mattina. E' meglio riposarci. Ho trovato da
bere, ma sarebbe meglio evitare, potrebbe essere una bottiglia drogata.
Sono scherzi che capitano. Quindi ci accontenteremo dell'acqua.
La notte passò in fretta. Ci eravamo piazzati tranquillamente nel salotto. La
porta era intatta quindi non c'era rischio di essere scoperti.
- Andiamo - dissi.
Andammo nell'altra stanza, era così e con grande facilità aprii l'altra
cassaforte: con le chiavi. Fummo un po' dispiaciuti perché c'erano soltanto
titoli negoziabili, il che non era male, ma non c'era denaro. Mettemmo il
tutto, assieme al nostro materiale, in due sacche da viaggio e rifacemmo il
percorso dell'andata, scomparendo indisturbati. Tornati a casa,
constatammo che il bottino era considerevole: titoli, denaro e platino per
più di trentacinque milioni (di vecchi franchi) cioè circa 70000 dollari. Guido
prese la parola:
- Abita qui?
Non me lo feci dire due volte. Dopo aver percorso una buona quarantina di
metri, m'inoltrai in un'altra stradina. Più lontano, mi tolsi il camice e ne feci
un involto da buttare. Presi un taxi e lungo il percorso che mi riportava a
casa non potei trattenere un sorriso. L'avevo scampata bella. Quando
raccontai la storia ai miei amici, fecero tutti la stessa osservazione:
Io, invece, pensavo di avere avuto molta fortuna a non perdere il sangue
freddo.
- Mio cugino è stato ammazzato in Italia da una banda rivale. Bisogna che
vada a Milano. Tocca a me regolare i conti. Sappiamo chi è stato e avrò sul
posto tutte le informazioni. Ho bisogno di un autista. Ma soprattutto di un
amico.
- Sai che puoi sempre contare su di me, quindi spiegati. Vuoi che partiamo
subito in macchina?
- Sì, preferirei, e portiamoci il materiale, perché non sappiamo che cosa può
succedere. In teoria dovrebbero fornirci tutto, ma preferisco essere
previdente.
Guido aveva lasciato la stanza per non partecipare alla discussione. Con gli
amici, i veri amici, aveva molto tatto.
Non ero arrabbiato con Sole, ma non volevo ammettere che aveva ragione.
Il suo dolore mi faceva male.
- Sole, tu sei il bene, io sono il male. Non posso fare diversamente e nella
mia vita sarà sempre così. Per i miei amici sarò sempre libero e pronto a
partire. Non potrai cambiarmi, ragazzina, e neanche lui, le dissi
accarezzandole la pancia. Siete arrivati tutti e due con un anno di ritardo.
Non mischiare il nostro amore e i miei obblighi verso gli amici. Andiamo,
non ti preoccupare, non mi succederà niente.
- Guarda! Uno solo di questi m'interessa... quello lì. Gli altri potrebbero
essere con lui, perché sono suoi amici... se possiamo evitarli meglio...
altrimenti, peggio per loro. E' questo figlio di cagna che ha ucciso mio
cugino... E' lui che voglio. E' tutto sul tavolo, indirizzi, rifugi, foto, targhe di
automobili, eccetera. Non resta che andarlo a prendere. Ci danno una
macchina con targa italiana. La tua lasciala qui, i miei amici la useranno per
prepararci un alibi in caso di necessità. Ho spiegato loro chi sei. Sono felici
di conoscerti, anche se non sei siciliano come noi. Ci aspettano a Milano; c'è
un alloggio a disposizione, perché forse ci vorrà qualche giorno per trovare
quel cane. Sicuramente sta a Milano. Ti avviso, questo tipo non è «Ahmed il
porco», è un duro e un assassino. Non sarà una passeggiata. Lo stendiamo
appena lo vediamo. I miei amici ci forniscono le armi. Quindi puoi lasciare
qui le tue. Avrai solo l'imbarazzo della scelta. In questo lavoro potrai solo
spalleggiarmi. Sono io che devo ucciderlo... non dimenticarlo mai, non me
lo perdonerebbero.
Partimmo per Milano. Avevo scelto due automatiche calibro 45. Guido aveva
preso una lupara e una 38 special. Arrivati sul posto fummo accolti
calorosamente. Sentivo che la mia presenza creava un certo disagio. Alla
sera ci raggiunse un uomo di una certa età. Parlammo in francese. Mi
ringraziò d'essere venuto e mi disse:
- Guido dice che sei più di un amico, sei come un fratello per lui. Sii dunque
il benvenuto a Milano, non sei più uno straniero.
Prima di andar via si avvicinò a Guido. Gli baciò la fronte, il petto e le spalle,
dicendogli:
- Questa volta ci siamo, so dov'è. Ci siamo passati poco fa. E' un locale, lo
beccheremo all'uscita.
Ci appostammo di nuovo. Albeggiava. Eravamo scesi dalla macchina
lasciando il motore acceso. Guido mi spiegò il suo piano di battaglia e la
protezione che dovevo dargli. Mi mostrò un'altra volta la foto dell'uomo e
dei suoi amici.
- Forza, andiamocene!
Guido esultava:
- L'hai preso?
- Oh, sì! Senza dubbio, gli ho servito due scariche di piombo nella trippa,
non si rialzerà. Non so se ho preso anche i suoi amici, ma tu hai visto che
non erano certo dei dilettanti. Adesso rientriamo. Lascerai l'auto nel garage.
Per noi il lavoro è finito. Ci riporteranno a Genova. Buon Dio! Mi sento
meglio.
- Ehi! Vecchio mio, penso di essermi beccato una pallottola. Sento qualcosa
di caldo che mi cola nelle scarpe.
- No, ho solo la gamba anchilosata... non aver paura, posso guidare, non
sverrò. I tuoi amici avranno bene un dottore?
- E ti diverti pure!
- Che ci vuoi fare, doveva pur succedere prima o poi e in questo caso mi
considero fortunato.
Lui sembrava dispiaciuto di vedermi ferito. Eravamo amici per la vita e per
la morte, e io capivo la sua tristezza; mi considerava come un fratello.
- E' tutto OK. Il mio cliente ha avuto il saldo... degli altri nessuna notizia. I
nostri amici verranno a prenderci per riportarci a Genova. Grazie dell'aiuto.
Non lo dimenticherò.
- Non hai fatto domande, non mi hai nemmeno chiesto perché dovevo farlo
personalmente.
- Non ho bisogno di sapere perché. Sei mio amico e io sarò sempre disposto
ad aiutarti senza bisogno di spiegazioni; è molto semplice. Soprattutto, mi
raccomando, non una parola con Soledad. Se mi chiede qualcosa la
manderò a quel paese.
- Sei felice?
- Più che felice! Nostra figlia è magnifica! Vedrai come staremo bene tutti e
tre.
Capii l'allusione. Sempre quel continuo rimprovero riguardo alla mia attività.
Le risposi, quasi con cattiveria:
- Perché no?
Non mi rispose. Sulla strada del ritorno, mi venne voglia di tornare alla
clinica e farle le promesse più folli. Poi, per orgoglio, decisi di raggiungere i
miei amici da mamma Lulù e festeggiare degnamente la nascita della mia
piccina.
Fu così che mezzo ubriaco mi ritrovai con due magnifiche femmine nel mio
letto. Feci l'amore con tutt'e due. Paul, da parte sua, si appartò con una
biondina nella camera degli ospiti.
Bussò alla mia porta ed entrò senza attendere la mia risposta. Era nudo,
una bottiglia di champagne in una mano, una coppa nell'altra. Mi guardò e
mi disse con una voce che l'ebbrezza rendeva comica:
- E oltretutto te ne fai due!... Vuoi che ti dica una cosa? ... Sei un porco. La
tua donna ha appena partorito e tu ti porti due troie in casa, e oltretutto te
le scopi nel letto matrimoniale!
Con gesto teatrale depose la bottiglia nella culla bianca che troneggiava in
mezzo alla stanza e si mise a cullarla. Fece finta di rivolgersi a un
immaginario neonato e, cantilenando, disse:
Mi era passata la sbronza e mi rendevo conto della laidezza del mio gesto,
perché prima non avevo mai fatto salire delle ragazze in casa. Non me lo
spiegavo neanche. Era uno strano modo di ringraziare mia moglie per
avermi dato una bambina così graziosa! Ero senza morale e senza rispetto
per colei che amavo. Mi permettevo di tutto. Paul aveva ragione...
- Non è mica bello quello che abbiamo fatto, e l'alcol non è certo una scusa.
Questa è la casa di Sole e di tua figlia. Non è un bordello... A proposito,
come la chiamerai, la piccola?
- Sabrina - risposi.
- Sì, è un bel nome. Adesso che hai una bimba, per noi cambia qualcosa?
- Sì! Un rischio per lei di non conoscere mai il padre. In ogni caso è un
problema tuo e tu sai quello che fai.
Nei cinque giorni che seguirono stetti molto tempo vicino a Soledad. Un
modo come un altro per farmi perdonare quella serata. Lei era radiosa. Non
ero mai stato così premuroso. Assistevo con ammirazione all'allattamento di
mia figlia. Era un bel quadretto e non mi stancavo di rimirarlo. Sì, ero
innamorato della mia donna. La nostra intesa sessuale era perfetta. Allora
perché cercare altre donne da scopare senza sentimento per il semplice
piacere di averne una in più? Non sapevo spiegarmelo. Lo consideravo
normale, senza pensare al male che poteva fare a Soledad se un giorno
fosse venuta a saperlo. Mi dicevo che questo modo di vivere faceva parte
del mio ambiente. Pistole, puttane, alcol, gioco, furti... Che bell'eredità
preparavo per questa bambina!
Soledad uscì dalla clinica e tornò nel nostro appartamento. Ero io a portare
il fragile corpicino di Sabrina. Per lei sarei dovuto cambiare, ma ero troppo
preso dal crimine per vedere questa soluzione.
Ero stato più volte costretto ad andare all'estero per affari. Le proteste di
Sole non cambiavano niente. Durante la settimana capitava di andare
insieme in una casa di campagna che avevo affittato con i miei amici. La
casa ci serviva come deposito per il nostro materiale. C'era una cantina
molto spaziosa che avevo trasformato in poligono di tiro. A forza d'allenarmi
ero diventato un tiratore istintivo molto in gamba. Con Sole facevamo
lunghe passeggiate nel bosco e ci portavamo anche Sabrina. Amavo quella
tranquillità e quell'odore di sottobosco. Finché eravamo soli, Sole era
sorridente, ma quando uno dei miei amici ci raggiungeva diventava
aggressiva e sgradevole, facendogli capire che rovinava la nostra serenità.
- Jacques!
Troppo tardi: colpii Sole due volte. Lei crollò ai miei piedi. Tirandola per i
capelli, le feci salire le scale, sulla schiena, fino al primo piano. Ero
scatenato, perché la sua minaccia davanti ai miei amici mi colpiva come un
insulto e la sua gravità poteva mettere in gioco la nostra sicurezza. Quando
estrassi l'arma Paul sbiancò. Jacky ci aveva raggiunto e restava silenzioso.
Sole sanguinava dalla bocca e mi guardava, stupita di aver scatenato in me
una tale violenza. Tenendola per i capelli, le rovesciai la testa e le misi la
canna in bocca:
Mi fissò con gli occhi neri di odio, era aggressivamente bella, e disse:
- E dai, uccidimi... Fallo, voglio morire, non voglio più vivere in questa
maniera... Dai, spara se vuoi! - Paul era basito. Mi mise la mano sulla
spalla:
- Se vuoi crepare, in bagno c'è tutto quel che ti serve... Fai pure... E buon
viaggio... Ma vedi di non fallire.
Jacky stimava molto Sole; quella scena gli aveva fatto male, perché sapeva
che non avevo bluffato e che le mie minacce erano reali.
- Vieni, andiamo e dimentica quello che ha detto, i suoi nervi hanno ceduto.
Sai bene che non farebbe mai una cosa del genere.
- Ho proprio pensato che l'avresti fatto... Buon Dio, ho temuto per lei!
Jacky restò con mia figlia. Paul e io portammo Sole in una clinica della città.
Arrivati sul posto e dopo una breve spiegazione, fu condotta in una stanza
per la lavanda gastrica. Il dottore ritornò per dirmi:
- Sono stato io dottore, abbiamo litigato e l'ho colpita; non ne sono fiero,
ma è troppo tardi per rimpiangerlo.
- Dici davvero?... Non lo dici per farmi piacere?... Oh! Sì, voglio sposarti!
- Oh! Pardon.
Mi disse che Sole era molto depressa e che dovevo essere molto calmo con
lei per aiutarla a risalire la china. Gli promisi di fare il necessario.
Per diversi giorni vivemmo un amore perfetto. Avevo chiesto ai miei amici di
non venire. Feci tornare a casa Sabrina. Richiedemmo i documenti necessari
per sposarci. Siccome lei era spagnola, c'erano alcune complicazioni
burocratiche e per superarle ci volle un po' di tempo. Sole non pensava che
a quel giorno. Se mi capitava di uscire di notte per andare a raggiungere i
miei amici, lei non mi diceva niente. Una sera, dopo una rissa, ero rientrato
con del sangue sui vestiti. Non una parola. Credevo di sognare. Sarebbe
finalmente diventata la donna di un bandito che evita di fare domande,
sapendo che sarebbero rimaste senza risposta? No, si sforzava solo di non
dire niente. Ma la sua sofferenza e la sua gelosia erano le stesse. Non si
sarebbe mai potuta adattare al mio modo di vivere. Era troppo possessiva
per accettare di dividermi con i miei amici, con il mio giro, con qualunque
cosa.
- La piccola spagnola?
- Non è fatta per te, è troppo per bene e troppo debole per un tipo come te.
Tu ami troppo la libertà... Ti ci voleva una donna come me...
- Eh, se fossi venuto quarant'anni fa. Ero una bella donna, sai... Guarda che
ne è rimasto!
- Ehi, Lulù, nessun rimpianto... Sai che per noi sei sempre la più bella.
Poi, sornione:
A lei piaceva che la prendessi in giro sul suo peso e non se ne faceva certo
un complesso.
Una sera alcuni tipi di passaggio, pieni d'alcol, osarono insultarla. Ne seguì
una terribile rissa e finì a coltellate. Paul si ritrovò con un braccio rotto dal
lancio di uno sgabello e io con un taglio all'avambraccio. Quando arrivò la
polizia eravamo già lontani. Ma uno degli avventori era rimasto a terra,
vivo, ma con una brutta ferita al basso ventre. Decisi di tenermi per un po'
alla larga da mamma Lulù.
Con i miei amici facevamo una bella squadra e, da più di un anno, tutto
funzionava alla perfezione. Trafficavo un po' con degli orologi d'oro svizzeri.
Avevo avuto per le mani anche dei dollari falsi che arrivavano dal Messico,
ma non erano perfetti e non volevo impegnarmi più di tanto. A poco a poco
cominciavo a essere rispettato nei luoghi dove mi presentavo perché non
passavo certo per un tipo tenero. Diverse volte ero intervenuto in favore di
amici o nuove conoscenze con cui volevo entrare in affari. Di notte avevo
preso l'abitudine di muovermi sempre con la calibro 45. Guido era partito
per un viaggio nel suo paese natale, in Sicilia. Con Jacky rapinai le buste
paga di uno studio di progettazione, senza usare le armi. Ci eravamo
limitati a tramortire il contabile sulle scale mentre saliva per consegnare il
denaro al capo del personale. Il colpo era riuscito perfettamente, ma mi ero
stupito nel vedere il contabile difendersi con grande tenacia. In seguito capii
perché non voleva mollare il portadocumenti con il denaro. La polizia, certa
che la dritta venisse da qualche impiegato, condusse un'inchiesta completa
su molti dipendenti, tra cui il contabile vittima della nostra aggressione. Si
scoprì che era proprietario di diversi appartamenti. Dopo aver verificato la
sua contabilità, risultò che da più di quindici anni truffava lo studio. Fu
arrestato e pestato dalla polizia, convinta che fosse stato lui a orchestrare la
sua stessa aggressione. Noi sapevamo bene che non c'entrava niente. Ci
dispiacque che la nostra rapina avesse messo fine alla sua carriera di
truffatore. Capimmo meglio anche il suo accanimento nel difendersi. Sapeva
che avrebbero fatto dei controlli e che sarebbe stato il primo sospettato.
Questa storia ci ha sempre fatto sorridere: il padrone della società avrebbe
dovuto benedire la nostra idea di aggredire il contabile: gli era costato
sicuramente meno di quindici anni di appropriazioni indebite.
Arrivò Natale, era il 1961. Per Sabrina facemmo una festa in famiglia. Avevo
preso gusto ad addobbare il suo primo albero di Natale. Aveva poco più di
sei mesi e io ne ero innamorato pazzo. Mi divertivo a fare il pagliaccio per
strapparle un sorriso. Rimanevo ammirato quando le sue piccole dita
stringevano con forza il mio indice o quando un rutto sonoro annunciava la
fine del suo pasto. Sole mi guardava ed era felice di vedere la mia gioia di
padre. Litigavamo meno, ma il suo atteggiamento nei confronti dei miei
amici era sempre più ostile. Siccome era vicina la fine dell'anno, le avevo
chiesto che regalo volesse.
Sì, sapevo quel che voleva e questo non potevo darglielo, non ci pensavo
nemmeno.
Paul mi fece incontrare alcune persone che frequentava al di fuori del nostro
giro. Le conoscevo appena. Con loro aveva progettato un colpo in banca.
Con il braccio rotto gli era impossibile partecipare e mi aveva chiesto di
prendere il suo posto. La cosa non mi entusiasmava, ma avevo acconsentito
per fargli un favore. Giravo con l'auto di mio padre, perché mi aveva chiesto
di trovargli un acquirente. Uno dei miei nuovi complici ebbe la cattiva idea
di dirmi che avremmo potuto utilizzarla mascherando semplicemente la
targa con del fango. Ciò presentava il vantaggio, una volta fatto il colpo, di
essere insospettabili data la rispettabilità di mio padre. Non ero affatto
d'accordo. Mi andava bene di usarla per il cambio d'auto, ma non per
l'assalto. Ci mettemmo d'accordo per rubare una vettura nella città vicina a
quella della banca e utilizzare la mia dopo il colpo. Mantenemmo l'idea di
camuffare le targhe con il fango perché era buona. Uno degli amici di Paul
non mi piaceva; con la sua faccia da spaccone non m'ispirava alcuna
fiducia.
- E allora, la carretta?
Erano due gendarmi. Con grande naturalezza andai loro incontro. Avevo
l'aria diffidente, ma non aggressiva.
- Ha i documenti?
La mia auto era stata ritrovata e le targhe sporche di fango erano state
confrontate con il mio libretto di circolazione. Avevano perquisito il veicolo. I
miei due complici, non contenti d'aver abbandonato l'auto, vi avevano
lasciato dentro le armi e due maschere. Compresi subito che mi trovavo in
un bel guaio e che avrei faticato a uscirne. Dovevo preparare una
spiegazione, perché il capo dei gendarmi s'era alzato ed era fuori di sé. Mi
trattava da bandito, da assassino. Mi aveva preso per il bavero della giacca
e mi scuoteva per far cadere come frutti maturi le mie confessioni. Da parte
mia facevo l'innocente e preferivo tacere, perché rispondere a un esagitato
in mezzo a un gruppo di esagitati era come pregarli di picchiarmi. L'avevo
già messo in conto: avevo intenzione di non dire niente, anche se l'avrei
pagata cara, per colpa di quei due porci che avevano lasciato le loro armi
prima di scappare, ben sapendo che con la loro vigliaccheria mi avrebbero
lasciato nella merda. Non ebbi il tempo di pensarci a lungo, la porta si aprì.
Sentii uno dei poliziotti dire trionfalmente:
- Li abbiamo presi.
Con lo sguardo feci loro capire, meglio che potevo, che dovevano tenere la
bocca chiusa e lasciarmi fare. Ci separarono. Ero il più giovane, quindi
l'interrogatorio cominciò da me. Questa volta era un comandante della
gendarmeria a farmi le domande; né aggressivo né violento, provava il
metodo amichevole.
- Conosce i tre uomini che sono stati arrestati con lei? Voglio avvertirla che
uno dei miei uomini vi ha visto insieme nella macchina, che mi pare
appartenga a suo padre. Quest'affare può costarvi caro, perché le maschere
confermano che volevate fare una rapina.
Non ebbi il tempo di terminare la frase che ricevetti un pugno dietro la testa
che mi catapultò in avanti. Siccome avevo le manette sulla schiena, caddi
disteso sulla scrivania del comandante. Mi rimisero al mio posto, tirandomi
per i capelli. La botta mi aveva colto di sorpresa e faceva molto male;
schiumavo di rabbia.
Quello che mi aveva colpito stava per rifarlo, ma il suo comandante lo fermò
con un ordine secco:
- Riportatelo in cella e fate venire gli altri. Può darsi che siano più
chiacchieroni.
Pensai che sarebbe soffocato lì per lì. Paonazzo, schiumante di rabbia, gli
occhi fuori dalle orbite, non si controllava più.
Il suo pugno partì in direzione della mia faccia, ma finì contro le manette.
Da parte mia, dimenticando il piede ferito, provai a dargli un calcio nel
basso ventre; ma, appoggiandomi sulla gamba sinistra, per il dolore persi
l'equilibrio. Ebbi solo il tempo di vedere gli altri gendarmi che trattenevano il
forsennato, evitandomi un brutto pestaggio, perché non ero né nella
posizione né nelle condizioni fisiche di battermi. Arrivò il comandante,
allertato da tutto quel casino: dopo aver visto la scena, diede degli ordini
secchi e mi fece portare in un'altra stanza.
- Vedremo domani!
No, non provavo alcun rimorso per le mie azioni. Il rimorso non è altro che
uno spauracchio piantato dalla morale ai confini del male. Rimpiangere
significa ammettere di avere sbagliato. Avevo riflettuto troppo sul mio modo
di vivere per poter ammettere, adesso che ero prigioniero, il mio errore di
giudizio. Quella fine era inevitabile; da più di due anni avevo fatto del furto
un mestiere, avevo anche ucciso per regolare i miei conti e quelli dei miei
amici, quindi oggi non era certo il momento dei rimpianti, ma quello di
pagare.
Non riuscii a dormire tutta la notte. Al mattino, la mia porta s'aprì per la
distribuzione del caffè, che non era altro che acqua sporca senza gusto né
odore. Alla luce del giorno la mia cella era sudicia con i muri slavati coperti
di graffiti. Leggendo, appresi che «Pierrot ama Nina», che «Bébert è un
finocchio», che «Canard ha passato sei mesi in questa cella», tanti insulsi
messaggi lasciati lì da uomini che non avevano trovato altro confidente che
quella parete. Dalla mia finestra intravidi il muro di cinta che mi separava
dalla libertà. Il mio pensiero andò a Sole e Sabrina. Paul aveva avuto
ragione a dirmi: «Non la vedrai crescere».
Sapevo che, alla notizia del mio arresto, i miei amici si sarebbero
preoccupati di procurarmi un avvocato attraverso mio padre, come eravamo
rimasti d'accordo.
Non potevo neanche appoggiare il piede per terra. Come unica cura, me lo
fasciarono senza preoccuparsi di verificare se fosse slogato o fratturato. Ero
disgustato nel constatare che, una volta rinchiuso, l'uomo detenuto viene
considerato inesistente. Perde molto di più della sua libertà, perde il diritto
di esprimersi. Vidi colui che doveva essere il mio avvocato. Mi comunicò che
mio padre gli aveva chiesto di assumere la mia difesa. Insieme mettemmo
in piedi il mio piano, che era molto semplice. Mi sarei assunto la
responsabilità delle armi, sostenendo che gli altri non erano al corrente di
ciò che trasportavo. Anche se questa affermazione era un po' semplicistica,
poteva ridurre la mia imputazione a detenzione e porto d'armi proibite e far
scarcerare coloro che per un giorno erano stati miei soci. Il mio avvocato
avrebbe voluto saperne di più. Con fermezza gli feci capire che doveva
seguire le mie istruzioni ed essere un po' meno curioso.
Il nostro primo colloquio fu drammatico. Lei non fece altro che piangere e
dire che mi amava. Era stata interrogata dalla polizia riguardo alle mie
amicizie e conoscenze. Si era comportata perfettamente, fingendo la
sorpresa più totale per le mie attività.
- Non mi aspettare, rifatti una vita - furono le mie parole. Ma il mio cuore
pensava: «Ti amo, aspettami».
Qualche giorno più tardi, mi trasferirono in una cella dove c'erano altri due
detenuti. Non mi ci volle molto per capire che uno di loro era stato piazzato
lì per raccogliere o provocare le mie confidenze. Non smetteva di farmi
domande. Il suo gioco mi divertiva. A poco a poco mi lasciai
volontariamente scappare alcune false informazioni, fingendomi un
principiante ingenuo e imprudente. Per verificare la fondatezza delle mie
supposizioni, mi misi a parlargli del furto di Beaumont-le-Roger. Gli spiegai
tutto nei dettagli, facendogli credere che fosse stato il mio primo colpo. Il
risultato non si fece attendere, perché sei giorni dopo un commissario
venne a interrogarmi in proposito. Sapevo benissimo che non c'erano prove
contro di me, ma ci tenevo a essere processato per quell'affare. Sapevo di
rischiare poco. In caso di grossa condanna per le armi, mi sarebbe stato
molto più facile evadere dal piccolo tribunale di Beaumont-le-Roger con
l'aiuto dei miei amici. Non ebbi quindi alcuna difficoltà ad ammettere quel
furto, che avevo compiuto da solo. Il commissario che m'interrogò ne fu
sorpreso e pensò di avere a che fare con un ladruncolo senza grande
personalità. Mi sarebbe piaciuto vedere la sua faccia se avesse conosciuto le
mie prodezze. Con mia grande soddisfazione se ne andò convinto che fossi
uno di quei teppistelli non molto pericolosi per la società, che si fanno
prendere al loro primo colpo.
Il risultato non si fece attendere. Due dei miei coimputati furono scarcerati,
un altro restò dentro perché al momento dell'arresto gli avevano trovato un
coltello a serramanico. Ero contento del risultato, anche se i miei due soci di
un giorno erano direttamente responsabili dei miei guai.
I miei genitori avevano reagito bene. L'aiuto che davano a Sole mi toglieva
molte preoccupazioni. Verso di me non avevano nessun rimprovero, ma
molta comprensione. Mia madre veniva spesso a trovarmi e cercava di
strapparmi la promessa che una volta uscito di prigione sarei ripartito su
nuove basi. Poiché non le rispondevo, mi diceva con tristezza:
Dopo un colloquio movimentato in cui litigai con Sole, poco mancò che
rompessi con lei. Ora si sentiva forte e poteva provocare la mia collera
senza correre grandi rischi. Ero furioso e avevo lasciato la sala dei colloqui
prima del tempo, dicendole:
Poi le avevo voltato le spalle. Giunto nella stanza in cui vivevo presi tutte le
sue foto e le strappai con rabbia. Quello sfogo era stupido e lo sapevo. Non
si distrugge il passato distruggendo le immagini degli istanti di felicità
vissuti. Per un mese non ricevetti lettere. Da parte mia feci lo stesso. Non ci
furono neanche colloqui. La facilità con cui dimenticavo mi stupì. Non
avendo più contatti con la mia donna, arrivai a non pensare più a lei.
Appresi da mia madre che lei aveva avuto un esaurimento nervoso. Una sua
timida lettera fu l'inizio di un riavvicinamento. Il suo messaggio d'amore
rimise tutto a posto e il nostro rapporto riprese più forte che mai. Mi
rimandò altre foto e, soprattutto, una di mia figlia. Stavo delle ore a
contemplare la mia bimba. Per lei mi credevo capace di cambiare il mio
modo di vivere. Mi sentivo in colpa per la mia assenza.
L'avvocato m'informò che il processo per furto si sarebbe svolto prima del
processo per le armi. Ciò non giocava a mio favore, perché non era questo il
motivo per cui mi ero accollato la responsabilità di quella faccenda. In
tribunale fui condannato a un anno. Due mesi dopo ci fu il processo per le
armi.
Scendendo dal furgone, vidi con piacere che i miei amici erano là e questo
mi confortò. Ammanettato mani e piedi, camminavo a piccoli passi. Paul si
precipitò verso di me e amichevolmente mi abbracciò, dicendomi con voce
soffocata:
- Su, circolare!
L'avvocato mi aveva detto che non rischiavo più di un anno, visto che non
avevo precedenti. Non valeva quindi la pena di rischiare. Non avevo visto
Guido. In seguito seppi che era fuori ad aspettarmi al volante di una
macchina veloce, con il bagagliaio pieno di armi.
Sentire quel corpicino vivo, frutto del mio amore, mi sconvolse. Sabrina mi
guardava con le due perle nere con cui scopriva il mondo. La sua manina si
posò sulle mie labbra e, rivolta alla madre rimasta al di là della grata, disse
con aria interrogativa:
- Papà?
- Prima o poi ricomincerai - mi disse - perché sei della mia stessa pasta.
Nella società non c'è posto per te. Come me, finirai la tua vita in galera, a
meno che non ti ammazzino prima.
Sole mi disse che Paul e Jacky si erano fatti beccare. C'era stato un conflitto
a fuoco con la polizia. Li avevano portati alla Santé. Li aspettavano lunghi
anni di sofferenze. Faceva parte dei rischi del mestiere. Portandomi via due
amici alla vigilia della mia liberazione, il destino voleva forse richiamarmi
all'ordine ancora una volta? Una cosa era certa, quell'avvertimento mi fece
riflettere.
Arrivò la vigilia della mia scarcerazione; era il luglio 1963. La notte d'attesa
fu lunga, la passai a meditare. Avevo perso un anno e mezzo di vita. Quella
detenzione aveva dato i suoi frutti. Avevo visto troppe persone condannate
a lunghe pene per non prendere sul serio il mio avvenire. Sole mi aveva
aspettato. Pensavo di uscire dalla mia situazione mettendomi seriamente a
lavorare, o almeno di provarci. Mi sentivo capace di guadagnarmi
onestamente da vivere; era sufficiente che lo volessi veramente. In fondo
non ero cambiato e immaginavo le difficoltà che avrei dovuto superare. Per
me non si trattava certo di rinnegare gli amici o il passato, ma di non
rubare, non giocare, non frequentare più i bar equivoci e le mie amiche
puttane. Non sapevo ancora se ci sarei riuscito, ma avevo un debito
d'amore verso la mia donna e mia figlia, e soprattutto la ferma intenzione di
godermi le gioie della famiglia.
Di ritorno a casa, con un mazzo di rose in mano, fui accolto da una Sole
radiosa. Sabrina, con passo trotterellante, si gettò fra le mie braccia. Molto
cerimonioso, tesi i fiori a Sole annunciandole:
- Oh! Jacques! Se tu sapessi come sono felice e fiera di te! Oh! E'
meraviglioso per tutti e tre. Finalmente vivremo una vita normale.
C'era qualcosa che mi turbava interiormente. Io, che avevo fatto le mie
guerre senza grande coscienza né morale, provavo una personale
soddisfazione nell'essere capace di ricominciare una vita onesta. Di avere
una vita senza sorprese né avventure, io, che avevo vissuto solo per
questo. Sapevo che con il mio salario avrei dovuto imparare a rispettare il
denaro e a non dilapidarlo al gioco. Quel vizio mi faceva paura. Sapevo che
era pericoloso come una droga. Decisi quindi di farmi proibire l'ingresso in
tutti i circoli e i casinò di Francia, come previsto dalla legge francese.
La mia prima uscita per recarmi al lavoro fu per Sole un vero e proprio
cerimoniale. Non le potevo fare regalo più bello. In lei l'angoscia aveva
lasciato il posto alla serenità. L'amore aveva trionfato sul vizio. Non sapeva
che era la mia unica valvola di sicurezza e che il giorno in cui l'amore
avesse perso la sua forza avrei preso una strada senza ritorno. Non ero
onesto, ma mi sforzavo di esserlo, spinto unicamente dai miei sentimenti,
ma tutto ciò lo ignoravo ancora.
Io, che non avevo avuto alcun problema davanti a un furto, una rapina a
mano armata o un regolamento di conti, di colpo mi sentii a disagio. Stavo
entrando in un mondo che non era il mio, come un lupo in un ovile. Come
mi avrebbero accolto i miei colleghi, quale reazione avrei avuto se qualcuno
di loro avesse fatto un'osservazione sul mio passato? La mia violenza mi
faceva paura. Facevo bene a cambiare vita? Non stavo mentendo a me
stesso? Ero veramente sincero? Arrivato al portone, ebbi voglia di fare
dietrofront. Ma varcai la soglia. Un semplice passo può cambiare il destino
di un uomo; questa volta stavo facendo quello giusto.
- Sono molto soddisfatto del suo lavoro. Può essere fiero di sé. Continui a
far progressi e presto il suo salario sarà quello di un disegnatore
professionista.
Avevo fatto uno sforzo per la riuscita del mio lavoro, seguendo un corso per
corrispondenza e già ne raccoglievo i frutti. Quella somma irrisoria, rispetto
alle grosse cifre che avevo avuto per le mani in passato, era la prova
palpabile del mio cambiamento di vita. L'avevo guadagnata con il mio
lavoro ed ero contento di me. Sole accolse la notizia come un colpo di
fortuna, lei che non aveva mai accettato a cuor leggero quello che rubavo.
