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MALE, PERDONO E GIUSTIZIA

MALE E PERDONO
Il male che fa male e il perdono che arriva con difficoltà.

1) Prima Storia: Nel 1970-71, esce un libro che s’intitola “Il Girasole – I limiti del perdono” di Simon
Wiesenthal – che, successivamente a quanto raccontato, divenne un “cacciatore di nazisti”: si occupò
di rintracciare in giro per il mondo i gerarchi nazisti per portarli a presenziare al processo di Norimberga
–, ebreo e studente universitario, al quale capitò di essere internato in un campo di lavoro (non di
sterminio). Siamo dentro al male, dentro all’Olocausto, con una storia che lega il tema del male al
perdono. Ogni giorno, Wiesenthal usciva dal campo per fare un lavoro di pubblica utilità, sorvegliato
dalle guardie naziste; e una volta, si avvicinò alla sua ex università, che era stata nel frattempo
trasformata in un ospedale: lì un’infermiera lo chiama e gli chiede se fosse ebreo, lui risponde
positivamente. Allora l’infermiera lo porta in una stanza di ospedale, dove c’era un uomo tutto
bendato, sul punto di morte. Era un ragazzo di 24 anni, appartenente alle SS, cattolico e tedesco:
quest’ultimo aveva chiuso alcune centinaia di famiglie ebree in un caseggiato e, insieme ad altre
guardie, aveva dato fuoco a tutto (assistendo ad una serie di scene raccapriccianti: madri che gettavano
figli dalle finestre, che si gettavano loro stesse dalle finestre con in braccio i figli, nel tentativo di
salvarli). Lui voleva morire in pace e per farlo aveva bisogno del perdono degli ebrei che aveva fatto
giustiziare: non potendolo avere da coloro che aveva ucciso, lo aveva chiesto al primo che aveva
trovato. Wiesenthal non risponde, tace e se ne va. Dopo alcune settimane, appariva ai suoi compagni di
campo strano: stava pensando e ripensando a quello che gli era successo (poi, inizierà anche ad
accennare ai suoi compagni qualcosa di quello che aveva vissuto, ponendo loro la domanda di cosa
avrebbero fatto al suo posto → si faceva scrupoli che i suoi compagni non comprendevano).
Passa il tempo, la guerra finisce e Wiesenthal scrive la storia di questo perdono non dato (era andato
anche a trovare la mamma del ragazzo: racconta anche di questo episodio nel libro, tenendo conto di
tutti i dettagli “scenografici” = il dialogo è interessante: la madre sottolinea come lui fosse un bravo
ragazzo, andasse in chiesa e responsabilizza la guerra di averlo cambiato; quando poi lei inizia a porgli
delle domande, ancora una volta W tace). Prima di scriverla, la manda in lettura a persone che stimava
(Lei, al mio posto, cosa avrebbe fatto?), raccogliendo una serie di risposte (di filosofi, giornalisti,
rabbini) che vengono pubblicate insieme alla storia iniziale [il libro è, dunque, diviso in due parti: la
storia e i commenti]. Queste risposte oscillano tra due estremi: da una parte, emergeva il pensiero che
quel perdono poteva essere dato poiché in punto di morte (soprattutto da parte di cattolici: “L’amore
deve trionfare”); dall’altra, il dissenso, l’idea che quel perdono sarebbe stato falso, un’ipocrisia. Un
rabbino ebreo (tra i più famosi del ‘900) – Heschel – sottolineava come “Nessuno può perdonare un
delitto che sia stato compiuto contro altri uomini. È assurdo quindi pensare che un qualsiasi uomo
vivente possa perdonare le sofferenze di sei milioni di ebrei. Secondo la tradizione giudaica, Iddio stesso
può perdonare solo le colpe commesse contro di lui, non quelle commesse contro gli uomini” (è come
trasformare Dio in una lavatrice a gettoni). Primo Levi, invece, affermò come quel perdono, se
concesso, avrebbe incoraggiato il criminale a ripetere il crimine; addirittura, il perdono era farsi
complici. Gabriel Marcel, filosofo francese, cattolico, dà, invece, una doppia risposta (una sorta di via di
mezzo tra le due soluzioni): sì certo, forse, io al tuo posto avrei avuto un atto di pietà in punto di morte
e avrei concesso il perdono. Poi, però, sottolinea come in questo caso il perdono sarebbe stato una
menzogna, un perdono bugiardo.
Di fronte ad un male enorme e ingiustificabile, il perdono non è arrivato. Quando il male è vero e fa
male, come perdonare e cos’è il perdono? Il perdono cancella? È giusto cancellare?

2) Seconda Storia: Viktor Frankl, autore del libro “Uno psicologo nei lager”, fu prigioniero in quattro campi
di concentramento nazisti – a causa delle sue radici ebree. Egli, dunque, visse e fu osservatore di una
situazione degradata. Ma quello che riportò in seguito fu che, anche in quelle condizioni, il senso del
pudore continuava a vivere; nonostante tutto, l’umanità non veniva a meno: c’era ancora la capacità di
ridere, sorridere, fare ironia. C’era spazio per l’amore: Viktor, infatti, per esempio, era stato separato
dalla sua compagna – vennero internati in lager diversi (entrambi ebrei) – , ma l’amore di lui continuò
ad andare avanti – nonostante non sapesse se fosse ancora viva.

3) Terza Storia: Giugno 1944, Oradour-sur-Glane, paesino della Francia rurale (popolazione cattolica):
durante il periodo di occupazione nazista della Francia, si verificò una strage di civili cattolici francesi
(644 persone, parroco compreso, chiuse in chiesa e uccise), dalla quale si salvarono solo 4/5 persone.
Una donna, Camille Mairant, decide di raccontare questa storia e lo fa in modo un po’ impressionante;
fa un lavoro di giornalismo e intervista i pochi sopravvissuti: i racconti sono inquietanti, ma Camille
racconta il tutto come per salvare qualche cosa, come se ci fosse un senso in fondo alla storia (Per Dio
avrà un senso: forse questa storia è l’inizio di un’altra storia: un cammino che è finito ne apre un altro)
Ad impressionare fu il motivo futile della strage: gli abitanti vennero uccisi perché erano spariti dei
soldi/ accusati di nascondere delle armi per conto della resistenza. E anche il parroco, collaborazionista
dei nazisti, morì. Camille raccolse alcune storie stravolgenti dei sopravvissuti:
- Una delle vittime era un papà che abitava ad Avignone e che, per portare in salvo i figli dai
bombardamenti, decise di trasferirsi in questa cittadina. Arriva la sera prima della strage: li porta a
morire, nel tentativo di salvarli.
- Nel paesino, inoltre, abitavano una madre e una figlia: la figlia insisteva per andare a Parigi (diceva
che sarebbe morta rimanendo in quel paesino), la madre si è sempre rifiutata e l’ha tenuta lì. La
figlia è morta e la madre è sopravvissuta.
- Una delle vittime, poi, era il figlio di un filosofo – Gabriel Marcel – e aveva lasciato un diario degli
ultimi giorni prima della strage. Il diario era stranissimo: il ragazzo diceva di aver visto una luce
accecante entrare nella stanza, parlava di premonizioni e profezie, come se la luce lo invitasse ad
andare via. La prefazione del libro di Camille verrà scritta proprio dal filosofo, padre del ragazzo
rimasto ucciso; egli dirà: non possiamo fare di Dio un infanticida, non dobbiamo giustificare il male.

La domanda che la vicenda ci pone è: Dio può usare una contingenza tragica per farla diventare una
provvidenza? Il vescovo della zona dove si è consumata la tragedia, che va insieme all’ufficiale delle SS a
vedere la scena, sull’argomento, aveva detto: “Dio forse perdonerà, noi no”.

4) Quarta storia: settembre 1944, Francia, a est di Parigi, in un sobborgo. Presso uno scalo ferroviario,
dove caricano gli ebrei per portarli verso i campi di concentramento, qualcuno (un’infermiera) trova un
bambino di 4 anni, ebreo, in una cuccia per cani. Gli chiedono: “che cosa fai lì?”. Lui risponde: “Ma io
sono un cane, non un bambino. E i cani non li deportano.”

Queste storie sono state introduttive agli argomenti del nostro corso: male, perdono e giustizia. Esse ci
servono per dire che il male, quello vero, c’è e fa male.
Per noi è più difficile pensare che il male non faccia male: il male fa male. Non è più il tempo di trovare
giustificazioni, il male deve essere condannato, soprattutto se pensiamo all’Olocausto. Questo apre un
problema: come faccio a parlare del male, senza far male, senza dire cose sciocche, banali, sbagliate (come
quello che ti dice la mamma quando perdi un amore).

Difficoltà di dire male nel male


Come abbiamo visto non è facile parlare del male, come del perdono e della giustizia [Inoltre, quando il
perdono risulta facile, ciò implica che il male vero non è avvenuto; più è vero il male, più il perdono sarà
difficile]. Diversi intellettuali intervengono e riflettono sul tema del male, tra questi ricordiamo Seneca.

Seneca (4 a.C. – 65 d.C.): “AD HELVETIAM MATREM DE CONSOLATIONE” → Lettera di consolazione scritta
alla madre (tra il 42 e il 43 d.C.) in seguito all’esilio del figlio in Corsica. Seneca apparteneva ad una famiglia
benestante e partecipava attivamente alla vita politica: per questa ragione, attirerà le invidie degli
imperatori – che temevano il potere che andava accumulando – e verrà allontanato da Roma fino al 49 d.C.
Lui decide di scrivere una lettera alla madre per consolarla della sua partenza e di tutte le altre sofferenze
che ha patito in vita (in particolare i numerosi lutti). Questa lettera, tuttavia, ritarda, arriva dopo molto
tempo al destinatario: questo avviene perché ciò di cui Seneca sarebbe andato parlare era il male, la
sofferenza. Egli sottolinea, infatti, come avesse provato più volte a scrivere una lettera, ma che mai c’era
riuscito: sentiva forti in lui i motivi per parlare ma anche per stare zitto davanti a quel male, a quel lutto.

Motivi per parlare, motivi per tacere: di fronte al male si presenta una doppia serie di motivi (che poi sono
riconducibili paradossalmente alla stessa radice di sofferenza):
1. Per dire qualcosa: lo impone la sofferenza
2. Per tacere: lo impone la prudenza
Insomma, la sofferenza mi invita a parlare e al tempo stesso mi rende cauto: “Più volte ho sentito l’impulso
di consolarti, ma mi sono trattenuto per molti motivi”.

1) Motivi per osare l’impresa del male nel male:


- Il bisogno reciproco di sostenersi e liberarsi: “Mi pareva di riuscirmi a liberare dalle mie sofferenze
se avessi asciugato temporaneamente le tue lacrime”
- Il bisogno di aiutare l’altro: “Avrei contribuito a risollevarti se mi fossi rialzato io per primo”
“Volevo evitare che la sorte che io avevo sconfitto riportasse vittoria su uno dei miei cari”
“Rinnovavo continuamente i miei sforzi per arrivare in qualche modo, dopo aver posto la mano sulla
mia piaga, a fasciare le vostre ferite” (Piaga= le ferite aperte che lascia il male)

Tanto belli erano i motivi per parlare, quanto oscuri e limitanti gli ostacoli che portavano Seneca a rinviare.

2) Ostacoli che la facevano rinviare:


- Difficoltà di parlare del male mentre si manifesta = rischio di provocare l’effetto contrario
“Non potevo affrontare il tuo dolore al suo primo infierire, perché non fossero proprio le mie
consolazioni ad irritarlo ed accenderlo: anche nelle malattie, nulla è più pernicioso dell’applicare
prematuramente delle medicine”. Difficile intervenire quando il male è ancora fresco: parole sul
male che possono far male perché premature (Questo ci porta a ragionare sulla responsabilità di un
giornalista nello scrivere un articolo di cronaca su un fatto tragico appena avvenuto: serve cautela).
- Difficoltà/Novità del consolare
“Mentre consultavo tutte le opere composte dai più illustri ingegni per frenare e moderare i dolori,
non trovavo esempio di persona che avesse consolato i suoi cari […] perciò esitavo di fronte alla
novità dell’impegno”. → Era per lui una novità, non sapeva come parlare del male che coinvolgeva
lui stesso.
- Senza parole: il dolore tronca la voce (Si preferisce il silenzio a parole banali) e la capacità di
scegliere le parole
“è inevitabile che la veemenza di un dolore smisurato ci sottragga la capacità di scegliere le parole,
dato che spesso [il dolore] ci tronca anche la voce”.

Perché allora tentare l’impresa?


Perché Seneca confida sul fatto che “l’aver preso io stesso l’iniziativa di consolare, conferisce la massima
efficacia alla consolazione”. Il fatto che sia IO a consolare e non un altro, già sortisce un effetto.

Oltre al dolore che il male stesso provoca, esiste anche il dolore del dire il male: c’è difficoltà di parlare del
male nel male; una difficoltà che si presenta come:

1. Dolore del tempo: il dolore è ancora fresco


- Pericolo della fretta di dire
- Pericolo del fuori tempo del dire
- Pericolo del momento non opportuno del dire
2. Dolore del dolore: soffro anch’io nel dire
- Non si tratta di un dire neutro, ma partecipato all’altro che soffre
- Problema di dire il dolore nel dolore, guardando il dolore
- Problema di dire il dolore sentendo il dolore dell’altro

3. Dolore delle parole


- Come scegliere?
- Il problema della vicinanza e della distanza
- Problema dell’incomunicabilità / solitudine del male
- Non ci sono mai schemi prefabbricati per dire il male
- I precedenti servono a poco
- Parole che non vengono
- Parole che soffrono a loro volta

Necessità della Parola: il paradosso del morto che parla


La parola può essere sbagliata ma è necessaria: questo carica di responsabilità chi scrive, chi parla. Infatti,
Seneca, alla fine, prende la decisione di ordinare – sistemare, razionalizzare – i propri pensieri e aprire
bocca.

1. Situazione paradossale del morto-che-parla


= Parlare mentre si soffre, mentre si sperimenta la morte della sofferenza. Dove c’è il dolore –
grande e vero –, dove c’è il male, c’è sempre una morte: io parlo del dolore dell’altro che però è
anche mio (di che dolore sto parlando veramente?). Cerco di dare una speranza – la lettera –, che
però rischia di morire, di essere oscurata dal male: davanti al male, la speranza muore, è in crisi. Io
sono coinvolto nel male che parlo: è come se io parlassi di una morte, ma sono morto anch’io.
“Solo questo ti mancava, di dover piangere i vivi” dice Seneca alla madre: nel male non ci sono solo
i morti, ma noi piangiamo anche i vivi; che sono in qualche modo morti con i morti. Io vivo che
piango il lutto o che compiango coloro che soffrono, muoio un po’ a mia volta.

2. Eppure nella parola-offerta (parola-logos) la vita riemerge


a) Per l’altro
b) Per sé

3. La vita riemerge come parola della cura


a) Metafora della cicatrice: “Ricordare i mali già dimenticati o riproporre tutte le disgrazie a
un'anima appena disposto a sopportarne una sola”. Per fortuna ammette che: “non sarà una
cura leggera ma piuttosto un intervento chirurgico”. Con quale risultato? “Fare sì che l'animo,
rafforzato da tante prove, si vergogni a non sopportare una sola ferita, cosparso com’è di tante
cicatrici”. Infatti: “una vita piena di tormenti un aspetto positivo ce l'ha: quello di temprare il
carattere delle sue vittime”. =incisione chirurgica, i veri bene, … (ragionamento legato alla
filosofia stoica a cui Seneca aderisce)
Come Seneca consola la madre? Ci sono già stati tanti dolori che hai dovuto sopportare, questo
è solo un altro da aggiungere. Il male ci allena, non dobbiamo temerlo. Non importa se Seneca
abbia ragione o no con questo ragionamento – il male va sopportato – , ma è importante il
fatto che, per consolare, per parlare del male, si faccia sempre uno sforzo.
b) Però la metafora della cicatrice allude anche al prendersi cura, al curare /guarire:
a. la parola della vita è parola di salvezza
b. non rivolta a sé ma all’altro
c. non solo parola, ma cura = responsabilità per
d. non è parola-che tocca
Conclusione: Come fare per parlare del male senza fare del male? Non è ancora tanto chiaro come posso
fare, ma è chiaro che non devo far male parlando del male; cioè so che cosa NON dire, non quello da dire:
non posso dire che il male non esiste, che non fa male e che ha una giustificazione, che fa bene. Non posso
giustificare il male: è ingiustificabile perché fa male.

Ancora sul male…


Unico modo per approcciarsi al male: stare in silenzio quando il male è appena accaduto e poi solo
successivamente parlarne e stare vicino all’altro.
Insegnamenti del male: il male insegna a distrarsi da sé per accorgersi degli altri – il male si incontra
nell’altro che soffre .Il dolore è l’unica cosa che unisce il genere umano:
- il male prende senso nel rapporto con gli altri
- male ci fa credere di essere gli unici a soffrire (egoismo eroico)
- non rifugiarci per paura che il male tocchi a noi (Schopenhauer - 6 giorni di male + 1 giorno di noia)

Media – giornalismo: l’attenzione e la delicatezza che dobbiamo dimostrare nel parlare del male a
qualcuno che sta soffrendo o che ha sofferto è ancora più spiccata in relazione al mondo giornalistico e
mediatico. Chi sceglie di intraprendere questo tipo di professione deve essere accorto: scrivere un articolo
sul male e sulle ultime violenze è questione fragile.

Cosa non dire del male


Noi non sappiamo ancora cosa dire del male, ma certamente abbiamo capito cosa non vogliamo dire del
male, come non vogliamo parlarne:
1) Non voglio dire che il male NON fa male e che, quindi, in un certo senso non esiste
2) Non voglio giustificare il male, dargli una ragione: il male fa male e non ha ragione. Non possiamo
trovare una scusa per il male inflitto, non possiamo dire che il male sia a fin di bene

Il filosofo Leibniz nel primo Settecento (1717) ha scritto un libro intitolato “Teodicea” (theos = Dio ; dike =
giustizia), giustificazione di Dio per il male nel mondo. Secondo Leibniz, Dio è perfetto e onnipotente ma
crea un mondo imperfetto – non tanto buono quanto lui è – che però è “il migliore dei mondi possibili”: è
un modo di giustificare il male. Leibniz spinge l’uomo a smettere di lamentarsi, in quanto questa è l’opzione
migliore che ci potesse capitare. (Leibniz verrà, poi, ripreso da Voltaire in Candide)

Schopenhauer, invece, un secolo dopo (1819), sottolinea come questo sia “il peggiore dei mondi possibili”.
Anche questa appare come una giustificazione del male – che viene trattato sia da Schopenhauer che da
Leibniz in modo generale. Dicendo così, infatti, egli non mette in risalto il bene.

Allora, le scuse che possiamo usare davanti al male sono:


- Scuso il male, negandolo: nego la sofferenza dell’altro, astraendo e sminuendo (es: per i
negazionisti, l’Olocausto non è mai avvenuto); dico che il male è una cosa da poco, che non è così
grave. Uno che nega il male, però, non nega il male in sé ma nega che qualcuno soffra per davvero,
che qualcuno faccia male per davvero. Eppure, il male esiste e ha sempre un’enormità (sia nei
grandi eventi come la guerra o la catastrofe naturale; sia nel quotidiano come le liti) e una
razionalità (c’è gente che intenzionalmente fa male): per negare il male, esso deve esistere. Sarà
poi compito del male negare esso stesso la vita, l’amore e la speranza: il male esiste in quanto forza
distruttiva e negativa.
- Rassicurando: faccio degli sconti e cerco di trovare una causa positiva al male. Accetto che il male
esista ma dico che non fa poi così male, che è risolvibile. Con questa via, rischiamo, cioè, di dare al
male il nome di bene. In realtà, il male contraddice; è uno scandalo: dice disillusione dove c’è
speranza; dice morte dove c’è vita. Il male contraddice la vita, l’essere, la speranza, un pensiero.
- Giustificandolo: parlo del male in generale (il male non è mai assoluto o generale, il male si
manifesta in una modalità particolare, in singole occasioni: come l’Olocausto, dove ci sono vittime
con volti e identità), fissandolo, ribadendone la presenza. Lo vedo come qualcosa di provvisorio
in previsione di crescita e miglioramento – logodicea (logos = parola ; dike = giustizia). Il male non
si nega più, c’è come occasione per qualcosa di meglio, ma il suo far male è tolto: se noi parliamo
del male come occasione di crescita e male, noi giustifichiamo chi fa il male, non il male.
Diventiamo complici o facciamo di Dio un assassino. La giustificazione del male è la logica della
tortura, della pedagogia della sofferenza. Buttiamo il mondo nel non senso: non distinguiamo più il
male dal bene.

Dunque, io, nel fare un discorso sul male, non voglio SCUSARLO. Le scuse sono, infatti, tutte bugie.

Ancora una volta, per capire quanto è sbagliato giustificare il male usiamo un racconto:
Racconto dal libro di Giobbe della Bibbia: Giobbe era un ricco proprietario terriero della
Mesopotamia, con più mogli, tanti figli e molti animali/beni terrieri. Egli è molto devoto a Dio. In
una scena, un diavoletto sottolinea come Giobbe sia devoto, fedele, credente; e in tutta risposta,
un altro gli risponde che è perché sta bene: la sua devozione è, cioè, facilitata dalle sue ottime
condizioni di vita. E allora il diavoletto suggerisce di fargli capitare qualcosa. Giobbe perde i terreni,
ma continua a credere in Dio; perde tutti i figli, ma continua a credere; la moglie lo lascia, ma
continua a credere; gli viene la scabbia, ma continua a credere; … Da questo episodio, comincia un
discorso su perché abbiamo il male. Giobbe si dichiarava innocente mentre gli intellettuali
dell’epoca credevano che chi subiva del male era perché era stato il primo a compierlo: il male
come punizione divina. Anche, in questo racconto, si tentava, dunque, di giustificare il male.
(Dostoevskij in opposizione a questa giustificazione parlerà di “dolore innocente”: se questa tesi
fosse vera, noi dovremmo considerare anche quei bambini che soffrono come malvagi, quando
invece sono esseri puri e innocenti).
[Philippe Nemo scrive un libro su Giobbe e il problema del male. Il libro di Giobbe finisce, infatti, con
una provocazione sul mistero del Signore; sottolineando come non sia possibile pensare che Dio
possa volere il nostro male per farci crescere; non possiamo, cioè, considerare Dio un torturatore.]

Cosa dire davanti al male


Quindi, cosa dire davanti al male? Ora so cosa non voglio dire, ma devo ancora capire da dove voglio partire
per fare un discorso sul male.

Tutti questi discorsi sono incentrati sul parlare del male: ecco il problema. Il problema è che, fino a questo
momento, abbiamo considerato il male come una cosa buttata lì, che non ci riguarda, che posso sistemare
e rimuovere. Il problema è che parliamo troppo del male, ma non lasciamo che sia il male a parlare, che
sia la persona che soffre a parlare. La tecnica è intervistare il male, lasciarlo parlare: incontrare il male.
Dobbiamo parlare del male in modo fenomenologico: dobbiamo lasciare che il male si manifesti. Non
dobbiamo formulare teorie sul male. Il presupposto di partenza è che il male c’è e fa male. Esso ha una sua
positività. Ma il male ha l’ultima parola? No.
Il male si manifesta e noi dobbiamo lasciare che si manifesti. Ora, intervistiamolo (usiamo questo metodo
“giornalisti” affinché il male parli).

1) Lasciamo che il male si manifesti nella sofferenza. Ma non consideriamo il male in generale: il male, chi
soffre, ha un nome. Il male, cioè, bisogna sentirlo, non immaginarlo. Ma sentire il male non vuol dire
sentire male: sentire male è quando tu senti male e precipiti nel dolore lancinante; invece, sentire il male si
rivolge a ciò che sta sotto, sotto ogni male, ogni violenza, ogni brutta cosa.

Il male che fa male viene avanti come una minaccia. Sentire il male ci capita – malattia fisica, sconforto,
malessere – ma il problema è sentire cosa c’è sotto il male. E sotto il male c’è la minaccia, la minaccia di una
vita aggredita. E tu trovi d’un colpo, se senti il male, molto meno sicuro di prima. Se senti il male che c’è
dietro ai mali, all’improvviso scopri che la minaccia appartiene alla vita, che non siamo sicuri, che siamo
tutti esposti. C’è un partecipare al male. Scopro una vita aggredita ma scopro anche che non c’è mai stato
un prima dove tutto andava bene, dove tutto era salute. Scopro che la minaccia del male appartiene alla
vita.

Il male minaccia ma il male è anche fragilità. Un senso di fragilità che prima non conoscevo. Se riesco a
sentire il male, mio o altrui, scopro che dire vita è dire morte, scopro che la morte, in un certo senso, è
inscritta nella vita e viceversa.

Non c’è esistenza senza fragilità o minaccia. È difficile pensare alla vita senza pensare a ciò che la smentisce
– come è difficile pensare ad un progetto di vita senza guardare ai pericoli ed eventuali ostacoli. Sentire il
male ti mette dentro il pensiero di una ferita quasi primordiale, di quella ferita che c’è prima di ogni ferita.

Il male non si riduce a qualcosa che viene dopo, ad un venir meno. Il male è lì come una minaccia di fondo.
Perciò, se lascio parlare il male, mi accorgo che c’è un senso di fragilità fondamentale che accompagna la
vita stessa. Io non posso rassicurare il male perché non posso ridurlo ad un’anomalia, ad un singolo
momento di crisi. Esso appare all’improvviso e denuncia:
- la logica delle sicurezze. Il male ci riguarda, sia il mio che quello altrui: ci fa scoprire che riguarda la
vita. Niente ti mette davvero al riparo dal male – né potere né ricchezze.
- la logica degli amici e dei nemici. Sono proprio gli amici a farti più male, a tradirti; coloro che ti
vogliono più bene. Dietro a quel tradimento c’è il tradimento di ogni amore, di ogni amicizia.
- la logica aggressori-aggrediti.

Se io intervisto il male, imparo un’altra cosa. Non c’è solo il male che capita ma c’è anche il male che si fa,
inferto volontariamente. Nella raccolta delle esperienze del male, il male è tanto più forte quanto ci si
avvicina all’umano. Il male è anche voluto, cercato: non è solo fenomeno, il male è anche epifenomeno. Nel
caso del male voluto, è ancora più difficile da giustificare. Il male voluto è tra noi (come singoli e come
collettività).

Il male ti mette davanti al rischio della disperazione e del non senso. Ma è inutile negarlo. Il male porta alla
disperazione: quando senti il male, la morte non è ancora morte ma vita minacciata. Per cui, il senso della
vita è incrinato verso il fondo di una disperazione; ti viene il pensiero che sia impossibile uscirne. La volontà
del male e di far male ti spaventa. In quest’ottica, siamo tutti, in un certo senso, in un campo di sterminio.
Siamo tutti sotto minaccia: c’è un rapporto molto stretto tra male, esistenza, pensare e volere il male. Il
problema, dunque, è che il male mi mette davanti ad un contrasto, una contraddizione che è difficile
rimuovere. Il male contraddice, c’è per contraddire.

1) Ma allora il male è reale o irreale? C’è o non c’è?


Abbiamo insistito sul male che c’è (positivo = non è solo la negazione di qualcosa, non è solo la mancanza di
qualcosa, NON è soltanto un “non”, una negazione; ma c’è e si fa sentire → es: la malattia è più della
semplice mancanza di salute, di non-salute = il male è più di assenza del bene, di non-bene).

La risposta a questa domanda è doppia:


a. Si conferma come indiscutibile la realtà del male: il male è reale, aderisce, squarcia l’esistenza, offende,
fa male (questa è la sua realtà e non è possibile cancellarla con un colpo di spugna). Come se fossimo
sempre squarciati, dilaniati dal male, anche quando sembra che tutto vada bene. Non c’è nessun dubbio
sulla realtà sanguinante del male. E proprio perché il male è reale, spesso, cadiamo nella tentazione di
giustificarlo, di sollecitare il colpo di spugna. Tuttavia, invece, dobbiamo diffidare delle false spiritualità
che sottolineano come il male serva: un conto è dire che ogni esperienza ti insegni qualcosa, un altro
conto è usare il male per insegnare qualcosa (ogni cosa è utile perché ci permette di fare esperienza di
qualcosa, ma questo non mi autorizza ad usare il male per crescere). Il male non è un’idea, non è un
punto di vista – non è che “se cambi pdv, se ti metti nella giusta prospettiva, il male scompare”. Dal
male puoi imparare solo che non devi fare del male, il male non è utile (è da ipocriti dire il contrario).
Il male che si fa ci insegna che, pur sapendo di non dover fare male, decidiamo comunque di infliggerlo
(non è come pensava Socrate: “Chi non sa – chi ignora il bene – fa male; chi sa non può far male”). La
realtà del male semplicemente non si lascia ridurre.
b. Nello stesso tempo, mentre il male fa male, non si può dire che il male fino in fondo, in senso assoluto,
sia così reale e forte da avere l’ultima parola. Perché il male non ha l’ultima parola?
Es: anche quando i rapporti sembrano andar male, rimane una speranza tenace, un atteggiamento
positivo; ma non è solo per questo che il male non ha l’ultima parola...
Se il male fosse l’unica realtà, la realtà più reale della nostra vita, e se avesse l’ultima parola, non
sentiremmo più neanche il suo far male, non sentiremmo la contraddizione del male. Nel suo far
male, il male non è nulla senza la vita. Il male si muove sempre nell’ostacolo, nella smentita. Il male
denuncia un’offesa, un amore ferito, fa male e allora non ha l’ultima parola (l’amore tradito suppone
che almeno uno dei due abbia amato): il male suppone la morte che è ancora vita; suppone la vita che
è già una morte. Tutto finisce con la morte: ma la morte è la morte di una vita che ha vissuto fino a quel
momento.

Il male, dunque, dispera e spera allo stesso momento; nega e afferma. In definitiva, il male è e fa male. E
tuttavia, il suo esserci non sarebbe nulla senza la vita, senza un sogno, una speranza. Il male è e nel suo
essere non è. Non è più forte, non ha l’ultima parola. Il male è reale e, nello stesso tempo, la realtà del male
è una irrealtà: non ha una realtà propria ma vive la realtà della vita che spera, si impegna ed è minacciata
dal male. È perché c’è il bene, c’è la vita che il male c’è e fa male.

2) Proprio perché il male c’è, chi ha l’ultima parola? Il male che aggredisce o la vita, il bene?
Cosa pesa di più: il male che minaccia la vita o la vita che si lascia minacciare dal male?
Il male, quindi, non ha l’ultima parola. Quello che abbiamo guadagnato è una risposta senza negare il male.
Non ha l’ultima parola perché la sua realtà è anche un’irrealtà. E in questa risposta, l’esperienza del male
rimane e fa male (non ne abbiamo ridotto l’intensità).

Male, sofferenza, fine, morte – che non può essere detta da sola. Morte di cosa? Del nostro amore… . Solo
la vita che è aggredita e ferita può dire “morte”, nel momento stesso in cui manca, in cui muore. La vita
offesa, aggredita, resta vita.

Questo è il paradosso del male. Annuncia una morte mentre ricorda la vita; dice vita mentre testimonia una
morte (Es: I rapporti che finiscono ci parlano dell’amore possibile e che c’è stato).

Come risolvere il paradosso e trovare una via intermedia


Il male aggredisce l’esistenza, che è più forte del male. Ma il male non è il male in generale: bisogna
smettere di parlare della vita, del male e della morte in generale! Tutti questi hanno volto e nome: si parla
di noi; di questa vita e di questa morte. Di questi argomenti non si parla in generale, ma in modo specifico –
di una vita che soffre; anche se il male porta verso una sorta di unicità (l’egoismo, il prevalere dell’io, tutto il
male è mio). Leibniz e Schopenhauer sbagliavano perché parlavano del male in generale: del migliore o del
peggiore dei mondi possibili, un’idea che non esiste. Il male è sempre una persona offesa, tradita, con
volto e nome.

Bisogna smettere anche di usare l’argomento della finitudine: giustificare il male con il fatto di essere finiti,
con la nostra contingenza, i nostri limiti (non siamo perfetti come Dio). Ognuno di noi ha dei limiti
(carattere, difetti), ma non per questo possiamo giustificare il male. Siamo imperfetti, ma ciò non è da
usare come causa o scusa per permetterci di fare del male ad altri. Il male annuncia una fine mentre finiti
non si è ancora.

Quando noi parliamo del male, non in generale, ma di una persona: il male è solo mio o è anche nostro?
Si condivide o no?
C’è un’ultima tentazione del male (tra le altre: tentazione di negare, giustificarlo, banalizzarlo, di usare la
fintudine, il buonismo o il pessimismo). Essa è quella di credere di essere soltanto noi che soffriamo. Molto
spesso siamo incapaci di consolare gli altri nel loro dolore, ma, comunque, anche se assistiamo alla loro
sofferenza, pensiamo che nessuno soffra come noi: il male ci trasforma in eroi della sofferenza, quando
tocca a noi siamo inconsolabili; come se nessun altro soffrisse come noi. Ma ciò non è vero: il male è anche
degli altri.

Il male richiede una decisione, decisione per la vita e non per la morte, per l’amore e non per il falso
amore. Stiamo tentando di uscire dal male, di non subirlo, dimostrando una reattività di atteggiamento e
non una passività – come nel caso di Leibniz e Schopenhauer che accettano tutto nel bene e nel male.
Il male ha sempre un’ingiustizia e una vita offesa. E richiede una decisione ETICA. Il male c’è e fa male e la
decisione etica è la responsabilità per l’altro che soffre: diventare responsabili perché il male ha nomi e
cognomi, di chi soffre e di chi provoca sofferenza – tra cui il mio. Diventare responsabili contro la forma più
acuta del male: l’egocentrismo nel male, il pensiero di essere l’unico a soffrire. La sofferenza del male ci fa
cadere nel rischio di fare di noi campioni della sofferenza: il male che provo io non lo prova nessuno. Ma
questo lo pensiamo solo perché siamo NEL male, nel momento in cui avviene. Senti il male ma non ne cogli
l’estensione, la condivisione, la vastità, la solidarietà (in positivo o negativo). Non lo si vede davvero per ciò
che è: non vedi il male, ma solo te stesso nel male. L’io inconsolabile è l’ultima tentazione.