Il suo sguardo si adombrò quando le dissi:
- Domani devo andare a trovare Guido. E' un mio amico e bisogna che gli
parli. Non c'è nient'altro. Puoi fidarti.
Rividi Guido, lui capì molto bene la mia posizione. Non dovevo
assolutamente niente a nessuno; mi sentivo pienamente libero di seguire la
strada che mi piaceva, senza doverne rendere conto. Guido dubitava delle
mie buone intenzioni di riabilitarmi. Era certo che sarei ricaduto nel crimine,
sapendo molto bene che, malgrado il mio cambiamento di vita, lui e gli
amici potevano contare su di me in caso di problemi seri. Quando gli parlai
di Jacky e di Paul, mi rispose che se ne stava occupando. Erano ancora in
attesa del processo, ma i loro avvocati pensavano che ne sarebbero usciti
meglio del previsto. Feci capire a Guido che per loro ero sempre disponibile.
Prima di andarmene, mi disse:
- Ah, senti, qui ci sono tutte le tue armi. Me le hanno portate dopo il tuo
arresto. Ho anche la tua 45, cui eri tanto affezionato, la vuoi?
- Ascolta. Ho detto che voglio provare a cambiare vita, non che rinnego il
passato e gli amici. Perciò evita le battute del cavolo! E se un giorno dovessi
riprenderle, sarà per un motivo serio e non esiterò, tu lo sai meglio di
chiunque altro.
Passarono i mesi. Allo studio ero ben pagato, perché conoscevo sempre
meglio il mio mestiere. Facevo degli sforzi enormi per riuscire. Certe volte,
se un progetto importante doveva essere terminato, mi fermavo al lavoro
fino a tardi. Sole era sempre felice di vedermi rientrare al mattino presto,
mezzo sfinito per aver passato più di trenta ore insonni a terminare un
progetto urgente. A volte mi raggiungeva con Sabrina e tutte e due mi
guardavano lavorare in silenzio. Era felice, finalmente vivevamo come
aveva sempre desiderato. Certo, avevamo ancora delle discussioni, ma
erano senza importanza e non oscuravano la nostra intesa.
Il nostro appartamento era arredato con gusto. Avevo fatto tutto da solo e
provavo una grande soddisfazione. Invitavo spesso i miei genitori. Mio
padre sapeva che avevo abbandonato la malavita e adesso eravamo come
due amici. La mancanza di comprensione che avevo provato durante
l'infanzia aveva lasciato il posto a una complicità amichevole. Adoravo mio
padre e lui mi ricambiava.
Sabrina si mise un dito davanti alla bocca. Udii la mia musica preferita e
Sole apparve; non potei impedirmi di scoppiare a ridere. Si era travestita da
donna incinta, mettendosi un cuscino sulla pancia. In braccio aveva tutte le
bambole di mia figlia come se fossero dei bambini, e al collo un cartello con
su scritto «Ho avuto un aumento».
Avanzò sorridente, ma, quando feci per abbracciarla, Sabrina mi tirò per i
pantaloni per farmi capire che non dovevo dimenticarmi di lei. La portai alla
nostra altezza e, stringendoli teneramente, baciai i miei due amori sotto lo
sguardo condiscendente delle bambole, che entro breve avrebbero avuto
compagnia, perché Sole aveva trovato un modo originale di annunciarmi
che era incinta.
Non potei fare a meno di confessargli i miei pensieri. La mia vita passata mi
mancava; a volte mi assaliva la voglia di avventura. Ma, d'altro canto, il mio
nuovo genere di vita mi offriva altre soddisfazioni, benché le cose con Sole
non funzionassero più come all'indomani della mia scarcerazione.
Ricominciava con le sue scenate di gelosia, per il semplice gusto di una
litigata. Avevo di nuovo alzato le mani. Ogni donna per lei diventava una
rivale, che fossimo al ristorante, in strada o altrove; se il mio sguardo
incrociava quello di una bella ragazza andava in crisi. Non si rendeva conto
che stava erodendo la nostra unione così come il mare erode la roccia e
che, presto o tardi, rischiavo di stancarmi di lei. A volte mi succedeva di
viaggiare per lavoro. Qualche avventura senza storia né importanza entrò
per una notte nella mia vita, unico ricordo della libertà passata. Era la mia
rivincita per le scenate di Sole che, almeno all'inizio, erano immotivate. Fu
così che cominciai a frequentare i locali notturni. Vi incontravo vecchie
conoscenze. Mi piaceva rituffarmi in quell'ambiente fumoso, quel mondo
della notte che era stato il mio. Ma tenevo duro nella mia risoluzione e
rifiutavo certe proposte ambigue che mi venivano fatte.
Il mio capo, da qualche tempo, era preoccupato perché gli affari andavano
molto male e stava pensando di chiudere la ditta o di ridurre il personale.
Quel clima si ripercuoteva sui miei colleghi; c'era disagio, perché ognuno si
chiedeva chi sarebbe stato lasciato a casa.
Alla fine di novembre, Sole partorì un bel maschietto. La lasciai sola con la
sua gioia, evitando di parlarle dei miei problemi di lavoro. Adesso avevo tre
bocche da sfamare e l'avvenire si preannunciava cupo.
Decisi comunque di cercare lavoro. Non volevo trovare comode scuse per
tornare alla vita di prima. Sole incassò la notizia con immensa
preoccupazione e con il timore di vedermi cambiare dall'oggi al domani.
A Natale ero ancora senza lavoro. Tutti i miei possibili datori di lavoro mi
avevano chiesto la fedina penale. Volevo essere sincero con loro e usare lo
stesso metodo diretto, senza celare il mio passato. I risultati furono
disastrosi: avevo ricevuto un mucchio di «le faremo sapere». A poco a poco
quei rifiuti mi sfinirono, poi m'invase la rabbia.
Iniziò il 1965. Alla fine avevo trovato un posto come disegnatore, ma mi ero
ben guardato dal parlare del mio passato. Il titolare era un uomo asciutto e
antipatico. Dopo quindici giorni fui chiamato nel suo ufficio. Mi disse che
purtroppo avrebbe dovuto fare a meno di me, poiché da un'indiscrezione
aveva appreso che ero stato in carcere, dovevo capire. Gli feci notare che
con il mio lavoro avevo dimostrato il desiderio reale di cambiare vita. Si fece
mellifluo, spiegandomi che i suoi soci gli forzavano la mano e che...
Non lo ascoltavo più. Questa volta assistevo al crollo dei miei sforzi. Il mio
passato mi veniva sbattuto in faccia come una malattia cronica e
vergognosa. Questa società vendicativa si rifiutava di dimenticare lo sbaglio
che avevo già pagato. D'un colpo riemerse la mia rivolta interiore. Con un
gesto fulmineo presi il titolare per il colletto della giacca. Con sguardo
omicida gli dissi:
Il mio stipendio era davanti a lui sulla scrivania, lo presi, gli sputai in faccia
e gli tirai addosso monete e banconote. Poi, spingendolo con forza, presi la
porta e lo lasciai senza parole, privo di qualsiasi reazione.
Per più di un'ora camminai senza meta dritto davanti a me, covando un odio
che non era altro che crudele delusione per il risultato dei miei sforzi. La
mia decisione era presa. La società mi negava il diritto di guadagnarmi da
vivere, l'avrei nuovamente attaccata. Questo semplice pensiero mi fece
sorridere, perché la mia rivincita sarebbe stata brutale. Dentro di me mi
dicevo: «Questa volta la pagherete cara!». Mi diressi verso un bar e
telefonai a Guido.
Ci fu un istante di silenzio. Non aveva capito che cosa volevo dire. Poi,
bruscamente:
- E' così, voglio dire che ricomincio a giocare. Arrivo. Prepara il "pastis".
Mangiamo insieme, ti spiegherò.
Perché distruggere ciò che avevo costruito in tanti mesi di lavoro? Perché
non provare ancora una volta... Un altro posto, un'altra ditta? La risposta
era semplice. Nel fondo di me stesso, ero un criminale incallito. Ero
cambiato per amore della mia donna, solo per amore. Ora questo amore
non era abbastanza forte per trattenermi. Solo l'amore può far cambiare un
criminale incallito e questo vale in tutti i casi. Avevo barato con me stesso,
ora la realtà riprendeva il sopravvento.
- Lascia perdere, per favore. Ricominciamo come prima. Sai bene che ci ho
provato per Sole e la bimba.
- Capisco. Ho sempre capito. Non aver paura, gli amici non ti hanno
dimenticato, te ne renderai conto. Sapevamo tutti che saresti tornato. Al
momento, abbiamo dei buoni affari e sei il benvenuto.
La mia vita cambiò. In seguito alla mia disillusione mi sentivo ancor più
pericoloso e lo ero davvero. Feci diversi colpi per risollevare le mie finanze.
Andai a Nizza per aiutare un amico a regolare un conto. Volevo riprendere il
mio posto nell'ambiente e far capire che il contatto con il lavoro non mi
aveva intenerito. Al contrario, ero diventato ancora più duro e avevo
riacquistato il mio ascendente su alcuni miei soci. Che fare con Sole? Dirle
la verità o nascondergliela? Le riconobbi il diritto di sapere.
- Allora non mi ami più! E' per questo che hai ricominciato?
Lei accettò... accettò tutto. Ma niente fu come prima. Avevo ucciso il nostro
amore. Cedendo, Sole mi perdeva.
Con Guido stavamo trafficando in valuta falsa. Feci diversi viaggi in Svizzera
e in Spagna. Tutto filava perfettamente. Avevo affittato un appartamento
per tenervi il materiale. Avevo due passaporti falsi usciti direttamente dalla
prefettura, cosa che mi permetteva di non temere controlli, neanche
all'estero. La banda mi si era raccolta di nuovo intorno, con grande piacere
di Guido. Avevamo messo in piedi un sistema per sbiancare i biglietti da un
dollaro senza alterarne la carta, che perdeva solo un po' di patina ma
conservava la resistenza e i filamenti colorati.
Nel frattempo, mio padre, avendo saputo che non lavoravo più, una sera mi
chiamò. Mi propose di entrare nella sua ditta come disegnatore. La sua
proposta arrivava troppo tardi e mi sorprese; in passato non aveva forse
detto che mai avrebbe accettato di vedermi lavorare per lui? Vidi subito i
vantaggi che offriva un lavoro regolare in caso di controlli della polizia e
acconsentii, in quanto il lavoro non avrebbe ostacolato le mie attività
illegali. Avrei potuto cogliere l'occasione per riprendere una vita normale,
ma non dimenticavo che la società, o almeno parte di essa, mi aveva
scacciato come un cane rognoso. Solo mio padre mi aveva teso una mano,
solo mio padre! Fu felice di vedermi accettare.
Sole aspettava il terzo bambino. Ero più tenero con lei, perché, a poco a
poco, aveva mostrato di capirmi, accettando quel che facevo, soprattutto
evitando le scene penose del passato. Pensavo di averla logorata e che non
fosse più in grado di lottare. Mi amava e sapeva che mi avrebbe perso se
avesse cercato di farmi riprendere la retta via.
- Ho un lavoro per noi. E' una cosa molto seria, ma anche pericolosa, se per
disgrazia qualcuno dovesse essere arrestato. Si tratta d'introdursi in una
villa, di trovare un taccuino d'indirizzi in un certo posto che ci sarà indicato
e recuperare alcune informazioni corrispondenti a un dato nome. La cosa
migliore sarebbe impararle a memoria; vedremo... Per il momento, ascolta
il seguito. Bisognerà rimettere al suo posto il taccuino e simulare un furto,
creando un gran disordine e portando via qualche oggetto di valore e il
denaro, se ce n'è, per rendere il tutto più credibile. Soprattutto, non
conservare niente in seguito. Se accetti, non posso dirti né per chi né per
quale motivo facciamo il lavoro. Ma una cosa è certa, c'è da guadagnare
parecchio.
Emisi un fischio.
- Niente meno... Un governatore militare! Ora capisco perché dici che può
succedere di tutto. La villa sarà certamente sorvegliata molto bene, senza
contare i possibili sistemi di allarme!
- Ci sarà.
- D'accordo, accetto.
Quando le dissi che dovevo partire per un viaggio d'affari, Sole mi fece
notare:
Mi si strinse contro, incollando le sue labbra calde alle mie. Poi, fissandomi,
disse:
Dopo aver definito gli ultimi dettagli con Guido, mi diressi verso
l'aeroporto... Atterrai a Palma di Maiorca in mattinata e presi un taxi che mi
condusse a un albergo della catena Phénix. Avevo prenotato per telefono.
Scopo dichiarato del mio viaggio: cercare una villa da acquistare. L'albergo
era magnifico. Era sul mare. La mia camera era lussuosa e di buon gusto.
Temendo un controllo alla dogana, non mi ero portato armi, ma prima della
partenza avevo fabbricato un mattone di gesso, mettendoci dentro una
pistola automatica avvolta nella plastica. Avevo ricoperto il gesso con un
granulato di poliestere, con dei disegni decorativi, e lo avevo spedito al mio
indirizzo in albergo con la dicitura «Campione senza valore, materiale da
costruzione».
Affittai un'auto alla Hertz. Nella sacca da spiaggia avevo messo un binocolo,
una macchina fotografica e una cartina molto dettagliata dell'isola. Presi la
strada che portava alla villa. Ci misi una ventina di minuti per arrivare sul
posto. Ebbi qualche difficoltà a trovarla, perché la maggior parte delle ville
si somigliavano. Guardandomi intorno, vidi un'altura con dei pini marittimi.
Ci andai. Sul posto mi resi conto che avevo trovato un ottimo punto
d'osservazione. Tirai fuori il binocolo e lo puntai sulla villa. Tutte le finestre
avevano delle grate di ferro battuto per protezione. Per evitare ogni
possibile confusione esaminai le diverse foto che avevo. Non c'era
possibilità di dubbio, era proprio la villa del governatore. Dopo aver
osservato con il binocolo tutti i lati, non potei che constatare le difficoltà
dell'impresa. Attraverso una finestra aperta vidi una donna, ma nient'altro
pareva vivere in quella casa. Dovetti attendere più di un ora per veder
passare una macchina della Guardia Civil. Fece il giro della villa, ma non si
fermò.
Ero assolutamente d'accordo con lui. Stabilimmo che avrei preso appunti in
caso si fossero guastati i walkie-talkie. Dopo aver messo a punto gli ultimi
dettagli, lo lasciai e presi la mia ricetrasmittente che non era più grande di
un pacchetto di sigarette. Secondo le nostre informazioni, la villa sarebbe
stata libera fin dal mattino, ma ci era stato chiesto di non agire prima delle
quattordici e trenta... Ne ignoravo il motivo, ma mi adeguai agli ordini.
Verso le due del pomeriggio, lasciai l'albergo. Guido era già sul posto, come
d'accordo. Il mio orologio segnava le due e venti. Adesso ero a trecento
metri dalla villa. Fermai l'auto. Mi era impossibile vedere Guido, ma sapevo
che era nascosto sull'altura a osservarmi. Presi il walkie-talkie per fare una
prova.
- Ehi! Mi senti?
- Io comincio... Passo.
Guardai il mobiletto da tutti gli angoli per controllare che non ci fossero
trappole. Tutto mi sembrava normale. Posando le dita sulla colonnina,
cominciai a tirare verso di me. Ma resisteva alla pressione. Per sicurezza
provai anche le altre. Niente. Tornato a quella che mi interessava, feci
girare l'anello di metallo dorato che aveva in mezzo. Ma non riuscii lo stesso
ad aprire. Capii che, per sbloccare il meccanismo, forse bisognava aprire,
nello stesso tempo, un cassettino. Avevo già trovato quel sistema di doppia
protezione. Per avere accesso ai cassetti mi toccava forzare la ribaltina. Ciò
non avrebbe indotto a ritenere che il ladro avesse trovato il nascondiglio,
perché si pensava che non ne conoscesse l'esistenza. Quando la ribaltina fu
aperta, aprii i cassetti ad uno ad uno. Aprendo quello in basso sentii un
leggero scatto. La colonnina che tenevo nella mano sinistra cedette.
Tirandola con precauzione, vidi apparire un minuscolo cassetto orizzontale
non più grande di quattro centimetri per dieci. Vidi subito diversi fogli. Il
taccuino era lì. Ero ammirato dalla precisione delle informazioni che ci
avevano fornito. Mettendo il tutto sulla ribaltina, ebbi cura di mantenerlo
nello stesso ordine e chiamai Guido:
- Sì, sicuro. L'informazione può darsi che ci sia, ma sotto una forma che
ignoriamo. Aspetto che tu decida... Passo.
- Non c'è più tempo. Non ti preoccupare, tutto è ben annotato. Vai,
comincia la tua messinscena e sbrigati. Passo e chiudo.
Rimisi il taccuino al suo posto. Durante il dettato avevo constatato che certe
cifre corrispondevano a numeri di conto di alcune banche svizzere. Mi
chiedevo se era ciò che interessava al nostro cliente misterioso. Dopo aver
rimesso la colonnina al suo posto con il suo contenuto, cominciai a svuotare
i cassetti del secrétaire per giustificare il mio scasso. Feci altrettanto con gli
altri mobili. Per tenere libere le mani durante la perquisizione, commisi
l'errore di posare la ricetrasmittente sul letto e dirigermi nelle altre stanze,
per creare la stessa messinscena. Scesi in soggiorno, aprii i cassetti e versai
tutto per terra. Misi qualche soprammobile da parte e risalii a cercare il
walkie-talkie... Capii che Guido mi stava facendo una chiamata urgente e mi
precipitai nella stanza.
Capii in fretta che la cosa migliore era fingere di non capire la loro lingua e,
in francese, gli risposi:
Per un breve istante lessi lo stupore nel suo sguardo. Si girò verso la
guardia del corpo dicendole, sempre in spagnolo:
Mi fecero entrare nel soggiorno. Ero imbarazzato dal disordine che c'era. Il
governatore mi guardava con occhio attento e divertito. Era un ometto
dall'apparenza fragile, sembrava mio nonno; ma sotto l'aspetto infantile
c'era una grande fermezza. Con voce dolce mi chiese in francese:
- Così, è francese?
Accusò il colpo senza battere ciglio e si rivolse al tenente nella sua lingua:
- Del denaro.
- Soldi, gioielli...
- Non so che cosa sia venuto a fare qui, ma lo sapremo, ne sia certo. I miei
servizi la faranno parlare; a meno che non si dimostri ragionevole.
Poi, in spagnolo, rivolgendosi al tenente con voce ferma:
Rimasto solo, non provai paura, anche se sapevo cosa mi aspettava. Non
temevo le botte, ma si sarebbero fermati lì? Conoscevo i metodi e la triste
fama della polizia spagnola. Non mi aspettavo regali. Questa volta era la
fine. Mi misi a pensare a Guido... Per fortuna non si era fatto beccare!
Passai le ore a riflettere, seduto sul pagliericcio steso per terra. Dovevo
trovare una buona spiegazione, in modo da insinuare il dubbio nelle loro
teste. Era ormai notte quando vennero a prendermi. Mi fecero rivestire e mi
tolsero le manette per portarmi in uno stanzone in cui c'erano diversi
uomini in borghese con un uomo di una cinquantina d'anni.
Mentre quello parlava, io cercavo una valida strategia di difesa. Così, alla
fine il pacchetto con la pistola era arrivato. Il suo ritardo poteva risultare
utile e avevo proprio intenzione di giocare la carta del mistero. Più insistevo
a fare lo gnorri, più probabilità avevo di esser preso sul serio. Stupito,
chiesi:
- Andiamo, Mesrine, sia serio e non mi dica che ignorava che quella era la
villa del governatore militare. Mi dica piuttosto il perché. La Francia è un
paese amico, la verità ci permetterà di regolare questa piccola controversia
con i suoi capi e sistemare la sua situazione.
A quel punto gli avevo fatto perdere la pazienza. Girandosi verso le guardie
che mi stavano alle spalle, disse loro:
- Portatelo via.
Mi fecero scendere nel sottosuolo. Questa volta ebbi paura. L'atmosfera era
lugubre. Quella stanza emanava un senso d'infelicità e di sofferenza.
Quell'ambiente era studiato apposta per incutere paura. Una seggiola in
legno massiccio era al centro della stanza, nient'altro. Mi fecero togliere la
giacca. Nessuna delle guardie parlava il francese. Malgrado le mie proteste
mi fecero sedere a forza. Riflettei in fretta sulla mia situazione. Delle due
l'una: o volevano solo tastarmi il polso e allora la lezione sarebbe stata
sopportabile, o volevano veramente la verità e allora avrei fatto bene a
preoccuparmi. Uno degli uomini in borghese che avevo visto nell'ufficio
arrivò in compagnia di un altro tizio, che disse di essere l'interprete e mi
domandò se mi ero deciso a dire la verità. Di fronte al mio silenzio, l'uomo
ordinò alle guardie di legarmi le mani e i piedi alla seggiola. Non opposi
resistenza. L'interprete mi si piazzò davanti:
- ...
Rimasi in silenzio per diversi secondi. La guardia che era piazzata dietro di
me mi prese per i capelli e mi colpì in faccia con tutte le sue forze. Me lo
aspettavo, ma mi fece male ugualmente. Mi aveva colpito il naso e gli occhi
mi si riempirono di lacrime. Mi colpì ancora, questa volta con le due mani e
la mia testa sbatté a destra e a sinistra. Il dolore era sicuramente inferiore
alla rabbia che provavo nel non potermi difendere. Mi rifecero la stessa
domanda; non risposi. La guardia mi colpì ai tendini delle spalle con un
piccolo sfollagente di gomma. Questa volta il dolore fu atroce e non potei
trattenere un grido. Il viso dell'interprete si sporse verso di me:
Non gli lasciai terminare la frase e gli risposi in spagnolo, certo dell'effetto
che la mia frase avrebbe prodotto:
- Quale incidente?
Mi guardò stupito e, a sua volta, si sforzò di sorridere:
- Non posso averne un altro, signor Ministro, sono certo che lei capisca
benissimo. A ciascuno il suo mestiere.
Ero in pieno melodramma, ma ero certo che anche lui avrebbe abboccato.
Assunse un'aria pensierosa, poi mi rispose:
- Sì, è molto probabile che capisca bene!... Meglio di quanto lei immagini.
Diffidavo di quel tipo. Poteva anche essere uno sbirro messo lì per farmi
parlare. Pur rimanendo corretto, mi tenni sulla difensiva. Prima di
simpatizzare, volevo sapere con chi avevo a che fare. Lui non sapeva
ancora di avere appena incontrato la «morte». Grazie a me, avrebbe perso
la vita con le sue stesse mani... A un porco non si perdona mai. Per il
momento, ci stavamo studiando ed ero ben lungi dall'immaginare che il
destino avesse già distribuito le carte.
- Sì, ci si può pensare... Non so come le cose si potrebbero mettere per me,
anche perché da questo carcere non sarebbe un problema evadere, ma
siamo su un'isola e i mezzi per lasciarla sono limitati. Insomma, possiamo
sempre pensarci. Se hai la possibilità di far uscire, senza controllo, delle
lettere posso sempre contattare qualcuno. Una cosa sola, David: io non ti
conosco, non abbiamo alcun amico in comune... Allora ti avviso, se tradisci
la mia fiducia o se cerchi di farmi cadere in una trappola, ti faccio la pelle.
I giorni passarono. Ricevetti una lettera da Sole. Capii subito che gliel'aveva
dettata Guido. Quando lessi la frase «il tuo bambino, malgrado ciò che ti è
successo, è fiero di portare il tuo nome», capii che il mio amico aveva avuto
le informazioni che cercava.
- Ascolta... Il fatto che io sia messo in libertà sull'isola non cambia niente.
Ho una parola sola. Ti aiuterò. Se sono libero posso aiutarti per il
nascondiglio, per i documenti falsi, per lasciare l'isola... E, soprattutto,
posso far venire degli amici.
Scesi all'hotel Jaime III e la prima cosa che feci fu chiamare Parigi, dando
solo il mio indirizzo e dicendo che ero libero. Sapevo che, con il primo
aereo, Guido o un altro amico sarebbe arrivato a Palma sotto falsa identità
per contattarmi. Nell'attesa sarei andato a firmare ogni giorno come
previsto. Non volevo avvertire Sole della mia liberazione, non sapendo
ancora come sarebbe finita la storia.
Dovetti attendere due giorni per essere chiamato al telefono, una mattina.
- Chi parla?
Appena entrato nel ristorante vidi Guido. Era in compagnia di un uomo che
non conoscevo. Una volta seduto al tavolo, vidi che andava in bagno... Feci
altrettanto, con la scusa di dover telefonare.
- Nessuno ti ha seguito?
- Non sono in albergo. Sono a casa di un amico fidato... Sì, il tipo che hai
visto a tavola con me. A proposito, le informazioni che ci servivano le
abbiamo avute. Hai fatto un ottimo lavoro. Te ne renderai conto al tuo
arrivo, non ci siamo dimenticati di te.
- Lo spero!
- OK... A presto.
Fu un ottimo pranzo. Josy era di compagnia. Non una volta il mio sguardo si
posò sul tavolo dov'era Guido.
Fui puntuale all'appuntamento. L'amico di Guido era belga. Aveva una bella
proprietà a dieci chilometri da Palma. Guido mi fece capire che potevo
parlare tranquillamente. Gli raccontai la mia storia nei dettagli. Spiegai a
Guido il mio progetto di fare evadere David.
- Tutto ciò è molto bello, ma tu non lo conosci bene quel ragazzo. Hai
pensato che potrebbe essere uno sbirro?
- No, l'ho messo alla prova... E comunque gli ho dato la mia parola che lo
avrei aiutato e...
Nei giorni che seguirono, come convenuto, non rividi Guido. Ogni giorno
andavo a firmare il registro della polizia. A volte incontravo il capo della
Guardia Civil che mi aveva interrogato; diverse volte mi offrì da bere al
circolo militare. Per lui ero un tipo a posto, quasi un collega. Questo
persistere nell'errore mi divertiva, ma, lungi dal contraddirlo, stavo al gioco.
Tutto era pronto per l'evasione di David. Guido aveva fatto venire da Parigi
un altro amico che, all'ora prefissata, doveva aspettare David al volante di
un'auto rubata. Il belga aveva preparato un nascondiglio. Per i documenti
falsi mancava solo la foto. La sua partenza dall'isola era prevista un mese
dopo l'evasione, onde evitare ogni sorpresa. Con animo tranquillo, passai il
veglione di fine anno con Josy. Lei m'informò che l'indomani sarebbe
ripartita in nave per Marsiglia. La partenza era fissata alle otto di sera. La
coincidenza non mi sfuggì... Alla stessa ora David avrebbe tentato
l'evasione. Accompagnandola e facendomi notare in un modo o nell'altro
alla dogana mi sarei procurato un ottimo alibi. Ancora una volta il destino
mi era favorevole, offrendomi in modo quasi comico un alibi inattaccabile.
Il primo gennaio 1966, intorno alle sette di sera, accompagnai Josy e sua
figlia al molo d'imbarco di Palma di Maiorca. La nave era alla banchina.
Dirigendomi verso la dogana, vidi il capo della Guardia Civil. Mi guardò
sorpreso, forse pensando che fossi io a volermi imbarcare. Mi venne
incontro.
- Allora, signor Mesrine... Malgrado il divieto ci sta lasciando?
- Scendere, signore!... Ne dubito. Gli ormeggi sono già stati sciolti e stiamo
uscendo dal porto.
Il comandante esplose:
- Ma l'annuncio è stato dato. Può darsi che lei non l'abbia sentito...
- Mi porti dal capitano! - disse lui, folle di rabbia.
Dopo esserci presentati al capitano, fu deciso che una lancia della dogana
sarebbe venuta a prenderci. Il dispaccio fu inviato. Accompagnati da grida
di saluto, con una scala di corda ci calammo nella lancia che beccheggiava
sottobordo. Josy ci fece un ultimo segno d'addio. Quando la lancia accostò
al pontile, il comandante aveva ritrovato il suo sorriso.
- Perché me lo chiede?
- David... Ah! Sì, il ragazzo con cui giocavo a scacchi durante la mia
detenzione... Sì, lo conosco... Ma niente di più. Perché?
- E' evaso!
- In effetti forse sarà meglio che mi ci portiate subito, perché non posso
dirvi con chi ero senza prima aver visto il commissario. Ma sarà molto
sorpreso, perché non ho assolutamente niente a vedere con questa storia;
la persona con cui ero mi scagionerà rapidamente. Le crederanno sulla
parola, non ne dubiti - dissi ironicamente.
Gli spiegai, nei dettagli, dov'ero stato. Sulle prime pensò che lo prendessi in
giro. Gli ci volle un po' per riuscire a contattare il comandante, perché non
avevo la minima idea di dove fosse il locale in cui avevo bevuto con lui.
Quando tornò, il commissario aveva verificato il mio alibi.
- No, commissario, perché non avevo alcun interesse a far evadere un tipo
come David.
- Come non aveva alcun interesse a entrare nella casa del governatore. Lei
fa molte cose senza una ragione, signor Mesrine... Faccia attenzione, è un
consiglio che le do gratis. In ogni modo, lo ritroveremo. Siamo su un'isola...
E' difficile lasciare un'isola, signor Mesrine.
Tornato nella mia camera, mi feci portare una bottiglia di whisky con del
ghiaccio. Riempii il bicchiere e brindai a David dicendo a me stesso: «Ben
fatto, Jacques, li hai fregati».
- Caro, è vero che lavori per i servizi segreti?... E' stato l'avvocato a
scriverlo a tuo padre.
Scorsi subito il vantaggio che avrei potuto trarne per i viaggi futuri e,
rimanendo sul vago, le risposi:
Sapevo che lei ne avrebbe dedotto che non potevo risponderle. La sua
immaginazione avrebbe fatto il resto. Mi guardò con uno sguardo ammirato,
dicendomi: «Capisco...». Si credeva sposata a O.S.S. 117 e James Bond
messi insieme... Se ciò poteva tranquillizzare la sua coscienza, preferivo
lasciarle le sue illusioni.
Andò a prendere una valigia e tirò fuori una scatola. Era piena di mazzette
di banconote da cento dollari. Presi un biglietto e lo esaminai.
- Allora?
- La trovi buona?
Passò un mese. Mi ero preso un po' di riposo con Sole, che non protestava
più per le mie uscite notturne, immaginandosi non so quali missioni!
Era tempo di far venire David. Con i suoi documenti falsi, prese l'aereo in
compagnia della moglie e del figlio di un amico mio, che aveva accettato
questo stratagemma per facilitargli la fuga.
All'arrivo, David era raggiante di gioia. Mi raccontò tutto nei dettagli, non
sapendo come ringraziarmi per quel che avevo fatto per lui. Avevo
preparato tutto, un appartamento affittato con il nome dei documenti falsi,
vestiti, denaro. Trovavo normale aiutare un tipo che aveva avuto il coraggio
di evadere. A volte, senza saperlo, si fa entrare il lupo nell'ovile.
Per una settimana lo portai in giro per presentarlo agli amici. Poi, un giorno,
parlammo dei dollari falsi. Vedendoli, subito David si entusiasmò.
- Ascolta, Jacques! Quel tipo non mi piace... Diffida di lui, certi dettagli mi
lasciano perplesso. Mi ha chiesto di procurargli un'automatica per il
viaggio... Te ne ha parlato?
- In ogni modo, sono io che tengo i dollari e non viaggerò certo a mani
vuote. Basta prendere qualche precauzione. Gli daremo una pistola poco
prima della partenza, ma dopo averne limato il percussore. Di armi se ne
intende poco. Io ne porterò due, così non sarò a mani vuote caso mai
incontrassimo gli sbirri spagnoli e ci trovassimo in difficoltà. .. Se ciò ti
tranquillizza, facciamo così.
Guido approvò.
Fu deciso che David avrebbe affittato sotto falso nome una Mercedes alla
Hertz. Dopo avere nascosto nella macchina i dollari falsi, fissammo la
partenza. Al mattino gli diedi una 9 millimetri parabellum e due caricatori. I
nostri sguardi s'incrociarono. Nei suoi occhi lessi la soddisfazione.
- Per te c'è qualche rischio a passare la frontiera con me. La cosa migliore
sarebbe che io passassi da solo in Mercedes e tu in pullman. Ti farei risalire
dopo la frontiera.
Era sincero? O aveva cattive intenzioni? Per tutto il viaggio si era mostrato
allegro e niente nel suo comportamento rivelava qualcosa di strano. Decisi
di sondarlo per capire se la sua proposta non avesse uno scopo diverso
dalla mia sicurezza.
Esitò e disse un nome che non conoscevo. Sentivo che era nervoso. Adesso
ero sicuro: David aveva qualche idea strana in testa. Stavo in guardia. La
38 special che avevo alla cintura mi serviva da assicurazione. Feci finta di
addormentarmi, come cullato dal viaggio.
Era dunque così, mi aveva portato al macello, senza dubbio. Ero deluso...
Colui al quale avevo offerto la mia amicizia mi avrebbe tradito per dei dollari
falsi. Nei miei sentimenti ero troppo puro per capire. Che una donna
tradisca lo si può ammettere. Se un amico ti tradisce, il sentimento del
«fino alla morte» lascia il posto a un odio distruttivo. Avevo quasi voglia di
gridargli: «Non vedi che stai per crepare?» ma, con calma, stetti al gioco:
- Va bene, anch'io.
Fermò la Mercedes in una radura in ombra. Scese per primo. Senza che se
ne accorgesse, tolsi le chiavi dal cruscotto e me le misi in tasca, scendendo
dal mio lato. Si era un po' allontanato dall'auto: feci lo stesso e gli girai le
spalle, come se stessi urinando. Lo sentii ritornare all'auto e aprire la
portiera. Quando mi girai, non fui nemmeno sorpreso di vederlo a dieci
metri da me, con l'arma in mano, sudato di paura, troppo piccolo per
tentare quel che non avrebbe potuto portare a termine. Parlai per primo,
fissando l'arma. Sapevo che, senza il percussore, era del tutto inoffensiva e
mentalmente ringraziai Guido.
- Povero scemo!
Il cane del suo revolver batté sul percussore con un rumore secco. Non ci fu
alcuna detonazione. Mi guardò con sguardo ebete, con il panico negli occhi.
Fece il gesto di riarmare, ma io avevo già la mia pistola in mano. Lui era
rimasto lì, con le braccia a penzoloni, come una marionetta senza fili. Io,
con una fredda rabbia nel cuore, gli ero già vicino. Fissava con terrore il
buco nero della mia 38. Gli tirai un calcio nel basso ventre e cadde gemendo
contro la portiera.
- Povero miserabile!
Avevo recuperato la sua arma. Il posto era deserto. Vidi un sentiero che
saliva leggermente verso la montagna. Chiusi le porte dell'auto e infilai un
paio di guanti. Prendendolo per il bavero, gli dissi:
- Ma...
- Tutto questo per i soldi... Il banchiere non esiste, eh, maiale? Mi sparavi e
te ne andavi con 150 mila dollari, macchina, armi e documenti.
- E' tutto quello che sai dirmi! Guido mi aveva avvertito e ti abbiamo
manomesso la pistola... Non hai avuto fortuna, piccolo, la tua carriera di
porco finisce qui... Hai scelto tu stesso il tuo destino.
- No... No, non farlo... Farò tutto quello che vuoi... Sì, sì. Tutto quello che
vuoi!
Mi spiegò tutto. Il banchiere che non era mai esistito. Si mise in ginocchio,
piangeva, frignava. Avrei preferito che tentasse l'ultima carta saltandomi
addosso. Ma era un vigliacco, come tutti coloro che tradiscono l'amicizia.
Ritardavo la sua morte. Feci finta di dargli una speranza di cavarsela.
Come faceva a credere alle mie parole? Era ingenuo, oltre che avido, a
pensare che non avrebbe pagato il tradimento con la morte.
- Infilati la maglietta.
- ...
Si rialzò a fatica, fissando la mia arma. La paura aveva avuto la meglio sulle
sue budella e i suoi escrementi gli colavano lungo le gambe. Altri quattro
colpi lo colsero in pieno petto. Bucarono la sua maglietta. Quattro fiori rossi
come prezzo del suo tradimento. Rantolava. Gli tolsi la maglietta, poi,
prendendolo per i capelli, gli sollevai la testa e gli tirai un ultimo colpo che
gli fece scoppiare la scatola cranica. Aprii il tamburo, mi misi in tasca i
bossoli e ricaricai la mia arma in caso di problemi al mio ritorno alla
macchina. Raccolsi i vestiti da terra. Dopo un ultimo sguardo a David,
sputai per terra. Se ci fosse stato bisogno di un epitaffio avrei scritto: morto
nella sua merda.
Dovevo riflettere e in fretta. La calma era totale. Presi l'altra arma che mi
ero portato dietro; dopo aver pulito dalle impronte quella che avevo appena
usato e dopo averla svuotata dalle pallottole, la tirai lontano nel bosco, così
come i bossoli. Feci lo stesso con la pistola di David. Misi nella mia valigia i
suoi vestiti, dopo averne tolto i documenti. Strappai tutte le foto dai
documenti e li bruciai sul posto. Mi restava solo la maglietta. Ciò che avevo
deciso di fare era imprudente, ma me ne fottevo: era per Guido.
Sulla strada del ritorno pensai a David... Avrebbe fatto meglio a restare in
prigione. Me la prendevo con me stesso per il mio errore di giudizio. I miei
amici non potevano rimproverarmi niente, avevo fatto quel che bisognava
fare. Per i dollari non era importante. Non mancavano certo altre soluzioni.
Feci una sosta in un luogo deserto e alla luce interna dell'auto tolsi i dollari
dal loro nascondiglio e li misi nella sacca. Arrivato a Perpignan abbandonai
la Mercedes con le chiavi nel cruscotto per facilitarne il furto e andai in
stazione. C'era un treno per Parigi.
- E allora?
- Affare sistemato.
Nell'aprile 1966 Sole mi diede un bel bambino che chiamai Boris. Malgrado
quella nascita, raddoppiai le mie attività criminose. Amavo l'azione e, contro
questa rivale, Sole non poteva competere. Mi piaceva il pericolo. Per contro,
nutrivo un'adorazione senza limiti per mia figlia Sabrina. Certe volte la
portavo con me la sera al ristorante. Come due piccole biglie nere i suoi
occhi scoprivano il mondo. La portavo a passeggio tra i mercanti di quadri a
Place de Tertre. Le avevo fatto fare il ritratto in stile Gavroche e i pittori che
la conoscevano l'avevano soprannominata «la Pulce». Quando il fioraio
passava con il suo cesto di rose, ne compravo sempre una e gliela offrivo.
Guido mi chiese di andare con lui nel sud della Francia; il suo amico Tino
aveva bisogno d'aiuto per regolare certi conti. Fu un bagno di sangue. La
malavita è così, puoi uccidere un uomo senza averlo mai visto prima...
Ignorando tutto di lui, tranne che è in guerra contro l'amico di un amico. Lo
uccidi senza odio, senza cattiveria... Come in guerra, semplicemente perché
bisogna farlo. E poi torni a casa, senza pensare che una madre piange, che
una moglie ti maledirà senza mai sapere chi sei e forse anni dopo il destino
ti metterà nel letto quella stessa donna, che continuerà a ignorare che sei
l'arma che ha cambiato il suo destino. Ma una cosa è sicura: se quello ha
degli amici sinceri, essi non ti dimenticheranno mai. Di ritorno a Parigi,
Guido mi avvertì che le cose non sarebbero finite lì. Non avrei tardato a
rendermene conto.
Una sera che avevo un appuntamento con Tino, che era venuto per qualche
tempo a Parigi, parcheggiai l'auto in Place de Clichy. Era notte. Mentre
scendevo dall'auto, il rumore di un motore mi fece voltare la testa. Quel
gesto mi salvò la vita. Un uomo, con la mano fuori dal finestrino, mi teneva
nel mirino. Nel momento stesso in cui aprì il fuoco ebbi il riflesso di gettarmi
a terra. La macchina mi superò. Ero rotolato a terra ed ero riuscito a
estrarre la mia Colt 45. Ma non ebbi il tempo di rispondere al fuoco. Quando
feci per rialzarmi, il piede sinistro non mi reggeva più. Me la cavai con una
pallottola nella gamba e quattro fori nella portiera. Malgrado l'ora tarda, la
gente cominciava ad affacciarsi alle finestre. Rapidamente mi rimisi al
volante e sparii. Mi recai direttamente da Guido. Questa volta, dopo
l'estrazione della pallottola, dovetti restare due giorni nella clinica di un
amico prima di poter ricominciare a camminare. La fortuna di sfuggire alla
morte mi avrebbe seguito per tutta la mia carriera criminale, nonostante i
diversi conflitti a fuoco ai quali avrei partecipato.
Decisi di lasciare la Francia per qualche mese e di andare alle Canarie, dove
presi in gestione un ristorante. Mi piaceva Santa Cruz di Tenerife, che era
un porto franco. Feci molto rapidamente la conoscenza dei malavitosi
francesi che vivevano lì senza problemi con le autorità spagnole. Guido e
altri amici vennero a trovarmi. Mi dedicai a diversi traffici, favoriti dalla
situazione di porto franco, ma l'azione mi mancava.
Una sera mi fece una scenata peggiore del solito. Non si controllava più.
Con l'unico scopo di vendicarsi di qualche amante immaginaria, minacciò di
suicidarsi assieme a mia figlia. Credeva che ormai l'amore avesse lasciato il
mio cuore e si attaccava a me in modo maldestro, passando dalle minacce
alle suppliche, dalle lacrime alla collera. Mi rendevo conto che se fossi
restato con lei, prima o poi l'avrei uccisa. Senza rendersene conto, mi aveva
reso pericoloso per se stessa. Il nostro legame di coppia si affievoliva.
Sapevo che in quella situazione squilibrata avevo delle responsabilità, ma
non volevo fare niente per cercare di salvare qualcosa del nostro rapporto.
Presi quindi la decisione di lasciarla senza spiegazioni e di sparire dalla sua
vita. Feci venire mia madre, che ripartì per la Francia con mia figlia Sabrina.
Dopo essere passato in banca, presi l'aereo per Roma. Non le lasciai né un
biglietto d'addio né la possibilità di ritrovarmi. Non rividi mai più Sole.
All'indirizzo dei miei genitori mi scrisse diverse lettere, che restarono senza
risposta. Non seppi mai cosa le era successo né volli saperlo.
A Roma parlai al telefono con Guido. Al mio racconto di quel che era
successo con Sole, la sua risposta fu:
Mi disse che ora sapeva chi mi aveva sparato qualche mese prima e mi
chiese se ero interessato a un colpo in Svizzera. Al telefono non poteva
dirmi di più. Gli risposi positivamente e mi diede appuntamento in un
albergo di Zurigo.
- Stai scherzando?
- No, sul serio... Le due parti hanno fatto la pace, curiamo le ferite. .. Anche
quelle dell'orgoglio, e dimentichiamo tutto.
- Anche quelli che ci hanno lasciato la pelle? Il tuo amico Tino, per esempio?
- Non dire sciocchezze... Sai bene che per questo hanno già pagato! E' stata
decisa la pace e pace sarà. Mi sono impegnato anche a nome tuo.
Guido era un amico... Più che un fratello. Accettai dunque quel che aveva
deciso per tutti. Non mi disse mai il nome di chi mi aveva sparato. Temeva
troppo il mio spirito vendicativo.
Accadde un venerdì pomeriggio, giusto prima del Natale del 1966. Nel pieno
centro di Ginevra, incappucciati, entrammo nella gioielleria. In meno di tre
minuti arraffammo anelli, collane, spille per diverse decine di migliaia di
dollari. Senza sparare un colpo, senza violenza... Un buon lavoro. Guido
ripassò la frontiera nei minuti immediatamente successivi alla rapina con il
bottino ben nascosto nell'auto. Io dovevo tornare a Zurigo per studiare un
altro colpo dello stesso tipo in una gioielleria che avevamo visto all'andata.
Non ne ebbi il tempo. La polizia di Ginevra, sospettando che il colpo fosse
stato opera di stranieri, procedette a dei controlli d'identità negli alberghi. Il
lunedì bussarono alla mia porta. Alla mia domanda risposero: «Polizia».
- E' lui?
- Sì, commissario, e anche la grossa somma di denaro che c'è nella borsa.
Proviene dal mio conto bancario di Tenerife. Che io sappia, le armi non sono
proibite nel suo paese.
- Il loro porto, no, Mesrine... Ma io sospetto che se ne sia servito e che sia
coinvolto nella rapina alla gioielleria.
Il commissario m'informò che non aveva alcuna prova contro di me, ma che
ero espulso a vita dal territorio elvetico in quanto «straniero indesiderabile
con gravi precedenti». Per le armi non poteva farmi niente.
- Gliele renderò.
Per diverse settimane non feci altro che frequentare night-club e ippodromi.
Libero da Sole mi rituffai alla grande nel mio ambiente. Sapevo che se il
nostro rapporto era finito, ne ero io il responsabile. Ma i rimorsi non
facevano parte del mio carattere. Con il passare degli anni ero diventato
duro e pericoloso. La gente mi temeva e io ne traevo una certa
soddisfazione. Ritrovavo la mia dolcezza soltanto con i vecchi o i bambini. Il
mio ambiente era una giungla, dove solo i forti erano rispettati. Si sapeva
che non esitavo a uccidere, che ero corretto e leale nell'amicizia. Avevo
pochi amici, ma con essi formavamo una buona squadra, molto solidale
nelle difficoltà.
Non era più il caso che io continuassi a vivere al mio vecchio domicilio.
Decisi dunque di prendere in gestione un albergo, con opzione di acquisto.
Una sera stavo passeggiando dalle parti di Place Bianche e, per semplice
curiosità, andai in un bar dove non avevo mai messo piede. Appena entrato,
due graziose biondine cominciarono a farmi gli occhi dolci per farsi offrire
dello champagne. Mi avevano preso per un cliente del sesso a pagamento...
Ciò mi divertiva e, gentilmente, declinai l'offerta. Ma una di esse insistette,
certa del suo fascino. Mi guardai intorno nella sala. Lei era là, spiccava sulle
altre, con il suo fisico da segretaria di direzione, un po' hostess, un po'
puttana, ma talmente donna! Gli occhiali le davano un'aria distinta. Guardò
la sua compagna di lavoro e venne al bar.
- Non vedi che il signore beve champagne solo con i suoi amici!
- Se confondi gli uomini con i minchioni, bella mia, è meglio che cambi
mestiere!
- Posso sedermi?
- Puoi sederti.
Le sorrisi.
- Di solito è il contrario.
- Ciao, Janou.
A Guido, che era venuto all'albergo, Janou era piaciuta e gli aveva subito
ispirato fiducia.
L'albergo cominciava a farsi un nome. Gli affari andavano bene. Era situato
in piena foresta, cosa che ci permetteva di fare lunghe passeggiate con i
nostri cani. Ne avevo quattro, di cui due raccolti da Janou che li aveva
trovati affamati e abbandonati. A volte dovevo assentarmi per un giorno o
due. Lei mi preparava la valigia, sempre senza fare domande. Al mio ritorno
mi buttava le braccia al collo e posava la testa sulla mia spalla. Una volta
che avevo visto una lacrima nei suoi occhi, mi aveva detto, semplicemente:
- Non è niente... Sono felice, piango per la felicità di essere con te.
L'avevo presentata ai miei genitori. In mio padre aveva trovato il padre che
non aveva mai avuto. Per lei era diventato «papi». Scopriva di avere una
famiglia e io scoprivo lei giorno dopo giorno.
Quella sera non c'erano molti clienti. Quando Janou mi vide prendere il
nerbo di bue, infilò la mano nel cassetto dove c'era sempre la mia 38
special. Tutto accadde molto in fretta. Il parà si prese in piena faccia il
nerbo di bue e crollò ai miei piedi... Quanto agli altri erano paralizzati dalla
paura. Janou li minacciava con l'arma. Ne approfittai per colpirli ancora con
il nerbo di bue. Scapparono come un volo di uccelli. Portai fuori il parà
trascinandolo e lo lasciai fuori dalla porta. Non intendevo certo chiamare la
polizia, per principio. Due giorni dopo fui molto sorpreso di essere
convocato in questura per rispondere di lesioni al parà! Mi aveva
denunciato! I poliziotti non apprezzarono che mi fossi fatto giustizia da solo;
seppero che ero stato in prigione e da quel giorno non mi lasciarono più in
pace. Provavo un grande rancore nei confronti di quel parà, che aumentò
quando venni a sapere che si vantava che, se mi avesse incontrato nel
bosco, mi avrebbe abbattuto con il suo fucile da caccia. Quindici giorni dopo
lo trovarono impiccato. L'inchiesta concluse che si trattava di un suicidio.
Non vidi mai più la banda di giovani balordi nel mio albergo. Ma, di fronte
alle prepotenze della polizia, decisi di andarmene senza avvertire nessuno.
Andammo a stare nella proprietà dei miei genitori. Cominciavo ad amare
Janou. La sua reazione il giorno della rissa all'albergo mi era piaciuta, aveva
dei buoni riflessi... Sapevo di poter contare su di lei in ogni circostanza.
Spesso uscivamo la sera per andare nei locali alla moda. Dovunque, la
presentavo come mia moglie, e la luce che le brillava negli occhi mostrava
tutta la sua gioia. Mi capitava di uscire da solo quando ne avevo voglia. Da
quando vivevo con lei, le altre donne non mi interessavano più. Per la prima
volta ero fedele, e credo che lei lo sapesse.
Una sera che mi trovavo in un bar vicino a quello in cui l'avevo conosciuta,
due uomini mi si accostarono. Uno era un arabo, grande e robusto, con una
faccia da duro del cinema. L'altro, sui trent'anni, un bel tipo, sembrava
sicuro di sé. Tutti e due puzzavano di magnaccia. L'arabo mi mise una mano
sulla spalla.
Né l'uno né l'altro sapeva esattamente chi fossi. Quella sera non ero
armato. Capii che poteva essere pericoloso. La cosa migliore era fingermi
impressionato, con un po' di paura, per provocare in loro un eccesso di
fiducia. Reagii da professionista. Guardandoli, dissi:
- Non vi conosco...
- Facciamo gli innamorati con «Jane», eh?... Forse non sai che non è
libera... Ti costerà caro; il tuo romanzo d'amore non sarà certo gratuito.
Avevo già capito quale sarebbe stato il seguito; ci sarebbero state minacce
e poi proposte di riscattarla. Senza saperlo, entrambi si stavano
condannando a morte. Mentre parlavano di Janou il mio sguardo s'induriva,
ma né l'uno né l'altro sembrava accorgersene. Quando mi dissero che
volevano vederla, che se mi fossi rifiutato me ne sarei pentito e, per
puntualizzare la cosa, l'arabo mi puntò una pistola nelle reni, non ebbi più
dubbi: dovevo fare la pelle a quei due bastardi. E, per riuscirci, sarebbe
stato sufficiente fingermi impaurito. Con una voce che quasi tremava
risposi:
L'arabo continuò:
- Sì... e...
- Quanto?
Risposi subito di sì. Non era vero. Janou era a Parigi e aspettava il mio
ritorno, ben lontana dall'immaginare che mi trovassi in una situazione
critica a causa sua. Non ero preoccupato, una volta sul posto avrei giocato
sulla sorpresa... La mia intenzione era di colpire al momento della consegna
del denaro che tenevo in soffitta. Forse erano pericolosi, ma di sicuro erano
avidi. Non ero neanche sicuro che agissero per conto dell'ex protettore di
Janou. Forse la padrona del bar dove lavorava, vedendomi passare, aveva
detto loro che ero io quello con cui Janou se ne era andata senza più
tornare. Tutto ciò non aveva importanza. D'altronde non avrei tardato a
saperlo.
Uscimmo dal bar. L'arabo salì dietro con me, mentre l'altro si metteva al
volante. Durante tutto il viaggio l'arabo mi minacciò. Sapevo che non mi
stavano portando a un'esecuzione. Se solo lo avessi visto prendere un'altra
strada, avrei tentato il tutto per tutto. Non mi puntava neanche più l'arma,
che si era rimesso alla cintola. Per loro, dovevo essere un bravo stupidotto
al quale sarebbe stato facile estorcere i soldi... Forse, nella loro testa,
avevano cattive intenzioni su Janou. Ero come una tigre in attesa. La ferocia
mi riempiva il cuore... Avevo fretta di arrivare.
- E' là.
- Ma non c'è nessuna luce? Se ci hai raccontato delle storie, per te saranno
dolori - mi disse l'arabo.
- Chiudi la bocca.
L'arabo fece il giro del bar e aprì il coperchio del secchiello del ghiaccio.
Dentro c'era una busta. La strappò. Il suo amico si era sporto per vedere
che cosa contenesse. Né uno né l'altro sospettarono di me, vedendomi
andare verso il camino. Perché avrebbero dovuto? Non mi guardavano
neanche. Con un gesto rapido presi la lupara... Erano ancora intenti a
contare le banconote. L'arabo disse:
- Bisogna festeggiare!
- Fallo, merdoso, e sei morto... Avanti, tutti e due a terra... E svelti! L'altro
volle parlare.
Mi misi a urlare:
Eseguirono. Avevo due dita sul grilletto. Se uno o l'altro avesse fatto il
minimo gesto, l'avrei abbattuto sul posto.
L'arabo era il più pericoloso. Gli appoggiai la canna alla testa e mi sporsi per
recuperare la sua pistola. Feci lo stesso con il suo amico. Poi indietreggiai.
- Ma...
- Lega i piedi del tuo amico... E poi anche le mani dietro la schiena.
Erano là, tutti e due, con la paura che gli strizzava le budella, non capivano
bene che cosa potesse succedere. Prendendo i loro documenti, dissi:
- Facciamo le presentazioni.
- Uccidervi.
Avrei potuto chiamare Guido, ma preferivo fare il lavoro da solo. Gli anni
avevano fatto di me un uomo senza pietà e la cosa più grave era che
provavo un piacere morboso. Amavo Janou... Quella aggressione era diretta
contro di lei, la prendevo così. Controllai che fossero ben legati. Non c'era
più niente da dire. Ero il loro destino nato trentadue anni prima. Ero la loro
morte. Li imbavagliai. L'arabo doveva essere anche lui un assassino, perché
non protestò. Béran non voleva convincersi.
Non era certo il caso di seppellirli come «Ahmed il porco». Volevo che uno
dei due corpi venisse ritrovato per servire da monito. Per contro, se l'altro
spariva, ciò poteva indurre la polizia a considerarlo colpevole dell'omicidio.
- Era prima che dovevi provarci... Adesso hai solo una possibilità: una
morte rapida o una morte lenta.
Nel nostro ambiente solo il più feroce, il più astuto, il più duro ha una
possibilità di sopravvivere. Se un giorno, per pietà, lascia in vita un rivale o
un nemico, pronuncia la sua condanna a morte... Il suo istante di pietà gli
costerà una morte crudele. Ero una tigre, in un mondo di tigri, serpenti,
lupi, scorpioni e iene... Che cos'era Rachid? Non aveva più importanza.
Lo feci alzare. Era sul bordo del pontile, con i dischi di ghisa ai piedi.
Impugnavo la lupara. L'acqua dello stagno rifletteva la luna e dava alla
scena un aspetto irreale. Senza preavviso premetti il grilletto. Avevo mirato
all'altezza del ventre. Rachid scomparve nell'acqua fredda dello stagno.
Restai là, sul bordo. Solo qualche bolla d'aria salì in superficie. Il corpo di
Rachid affondava nel fango. Tornai indietro e, dopo aver verificato che il
bagagliaio fosse ben chiuso, ripartii. Percorsi una quindicina di chilometri e
presi una stradina che lasciava appena passare una macchina. C'era una
casa abbandonata e il luogo era completamente isolato. Accesi i fari. Fermai
il motore, con le luci accese. Feci scendere Béran e gli liberai i piedi
tagliando la corda. Tremava e gemeva, nonostante il bavaglio. Lo presi per
il braccio.
- Janou è al corrente?
- No, amico mio... Ci sono delle cose che bisogna fare da soli.
- Vagamente...
- Sai benissimo che se al bar gli avessi detto chi eri, si sarebbero scusati e
non ti avrebbero chiesto altro. Perché hai agito così? Hai ucciso loro o il
passato di Janou?
Lo guardai sorridendo:
Al di fuori di certi viaggi che facevo all'estero senza Janou, non la lasciavo
mai. La nostra esperienza della vita ci metteva al riparo dalle stupide
discussioni che avevano le coppie che dimenticano che vivere in due
significa innanzitutto accettare l'altro. In sua compagnia ero felice e facevo
di tutto perché lo capisse. In lei avevo una fiducia totale; era di quella razza
di donne che se non funziona più niente se ne vanno, ma non tradiscono. Le
avevo insegnato a sparare e i suoi inizi erano stati comici, perché colpiva
tutto meno la latta alla quale mirava. Poi, a poco a poco migliorò. Ogni volta
che centrava il bersaglio, lanciava un grido di soddisfazione. Le avevo
chiesto perché ci teneva tanto a saper sparare. La sua risposta era venuta
naturalmente:
Viaggiavo spesso con delle macchine con targhe false e molto spesso, negli
alberghi dove dovevo passare una sola notte, mi registravo con un nome
falso. Lo facevo per abitudine. Eravamo scesi in un lussuoso albergo di
Chamonix sotto falso nome. Eravamo tranquilli al ristorante quando vidi un
cliente presentarsi alla reception. Lo si sarebbe detto un principe arabo
vestito all'europea. Era accompagnato da un uomo che poteva essere un
suo amico o il suo segretario. Il cameriere che ci aveva servito fece questa
riflessione:
- Vedete quel tipo alla reception? E' un ricco industriale. L'ultima volta che è
venuto, nella valigietta aveva più di trenta milioni, è stato l'addetto al
ricevimento a dirmelo. Se deve andare al casinò oggi ne avrà altrettanti.
Avevo guardato Janou, poi la valigietta che l'industriale aveva posato per
terra.
La sera stessa, l'addetto alla reception si ritrovò la mia arma sotto il naso.
Erano le due del mattino. Quello m'informò che l'industriale non avrebbe
tardato a rientrare dal casinò. Dopo averlo legato, lasciai Janou alla
reception: era armata di una 38 che sparava solo gas. Mentre aspettavo
frugai a fondo la camera dell'industriale. C'era una valigietta, ma era vuota.
Eppure il cameriere mi aveva detto che l'industriale non metteva mai il suo
denaro nella cassaforte dell'albergo. Ridiscesi. Quando l'ascensore si fermò
al mio piano sentii Janou gridarmi:
- Sono loro!
- Vuoi che gli dica che mi hai messo la mano sul culo?
Un mese dopo, mi rifeci rapinando una ditta d'alta moda in pieno centro, a
Parigi.
Mi ero fatto passare per un cliente e avevo atteso che tutto il personale
lasciasse i laboratori prima di rapinare i proprietari. Il colpo era filato liscio e
mi aveva fruttato una dozzina di milioni (24000 dollari) in gioielli e oggetti
di valore. Dopo quella rapina, presi la decisione di fare un lungo viaggio in
Italia, Spagna e Portogallo. Janou era felicissima di quelle vacanze
permanenti. Da più di due mesi vivevamo al sole con l'unica preoccupazione
di amarci, quando ricevetti la visita di Guido. Le notizie erano cattive.
M'informò che ero ricercato in Francia per omicidio in un regolamento di
conti e rapina a mano armata. Stavolta dovevo lasciare l'Europa per un
certo tempo. Avevo degli amici in Canada. Guido mi consigliò di andarci
almeno per il tempo necessario a capire che piega avrebbero preso gli
avvenimenti. Mi promise di raggiungermi.
Janou era felice di quel cambiamento... Nuovo paese, nuova vita, pensava.
Era ben lontana dall'immaginare che, attraversando l'Atlantico, le mie future
imprese criminali mi avrebbero valso il poco invidiabile appellativo di
«pericolo pubblico numero uno» in Canada... Prima ancora di diventarlo,
qualche anno dopo, anche in Francia. Sarei diventato uno dei peggiori
criminali che il Québec avesse conosciuto. Là avrei rapito un miliardario,
sarei stato accusato di un omicidio che non avevo commesso, sarei stato
assolto da quella imputazione, sarei stato condannato a undici anni di
prigione per rapina a mano armata, sarei scappato, sarei stato ripreso,
avrei tentato altre evasioni... Sarei poi riuscito nell'impossibile evasione dal
più duro penitenziario canadese, avrei rapinato diverse banche, avrei avuto
vari conflitti a fuoco con la polizia, avrei abbattuto due guardie forestali,
regolato diversi conti e, a coronamento di tutto, avrei preso d'assalto un
penitenziario federale per tentare di liberare i miei amici... E malgrado tutto
ciò, con una taglia sulla testa, sarei riuscito a lasciare il paese. Per il
momento ero addormentato sull'aereo dell'Alitalia che mi portava verso il
mio nuovo destino, quel destino che Janou all'inizio avrebbe condiviso,
prima di conoscere anch'ella i duri anni di solitudine della detenzione. Anche
lei dormiva con la sua mano che stringeva la mia. La catena di carne che le
nostre due mani allacciate formavano erano un giuramento d'amore che ci
avrebbe unito per il meglio, ma soprattutto per il peggio...
IL CANADA.
Avevo sorriso:
- Vuoi dire... Ripartire da zero, con il passato che mi porto dietro? Non
posso cancellare tutto quello che ho fatto, lo sai bene. Non si può mai
ripartire da zero, si può solo cambiare strada.
Passarono diversi mesi. La mia vita, senza che me ne rendessi conto, si era
trasformata. Ero diventato il signor Tal dei Tali, che la sera non pensa ad
altro che a ritornare a casa per raggiungere la donna che ama. Dal giorno
del mio arrivo in Canada non mi ero messo in alcun pasticcio. Guadagnavo
abbastanza per vivere bene. Ci eravamo comprati una magnifica auto e
trascorrevamo i fine settimana a girare per il Québec in lungo e in largo.
Lunghe passeggiate nella foresta, pesca nei numerosi laghi... Facevamo una
vita sana. Janou da sola mi riempiva la vita. Non avevo alcuna altra
necessità che stare con lei... Sì, ero cambiato e senza rendermene conto.
Ma arrivò l'inverno e fui obbligato a lasciare il mio posto, perché l'edilizia si
era fermata. Questo non mi scoraggiò. Questa volta credevo in me stesso;
in verità mi ingannavo da solo... Il lupo non diventa mai un agnello.
Tentammo il colpo e fallimmo. Non ero fatto per quel genere d'impresa. Il
sequestro di persona non era nelle mie corde. E poi, benché il prelevamento
dell'ostaggio fosse riuscito, la persona incaricata di custodirlo si assentò
giusto il tempo necessario perché questi potesse scappare. Addio ai 200
mila dollari sperati. Ci ritrovammo con tutta la polizia del Canada alle
calcagna. C'era una taglia su di noi. Mi decisi ad andare a Gaspésie e
raggiungere il porto di Percé, dove ero certo di trovare un passaggio per
l'Europa.
Ci sistemammo al motel delle Tre Sorelle, sotto falso nome. Non avendo
trovato un passaggio su navi straniere, lasciammo la regione il 26 giugno
1969. Il 30 giugno dello stesso anno, trovarono assassinata la padrona del
motel e, benché noi fossimo già lontani dal luogo del delitto, i sospetti
caddero su di noi e in seguito si trasformarono in un'accusa di omicidio.
Eravamo ben lontani dal pensare che una tale accusa si stava abbattendo
sulle nostre teste mentre stavamo attraversando, a bordo di un gommone a
motore affittato a Windsor, il fiume Detroit per entrare clandestinamente
negli Stati Uniti. Sapevo che là avrei potuto avere l'aiuto dei miei amici
americani di Dallas. A Detroit affittai un'auto per andarci in autostrada.
Ignoravo ancora che il mio complice nel sequestro era stato arrestato e
aveva detto che avevo intenzione di andare a Dallas.
Il capo della polizia m'informò che ero in arresto per un mandato di cattura
internazionale. Il suo compito non era interrogarci, ma solo portarci a New
Orleans. Per più di dieci giorni Janou ed io fummo detenuti in quella città.
La prigione era di un luridume rivoltante. Eravamo in tre in una cella
minuscola con un solo materasso, sporco come tutto il resto, e una sola
coperta. La popolazione detenuta era composta in grande maggioranza di
neri, gran parte dei quali completamente drogati e le risse erano continue.
Ero riuscito a comunicare con Janou che era al piano sopra il mio. Era nelle
mie stesse condizioni, ma lei resisteva. Né rimproveri né rimpianti... I suoi
messaggi erano sempre d'amore e terminavano sempre con la frase: «Con
te fino alla morte».
Quando lo sceriffo ci fece andare nel suo ufficio e potei vederla, mi si strinse
il cuore. Era smagrita e irriconoscibile. Le sue condizioni di detenzione erano
un insulto ai diritti dell'uomo ed ero stupito che un paese così rispettoso dei
diritti dell'individuo accettasse che le sue prigioni fossero degli
immondezzai.
Janou aveva reagito come la donna di un bandito. Non una lacrima, solo un
bacio che era un giuramento d'amore eterno e, allontanandosi, mi disse:
Il tenente Caron si voltò verso di me; nei suoi occhi si leggeva la rabbia e,
con una voce piena di collera, mi annunciò di che cosa ero imputato:
- Si sieda.
- Allora stia calmo, perché l'avviso che reagirò. Non capisco neanche la sua
rabbia... Chi ho ucciso?
- Ah! No, non ci prenda per scemi. Il motel delle Tre Sorelle, non le dice
niente?
- Sì, lo conosco, perché?
- Perché bastardo?
- Sebbene non sappia niente di quel che mi dite, aspetterò che sia presente
il mio difensore per rispondere alle vostre domande... Non conosco
abbastanza la legge del vostro paese per far rispettare da solo i miei diritti.