Il male è sempre sociale, politico, compartecipato. È sempre qui fra noi, io e te. Il male si condivide.
L’esperienza del male ti toglie dall’ultima tentazione del male. Il male è sempre nostro, è parola condivisa, è
compassione, patire insieme. È originaria compassione e originaria distrazione da sé – anche se l’io, spesso,
cerca di usare il male per stare al centro, ti rende insensibile.

Il male nostro: una città assediata. Le giustificazioni del male le impariamo dalla tv, dalla radio, … La città
davanti al male giustifica il male e insegna l’individuo a fare altrettanto. Le giustificazioni sono a livello
sociale e politico; sono quelle che noi ci diciamo sul nostro stare insieme (parliamo del “male minore
possibile” e del “bene maggiore possibile”). C’è una politicità del male e lì il male è negato. Il problema è
che la riduzione del male a meno male è una bugia, una dissoluzione comune, collettiva.

Es: leggiamo che la disoccupazione giovanile è diminuita → ma essa è diminuita in favore di contratti part
time, a tempo determinato, con una paga infima e trattamenti da stagista. Quindi, è diminuita ma in favore
di un altro problema, un altro male; anche se a livello sociale questo non viene fatto trasparire: si cerca di
mostrare solo il bicchiere mezzo pieno.

Il male è continuamente giustificato. Perché il male è nostro come la speranza.

Insegnamento del male


Il male “insegna” solo una cosa (non è utile): noi non siamo mai presso noi stessi, siamo fuori centro.
L’esserci del male insegna che forse non ha molto senso vivere una vita mettendoci continuamente al
centro. Noi siamo circondati di persone che soffrono fuori di sé e dentro di sé, che sono dilaniate dal male.
Il male s’incontra come un’originaria prossimità con gli altri, un’originaria estraniazione da noi stessi. Il male
è come una denuncia, intensa e pungente, ad ogni pretesa di dominio.

Il male ci istruisce alla responsabilità. Dobbiamo uscire da noi, anche quando soffriamo, anche nel male.

Affinché il male non abbia l’ultima parola, affinché il bene sia più forte, il male non può né deve essere
giustificato; ma, del male, bisogna fare giustizia, denuncia, opere di bene comune.
TRA PERDONO E GIUSTIZIA
Come si esce dal male che fa male? → PERDONO?
Cos’è il perdono? (un colpo di spugna?) e la giustizia che cos’è? Giustizia e perdono sono contrari? La
giustizia (il Codice penale), che ricorda il male e dà le pene, è una vendetta?

Proverbio cinese: “Lo sciocco perdona e dimentica; lo stolto non perdona e non dimentica; il saggio perdona
ma non dimentica”.

L’atteggiamento corretto è quello di perdonare (il saggio dice un SI e un NO), ma perdonare non equivale a
dimenticare, a scusare, ad assolvere il male. Il perdono è difficile – altrimenti non sarebbe vero perdono. Lo
stolto (dice due NO) sbaglia perché confonde il ricordo del male con l’impossibilità del perdono; lo sciocco
(dice due SI) sbaglia perché, anche se dà una possibilità al perdono, lo intende come un colpo di spugna. Un
perdono facile è un perdono ingiusto, è un perdono addirittura complice del male.

Affinché il perdono sia perdono, deve rispondere alle domande della giustizia (C'è qualcosa che la giustizia
chiede al perdono). Ma dall'altra parte, affinché la giustizia sia davvero giustizia – e non vendetta – deve
rispondere alle domande del perdono.

Punto di partenza
La vostra fredda giustizia non mi piace. (Zarathustra, Friedrich Nietzsche, 1964, p. 76.)

La scena è ambientata in un tribunale, il ché si intreccia bene con l’argomento della giustizia che stiamo
trattando. Nietzsche, rivolgendosi ai giudici, rimprovera loro l’odio (simile a quello del boia), la freddezza
con cui mandano a morire/ condannano una persona. Quando la giustizia è fredda, infatti, si trasforma in
vendetta. Ma la giustizia non dovrebbe finire con la condanna, con la pena reclusiva, con la punizione. Non
dovrebbe limitarsi a ciò (la reclusione, in molti casi, è solo l’inizio della giustizia, ma non è il suo totale).

Come non si può spegnere il fuoco con il fuoco, non si può asciugare l’acqua con l’acqua, così non si
può distruggere il male con il male. (Lev Tolstoj, 1882. → anni in cui il problema della giustizia e del
perdono è pubblico, interessa molte persone)

Per perdonare bisogna ricordarsi. (Vladimir Jankélévitch, 1969, p. 87.)

Non si distrugge il male con il male: perdono e giustizia sono simili?


A prima vista può sembrare che perdono e giustizia condividano poco per via di un’opposizione
insuperabile (tensione giustizia/perdono = tensione pubblico/prunvato) che matura nella gravità del male
fatto, pubblico (la giustizia è pubblica e legata a delle leggi) e privato (il perdono è privato: non c’è legge
che lo impone, avviene nell’intimità del nostro cuore). Quanti pareri vanno in questo senso, quante teorie,
quante emozioni. Più di tutto, rende bene il contrasto che va regolarmente in scena nei drammi personali e
collettivi di interi popoli o nelle interviste in prima serata sulla disponibilità a perdonare a caldo, a violenza
appena subita. La giustizia fissa il male con la pena, il perdono (sembra) dimenticare. La giustizia persegue il
colpevole, il perdono riabilita. La giustizia guarda alle regole, il perdono alla persona.

Tuttavia, ha ragione Lev Tolstoj nella Lettera (1882) all’amico Engelgardt: «Come non si può spegnere il
fuoco con il fuoco, non si può asciugare l’acqua con l’acqua, così non si può distruggere il male con il male».
Nonostante varie tensioni, perdono e giustizia presentano, cioè, anche elementi in comune.

Perdono e giustizia hanno lo stesso problema d’interrompere la distruzione senza distruggere ancora una
volta (1). Difatti, come punire non è vendicarsi e farsi assassini dell’assassino, così perdonare non è
dimenticare e farsi complici del crimine.

Perdono e giustizia giungono all’altezza del loro nome nel comune rifiuto di sottostare ancora alla
schiavitù di rendere male al male (2), di rendersi complici alimentando il circuito interminabile della
vendetta. Crescono entrambi nel paradosso, nello sforzo, di fare violenza alla violenza senza usare
violenza (3): vendetta alla vendetta senza vendetta, ingiustizia all’ingiustizia senza ingiustizia (non
applicano la legge del taglione: “occhio per occhio”), guerra alla guerra senza guerra. Lavorano/Vivono lì
dove il male fa male (4), dove non si può, non si deve dimenticare (condividono la stessa casa, dove il male
c’è sul serio, dove il male fa male). Sperimentano entrambi l’assoluto del male (5), il male imperdonabile, il
male grosso, il male assurdo. Immersi nell’assoluto contrario della violenza, perdono e giustizia azzerano
scegliendo per forza di cose delle formule iperboliche e rafforzative al massimo (6), come il famoso
«settanta volte sette» (Mt. 18, 22) (o come Jacques Derrida che dice “Il perdono è possibile nella sua
impossibilità, è impossibile nella sua possibilità” = nel perdono c’è sempre qualcosa di imperdonabile – il
male – e l’imperdonabile è ciò che permette il perdono) di un ancora più perdono – di un ancora più
giustizia (davanti al male che fa male serve un perdono ancora più perdono, una giustizia ancora più
giustizia → formule iperboliche).

Settanta volte sette: è un detto evangelico molto noto → il perdono si porta dietro anche la cultura
da cui viene perdono; e nel caso di quella occidentale-cristiana, è una cultura simbolica, numerica
legata al perdono. Quest’espressione perdonare “70 volte 7”, non vuol dire perdonare sempre (che
in ebraico si esprime semplicemente con il 7, numero della perfezione), ma c’è un’esistenza
maggiore, è come dire “sempre sempre” perché è un perdono nei confronti del male che fa male,
di una colpa troppo grande, e che quindi necessita un rafforzativo maggiore del mero sempre.

La parola perdono, in Occidente, compare per la prima volta nella Bibbia, in riferimento allo stesso
episodio dove compare per la prima volta la parola “responsabilità”. Caino, ripensando all’omicidio
commesso, infatti, dichiara che “Troppo grande è la [sua[ colpa per essere perdonato”. Anche il
tema del perdono compare esplicitamente per la prima volta nella bocca di un assassino.

Non è solo la giustizia a condannare, ma anche il perdono (7) (se il perdono non condanna il male, non è
perdono e non è male). Non guarda alla persona solo il perdono (il perdono ha la capacità di non
confondere la persona con il male che ha fatto = ognuno di noi vale molto di più delle sue azioni), ma anche
la giustizia (8): la giustizia non guarda solo al reato, al peccato (non è vera la giustizia che si limita a dare
una pena e si disinteressa di quello che viene fatto negli anni del carcere), ma guarda anche alla persona.

Che cos’è il perdono?


1) Perdonare non è dimenticare
Anzi, questi termini sono legati da una proporzionalità inversa: più perdoni, meno dimentichi. Il perdono è
sempre sul punto di esserci e non esserci, perché il male che fa male va ricordato (il perdono non equivale a
ripristinare il precedente rapporto).

Nella bibbia, la parola perdono è messa nella bocca del colpevole e non di Dio. Dio salva Caino e, invece che
di perdono, parla di vendetta, promettendo di vendicarsi «sette volte» contro chiunque intenda fargli
pagare il suo delitto con la morte. La promessa di Dio è garanzia e minaccia al tempo stesso. Dio promette
vendetta sette volte contro chi segue la logica della vendetta, contro chi agisce come Caino e prolunga la
catena implacabile della violenza.

Il perdono vive in una sua possibilità, alla quale nessuno ti può obbligare, nessuno ti può costringere. E che
tu stesso non puoi chiedere agli altri. il perdono non può essere chiesto, può essere detto (come in Delitto
e Castigo).

2) Perdono difficile
Se il perdono non è difficile, se non mantiene dentro di sé una resistenza tenace a concederlo perfino
mentre lo si sta facendo (se non hai scrupolo nel perdonare), perdono non è ma piuttosto un colpo di
spugna; il perdono si riduce a innocente coscienza del male. «Per perdonare bisogna ricordarsi»
(Jankélévitch, 1969, p. 87; cfr. Jankélévitch, 2004). L’essere, l’esserci del perdono è difficile.
3) Settanta volte (Il perdono è iperbolico)
Il perdono è sempre paradossale. Il perdono non è 7 (sempre), non è 70 (eternità), ma è 70 volte 7: è
sempre sul punto di essere dato e sul punto di essere ritirato.

Il perdono è senza limiti: si deve rafforzare perché il male a cui risponde è ingiustificabile. Puoi perdonare la
persona ma non il male compiuto.

Che cos’è la giustizia?


1) Punire non è vendicarsi
“Non va che gli uomini dabbene siano carnefici degli altri uomini”
(Don Chisciotte, in Cervantes, 2007)

Don Chisciotte pronuncia questa frase vedendo delle persone incatenate a delle palle di ferro che
svolgevano dei lavori forzati: essi erano criminali, assassini, ladri, farabutti, che meritavano di stare in
galera. Tuttavia, Don Chisciotte obietta: condannare, dare una pena non significa far soffrire, vendicarsi del
male fatto; condannare e vendicarsi non devono coincidere. La giustizia non ha solo il compito di
condannare, la giustizia si interessa dell’uomo condannato. Il senso di una pena non è solo la privazione
(della libertà, degli agi). Per condannare il male non basta rinchiudere; il ruolo della giustizia non termina
con la condanna.

“La vostra fredda giustizia non mi piace; e dall’occhio dei vostri giudici io vedo sbirciare il boia con
la sua fredda mannaia.” (Nietzsche, 1886 → Germania di Bismarck)

La giustizia mortale, fredda, insensibile è quella che Zarathustra coglie negli occhi dei giudici, più simili a
quelli del boia. Punire non deve essere un mero gesto sadico, vendicativo. La giustizia deve distinguere il
male dalla persona: uno sbaglio non è tutta la persona; la condanna è del male non della persona. la
giustizia è più, va oltre la condanna: la giustizia guarda alla persona – come anche il perdono fa.

“Circolo infernale o vizioso della vendetta.” (Lévinas, 2008)

La giustizia non deve scivolare dentro la catena infernale della vendetta. La giustizia deve essere un
tentativo di condannare, di interrompere il male senza fare il male.

2) Perdono e giustizia
Quindi, la giustizia condanna e anche il perdono condanna. Il perdono si occupa della persona, ma anche la
giustizia si occupa della persona, del privato – e non solo del pubblico. Il perdono, oltre alla sua dimensione
privata, ne presenta una pubblica. Insomma, giustizia e perdono hanno un rapporto, intessono un rapporto
stretto, che è innegabile – oltre le apparenti differenze.

Perdono e giustizia sono molti vicini. Non tutto della giustizia si contrappone al perdono e viceversa. In
questo senso, tra perdono e giustizia c’è una tensione che si costruisce su una base comune. Perdonare non
è l’opera della giustizia, la giustizia non è l’opera del perdono.

Delitto e Castigo
Come condanna il perdono? Come condanna la giustizia?
Abbiamo capito che il perdono e la giustizia si guardano uno di fronte all’altro, ora osserviamo il tema del
delitto e castigo.

“Un castigo che non sia seguito dal perdono e che non ha alcuna intenzione di concederlo alla fine,
non è più castigo, ma odioso accanimento.” (Unamuno, 1983 → letterato e filosofo spagnolo del
900, rettore dell’Università di Salamanca; egli ha scritto un commento al brano del Don Chisciotte
che abbiamo citato prima)
Quando Unamuno legge il brano del Don Chisciotte sopra citato, commenta con queste parole (qui sopra).
Secondo lui, infatti, esistono due leggi, una del padre e una della madre: la legge del padre è quella severa
che condanna; la legge della madre è quella affettuosa del perdono. E qui lui parla di un castigo non seguito
dal perdono: non mette in discussione l’importanza del castigo, ma lo scopo del condannare – che non il
castigo stesso. Ogni pena, secondo lui, deve arrivare ad un momento che abbia il perdono come orizzonte:
il castigo non deve essere il fine ma uno strumento; la reclusione non deve essere risolutiva, non deve
essere l’unica giustizia.

“Tu vali molto più delle tue azioni” (Paul Ricoeur in uno dei suoi libri sul perdono)

Ognuno paga per il male che ha fatto, ma una persona non si riduce al male che ha fatto. Il reato va
circoscritto, non va confuso con la persona. Non dobbiamo identificarci con le colpe che commettiamo –
dobbiamo imparare a perdonare, a concedere il perdono a noi stessi. Lo sbaglio importa, ma tu vali di più.
Questo ci porta a dire come il male che si fa non sia più forte delle persone, che un principio di umanità
sopravvive sempre: altrimenti la giustizia (terrena – e non divina) non avrebbe senso. Le persone si
esprimono attraverso le azioni, ma le azioni non fanno vedere tutto di una persona. [è lo stesso discorso del
“Tu vali molto di più dei voti che prendi”]

“Per agire intelligentemente non basta l’intelligenza” (Dostoevskij, Delitto e Castigo, 1860/1880 →
Russia zarista, non è ancora stata abolita la servitù della gleba)

Nel libro Delitto e castigo, un giovane universitario, nel contesto della Russia del periodo, decide che è
legittimo uccidere una vecchietta per entrare in possesso dei suoi beni e continuare a studiare (alla fine ne
ucciderà addirittura due). Nel frattempo, si innamora di una ragazza che fa la prostituta perché il padre è
alcolizzato. Il ragazzo viene scoperto e mandato in Siberia; la ragazza lo segue. Lui matura, si pente e,
quando la rivede, le dice: “Sono venuto a dirti perdono” (non a chiederlo).

Conclusione
Perdono e giustizia sono vicini e in tensione. C’è qualcosa che la giustizia chiede al perdono affinché il
perdono sia autentico e c’è qualcosa che il perdono chiede alla giustizia affinché la giustizia sia autentica.

La giustizia al perdono chiede di non diventare un alibi, di non diventare complice del male. Per farlo, il
perdono deve condannare e ricordare al tempo stesso, deve condannare e ricordare mentre perdona.

Invece, il perdono chiede alla giustizia: “Che senso ha punire?”. Che senso ha punire se non c’è un’azione
educativa? Il punire fine a se stesso si riduce a vendetta – vendetta legale ma pur sempre vendetta – che
non è il vero scopo finale. Molto spesso, il punire non ha senso e non fa maturare la persona, eppure così
non dovrebbe essere.

Sia il perdono che la giustizia cercano di tenere distinti la persona dal male, condannando il male senza
dimenticarlo. Entrambi, poi, in modi diversi, dicono: “Tu vali molto di più delle tue azioni”.

Perdono e giustizia hanno a che fare con il male enorme, dove la persona sembra non esserci (come nel
caso dell’Olocausto).

Riassumendo, la giustizia non è vendetta e il perdono non è un colpo di spugna. E affinché sia così, perdono
e giustizia si interrogano reciprocamente – collaborano attraverso azioni diverse.

A partire da ciò, tutto è possibile. E iniziano sanzioni, percorsi, riabilitazioni (la giustizia non si limita al
carcere, alla reclusione, ma cerca soluzioni diverse).
CAP. 4: Ma, quindi, ci sono diritti nel cibo? Per chi? Parliamo di diritto del più forte: chi
controlla le risorse, chi può uccidere ha la meglio. Ci sono spazi di libertà?
Città: ostentazione del cibo ma imposizione del dimagrire. Il paradosso della città
grassa e magra: è la città che mangia noi.

ETICA E CIBO
Il libro si compone di due parti: nella prima parte, si fanno discorsi/domande di fondo (Chi sono io quando
mangio? Sono animale o uomo? → il cibo è un ambito che ci riconduce facilmente al mondo animale; nella
fame, nel cibo, c’è o meno la razionalità? La fame è razionale? Quando il cibo non è disponibile, si verifica
una lotta, arriviamo persino a mangiarci tra di noi?! Siamo disposti ad uccidere gli altri per mangiare? La
fame sente ragioni, ha orecchie? Prima viene lo stomaco e poi la morale? Io quando mangio sono
immorale?); nella seconda parte, si parla di città (Sono io che mangio o è la città che mangia me? Città
obesa vs Città snella; la città ti invita a consumare e, al tempo stesso, ci punisce se consumiamo troppo –
diete, sport, … ), di cibo e diritti, lavoro, intercultura, democrazia. [Noi, per ora, facciamo un discorso
trasversale che ci serve ad introdurre l’argomento]

LA TIRANNIA DEI BISOGNI


Nel cibo, nella fame, c’è la libertà? Siamo uomini liberi e razionali? O nella fame siamo risucchiati in una
schiavitù, che è quella di tutti gli esseri viventi (Goethe) – animali compresi (uomo e animale accomunati da
questa schiavitù)? C’è o non c’è umanità nel mangiare? La fame rende schiavi, ciechi, egoisti? Io devo
mangiare, ma per farlo è davvero necessario retrocedere alle ere antiche?

E il mondo? Esso è devastato per la nostra fame – culture intensive, siccità, globalizzazione. Mettere prima
lo stomaco alla morale è corretto?

Uno scontro sul cibo


Due atteggiamenti diversi, due intellettuali.

Goethe nel testo “La vacca di Mirone” dice: “Eccole un oggetto di altissimo significato. Il principio di nutrire
che regge il mondo e corre attraverso tutto il mondo naturale sta qui innanzi ai nostri occhi in un bel
paragone.”

Goethe arriva in Italia, a Roma, e vede una statua (/quadro) di una mucca che allatta un bambino, opera
attribuita ad un famoso scultore greco Mirone (anche se non era sua) e gli viene in mente questa cosa: la
mucca allatta il vitello, la mamma allatta il bambino. Non c’è differenza. Tutto il mondo naturale è
dominato da questo principio, da questa tirannia, da questa necessità tirannica. Nessuno sfugge da
questo.

Siamo negli anni ’80 dell’Ottocento, un altro autore, che conosceva Levinas (rapporto litigioso), un filosofo
ed intellettuale ebreo tra i più importanti del ‘900, M. Buber (Warhol ha fatto un suo ritratto tanto era
importante) nella sua opera “Il problema dell’uomo” (1945) dice: “Persino la fame dell’uomo non è la fame
d’un animale”. È un pensiero opposto rispetto a quello di Goethe, che parlava della legge inflessibile del
nutrirsi.

Quindi, da una parte, Goethe non sente una differenza nel problema della fame tra uomo e animale, parla
di unità di intenti, di necessità. Per lui, la tirannia del nutrirsi è il vero sovrano del nostro mondo (tirannia
dei bisogni). C’è questa necessità di cibarsi che rappresenta una legge ferrea per tutti gli esseri viventi. Per
tutte queste ragioni, la natura è madre e matrigna: la natura è una madre che nutre ma è anche matrigna,
despota, che davanti al cibo ci spinge ad abbandonare la morale (lo stomaco > morale) [uomini = cannibali
di tutto].

Dall’altra, Buber ci dice che necessità non è schiavitù, di non confondere il bisogno di mangiare con una
schiavitù. La fame dell’uomo è diversa da quella dell’animale. Parla di uno scarto tra uomo e animale
nell’ambito del cibo. L’uomo resta uomo quando mangia. Buber sta contestando il fatto che il bisogno di
mangiare ci renda schiavi: una necessità umana non è per forza una schiavitù (margine di libertà).
Uno sguardo romantico (unità)
1. Somiglianze senza differenze
2. Abisso energetico universo
3. Vita che non è più sua
4. Nello stesso momento della croce quotidiana del cibo

Hegel: l‘ “organismo animale“ che “assimila” l’esterno all’interno. (Enciclopedia)


Schopenhauer: Volontà unica

Il volto macabro della fame


O mangio io, o mangi tu. La fame è schiavitù, nel senso estremo di sopravvivenza. Se il principio di nutrirsi
è uguale per tutti, siamo tutti schiavi. E se il cibo è una schiavitù, noi siamo messi in discussione come
essere viventi (io mangio, ma qualcuno non ne ha la possibilità), perché siamo rivali nell’ottenere il cibo – io
e te, il mio popolo e il tuo popolo. E quindi noi non abbiamo un grande diritto alla vita perché anche noi
siamo cibo per altri esseri viventi.

1) Schiavitù del bisogno di cibo che mette in discussione a ogni istante della sua esistenza il diritto alla
vita per chi vive (per mangiare uccidiamo, togliamo, riduciamo la natura, il mondo animale e
vegetale). Se il principio di nutrirsi è una schiavitù senza ragioni, allora non c’è male nell’uccidersi
l’uno con l’altro per soddisfare la fame: in questo senso, è messo in discussione il nostro essere
umani. La mia vita non è sicura, non mi è garantita, se siamo tutti soggetti a questo tipo di
schiavitù.
2) Schiavitù della lotta per la sopravvivenza (vuol dire colonialismo, globalizzazione, controllo,
imperialismo = ricerca di spazi vitali per la sopravvivenza) che fa del mondo un immenso
supermercato (gestito da qualcuno contro altri, a discapito di altri) in concorrenza dove ogni essere
vivente è nello stesso tempo consumatore e consumato, colui che mangia e che viene mangiato
(guerra per il cibo). A maggior ragione quando si tratta del cibo per se stessi, i propri figli, la propria
tribù, il proprio popolo, la propria nazione, la propria civiltà, la propria economia. Questo perché il
cibo è una necessità e davanti ad esso noi siamo ridotti a rivali. Questo è l’imbroglio della società
dei consumi: siamo noi i prodotti, non abbiamo libertà. Non abbiamo diritto di vivere se non per
essere mangiati da qualcun altro.
3) Schiavitù, infine, di sottomettere anche il mondo umano alla stessa logica del principio di nutrirsi
che distrugge tutto ciò cui dà vita, che sradica ciascuno da se stesso, che fa della vita e della morte
dei viventi (animali, uomini e piante) nient’altro che un gioco alimentare a proprio esclusivo
vantaggio (l’importante è che mangio io, non importa del resto, della qualità del cibo, della
sostenibilità dei processi). Il principio tirannico del nutrirsi – se non mangi, muori – ti porta a delle
scelte crudeli, tragiche. Questa terza schiavitù è mentale: il principio del nutrirsi ci spinge a
pensare che la stessa logica governi qualsiasi altro ambito del mondo umano (viviamo per mangiare
ed essere mangiati; o mangio io o mangi tu).

Quando Goethe parla di schiavitù intende queste tre forme che regolano il mondo.

Sacralizzazione Violenza
Se il nutrirsi è schiavitù, che rapporto c’è con gli altri e il mondo? Se dal cibo scaturisce la schiavitù, questo
rapporto è danneggiato – mi interessa la mia sopravvivenza, non quella degli altri (è una scelta tra me e te;
siamo obbligati a distruggere). E tutto ciò porta, spesso, a giustificare/sacralizzare la violenza.
1. Rapporto di assimilazione: assimilare per sé (è l’immagine di un mangiare per se stessi; il rapporto
con gli altri si basa sull’assimilazione: tu esisti affinché io possa usarti ed esistere a mia volta →
questa logica giustifica la globalizzazione, l’imperialismo, le lotte in generale)
2. Prendere per sé (l’atto del mangiare era spesso usato, in epoca medievale, in lettura e in arte per
rappresentare il diavolo che punisce le anime dannate proprio mangiandole ed espellendole di
continuo)
3. Giustificazione violenza/ aggressione/ rapina
4. Sacralizza lotta per la sopravvivenza

Scarto paradossale (Buber)


Questo scarto:
- Discute i luoghi comuni: primo fra tutti la distinzione rassicurante tra natura e cultura (l’uomo è un
animale quando mangia; lo stomaco vale più della morale); pur raffinati un cibo, un banchetto,
possono essere ingiusti.
- Smaschera mentalità tirannica: la mentalità tirannica che persiste nelle narrazioni collettive del
cibo, amplificata dall’hybris tecnologica (una necessità non è una schiavitù).
- Denuncia le pratiche comuni del cibo: al cibo si accompagnano spesso le mitologie del sangue e
dell’eccesso (cannibalismo, ingordigia, indifferenza verso gli altri).

Per Buber, dunque, le condizioni di fame e nutrimento di uomo e animale sono diverse. Es: Gli animali non
mangiano in eccesso, solo quanto basta loro per sopravvivere. L’uomo, invece, mangia in eccesso.

Nel mondo umano, il grasso è garantito: abbiamo sempre la possibilità di ingrassare. Per questo, poi, in un
secondo momento tentiamo di dimagrire, andiamo in palestra, facciamo diete (possibilità di cui è la società
a fornirci). E noi oscilliamo continuamente tra questi due stati.

Un sospetto (scarto)
Il sospetto è che l’uomo proietti all’indietro, sulla natura, il principio tirannico del nutrirsi generando per
tutti i viventi un mito che copre e che giustifica il suo proprio mito della tirannia dei bisogni. Non è la natura
ad ingrassare, a nutrirsi in eccesso (l’animale è in grado di sopravvivere, accontentandosi di poco, di nutrirsi
solo quando ha fame; le città umane sono, invece, discariche di cibo, sovraffollate dal cibo → l’uomo
mangia anche quando non ha fame): è l’uomo che lo fa e che tenta di proiettare la sua tirannia sulla natura
per giustificarsi, per giustificare il nostro eccesso, la nostra incapacità di regolarci. La tirannia dei bisogni è
un nostro mito, costrutto che buttiamo sulla natura.

Banchetto e banchetto
La questione del cibo è discussa sin dai tempi antichi (Omero).

Banchetto Proci vs Banchetto Dei. Nell’immaginario antico, gli dei mangiano sempre. Una volta anche gli
uomini sedevano al loro banchetto, poi sono stati spodestati e hanno dovuto iniziato a lavorare per
mangiare. Gli dei, invece, mangiano senza lavorare. In Esiodo, si parlava dell’età dell’oro per gli uomini
corrispondente all’età in cui essi avevano la possibilità di mangiare continuamente e tutti i giorni senza
alzare un dito – o quasi. In quel tempo, all’uomo, bastava lavorare un giorno solo e si poteva “appendere il
timone sopra il camino”. Era possibile, cioè, vivere in abbondanza tutti i giorni. Essere uomini, dopo lo
spodestamento, invece, significa dover lavorare. Eppure, oggigiorno ci sono molte persone che mangiano
senza lavorare a discapito di persone che lavorano e non mangiano.

Narrazioni della violenza (sacro, violenza, sopprimere, sacrificio)


Due narrazioni del cibo:
- Della sospensione (della violenza, della libertà):
o Prende sul serio il paragone impraticabile
o Sospensione paradossale di ciò che si può interrompere, il mangiare
o Critica della violenza inevitabile del cibarsi
Messa in questione.
- Della violenza: si giustifica la violenza impiegata per ottenere il cibo
o Si compiace del paragone romantico sul principio nutrirsi (si compiace del sangue, della
violenza → è una lunga catena di violenza ininterrotta in cui io mangio l’orso e l’orso
mangia me)
o Nutrirsi: si appartiene al mondo e ai suoi meccanismi. Totalità senza scampo del mangiare e
dell’essere mangiati
o Giustificazione della violenza del cibarsi
Dio, Uomo, vuole il sangue per sopravvivere: la narrazione della violenza è narrazione del sangue,
della morte dell’altro affinché io possa vivere

CULTURA DEL CIBO (SECONDO LA NARRAZIONE DELLA VIOLENZA)


Mitologie del sangue
La Mettrie: “La carne cruda rende feroci uomini e animali” (L’uomo macchina)

Novalis (autore del romanticismo tedesco), in ”I discepoli di Sais” : La natura come una allegra dispensa. →
tutto a nostra disposizione per essere mangiato

Novalis (Opera filos, 2 vediamo come parla del cibo secondo la “mitologia del sangue”):
1. “mangiare non è che un’appropriazione”, un “godimento” utile per dire quelli spirituali.
2. Immagine “ardita, sovrasensibile [ma tono cannibale]: perfino “nell’amicizia ci si ciba in effetti del
proprio amico, o si vive di lui” (il cibo come prendere per sé che diventa criterio anche per parlare
dei rapporti con gli altri). Il che può apparire “certamente molto barbaro al gusto rammollito della
nostra epoca”.
3. D’altra parte “sono poi davvero sangue e carne qualcosa di tanto disgustoso e impuro”? → parla
del cibo dal pdv di chi mangia e divora, del “leone”
4. “Quanto più violentemente resiste ciò che deve essere mangiato tanto più violenta sarà la
fiamma nel momento del piacere (la violenza carnale è il piacere più grande)”. Quanto più ciò che
devo mangiare resiste, lotta, cerca di rimanere vivo, quanto è più soddisfacente il momento del
nutrirsi. [nel dire ciò, Novalis sta parlando della comunione]. Egli sta dicendo che non c’è differenza
tra noi e il leone.

Dinamiche simili
Codici diversi:
- Sacrificio
- Ipocrisia
- Eccesso

Dinamiche simili:
- Sacrificare qualcosa o qualcuno
- Prendere per sé -> comunità e lotte per la sopravvivenza
- Condivisione del sacrificare e/o del prendere

Mangiare diventa simile a sacrificare: quando condividiamo il cibo, condividiamo il fatto di sacrificare
qualcuno (la logica del “me o te”).

Se siamo schiavi del cibo, tutto diventa una guerra alimentare, ma anche mondiale, una guerra perpetua
per garantirsi di che mangiare.

Sangue e dissimulazione
1. Sublimazione culturale cibo: cucina, storia, ricette, tradizione locale, ecc… → noi tentiamo di
dissimulare la logica del sangue e del sacrificio attraverso gesti, uso di posate, creazione di una
cultura culinaria (non mangiamo gli animali mentre sono ancora vivi) che nobiliti l’atto del
mangiare. Ma il gesto rimane lo stesso: mangiare è fare violenza, è sacrificare.
2. Noi diversifichiamo i consumi. Spostare da lavoro a festa:
a. Cibo lavoro: da bestie, del dolore, preumano, subumano → è il cibo della sopravvivenza
b. Cibo festa: comunità, gioia → noi mangiamo e creiamo pranzi di festa. Gli animali non lo
fanno. Ma questo è l’ennesimo tentativo di sublimazione: il cibo veramente necessario è
solo quello del lavoro
3. Diversificare consumi. Come fosse discutere:
a. Consumi diversi: biologici, microbiotici vs seriale → ma la logica è sempre quella
consumistica
b. Sospendere consumi (diete/digiuni):

Bistecca e patate fritte


“La bistecca partecipa della stessa mitologia sanguigna del vino. È il cuore della carne, la carne allo
stato puro, e chiunque se ne cibi assimila forza taurina. Con tutta evidenza il prestigio della bistecca
è connesso con la sua quasi crudità: il sangue ben visibile, naturale, denso, compatto e insieme
secabile; è facile immaginare l'antica ambrosia nella specie di questa pesante materia che si riduce
sotto i denti in modo da far sentire, a un tempo, la sua forza d'origine la sua plasticità a trasfondersi
nel sangue stesso nell'uomo. (…) Mangiare la bistecca al sangue rappresenta quindi una natura e
insieme una morale”. (R Barthes, studioso, Miti d’oggi, 1957)

Francia: piatto tipico, nazionale = bistecca al sangue con patatine. Un sangue che, prima negli animali, ora
entra in circolo nell’uomo.

Il codice del sacrificio


Natura Morale
Carne Forza
Sangue Vita
Crudità Sacrificio
Ritorniamo sempre al “Mangiare per essere mangiati”. Il principio naturale per tutti gli esseri viventi:
sbranare è esistere.

Sushi: come abbiamo fatto?


“Come abbiamo fatto a passare dai piatti di salumi ai tranci di maki? Dalla carne selezionata al
sushi preconfezionato? E dalle patate fritte al riso? È come se all'improvviso questo paese non
avesse più fame (cibo più anemico in colori). Come se, dopo aver masticato per tanto tempo le
interiora del mondo (gli animali), si fosse abbandonato, con le mandibole stanche, ai languori della
dieta, accontentandosi di un filetto d'alga, di una noce d’amido e di un pizzico di fosforo […].
Cinquant’anni dopo, il sushi segna la fine dei fagioli, l'abbandono degli oli sfrigolanti e della carne
arrostita al ferro della patria” (Dubois, in Garcin, Nuovi miti d’oggi, 2007)

Oggigiorno, noi tendiamo a mangiare meno carne e meno cose crude. Ma davvero qualcosa è cambiato?
Non mangiamo più la carne al sangue, ma il pesce al sangue (carne più chiara quando cruda). Pensiamo di
essere meno feroci (più biologici, sostenibili), ma la logica è rimasta la stessa (cibo crudo, ma senza
sangue visibile), quella dell’aggressione, della lotta.