Mi fecero scendere nel seminterrato in cui c'erano sei celle. Come vestiti mi
lasciarono solo uno slip e nient'altro. La cella era minuscola. Non avevo
diritto a niente e per nove giorni mi lasciarono così... Non avevo potuto
avvertire il mio avvocato... Il tenete Caron si era sentito autorizzato a
infrangere la legge al solo scopo di farmi confessare il crimine di cui mi
credeva colpevole. Mi aveva anche messo uno spione nella cella vicina nella
speranza che mi confidassi con lui. Janou, non avendo più mie notizie,
aveva avvertito il nostro avvocato. Così riuscii a vederlo per la prima volta.
Caron era rimasto senza parole, poi aveva ordinato che portassero via
quella donna, altrimenti avrebbe fatto uno sproposito. Daoust, raccontando
la scena, mi vide sorridere.
Alla prigione di Percé fummo accolti bene. L'udienza avrebbe avuto luogo
l'indomani.
Nel recinto degli imputati, non potevamo credere ai nostri occhi. Una donna
stava testimoniando. Aveva giurato sulla Bibbia di dire tutta la verità.
Prendeva in mano, ad uno ad uno, gioielli senza valore e ogni volta, come in
un incubo, la sentivo dire:
Altre tre donne della stessa famiglia avevano testimoniato la stessa cosa. Io
guardavo gli oggetti posati sulla tavola e non riuscivo a capire, perché tutti
quei gioielli erano nostri e adesso ero certo che quelle quattro donne non
stavano facendo un errore. Mentivano intenzionalmente. La loro
testimonianza era un compitino preparato in famiglia. Avevo notato che
nessun prezioso di un certo valore era stato da loro riconosciuto. Avevano
forse paura che una ricevuta provasse che era di nostra proprietà? Il mio
avvocato mi guardava come per dire: «A che scopo negare, adesso?».
Janou era pronta a saltare addosso a quelle spergiure. Da parte mia,
cercavo di capire perché si comportassero così. Se accusavano noi, forse
volevano proteggere il vero colpevole. Avevo notato che nessun uomo della
famiglia era venuto a testimoniare.
- Allora, Mesrine?
- Vuole scherzare?
- Le do la mia parola. Ma ha visto che non sono altro che bigiotteria senza
valore, quindi senza ricevuta.
Solo nella mia cella, non mi raccapezzavo. Il destino ci aveva tirato un colpo
basso. Io, il killer, colpevole di tanti crimini nel mio ambiente, ero accusato
del solo delitto che non avevo commesso, e che delitto!... Quello di una
brava donna che aveva l'unica colpa di lasciare una grossa eredità a chi era
diventato mio accusatore. Una rabbia omicida mi torturava. Il pensiero andò
ai miei genitori... Cosa avrebbero pensato? No, non potevano credermi
colpevole!
Seppi che, prima di noi, un altro tizio era stato accusato di quell'omicidio,
un certo Gérard Fieffe, che era evaso appena prima del nostro arrivo dagli
Stati Uniti. Non riuscivo più a dormire, tormentato da quella falsa accusa.
Bisognava che scappassi per far confessare la verità a quelle quattro
vigliacche. Non avevo alcuna possibilità di mettermi in contatto con i miei
amici di Montreal... Ma ero pronto a tentare il colpo.
- Ehi, vieni qua, tu... Sei tu il francese che ha fatto fuori la vecchia?
Non gli lasciai neanche il tempo di continuare. Gli diedi una testata sul volto
e, prendendolo per i capelli, gli diedi una gomitata nel plesso solare. Era
crollato a terra e ne approfittai per finirlo a calci in faccia. Le guardie erano
accorse. Non potevano credere ai loro occhi. Il sangue scorreva per terra e
aveva formato una pozza. Rivolto alle guardie, dissi:
L'ora dell'azione era vicina. Udii il secondino arrivare e aprire la porta che lo
portava nella mia stanza. Avevo i nervi tesi. Non volevo usare violenza, per
dimostrare che un uomo capace di impadronirsi di una prigione senza far
male a nessuno non poteva essere il maiale che aveva ucciso una donna
indifesa. Quanto meno è ciò che volevo dimostrare con la mia azione. La
guardia mi chiamò:
- Mesrine, è ora.
Con un gesto rapido mi ero girato su me stesso e mi ero alzato. Gli avevo
fatto brillare la lama sotto gli occhi e gliel'avevo posata sul collo. Con la
mano libera lo avevo preso per il bavero. Con voce dura gli ordinai:
Con mia grande sorpresa non reagì. Eseguì. Mi impadronii delle chiavi. Lo
obbligai a stendersi per terra. Aprii la mia cella.
- Adesso entra dentro... Senza alzarti. Entra a quattro zampe.
- Non farlo, ragazzino. Hai visto cosa è successo a quel detenuto, non mi
obbligare a essere violento.
Un rapido bacio con il gusto della libertà sulle labbra e lei mi segui. Ne
approfittai per passare dalle cucine e recuperare un po' di cibo. Arrivati nel
cortile dell'aria, sentii le voci delle guardie che chiamavano i loro colleghi.
Superammo la porta. Eravamo liberi, ma eravamo obbligati a inoltrarci nella
foresta. Faceva freddo e la pioggia che cadeva sembrava trapassarci i
vestiti. Avevamo appena superato l'inizio del bosco, quando scattò l'allarme.
Non avevamo che dieci minuti di vantaggio. Dovevamo scavalcare una
collina. Dall'alto di essa scorsi i lampeggianti della polizia. La caccia all'uomo
era cominciata. Di notte gli sarebbe stato impossibile ritrovarci, ma con la
pioggia le nostre scarpe lasciavano impronte nel fango. La foresta nella
quale ci eravamo inoltrati era profonda più di cento chilometri. Speravo di
potermici nascondere per qualche giorno, per poter poi raggiungere
Montreal dove ero certo di trovare aiuto. Camminammo tutta la notte; certe
volte dovemmo aprirci la strada scostando le fronde che ci sbarravano il
passaggio.
Janou era esausta, ma non diceva niente. Più avanzavamo, più il nostro
cammino era in salita. Al mattino, alle prime luci del giorno, mi resi conto
che avevamo fatto poca strada; in lontananza scorgevo il mare. Ma fu il
rumore di un elicottero a farmi trasalire. Le ricerche erano ricominciate. Non
conoscevo per niente la regione e avevo di fronte a me gente del posto che
invece conosceva ogni mulattiera, ogni nascondiglio possibile. Capii la
pazzia che avevo commesso. Non avevo nessuna arma per difendermi e
forse tutti quelli che erano sulle nostre tracce avevano ricevuto l'ordine di
spararci a vista, non eravamo altro che assassini evasi... Eravamo i soli
convinti della nostra innocenza.
In un riflesso istintivo mi alzai per scappare. Uno di loro sparò nella mia
direzione. Janou mi era saltata addosso per farmi scudo con il suo corpo e
urlava:
Non sparò. Il suo capo mi frugò e poi, con calma, chiese a Janou di
porgergli la mano. Ci ammanettò insieme. La strada del ritorno fu penosa
ma molto più breve. All'arrivo, diverse macchine della polizia ci aspettavano
così come diversi contadini con le armi in mano. Neanche uno di loro ci
insultò. Il ritorno in prigione fu rapido. Il capo delle guardie ci aspettava,
assieme a diversi giornalisti. Quando vide lo stato di Janou, mi guardò con
aria di rimprovero, poi scosse la testa con l'aria di dire: «A che scopo?»
Ci fecero fare una doccia, poi ci diedero dei vestiti puliti. Fui molto stupito
quando vidi la guardia che avevo sequestrato che mi portava un pasto caldo
dicendomi:
Lungo la strada, tutti i miei pensieri furono per Janou. Il suo gesto di
gettarsi su di me al momento in cui aveva creduto in pericolo la mia vita mi
riempiva di ammirazione. Volevo urlarle tutto il mio amore, ma il nostro
silenzio ci univa più delle parole.
Non gli risposi neanche. Ero troppo stanco per sostenere una lotta che
sapevo persa in partenza.
Per l'evasione fui condannato a un anno di prigione e Janou a sei mesi. Per
noi ciò non aveva alcuna importanza. L'unica cosa che ci preoccupava era
l'accusa di omicidio. Avevo esaminato attentamente il mio fascicolo per
cercarvi le contraddizioni nelle deposizioni dei testimoni. Avevo fornito
all'avvocato Daoust molte foto delle vacanze o di locali notturni in Francia
scattate due anni prima dell'omicidio. Si vedeva Janou con alcuni dei gioielli
che sostenevano non fossero nostri. Tutti quei dettagli sconcertarono il mio
avvocato. Decise di chiedere una rogatoria in Francia. In più, con la mia
eccezionale memoria, gli indicai gli indirizzi dove avevo comprato quella
bigiotteria senza valore. Studiando le foto prese sul luogo del delitto, riuscii
a dimostrargli che un testimone aveva mentito in maniera lampante.
L'avvocato Daoust si stava appassionando a questa causa e affermava che,
nella sua carriera di penalista, non aveva mai visto cose del genere. Ma fu
ancora più stupito quando un giorno gli dissi:
- Le dirò una cosa che non ho mai detto a nessun cliente, e ho già
sostenuto 98 cause di omicidio: adesso sono certo della sua innocenza e
della colpevolezza delle persone che la accusano. Sia certo che farò tutto il
possibile per aiutarla. Quella prova, Mesrine, la chiederà lei pubblicamente
in Assise davanti ai giurati; sarà una delle migliori prove della sua
innocenza.
Le lettere che ricevevo dai miei genitori erano senza rimproveri, ma molto
tristi. Mio padre era gravemente ammalato e l'idea che forse non l'avrei più
rivisto vivo mi era insopportabile. E se fosse morto prima che la nostra
innocenza fosse stata dimostrata? Quel pensiero mi ossessionava. A volte i
miei compagni detenuti scherzavano su quell'omicidio. Le mie reazioni
erano sempre molto violente.
- Sei una merda, sbirro. Se scappo dovrai ben dirla questa maledetta verità.
Non mi piace che mi rifilino i cadaveri degli altri, ne ho abbastanza dei
miei... Ma questo non puoi provarlo, siete troppo minchioni. Nel mio
ambiente posso essere un assassino ma non uno scellerato, e questa non
ve la perdonerò mai. Né a te né a questo schifo di società che accetta che
delle carogne come te la rappresentino.
Fui assegnato alla riparazione dei sacchi postali. Era il lavoro più faticoso e
più sporco. Ma presentava il vantaggio di riunire tutti i detenuti più seri. Vi
ritrovai quindi degli amici che erano stati incarcerati prima del mio arrivo in
Canada. Ci mettemmo d'accordo per far credere agli altri che era la prima
volta che ci incontravamo. Avevamo i nostri buoni motivi per fare così. Non
ci tenevo che qualche spione potesse dire che ero già venuto in Canada
prima del 1968. Avevo simpatizzato soprattutto con un certo Pierre Vincent.
Avevamo le stesse idee e lo stesso progetto: l'evasione. Formammo quindi
un gruppo d'irriducibili ben presto notato dall'amministrazione.
Una pesante porta si era aperta. Eravamo ormai dentro la prigione. Tutto
era di una pulizia impeccabile. Ci fecero entrare in una stanzetta per
toglierci manette e catene.
- Signori, seguitemi.
Pierre mi guardò e lesse nei miei occhi la stessa gioia. Eravamo nello stesso
blocco. Ci portarono nelle nostre celle. Anche lì un posto di controllo
comandava la chiusura delle porte. Mi portarono al piano terra. Pierre al
primo piano. La guardia annunciò il 12. Uno schiocco secco spalancò una
porta massiccia.
- Grazie, signore.
Ciò faceva parte della riforma. Ogni guardia aveva l'obbligo di chiamare il
detenuto «signore». Era una cosa che li faceva impazzire perché per loro
non eravamo che dei cani rognosi che avrebbero voluto veder crepare.
La mia cella era piccola, ma molto pulita. Vi entrava il sole e, rispetto alla
fetida gabbia del vecchio carcere dov'ero in compagnia di ogni genere
d'insetti e dei topi, la situazione era molto cambiata. La porta si richiuse.
Il mio primo gesto fu di accendere la radio che c'era nel muro. La musica
che ne uscì mi riscaldò il cuore; era molto tempo che non sentivo una voce
femminile così melodiosa. Feci l'inventario di quella che sembrava più una
camera che una cella. C'era un letto con il materasso in gommapiuma, una
scrivania, un grande armadio metallico, un lavabo con l'acqua calda e il
W.C. Il pavimento era di cemento ricoperto di smalto grigio. Sulla scrivania
c'erano due sacchetti di Nescafé e dello zucchero. Quel dettaglio, a prima
vista insignificante, mi fece capire che qualcosa era cambiato. Si cercava di
umanizzare la pena. Mi feci subito un caffè.
Sì, tutto ciò era davvero bello, ma una gabbia dorata resta sempre una
gabbia. Una prigione non può essere umana, anche se può sembrarlo.
Guardando attraverso il mio lucernaio, vidi le due grate che mi separavano
dalla libertà. Così vicina! Quell'apparenza di facilità mi convinse della
difficoltà che ci doveva essere per superarle. Sainte-Anne-des-Plaines era
un penitenziario per criminali incalliti. La popolazione detenuta era di
quattrocento uomini. Avevamo tutti delle lunghe pene da scontare, dai
cinque anni all'ergastolo. Assassini e rapinatori di banche erano la
maggioranza. Quindi si sapeva che un buon numero di detenuti non aveva
in mente altro che l'evasione. Si sperava forse di fargli cambiare idea
dandogli più vantaggi e più privilegi? Capii subito la trappola. Più
l'amministrazione dà a un detenuto, più questo ha da perdere se commette
una mancanza. Per impedirgli la fuga non gli s'incatenavano più i piedi, ma
si addomesticava il suo spirito con un relativo comfort. Il futuro mi avrebbe
provato che non mi ero sbagliato.
Al pomeriggio fummo tutti riuniti in una grande sala che serviva da palestra.
La direzione era presente al gran completo. Il direttore ci disse di sederci e
iniziò il suo discorso di benvenuto:
- Signori, come avete potuto vedere, è stato fatto uno sforzo considerevole
per rendervi sopportabile la detenzione. Abbiamo un centro culturale e delle
installazioni sportive per la vostra ricreazione. Dovrete tutti lavorare nei
laboratori. Non sarà accettato alcun rifiuto, a pena di gravi sanzioni. Dovete
rispettare il personale...
Non l'ascoltavo neanche più, ero abituato a quel cinema... Mi divertiva, con
la sua falsa umanità; proprio lui che, qualche anno prima, aveva fatto
uccidere il cugino di un mio amico perché aveva sequestrato una guardia
per avere un trasferimento che non arrivava. Aveva fatto aprire il fuoco
malgrado le suppliche della guardia in ostaggio. Avrebbe potuto usare i gas.
In tre dentro una cella, non potevano fare niente. Ma no, quel maiale aveva
ordinato di sparare. La guardia era stata uccisa come il cugino del mio
amico e il mio amico Michel Marcoux lo avevano dato per morto con diverse
pallottole in corpo. Solo dopo aver portato via i corpi dalla cella si erano
accorti che era ancora vivo. Se uno dei suoi aiutanti non lo avesse
trattenuto lo avrebbe finito... Ciò era successo prima del mio arrivo in
Canada. Sapevo che sotto le spoglie del brav'uomo si celava un bastardo.
Riuscì a stupirci con una novità:
- So che alcuni di voi non hanno che uno scopo: evadere. Vi riconosco il
diritto di pensarci, ma io sono qui per impedirlo. Evitate questo tipo di
progetti. La sicurezza qui è assoluta. Le guardie sono armate e hanno
l'ordine di sparare. Ma a quelli che amano questo genere di sport metto a
disposizione la pianta del carcere; eviterete di perdere tempo a ricostruirla.
Il suo sguardo era ironico e percorse tutta la sala, fissando per un attimo
me e i miei amici.
- Dimmi, puoi farmi venire, assieme a uno dei miei amici, al processo come
testimone? Potremmo sempre tentare qualcosa, là. E' una piccola prigione,
può darsi che avremo fortuna.
- Sai che se tento l'evasione durante il processo diranno che sono colpevole.
Ma non me ne frega niente. D'accordo, vi faccio venire, vedremo sul posto.
- Non capisco neanche io, angelo mio. Ma ho fiducia. Ci sono persone che
sanno che siamo innocenti di quest'omicidio. Daoust mi crede e farà
l'impossibile per dimostrare la nostra estraneità. Il vero colpevole sa che
non l'abbiamo uccisa noi e, poiché quelli che testimoniano contro di noi lo
proteggono, io attaccherò tramite loro, perché essi sono la chiave di questo
crimine scellerato. Spergiurano per un solo motivo: proteggere l'assassino.
Hanno creato dei colpevoli con delle false testimonianze. Se io provo che
sono spergiuri, basterà per provare la nostra innocenza. Ho fiducia nei
giurati, non si possono ingannare dodici persone. Non possiamo mica essere
condannati per un delitto che non abbiamo commesso. Sono diciotto mesi
che mi torturo chiedendomi perché proprio noi! Ne soffro, divento pazzo...
Nella mia vita ho fatto molte cose, ma che mi si creda capace di una simile
nefandezza, pure questo non lo posso accettare. Bisognerà bene che un
giorno li ripaghi di tutta questa sofferenza. Che non mi si parli mai più di
pietà. Tutta la società è marcia. Se riesco a scappare, farò scorrere il
sangue per fargli pagare ciò che ci hanno fatto... Evaderò, lo giuro... Sì, lo
giuro.
Jane di fronte alla mia ira aveva sorriso. Ci era abituata. Dopo un ultimo
bacio sulla mano, mi lasciò per tornare nella sua prigione. Ci saremmo
rivisti sul banco degli imputati.
Con dignità, ma anche con emozione, presi contatto con quella folla. Chi ero
per loro? L'assassino, il criminale, il «brutto bastardo». Tutti gli sguardi si
posarono su di noi. I miei occhi si posarono sulla folla. Non vi leggevo
alcuna ostilità, solo una grande curiosità accompagnata dalla sorpresa...
Non avevamo «la faccia adatta». Ma ciò non sarebbe stato sufficiente a
difenderci.
- La corte...
Si cominciò con la scelta dei giurati. Avevo il diritto di rifiutarne alcuni, così
come il procuratore della Corona.
La seconda settimana offrì la prova che i gioielli erano proprio miei. Per due
giorni accettai di testimoniare nel mio stesso processo e, malgrado il fuoco
incrociato delle domande del giudice e dei due procuratori, non mi
contraddissi neanche una volta. Uno per uno dimostrai che tutti i gioielli
erano nostri. Il giudice non era abituato a vedere un accusato difendersi
così. Ogni volta che perdeva il controllo dei suoi nervi, io segnavo un punto.
Tutta l'accusa fu messa in difficoltà nel controinterrogatorio. Diventammo
noi gli accusatori. Le quattro donne balbettavano e si contraddicevano
continuamente. Quando affermarono che l'orologio che avevano davanti
apparteneva da più di quindici anni alla loro sorella, il mio avvocato mostrò
una dichiarazione della fabbrica che diceva che quell'orologio era sul
mercato solo da tre anni. Ci fu un mormorio in sala. Sapevo che sarei stato
assolto. Tutti erano con i nervi a fior di pelle. L'avvocato Daoust fece
un'arringa come mai un avvocato aveva fatto prima di lui... Per sei ore
questo principe del foro fu la mia voce, la mia anima. Tutto giusto, tutto
vero; e quando, spossato, lasciò la sala con le lacrime agli occhi sapevo che
aveva detto tutto e che gli sarei stato eternamente riconoscente per aver
creduto prima degli altri alla nostra innocenza. Il verdetto doveva essere
pronunciato l'indomani mattina, i giurati avevano chiesto di rivedere le foto
e i gioielli.
Il giudice Miquelon fu odioso fino alla fine. Era obbligato ad assolverci per la
decisione dei dodici giurati, che erano stati unanimi nel verdetto. Affermò
pubblicamente il suo disaccordo e disse che, per lui, io ero colpevole, che mi
consigliava di andare a pregare sulla tomba della mia vittima. Non gli lasciai
il tempo di terminare. Malgrado le manette, ero saltato fuori dal box, ben
deciso a fargli pagare le mie sofferenze. Non ne ebbi il tempo. Un'altra volta
i poliziotti mi saltarono addosso. Anche Janou mi aveva seguito e ci fecero
uscire dalla sala in una confusione totale.
La sera eravamo riuniti nella saletta vicino alle celle. Potevamo giocare a
carte fino alle ventitré. In quella stanza potevamo stare fino a un massimo
di quaranta detenuti. C'erano altre due sale con la televisione dove gli altri
detenuti del mio braccio si guardavano un programma di loro scelta.
Eravamo sorvegliati dal posto di controllo e da tre guardie protette dalle
grate. Ci contavano a tutte le ore. Ma, alle dieci e mezza, in un ufficio vicino
distribuivano le medicine. Per dieci minuti c'era un via vai costante dalle
sale all'ufficio.
Per far tutto ciò dovevamo riuscire a procurarci un calco della chiave e tutto
il materiale. La cosa più difficile era evitare i controlli e il passaggio sotto il
metal-detector, perché tutto sarebbe dovuto arrivare dai laboratori e noi
eravamo perquisiti ogni volta che tornavamo in cella. Inoltre i tetti erano
piatti e fortemente illuminati. Le quattro torrette di guardia sovrastavano
tutto il carcere. Neanche un gatto sarebbe passato senza farsi scorgere.
C'era anche la possibilità che ci fosse un sistema d'allarme.
- Merda! E' fin troppo bello. Abbiamo fatto tutti lo stesso disegno, quasi
preciso al millimetro!
Non potevo muovermi perché, oltre ad avere le mani legate, le dieci guardie
che mi scortavano non aspettavano che un ordine per massacrarmi. Arrivati
all'isolamento, mi fecero spogliare completamente e fui portato in una cella
senza finestre. La stanza era piccola e aveva come unico mobilio un
pancaccio e il cesso. Quando fu chiusa la porta, si aprì lo spioncino e intesi il
soffio della bombola del gas. Stavano usando i lacrimogeni. Non avevo
niente per proteggermi e miei occhi diventarono di fuoco. Credevo che sarei
morto soffocato. Le lacrime mi colavano sul viso. Con la rabbia nel cuore,
sapevo che non potevo reagire. La mia sola idea era: «Un giorno me la
pagherete, banda di bastardi». Mi lasciarono in quello stato per più di
un'ora. Ero stordito, perché quel gas conteneva sicuramente un'altra
sostanza che ignoravo. La porta si aprì, mi buttarono una camicia e uno slip
e mi lasciarono tutta la notte senza mangiare e senza coperta, disteso sul
mio asse di legno. Per tutta la notte mi preoccupai solo per i miei amici. Se
la chiave non era stata trovata, la speranza per loro non era ancora
perduta. Non ero certo il tipo da lasciarmi abbattere dagli avvenimenti.
Verso le nove fui portato nella sala delle udienze. Una ventina di guardie
m'aspettavano. Mi avevano incatenato mani e piedi. Mi fecero entrare nella
sala. Il direttore aveva il viso scuro dei suoi giorni peggiori e i due
vicedirettori mi guardavano con aria vendicativa. Davanti a loro, sul tavolo,
c'erano i miei tre pugnali, il rampino e la corda.
Batté rumorosamente sul tavolo, ma, non sapendo più cosa dire, si voltò
verso i suoi vicedirettori:
Un altro detenuto era stato vittima della perquisizione. Un mio amico, che si
chiamava Edgar Roussel e stava preparando un'evasione solitaria. Era
anche lui in isolamento e pronto per andare all'U.S.C.
- Anche tu in partenza?
- E sì, francese! E da quel che ho sentito non sarà per Miami Beach.
- Qui si troverà bene, Mesrine... Provi a giocare con i coltelli e sarà servito.
Non risposi a quella provocazione che aveva il solo scopo di farmi finire
subito in isolamento. Ci avevo appena passato trenta giorni e non avevo
alcuna intenzione di cominciare cosi.
Seppi poi che aveva giurato di farmi scoppiare. Conoscevo il suo metodo.
Quando mi vide iniziò a fissarmi. Se lo fissavo a mia volta, mi sarei ritrovato
con un rapporto per «sguardo insolente». Mi misi quindi a guardare il muro.
Ci fece togliere manette e catene. Poi, rivolgendosi a me, disse:
- E' lei Mesrine?... Qui non avrà certo la possibilità di fabbricare coltelli per
aggredire le mie guardie. La avviso: all'U.S.C. spezziamo anche l'acciaio.
Alcuni entrano impettiti ed escono come pecore. Tanto per cominciare sarà
isolato per due mesi, niente in cella se non l'occorrente per lavarsi. Divieto
assoluto di parlare, salvo durante il passeggio. Divieto assoluto di offrire
una sigaretta a un altro detenuto, se no sarà punito per spaccio. Divieto di
mettersi il lenzuolo sul viso la notte; se lasciamo la luce accesa è per
vederla. Ha il diritto di scrivere e di vedere il suo avvocato. Faccia un solo
passo falso e le farò rimpiangere di avere lasciato la Francia. Ha capito
bene?
- Voglio dire che se siete in grado di spezzare l'acciaio vi sarà ancora più
facile spezzare certi uomini.
Per arrivarci dovetti passare tre cancelli elettrici. Non una sola guardia nei
corridoi. Erano tutti protetti da gabbie di vetro infrangibile, salvo al controllo
centrale dove dovetti passare al metal-detector. Ci sarei dovuto passare
1800 volte nei miei 10 mesi di detenzione all'U.S.C.
Gli feci capire che tutto era OK. Le poche parole che ci eravamo scambiati
non avevano importanza, ma erano una sfida lanciata al nostro isolamento.
Passarono i due mesi. Sapevo come comportarmi con le guardie che erano
scelte tra gli elementi peggiori dell'amministrazione penitenziaria. Duri e
repressivi, avevano su di noi ogni diritto. Le provocazioni erano continue e
avevano il solo scopo di spingere le persone a reagire. Colui che cadeva
nella trappola, quello cui cedevano i nervi, subiva una terribile repressione.
Lo gasavano, poi lo ammanettavano alla schiena e gli davano qualche colpo
di manganello dove fa più male. Un canadese, che aveva solamente risposto
a Gauthier, era ritornato dall'isolamento in uno stato pietoso: il viso
bruciato dai gas e il corpo dolorante per i colpi ricevuti. Lo avevano
spezzato fisicamente e moralmente. Ero dispiaciuto, ma, non avendo altra
scelta, ero rimasto zitto.
Gauthier mi aveva provocato a più riprese, ma non ero mai caduto nella sua
trappola. Era furioso perché mi limitavo a rispondere: «Sissignore,
nossignore». Pensavo: «Vai a farti fottere, idiota; se un giorno ho fortuna ti
farò pagare caro tutte le nostre sofferenze».
Ogni giorno perquisivano la mia cella. Dovevo mettermi nudo, in cella non
c'era niente; anche le posate erano di plastica. Le perquisizioni avevano un
solo scopo: farci capire che non eravamo più niente.
Il cortile era di una cinquantina di metri per cinquanta. Il lato dal quale
arrivavamo dalle celle era un muro di cemento con una sola porta
controllata elettricamente. Gli altri tre lati del cortile erano protetti da due
reti sormontate da filo spinato. Queste reti erano intervallate ogni tre metri
con del filo spinato sopra. C'era una torretta con una sentinella armata
sull'angolo destro, un'altra su quello sinistro e degli uomini armati
pattugliavano con i cani l'altro lato. Guardavo quelle due reti, l'unico
ostacolo da superare per ritrovare la libertà. La protezione di uomini armati
rendeva impossibile ogni evasione. Inoltre, nel nostro cortile una linea
bianca era stata tracciata a un metro e mezzo dalla prima rete; era
formalmente proibito superarla, sotto pena di essere presi di mira dalle
armi. Impossibile scappare?... Non ne ero così sicuro. Gli uomini sono
distratti e prendono delle abitudini... C'era forse una possibilità, se si era
disposti a mettere in gioco la propria vita.
Nel nostro cortile avevo ritrovato due ragazzi in gamba, sinceri e pericolosi.
André Fillion, che era accusato d'aver ucciso un altro detenuto spia
dell'amministrazione; quel tizio, come ho già detto, era stato ritrovato con
un cacciavite infilato nell'occhio sinistro fino al cervello. Roger Poirier invece
era stato condannato all'ergastolo per aver ucciso con una dozzina di
coltellate un altro detenuto per motivi personali. Eravamo come in famiglia
e potevamo parlare senza rischi. Albert Thibault, il mio amico, era con noi. I
nostri discorsi avevano un solo soggetto: trovare il buco, la falla. La
difficoltà maggiore era soprattutto reperire il materiale. Di notte non
potevamo assolutamente uscire dalle celle. Dovevamo tentare il colpo di
giorno. Ma avevamo la certezza che un tale progetto era impossibile. La
nostra concentrazione la rivolgemmo allora sull'allenamento fisico, una
ginnastica costante ci teneva in perfetta forma.
A volte sentivo qualcuno gridare che non ne poteva più. Batteva sulla porta
con la rabbia della disperazione. La calma tornava subito perché Gauthier
arrivava con una decina di guardie, lo gasava e lo portava brutalmente in
isolamento. Più il tempo passava, più odiavo quel bastardo e ne ero
ricambiato. Faceva di tutto per provare a farmi cadere in trappola. Ma io
non ci cascavo. Ero di una correttezza esemplare, cosa che lo rendeva
ancora più furioso.
- Ma è un suicidio!
- OK.
- Giusto, non penserà mai allo scherzetto che gli prepariamo. Ecco la mia
idea. Siamo noi a fabbricare le racchette in legno per giocare a tennis. Ci
basterà romperne parecchie e fare domanda per poterle rimpiazzare. Sarò
io a fabbricarle e, nei manici, ci metterò le tue lime. Siccome il capo officina
darà le racchette a Gauthier, sarà lui stesso a portarcele all'aria. Se le passa
al metal-detector siamo fottuti, ma sono certo che non lo farà... Come vuoi
che possa avere sospetti?
- Ah, sì! Questa è proprio una bella idea... Fare la fuga con la complicità del
capo della sorveglianza! OK Jacques, farò tutto il possibile per le lime.
Il 21 agosto 1972 uscimmo all'aria. I miei amici si misero al loro posto per
controllare se le guardie ci prestavano attenzione. Ogni gesto, all'apparenza
naturale, era un codice e, per me, aveva un significato preciso. Una guardia
stava all'esterno delle reti, sulla destra, con il suo cane ai piedi. Era armato
con un fucile a pompa calibro 12, caricato a pallettoni. Stava conversando
con la guardia della torretta di destra che, quindi, ci girava le spalle. La
guardia della torretta di sinistra sonnecchiava. Avevo posato il gioco degli
scacchi sul rullo che serviva a spianare il campo da tennis. Da più di un
mese facevo quel gesto regolarmente, affinché le guardie prendessero
l'abitudine di vederci giocare sempre in quel posto. Due miei amici mi
stavano di fronte. Jean-Paul era accovacciato dietro di loro. Eravamo contro
il muro a soli quattro metri dalla rete di sinistra. Lafleur si era seduto sul
mucchio di sabbia che stava di fronte alla torretta di sinistra e faceva finta
di leggere. Un altro complice faceva degli esercizi di ginnastica all'altezza
della torretta di destra; in caso di pericolo i suoi movimenti potevano
diventare dei segnali in codice. Con lo sguardo feci il giro di tutto il cortile.
Tutto era OK.
- Vai, taglia!
Si rimise al lavoro con tutta la calma del mondo. Poi lo vidi uscire
all'esterno. Era riuscito a passare dall'altra parte. Con il corpo incollato al
suolo, mi disse:
- A te, francese.
I miei amici fecero una diversione. A mia volta superai velocemente le due
barriere. Non pensavo che a una cosa: sarei stato libero. Con i miei amici
eravamo d'accordo di andarcene a due a due. Il primo gruppo, di diritto,
sarebbe stato il nostro... Ne avevamo accettato tutti i rischi che erano
grandi, se ci vedevano era la morte certa, abbattuti come cani dalle guardie
vendicative. Ma sarebbe stata una morte da uomo libero, da uomo che
aveva fatto le sue scelte. Non provavo nessuna paura, solo una grande
determinazione.
In effetti, si allontanava.
- Cosa fate?
- Sta' zitto... Siamo appena evasi dall'U.S.C. O fai come ti diciamo o sei
morto... A te la scelta.
La semplice parola U.S.C. per tutta la gente della regione era sinonimo di
«killer». L'autista si era spaventato. Mi affrettai a rassicurarlo:
Il suo compagno, molto più calmo, gli disse che era meglio ubbidire.
Prendemmo l'autostrada. Avevo chiesto al compagno dell'autista di aprire il
vano del cruscotto per controllare che non ci fossero armi. Jean-Paul l'aveva
perquisito e gli aveva vuotato le tasche. Il tizio non diceva niente; la
situazione aveva l'aria di divertirlo. Con umorismo gli dissi:
- Ferma qui.
- Ma...
Si fermò.
Il suo amico gli disse di fare come dicevo. Fisicamente nessuno dei due
poteva affrontarci.
La musica riprese.