Fuori luogo
“Quando stiamo mangiando, la parola uccidere ci appare del tutto fuori luogo, inopportuna e radicalmente
sbagliata, come se non avessimo assolutamente nulla a che fare con ciò che stiamo tranquillamente
facendo ogni volta che mangiamo carne. In quei momenti – come efficacemente scrisse Marguerite de
Yourcenar – serenamente e pacatamente digeriamo le agonie di esseri viventi. (Rossi 2011)
Dire uccidere mentre si mangia sembra inopportuno. È tutta apparenza, ipocrisia. Non parliamo uccisione,
ma è esattamente quello che stiamo facendo mentre mangiamo. E, in definitiva, noi ci nutriamo delle
agonie, delle sofferenze di chi abbiamo ucciso per mangiare. Il discorso è ironicamente critico.

Equo e solidale
Abbiamo alternative (siamo liberi di scegliere!?):

SCANSIE SUPERMERCATO EQUO E SOLIDALE


COMMERCIO INDUSTRIALE COMMERCIO EQUO
CONSUMO INDISTINTO E MASSIFICATO CONSUMO ATTENTO E RESPONSABILE

“Io mangio equo e solidale” → ci tranquillizza. Equo sì, in apparenza, ma i costi sono altissimi (Dov’è
l’equità in questo? Chi non ha soldi come fa a permettersi questi prodotti?). Siamo attenti a quello che
mangiamo, andiamo in negozi di equo e solidale. Al tempo stesso, però, tale alternativa ci inquieta (qual è
la verità dietro a questo commercio? → l’ipocrisia dietro a tale scelta è ciò che ci inquieta).

Un codice dell’ipocrisia
“la moralità del registratore di cassa è un'idea di moda: dire a se stessi che gli svani del Caucaso o
che gli yanomani del Brasile guadagnano qualche centesimo di euro in più per le loro collane di
artigli di ghiro o le loro gallette ai semi d'uva è consolante. Il caffè, il cioccolato, il rum, il tè, la
confettura di guaiava, il succo di mandarino e gli stuzzicadenti di balsa hanno ormai il loro angolo
negli ipermercati, con la garanzia di un prezzo più basso: sono stati eliminati gli intermediari, i
famigerati intermediari che, sin dalla notte dei tempi, truffano i fornitori, aggirano le assicurazioni,
sottopagano i trasportatori e, nell'ombra, si fregano le mani. Tra le patate fritte surgelate e la
zuppa in scatola, troviamo ormai un reparto “commercio equo e solidale” che tranquillizza (…)”
(Forestier in Garcin, Nuovi miti d’oggi)

Moralità del registratore di cassa?


Ma ne siamo davvero sicuri? Ovvio, “in tal modo, la concretezza politica (giustizia, equità,
solidarietà, democrazia) ci entra nel piatto. Eppure, gli occidentali sono divisi tra la coscienza e la
ragione. Laggiù il terzo mondo aspetta, insulta, minaccia. Prepara uno tsunami rivoluzionario. Il
commercio equo è il valium delle sommosse. Ma, a pensarci bene, non è una contraddizione in
termini? Equo, il commercio? Suvvia!” (Forestier, in Garcin, Nuovi miti d’oggi)

Mangiamo democrazia: Goethe ha torto → questo solo in apparenza: il commercio equo non è tale da
risolvere i problemi di disuguaglianza, da superare la crisi. Il commercio equo è un contentino affinché il
sistema continui a funzionare. A ridere, rimane solo il registratore di cassa: tutto finisce là. Il commercio si
basa sulla logica degli affari, del denaro, non può essere equo.

Consumi alternativi
- Ecologico
- Vegetariano.
- Senza intermediari.
- Più guadagno alla fonte.

Ci tranquillizza come metodo, siamo liberi di scegliere questa via. Ma il mangiare equo mangia anche la
giustizia, la solidarietà, pagando qualche soldo in più. Il terzo mondo aspetta ancora: noi siamo alternativi
per noi; ma la gente muore ancora di fame (loro non hanno alternativa).
Rilassarsi e dormire
Questi metodi alternativi, quindi, ci tranquillizzano se vogliamo dormire, illuderci.

Villaggio liberal-comunista: il nostro “villaggio liberal-comunista”, dove s’inquina l’ambiente


mangiando in compenso del cibo biologico. (Zizek, 2008)

La globalizzazione è il nostro comunismo; siamo convinti di essere liberi nel villaggio globalizzato, che è una
realtà comunista e totalitaria.

Questo equo solidale, in realtà, condanna qualcuno a vivere per nutrire altre vite:
1. Vivere per nutrire altre vite
2. Prendere per sé con meno scrupoli (paghiamo di più = siamo dalla parte del giusto)
3. Consumare, comunque, ma alternativo.

Cambia davvero molto? Ci dovrebbe realmente tranquillizzare? NO.

Non con le battute


Non si risolve tutto con delle battute, con un’argomentazione ironica.

Non sonnifero contro giustizia più giusta di quella che facciamo mangiando equo; non con battute sul
registratore di cassa.

Rimane un principio di cooperazione, tipicità, qualità, giustizia, autonomia, responsabilità, solidarietà. Ed è


grazie al cibo che possiamo fare questo discorso.

Cibo e festa
Il cibo ha una dimensione sociale, di festa. Un conto è parlare di cibo feriale, il nostro carburante per
sopravvivere; un conto è il cibo della festa, che non è presente nel mondo naturale, animale (come lo
giustifichi?). Il cibo della festa, magari migliorato, diventa esagerato, tutto esplode: come se, nella festa, il
cibo sia comandato più che nei giorni feriali.

Cibo festivo: sovrappiù, esagera, trasgredisce.

Codice simbolico normativo istituente

1. Rompe, spezza, esagera


2. Trasgressione intenzionale → permette successivo rientro nella normalità (Riva, Segni)
3. Cibo festivo/ sesso trasgressivo e comandato di Bataille. Che apre al sacro (L’erotismo, 1997)

Festa d. grande salsiccia


Bacthin: In “Rabelais le immagini conviviali, cioè quelle del mangiare, del bere, del nutrimento e
dell'assimilazione del cibo sono direttamente legate alle forme della festa popolare. Non si tratta
comunque del bere e del mangiare come atti quotidiani e facenti parte dell'esistenza di ogni giorno
[…]. Tutte le immagini del bere e del mangiare hanno in Rabelais una forte tendenza all'abbondanza
e all'universalità [che] è come un lievito aggiunto a tutte le immagini del nutrimento; e con questo
lievito esse ingrandiscono, crescono, si gonfiano fino all'eccesso e alla smisuratezza. In Rabelais
tutte le immagini del mangiare sono simili alle salsicce e al pane gigantesco, che di solito vengono
portati in giro durante le sfilate del Carnevale”. (Batchin, Rabelais e la cultura popolare, 1979)

Rabelais autore di Gargantua e Pantagruel (tardo medioevo, Cinquecento).

Perché essere esagerati? Perché nella festa il cibo è promesso a tutti, anche a chi non mangia nei giorni
feriali. È l’illusione di poter mangiare. La festa copre, esagerando, quello che non è (la città non provvede a
tutti, non tutti mangiano). Mantiene viva l’immagine dell’illusione.
Nulla in comune
E ancora: “le immagini del mangiare e del bere delle feste popolari non hanno nulla in comune con la vita
quotidiana statica e con il soddisfacimento del singolo individuo. Sono immagini profondamente attive e
trionfanti perché concludono il processo di lavoro e di lotta dell'uomo, in quanto essere sociale, con il
mondo”. (Bachtin, Rabelais, 1979)

Festivo e feriale
Il cibo della festa: giovane -> vecchio, miserabile -> re. C’è un cambiamento (illusorio).
Cibo per: tutti, popolo, abbondanza, spreco, comunità, democrazia, rivoluzione.
Cibo e ferie: solitudine, fatica, mancanza. → questa è la realtà quotidiana
Nella festa, chi ha fame -> mangia. Ce n’è per tutti; ma nei giorni feriali, non è così.

Salsiccia e follia
La follia dà sapore alla vita, di solito così triste, condisce i conviti, nomina il re del banchetto.
Erasmo da Rotterdam, Elogio, 1513

All’epoca (già allora c’era lo sballo), nei giorni di festa, si nominava un re del banchetto (povero, storpio) al
posto del re vero e proprio. Ma il giorno dopo, tutto tornava in ordine.

La tendenza ad esagerare il cibo fa sempre parte del principio del nutrirsi, del divorarsi l’un l’altro.

Festa e illusione
Illusione sacrificio democratico.

Orgia di un mondo alla rovescia → Per tornare subito fatica e ingiustizia

Si partecipa a “sbranare e essere sbranati” → Resta mito del sangue e della carne

Si condivide poco con altri → Come nel tempo della fatica

Delirio collettivo a comando di un mondo dove tutto cambia → Perché tutto resti quello che è

La festa, l’esagerazione, l’eccesso: per tutta la vita ci sarà una festa, dove il cibo è esagerato; ma, poi, al
lunedì, si ritornerà docili e obbedienti secondo quanto stabilito dal sistema. Questa è la rivelazione.

L’esagerazione è tutta un’illusione, una menzogna, una copertura per la realtà (pochi mangiano, tanti
digiunano → nella festa, viene rovesciato). È importante che ci sia un giorno diverso dagli altri, illusorio, per
ritornare e accettare la normalità di tutti gli altri giorni.

Scene voraci
Homo Hominis Lupus: l’uomo è lupo dell’uomo → come dire che siamo tutti schiavi del cibo, della lotta per
la sopravvivenza che punta al divorarci l’un l’altro

Immagini voraci (sembra che non ci siano vie d’uscite alla mitologia del sangue):
1. Carne e sangue
2. Fratellanze di sangue
3. Aggressione, controllo e vantaggio
4. Cedere libertà per non sbranarsi l'un l'altro
5. Fondazione perversa di potere all'interno della comunità
6. Banchetto sociale, inclusione/esclusione, paura
7. Tiranno: sublimazione istituzionale
a. mangia più degli altri
b. esibisce abbondanza
c. governa e minaccia di divorare
Teorie voraci:
- Goethe, Novalis, Bruderschaft
- Hobbes, Assolutismo
- Cannetti, Massa e Potere

CIBO, LAVORO E DEMOCRAZIA


Cibo e democrazia
Il cibo è un problema di democrazia (o di tirannia).
Assolutismo: meglio schiavi a pancia piena che liberi e divorati dagli altri a pancia vuota (e divorati dagli
altri).
Democrazia: “Nessuno dei cittadini deve mancare del cibo” (Aristotele, Politica, 1329) (FESTA: Democrazia
solo un giorno a settimana?) → questo in teoria, in realtà il cibo manca. Notiamo l’uso del termine
“cittadini” e non “uomini”: il cibo non deve mancare per i cittadini italiani, ma in Africa? Abbiamo una
democrazia del cibo in Italia e non in Africa.

➔ Il cibo è un problema di democrazia che si manifesta:


o all'interno della propria comunità (paese, nazione, città, quartiere)
o nei confronti del mondo Fino a che punto siamo disposti a prendere ogni cosa pur di poter
mangiare? I deserti avanzano, i terreni coltivabili diminuiscono, il mondo è consumato,
mangiato, ci mangiamo anche tra di noi, ma, dopo di noi, non resta nulla.
o nei confronti degli altri. il nostro cibo crea mancanza di cibo in altre parti del mondo?
[La stessa sorte del cibo è riservata al lavoro. C’è un rapporto molto stretto tra cibo,
democrazia e lavoro]

Il cibo è simbolo dell’esistenza stessa. Anche se dall’altra parte c’è sempre la tentazione dell’assolutismo,
del totalitarismo, dell’anti-democrazia, della schiavitù. C’è sempre la tentazione, c’è sempre qualcuno che ti
promette di darti il pane senza dover pensare a nulla. Ogni promessa politica è promessa di pane (che sia
uno sconto di tasse, piuttosto che borse di studio): è promessa di soldi per acquistare il pane necessario a
sopravvivere. La promessa di pane è la promessa di democrazia e di qualsiasi tirannia.

3 icone: pane, terra, denaro

Schiavi a pancia piena?


Meno liberi ma con la sicurezza di mangiare e vivere è davvero meglio?

[Rimpianto]
1. Gli schiavi ebrei rimpiangono di avere intrapreso il difficile cammino dell’esodo
2. A partire dalle “pentole di carne” dell’Egitto, dal tempo in cui “mangiavamo pane a sazietà” (Esodo
16, versetti 2-3)

Almeno 2000 anni fa (il testo della Bibbia risale all’VIII secolo a.C.), gli ebrei erano schiavi in Egitto (non in
senso tecnico, giuridico; ma schiavi in quanto ospiti sottomessi). Il faraone forniva loro poco materiale per
costruire le piramidi ma pretendeva la stessa quantità e qualità del prodotto: gli ebrei si lamentano,
lavorano di più, mangiano poco. Il grido di dolore sale verso il cielo, da dove Dio scende per vedere la
sofferenza del popolo. Gli ebrei, guidati da Mosè, fuggono verso la Terra Promessa. L’esodo è duro: di
nuovo si ritrovano nella situazione di mancanza di cibo e stanchezza. Allora, si lamentano ancora e c’è chi
arriva addirittura a dire: “Era meglio quando avevamo le pentole di carne, in Egitto”. La cosa buffa è che gli
ebrei in Egitto non mangiavano carne, ma sentivano solo l’odore della carne mangiata dagli egiziani.
Tuttavia, nella fatica del viaggio per la libertà (per sfuggire alla monarchia assoluta del faraone – che aveva
anche il diritto di mandare a morte), si immaginano, si ricordano erroneamente che in Egitto la vita fosse
meno dura, che avessero almeno la pancia piena (“Meglio schiavi a pancia piena, …”).
Il pane è lì per un atto di democrazia, ma può essere lì anche per un atto di sottomissione (come in questo
caso). Questo vale per il cibo che mangiamo ogni giorno.

Al posto della libertà


Anni ’80 dell’Ottocento (all’epoca c’era ancora lo zar e la servitù della gleba – il contadino era legato al
padrone come la terra → uomo come proprietà), in Russia esce a puntate su una rivista un bellissimo libro:
I fratelli Karamazov di Dostoevskij. All’interno del racconto, ad un certo punto c’è un piccolo inserto con un
dialogo un po’ strano. Ci sono due personaggi: uno risponde a delle domande e l’altro fa delle accuse. Il
titolo dell’inserto è “La leggenda del Santo inquisitore”. Lo schema narrativo, botta e risposta (tra una
persona che è l’inquisitore, il diavolo, e colui che è retto), ricorda quello delle tentazioni dei Vangeli di
Matteo e di Luca. In questo dialogo, salta fuori la questione “Pane o libertà”: l’inquisitore obietta al
personaggio che:

Gli uomini non vogliono la libertà, il rischio, l'avventura. Vogliono al contrario la certezza di cibo,
del pane “unica bandiera assoluta” (l’unica cosa su cui possiamo andare d’accordo, che è
desiderata da tutti) che “nessuna scienza procurerà loro finché rimarranno liberi”, e anzi “capiranno
essi stessi che la libertà e il pane terrestre, in quantità bastante per tutti, non si possono concepire
insieme, perché essi mai e poi mai sapranno dividerlo fra loro equamente” (Dostoevskij, 1995, cfr.
Guardini). Saranno “contenti, più che del pane stesso, di riceverlo dalle nostre mani” perché “chi
dovrebbe infatti dominare gli uomini se non colui che domina le loro coscienze e nelle cui mani sono
i due pani”? Hanno “cominciato a costruire senza di noi la loro torre di Babele, termineranno con
l'antropofagia”, con il mangiarsi l'un l'altro. (Dostoevskij, Il santo inquisitore)

Gli uomini, cioè, non vogliono la libertà perché, liberamente, non sono in grado di dividersi in modo equo il
pane – litigano, discutono (per tutte le risorse in generale, per il lavoro → il pane è simbolo di tutte queste
cose). Vogliono che intervenga qualcuno a dar loro il pane, in modo da non dover pensarci da sé.
L’obiezione dell’Inquisitore è che gli uomini non vogliono democrazia, ma pane → per ottenerlo, bisogna
uscire dalla democrazia e affidare il pane ad una sola persona che lo amministri (regime totalitario).

1979, Hans Jonas “Il principio responsabilità”: Hans sostiene che stiamo andando verso la distruzione del
mondo. L’umanità è a rischio di estinzione (problema ecologico legato al cibo). Le nostre democrazie hanno
fallito (davanti alle problematiche ecologiche, nutritive, democratiche), quindi è meglio una tirannide
moderata. (concentrazione di poteri in uno solo -> Hobbes “Il Leviatano”)

Quindi, un gesto apparentemente semplice come quello di mangiare si porta dietro dei problemi di fondo:
sono libero o schiavo? Pane al posto della libertà?

La tirannia dei bisogni finisce nel bisogno di tiranni, per non divorarci tutti l’un l’altro. Per il pane (ma
anche per il lavoro), si è disposti a cedere diritti, libertà.

Uno scambio falso


Il pane è incompatibile con la libertà. Il cibo non è sufficiente per tutti, bisogna dividerlo (sorge un
problema).

“… si affida all’utopia tecnologica (la scienza) per rispondere ai bisogni, anch’essa tirannica perché
costringe l’umanità, e ora in misura crescente a causa del suo inarrestabile sviluppo, a sollecitare
incessantemente con somministrazioni chimiche la terra” (Jonas)

Jonas denuncia la tirannia della scienza, ma vuole quella politica. Per risolvere la tirannia della scienza,
serve un altro tipo di tirannia.
Il pane della libertà
Da togliersi il pensiero (di vivere), affidandolo ad altri (il tiranno → che si occuperà lui delle mie
preoccupazioni), a PANE DELLA LIBERTA’: dato a tutti senza distinzioni né condizioni (piove dal cielo)
permette il cammino, impedisce l'accumulo, il commercio e il rifiuto (al suolo si scioglie).[Manna, Esodo 16,
4]

Striptease inaspettato
Nel 1966, esce un libro di un autore africano (Frantz Fanon, “I dannati della terra”), un libro di polemica e
di denuncia contro il colonialismo dell’Occidente in Africa (conquistata per le risorse e spartita tra le
potenze europee). Notiamo la data di uscita del libro: 1966. Siamo dopo la Seconda guerra mondiale,
quando è già stata emanata la Dichiarazione internazionale dei diritti fondamentali dell’uomo e del
cittadino (1948); eppure, in Africa sono ancora perpetuate violenze terribili. In Africa non erano forse
uomini? L’assurdità è che le potenze europee, in nome dei diritti dell’uomo, dell’ “esportazione della
democrazia”, occupavano terre, affamavano popoli, depredavano (esportazione della democrazia
attraverso le guerre, le cosiddette “missioni di pace”).

Sartre realizza la prefazione al libro (filosofo, scrittore di teatro, vincitore del premio Nobel nel 1939 con
l’opera “La Nausea”). Fa un discorso sull’umanesimo occidentale, sui diritti dell’uomo e del cittadino – alla
luce degli eventi in Africa, usata come serbatoio di materie prime dell’Occidente. Parla di umanesimo
perché è una delle cose più preziose che abbiamo: uguaglianza, giustizia, libertà, parità, diritti. Questo è
l’umanesimo. Ma, nella pratica, non è altro che una bugia: è una scusa per la conquista. Gli eventi in Africa
hanno, cioè, messo a nudo l’umanesimo (striptease): per l’Occidente significava il diritto di aggredire, per
l’Africa il dovere di essere aggrediti. Ma è possibile che i diritti UNIVERSALI valgano per l’occidente e non
per gli altri?

Mette in guardia da “uno spettacolo inaspettato: lo strip-tease del nostro umanesimo. Eccolo qui
tutto nudo, non bello: non era che un'ideologia bugiarda, la squisita giustificazione del saccheggio”.
L'umanesimo occidentale mente perché da un lato si appella ai diritti universali e dall'altro lato
promuove il saccheggio e l'aggressione. Alla fine “un uomo da noi vuol dire un complice perché
abbiamo approfittato tutti dello sfruttamento coloniale”, della rapina, del prendere a proprio uso e
consumo, del portare via, dell'oppressione.

Possiamo anche dare la colpa ai governi e non riconoscere noi singoli come responsabili di queste disgrazie.
Eppure, anche noi siamo complici in quanto abbiamo beneficiato del saccheggio in Africa in silenzio.
Abbiamo permesso che si occupassero terre. Noi, con i nostri panini, con il nostro cibo – di cui non
sappiamo l’origine morale – siamo responsabili. L’umanesimo ci appare nella sua bruttezza: in nome dei
diritti universali, ci arroghiamo il diritto di esportare la nostra cultura a chi cultura, secondo noi, non ha e
nel farlo rinneghiamo questi stessi diritti.

In Africa, il nostro umanesimo si è spogliato: assistiamo allo striptease del nostro umanesimo (che appare
come una meretrice, che si vende, che vende i propri principi). L’umanesimo, di cui ci vantiamo, si è rivelato
una bugia. In nome dell’esportazione di diritti, abbiamo saccheggiato. I diritti sono stati usati come
giustificazione per ridurre l’Africa ad una colonia.

Parole chiavi: striptease, complici, umanesimo, bugia, saccheggio, giustificazione, colonia.

Diritti: parliamo continuamente di diritti (giornale, tv, a scuola, …). Tutti parliamo di diritti in termini di
pretese (per noi e non per gli altri).

Con Sartre, c’è qualcosa di più raffinato (qualcosa cambia rispetto alla posizione di Dostoevskij, di Jonas, …):
emerge una situazione doppia, molto più ipocrita di quella sviluppata da altri autori. Noi siamo capaci di
non rinunciare alla libertà – alla democrazia –, diventando però oppressori di altri (non riconosciamo
l’impossibilità di avere libertà e pane). Siamo complici di chi sfrutta i bambini per estrarre materiali, di chi
opprime uomini, di chi occupa terre.

La terra degli altri


Il pane è sempre di altri: non solo di chi lo mangia, ma anche di chi lo lavora, di chi lo prepara.

Falsa per se stessi, la promessa di pane (e quindi di lavoro, ricchezza, benessere) è falsa anche per altri. è
sempre un inganno: il pane deve essere mangiato in libertà – che, invece, ci viene tolta. Le “situazioni del
Terzo mondo” non sono molto cambiate. Per Berger “offrono ampia occasione” per dire insieme un no:
1. “No ai bambini che vivono nell’immondezza, no allo sfruttamento e alla fame, no al terrore e al
totalitarismo” (Berger, 1981).
2. È un no più difficile da dire (oggi) quando la fame non è solo l’effetto dello sfruttamento ma
l’essere lasciati per ultimi nel “festino consumista” (Bauman, 2002). Il mondo è diventato un
mondo di consumi: è più difficile dire no all’ingiustizia in questa situazione. I nostri consumi sono
giganteschi, mentre altri, gli ultimi, non hanno nemmeno la possibilità di mangiare.

Nel pane c’è una rivolta a dire di no.

Mangiare denaro
Cosa c’è dietro al discorso del cibo? La tirannia dei bisogni diventa tirannia sulle vite, tirannia politica, che
diventa rinuncia alla democrazia o democrazia ipocrita (che vale per noi e non per gli altri). Dietro a tutto
questo, però, c’è il DENARO. Oggi nessuno mangia senza denaro. Non è il tempo in cui puoi sopravvivere di
espedienti: tutto è tassato, tutto costa. Il vero tiranno, quello che tutto permette, che garantisce o vieta il
cibo, oggi, è il denaro. È lui che discrimina chi mangia e chi non mangia, e che cosa mangi (sano o meno).
Stanno aumentando moltissimo le persone che hanno bisogno a livello primario il cibo. I senzatetto non
sono solo quelli del nostri immaginario.

SUPERMERCATO GLOBALE
a) Cibo abbonda/ Cibo scarseggia
b) Cibo collettivo/ Cibo individuale

→ Azioni comuni rivolte a soddisfare individui


→ Soddisfacimento individui sembra l’unica preoccupazione collettiva = “consumo dunque sono”
→ denaro = unica mediazione

Denaro:
- Onnipresente
- Pervasivo
- Massima dissimulazione delle narrazioni violente del cibo:
o Media
o Mette a distanza

Più di re Mida
O sei un adoratore del dio denaro, o non accedi alle risorse. Effetto doppio:
1. Cibo ingiusto diventa giusto → perché pagato … non si vede più nulla, saccheggi, furti, distruzione
2. Accesso al cibo dipende per intero dal denaro
= quasi dovessimo fare + di Mida
= mangiare denaro

Ma senza denaro non si mangia → né cibo né denaro


Denaro ambiguo:
1) Libera
2) Nuove schiavitù
Il nostro umanesimo
Sartre ha ragione: il cibo mette alla prova il nostro umanesimo → sono o non sono uomo mentre mangio?
Siamo uomini? Quanto siamo umani? Quanta umanità c’è nel cibo?

Tensioni sul cibo sono istruttive → tre domande:


1) Sull’umanità dell’umano a fronte della lotta per sopravvivenza: si salva qualcosa di umano nel
bisogno di mangiare? → o tutto è permesso/giustificato per poter mangiare?
2) Sulla sua importanza quotidiana: il cibo è molto importante. Attraverso il cibo passano tante
strutture collettive, comunitarie e sociali di potere.
3) Sul rapporto così stretto con la convivenza:

PROSPETTIVA DI BUBER
Il cibo non rende schiavi (Libertà)
Se fosse tutto il contrario? E se fosse tutto un equivoco? Scambiamo il bisogno di mangiare per una
schiavitù. Ma il bisogno non è necessariamente schiavitù: la necessità di cibo non vuol dire essere schiavi.
- Il cibo “di cui viviamo non ci rende schiavi ne godiamo” semplicemente (Lévinas) -> non è più la
tirannia dei bisogni. il cibo è un bisogno che non diventa schiavitù. La fame pensa, la fame parla,
dice di me e degli altri. La fame mi insegna a dire grazie per ciò che si riceve, parla di rispetto, parla
di responsabilità. Mi parla del dolore di stare nella fame, mi rende sensibile alla fame.
- la fame patita è l'occasione per liberarsi sul serio, per farsi sensibili, responsabili del chiedere
proprio e degli altri.
- Ogni giorno tutti quanti, tutti insieme, così bisognosi, così mendicanti. → bisogno degli altri. Il
cibo è una forma di distrazione da sé: mi insegna che ho bisogno di altro da me, che siamo tutti
mendicanti, in cerca di qcosa per vivere.
- Il comandamento biblico “Tu non ucciderai” smaschera lo schema delle nostre relazioni abituali
con il mondo, dove un soggetto – noi stessi – ritiene naturale assimilare tutto e tutti come proprio
“nutrimento”. (Lévinas, Difficile libertà; Totalità e Infinito, 1961)

ROVESCIAMENTO DELLA SCHIAVITU’: Diritto al cibo, al territorio, alla responsabilità


1. Diritto al cibo, alla vita, alle risorse, al lavoro → vs schiavitù, bisogno (i tre tipi visti all’inizio)
Come contraltare della schiavitù dal bisogno di cibo che mette in discussione a ogni istante
dell’esistenza il diritto alla vita per chi già vive.
2. Diritto al territorio, al rapporto diretto, alla libertà, alla tipicità, all’alternativa alimentare, alla
diversificazione, alla trasparenza, al rifiuto di accumulo, di eccesso e di rifiuto, alla critica dei
monopoli del cibo vs lotta alla sopravvivenza
Come incriminazione della schiavitù dalla lotta per la sopravvivenza, che fa del mondo un immenso
supermercato dove ogni essere vivente è nello stesso tempo consumatore e consumato, colui che
mangia e che viene mangiato.
3. DIRITTO (PRIMA CHE DOVERE) DI RESPONSABILITÀ PER LA TERRA E PER GLI ALTRI, PER LA QUALITÀ
E LA SOSTENIBILITÀ, PER I BENI COMUNI, PER LA GIUSTIZIA E LA DEMOCRAZIA vs Cibo-Distruzione
Contro la schiavitù da un principio del nutrirsi che distrugge tutto ciò cui dà vita, che fa della vita e
della morte dei viventi un gioco alimentare a proprio esclusivo vantaggio.
La responsabilità è prima di tutto un diritto e poi un dovere: il dovere ce lo impone e ricorda la
società continuamente.
ETICA E INFINITO (Emmanuel Levinas, 1982)
La distrazione da sé ovvero la prossimità, il sociale
Il libro si presenta sotto forma di un dialogo “giornalistico” (filosofico) tra Philippe Nemo e Emmanuel
Levinas (filosofo del dialogo: la parola è importante), con il primo che pone delle domande al secondo.

Il libro comincia con un discorso strano incentrato sul distrarsi da sé. Questa tematica non assume un
significato negativo, il distrarsi – o in francese “disastrarsi” – rende l’idea che il centro non sono io, ma
quello che mi succede intorno. È un essenziale cambio prospettiva, che l’uomo DEVE saper fare.
Se è possibile distrarsi da sé (che è l’equivalente di avere una passione, di innamorarsi), è possibile
l’umanità, che ci sia l’uomo (non è possibile l’uomo come essere vivente, ma l’umano). Non è il dire “io, io,
io” ma saper creare rapporti (differenza tra io ti amo e amo a te → nella prima frase c’è più “violenza”,
minaccia, masochismo, è più incentrata sull’io).

Ma è possibile disastrarsi da sé? Non pensare solo a noi stessi? Certo che è possibile. È qualcosa che accade
quotidianamente e che capita senza che lo vogliamo. Anche qui è calzante l’esempio dell’innamorarsi. E il
fatto che capiti vuol dire che le cose più belle della vita capitano senza che noi le vogliamo, senza che le
cerchiamo; noi ci limitiamo a rispondervi. Queste cose capitano e non grazie a me, capitano distraendomi,
capitano grazie agli altri, all’altro. E, dunque, se capita il distrarsi, capita l’umanità, accade nel quotidiano.
Questo discorso che stiamo facendo è l’equivalente che dire che è possibile il rapporto con l’altro, la
socialità, il rapporto umano: è possibile solo se avviene il distrarsi da sé.

Tutto questo equivale all’ingresso dell’infinito nel finito. Non sono più io, ma ho una prospettiva, mi viene
data una prospettiva (anche se non sembra, c’è di più nel mio io). Scopro la trascendenza: scopro che tu
non sei uguale da me ma che sei altro da me; e, in questo modo, intuisco il senso della vita. Questa è la
bellezza alla base dell’amicizia e che ci avvicina, attraverso queste intuizioni, ad una dimensione
trascendente. Lo sguardo che usiamo in questo processo esperienziale è quella del fenomenologo.

Ora, analizziamo quelle esperienze che rappresentano l’ingresso dell’infinito – la distrazione – nel finito –
noia quotidiana. Nel libro vengono usate quattro tematiche-esperienze per esemplificare questo concetto di
distrazione da sé: lettura, come, parola, eros.

La lettura (cap. 1)
Noi leggiamo molto, tutti i giorni. Anche gli oggetti con cui ci rapportiamo tutti i giorni sono oggetti di
lettura: tutto il giorno leggiamo numeri, informazioni, auto, semafori, giornale, numeri delle aule, discorsi
altrui. Leggiamo senza neanche accorgerci di leggere. Questa è un’esperienza quotidiana inavvertita ed
inconsapevole. Si tratta di una lettura “banale”, scontata e strumentale: necessaria per muoversi nel
mondo ma superficiale; mi ritorna addosso, serve al “me”, all’ “io”, ma non mi tocca veramente (delle
indicazioni stradali o delle slide non smuovono nulla dentro di me, servono solo per orientarmi).

Tuttavia, esiste anche un tipo di lettura profonda (come una storia, un libro, una bella poesia, una canzone:
confezionate in un certo modo). Qual è la differenza? La lettura vera, autentica e attenta fa accadere
qualcosa, ti trasporta altrove, ti rende sensibile all’altro, ti fa immedesimare. Ti fa essere altro da quello che
sei, ti fa accorgere dell’altro; fa apparire l’umano nella sua umanità. Questa altra lettura la definisco come
una “modalità del nostro essere”, è un nostro modo di essere: ci fa essere, e ci fa essere in un modo
diverso. Questo tipo di lettura può essere definita in diversi modi: è la fiera indipendenza degli esseri, è la
rottura nell’essere, è interiorità non solipsistica, è un volto umano; per riassumere è l’io che si apre all’altro.

La bella letteratura, i bei libri (Anna Karenina, Orgoglio e pregiudizio, … Dostoevskij, Tolstoj, Shakespeare;
ma anche la musica, i bei film) appartengono tutti al grande libro dell’umanità, in quanto si riconducono
tutti all’esperienza fondamentale di immedesimazione/ sensibilizzazione all’altro – l’umanità non è altro,
infatti, che la responsabilità per altri. Però c’è un libro più libro dei libri. Tutti i bei libri fanno parte di
questo grande libro dell’Umanità, ma ce ne è uno che è più libro degli altri libri. Per Levinas, si tratta della
Bibbia ebraica (lui è ebreo convinto): perché in quel libro, per la prima volta, si dice la parola delle parole:
“responsabilità”. Nel capitolo quattro della Genesi, infatti, quando Caino ha appena ucciso Abele, Dio gli
domanda: “Dov’è tuo fratello”; e lui risponde “Sono forse responsabile/custode di mio fratello?”
(addirittura, questa parola per eccellenza è pronunciata dall’assassino). Ed è in questa frase che viene
condensata le fondamenta della Bibbia: non è importante per la sua sacralità magica – che comunque fa
parte della sua essenza = la bibbia è un libro sacro – o per la sua origine soprannaturale; ma perché è parola
di Dio e contemporaneamente parola dell’umano. Perché in questo libro, per la prima volta (nell’VIII secolo
a.C.), la responsabilità è esplicita; è coscienza: non è più nascosta in una risposta emotiva come per altri
libri (che ci commuovono, ci fanno riflettere ma non sempre mettono per iscritto la parola responsabilità);
in questo libro, la responsabilità – e il male – per/verso altri viene annunciata. E, con questa responsabilità,
ci annuncia anche la rottura dell’attenzione solo per se stessi. I motivi che rendono questo libro “sacro” e
importante, poi, sono plurimi e legati alle tematiche che esso tocca: rottura con l’io; santità non
sacramentale; crisi; pluralità intima; dialogo; messa in discussione; egoismo; fine del dogma.