Jean-Paul mi guardò come per dire: «Sei... Mica male, eh, francese?». Gli
sorrisi. La ragazza del bancone, parlando con la sua amica, disse:
Avevo voglia di dirle che non erano molto lontani e di ringraziarla per
l'augurio, ma feci finta che l'informazione non m'interessasse.
All'orologio del ristorante vidi che erano appena passati quindici minuti.
Uscii per primo. La riconobbi subito, grazie alla descrizione di Pierre. Le feci
un cenno con la testa. Lei mi fece lo stesso e si diresse verso un'auto. Salii
davanti, Jean-Paul dietro.
La radio aveva annunciato che uno degli evasi era stato ripreso a un posto
di blocco. Fecero il suo nome. Si trattava di Pierre Vincent. Lizon pianse una
lacrima, ma sapeva che ciò faceva parte delle regole del gioco. Pierre non
era certo il tipo da stare rinchiuso ancora a lungo. Per lui ci sarebbe stata
un'altra evasione.
Bernard ci diede delle parrucche, dei vestiti e degli occhiali finti. C'informò
che avremmo cambiato immediatamente nascondiglio, quello era solo
temporaneo. Ci sistemammo nel pieno centro di Montreal, in un
appartamentino al primo piano, un perfetto osservatorio sulla strada. Tutto
era pronto: cibo, bevande, radio, televisione; e soprattutto una radio a onde
corte per intercettare le comunicazioni della polizia. C'erano anche delle
armi e delle maschere antigas.
Abbracciai Lizon:
C'era una grossa banca. In seguito, l'avremmo rapinata due volte in tre
giorni... Ma gli risposi:
- Quella, più tardi. Per il momento dobbiamo restare senza uscire per
qualche giorno... Ascolta!
Bernard decise di andarsene. Lizon volle restare con noi in caso che
avessimo avuto bisogno di lei. La sera noi tre festeggiammo la nostra
vittoria. Lizon non aveva legami con Pierre; non era la sua donna, solo
un'amica. La sera stessa divenne l'amante di Jean-Paul... Ero contento per
lui, non poteva capitargli di meglio.
Da parte mia, rimasi coricato a lungo, le armi al mio fianco, le mani dietro
la testa, con un solo pensiero: Janou. Doveva essere felice del mio
successo, ma ora per lei sarebbe cominciato il calvario dell'attesa. A ogni
scontro a fuoco avrebbe pensato a me, dicendosi: «Speriamo che non sia
ferito!». La mia intenzione era di andare a liberarla, ma volevo lasciarle la
scelta. Le restava solo qualche mese di prigione da fare. L'evasione poteva
essere una cattiva idea. Al mattino Jean-Paul mi propose:
- Se vuoi, Lizon può far venire una sua amica. Una ragazza sicura.
- No, figliolo... Prima il lavoro. Non dimenticare che tra quindici giorni
abbiamo un appuntamento al penitenziario. Non voglio vedere nessuno
qui...
Poi sorridendo:
- Posso ben restare altri quindici giorni senza una donna! Non faranno che
aggiungersi ai tre anni d'astinenza... Ciò non v'impedirà di scopare, ragazzi
- dissi scompigliando i capelli di Lizon che ci aveva raggiunto.
Guardandola, aggiunsi:
- Andiamo!
Con calma fermò l'auto vicino alla banca. Tutti erano dentro. Discesi con in
mano il mio USMI con il calcio segato. Lo tenevo lungo il corpo. Jean-Paul
mi seguiva. Vidi subito l'ufficio del direttore alla mia sinistra. Mi ci precipitai,
mentre Jean-Paul intimava agli impiegati e ai clienti di stare calmi. Il
direttore, vedendomi a viso scoperto, ma con l'arma in mano, sorpreso mi
disse:
Non doveva avere molto senso dell'umorismo. Dovetti alzarlo dalla sedia.
Avevo visto giusto. Ritornato in sala, presi il contenuto delle tre casse e
superai il bancone dicendo:
- Niente stupidaggini, eroi. E' una giornata troppo bella per morire.
Non ebbe il tempo di dire altro. Jean-Paul gli aveva sparato un colpo a dieci
centimetri dalla testa e, minaccioso, gli diceva:
- Contento?
- Niente paura... Le pallottole erano solo per la porta... Andrà tutto bene.
Alla cassaforte!
Rapidamente la svuotai del suo contenuto. Anch'essa era dotata dello stesso
congegno dell'altra.
Tornato nella sala, intravidi Jean-Paul che stava consolando una cassiera in
piena crisi di nervi. Sorridendo, mi disse:
Tutti i soldi delle casse erano già nel mio sacco. Dopo un ultimo saluto,
girammo le spalle e corremmo all'auto. Jean-Paul esultava:
- Sei un tipo spiccio - mi disse.
- Sai, dopo un colpo così, saranno tutti in agitazione. Saranno ben lontani
dall'immaginare che veniamo da Montreal e che non abbiamo neanche
cambiato vettura. Al limite possiamo incontrare un'auto della polizia...
Sarebbe peggio per loro!
Andavamo molto veloce. Dai due lati della strada c'era la foresta. Da
lontano vidi la sagoma di una donna, ma avvicinandomi mi resi conto che
era una ragazzina di quattordici o quindici anni che faceva l'autostop.
- La prendiamo a bordo?
- Perché no?
- OK, sali.
- Sai che alla tua età non è prudente fare autostop da queste parti?
- Siamo arrivati.
L'indomani la stampa riportava quella storia per dire che almeno eravamo
dei veri gentiluomini. La ragazzina avrebbe avuto dei ricordi da raccontare
ai nipotini.
Jean-Paul mi fece la stessa domanda, ossia perché mai l'avevo fatta salire.
La mia risposta fu semplice:
Lizon era incaricata di affittare sotto falso nome tre appartamenti, cosa che
non pose alcun problema. Ogni appartamento aveva abbastanza cibo per
diversi giorni. Avevamo anche comprato diversi vestiti. Fra tutti i detenuti
che volevamo far scappare, gli intimi erano otto; la preparazione dei
nascondigli era unicamente per loro. Gli altri, se il colpo riusciva, avrebbero
ricevuto un'arma ogni due persone e avrebbero tentato la fortuna come
l'avevamo tentata noi. Non gli dovevo niente, avrebbero semplicemente
approfittato dell'occasione. Tutta quella preparazione c'era costata
parecchio denaro. Prima dell'attacco al penitenziario, ci mettemmo
d'accordo con Jean-Paul per rapinare un'altra banca, ma questa volta a
Montreal.
Lunedì 28 agosto 1972, alle dieci del mattino, entrammo alla «Toronto
Dominion», banca situata nel centro commerciale Maisonneuve. Avevamo
parrucche e occhiali da sole. Il nostro metodo era lavorare in tranquillità.
Davanti alle quattro casse e al lungo bancone c'era una trentina di clienti.
La banca era tutta in lunghezza. Entrai per primo come un cliente, con
l'arma alla cintola. Avevo preso solo due 38 special. Jean-Paul si piazzò con
naturalezza al limite del bancone, con la sua carabina USMI nascosta sotto il
giubbotto. Il direttore della banca era nel suo gabbiotto a vetri e stava
telefonando. Mi girava le spalle. Arrivato al bancone, passai dall'altra parte
estraendo la mia arma. Nessuno aveva notato niente.
Jean-Paul aveva tirato fuori la sua carabina. Sentii una donna dire: «Oh!
mio Dio».
Arrivati alla prima cassa, la cassiera mi fissò, paralizzata dalla paura Mentre
prendevo le banconote, sorridendo, le dissi:
Poi, passando alle altre casse, ne presi il contenuto. Non avevamo il tempo
di aprire la cassaforte. Il direttore era sempre al telefono, la schiena girata,
e non immaginava assolutamente quel che succedeva nella sua banca.
Jean-Paul, vedendo che avevo terminato, domandò gentilmente:
- E tu, Jacques?
- Sai, ragazzo, sarà la guerra. Per poter arrivare alla rete e gettare loro le
cesoie e le armi, dovremo aprirci il passo. La nostra unica possibilità è
l'effetto sorpresa. Ma, qualunque cosa succeda, ci proviamo lo stesso, a
rischio di rimanerci.
- Puoi contare su di me... Volevo dirti una cosa: sono contento di essere tuo
amico.
- Anche io, figliolo... Ti considero come un fratello. E... non ti far problemi,
stasera sarai anche tu qui.
- Cosa facciamo?
Successe tutto molto in fretta. Jean-Paul aveva frenato. Io ero saltato giù
dall'auto con l'arma in mano e già miravo alla macchina della polizia che mi
arrivava di fronte. Fu l'inizio di un inferno di fuoco. I miei colpi presero il
parabrezza e la portiera destra. L'auto uscì di strada, si sollevò e ricadde nel
fossato. I due poliziotti furono sbalzati fuori. Nel momento in cui stavo per
sparare all'auto delle guardie, questa frenò e tutte le guardie si buttarono
nel fossato. Da parte sua, Jean-Paul aveva aperto il fuoco sugli agenti a
protezione delle reti. Dalle torrette ci stavano sparando addosso. Le
pallottole ci fischiavano alle orecchie. La mia arma era vuota, non persi
tempo a ricaricare, la buttai a terra e ne presi un'altra. In quel momento
una scarica di pallettoni fece volare in pezzi il vetro posteriore dell'auto e le
schegge di vetro mi colpirono il viso. Buttandomi da un lato mi misi a
sparare contro la torretta di destra. Jean-Paul era completamente allo
scoperto e sparava dal fianco. Le pallottole bucavano la carrozzeria. Una mi
colpì alla scarpa senza ferirmi il piede, un'altra trapassò il mio porta-
caricatori della giubba e fece esplodere alcune pallottole. Sentendo il colpo
mi credetti colpito al fianco sinistro. Altre due pallottole mi avevano bucato
l'abito senza ferirmi. Stavo svuotando il mio terzo caricatore. Non stavamo
più attaccando, ci stavamo difendendo. Da parte sua, Jean-Paul sparava con
un fuoco continuo. D'un tratto, mi gridò:
- Mi hanno colpito.
Avevo sempre una USMI in mano. Quando Lizon vide arrivare la nostra
macchina, si precipitò verso di noi.
- Soffri, figliolo?
Gli feci due medicazioni, un'iniezione antitetanica e gli feci prendere della
penicillina. Poi mi occupai di me stesso.
Lizon, con la testa appoggiata sul petto di Jean-Paul, piangeva. Lui si era
addormentato. Bernard era ripartito. Avevo in mano un bicchiere di scotch e
guardavo la televisione. I notiziari non parlavano che dell'attacco al
penitenziario e facevano i nostri due nomi. Un poliziotto aveva parlato di
un'incredibile audacia e diceva che bisognava essere pazzi per tentare un
colpo così. Non potevo certo dargli torto. Restai sveglio tutta la notte per
badare a Jean-Paul. Al mattino, tranquillizzato e certo che ormai non
rischiava più niente, mi addormentai a mia volta.
Non era certo il caso di uscire, almeno per qualche giorno, perché tutta la
polizia del Canada era sulle nostre tracce e aveva giurato di avere la nostra
pelle. Si parlava di spararci a vista. Jean-Paul si riprendeva rapidamente. Il
secondo giorno si era alzato. Già facevamo progetti per l'avvenire... Le
banche di Montreal avrebbero presto ricevuto la nostra visita.
Quella stessa mattina due guardie forestali provinciali uscivano di casa per
fare il loro solito giro. Due uomini che rappresentavano la legge avrebbero
incontrato due fuorilegge. Quattro uomini che al mattino si erano armati per
ragioni molto differenti. Due di loro, forti della loro uniforme e dell'arma
regolamentare che avevano al fianco destro, avrebbero commesso l'errore
che gli sarebbe costato la vita.
Ci eravamo inoltrati il più possibile nella foresta per non essere disturbati.
Una buona parte della giornata l'avevamo passata ad addestrarci. Avevo
insegnato a Jean-Paul le basi del tiro istintivo. Il suo braccio non lo faceva
più soffrire, ma nei suoi occhi avevo letto la rabbia ogni volta che svuotava
un caricatore. Tutti e due eravamo ottimi tiratori. Dopo aver messo alcune
armi nel baule dell'auto ed esserci tenute addosso le nostri personali,
decidemmo di tornare a Montreal. Erano le diciassette quando li vidi alla
curva di un viottolo. Erano a una cinquantina di metri dalla nostra auto. La
loro camionetta bloccava il passaggio. A causa delle loro uniformi, Jean-Paul
e io li avevamo presi per poliziotti. Non avevamo alcuna possibilità di
prendere un'altra direzione. Né l'uno né l'altro aveva tirato fuori le armi, ma
ci facevano segno di venire avanti.
- Guarda. Vengono.
Le due guardie erano già alla nostra altezza. Il più vecchio, con il viso
imbronciato, disse a Jean-Paul:
- Suvvia, signore. Non abbiamo fatto niente di male. Non è mai stato
proibito allenarsi al tiro prima della caccia!
Ero stato più rapido di lui. Provò a gettarsi di lato, ma le mie pallottole lo
presero in pieno petto. Aveva avuto il tempo di sparare una sola volta, ma
la pallottola si era persa in aria. Jean-Paul era balzato sulla calibro 12 e, con
un gesto rapido, aveva messo in canna una cartuccia a pallettoni. L'altra
guardia, che gli stava puntando l'arma, fu sollevata da terra nello stesso
tempo che si udì lo sparo; Jean-Paul, l'arma appoggiata sul fianco, riarmò e
sparò nuovamente. La guardia crollò al suolo, fatta a pezzi dai pallettoni.
Tutto era successo in meno di tre secondi. Né Jean-Paul né io lo avevamo
voluto. La responsabilità era di Médéric Côté, guardia provinciale vittima
della sua stupidità. Il suo collega, Ernest Saint-Pierre, era solo vittima degli
avvenimenti. Se fossimo stati meno rapidi di loro, forse saremmo stati noi a
giacere al suolo al posto loro.
Jean-Paul mi vide prendere per i piedi Médéric Côté. Deposi il suo corpo a
fianco di quello del suo collega. Avevo ricaricato la mia arma e ficcai due
palle in testa a ciascuno. Quel gesto poteva costarmi la pena di morte. Il
colpo di grazia è accettato dalla società solo se è il boia a darlo... e allora
diventa «gesto umanitario». Se lo fa un assassino, diventa «bestialità».
Volevo essere certo di lasciare dietro di me due cadaveri. La nostra azione
non era stata premeditata, si trattava solo di legittima difesa. Eravamo in
guerra; tutti gli sbirri volevano la nostra pelle e, dopo l'attacco al
penitenziario, l'avevano gridato a gran voce su tutte le frequenze radio.
Avevamo appena dato la nostra risposta. Né pietà, né rimorsi... Con il
nostro gesto anche noi facevamo una dichiarazione di guerra totale a tutti
gli sbirri. Sarebbe servito d'avvertimento a quelli che sentivano la vocazione
da cacciatori di taglie.
I corpi furono ritrovati l'indomani da una delle pattuglie incaricate delle loro
ricerche. Subito le radio annunciarono che quel duplice omicidio portava la
nostra firma. Questa volta la polizia giurò di vendicare i suoi colleghi. La
taglia sulla nostra testa aumentò di qualche migliaio di dollari, non
aggiunsero «vivi o morti»... ma ogni poliziotto non sognava che di vederci
stesi ai suoi piedi. Avremmo potuto lasciare Montreal, ma Jean-Paul e io
dovevamo raccogliere la sfida attaccando diverse banche in pieno centro
città e a viso scoperto.
I funerali furono solenni. Una volta morti si diventa eroi in fretta. Il ministro
della Giustizia venne a tenete il suo discorso. Quella che io avevo chiamato
«vittima della sua stupidità» divenne «vittima del dovere». Triste
consolazione per un ragazzino di dodici anni che piangeva sulla bara del
padre! La foto che pubblicarono mi commosse. Quanto ci doveva odiare,
quel ragazzo! Poteva mai capire che il giorno in cui suo padre aveva
accettato di portare un'arma era diventato un assassino legalizzato, con il
diritto di uccidere in nome della legge? Poteva capire che quando due
uomini si affrontano con le armi in pugno è il più rapido che sopravvive? La
legge autorizza a uccidere, ma non fornisce giubbotti antiproiettile. Non
avevo alcun rimorso... Ma molti rimpianti.
Fu tutto molto rapido. Dopo aver svuotato tutte le casse, feci altrettanto con
le riserve delle cassiere. Al momento di uscire, una di loro mi fece una
smorfia. Questo, qualche giorno più tardi, le sarebbe costato una bella
sorpresa.
Erano le dieci del mattino quando entrammo per la seconda volta nella
stessa banca. Rapidamente, saltai il bancone. Il direttore mi accolse con un:
«Ancora voi!» ... Indicandogli le casseforti, gli risposi:
Dopo aver svuotato le casseforti, presi la borsa che lei aveva riempito e ne
tolsi un biglietto da venti dollari... Sorridendo, le dissi:
Tendendole la banconota:
Dal giorno della nostra evasione, avevamo rapinato una somma di denaro
enorme. Era tempo di pensare a Janou. Tramite i miei contatti, le comunicai
la mia intenzione di liberarla. La sua risposta negativa mi sorprese e mi
contrariò. In effetti, era stato messo in piedi un dispositivo della polizia per
aspettarmi e Janou non voleva vedermi rischiare la vita. Ma questo io non lo
sapevo. Non avendo più alcun obbligo verso nessuno ora potevo rilassarmi.
Alcuni amici del giro avevano preparato una festa in nostro onore. Per la
nostra sicurezza era stata presa ogni precauzione. Ci andai. C'erano tante
pistole quante bottiglie di champagne; le ragazze erano carine. Si fecero
molto femminili e quando, al mattino, Jean-Paul mi venne a cercare in una
delle camere, lo spettacolo che vide lo lasciò sbigottito.
- Erano troppo carine... Non sapevo quale scegliere! Cosa credi? Godo di
buona salute, soprattutto dopo tre anni d'astinenza!
Poi, una sera, un amico mi presentò quella che sarebbe diventata la mia
nuova compagna d'avventure, senza peraltro rimpiazzare Janou. Sentivo il
bisogno di non stare solo. Al confine una coppia si fa notare di meno. Joyce
Deraiche era graziosa e i suoi vent'anni non le avevano ancora dato
un'esperienza di vita. Sognava avventure, denaro facile, belle macchine...
Io avevo l'esperienza e il resto. Divenne la mia amante. Dopo le sofferenze
della detenzione, le privazioni d'amore e di affetti, la sua gentilezza
trasformò i miei sentimenti. Le insegnai a essere donna, a scoprire il suo
corpo e il piacere. La sua rapida trasformazione mi affascinava. Jean-Paul e
Lizon l'avevano adottata. Joyce si era innamorata di me. Ammirava il
bandito, confondendo la realtà crudele con gli eroi del cinema. Decidemmo
che tra di noi non ci sarebbero mai state «domande». Le spiegai che la mia
donna era in galera e che, per nessun motivo, un'altra ne avrebbe potuto
prendere il posto. Decidemmo di procurarci, tramite un mio amico del giro,
dei passaporti falsi. Avevamo cambiato i nostri connotati, ma ciò non impedì
all'ufficio passaporti del ministero degli Esteri di ritrovarci. Questa volta la
polizia pensò di averci preso. Con l'autorizzazione del ministro Mitchell
Sharp, in seguito alla richiesta della gendarmeria reale di Ottawa, decisero
di emettere i nostri passaporti, pur sapendo che erano falsi; tutto ciò con
l'unico scopo di facilitare il nostro arresto. Questo non lo sapevamo, al
momento in cui stavamo per fare l'ottava rapina in banca dopo la nostra
evasione...
Il direttore che avevo di fronte era un tipo rossiccio con una pancia
prominente. Con la canna della mia arma gli indicai la direzione della
cassaforte mentre obbligavo uno dei cassieri a seguirci. Jean-Paul
controllava il tutto, con la mitraglietta appoggiata al fianco.
- Perché mi dovrei sbrigare, visto che hai detto di non aver fatto scattare
l'allarme?
- Hai voluto correre il rischio, adesso devi giocare fino alla fine.
Erano stati loro a dare l'allarme. Volevo dargli una lezione che non
avrebbero più dimenticato. Gridai a Jean-Paul:
Normalmente noi non restavamo mai più di due minuti. Perché la polizia di
Montreal era bene organizzata e arrivava sul luogo di una rapina in meno di
tre minuti.
Avevo ancora il sigaro tra le labbra quando iniziò lo scontro a fuoco. I vetri
della banca volarono in pezzi. Tutti i clienti si erano gettati per terra. Jean-
Paul era uscito sul marciapiede e, sparando dal fianco, innaffiava i poliziotti
di pallottole calibro 45. Io ero saltato sul bancone e sparavo su un poliziotto
che si nascondeva dietro la sua automobile. Jean-Paul era rientrato in
banca. Non potevamo più uscire dalla porta principale e salire sull'auto che
ci aspettava. Le pallottole fischiavano dappertutto. Vedendo la porta
secondaria, gli gridai:
S'inoltrò nel passaggio. Dava sul retro della banca. Dopo aver sparato
ancora qualche colpo per coprire la nostra fuga, lo seguii. Le auto della
polizia arrivavano da ogni parte a sirene spiegate. Entrato in un passaggio
che non era altro che un vialetto, mi assicurai che nessun poliziotto ci
seguisse. Rapidamente ricaricammo le nostre armi. Incrociavamo dei
passanti che sembravano non capire niente. Arrivati nella strada principale,
fermammo un'auto e, dopo averne cacciato fuori gli occupanti, Jean-Paul
prese il volante. Gli dissi di guidare piano. Incrociammo diverse auto della
polizia che andavano sul luogo della rapina senza immaginare di aver
appena incrociato gli uomini che cercavano. Jean-Paul, guardandomi con il
sorriso sulle labbra, esclamò:
- Il tuo sigaro...
Mi resi conto che durante tutta l'azione lo avevo tenuto in bocca. Tirai e ne
uscì una nuvola di fumo.
- Ben fatto, figliolo... Quello lì non lavorerà mai più con la musica.
Mentre eravamo già in direzione di New York, tutti gli sbirri del Canada,
credendoci ancora sul loro territorio, continuavano le loro ricerche
intensivamente. Mi avevano accusato di un omicidio che non avevo
commesso... Avevo giurato di fare pagare le sofferenze mie e di Janou.
Avevo mantenuto la mia parola. La polizia e le banche ne avevano pagato il
prezzo.
Passavamo le nostre giornate in mare, alla pesca del pesce spada. La sera
andavamo a ballare al Macuto Sheraton. Joyce si comportava da donna
innamorata, ma non poteva farmi dimenticare Janou. La nostra intesa
sessuale era totale e appassionata, ma io sapevo che lei non era una di
quelle donne eccezionali sulle quali si può contare in ogni occasione. Era
troppo lontana dalla realtà della nostra situazione, non vedeva che il lato
gradevole dell'avventura. Sapevo che era sincera; ma viveva in un sogno
che rischiava di finire bruscamente se fosse accaduta una catastrofe. Il suo
amore per me era come quello di una geisha che ammira il suo padrone.
Per lei, ero il «capo», colui che domina gli altri, ma anche l'amante delicato.
La sua passione non era finta; mi amava per averle insegnato a essere
donna e a conoscere il piacere sotto tutte le sue forme. Mi avrebbe
dimostrato, due anni più tardi, che il suo amore poteva arrivare fino al
sacrificio della libertà, preparando e facendo evadere cinque miei amici,
considerati i più duri criminali del Canada... Ma a quell'epoca non potevo
immaginarla capace di una tale azione, come Jean-Paul che le dovrà la
libertà e l'incontro con la morte. Per il momento, ci lasciavamo vivere e ogni
giorno che passava era un giorno rubato al carcere dove avremmo dovuto
essere. Un solo giorno di libertà valeva tutti i rischi che avevamo corso per
strapparlo al nostro destino. Ma questo stesso destino avrebbe sconvolto i
nostri piani...
- Ma hai visto in che stato ha conciato Lizon? Lascia che gli dia una lezione a
mani nude.
Quattro giorni dopo la sua partenza, ricevetti una telefonata. Per Lizon tutto
era andato bene, ma le altre novità non erano altrettanto buone. Dieci
giorni dopo la nostra partenza dal Waldorf-Astoria di New York, l'F.B.I. era
già sulle nostre tracce. Senza saperlo eravamo sfuggiti per poco all'arresto.
Ciò che mi preoccupò di più fu che Jean-Paul aveva letto sui giornali
canadesi che, per la gendarmeria reale, noi eravamo partiti per il Sud
America. La mia decisione fu presa in fretta. Lo informai della mia
intenzione di partire per la Francia dove ero sicuro di ritrovare degli amici.
Quando Lizon fosse completamente guarita mi avrebbero raggiunto. Quella
partenza non era definitiva, ma non volevo farmi intrappolare in un paese
sconosciuto. Avevo alcuni amici fra la polizia venezuelana; ma questa
protezione rischiava di non essere sufficiente di fronte a un mandato
d'arresto internazionale per duplice omicidio dei due agenti provinciali. Le
cose precipitarono quando il poliziotto che mi aveva venduto le armi arrivò
tutto agitato alla villa.
Ero felice di ritornare nel mio paese. Avrei rivisto mio padre che sapevo
molto malato. Conoscevo i rischi che correvo per un tale incontro; la polizia
di certo stava sorvegliando la mia famiglia. Non me ne importava granché.
Avevo bisogno di vedere mio padre, di stringerlo fra le braccia come lui
aveva fatto, al suo ritorno dalla guerra, quando ero bambino. Dovevo
spiegargli perché mi comportavo così. Non sarebbe stato d'accordo con me,
ma sapevo che era il solo a poter quanto meno capire le mie reazioni.
Prima di tutto dovevo trovare una città dove vivere. Scelsi Mantes che era
molto vicina a Parigi. Vi affittai una villetta. In due giorni avevo piazzato un
sistema che mi avrebbe consentito di sfuggire alla polizia, se per sfortuna
avesse bussato alla mia porta per arrestarmi. Una volta sistemato, ripresi i
miei contatti. La mia prima visita la feci a Mario, il cugino di Guido.
Decidemmo che mi avrebbe presentato dei ragazzi seri. Parlammo della
morte di Guido e di certe persone che non si erano comportate bene con
sua moglie, subito dopo la sua morte. Promisi che avrei personalmente
regolato tutti i conti lasciati in sospeso. Ma, prima, dovevo ricostituire una
squadra. Quasi tutti i miei vecchi amici erano o in prigione o morti. «In
quattro anni le cose cambiano in fretta!», fu la risposta di Mario. Quando mi
presentò Rémy, capii subito che saremmo diventati amici. Era un ragazzo
serio, buon conoscitore di armi, di una prudenza estrema, che aveva
cancellato dal suo vocabolario la parola pietà per tutto quello che
concerneva il nostro ambiente. Il tipo d'uomo che sarebbe andato fino in
fondo per un amico. A sua volta mi presentò i suoi amici e le sue
conoscenze. I miei precedenti canadesi erano un buon biglietto da visita.
Senza essere il capo, ero quello che decideva. Personalmente non avevo più
niente da perdere ed ero deciso a giocare duro per rifarmi un nome a Parigi.
Cominciai a ricostituirmi un arsenale completo. Altri conoscenti mi fornirono
documenti falsi. Mi ritrovai con sei passaporti differenti, due dei quali
uscivano dritti dalla prefettura, e andai anche allo sportello a firmarli, pur
essendo una delle persone più ricercate del mondo. Questo gesto era una
prova di sangue freddo, non d'imprudenza. Feci lo stesso per ottenere i
documenti per Joyce, che si ritrovò con la nazionalità francese pur
conservando il suo bell'accento canadese.
Mio padre venne all'appuntamento che gli avevo dato. Per la mia sicurezza,
presi ogni genere di precauzioni. Quando lo vidi mi si strinse il cuore. La
malattia lo consumava e capii subito che senza la mia evasione non lo avrei
rivisto vivo. Aveva il cancro, ma non lo sapeva. Gli avevano nascosto la
realtà degli interventi che gli avevano già fatto perdere la voce. I suoi occhi
si illuminarono quando mi vide andargli incontro. Andammo a mangiare in
un ristorante gestito da un amico. Non nascose la pena che provava nel
vedermi vivere così, ma il suo «Sei sempre mio figlio», anche se non era un
perdono, rivelava la sua rassegnazione. Mi voleva bene...
Non mi disse niente di nuovo riferendomi che tutte le polizie erano sulle mie
tracce. Ma quando mi disse che Janou sarebbe ritornata nel 1973 e che in
Francia l'aspettava un mandato di cattura per rapina a mano armata, capii
che non avrei potuto lasciare la Francia abbandonandola al suo destino. Lo
dovevo alla donna, per amore, e all'amica, per la fedeltà nell'azione. Mio
padre mi fece anche capire che non avrei potuto vedere mia madre e mia
figlia. Lo lasciai con la promessa di rivederci.
All'inizio di dicembre del 1973 ci furono due rapine a mano armata nella
regione di Mantes. Le buste paga di una fabbrica, per un totale di 64000
dollari, furono rapinate e, tre giorni dopo, una cassiera che andava a fare
un prelievo in banca, benché scortata dalla polizia, si fece rapinare 56000
dollari dai banditi che ne avevano neutralizzato la scorta. Il commissario
Tour e i suoi uomini arrivarono in zona. Uno dei testimoni di una delle due
rapine aveva creduto di vedere che i rapinatori, al cambio macchina, erano
saliti su una Taunus. Il commissario fece prendere tutti i nomi di proprietari
di Taunus della regione. Fu in questo modo che seppe che un certo Bruno
Dansereau, di nazionalità canadese e recentemente arrivato in zona, ne
aveva acquistata una da poco. Capì in fretta, con l'aiuto dell'ispettore
Dormier, che quel canadese non era altri che Jacques Mesrine, persona che
tutti e due cercavano per diversi delitti. Una circostanza fortuita mi avrebbe
salvato dall'arresto. Il mio istinto avrebbe fatto il resto.
- Svelta, ragazzina. Fai le valigie, gli sbirri sono sulle mie tracce.
Avevo capito bene, Jean-Paul era stato preso dalla polizia durante una
rapina che aveva tentato con Lizon, ormai guarita. Se non fossi scappato da
Mantes saremmo stati arrestati entrambi alla stessa ora, a migliaia di
chilometri di distanza. Dissi a Bernard che avrei fatto il possibile per tirarlo
fuori di prigione, ma che avrei avuto bisogno di tempo, almeno sei mesi.
Questa notizia mi rattristò molto, perché Lizon avrebbe pagato caro il suo
legame con il mio amico: era stata condannata a dieci anni. Per il momento,
avevo ancora la speranza di tirarli fuori. Non avrei tardato a fare la stessa
fine.
Poi, passando davanti ai clienti come uno del personale, entrai in una cassa
e ne svuotai il contenuto, dicendo a una cliente:
- Era da molto che non venivo nel vostro locale! Il padrone è sempre
Marcel?
Lei mi guardò con i suoi occhi porcini e la sua aria di fregarsene di tutti. Era
una grassona laida e rubiconda. Prima che aprisse la bocca, già sapevo che
le cose si sarebbero messe male.
- Non so.
Le lanciai il mio bicchiere di whisky sul volto. Uno dei clienti che aveva la
faccia da sfruttatore fece per intervenire. Con un gesto rapido avevo tirato
fuori la Colt 45. Fu il panico. Gridai alla ragazza:
- Gli lascerò il mio biglietto da visita, al tuo fottuto padrone! Feci il giro del
bancone e cominciai a distruggere tutte le bottiglie e gli specchi che
circondavano il bar. Fare ciò in pieno giorno, in uno dei quartieri di Parigi
più controllati dalla polizia, era rischioso. Ma volevo che il padrone del locale
capisse che non me ne fregava niente delle protezioni che aveva tra i politici
o nella polizia. Non era neanche un minuto che ero intento a distruggere
tutto, quando l'istinto mi avvertì del pericolo. Uno sbirro stava giusto sulla
porta d'ingresso, pronto a far fuoco con un'arma già puntata nella mia
direzione. Non ne ebbe il tempo. Più rapido di lui, avevo già sparato.
L'impatto della pallottola lo aveva sollevato da terra. S'accasciò sul
marciapiede. Passando dal retro del bar, arrivai in un cortiletto che dava su
un altro stabile. Al momento di uscire dal portone vidi un poliziotto seduto
su un'auto di pattuglia. Per radio chiedeva rinforzi; dalle sirene che sentivo,
stavano già arrivando. Lo presi di mira. Non dovevo far altro che premere il
grilletto ed era morto. Sarebbe stato completamente gratuito, poiché non
sarei comunque potuto passare da lì, visto che la strada stava per essere
bloccata. Girandosi, mi vide. Gli risi in faccia. Fece un gesto rapido e mi
sparò due colpi che presero la porta. Ero già scomparso dalla sua vista e
avevo imboccato la scala del palazzo. Non avevo altra scelta, perché ero
circondato, e la mia unica possibilità era arrivare ai tetti e saltare su un
palazzo vicino. Dovevo superare un cancello per ritrovarmi dall'altra parte.