Il come (cap. 2)
La faccenda del “come” è il cuore del discorso: è ciò che sta sotto tutto. Il distrarsi da sé è impossibile fin
quando non sei di fronte all’altro. Solo in quel caso, ti poni il problema del come (come mi vesto; come mi
presento; come baciare). Il pensiero del come spacca l’essere e annuncia la libertà (passaggio da ciò che si è
al come si è). Il modo, il come fa già parte della nostra esistenza, ma solo l’incontro con l’altro ci porta a
svilupparlo, ad approfondirlo – nessuno sviluppa il pensiero del come se pensa che il mondo finisca dopo il
suo naso. L’emergere del come è una rottura del sé; è un mettersi in discussione; è il pensiero di essere fra
altri. Il pensiero del come è, dunque, un altro espediente del distrarsi da sé. È uno risveglio dello sguardo
rivolto all’altro, e non più solo su di sé.

Il pensiero del come non è più soltanto un sapere le cose, ma un viverle e un sentirle, un praticarle
affettivamente. Il come costringe, cioè, a:
a) allargare sguardo (a riguardare sempre di nuovo e da capo);
b) penetrare con lo sguardo;
c) mettersi in discussione; (se non ti poni il pensiero del come resterai sempre uguale a te stesso);
d) snudare pensieri inespressi (il come impone di ricordare pensieri dimenticati, e invita a far
emergere tanto i sottintesi quanto i malintesi del pensare).

Le funzioni del come


La questione del “come” può essere interpretata in due modi:
- Cambio: il pensiero del come muta il significato dell’essere. Prima ancora di essere un pensiero, il
come è una rivelazione dell’io con cui si è al mondo, e che si patisce attraverso gli stati d’animo. Il
come è interpretato in quanto tentativo di cambiare, modificarsi, migliorarsi. Questa possibilità è,
tuttavia, ancora ancorata eccessivamente al sé. [essere → esistenza; sostantivo → verbo; natura →
oltre; descrivere → pensare]. Il come mi dice, cioè, che c’è qualcosa che posso migliorare.
- Al di là: il pensiero del come non ci fa solo cambiare, né ci spinge a migliorare delle parti di noi che
già ci sono; ma ci fa proprio voltare pagina. Il come va interpretato in quanto l’essere di fronte a
qualcuno, l’imparare a vivere con te nella diversità del rapporto, a stare con te.

Il pensiero del come svela/interrompe l’ingombro del sé; ci dice che c’è troppo io:
a) C’è
b) Sentimenti dell’esistenza: il problema non è di come essere io ma di come essere di fronte a…
c) Esperienze strane (che rivelano l’ingombro dell’io): Anche se tutto va bene, molto spesso, capita
comunque che dormiamo male, che facciamo molta più fatica a fare qualcosa, che normalmente
faremmo con estrema facilità. Sono segnali del fatto che ci sia troppo me stesso. C’è qualcosa che
continua a darci fastidio e che ci disturba il sonno, che si presenta come fatica, sforzo.
a. Insonnia
b. Fatica, sforzo

Il come cambia il problema dell’essere perché cambia il significato stesso dell’essere: non è più un problema
di essere io, ma di come essere. Inoltre, mette in crisi il problema dell’ingombro dell’essere (Nel dire “è il mio
carattere” non risolvo nulla).
In terza opzione, il come rivela che non è più un problema di come io, al centro di tutto, posso/devo pormi,
ma diventa un problema di come deporsi. Fino a quel momento dentro di noi regnava la sovranità dell’io;
un io che si era incoronato da solo, che era re usurpatore, che aveva rubato il trono a qualcun altro:
l’esperienza del come ci porta a deporre questo re, questo io, questo egoismo.

E la soluzione non è il disinteresse – così scritto – verso di sé per accogliere/dimostrare sensibilità verso gli
altri: perché questa è la soluzione di un io che può permettersi, nel suo egoismo, nella sua bravura, nella
sua centralità, di fare carità per gli altri – è l’io che si ritiene talmente superiore da permettersi anche di
stare con gli altri. Ma serve dis-inter-esse: saper stare tra altri, con gli altri, non dire più io, aderire alla
socialità in modo profondo. Il come per distrarsi da sé ma anche per disastrarsi da sé.

La parola, comunicazione (cap. 1, 4, 9)


Noi tutti abbiamo spesso a che fare con la lettura/ scrittura (non solo la scrittura nel senso proprio della
parola, ma anche scrittura come scrittura fotografica). Nel quotidiano, la parola è strumentale, è
strumento (come nella lettura). È una parola della quale non possiamo fare a meno, è una parola che
continuiamo a usare nel nostro quotidiano (si tratta di commenti, gossip, scherzi, scambi di informazioni
che non hanno risonanza ma necessarie). Della parola strumentale – per quanto banale e apparentemente
inutile – noi abbiamo bisogno, ma essa non fa uscire dalla solitudine; anzi, ci lascia soli con noi stessi
(questo è un paradosso). Non ci mette in comunicazione, in rapporto con nessuno: permane
dell’incomunicabile in questo tipo di parola. Questa parola strumentale è chiamata parola della
Conoscenza (imparare in senso mnemonico, uguale per tutti, non profondo) ed essa:
- Non porta fuori di sé: è l’isteria di se stessi, non è distrazione da sé
- È un prendere: né più né meno.

Levinas è critico con la comunicazione che lui riconosce come fondata sulla parola strumentale; mentre il
suo obiettivo è, invece, tornare all’anima della parola che è il parlare con gli altri.

Luce Irigaray, filosofa belga, scrive un libro in cui cambia la formula della dichiarazione amorosa: da “io ti
amo” a “amo a te”, amo grazie a te, tu mi risvegli l’amore e, in questo caso, l’io non è più posto al centro,
viene deposto l’ingombro della parola strumentale.

[Anche la parola della cultura, nel quotidiano, rischia di diventare strumentale: una parola uguale per tutti,
in qualsiasi epoca, in qualsiasi ora. È parola morta, ripetitiva, senza essere detta a nessuno.]

Ad un certo punto, però, c’è qualcosa che spacca: dentro la parola del quotidiano, qualcosa succede. Ma
questo solo quando la parola non è buttata, non è anonima, ma è rivolta agli altri, è di contatto. La parola è
magari la stessa “Ciao” ma cambia se è rivolta all’altro (non è un semplice rispondere automatico, una
comunicazione neutra: c’è differenza tra salutare e salutare TE, qualcuno → e non avviene perché voglio io
ma perché tu, la tua presenza mi costringe a salutarti: è l’altro che risveglia la parola). Qui, siamo di fronte
ad una parola profonda perché scopre nella parola stessa che parlare non è solo strumentale, perché torna
all’origine stessa della parola: il parlare con l’altro. Importante è, infatti, comunicare all’altro, non
comunicare bene.

Anche la parola ha, quindi, dentro di sé la traccia dell’infinito, perché la parola è una parola che prende. Il
filosofo Cartesio, infatti, nel 1640 dice: “C’è un’idea che la mente trova dentro di sé e che non si dà da sola”
= infinito. Ognuno di noi ha dei limiti, è finito, ma abbiamo l’idea dell’infinito dentro di noi, anche se non
l’abbiamo mai conosciuto. Se accade il distrarsi da sé, il comunicare con l’altro, lì dentro c’è la traccia
dell’infinito.

Problema I: Comunicare vs Dire


- Dire = quando la parola è autentica, quando è un dire ad altri
- Comunicare = quando la parola decade in un comunicare strumentale e tecnico, in uno strumento
per trasmettere cose, per informare

Esperienza quotidiana
- Il saluto è già una risposta, una responsabilità; se è un saluto fatto a te, a qualcun altro, se è un
saluto autentico. Purtroppo, spesso, noi usiamo le parole come parole morte: partiamo da parole,
citazioni, frasi che sono già state dette in passato da un individuo ad un altro e ci limitiamo a
ripeterle (come anche i politici che leggono un discorso già fatto da altri). Queste parole, una volta,
erano autentiche, ma se ripetute senza scopo, senza destinatario perdono la loro autenticità.
- Dire vs Detto → l’origine della parola non è il già detto, ma il dire.
- Sociale (rapporto con altro) vs Società: la società può esistere senza socialità, ma per fare una
comunità – che non sia un branco di individui slegati – essa è indispensabile
- Interumano vs Gruppo:

Dire/dialogo
La parola autentica è un dire, un risalire. Il dire autentico è un dialogo, è un modo tipico dell’interumano,
dell’essere tra di noi. Qualsiasi linguaggio sia (pubblicitario, teatrale, …), esso è una tipicità dell’essere
umano. Se si sbaglia la parola, è sbagliato il modo di essere.

Prima parola
Esiste, poi, una prima parola tra le tante autentiche. Essa non è più relazione, ma comando (uno dei
comandamenti): “Tu non ucciderai!”. Anche il saluta a te, infatti, è un impegno a non violarti, a non
ucciderti, a non tradirti. Ogni parola autentica detta all’altro è un impegno, mi vincola a qualcosa che è più
del rispetto: tu non ucciderai. È una parola di una responsabilità con qualcuno (rivolta a , risposta a,
comando a).

Problema II (cap. 9): dire, disdire


Tra il dire e disdire: come si fa a ritrattare la parola, a tornare indietro dalla parola detta a quella del dire. Le
parole già dette vanno continuamente disdette, decostruite, disgregate, disastrate, distratte. Solo in questo
modo torni al dire della parola, dalla parola morta, già detta, all’infinito della parola. La parola vera dice e
disdice continuamente (es: non puoi riusare lo stesso articolo di giornale su Capodanno ogni anno, devi
disdirlo e riscriverlo ogni volta).

1- Si deve provare a dire


2- Non si può fare a meno di dire
3- Il detto
4- Il detto va disdetto

Questo ti spiega perché tutti i filosofi sono “pazzi”, contradditori. Questo gioco di dire e disdire è il fatto di
far emergere l’infinito che c’è nel dire. La parola del pensiero, della filosofia tematizza l’impossibilità di
mettere a tema (L’infinito non si può tematizzare):
a) Disdire continuo
b) Rottura ordine
c) Lascia traccia dell’infinto nel suo stesso dire
Eros, il mistero (cap. 5)
Nel distrarsi da sé, tra le esperienza della distrazione (parola, come, lettura, …), eros è nel quotidiano più
del quotidiano stesso, è quanto più di quotidiano c’è, l’esperienza delle esperienze, la profondità stessa del
quotidiano. Noi siamo eros (non lo facciamo). Nell’eros, siamo uno di fronte all’altro e non solo ci
guardiamo, ma si verifica un vero e proprio incontro, un contatto, una vicinanza.

Usiamo la parola “eros” (e non amore o sesso) perché non siamo angeli né bestie, ma la nostra carne è di
uomini. Siamo carne innamorata, amore incarnato nel quotidiano. Del nostro amore incarnato, non c’è di
che vergognarsi. C’è da vergognarsi quando eros non mi risveglia altro, all’altro, ma sono solo io, quando è
amore per se stessi e l’altro è ridotto ad uno strumento, un oggetto.

A differenza delle altre esperienza citate, qui, non c’è eros strumentale, non esiste. Esiste, però, il sesso,
che è qualcos’altro dall’eros: l’Eros attraversa la sessualità ma non è sesso.

L’eros è
- Sfuggenza: c’è sempre un lato d’ombra nell’eros, l’eros ci sfugge.
- Non possesso: meno possiedo qualcuno, più lo amo (l’amore è inversamente proporzionale al
possesso). Il possesso non è eros, è violenza, è sessualità.
- Alterità: il tema dell’altro c’è sempre stato, ma con eros l’altro non è più altro generico, è il mio
corpo e il tuo corpo a contatto; l’alterità appare.

Tema della mano: per parlare di eros, è importante distinguere la mano che accarezza da quella che
stringe, che colpisce, che prende. La mano che prende sa tutto, come se fosse uno strumento: sa cosa sta
facendo e dove vuole arrivare. È tecnica, è sapere, è volere. La carezza non è un prendere, non è un
toccare; non la puoi definire: la sai senza saperla. La definisci solo negando quanto detto prima: è un
abbandono, è un lasciare che, è un non sapere, è un non volere.

La via di apertura dell’eros nel quotidiano è quella di questa mano – che accarezza e stringe. Tutto il corpo è
una carezza, tutta la carezza è corpo. Come la mano che prende può diventare carezza, allo stesso modo la
mano che accarezza può diventare presa. E non è facile per noi distinguere l’una dall’altra: spesso ci
sbagliamo, spesso ci illudiamo, facciamo fatica a riconoscere la vera carezza.

Eros, carezza. Accarezzare:


1. Diverso dal toccare → la carezza non sa quel che cerca (se lo sapesse, noi ci accarezzeremmo come
oggetti). Anche senza sfiorarti, senza il te in me e il me in te. [La mano ha la doppia esperienza della
strumentalità e della carezza]. La mano che tocca è strumentale, riduce ad oggetto.
2. Diverso dal sapere → la carezza/l’eros è disordine fondamentale, è una vicinanza dove i corpi si
confondono; mentre il sapere è ordine, è definire. L’eros non è spiegabile, definibile solo in termini
fisiologici. È indefinibile, ma in senso positivo.
3. Diverso dal possesso, al di fuori dal possesso → la carezza è come un gioco (erotico, di Eros), è un
baciare e ribaciare, è infinito nel finito. Non è un limite aver la possibilità di fare e rifare questo
gioco. È un gioco senza scopo, se non quello di giocare, di continuare a giocare, di non esaurire la
voglia di giocare.
4. Sempre a venire: Il tempo della carezza è il futuro, è sempre un venire, è il momento dell’incontro
futuro, è un tempo del futuro e non del presente (il presente è il tempo del toccare). È l’infinito nel
finito di tutti i giorni; è la carezza successiva, il prossimo bacio.

[L’umano, il tempo].

Primo problema: Eros, fenomenologia (come si manifesta) → l’altro è già lì prima (che io lo incontrassi)
L’altro è già presente prima (prima di me, prima dell’incontro con me), ma non solo in termini fisiologici,
biologici – motivazioni non sufficienti a spiegare la presenza dell’altro. L’eros è un risveglio alla vita: quando
mi innamoro è come se rinascessi una seconda volta. Anche se io so solo di me stesso, l’altro c’è prima.

1. Nel quotidiano più del quotidiano stesso. C’è tanta responsabilità nel tuo amore.
a. Scontato
b. Non dice, è detto
c. Dire e disdire
2. Eros nella centratura su di sé tra rivendicazione e moralizzazione: la nostra cultura oscilla tra
questi due termini, entrambi sbagliati.
a. Rivendicazione – Eros è tutto tranne che centrarsi su se stessi. Ad eros si risponde, non si
rivendica: è una questione di risposta all’altro, non a me stesso. Eros non è la
rivendicazione a fare quello che voglio con l’altro, sganciandomi da tutti i diktat morali della
società. Il corpo è segno dell’altro da me.
b. Moralizzazione – Non è neanche una questione di dettare regole, di moralismo (es: ci si può
baciare solo dopo il matrimonio, la vicinanza carnale è sempre peccato). Non c’è motivo di
vergognarsi di praticare eros.
c. Eros è un modo di essere di fronte all’altro che ha la sua regola nella responsabilità per
altri.
3. Fenomenologia di eros: sfugge alla conoscenza (il conoscere è un modo di esaudire, di esaurire e
l’altro non si può esaurire; quindi non lo posso conoscere) e annuncia//ha sempre una
trascendenza intima (anche quando siamo molto vicini, c’è sempre un momento di pudore che ci
ricorda che l’altro non è esauribile, non è totalmente conoscibile).

Secondo problema fenomenologico: cos’è unità d’amore?


Quando si parla di coppia? Solo quando si hanno gli stessi gusti?

Il rapporto con l’altro non è semplice unità; ma è unità nella differenza e differenza nell’unità. Unione e
differenza. È più impegnativo dell’andare semplicemente d’accordo.

1. Eros non supera le differenze vs Hegel; vs numero; vs natura → tu resti tu e io resto io; e ci amiamo
per questo: perché io sono io e tu sei tu. Non c’è reciprocità. Eros è vicinanza che non sopprime la
lontananza; la carezza è vicinanza che non sopprime la distanza. Eros ti ricorda il valore fondante
della differenza. Eros rompe le appartenenze, le etnie, le razze, l’identico

Per spiegare questo concetto, consideriamo una fiaba dello scrittore tedesco Hermann Hesse: “Fiaba
d’amore” o “Le trasformazioni di Pictor (Pictors Verwandlungen)” (1932). Si tratta di un racconto che egli
regala alla moglie. La storia è questa: “Un uomo e una donna sono nel mondo e vedono che tutta la vita
gira intorno a loro. Tutto cambia, gli uccelli diventano pesci, i pesci diventano alberi, gli alberi diventano
nuvole e tutto cambia continuamente. Ci provano anche loro: mentre lei continua a cambiare, lui si
trasforma in un albero e continua a rimanere tale. L’uomo non capisce che il segreto non è trasformarsi, ma
stare nella trasformazione; non cambiare una volta, ma cambiare continuamente”.

La fiaba si riferisce al rapporto che Hermann Hesse aveva con la sua compagna, ma che può essere
trasposto a un qualsiasi rapporto di coppia.

La fiaba si conclude, poi, svelando quello che è il segreto di eros: “Stare come fiume gemello sulla terra,
come stella doppia in cielo”. Non essere la stessa stella, ma camminare con l’altro fianco a fianco. L’unità di
eros restituisce la differenza, esalta la differenza; non la elimina. Eros accetta il rischio di fare senza ridurre
l’oggetto.
2. Opacità intima: fuori dal prendere; da coscienza; da comunicazione. Non si riduce e si manifesta. Il
pudore fa parte di eros: sono segnali che vengono rimandati.
3. Né riconoscimento, né fusione romantica: non è una fusione, non è solo avere gli stessi interessi, la
stessa cultura – è molto più impegnativo, è saper reggere la differenza nell’unità e nell’unità saper
restituire la differenza –; ma non è neanche un semplice riconoscimento, un semplice rispetto.
4. Maschile e femminile: sono geneticamente diversi, ma dal pdv dell’eros entrambi partecipano a
questa esperienza. Eros è maschile e femminile; i generi attraversano eros. Eros erotizza gli organi e
non viceversa.
a. I generi attraversano eros
b. Non si tratta di funzioni
c. Differenza di genere attraversa ciascuno: eros è unione e differenza.

Eros, fenomenologia (3)


1. Il patetico dell’amore: eros è sempre patetico, soffre sempre. È fisiologico soffrire per amore. C’è
un pathos nell’eros. Soffriamo sempre le pene d’amore.
2. Il lessico dell’eros ricorda molto il prendere. Ma se eros fosse tutto il contrario? Se eros fosse
un’esperienza radicale di spossessamento da sé, di vicinanza/di perdersi nell’altro, di non
centralità dell’io:
a) Corpo
b) Differenza sessuale
c) Affetti di eros: pudore, ritrosia, lacerazione interiore
3. La carezza: (il nostro approccio ad eros avviene attraverso il corpo, attraverso l’esp. della carezza)
a) Diversa dal toccare
b) Eros non sa vs prendere/lasciare
c) Gioco erotico
d) Ripetizione

Le figure di eros
Nel libro, tre riferimenti a figure di eros:
1) Femminile (troviamo solo il femminile in quanto Levinas parla da uomo, ma anche perché c’è
un’influenza della cultura ebraica che spinge il ragionamento più sul lato femminile che su quello
maschile; ma in realtà tutto quello che diciamo si riferisce anche al maschile, se a parlare fosse una
donna): alterità → L’eros mi parla più dell’altro che di me. È una figura dell’altro (quindi, per
Levinas, di una donna, del femminile). Non è semplicemente un’altra parte anatomica, una
conformazione diversa (non è spiegabile in termini genitali). È altro. L’altro resta altro anche
quando vedi tutto del corpo; è un’alterità detta/dettata dal corpo stesso.
Per Levinas, dunque, il femminile è un’esperienza diafana, che vedi e non vedi (perché se vedi
tutto, non la vivi veramente; vivi conformazioni biologiche, solo parti del femminile): è come la luce
che compare e arretra allo stesso momento.
Femminile e pudore: il pudore è un segnale del fatto che l’altra persona non si riduce a quello che
vorresti ridurre. Ci avvisa che c’è altro lì. (Il fatto che la femminilità si vede e non si vede, avanza e si
nasconde è legato a questo pudore)
Carezza ed eros come gioco a venire: non ti basta mai. Perché si tratta dell’altro. Ne vuoi sempre di
più.
Femminile= Non conoscenza né numero né natura
a. Non conoscitivo: l’alterità resta perché non si tratta di conoscere, di guardarsi come
oggetti; ma di corpi che si accarezzano, di un mistero.
b. Non funzionale (neanche il maschile è funzionale): ci sono delle funzioni che lo attraversano
(conformazione biologica, a livello fisiologico) ma non si riduce a ciò.
c. Non complementare: tu non ci sei per me e io non ci sono per te. Anche in termini
riproduttivi non esistiamo perché complementari. Tu ci sei A me. La complementarietà non
fa nascere eros, ma resta in un gioco di interessi (finché gli interessi ci sono).
Resta MISTERO (Nietzsche)

Nietzsche: il femminile → Così parlò Zarathustra; discorso delle donnette vecchie e giovani:
“Molte cose ha detto Zarathustra anche a noi donne, eppure non ci ha mai parlato della donna.
[…] Tutto nella donna è un enigma, e tutto nella donna ha una soluzione: questa si chiama
gravidanza.
[…] Un giocattolo sia la donna, puro e raffinato, simile alla pietra preziosa, illuminato dalle virtù di
un mondo che ancora non esiste”. (riemerge il tema del gioco)

Il femminile è l’annuncio di un’alterità che però non è riducibile alla sua differenza, ma resta MISTERO. Un
mistero che, quindi, non va letto in negativo, ma in positivo: è l’annuncio di una differenza che non si
riduce. È un’esperienza diafana: gioco di luce e ombre (vale anche per il maschile, non riducibile alla sua
sessualità). L’enigma è qualcosa che non possiedi: tu la donna non la possiedi (non è una semplice
affermazione maschilista riferita alla complessità della mente femminile, ma ne indica un mistero
profondo). [Levinas ha probabilmente letto questo passaggio di Nietzsche]. Il femminile sa cos’è la carezza,
è la memoria radicale e insuperabile della carezza.

2) Figlio:
Il femminile conserva per me un mistero, nonostante le mie tentazioni di ridurlo. Eppure, c’è una figura
ancora più misteriosa: il figlio. Il figlio tu non lo fai (o meglio, lo fai, lo conosci solo da un pdv genetico): è
qualcosa di altro da te, anche se ne condividi il sangue.
- Non alter ego: Il figlio NON è un alter ego, non è un altro io: è un altro, non un altro te (il controllo
eccessivo che alcuni genitori dimostrano non è giustificato: il figlio è altro, non deve replicare la vita
di TE genitore; rivendica un’indipendenza).
- Non possesso, non proprietà → non è di nessuno, neanche dei genitori che l’hanno messo al
mondo. Figli si diventa, genitori si diventa. Non si HA un figlio: per essere genitori, non basta avere
un figlio. Non è una proprietà da dare via (magari in sposa). Il figlio non si riconosce nel possesso
dei genitori. Pur nel rispetto, il figlio è radicalmente altro.
- Fuori dal tempo, fuori dall’essere
- Proprio sangue MA altro; il sangue, i tratti somatici, magari anche i vizi sono gli stessi, ma solo dal
pdv biologico/ genetico. Queste cose in comune non spiegano l’essere figli: essere figli è una
condizione al di fuori della scienza, della spiegazione razionale della biologia. I figli non replicano
esattamente i genitori.
- Non avere, non essere.
- Eros, in questo senso, insegna la democrazia, insegna il pluralismo, insegna a non ridurre le
differenze e a ricercare un confronto (vale per la coppia come nel rapporto padre-figlio). La
democrazia comincia a due (Luce Irigaray).
→ Altri è radicalmente altro.

Nietzsche: Così parlò Zarathustra: Dei Figli e del matrimonio (1882, prospettiva luterana, cristiana; tutto
rientrava nel rapporto lavoro-famiglia):
“Devi creare un corpo più nobile, un movimento originario, una ruota che gira da sé – devi creare un
creatore. Matrimonio: così hanno chiamato la volontà di due, di creare quell’uno che è più dei due che
l’hanno creato. Io chiamo matrimonio il profondo rispetto reciproco di coloro che manifestano tale
volontà”.

Nietzsche sta rompendo un’idea tradizionalista. Dice che bisogna creare qualcuno che sia una persona,
indipendente, altro, che il figlio è originato da un movimento che fa nascere il mondo un’altra volta. Si
vuole creare un creatore, che sappia muoversi da sé e che sia di più dei due che l’hanno creato (non
spiegabile in termini genetici). Questo a dimostrazione del fatto che il figlio è ancora più misterioso del
femminile. Perché il femminile lo incontro fuori di me, ma il figlio esce da me; eppure, è radicalmente altro,
non è possesso.

3) Paternità (Maternità): il genitore (studiato da Levinas dal suo pdv di padre, maschio; ma è un
discorso che vale anche per la madre).

“Il figlio non è un evento qualsiasi che mi capita, come ad esempio la mia tristezza, la mia prova o la mia
sofferenza: è un io, è una persona”.

La genitorialità non è qualcosa che capita (non è un evento che capita, un incidente; come possono essere i
sentimenti). Il figlio – voluto o meno – è un io, una persona.

“La paternità non è semplicemente un rinnovamento del padre nel figlio e la sua confusione con lui.
Essa è anche l’esteriorità del padre rispetto al figlio. La paternità è un esistere pluralista.”

La paternità non è un semplice continuare la specie, la razza, la famiglia. Non è un semplice rinnovamento
del padre nel figlio, non è una confusione tra ruoli, tra padre e figlio. Si mantiene una differenza di
esteriorità tra padre e figlio: non è una comunione tra i due. Eros insegna un esistere pluralista, dove l’altro
è di fronte a te, non è riducibile a te e tu non sei riducibile all’altro. Non io prima dell’altro, prima del figlio:
ma è dall’origine dell’altro che ha vita Eros. È sbagliato quando i figli non si staccano dai genitori e quando i
genitori non si staccano dai figli (patologie, disturbi, …).

Il padre e la madre non sono causa generatrice del figlio: non si può ragionare semplicemente in termini di
causa (quanti figli messi al mondo non sono figli di nessuno? Quanti padri/madri irresponsabili che violano i
propri figli o che li trascurano/abbandonano?). La causa biologica e genetica non ti spiega nulla dell’essere
padre e madre (molto spesso incontriamo persone nella nostra vita che sono delle guide, delle figure di
riferimento con cui stringiamo un rapporto ancora più forte di quello che abbiamo con i nostri genitori).

a. Paternità, maternità, ma anche fraternità non sono potere: non sono possesso, non sono
proprietà, ma sono un modo essere che non è identico a sé stessi. Sono modi di esistere.
b. Modo di esistere: pluralista, molteplice, trascendente → saper percepire, sentire e
rispettare la trascendenza dell’altro, la differenza dell’altro. Per diventare, poi, capaci a
vivere insieme.
c. Filialità (per essere figli/fratelli esistono due modi):
i. Biologica (il modo di essere figli “biologico”)= è un modo naturale, fisiologico
ii. Umana: quando si diventa padri, figli, madri in senso umano. Atteggiamento
paterno= universale. Es: maestro/discepolo FECONDITA’
d. Il figlio è una possibilità: vs sostegno; vs soggetto trascendentale → è un futuro al di là delle
mie possibilità, un futuro che non si riduce alla continuità della specie.

Figlio = “Avvenire al di là del mio proprio essere”; “Possibilità al di là delle mie proprie possibilità” →
ritorniamo a quanto diceva Nietzsche: il figlio è al di là delle mie possibilità.
Conclusione
Eros/Sociale = ultimo argomento che, però, c’era sin dall’inizio. Noi siamo Eros, non facciamo eros: il fare
non basta. Eros è differenza non incompatibilità. Una differenza tua che richiama la mia: non è
un’aggressione. Le tre figure di eros che abbiamo analizzato sono la smentita (o la conferma) di quello che
noi non riusciamo a vivere. Tutti i misteri analizzati sono legati ad un irriducibile presente in Eros: Eros vive
grazie al residuo e non all’identificarsi.

Eros, allora, è un partecipare che interroga (non un fare che esaurisce: c’è di mezzo l’alterità mia e
dell’altro). È un dire che disdice per dire di nuovo.
Eros è l’uscita dalla solitudine (più delle altre esperienze – lettura, parola, … -, dove l’io è ancora troppo
presente e l’altro è troppo nella mia mente) dell’essere. L’essere ti inchioda a ciò che sei, ma eros ti porta
fuori da questa solitudine.
La cosa più bella che si dice di eros è l’ultima: eros è un esistere pluralista (= partecipare. L’abbiamo visto
con la femminilità, con il figlio e con la paternità); cioè, eros insegna democrazia. Insegna una convivenza a
due, una partecipazione.

Eros è umanità dell’umano. È distrazione da sé. Attraverso l’eros, l’umanità emerge: ci porta fuori dallo
stordimento per se stessi.

La socialità
SOCIALITA’ = Cosa significa stare insieme agli altri, in
senso ampio? Cos’è la comunità? E la società?

Da eros il discorso si amplia alla socialità. Un discorso


sul sociale che finora è rimasto implicito. Ora, invece,
lo esplicitiamo.

Il sociale è il luogo, umano, della distrazione da sé:


luogo stesso della libertà. Il sociale si vive tutti i giorni:
è partecipare.

Sociale 1: Lettera rubata


Eros (e la socialità) è come la lettera rubata: ce
l’abbiamo sempre sotto gli occhi, lo ricerchiamo
sempre, e non riusciamo mai a vederlo.

Lettera rubata: racconto di Edgar Allan Poe (1800,


americano) → c’era una lettera importante in
famiglia. La lettera scompare. Inizia una ricerca. Non si
trova in nessun modo. Alla fine questa lettera era nel
punto più evidente – sopra il camino.

Sociale 2: Pensare è partecipare


Eros è partecipare. Anche pensare è partecipare: si
pensa davvero quando si pensa a qualcosa e quando ci
si lascia suscitare/provocare dallo stupore di qualcosa.
Sociale 3: Uno/Molti. Plurale
Eros mi apre al sociale. Eros mi insegna che
l’esistere non è il singolo, ma è partecipazione. La
differenza uno/molti, io/altro è fondamentale.

Sociale 4: Comune vs Sintesi


Come devo pensare una comunità, un’aula, una
famiglia, una nazione?
Posso pensarla come una sintesi o come un
comune. Il termine “sintesi” è riduttivo: non tiene
conto delle differenze individuali e dei cambiamenti
che possono esserci all’interno di un gruppo dalla
sua formazione al suo sviluppo.

L’umano non è sintesi, perché la sintesi omologa,


mette etichette, elimina le differenze. Eros vive
grazie alla differenza. È un diventare due, non uno
in due.
Eros mi insegna che il modo di essere insieme
dell’umano è il non sintetizzabile: troppa
uguaglianza, molto di falso. Non possiamo parlare
del gruppo “studenti”, ma di Maria, Giovanni,
Franco che sono studenti. Non si può sintetizzare,
ridurre con delle catalogazioni.

Sociale 5: Segreto dell’esistenza


Eros impedisce la sintesi. Insegna il pluralismo della
società, che è possibile solo a partire dal segreto
dell’esistenza.

Il segreto dell’esistenza non si può esaurire. C’è un


segreto che nessuno può esaurire, possedere. Ed è
questo segreto della nostra esistenza, mia e tua, che
ci porta a stare insieme.

Sociale 6: né total, né lib


No al totalitarismo, no al comunismo → no anche al
liberalismo = tradiscono tutti il segreto dell’esistenza

Lévinas ha sperimentato sulla sua pelle il


totalitarismo di destra e di sinistra. Totalitarismo = il
consolidato sociale di un pensiero della totalità

Kierkegaard: “Gli uomini non si possono impilare in


una sintesi come gli schiavi in una piramide”

Quando il liberalismo si riduce indifferenza,


meccanismo, legge di mercato, esso tradisce il
segreto. Bisogna essere all’altezza del segreto
dell’esistenza.

Il liberalismo risponde al totalitarismo con lo stesso


linguaggio: anziché sulla sintesi che accomuna tutti,
l’accento si sposta sugli individui e sulle garanzie preliminari. La struttura del ragionamento rimane però
intatta, di modo che il segreto delle esistenze non si salva nel liberalismo più di quanto non si salvi nei
totalitarismi. Nel totalitarismo segreto dell’esistenza viene negato, nel liberalismo viene fatto dipendere da
una ‘teoria oggettiva della società, secondo la quale quest’ultima funziona meglio quando si lasciano
andare le cose in modo liberale’, con questo, nel liberalismo si assiste a un vero capovolgimento, che
sembra quasi un’auto-smentita, perché non sarà la convivenza a basarsi sul segreto essenziale delle vite’,
che è la libertà e responsabilità per gli altri, ma si farà dipendere la libertà da un certo tipo di
organizzazione, ossia da un ‘sistema’ dell’efficienza.

IL VOLTO Altro tema sul rapporto con l’altro. L’accesso al volto è immediatamente etico, mi permette di
relazionarmi con l’altro in modo immediato. Il volto è la prima cosa che si incontra. Nel momento in cui
incontro l’altro e non noto nel dettaglio il colore dei suoi occhi, ma il semplice fatto che abbia occhi, naso e
bocca, mi permette di pormi nel modo corretto nei confronti dell’altro. Il volto in quanto volto non può
essere ridotto ad un suo accidente. Il volto resta sempre nudo ed esposto perciò Levinas fa coincidere il
volto con la socialità.

CONCLUSIONE  all’espressione “distrarsi da sé” Levinas affianca espressioni come disubriacarsi,


disintossicarsi. Non può esserci vita senza domande, senza distacco da sé. Per quanto riguarda l’ingresso
dell’infinito nel finito occorre porsi il pensiero del come, non ricondurre più tutto a noi stessi. L’altro non
sono io, il vivere deve essere un esistere pluralista.

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