Arrivato al primo piano, spaccai i vetri di una finestra del ballatoio e salii su
un tetto. Tutti gli abitanti mi guardavano dalla finestra. Scavalcai una
cancellata. Adesso ero sul tetto di un cortile all'altezza del primo piano. Da
ogni lato c'erano finestre di appartamenti privati. Mi gettai attraverso una di
quelle finestre. I vetri s'infransero con un rumore spaventoso. Diverse
persone urlarono. Mi trovai faccia a faccia con una brava donna molto
stupita di vedermi in casa sua. Vedendo l'arma e il sangue che mi colava
dalle mani, ebbe paura. Non la minacciavo affatto.
- Mi indichi l'uscita del palazzo e non abbia paura, non voglio farle del male.
- Ascolta bene ciò che ti dico. Devi dimenticare la mia faccia, è meglio per
te. Mi lascerai una ventina di strade più in là.
Poi gli misi cinque biglietti da cento franchi (circa 100 dollari) sul sedile
davanti.
- Ben giocato... Mi avete preso. Siete stati più bravi dei poliziotti canadesi.
Avete fatto un bel lavoro, complimenti. Ma avete anche avuto fortuna.
- Ci hai dato parecchio lavoro, Jacques, e credimi, sono contento che sia
finita così. Con un tipo come te mi aspettavo il peggio. So che la canadese è
in casa tua. Saliamo, non tentare niente, d'accordo? Te lo dico per lei.
Arrivati nel mio androne, lo sguardo sorpreso della mia portinaia mi fece
scoppiare a ridere.
Mi fecero salire all'undicesimo piano. Suonai alla mia porta. Per Joyce era il
crollo del bel sogno e la prigione. Avvisai il commissario:
- E' una ragazzina, commissario! Lei non c'entra... Niente porcate, OK?
- Sì, bimba... Ma non sono solo. Ci sono con me gli sbirri. Mi hanno
arrestato. Apri e stai calma.
Non sapeva che, normalmente, non saliva nessuno senza prima telefonarmi,
utilizzando un codice ben preciso.
Mi rivolsi a Joyce:
Assentì.
In verità, volevo solo guadagnare tempo. Cinque dei miei amici dovevano
venire a cena e aspettavo la prima telefonata. Non rispondendo, li avrei
messi in guardia.
Quando suonarono alla porta nella maniera convenuta, capii che il mio
amico Michel non aveva preso la precauzione di telefonarmi prima. Viveva a
casa mia e, normalmente, doveva rientrare più tardi. Tutti i poliziotti si
misero in posizione di tiro mirando alla porta. Il commissario Tour mi
avvisò:
Poi suonò il telefono. Erano le venti precise. Tre squilli poi chi chiamava
riappese, per poi chiamare di nuovo. Normalmente avrei dovuto rispondere
al quarto squillo. Guardai il commissario Tour sorridendo. Né lui né i suoi
uomini sapevano cosa fare. Anche se avessero risposto, non sarebbe stato
sufficiente, avevamo un numero in codice da dare prima d'iniziare a parlare.
Li guardai e scoppiai a ridere, perché adesso i miei amici erano avvisati che
da me stava succedendo qualcosa di strano e non sarebbe venuto più
nessuno.
- A una mosca, no. Ma non prenderci per stupidi. In giro per il mondo hai
quasi un cimitero privato.
Poi, sorridendo:
- Nella tua carriera quanti uomini hai ucciso? So che erano tutte persone del
tuo ambiente, ma quanti erano? Dieci, venti?
Non gli risposi. Ma già pensavo a ciò che avevo preparato al palazzo di
giustizia di Compiègne. Come avevo fatto bene a prevedere il mio arresto!
Rémy era sempre libero e la sua frase: «Con me fuori, sei certo che tutto
sarà fatto come si deve» mi ritornò alla mente. Sapevo di poter contare su
di lui. Mi era sufficiente darmi da fare per comparire presto a Compiègne
dov'ero stato condannato in contumacia nel 1968. Opponendomi al giudizio,
sarei stato nuovamente processato. La legge stessa mi forniva le armi per il
mio piano.
Lei piangeva.
Passai la notte seduto su una panca in una cella con un altro ragazzo che si
era fatto arrestare per una storia di armi. Si presentò:
- Henry, il lionese.
Era un tipo che, a sentirlo, ne aveva passate di tutti i colori e si era fatto più
di venti anni di galera. Io non avevo voglia di parlare. Ma lo ascoltai perché
parlare gli faceva bene.
I primi giorni di carcere passarono tra gli uffici dei diversi commissariati per
essere messo a confronto con i testimoni delle rapine in banca. La
testimonianza umana è una prova ben fragile. Fui riconosciuto in rapine alle
quali non avevo partecipato e scagionato per altre che avevo commesso.
Quella immagine della società mi faceva vomitare. Che un individuo con la
sua testimonianza, erronea, possa mandare in prigione un uomo per degli
anni per un crimine che non ha commesso è una cosa che mi ha sempre
provocato un odio mortale. L'unico processo per omicidio che avevo subìto
era stato per un assassinio che non avevo commesso e avevo visto delle
donne mentire e spergiurare sulla Bibbia... Come se il fatto di chiamare Dio
a testimone fosse una prova di verità. Che io fossi riconosciuto o meno per
le rapine, non cambiava niente. Conoscevo in anticipo la mia sentenza e ciò
mi lasciava completamente indifferente.
- Sai, Mesrine, che in Québec ci hai fatto tribolare! Avremmo voluto avere la
tua pelle, ma devo riconoscere che sei un bel mascalzone. Sapevamo bene
che non ci avresti detto niente, ma per noi era un'occasione per vedere
Parigi.
Il capo della sorveglianza aprì la porta della mia cella. Erano le nove del
mattino.
- A stasera, Mesrine.
- A stasera, signore.
I miei occhi incrociarono i suoi; non capì la luce ironica che brillava nei miei.
Mi lasciai incatenare. Mi fecero salire su un furgone che ci avrebbe portato
in stazione. Là, sotto buona scorta, mi fecero prendere posto in uno
scompartimento isolato. Durante il viaggio studiai quelli che sarebbero stati
i miei avversari. Il capo scorta era senza dubbio il più sveglio. Sentivo che
era diffidente e pronto a ogni evenienza. Dovevo cominciare a recitare la
parte del malato. La riuscita della mia evasione si basava interamente sulla
mia necessità di andare sovente al gabinetto. Il treno procedeva da una
buona ventina di minuti quando mi rivolsi a lui:
Mi fece entrare nel bagno, mi liberò una mano e m'incatenò l'altra alla sua.
Fui obbligato a fare i miei bisogni con il culo in aria, seduto sull'asse del
W.C. con un gendarme di sentinella al mio fianco. Mancava solo la
Marsigliese. Ero furioso, all'apparenza, e glielo feci capire. Tutto ciò era per
preparare la mia futura azione.
Lungo il viaggio, non feci altro che lamentarmi per immaginari dolori di
pancia. I poliziotti cominciavano a credermi. Per arrivare a Compiègne ci
volle un'ora. Il treno si fermò. Mi fecero scendere. Diversi gendarmi della
cittadina rinforzarono la scorta. Per prima cosa dovevano condurmi al
commissariato, perché il mio processo si sarebbe svolto alle quattordici.
Salendo sulla camionetta, intravidi uno dei miei amici. Fece il gesto di
buttare la sigaretta. Quel gesto mi riscaldava il cuore. Tutto era pronto per
la mia evasione. Dovevo solo aspettare qualche ora. Rémy aveva
mantenuto la promessa come solo i veri amici sanno fare. Per lui provavo
l'affetto di un fratello e lui lo ricambiava abbondantemente. Mi portarono
alle celle. Sentii il capo scorta dire ai suoi uomini:
Verso le tredici si aprì la porta. Era lui con un panino in mano. Per i detenuti
non era previsto il pranzo. Lo aveva comprato con i suoi soldi. Quel
semplice gesto di umanità avrebbe pesato molto al momento dell'azione e
forse gli avrebbe salvato la vita. Mi tese il panino.
Non c'era provocazione nelle sue parole, solo una constatazione che per lui
era evidente. Gli risposi con lo stesso tono leggero:
Mi fecero entrare nel tribunale. Il mio avvocato, Smadja, era ben lontana
dall'immaginare che presto avrebbe perso il suo cliente. Mi fece sapere che
tra quindici minuti sarebbe toccato a noi. Ora era il mio turno di gioco.
Girandomi verso il capo scorta, con voce lamentosa gli dissi:
Tutto il problema era lì. Sapevo che l'arma era stata messa sullo sciacquone
dei bagni del primo piano, normalmente riservati ai giudici e agli avvocati. I
gendarmi mi portarono nel cortile dove c'erano i bagni aperti al pubblico.
Avevo previsto quella eventualità. I miei amici, prima del mio arrivo, vi
avevano tolto tutta la carta igienica. Arrivati sul posto, il capo mi aprì la
porta del primo cesso. Mi aveva prima tolto un paio di manette e mi aveva
attaccato al braccio di uno dei suoi uomini. Lo guardai, come se fossi
sorpreso:
- Ehi! Capo... Mi prende per scemo! Anche qui non c'è carta, e guardi com'è
sporco! Riportatemi in tribunale.
- Ma...
Vedevo che aveva paura delle mie reazioni. Gli avevano detto: «Attenzione,
è pericoloso!». Conciliante, con i suoi uomini mi riportò all'interno del
tribunale. A ogni costo dovevo arrivare ai gabinetti del primo piano. Non
potevo fargli una domanda diretta senza destare la sua diffidenza. Dovevo
trovare uno stratagemma. Sapevo che avevano paura di me. Con voce rude
interpellai il cancelliere del tribunale:
- Ha detto di sopra?
Gli avevo rinfrescato la memoria, senza che gli altri si fossero resi conto che
in realtà lui non aveva detto proprio niente. Soddisfatto e troppo contento di
farmi piacere, affermò:
C'erano due cessi al primo piano. Sapevo che in ciascuno c'era un'arma. Lo
sciacquone era molto in alto. Non si poteva vedere cosa c'era sopra.
Temevo che il capo scorta frugasse i cessi come aveva fatto in treno. La
porta del primo era aperta. Rapidamente mi infilai dentro, non lasciandogli
tempo per opporsi.
- Cominciamo bene... Sei finocchio o che cosa?... C'è da credere che ti piace
respirare l'odore di merda! Dai, chiudi la porta.
- Finito?
Con l'arma al fianco e scortato dai gendarmi, raggiunsi il tribunale. Sul mio
viso niente lasciava trasparire quel che era successo. Prima che fosse il mio
turno mancava ancora qualche minuto. Mi fecero sedere con due gendarmi
da un lato e tre dall'altro. Nella sala delle udienze ce n'erano altri, che erano
lì per altri detenuti. Speravo che, quando fosse toccato a me, mi avrebbero
tolto le manette, come la legge prevedeva. Il cancelliere annunciò: «Causa
Mesrine». Mi fecero alzare. Guardando il capo scorta e mostrandogli la mia
mano sinistra ancora ammanettata, gli dissi:
Non avevo più scelta, adesso o mai più. Ero in piedi, di fronte al giudice,
con la mano sinistra attaccata a un gendarme che non aveva più di
trent'anni, che era sicuramente addestrato e che era più grande e più
pesante di me. Avevo dietro di me quattro suoi colleghi a meno di un metro
di distanza. Il mio avvocato mi era accanto.
- Vattene!
Il capo scorta mi si avvicinò. La pedana aveva tre gradini e lui aveva già il
piede sul primo. Nei suoi occhi lessi la determinazione. Sperava di
avvicinarsi abbastanza da potermi saltare addosso. Sarei stato obbligato a
ucciderlo. Se avesse avuto l'arma in mano lo avrei fatto. Il tipo non era
incosciente, ma coraggioso. Dovevo fare in fretta. Puntando nuovamente
l'arma alla nuca del presidente, gli gridai:
E aggiunse:
- Dietro c'è una borsa con una parrucca rossa e degli occhiali. Ci sono anche
due bombe a mano e una mitraglietta Mauser. La tua ferita è grave?
La casa di Robert era isolata. Quando vide la nostra auto aprì il cancello. Si
precipitò verso di me e lanciò un «Merda!» vedendo il sangue che colava dal
mio braccio destro.
- Vieni che lo curiamo subito!... Che impresa! Tutte le radio parlano della
tua evasione. In tutta la Francia è stato dato l'allarme generale. Dicono che
hai sparato a uno sbirro e che è tra la vita e la morte. Dio mio, come sono
contento di rivederti!
- Puoi estrarmela?
- Se non è entrata troppo profondamente, sì. Ho tutto quel che serve per
l'anestesia locale. Tutto è stato previsto, come aveva chiesto Rémy...
Sapevamo che rischiavi di prenderti del piombo, ma, Dio mio, è stata
proprio una bella evasione!
Riappesi.
La sera stessa ero l'uomo più ricercato di tutta la Francia e appresi dalla
televisione che lo sbirro ferito se la sarebbe cavata. Mi descrivevano come
un uomo molto pericoloso e pronto a tutto. Il nemico pubblico numero uno.
L'uomo da abbattere. In compagnia dei miei due amici mi sentivo rivivere.
La prigione della Santé mi aveva avuto solo tre mesi... Avevo mantenuto la
mia promessa.
Ero andato a Parigi per studiare la cosa. Si trattava della tipografia Lang al
17 di rue Curial. Secondo le nostre informazioni, quattro uomini lasciavano
l'ufficio della contabilità con la paga imballata in pacchetti. Costeggiavano il
muro interno dell'azienda e dovevano attraversare rue Curial sulla loro
destra per raggiungere l'altro edificio che stava di fronte. Su quattro
persone, era possibile che una fosse armata. La rapina doveva essere fatta
tra le dieci e le undici del mattino di un giorno che ci sarebbe stato indicato.
Ci riunimmo tutti nella villa di Robert. Da tre giorni Rémy era all'estero. Non
poteva quindi partecipare alla rapina. Avevo studiato un piano di massima e
ognuno dei miei amici era andato sul posto per rendersi conto
personalmente. Dopo la mia evasione ero irriconoscibile. Portavo la barba
che avevo tinto di rosso così come i capelli tagliati molto corti. Con i miei
finti occhiali neanche mia madre mi avrebbe riconosciuto. Questa volta non
era certo il caso di lavorare a viso scoperto. Anche colui che mi aveva dato
la dritta doveva partecipare alla rapina. Fu quindi deciso che avremmo
entrambi indossato caschi blu da motociclista e tute dello stesso colore. Gli
altri due si sarebbero finti imbianchini con tute bianche, cappelli di carta in
testa e il secchio del colore in mano. I due falsi imbianchini dovevano
passare davanti ai quattro uomini come se andassero a fare un lavoro
all'interno dell'azienda. Il mio amico e io, nascosti in una Estafette,
saremmo intervenuti in quel momento. I quattro uomini si sarebbero così
trovati completamente circondati, senza alcuna possibilità di fuga. A Robert
dissi:
La vigilia della rapina avevo fatto piazzare la vettura del cambio macchina al
posto che avrebbe dovuto prendere l'Estafette il mattino dopo, per essere
sicuri che fosse libero. Era quella la base del successo.
L'Estafette era parcheggiata a trecento metri dal luogo della rapina. Tutto al
suo interno era pronto. Ciascuno per conto proprio, prendemmo il metrò per
arrivare all'appuntamento, fissato alle otto del mattino. Uno alla volta
entrammo nella camionetta. Robert e un altro amico si vestirono da
imbianchini. Erano loro a doversi sedere nei posti anteriori. Un altro
complice era andato a piedi a raggiungere la macchina parcheggiata la
vigilia. Doveva mettersi al volante e, quando ci avesse visto arrivare,
lasciarci il posto per andare a piazzarsi nella stradina che dava sul vicolo
Degrais. Tutto andò come previsto. Eravamo sul posto. Erano le otto e
mezza. La strada era a senso unico e non avemmo alcun problema a
parcheggiare. Robert spense il motore dell'Estafette e discese con l'altro
uomo. Sembravano veri imbianchini, in piedi davanti alla camionetta con i
secchi di vernice posati a terra. Non restava che attendere. Avevamo
preferito arrivare con un buon anticipo, in caso di difficoltà inattese. Io ero
all'interno dell'Estafette, con il casco con la visiera scura. Era impossibile
riconoscermi. I miei amici erano al mio fianco. Avevo posato il fucile su un
mobile che c'era dentro il veicolo il giorno che era stato rubato. Erano
quindici giorni che ero evaso ed ero già al lavoro. Nel frattempo gli sbirri mi
cercavano dappertutto, meno che a Parigi.
L'attesa fu lunga. Dallo spazio che avevamo grattato sul vetro potevamo
vedere la tipografia in tutta la sua lunghezza. Eravamo certi di vederli
arrivare da lontano. Fuori, i miei amici fumavano dandosi un'aria naturale.
Davanti a loro dei bambini giocavano nel cortile della scuola. Alcuni operai
stavano facendo dei lavori. Erano due ore che eravamo sul posto.
Rivolgendomi a quello che mi aveva dato le informazioni:
Non guardavo più dal vetro. Il mio amico doveva segnalarmi la distanza che
li separava dall'Estafette. I due falsi imbianchini dovevano andare verso di
loro quando erano a trenta metri.
Ero balzato fuori dall'Estafette, con il mio amico al seguito, una borsa
militare in una mano e l'arma nell'altra. Gli imbianchini li avevano appena
sorpassati. La trappola si era chiusa. I quattro uomini mi videro di fronte a
loro, con l'arma puntata nella loro direzione.
Non avevano neanche avuto il tempo di capire cosa stesse succedendo che i
due falsi imbianchini gli erano addosso e li avevano già spinti contro il
muro. I tre pacchetti erano per terra. Il mio amico li raccolse e li mise nella
borsa.
- Finito... Andiamocene.
- Contento, Jacques?
- Non devi. Tanto per lui come per te. Andrò a trovarlo per te, se vuoi, ma
non fare questa pazzia.
- E' un problema mio... Lasciami in pace. Ci andrò in ogni modo. Trova due
amici per farmi da copertura fuori e una macchina. Comprami un camice
bianco nuovo, quelli degli imbianchini sono conciati male. Comprami anche
uno stetoscopio.
- Ascolta, con il mio nuovo aspetto non possono riconoscermi. Con camice e
stetoscopio al collo, mi scambieranno per un medico. Andrò all'ora dei pasti
o subito dopo. Tu scoprirai qual è la sua stanza e mi farai una mappa con
tutti i dettagli. Può darsi che non ci siano poliziotti.
- Sì, tutto questo per mio padre... Non ci sarà un'altra occasione, lo so. Non
puoi capire.
- Se gli sbirri cercano di arrestarmi sul posto, sparo nel mucchio. Niente e
nessuno m'impedirà di andare, lo capisci?
Avevo lo sguardo duro e il mio amico, che mi conosceva bene, sapeva che
niente mi avrebbe fatto cambiare idea.
Due giorni dopo, vestito col camice sbottonato per meglio afferrare la mia
colt 45 in caso di bisogno, entrai nella clinica. I miei amici erano al loro
posto e non avevano visto niente di sospetto.
Dopo aver percorso diversi corridoi, arrivai davanti alla porta della sua
stanza. Tutto sembrava normale. Aprii dolcemente, sperando solo di non
trovarmi faccia a faccia con uno sbirro.
Lui era lì, coricato, gli occhi fissi sulla porta. Nel suo sguardo lessi il
pensiero che gli attraversava la mente: «Questa faccia mi dice qualcosa».
Poi s'illuminò.
- Tu?
Mi misi un dito sulla bocca per imporgli il silenzio. Arrivato al suo capezzale,
lo abbracciai. Per questo semplice gesto d'affetto avevo rischiato molto. Ma,
adorando mio padre, sapevo di essere stato un cattivo figlio e forse ero
venuto a chiedere perdono per le sofferenze che la mia vita avventurosa gli
aveva procurato. Come due cospiratori parlammo a bassa voce.
- Dovevo, papà.
- Perché, figliolo?
- Per me.
Lo guardai. Era dimagrito più di trenta chili. Sentivo che era sfinito, ma non
vinto. Gli presi la mano.
Per la prima volta vidi i suoi occhi inumidirsi. Si tratteneva per non
piangere. Avrei dato la mia vita, purché vivesse, ma il mondo dei sogni
bisogna lasciarlo ai bambini. Eppure, di fronte a mio padre, mi sentivo
piccolissimo. Non ero più il temibile bandito, ma semplicemente un bimbo
sfortunato di fronte alla morte inevitabile della persona che aveva più cara.
- Addio, papà.
Entrambi sapevamo bene che non ci saremmo più rivisti. Uscendo dalla
stanza per imboccare il corridoio, non mi ero più girato. Piangevo... E'
stupido, un nemico pubblico che piange. Non mi era più successo da quando
avevo dodici anni. Fu l'ultimo omaggio all'uomo, al gentiluomo che mio
padre era stato per me.
Quando salii nella macchina che mi aspettava, i miei amici capirono che non
dovevano cercare di parlarmi e partirono senza dire una parola.
Abbandonammo l'auto, rubata, in un parcheggio.
Due mesi dopo, mi fecero sapere che mio padre era morto... Qualcosa
sarebbe morto anche in me e avrebbe cambiato certe mie reazioni, ma per
il momento speravo ancora in un miracolo.
I giorni che seguirono alla mia visita in clinica furono dedicati a preparare il
recupero di Joyce, che sapevo seguita da un buon numero di sbirri.
Ciò fu fatto senza alcuna difficoltà, utilizzando un palazzo con due uscite e
una macchina che l'aspettava dall'altro lato. Ero evaso da ventun giorni.
- E rispetti Janou?
- E' così, ragazzina... E non voglio essere obbligato a dover fare una
scelta... Janou è la mia vita. Tu sei di passaggio. Non ho barato con te, non
barerò con lei.
- Allora, approfittiamone...
Gli avevo lasciato credere che ero un uomo d'affari. Nel mio modo di
comportarmi non c'era niente di sospetto. Prendendomi per un buon
cittadino, faceva il buon poliziotto. Ma ciò che mi divertì di più fu il suo: «Se
un giorno avrà bisogno di me, non si faccia problemi». Era l'unico poliziotto
francese ad avere in tasca la foto dell'uomo più ricercato di tutta la Francia
e ad avere il privilegio di stringergli la mano tutti i giorni. L'episodio che mi
fece più sorridere fu quando parlò della sua professione e degli uomini più
pericolosi e fece il mio nome. I miei ammirati «oh!» e «ah!» davanti alle sue
affermazioni non valevano certo il «Ah! Merda, non è possibile!» che profferì
quando, dopo il mio arresto, apprese la mia vera identità. Ma non ero là ad
assistere.
Alle tre del pomeriggio, salii i gradini della banca. Non ero mascherato, solo
camuffato, e i miei due amici lo stesso. L'arma alla cintola, mi diressi verso
la cassa, che era in fondo alla banca, a sinistra.
La cassiera mi guardò con aria interrogativa:
- Desidera?
Obbedì. La banca era grossa. Uno dei miei amici era rimasto davanti alla
porta e teneva l'arma vicino al corpo, senza mirare a nessuno in particolare.
Doveva lasciar entrare tutti, ma non fare uscire nessuno. L'altro amico mi
serviva da copertura. Avevo fatto il giro del bancone Arrivato alla cassa,
cominciai a riempire la borsa con le mazzette di banconote che c'erano.
C'erano diverse caselle chiuse a chiave. Feci segno alla cassiera.
- Aprimi la riserva.
- Apri le casse!
Al bancone, un cliente aveva l'aria di divertirsi della situazione; così non era
per il direttore. Vedevo che esitava a dare l'allarme. Fu la cassiera che
accidentalmente, aprendo una cassaforte e poggiando il piede sul pulsante,
diede l'allarme. Più sorpresa di me, ebbe paura della mia reazione. Ciò non
mi impedì di prendere le ultime mazzette di banconote.
Al momento di uscire dalla cassa, vidi a terra una donna che aveva perduto
conoscenza; i suoi colleghi tentavano di rianimarla. Tranquillamente, diedi il
segnale di partenza. Uscimmo dalla banca, l'arma infilata nella cintura e,
come tutti gli altri passanti, ci guardavamo attorno per cercare di capire da
dove venisse la sirena. Questo era il grande vantaggio di lavorare a viso
scoperto.
Con i miei amici imboccai subito un vicolo alla nostra destra. Portava a un
boulevard dove ci aspettava una macchina con un uomo al volante.
Girandomi vidi degli uomini che ci seguivano. Riconobbi quello che pensavo
fosse il direttore. Per noi non rappresentavano alcun pericolo, ma erano
imprudenti a correre un tal rischio.
Per Joyce era arrivata l'ora della partenza. Mi supplicò di seguirla. Il mio
amico Robert doveva portarla in Inghilterra e seguire le mie istruzioni per la
sua partenza per il Canada.
Per lei avevo previsto due serie di documenti. Avrebbe passato la frontiera
con un nome e avrebbe preso l'aereo con un altro. Le avevo dato una
grossa somma di denaro. Aspettavo solo Robert. Arrivò a mezzogiorno. Mi
diede i documenti di Joyce senza una parola.
Me lo aveva detto senza prepararmi, ben sapendo che non c'era altro da
dire. Mio padre era morto a casa sua, in poltrona, di crisi cardiaca. Era
diventato l'ombra di se stesso ed era stato il cuore a cedere, prima che lo
divorasse il cancro. Joyce avrebbe voluto venirmi vicino per dirmi qualcosa.
La sua valigia era pronta. Dissi a Robert:
- Caro... Io...
- No... Non dire niente. Vai. Su, Robert, accompagnala e segui bene le mie
istruzioni, che non le succeda niente.
Quando si chiuse la porta, sapevo che lei avrebbe sempre rimpianto quella
partenza, perché il suo amore per me era sincero. Ma non era fatta per
vivere la parte brutta dell'avventura.
Ero solo. Mi coricai sul mio letto per piangere la morte del mio migliore
amico: mio padre. Il mio dolore era terribile. Nessuno dei miei amici venne
a trovarmi, sapendo che avevo bisogno di solitudine. Forse solo in quel
momento capii quanto la morte può far male a chi resta. In nome della mia
legge avevo ucciso degli uomini. Quante madri, quante mogli avevano
provato quella sofferenza che ora mi torturava il cuore e ciò per colpa mia:
uccidendo i miei nemici, non avevo ucciso anche loro? Era un po' tardi per
accorgermi che avevo una coscienza. Sapevo che non potevo ingannare me
stesso. Ero una belva e, nel mio ambiente, il mattino dopo, lo sarei stato di
nuovo, senza pietà. Il terzo giorno venne a trovarmi uno dei miei amici.
Avevo conosciuto una barista, una ragazza carina, e le poche parole che ci
eravamo scambiati mi dicevano che aveva la testa a posto. Era chiamata
Francine, ma io la chiamavo «Bel faccino». Era simpatica e tosta. Quando
mi vide scendere dalla S.M. che avevo affittato a Parigi, le si rischiarò il
volto. Capì che ero venuto per lei. Quando quattro giorni dopo tornai a casa,
lei venne con me.
- Sai, Jacques, il mio amico è al verde. Gli piacerebbe fare una rapina con
te.
Per me una banca era poco più che una formalità. Le rapinavo come altri
fanno una commissione. Con chi mi chiedeva questo favore, ero in debito.
Finii per accettare.
La sera stessa telefonai a Pierre perché venisse a Parigi. Il lavoro che gli
offrivo era più che un regalo, perché in certe situazioni era quasi meglio non
avere autista. Lui era felice di partecipare. Io, da parte mia, preferivo che
fosse coinvolto con noi, prima di comprare il bar. Pierre non conosceva
molto Parigi. Gli feci lasciare l'auto alla Porte d'Auteuil e andai a prenderlo.
La sera stessa ero un poco esitante a farlo dormire in rue Vergniaud. Poi,
pensando di non correre un gran rischio, accettai che passasse la notte da
me. Dovevamo fare il nostro colpo il mattino dopo. «Bel faccino» era andata
da una sua amica, ignorando completamente le mie attività. L'avrei dovuta
rivedere la sera stessa.
Tutto andò come sempre e l'allarme che il direttore aveva fatto scattare non
ci preoccupava. Il tipo che mi era stato presentato era un professionista,
calmo, e lavorava come piaceva a me. Dopo essere rientrati in macchina,
dissi a Pierre:
- Doppiamo.
Pierre parcheggiò l'auto a dieci metri dalla banca. Entrammo. Arrivato allo
sportello del cassiere puntai l'arma e gli ordinai:
Feci il giro del bancone e andai alla cassa. Cominciai a prelevare le prime
mazzette e mi accorsi che il sistema d'allarme si attivava se si sfilavano gli
ultimi biglietti. Osservai:
Alzai la testa giusto in tempo per accorgermi che i miei due soci erano usciti
precipitosamente lasciandomi solo nella banca. Quella situazione non mi
gettava certo nel panico. Con calma mi diressi verso la porta. Non era certo
il caso di prendere un ostaggio per coprirmi la fuga. Avevo partecipato a
troppi scontri a fuoco per temerne un altro. Li vidi dalla porta. Un furgone di
sbirri aveva bloccato il nostro autista, che era ammanettato alla schiena e
circondato da tre agenti, uno dei quali armato di mitraglietta. Capii subito
che pensavano solo d'aver arrestato l'autista della prima rapina e non
sapevano che ne stavamo facendo una seconda. Non potevo abbandonare il
mio autista. Essendo a viso scoperto e poiché in banca non era scattato
alcun allarme, volevo avvicinarmi sufficientemente per sorprenderli tutti e
tre e liberare Pierre. Avrei potuto abbatterli, poiché non guardavano verso
di me. Ma avevo abbastanza esperienza per non fare quell'errore, tanto
stupido quanto gratuito. Mi avvicinai piano. I miei amici, vedendo cosa
facevo, erano tornati per aiutarmi. Tenevo l'arma lungo il corpo. Per
arrivargli addosso mi mancavano solo sei metri. In quel momento il
direttore della banca uscì dalla porta e si mise a urlare: «Al ladro!». Gli
sbirri, sorpresi, lo fissarono e videro che il suo dito era puntato verso di me.
I miei amici si erano fermati. Se davo inizio allo scontro sarebbe stato un
massacro. A mezzogiorno il boulevard era pieno di gente. Vedendo che non
sparavo, gli sbirri fecero lo stesso. Mi misi a correre verso i miei amici.
Questa volta era la fuga. Sentivo i fischietti e i «Fermateli!». Girandomi, vidi
che erano al nostro inseguimento. Il primo poliziotto era a meno di trenta
metri da me, con l'arma in mano. Non era stato ancora sparato alcun colpo.
A un incrocio, un vigile volle sbarrarmi la strada aprendo le braccia a croce,
come un crocefisso volontario buono per una medaglia al valore o alla
stupidità a titolo postumo. Era un africano. Per me non era un pericolo. Lo
presi per il bavero, lo incollai al muro e passai. Avevo la Colt 45 in mano.
Vedendola, rovesciò gli occhi dallo spavento.
Proseguii la mia corsa, inseguito dalle grida dei poliziotti che si guardavano
bene dall'avvicinarsi. Avevamo già fatto più di trecento metri. Arrivati al
quarto incrocio, ci imbattemmo in una vigilessa. Scambiandoci per poliziotti
in borghese, bloccò un'auto per permetterci di passare. Robert ne approfittò
per tirare fuori l'autista e prenderne il posto. Da parte mia avevo fatto il
giro dell'auto per sedermi davanti, mentre il nostro nuovo compagno si era
seduto dietro. Partimmo prendendo verso destra. In un decimo di secondo
vidi un poliziotto che mirava a Robert. Tirai nel momento stesso in cui i miei
occhi avevano scorto il pericolo. Le pallottole passarono davanti al viso di
Robert, perché il pericolo era alla mia sinistra. Trapassarono l'interno del
veicolo. Lo sbirro non aveva avuto il tempo di mirare, ma le sue pallottole
erano partite nello stesso tempo delle mie. La nostra auto svoltò con uno
stridio di pneumatici. Il poliziotto svuotò il resto del suo caricatore dietro il
nostro veicolo. L'amico di Robert si portò le mani al viso; una pallottola gli
aveva graffiato la guancia facendo scoppiare il vetro posteriore. Adesso
eravamo lontani dal pericolo. Introdussi un nuovo caricatore nella mia
arma. Rivolgendomi a Robert:
- Mi dispiace per Pierre...
- Lascia stare...
- Ce ne andiamo a piedi.
Il garagista non aveva capito niente. Guardava il nostro veicolo con aria
sorpresa. Siccome c'eravamo allontanati con tutta calma senza correre,
anche lui ci aveva preso per poliziotti.
«Bel faccino» mi raggiunse e passò la notte con me, ignorando del tutto ciò
che era accaduto quel giorno. Il mattino del 28 settembre io vivevo le mie
ultime ore di libertà.
Dovevo andare a ritirare due vestiti dal sarto. Erano le tredici. Francine mi
propose di andare lei al mio posto. Io non avevo molta voglia di uscire e la
lasciai fare. Verso le quindici passarono a trovarmi due miei conoscenti. Uno
di loro mi aveva aiutato ad affittare il mio appartamento, ma ignorava la
mia vera identità... L'altro raccoglieva le mie scommesse alle corse, perché
io giocavo solo tramite lui. Gli avevo dato un milione e mezzo di vecchi
franchi per fare le mie puntate a Vincennes. Se ne andarono tutti e due. Gli
sbirri erano già sul posto e li videro uscire. Avevo le persiane abbassate e
non potevano vedere cosa facevo in camera. Tutte le stanze
dell'appartamento davano su un giardino. Ero al secondo piano e non
potevo vedere la via principale, altrimenti mi sarei accorto degli sbirri.
- Polizia!... Aprite!
Non potei trattenermi dall'esclamare: «Merda, non può essere vero!». Ero
balzato sulle mie armi, le due Colt 45 e la mitraglietta. Francine
sonnecchiava.
Ero pronto a sparare una raffica attraverso la porta. Avevo spento tutte le
luci. In risposta agli ordini che mi davano non avevo pronunciato una sola
parola. Arrivato in cucina diedi un'occhiata fuori dalla finestra. Diversi
poliziotti uscirono fuori dagli angoli in ombra. Li avevo visti. Ero in trappola.
Se saltavo giù, era la morte certa.
Per un momento avevo sperato che gli sbirri non sapessero chi erano venuti
ad arrestare e, per confonderli, avevo imprecato in tedesco. Mi ero messo in
posizione di tiro di modo da poter abbattere il primo che passava la porta.
Ma avevo capito che stavolta ero perduto. «Bel faccino» mi era venuta
vicino. Vedendo che miravo alla porta, mi supplicò:
- Sì... Sei Mesrine... Non fare lo stupido, non hai neanche una possibilità su
mille di cavartela... Ci sono tiratori dappertutto e...
- Tu chi sei?
- Commissario Broussard.
- Hai una tua foto con te?... Falla scivolare sotto la porta.
- No... Voglio solo verificare se sei tu. Hai la mia parola, non è una trappola.
Vidi la carta d'identità che sporgeva. Diffidavo come lui e la presi con il
piede. Avevo una rassegna stampa con tutte le foto degli sbirri che erano
comparsi sui giornali. Avevo anche quella di Broussard. La confrontai... Era
lui. Misi l'articolo di giornale nella custodia della carta d'identità.
- Ascolta poliziotto. C'è una ragazza con me, non c'entra niente e...
Dal tono della sua voce, capii che aveva pensato fossi solo.
- Dai... Parla.
- D'accordo, Jacques... Hai la mia parola... Ma solo se lei non è ricercata per
altro. E adesso, cosa decidi?
Broussard sapeva molto bene che ne avrei approfittato per distruggere dei
documenti. Ma per lui la cosa più importante era evitare ogni spargimento
di sangue. Sapevano che per avere la mia pelle avrebbero dovuto perdere
degli uomini, il mio passato parlava chiaro. Gli avvenimenti avevano preso
una piega per loro imprevista. Visto che giocavo secondo le regole, non
dovevano contrariarmi... Un uomo in trappola certe volte ha delle reazioni
impreviste. Avevo bisogno di quei venti minuti per distruggere i piani
completi del colpo che avevo in preparazione. Presi una pentola e vi bruciai
dentro tutti i documenti. Schiacciai le ceneri e le buttai nell'acquaio e feci
scorrere l'acqua. Poi bruciai i miei documenti falsi... Questi li lasciai così
com'erano, perché gli sbirri ne recuperassero le ceneri, non aveva
importanza. Nell'appartamento c'era quindi del fumo. Per evitare ogni
sorpresa, avevo comunque la mitraglietta accanto. Broussard, vedendo il
fumo uscire sotto la porta, mi chiese:
- Ma cosa fai?
Broussard non voleva che io cambiassi idea. Ero calmo. Nel giro di qualche
minuto avrei perso, per sempre, la mia libertà. Un funerale imponente,
senza una possibilità su mille, lo lasciavo ai dilettanti... Non si evade da un
cimitero; da una prigione, sì. Mi dispiaceva arrendermi. .. In strada avrei
tentato la fortuna, anche uno contro dieci. Ma gli uomini dell'anticrimine
avevano fatto un bel lavoro. Ero un tipo sportivo. Guardando Bel Faccino, le
dissi:
Gli uomini dell'anticrimine erano sempre dietro la porta, armati come per la
guerra, e io davo il mio addio in tutta tranquillità, come l'amante che parte
per un lungo viaggio... Il mio rischiava d'essere molto, molto lungo.
Broussard si spazientiva:
- Ehi, Broussard.
- Sì?
- Non ne dubito.
- No, ma se sei qui è perché mi hanno venduto. Vorrei che questo arresto te
lo guadagnassi, correndo qualche rischio.
Avevo tolto i caricatori e tirato la slitta di ogni arma per togliere il colpo
dalla canna.
E lì che si vedono i grandi sbirri... Faccia a faccia, non c'era più nemico
pubblico contro capo dell'anticrimine, ma due uomini, due duri che
sapevano il valore della parola data. Broussard correva un grande rischio,
ma si rendeva conto dell'importanza che il suo gesto assumeva ai miei
occhi. Ho sempre rispettato un avversario leale. Per strada uno dei due, il
meno rapido, avrebbe perso la vita... Ma Broussard aveva avuto il regalo
gratuito di guadagnarsi il mio arresto: la sua vita contro la parola di un
assassino. Il cittadino normale non poteva capire; lui che, con il culo al
caldo, non rischiava mai la sua pelle, cosa avrebbe potuto capire di una
storia di uomini?
Broussard era davanti a me, tutti i suoi uomini dietro. Avevo un sigaro tra le
labbra. Gli sorrisi tendendogli la mano:
- Grazie, Mesrine.
- Di che?
- Ci aspettavamo il peggio.
Poi, girandomi verso Francine alla quale avevano lasciato le mani libere:
Durante la notte avevano arrestato due miei conoscenti, tra i quali quello
che andava a farmi le puntate a Vincennes. Era venuto a casa mia, dopo le
corse in notturna, per portarmi la mia vincita. Vedendo degli uomini armati
aprirgli la porta, si era spaventato e aveva cercato di scappare. Mal gliene
incolse. Lo avevano tramortito.
Lo vidi al mio arrivo. La sua camicia era piena di sangue. Non lo salutai,
preferendo ignorarlo. Gli uomini di Leclerc mi chiesero di mettermi contro il
muro assieme all'altro e a due sbirri che servivano da figuranti, per un
confronto all'americana con il direttore della prima banca che avevo
rapinato due giorni prima. Non eravamo né puliti né rasati e spiccavamo
dall'insieme. Il direttore mi identificò. Ma ciò che mi stupì di più fu che
indicò, come uno dei miei complici, anche l'uomo che mi faceva le
scommesse. Quell'errore provocò la mia collera e mi provò ancora una volta
che qualunque cittadino può mandare in prigione un uomo per un errore
d'identificazione.
- Salve, sbirrazzo.
Arrivò «Bel faccino». Aveva il viso triste. Ci lasciarono soli, io in una specie
di gabbia, lei seduta al mio fianco. I suoi occhi si riempirono di lacrime.
- Cosa ti succederà? Non sai come soffro per te!... Se chiedo un colloquio
per venirti a trovare, lo accetteresti?
Per me era arrivata l'ora della partenza per il carcere giudiziario. La lasciai
con un ultimo bacio. Alle quattordici la liberarono. Broussard e Leclerc
avevano mantenuto la parola. Nell'ambiente della mala sapevo che certuni
contestavano i loro metodi. L'opinione degli altri non m'interessava. Per me
erano due grandi sbirri che forse si comportavano in maniera diversa di
fronte a un uomo e a uno scellerato. I grandi sbirri non si sbagliano mai a
giudicare il «loro cliente». La mala non è certo quel mondo d'onore e
d'amicizia come molti film fanno vedere. I veri uomini sono rari. In verità è
il mondo dell'imbroglio, del tradimento, del «non sai chi sono io», della
vanità smisurata, un mondo di palloni gonfiati. Senza pistola, certi duri da
cortile sono dei vigliacchi. I veri uomini li si vede in prigione, dal loro modo
di comportarsi, di saper pagare a testa alta e non faccia a terra. Se la
maggior parte delle donne vedessero i loro «uomini» in galera e come si
comportano, diventerebbero lesbiche, gli metterebbero un dito in culo e li
manderebbero a fare le commissioni. Ritornando alla Santé avrei ritrovato
questo bell'ambiente. Ero rispettato... perché ero temuto. Criticato anche...
ma sempre dietro le spalle, mai davanti. Pochi dell'ambiente apprezzavano i
miei metodi troppo diretti e sempre violenti. Ma il carcere è il regno della
mitomania, i «bravi ragazzi» stanno insieme... Gli altri si inventano degli
amici e delle azioni per darsi importanza. In prigione tutto è deformato,
circolano voci, false informazioni con l'unico scopo di insudiciare un tizio che
non vi sta simpatico. Ci si dà del bastardo a mezzanotte, ci si abbraccia a
mezzogiorno. La Santé non faceva eccezione alla regola, con il suo mondo
di delatori piazzati nei posti migliori dall'amministrazione... Si
guadagnavano tre mesi di condono per ogni denuncia... Quelli che non
avevano niente da denunciare si inventavano piani d'evasione. Era questa
razza di schifosi che temevo di più, sempre a spiare, sempre ad ascoltare,
sempre a denunciare. Vi avrei anche trovato degli amici, degli uomini veri;
ragazzi sinceri, ragazzi di latitanza come me. Il furgone mi portava verso il
mio nuovo destino e stavolta la scorta di polizia mi dimostrava che
avrebbero evitato gli errori del passato. Mi avevano ripreso, avrebbero fatto
di tutto per tenermi.
Quando le pesanti porte di metallo si richiusero dietro di me, capii che non
avrei ritrovato la mia libertà per lungo tempo. Voler evadere è una cosa,
riuscirci un'altra.
Gli scontri con il giudice spesso erano violenti. Perché oltrepassando il suo
ruolo aveva perso ogni autorità ai miei occhi. In verità, mi divertiva... Era
fatto per la canna da pesca, non per la caccia alla tigre. Diverse volte lo
avevo mandato a farsi fottere.
Le cattive notizie arrivavano una dopo l'altra. Rémy si era fatto arrestare in
Italia... Dopo l'evasione non lo avevo più rivisto. Con lui fuori avrei potuto
organizzare ogni cosa... Il suo arresto mi toglieva la possibilità di
un'evasione rapida. Era l'unico vero amico. Senza di lui o senza di me alla
loro testa, gli altri non erano che dei soldati sui quali non potevo contare
fino in fondo. Poi fu la volta di Robert... Per lui niente prigione... Un
incidente... La morte stupida al volante della sua auto lungo la strada di
Lisieux. Il destino prendeva la sua rivincita... Ma forse era meglio una morte
a 150 all'ora che la morte lenta offerta dall'amministrazione penitenziaria.
Mezzogiorno... Nella mia cella... La sua prima lettera dopo la mia evasione
in Canada. Il giudice aveva finalmente autorizzato Janou a scrivermi...
Strappai nervosamente la busta... Quella riscoperta di lei, il ritorno della
donna in carcere da più di quattro anni... Dov'era finito il nostro amore?
Davanti ai miei occhi, le prime lettere cominciarono a ballare, i «ti amo» del
passato erano declinati al presente. Nient'altro che noi due. La rilessi.
Mio caro,
"Le mie labbra si posano sulle tue... Lasciamole parlare. Hanno tante cose
da dirsi!... Lasciamole coniugare il verbo amare al passato, al presente. .. Al
futuro che un giorno sarà nostro. Amarti fino alla morte, mio amato. La tua
complice... la tua amante... la tua donna... il tuo socio. La tua Janou".
Non era cambiata. Aveva sempre quella forza di carattere che faceva di lei
una donna come ce ne sono poche. Mai un rimprovero, solo amore...
Eppure quanti anni doveva ancora farsi?... Si paga caro il fatto d'essere la
donna di un Mesrine. La giustizia ha paura delle donne che amano. L'amore
può tutto. Una donna che ama vale da sola un esercito, l'avvenire me lo
avrebbe dimostrato ancora una volta... Tramite Joyce, la piccola canadese
ritornata nel suo paese, e tramite Martine Willoquet che non conoscevo
ancora. Il vero coraggio è delle donne. La «giusta mentalità» sono le donne
ad averla. Quel tipo di donne vale cento uomini. Ma degli uomini, quelli veri,
quanti ne restano perché le donne siano ancora costrette a sacrificare la
loro vita e la libertà per «l'uomo»? Era quello l'ambiente attuale: gli
sfruttatori a far la calza e le donne con le armi.
Avevo risposto alla sua lettera. In quante mani sarebbe passata, quanti
occhi avrebbero violato i segreti dei nostri cuori in nome della censura? Non
ci appartenevamo più... Eravamo condannati a fare l'amore di fronte ai
guardoni dell'amministrazione.
Erano passati due mesi... Avevo solo un'idea in testa: tentare l'evasione.
Ero in contatto permanente con alcuni amici canadesi che erano pronti a
venire qui per tirarmi fuori se avessi trovato una soluzione. Stavolta mi
sentivo in trappola. Non avevo avuto il tempo di preparare niente come a
Compiègne... Eppure ne avevo avuto l'idea.
Sì, l'idea consisteva nel commettere, quando ero libero, una falsa
aggressione a degli amici che avrebbero ignorato chi ero. Quegli stessi amici
avrebbero denunciato il fatto descrivendomi in modo vago. In caso di un
mio arresto, avrebbero visto sui giornali la mia foto e dovevano solo
riconoscermi e andare al primo posto di polizia a segnalare la cosa; il
sistema giudiziario avrebbe fatto il resto. Automaticamente ci sarebbe stato
un confronto con i miei accusatori. Non si perquisiscono mai i testimoni
dell'accusa... Il giudice avrebbe avuto una bella sorpresa e un viaggio gratis
come prezzo della mia libertà... Ma non avevo avuto il tempo di mettere in
pratica la mia idea.
- Ah! bene.
Non gli lasciai il tempo di continuare e, avanzando verso di lui, gli feci
saltare il foglio dalle mani... Era indietreggiato. La macchina da scrivere era
sul tavolo... Con la mano sinistra l'avevo lanciata contro il muro. Lo sbirro
aveva lanciato un «Ma!...». Senza lasciargli il tempo di dire altro, lo presi
per la gola e lo piegai verso terra. Avevo fatto un mezzo giro su me stesso.
Le guardie si erano ben guardate dall'intervenire. Il capo, che era davanti
alla porta, non aveva capito niente.
- Ma l'ha picchiato...
- Sì... Non mi piacciono gli stupidi... Quello, poi, non ha neanche reagito, è
un finocchio.
Il giudice mi concesse il primo colloquio con mia madre. Non parlammo che
della morte di mio padre. Le aveva nascosto la mia ultima visita. Mia madre
era una donna di carattere, solida di fronte alle prove della vita. Avevamo
avuto dei problemi a capirci, ma era sempre stata una buona madre.
Nessun rimprovero inutile... Non si giudica il proprio figlio, ci si accontenta
di amarlo. Volevo assolutamente vedere mia figlia Sabrina, erano più di
sette anni che non la vedevo. Le avevano sempre nascosto la mia
detenzione, cosa che era stata un errore, perché così credeva che l'avessi
abbandonata. Aveva saputo tutto dai giornali e aveva fatto questa
riflessione che aveva stupito mia madre:
Il giudice istruttore mi rifiutò quel diritto con diversi pretesti. Così come mi
rifiutava i colloqui con Janou, benché il suo fascicolo fosse chiuso.
Non avevo alcun motivo per nutrire sospetti... Eppure... Quando, terminata
l'istruttoria, presi la via del ritorno, si diressero verso un'altra prigione.
Avevano approfittato della mia fiducia per trasferirmi senza rischi. Ancora
una volta i metodi classici dell'amministrazione.
Due giorni dopo, per una discussione, avevo incollato al muro una guardia.
Dieci minuti dopo, l'invisibile direttore mi fece passare in consiglio di
disciplina per violenza su uno dei suoi agenti. Incapace di guardarmi in
faccia, come una faina, blaterava sul mio caso; credeva d'intimidirmi. Gli
avevo tolto la parola, esprimendogli il fondo del mio pensiero, e lo avevo
mandato a farsi fottere. Mi aveva condannato a una pena con la
condizionale.
Ero nella mia cella quando arrivarono delle urla dalla seconda sezione. I
ragazzi tentavano qualcosa. Dalla mia finestra, ordinai ai detenuti che si
trovavano in cortile di salire sui tetti per sostenere la seconda sezione e
soprattutto che venissero ad aprirci affinché anche noi potessimo
partecipare alla rivolta. Da parte mia tentai di sfondare la mia porta. Non ci
riuscii. Erano già arrivati i celerini... Non erano ancora passati tre minuti.
Alla seconda sezione ci si picchiava. Stavo ancora tentando di sfondare la
porta quando questa si aprì. Una trentina di celerini, armati di tutto punto,
fucile in mano, pronti a picchiare e una dozzina di secondini che mi
aspettavano. Il capo dei sorveglianti mi chiamò:
- Esca, Mesrine.
- Esatto... Esca.
Uomini trattati come bestie, esseri umani, sofferenti a causa dei movimenti
del veicolo e dell'odore di benzina, che si vomitavano addosso, non avendo
posto per farlo altrove... Che non si chieda mai a un uomo, trattato in quel
modo, di avere rispetto per la società. Quei momenti non si dimenticano
mai. Non ci si stupisca che uomini trattati come cani, reagiscano poi da
cani. Quattro uomini che si vomitano addosso chiusi in una gabbia di un
metro quadrato, è così che la società, con la sua giustizia e le sue leggi,
regola i suoi conti. Ma questa realtà... viene nascosta.
Era sufficiente essere rinchiusi a Mende per capire quanto poco valore si
dovesse dare a quella dichiarazione. Ogni uomo era in completo isolamento
e sottoposto a una disciplina di ferro. Proibizione assoluta di parlare. Un'ora
al giorno di passeggio in un cortile con una grata sopra la testa, soli, con la
proibizione assoluta di parlare. Condannare un uomo al silenzio totale,
significa volere la sua distruzione mentale, spingerlo al suicidio. In cella,
proibizione di coricarsi sul letto durante la giornata. Per mangiare, solo un
cucchiaio, niente forchetta né coltello del tipo consentito nelle prigioni. Ciò
obbligava chi voleva nutrirsi a mangiare la carne con le mani e a strappare
a morsi i bocconi. Sono questi i dettagli che fanno la differenza in
detenzione. L'uomo si riduce a una bestia. Se non accetta e si rivolta è la
repressione: porta aperta a ogni abuso.
Nove giorni dopo, mi riportarono a Parigi. Avevo perso sette chili, ma il mio
pensiero andò ai ragazzi di Clairvaux che rischiavano di vivere a lungo in
quelle condizioni inaccettabili e ciò per aver avuto il coraggio di denunciare
gli abusi dell'amministrazione.
Mi riportarono alla Santé. Per tutto il viaggio ebbi come scorta motociclisti e
poliziotti armati di mitraglietta e granate. Il lato ridicolo di questa scorta
non mi sfuggiva. Un uomo solo e incatenato non può giustificare un tale
spiegamento di forze.
E dalla sua bocca uscì tutta una serie di promesse, di falsi progetti. Che ci
credesse davvero? Cercava di indorarmi la pillola? Perché la mia reazione
non era stata buona.
I miei contatti con il Canada erano costanti. Joyce mi scriveva per gridarmi
il suo amore. Era pronta a qualunque sacrificio affinché io potessi ritrovare
la libertà. Solo i miei amici canadesi potevano tentare un'azione da
commando per tirarmi fuori. Questo non era nei metodi francesi, ma in
quelli canadesi sì, soprattutto se alla testa del commando c'era il mio amico
Jean-Paul Mercier. Era detenuto in una sezione speciale del carcere di Saint-
Vincent-de-Paul vicino a Montreal. Dopo la nostra evasione dall'U.S.C. e il
suo arresto, era stato processato e, per i diversi reati che gli contestavano,
aveva preso due ergastoli e 270 anni di galera. Lizon aveva preso dieci anni
per complicità.
Joyce sapeva che non doveva aspettarsi niente da me. Ma verso di me, e
anche verso il mio amico, aveva un debito. Jean-Paul ebbe il mio consenso.
Era stato dato l'allarme generale. Arrivati fuori, i cinque erano stati
bersagliati dal fuoco delle torrette, ma erano riusciti a saltare sulla
macchina che li aspettava. Ancora una volta la determinazione aveva dato i
suoi frutti. Cinque fiere erano in libertà, cinque veri uomini. Joyce e Carole
si erano sacrificate. Per loro non era possibile alcuna fuga. Sapevano che
sarebbero rimaste prigioniere dal lato dei famigliari della sala colloqui, ma
avevano accettato di sacrificare la loro libertà. Joyce lo aveva fatto per me,
Carole per Pierre.
Furono arrestate sul posto e portate in questura per essere interrogate. Non
diedero alcuna spiegazione e rimasero in silenzio. Nonostante la caccia
all'uomo scatenata in tutto il Québec, non trovarono alcuna traccia dei
fuggitivi.
A causa della morte del mio amico, tutti i miei progetti erano compromessi.
Richard Blass, da parte sua, regolava i suoi conti a Montreal. Con l'aiuto di
Roussel, giustiziava due suoi vecchi amici che lo avevano tradito. Si
presentò al bar Gargantua, una pistola per mano e gli sparò tre colpi a
testa, davanti a tutti i clienti. A Montreal Blass era un uomo temuto e
nessuno osò andare a testimoniare contro di lui. Il tipo di detenzione che
aveva subìto, come l'avevo subìto io all'U.S.C., lo aveva trasformato in una
belva senza pietà. Eppure, io che lo avevo conosciuto bene, sapevo che
Richard era un tipo sensibile e sentimentale. Il carcere aveva ucciso
qualcosa in lui. Dai tempi della mia evasione in Québec, avevo lottato
perché migliorassero le condizioni dei detenuti. Se l'unità speciale era stata
chiusa grazie a quanto avevo fatto, qualcosa di peggiore l'aveva sostituita.
Richard Blass era libero... Scrisse una lettera aperta al procuratore generale
del Canada, Warren Allmond, per avvertirlo di lasciare che la stampa
visitasse quella fabbrica di criminali che era la sezione "Cell Block I" del
penitenziario di Saint-Vincent-de-Paul. Se non veniva fatto qualcosa, se la
popolazione si rifiutava di migliorare le condizioni di detenzione rendendosi
complice delle autorità, Blass avvisò che il sangue sarebbe stato sparso per
le strade di Montreal. Alle rimostranze di Blass, il procuratore generale fece
orecchie da mercante... e il sangue si sparse come mai prima nella
metropoli. Blass tornò al Gargantua con uno dei suoi amici. Bloccò tutti,
fece uscire le persone che conosceva e chiuse gli altri in cantina. Il padrone
del Gargantua era un ex sbirro. Blass gli sparò un colpo al cuore. E allora,
come vendetta per tutto quello che la società gli aveva fatto, commise il
peggior crimine che Montreal avesse mai visto. Riempì di benzina la cantina
e le diede fuoco. Freddamente mandò a morte dodici persone, più lo sbirro
giustiziato... Blass, come risposta al silenzio del procuratore generale,
assassinò tredici persone.
Il Canada inorridì per quel massacro, ma cercò di capire come si era potuto
arrivare a quel punto. I giornalisti, finalmente, visitarono il "Cell Block I" e
capirono che detenere uomini in quelle condizioni significava o spingerli al
suicidio o trasformarli in pazzi criminali... Tredici innocenti ne avevano
pagato il prezzo... Roussel non aveva partecipato a quel massacro, ne ero
certo... Qualche tempo dopo, circondato dalla polizia, si arrese.
Nella mia cella della Santé, la situazione era migliorata. Ogni fine settimana
avevo diritto alla televisione, per compensare il cinema cui avevano diritto
gli altri detenuti. Mi avevano messo in una cella con la finestra e all'interno
dell'isolamento avevano costruito una saletta per i colloqui con gli avvocati.
Insomma, avevano costruito una prigione nella prigione. Non avevo alcun
problema con le mie guardie che erano selezionate tra le migliori.
Nell'insieme, avevo a che fare con dei tipi per bene, corretti, che facevano
di tutto per rendermi meno pesante l'isolamento. Da parte mia, non li
provocavo, non avendo assolutamente niente da rimproverargli né niente
da dover dimostrare.
Non la vedevo dalla mia evasione dall'U.S.C. Lei era la stessa, ma leggevo
sul suo volto tutte le sofferenze che aveva sopportato. I suoi capelli
avevano cominciato a ingrigire come per testimoniare gli anni di prigione.
Erano cinque anni e mezzo che era in carcere. Il giudice istruttore le
rifiutava la libertà provvisoria. Eppure, che cosa le contestavano?...
Nient'altro che la rapina all'industriale di Chamonix, e la storia era di otto
anni prima. In caso di libertà provvisoria non c'era neanche il pericolo
dell'inquinamento delle prove, perché l'industriale era morto di morte
naturale da più di dieci mesi. Le stavano facendo scontare la custodia
cautelare come acconto su una possibile condanna... In realtà le stavano
facendo pagare il mio nome... Le facevano pagare il suo amore per me. Al
contrario, colui che mi aveva denunciato agli sbirri, Pierre Verheyden, come
ricompensa per la sua delazione, era stato posto in libertà provvisoria dopo
un anno di carcere. Chi mi aveva affittato l'appartamento era stato prima
incarcerato e poi messo in libertà provvisoria, ma si era impiccato in un
garage dopo tre giorni... Forse aveva avuto dei rimorsi per non essersi
comportato bene con gli sbirri? Il giudice forse sperava che succedesse la
stessa cosa a Verheyden. Quello, me lo tenevo per me... Nessuno doveva
toccarlo. Nell'attesa viveva come un uomo braccato, con la paura che gli
attanagliava le viscere... Ogni donna che incontrava poteva essere una
trappola per portarlo al macello, ogni nuovo amico poteva essere colui che
era incaricato di giustiziarlo... Viveva nel terrore, come tutti i cani della sua
razza.
Con Janou, il nostro colloquio era fatto solo d'amore... Lei sarebbe stata
messa in libertà provvisoria nell'ottobre del 1976, dopo sette anni e tre
mesi di carcere.
- Che cosa...
Non gli lasciai il tempo di dire altro. Avevo il mio cucchiaio in mano... Il mio
braccio si distese, il manico del cucchiaio gli entrò nella mascella destra, gli
spaccò due molari e gli tagliò un pezzo di lingua. Esterrefatto, guardava il
mio sguardo freddo. Ruppi il cucchiaio lasciandogli in bocca il manico.
Nessuna guardia si era mossa... Gli avevo girato le spalle ed ero tornato in
cella.
Uno per uno controllò tutti i dettagli... Gli avevo fornito le armi che gli
mancavano. Il nostro compito era semplice e l'azione doveva essere
precisa. Martine si sarebbe presentata vestita da avvocato con due rivoltelle
in borsa; avrebbe brandito la granata, minacciando di far saltare tutti e
tutto, e avrebbe passato le pistole a Charlie che, rapidamente, avrebbe
neutralizzato i giudici e il procuratore ammanettandoli insieme. Doveva poi
barricarsi con loro in una stanza e chiedere che mi facessero arrivare, sotto
la minaccia di giustiziare uno dei giudici. La granata era la garanzia di
riuscita, perché né l'anticrimine né i tiratori scelti potevano tentare alcunché
senza far saltare il giudice e il procuratore. Avevo avvertito Charlie che
bisognava giocare duro, perché non c'era da aspettarsi alcuna grazia né
bisognava concederla. Gli avevo anche detto che se si servivano di me
come scudo per avvicinarlo, di aprire lo stesso il fuoco... Ero certo della
riuscita. Mi assicurò che tutto sarebbe stato fatto come previsto. Da parte
mia, una volta fuori, gli avrei dato tutto il mio aiuto perché potesse
rifugiarsi negli Stati Uniti da amici che, oltre a fornirgli documenti e
nascondigli, lo avrebbero preso come socio nei loro affari, poiché l'evasione
sarebbe stata un buon biglietto da visita. Come due amici facevamo già
progetti per il futuro. Non avevo alcun motivo per dubitare della sua parola.
Tutto era pronto... Non restava che aspettare. La fortuna volle che
andassimo entrambi in tribunale lo stesso giorno, ma solo per un'istruttoria.
Riuscii a farmi mettere nella sua stessa cella.
L'8 luglio, alle undici del mattino, mi misi un'ultima volta in contatto con lui
e gli passai le mie ultime istruzioni scritte. Lo sostenni dicendogli che ero
certo della sua riuscita. Charlie era temibile nell'azione. Lo avvisai che i
gendarmi erano gente pronta a sacrificare la vita per il dovere, lo avevo
constatato a Compiègne... Alle undici e mezza, Charlie terminava una
partita di pallavolo dicendo ai suoi compagni che avrebbe preferito lasciare
per l'indomani il quindicesimo punto.
Passò vicino alla finestra della mia cella. I nostri sguardi s'incrociarono.
Mi sorrise.
- A presto.
Per mesi avevo aspettato quel giorno... Per ore avevo preparato, insieme a
Charlie, l'azione, eppure... Mi diceva «a presto», ben sapendo che non
aveva nessuna intenzione di farmi andare con lui.
Mi aveva nascosto ciò che gli aveva fatto cambiare i suoi progetti.
Brandiva una granata. Si avvicinò alla gabbia degli imputati e passò una
pistola e un paio di manette al marito che saltò sul presidente e, come
avevo fatto io a Compiègne, gli puntò l'arma alla nuca. Charlie ordinò di far
sgombrare l'aula. Nel tribunale ormai c'era il panico... Poi ammanettò
insieme i due magistrati e si diresse verso l'uscita riparandosi dietro il
presidente Cozette e il sostituto Michel. Martine seguiva tenendo ben salda
la bomba a mano. L'allarme era stato dato. Il comandante Guillaume, capo
delle guardie, si parò davanti a Charlie per fermarlo. Non aveva armi con
sé... Charlie sparò un colpo in aria. Il comandante gli si avvicinò ancora per
saltargli addosso... Due spari... Il comandante Guillaume crollò al suolo,
colpito da due colpi in pancia. Nello stesso momento l'agente Germano saltò
addosso a Willoquet. Questi, senza girarsi, puntò l'arma sopra la spalla e
sparò... Germano cadde con un colpo in testa. Nel corridoio tutti urlavano.
Charlie approfittò della confusione per arrivare all'uscita. Una Fiat 126 lo
aspettava. Obbligò i due magistrati a salire dietro. Martine salì davanti
sempre con la bomba senza sicura... Charlie prese il volante e partì di
volata...
Nella mia cella, seppi dell'evasione da un notiziario della radio. La mia prima
reazione fu di felicitarmi per quell'azione di commando, ma subito mi resi
conto che Charlie mi aveva ingannato... I patti devono essere rispettati...
Nella vita, bisogna comportarsi coerentemente o non prendere impegni...
Malgrado tutto, avevo un'ultima speranza apprendendo che aveva sempre i
due magistrati in ostaggio... Se avesse chiesto la mia liberazione in cambio
della loro vita, subito, a caldo, soprattutto dopo aver abbattuto due
gendarmi, ero certo che le autorità non avrebbero avuto altra soluzione che
rilasciarmi. Ma anche ora, benché libero, Charlie non si preoccupò di me.
Libero, tornò a essere un egoista che fa passare i suoi interessi davanti
all'amicizia, davanti ai suoi impegni di uomo. Seppi che i magistrati erano
stati rilasciati... Charlie aveva appena buttato le chiavi che potevano aprire
le porte della mia cella... Mi resi conto che a suo riguardo mi ero sbagliato e
che, se le sue azioni e il suo coraggio potevano suscitare la mia
ammirazione, non era lo stesso per la sua mentalità e i suoi principi. Perché
non si prendono impegni con una persona seria che altrimenti dovrebbe
terminare in prigione la propria vita, non si dà una falsa speranza e non si
bara con l'amicizia. Fuori, i miei amici avrebbero dovuto aiutarlo. Non c'era
neppure da pensarlo. Se Charlie non mi doveva niente, neanche io gli
dovevo niente.
Al contrario, ero felice per Martine, che aveva appena ritrovato qualche
istante di felicità tra le sue braccia. Ancora una volta era la donna a essersi
comportata da uomo.
Passarono due mesi... All'esterno Charlie aveva trovato un aiuto limitato...
Senza soldi, senza tanti soldi, non è possibile alcuna latitanza... Non avevo
sue notizie, allorché un mio amico incarcerato a Fleury-Mérogis mi fece
sapere che aveva preso contatto con lui. Charlie mi chiese istruzioni per
organizzare la mia evasione... Sul momento non ero molto entusiasta,
avendo ancora ben presente come non aveva rispettato il primo impegno.
Forse voleva riparare alla sua dimenticanza... Sapevo che mi stimava molto.
Inoltre, sapeva che, con me libero, era certo di potersi rifugiare negli Stati
Uniti... Malgrado il mio rancore, gli feci sapere che ero d'accordo per fargli
avere un piano d'evasione completo... Stavolta ero pronto a tutto.
Vedevo la cosa da due punti di vista: il lavoro che doveva fare Charlie e
quello che dovevano fare i miei amici canadesi. Presi contatto con Montreal.
Due canadesi erano d'accordo per venire a Parigi e aiutare Willoquet il
giorno dell'azione. Lasciavo a Charlie il compito di preparare tutto prima del
loro arrivo. I miei amici non conoscevano la Francia e avevano bisogno di
essere guidati. Credevo, a torto, che Charlie avesse amici seri e soldi.
Alla fine di settembre, gli feci arrivare un piano completo con tutti i dettagli
e gli errori da non commettere. Pianificavo il sequestro di due personalità,
un alto magistrato e un uomo politico dell'opposizione. A tal proposito avevo
delle informazioni approfondite perché tutto andasse liscio, ma gliele avrei
comunicate solo quando avesse terminato i primi preparativi. La mia scelta
di un uomo dell'opposizione non aveva niente a che fare con le mie opinioni
politiche. Era il frutto di un calcolo ben preciso. Il governo era responsabile
dell'evasione di Willoquet e degli atti che poteva commettere. Non potevano
lasciare morire un membro dell'opposizione senza provocare uno scandalo
politico. D'altra parte, l'opposizione non poteva rimproverare al governo il
fatto di avermi reso la libertà in cambio della vita di uno dei suoi.
Charlie doveva tenere i due uomini in un luogo che io ignoravo. Sapevo che
una tale azione avrebbe provocato la forte reazione del ministero degli
Interni. Certo, non dovevo aspettarmi regali... Ma ero pronto a correre il
rischio. Alla fine della strada c'era o una palla in testa o la ghigliottina o la
libertà. Se fossi stato io a essere libero sapevo che sarei riuscito a condurre
a buon fine una tale operazione. Charlie ne sarebbe stato capace? Perché
bisognava andare fino in fondo!
Una volta rapiti i due uomini e messili al sicuro, Charlie doveva portare una
lettera a un avvocato conosciuto che, da parte sua, doveva consegnarla al
procuratore generale. Questa lettera conteneva i miei ordini, da eseguire
entro ventiquattro ore. Dopo averla ricevuta, il procuratore generale doveva
mettersi in contatto con me. Da parte mia, seguendo un codice, avrei
avvisato Charlie degli sviluppi tramite una radio. Avevo scelto Europa N° 1.
Tre messaggi precisi dovevano essere sufficienti per capire esattamente a
che punto era l'azione. Se il mio primo messaggio non era letto entro sei
ore dopo che il procuratore generale aveva ricevuto la lettera, Charlie
doveva telefonare a Europa N° 1 tramite il telefono rosso e annunciare il
sequestro politico e le condizioni. Ciò per evitare che scendesse il silenzio
sulla faccenda. Se, in uno solo dei miei messaggi, un qualsiasi colore
seguiva la frase, era il segnale che annunciava il rifiuto delle autorità a
cedere. Il magistrato doveva essere affidato a uno dei miei amici canadesi,
messo nel portabagagli di un'auto, portato in un garage sotterraneo ben
preciso e giustiziato a mo' di risposta alle autorità. Gli amici che dovevo far
venire non erano tipi sentimentali. Sapevo con certezza che in caso di rifiuto
il magistrato sarebbe stato giustiziato. Così Charlie doveva dare a Europa
N° 1 l'indirizzo del parcheggio e annunciare quanto tempo restava delle
ventiquattro ore. Ero sicuro che le autorità si sarebbero spaventate. L'unico
bluff era che non avrei mai giustiziato un uomo dell'opposizione. Sapevo
che il governo avrebbe ceduto. Si cede sempre di fronte alla
determinazione. Prima del mio isolamento completo in detenzione, non
avrei mai pensato di fare un sequestro politico. Ma non ero anch'io ostaggio
dell'amministrazione penitenziaria? Mi rifiutavano, come a molti altri
ingabbiati nei centri di massima sicurezza, condizioni normali di detenzione
e, se organizzavo freddamente l'esecuzione di un magistrato, era perché
sovente quegli stessi magistrati si facevano complici indiretti degli abusi
dell'amministrazione penitenziaria, chiudendo gli occhi sulle nostre verità.
Con questo isolamento volevano trasformarmi in belva. E io come una belva
reagivo.
Non avendo sue notizie, capii che ancora una volta il mio piano era in alto
mare. Avrei aspettato fino alla fine del mese per annullare i preparativi dei
miei amici. Nessuno di loro voleva incontrare Charlie per timore di portarsi
dietro gli sbirri, cosa sempre possibile. Mi misi ad attendere, furioso e
disilluso... Perché a quel progetto ci credevo.
Sapere che Martine era sul selciato, ferita, vittima del suo amore, mi
sconvolse. Ammiravo quella donna per il suo coraggio, per il suo carattere.
In tempo di guerra la sua azione al palazzo di giustizia avrebbe suscitato
l'ammirazione di tutti... In tutte le prigioni di Francia, il suo nome era
pronunciato con rispetto, perché lei era «una donna di rispetto».
Come aveva potuto commettere una tale imprudenza non distruggendo tutti
i fogli dopo averli studiati? Capivo che non aveva mai avuto l'intenzione di
realizzare il mio progetto. In realtà era troppo grosso per lui. Per passare
dal progetto all'azione ci voleva una forte determinazione. Willoquet era
forse un killer pericoloso, ma non un organizzatore... Forse si era messo in
contatto con me solo per giustificare un aiuto problematico o il rimorso di
non aver mantenuto i suoi impegni il giorno dell'evasione. Non gliene volevo
neanche per quello. Per me l'unica cosa che contava era la salute di Martine
e il dolore che doveva provare, con lui braccato come una belva.
Si era parlato di migliorie nelle prigioni francesi. In realtà, dopo le rivolte del
1974, sulle persone condannate a lunghe pene o che potevano esserlo, la
repressione era totale. Nessuno può scappare dalla Santé. Da quando
esiste, che io sappia, nessuno ne ha mai scavalcato le mura.
Riscoprire il proprio figlio è come rinascere. Lei era davanti a me, separata
da un vetro infrangibile. La trovavo di una bellezza commovente.
Fisicamente era come l'avevo immaginata. Quando i nostri occhi
s'incrociarono, nascose il viso tra le mani e si mise a singhiozzare. La
guardavo in silenzio, ma avevo capito che la mia condanna cominciava quel
giorno. Lei avrebbe rappresentato i miei rimpianti per non essere stato lì a
educarla. Sollevò la testa e con voce timida pronunciò le sue prime parole
che mi avrebbero commosso come i suoi primi passi:
Non poté dire di più e ricadde nella sua malinconia che si mischiava alla
gioia di rivedermi. E poi le sue labbra mi raccontarono tutto ciò che aveva
vissuto lontano da me. Nessun rimprovero, ma frasi dette innocentemente
che facevano male come un pugno in faccia. Mi chiese di poter venire ogni
settimana, poi aggiunse:
- Spero, paparino caro, che non scapperai più... Adesso che ti ho ritrovato
non voglio più perderti.
Alla sua riflessione avevo sorriso, ma rischiava d'essere la catena che mi
avrebbe tenuto dentro. Ci lasciammo con la promessa di rivederci quanto
prima.
- Era un tuo amico, papà... Li metterò da parte tua. Joyce mi porterà alla
tomba... Dirò una preghiera per lui.
Siccome a scuola non era certo tra le prime della classe, le risposi che avrei
avuto tutto il tempo di terminare la pena prima che si laureasse. E poi
eravamo scoppiati a ridere tutti e due. Il mio avvenire era fosco, ma, con
lei, avevo il sole nel cuore. Mi parlava di Janou e sperava che venisse
liberata presto per poter andare a vivere con lei. La giustizia, però, le
rifiutava la libertà provvisoria. Era al settimo anno di reclusione.
- Non so se te lo devo dire, papà. Ero andata al cimitero dal tuo amico, ma
dopo che è morto si sono rifiutati di restituirne il corpo alla famiglia. E'
sepolto nel cimitero dei detenuti del penitenziario di Saint-Vincent-de-Paul.
Ci sono andata, non c'era alcuna tomba. Una guardia mi ha detto che lo
avevano messo in una scatola, senza nome, solo un numero. Ho cercato il
numero... Ero triste, ma non l'ho trovato. Poteva anche essere che fosse lì a
fianco e io non lo sapevo... Allora ho preso i miei fiori e li ho sparsi attorno,
a caso. Li ho messi dappertutto... Dove ero, potevo vedere il penitenziario.
Ho pensato che ci avevi vissuto, che anche il tuo amico c'era vissuto e che
anche nella morte vi era ancora prigioniero. Allora ho pianto...
"Cosa importa la mia sentenza... Non sarà che la conseguenza della vita che
volontariamente ho scelto di condurre. Dì fronte ai miei giudici non
abbasserò il capo. Mi assumerò tutte le mie responsabilità accettando di
pagarne il prezzo.
Con questo libro mi sono condannato da solo. E' la mia peggiore difesa.
Scrivendolo non ho voluto barare. Per dura che sia la mia verità, non ho
paura di guardarla in faccia. In che momento della mia vita sono diventato
quel che sono oggi? Lo ignoro. Che frattura si è prodotta in me per arrivare
a non rispettare più la vita? Forse qualcuno mi troverà delle scuse?... Io non
ne trovo. Non voglio fare il processo alla società; mi accontento di fare il
mio; a volte l'uomo è il proprio miglior giudice. So che le porte della libertà
resteranno chiuse per sempre. Preferirei la morte... e tuttavia mi piace
vivere.
Fin da piccolo i miei occhi si sono aperti sulla morte e sulla violenza. Ho
subìto la guerra che si facevano gli adulti in nome delle libertà.
Nell'azione sono sempre stato il primo. I miei veri amici hanno sempre
potuto contare su di me. Non ho mai mancato un appuntamento.
Per due volte nella mia vita, prima di arrivare al punto di non ritorno, ho
voluto cambiare strada e ritornare nella società e nelle sue leggi. Ho fallito,
perché un uomo che esce dalla prigione ne resta segnato a vita, qualunque
cosa faccia per reinserirsi. La società è vendicativa... Un pregiudicato non si
libera mai del suo debito, anche dopo averlo pagato... Gli impongono il
divieto di soggiorno, gli tolgono il diritto di voto, ma gli faranno pagare le
tasse e lo mobiliteranno in caso di guerra. Gli riconosceranno il diritto di
pagare e di morire per il suo paese... ma non quello di scegliere il genere di
società nella quale vuole vivere. Castrato nei suoi diritti civili, resterà
sempre un «ex galeotto». L'uomo al quale si rifiuta il diritto di decisione è
un uomo a metà. Si sottometterà o si rivolterà.
L'ISOLAMENTO
"Sissignora!
Cammina avanti e indietro, per migliaia di passi che non portano da
nessuna parte
Il suo pasto gli viene fatto scivolare sotto una griglia a terra
Perché vi rattristate?
Ed ecco un errore...
E' in prigione.
E' colui che i vostri pari hanno così bene condannato
Fleury-Mérogis
Un giorno di settembre del 1976 in cui esistevo così poco che non ero
neanche «nessuno».
MESRINE
***
ANNESSI.
J.M.: Cerco di mantenere la mia libertà. Per il resto, una parte la conoscete:
la rapina di Deauville, quella di Drancy e infine Petit... Deauville non si può
chiamare una gran storia perché, purtroppo, due persone sono state ferite.
Personalmente dubito che siano state le mie pallottole. Così come non sono
stato io a colpire la donna che si trovava lì. Nel momento in cui è successo,
ero a 80 metri almeno. Penso che i feriti siano stati colpiti dalle pallottole
della polizia, ma questa è un'altra questione...
E poi devo dirvi comunque una cosa un po' dura. Non sono mai andato da
Petit per rapirlo. A titolo personale, andavo da Petit per ucciderlo. Le
circostanze gli hanno dato l'occasione della sua vita. Non voleva essere un
omicidio politico. Semplicemente, ritengo che un magistrato che, dopo aver
condannato un uomo, non segue le sentenze che ha emesso, sia un
truffatore della giustizia. Oggi la pubblica opinione è totalmente indifferente
al problema degli speciali: io so che, attaccando i magistrati e attraverso di
essi la sacrosanta magistratura, si dà uno scossone. Almeno la gente si
pone il problema degli speciali. Bisogna capire che la maggior parte dei
detenuti, che siano o no del mestiere, accetta il principio di una sentenza,
ma non la maggior parte delle sentenze che sono sproporzionate ai delitti
commessi. Inoltre non accettano, una volta condannati, di essere sottoposti
a una condanna aggiuntiva. E' una truffa e un inganno, e se i giurati
sapessero esattamente di condannare anche alla massima sicurezza, la loro
sentenza sarebbe forse minore. Si sa, la massima sicurezza è una condanna
moltiplicata, dal punto di vista fisico, psichico, morale... Ecco perché ho
attaccato Petit. E' un problema che mi tocca da vicino. Ho lottato contro gli
speciali quando ero dentro e ritengo di non dover tradire, una volta libero,
ciò che ero e volevo. E continuerò a lottare.
Libération: Non pensa che se avesse ucciso il giudice Petit non sarebbe più
un uomo che lotta contro gli speciali ma semplicemente un assassino? Alla
gente non piacciono gli assassini.
Capisce, l'odio l'ho imparato negli speciali... Eppure uccidere Petit non era
soltanto una vendetta: aveva lo scopo di far venir fuori un gran casino... Il
destino non ha voluto che facessi quell'errore. So benissimo infatti che dal
punto di vista politico sarebbe stato un errore. Infatti il governo lo avrebbe
utilizzato. Per rafforzare la polizia. Per rinchiudere la mia azione in un
terrorismo i cui effetti avrebbero distrutto l'obiettivo che mi ero prefissato.
Ora so che se devo agire, lo farò senza utilizzare questo tipo di violenza. Ma
capitemi... In certi casi, se un uomo è sovrastato dal suo stesso odio, le sue
azioni lo possono portare al di là di quello che realmente vuole fare. Quello
che voglio io, è far capire il problema delle carceri di massima sicurezza.
Forse farò degli errori, ma l'importante è che se ne parli. Io non ho una
formazione politica. Ho una formazione da combattente. Non scordate che
mi hanno insegnato la lotta nei commandos e che, in quelle situazioni, non
si bada alla vita umana. E' bello venirmi a raccontare della vita umana, ma
quando ho combattuto in Algeria la vita umana non aveva la stessa
importanza. Allora avevo soltanto vent'anni. Ora tutti hanno in bocca la vita
umana... La vita umana... Complimenti. Ma per me la vita di un giudice non
vale più di quella di un detenuto. Dei detenuti che vengono moralmente
distrutti. Io sono stato distrutto. Mi hanno fatto nascere un odio che non
avevo. Sono andato dal giudice Petit con l'odio dentro.
E' lì che ho visto Broussard. Era nel piccolo bistrot vicino all'Impasse Saint
François. Aveva un giaccone beige e dei guanti, un'antenna di walkie-talkie
sbucava dalla tasca sinistra... Ho sorriso. Mi cercavano all'Impasse Saint
François e io ero dietro di loro. Se avessi voluto farli fuori, non ci sarebbe
stato alcun problema. Non l'ho fatto. In ogni caso, tutti i miei rifugi sono
stati bruciati: i due alloggi e il parcheggio in cui avevo un'auto che veniva
dal Lussemburgo e una Honda 750. Se ho fatto sparire la 750, è
semplicemente per far credere loro che la utilizzavo. In realtà, l'ho
imboscata da qualche parte e non la toccherò mai più.
Coupé non avrebbe dovuto essere trascinato nell'affare Petit. Intanto, non
sapeva che volevo uccidere il giudice. Pensava che volessi semplicemente
rapirlo perché non gli avevo parlato delle mie reali intenzioni. Quando mi
sono messo in moto con questa azione, mi ha detto: «Voglio partecipare».
Ma non era pronto per un'azione come quella. Nel momento in cui le cose si
sono messe male, si è comportato come un bambino. Ecco perché penso
debba essere giudicato come un bambino. Se ce l'ho con lui? Certo, e non
posso parlar bene di lui. Eppure è proprio il tipo cui vanno date le
attenuanti. Qualcuno ha detto che è una vittima di Mesrine. Lo ammetto,
perché effettivamente un uomo con una certa personalità può influenzare
un debole. Soltanto ora me ne rendo conto, benché io sia comunque
disgustato dal suo comportamento... Ma quali sono stati i metodi della
polizia? Non li conosciamo. E' stato pestato? Sì, secondo le mie
informazioni. E' stato drogato? Quello che succede in questura non si sa. Si
può tuttavia pensare che sia stato messo in una situazione psicologica che
ne ha fatto un delatore. Ma se Coupé è un delatore, non è un informatore,
c'è una differenza. Delatore è qualcuno a cui crollano i nervi nelle mani dei
poliziotti. Un informatore è un sfottuto bastardo che vende qualcuno in
cambio di denaro o di favori. Coupé non è un informatore. E' un tizio che si
è comportato male, e purtroppo per lui quando ci si comporta male il fatto
rimane per sempre... Anche se, alla fine dei conti, è una vittima della
società.
Libération: Non è lei il responsabile? Si è anche detto che Rives è morto a
causa sua. Che la giornalista Isabelle de Wangen ha avuto dei guai per
causa sua...
J.M.: Il piccolo Rives non è morto per causa mia. Rives è morto in un'azione
commessa insieme a me. Rives era un tipo che non accettava il carcere a
vita cui era stato condannato. Avremmo potuto andar via senza di lui: ci
avremmo anche guadagnato due o tre minuti. Ma non si poteva lasciare un
tizio che scontava l'ergastolo in condizioni pietose perché era nel braccio
speciale. Quando è iniziata la nostra azione, ha cominciato a battere sulla
porta della sua cella... Non lo potevamo lasciare là. E Rives è morto sui muri
della ronda. Come un uomo. Quando si fa un'evasione come la nostra, c'è
pericolo di morire. Potevano essere Besse o Mesrine a morire. E' stato
Rives. E' un peccato, ma non ci si può fare niente...
Nelle nostre azioni, ci sono dei pericoli. Se domani vado a fare una rapina
con un Rossi o con un Bianchi e mi faccio ammazzare, non si può dire che il
responsabile sia Rossi o Bianchi. Quando si compiono azioni violente si
rischia di morire violentemente. E' una logica semplice. Per quanto riguarda
Isabelle de Wangen, è una giornalista che ha corso i rischi della sua
professione ed è lo Stato che, non rispettando il segreto professionale dei
giornalisti, è responsabile dei suoi guai. Non io. Ha fatto un'azione
giornalistica che molti suoi colleghi avrebbero voluto fare e non hanno fatto,
e c'è una certa invidia nei suoi confronti, anche perché è una donna...
J.M.: Credo che gli abbiano fatto leggere delle false dichiarazioni di Isabelle
de Wangen facendogli credere che lei avesse detto questo. Siccome doveva
essere piuttosto scosso, ha firmato qualsiasi cosa. Io, se vuole, domani
faccio firmare qualsiasi cosa ai giudici Petit e Ullman. Mi basta averli fra le
mani per 24 ore e, anche senza violenza, gli faccio firmare quello che
voglio. Non bisogna scordare poi che Coupé è un ex tossico ed è quindi
psicologicamente più debole...
J.M.: Io non uso i mass media: il fatto è che i mass media non esitano a
infangarmi e a infangare l'azione che porto avanti. Il diritto di replica esiste.
E io lo utilizzo. Se si parla di me, perché io non dovrei avere il diritto di
rispondere? E' troppo facile scrivere porcherie e diffondere false
informazioni sul mio conto... Non sono né un giustiziere, né un eroe... Sono
un uomo d'azione non troppo scemo che compie azioni che non tutti
compirebbero. Quando "France-Soir" o "Paris-Match" pubblicano titoloni su
di me, ci guadagnano dei soldi, e non sono io a metterli in tasca. In fin dei
conti, sono diventato un nuovo prodotto commerciale, e hanno torto. Perché
non sono un buon prodotto per i valori che difendono.
Per quanto riguarda le mie lettere al giornale "Le Matin", non erano intese a
giustificarmi, ma a ristabilire la verità su un certo numero di fatti che erano
stati nascosti o deformati dalla stampa di destra. In particolare si era
omesso di precisare che avevo fatto prigioniero un poliziotto. Che gli avevo
messo le manette. Che gli avevo sequestrato l'arma. Ero ben lontano dal
ritratto dell'assassino che spara a ogni piè sospinto. Invece di conficcargli
una pallottola in testa, ho perso tempo per farlo prigioniero. La polizia non
mi avrebbe certo fatto lo stesso regalo. La mia violenza forse non è quella
che si crede. Sono violento quando non posso farne a meno.
Libération: Alcuni pensano che la sua evasione o quello che ha fatto dal
giudice Petit non aiuti i detenuti, anzi nuoccia loro. In realtà, invece di
lottare contro gli speciali, non li rafforza rispondendo all'immagine del
«pericoloso gangster irrecuperabile» di cui parla il governo?
J.M.: Che deve fare uno che è rinchiuso in uno speciale? Accettare? Star
zitto? Lasciarsi umiliare? Lasciarsi disumanizzare? Lasciarsi distruggere?
Stare fermo? Quando uno evade da uno speciale basato sulla sicurezza e
teoricamente creato per evitare le evasioni, dimostra che la massima
sicurezza non serve a niente. Ne è la prova... Prima di evadere dalla Santé,
lo avevo già fatto in Canada. Sono evaso da un carcere di massima
sicurezza chiamato «Unità speciale di pena»: uno stabilimento concepito
dagli architetti proprio per evitare le evasioni. Siamo usciti in sei... Con
l'evasione voglio innanzi tutto riprendermi la mia libertà. Se i detenuti
incominciano a pensare: se evado ciò nuocerà agli altri, più nessuno
evaderebbe. Ma l'evasione è un diritto di qualsiasi uomo recluso.
L'Amministrazione penitenziaria ha soltanto da creare un clima tale che i
detenuti pensino ad altro che ad evadere. Quando i detenuti penseranno
che la reclusione può portare loro altro che l'odio, cercheranno di riabilitarsi.
Si sa, più si colpisce una persona moralmente, più la persona diventa dura.
Ci sono persone che sono state distrutte dall'Amministrazione penitenziaria:
si pensi a Georges Segard... Anche se ha conservato la sua personalità, è
stato distrutto dal carcere. Io non ho accettato questa distruzione. Malgrado
le mie cinque guardie, malgrado le perquisizioni quotidiane, malgrado il
supercontrollo, ho dimostrato che si può sempre evadere. E evadere dalla
Santé non è uno scherzo... Il responsabile dell'Amministrazione
penitenziaria Dablanc non si faccia illusioni, si potrà sempre evadere.
Possono creare altri centri di massima sicurezza. Ci sarà sempre una
risposta. E' come il judo: c'è la presa e la contropresa. Anche se
costruiscono supercarceri, ci saranno sempre uomini che troveranno il modo
di evaderne. Non scordate che resta sempre un minimo di contatto umano,
ci sono rapporti umani possibili... Nulla prova che la guardia di oggi non
sarà un tuo alleato domani. La guardia accetta di controllare l'uomo, ma
non accetta automaticamente la repressione di cui gli si impone di essere
l'agente. Ci sono degli stronzi fra le guardie, ma ci sono anche brave
persone. Disoccupati che sono diventati sorveglianti non potendo fare altro.
D'altra parte, se si dice che i detenuti in molti casi hanno subìto i
contraccolpi della mia evasione, non me ne importa. Quando abbiamo fatto
l'ultimo grande sciopero della fame contro gli speciali, siamo stati in 650 a
farlo su 3300 detenuti. Perciò dell'opinione di migliaia di detenuti che
tacciono... che usano i permessi... che leccano il culo ai direttori per
incontrare le mogli... me ne fotto. Il permesso è una trappola per fessi. La
catena nella catena.
Libération: In più occasioni lei ha annunciato una serie di azioni contro gli
speciali. Nella sua lettera a "Le Matin", dopo l'affare Petit, ha dichiarato che
era soltanto l'inizio. Che cosa ha intenzione di fare?
J.M.: Infatti non è finita perché un'azione del genere non si può lasciar
perdere. Peyrefitte o Dablanc devono capire. Non mi aspetto molto da
Peyrefitte, per il quale non ho alcun rispetto. Lo considero un incosciente,
un uomo del passato. E' forse uno scrittore di semi-talento, ma per quanto
riguarda la giustizia è un uomo al di fuori dei problemi. Dablanc dovrebbe
prendere coscienza veramente del problema della massima sicurezza. In
Canada, per esempio, ci sono uomini molto più pericolosi che non in
Francia. Eppure, pur essendo rinchiusi in carceri estremamente sicure,
hanno una detenzione normale. In Francia dovrebbero creare la stessa
cosa. Carceri con una sorta di regime migliorato... I detenuti non sarebbero
contrari. Quello che non accettano è l'isolamento, la repressione inutile, le
perquisizioni... Tutta questa routine amministrativa il cui scopo è
distruggere l'individuo. Quando si portano via le foto delle mogli, si
sopprimono la corrispondenza o i colloqui, si aprono le lettere indirizzate
agli avvocati... Non venite a dirmi che si tratta di sicurezza!
J.M.: No, non ci sono prigioni buone. Purtroppo la società non è stata
capace di trovare altro per combattere il banditismo e le crisi sociali. Molti
detenuti sono vittime della società. Sono molto pochi i cosiddetti
«professionisti del crimine». Purtroppo io ne faccio parte e questo mi
dovrebbe impedire perfino di prendere la parola in nome degli altri. Ma
posso permettermi di dire meglio di chiunque altro che molti ladruncoli non
hanno motivo di stare in prigione. Vedo persone che entrano in carcere per
dieci, quindici, vent'anni, mentre sono soprattutto vittime della società. Io
non lo sono. Oggi sono piuttosto uno strumento della società per giustificare
la repressione...
J.M.: Se Peyrefitte e Dablanc non vogliono fare niente, che altri strumenti
ho a parte la violenza? Se voglio creare un fenomeno di violenza, posso
farlo quando mi pare. Posso uccidere per strada chiunque... Questo tutti lo
possono fare, ma l'opinione pubblica non lo accetterebbe... Voglio
soprattutto far capire che il pericolo peggiore per la società è accettare
l'esistenza delle carceri di massima sicurezza. Perché gli uomini che vi sono
rinchiusi diventano vendicativi. Allora che fare? Sinceramente, non oso
rispondere. Sono certo che sarebbe in contraddizione con le vostre idee. Se
occorre arrivare a versare sangue. Non dimenticate che, purtroppo, solo la
violenza è rispettata.
Libération: Non è forse una richiesta disperata? Non sta semplicemente per
dare corpo all'idea del «pericoloso gangster»?
Libération: Lei ha detto che con il suo modo di vivere e la lotta che porta
avanti contro gli speciali, rischia di morire. Che effetto le fa pensare a
queste cose?
Libération: E' veramente sincero quando dice di non aver paura di morire?
J.M.: Sì, ne conosco un mucchio. Non posso fare nomi ma conosco persone
che quando usciranno, legalmente o illegalmente, reagiranno esattamente
come me. Almeno una decina di loro faranno esattamente come me. Non
accettano che la società non si assuma le sue responsabilità e si comporti
da vile.
In conclusione, vorrei dirvi che sto bene. Sono felice. Non vivo come un
ricercato. Non si bussa alla mia porta: oltre tutto è più prudente. Posso
vivere senza discoteche, senza «baci»... Il bacio del mascalzone, questa
fregatura inventata dal milieu: ti abbraccio e ti prendo la moglie e i soldi
mentre stai in galera. Tutte queste sceneggiate che caratterizzano il milieu
in cui ho più influenza di quel che può sembrare. Almeno in un certo milieu
americano e canadese. Ma questo non mi interessa, ho superato questo
stadio. Quello che voglio è conservare la mia libertà. Per il momento, penso
che le cose non vadano male. Ho guadagnato almeno sette mesi di bara, è
già qualcosa. Ero condannato a 20 anni, sarei stato sicuramente condannato
all'ergastolo, e considerato il mio stato di salute sono quasi certo di morire
intorno ai 52/53 anni... Ho già guadagnato sette mesi di vita. Sette mesi di
felicità nel corso dei quali sono riuscito per lo meno ad attirare l'attenzione
dell'opinione pubblica sulla massima sicurezza...
Aprile 1966, nascita del secondo figlio, Boris. Mesrine continua le sue
attività criminali, sfugge a una sparatoria, regola i suoi conti e decide in
ottobre di andarsi a calmare alle Canarie, dove rileva un ristorante a Santa
Cruz di Tenerife. Si separa da Sole e raggiunge Ginevra per rapinare una
gioielleria proprio prima di Natale del '66. Qualche tempo dopo, prende in
gestione una pensione a Compiègne con la sua nuova compagna Janou
Schneider. A seguito di una rissa in cui ha steso un parà nel suo bar, di
fronte alle minacce della polizia Mesrine decide di mettere la chiave sotto la
porta e di ritornare nella proprietà di famiglia. Minacciato da due magnaccia
a causa di Janou, Mesrine li fa scomparire e parte in vacanza con la sua
compagna. Scrive che è in quel periodo che iniziano a girare
sistematicamente armati, lui e lei. Il 15 novembre 1967 vanno in un albergo
di Chamonix e ne approfittano per realizzare un furto a mano armata su un
industriale ... Il furto non frutta granché, ma Mesrine è contento del sangue
freddo della sua amica e prevede una vita di coppia ricca di ... avventure!
L'8 dicembre rapina una casa della moda a Parigi, il bottino (circa 120 mila
franchi) consente loro di fare un viaggio che li porta in Italia, Spagna,
Portogallo prima di scoprire di essere attivamente ricercato in Francia e
decidere di trasferirsi in Canada. Fuggono il 6 febbraio 1968. A luglio,
trovano rifugio in un lussuoso monolocale a Montreal. Janou lavora in un
ospedale e Mesrine ha un posto in un cantiere edile. Finito il cantiere, entra
come cuoco al servizio di un miliardario, Georges Deslauriers. Simpatizzano
e la coppia s'installa da lui, ma scoppia una lite tra Janou e il giardiniere.
Mesrine perde il posto. Disgustato di essere licenziato ogni volta che torna a
essere onesto, Mesrine rapisce Deslauriers il 12 giugno 1969 ma il colpo
fallisce e devono fuggire con tutte le polizie del Canada alle calcagna. Il 26
giugno 1969 lasciano il motel delle Trois Soeurs a Percé e varcano il
confine. Il 30 viene scoperto il corpo della padrona Evelyne Lebouthier.
Mesrine vuole raggiungere Dallas, il 16 luglio. Decidono di fare tappa a Cape
Kennedy per assistere alla partenza dell'Apollo 11. La sera stessa sono
arrestati a Dallas dalla polizia del Texas e incarcerati a Texarcana per 10
giorni. Poi Mesrine e Schneider sono estradati in Canada nel carcere di
Sainte-Jacynthe, accusati di rapimento ma anche, con loro grande stupore,
dell'omicidio di Evelyne Lebouthier. Dopo lo shock causato dalla scoperta
dell'iniquo sistema carcerario americano, Mesrine è impressionato da quello
canadese. Nella sua autobiografia dichiara: «Tutto era molto pulito. Le
guardie e la direzione ci ricevettero in maniera quasi cordiale. Mi
accordarono subito un colloquio con Janou e il diritto di telefonare a un
avvocato. Mi sembrava di sognare e il mio rispetto per i canadesi non fece
che aumentare». Il 17 agosto 1969 Mesrine e Janou evadono dal carcere.
Mesrine ha una sola idea, ritrovare chi lo accusa dell'omicidio per chiedergli
spiegazioni. Verranno riacciuffati all'indomani e rinchiusi nel penitenziario di
Saint Vincent de Paul. Janou sarà condannata a 5 anni di carcere e Mesrine
a 11, mentre vengono assolti per l'omicidio. In realtà la donna era stata
uccisa da parenti per una questione di eredità, e costoro avevano
approfittato del fatto che Mesrine era passato da quelle parti per farlo
accusare dell'omicidio. Dopo la condanna Mesrine viene inviato al carcere di
Sainte Anne des Plaines.
Vorrebbe far evadere Janou, ma lei rifiuta di fronte ai rischi che questo
comporta, è strettamente sorvegliata. Mesrine e Mercier, accompagnati da
Joyce e Lizon, vanno al Waldorf Astoria di New York, e da lì fuggono in
Venezuela, a Caracas, nell'ottobre '72. Lì simpatizzano con un poliziotto
altolocato e facilmente «corruttibile». Lizon viene ferita da un cane e deve
tornare presto a farsi curare; riparte con Mercier alla volta di Montreal.
Mesrine non li rivedrà più, Mercier sarà ucciso due anni dopo dagli sbirri.
Questa autobiografia, scritta alla Santé nel '77, è stata pubblicata da Jean
Claude Lattès ma poiché la casa editrice ha trattenuto i diritti in base a una
legge scritta appositamente, Mesrine li ha minacciati di morte e il libro è
stato ritirato. E' stato rieditato nel 1984 da Champ Libre. Poco dopo la sua
morte una casa editrice del Québec ha pubblicato una raccolta di testi
politici: "Coupable d'être innocent" (édition Stanké, 615 Boulevard
Levesque, Ouest bureau 1100, H3B 1PS Montreal).