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AVETE PERSEVERATO CON ME

NELLE MIE PROVE


Riflessioni su Giobbe

C.M. Martini *

PREMESSA

«Avete perseverato con me nelle mie prove» è il titolo di un corso di Esercizi che il
Cardinale Carlo Maria Martini, Arcivescovo di Milano, ha tenuto a un gruppo di sacerdoti,
in prevalenza della diocesi ambrosiana.
La consolante parola di Gesù ai suoi discepoli, pronunciata prima della passione
ricorda come la vita del cristiano, ma in genere dell’uomo, è attraversata dalla tribolazione.
Per questo è stato scelto, come testo su cui riflettere, soprattutto il Libro di Giobbe, anche se
la meditazione si allarga ad altri brani dell’Antico e del Nuovo Testamento.
Il racconto di quest’uomo misterioso, non appartenente al popolo eletto, che abitava in
una terra lontana, circolava forse oralmente tra i saggi dell’Oriente già verso la fine del 2000
a.C. e fu redatto in ebraico assai più tardi. Giobbe, che era e si riteneva giusto, viene provato
e privato di tutto. Anche gli ebrei esiliati in Babilonia avevano perduto tutto e ciò metteva in
causa la loro fede nella giustizia di Dio presso cui pensavano di poter vantare dei diritti.
Cercando di comprendere il senso nascosto della sofferenza che si abbatte su coloro che
agiscono rettamente davanti a Dio, probabilmente leggevano e cantavano i lamenti di
Giobbe. Può l’uomo chieder conto a Dio del suo agire? Il poeta oppone la propria voce: non
bisogna domandare a Dio le sue ragioni bensì credere nella sua giustizia, nella sua sapienza
incomprensibile.
Con profondità spirituale e pastorale, il Cardinale si sofferma su alcuni passi di Giobbe
aiutando a chiarire il senso del mistero dell’uomo e del mistero di Dio. Nel dialogo dei primi
due capitoli tra satana e Dio «la posta in gioco si configura come una scommessa fatta
sull’uomo: esiste o non esiste la gratuità nell’azione umana?». Il problema di Giobbe è
anzitutto un problema di fede; il mercanteggiare non ha posto nella vita di fede perché alla
sublimità della grazia deve corrispondere la gratuità della devozione. Certo, Giobbe non ha
commesso nessuno dei crimini di cui gli amici lo accusano ma ha commesso il delitto per
eccellenza dell’uomo religioso: è diventato giudice di Dio. Le riflessioni dell’Arcivescovo ci
interpellano sulla qualità della nostra fede, della nostra preghiera come sottomissione di tutto
l’essere al mistero ineffabile di Dio, sull’obbedienza della mente. Infine, come risulta dal
singolare parallelo del Libro con il Cantico dei Cantici, la ricerca di Giobbe appare come un
problema di amore.
Per una lettura pienamente feconda del presente volume è necessario un impegno
spirituale che rifugga dalla mediocrità e renda l’anima assetata di Dio. Interessante lo scopo
che l’Arcivescovo propone a questo corso di Esercizi: la riconversione allo spirito di

* Piemme, Casale Monferrato 1990.


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preghiera. Nel clima della preghiera queste pagine diventano luce, nutrimento, forza,
stimolo, consolazione.
Tra l’altro, ci avvertono che qualunque uomo di buona volontà è già alla ricerca di Dio,
viene messo di fronte al modo con cui l’Onnipotente guida il suo universo e sente in se
stesso la critica della coscienza delle sue azioni.
Ci insegnano a liberare la realtà di Dio dalle nostre ristrettezze e dalla nostra moralità
concepita come sorgente di autogiustificazione. Perché la fede si indirizza primariamente
alla incomprensibilità dell’amore divino che ci previene e ci supera. Da tale amore, in cui il
cristiano crede quando ha contemplato il segno del Crocifisso, possiamo ricevere la capacità
di amare gratuitamente, di amare anche nella prova e nella tribolazione. Ci esortano dunque
a crescere nella fede che ama e che spera, a desiderare un rapporto con il Signore nel quale si
giochi davvero tutta la nostra libertà.
Il Dio che si dona a noi nell’alleanza non chiede altro che amore e devozione
appassionata.

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INTRODUZIONE

“Ti ringraziamo, Padre, perché ci hai convocato da tante parti della diocesi e anche
da altre parti d’Italia per ascoltare la tua Parola, per ricevere la grazia d’amore e di
misericordia del tuo Figlio, per essere confortati e consolati inferiormente dallo Spirito
santo che è amore e pace.
Ti chiediamo di infondere abbondantemente su ciascuno di noi in questi giorni il tuo
Spirito di amore e di pace. Io ti ringrazio, in particolare, per le esperienze vissute a
Santiago di Compostella con il Papa e con centinaia di migliaio di giovani; per la fede e la
speranza che ci siamo comunicati, per i doni che ci sono stati dati nella contemplazione di
questo futuro della Chiesa, così ricco di energie, di spirito di sacrificio, di coraggio, di
gioia.
Fa’ che noi possiamo servire questa gioventù che chiede e attende molto.
Noi siamo di fronte a te, Padre, consapevoli della nostra povertà, del nostro non
sapere che cosa dire o che cosa pensare, con la fiducia che ogni nostra sufficienza, ogni
nostra capacità viene da te, nella grazia dello Spirito santo, nella grazia del ministero della
Nuova Alleanza. Vergine Maria, madre di Gesù e madre nostra, guidaci nel cammino di
questi Esercizi. Tu che sei passata attraverso molte prove, tu la cui anima è stata trafitta da
una spada, concedici di percepire il senso delle prove che noi, l’umanità e la Chiesa stiamo
vivendo”.

Rinnovare lo spirito di preghiera


Lo scopo fondamentale che ci si propone in un ritiro spirituale è la conversione, il
chiedere a Dio che ci cambi in meglio.
Tra i tanti possibili temi di conversione della nostra vita, che ciascuno potrà trovare per
se stesso, vorrei sottolineare la necessità di rinnovare lo spirito di preghiera. Ne abbiamo
immensamente bisogno perché durante l’anno la molteplicità degli impegni finisce con
l’impoverirlo.
Mi sembra importante recuperarlo, in questi giorni, nei suoi tre momenti:
— nel tempo da dare alla preghiera, che può essere più ampio;
— nelle abitudini, che tendono a sfilacciarsi e che qui possiamo, nell’arco della
giornata, ridisciplinare;
— nel modo, che dovrebbe essere caratterizzato da tre atteggiamenti. Anzitutto la
devozione, il rispetto verso Dio, che si attua nelle parole, nei gesti del corpo, nell’attenzione,
nel silenzio; poi la sottomissione di tutto il nostro essere al mistero di Dio, la riverenza
amorosa; infine l’affetto: la preghiera è un evento affettivo. Talora, per le circostanze
difficili della vita, l’affetto rimane nel sottofondo, o addirittura nell’inconscio; in questi
giorni dobbiamo farlo emergere per imparare a resistere all’indifferentismo che ci circonda.
Senza un profondo senso affettivo di Dio nella preghiera è quasi impossibile infatti
combattere efficacemente l’ateismo nel nostro ambiente occidentale.
Da parte mia cercherò di aiutare la riconversione allo spirito di preghiera suggerendovi
alcune riflessioni su un tema tratto dalla parola di Gesù durante l’ultima cena: «Voi siete
coloro che avete perseverato con me nelle mie prove» (Lc 22,28).
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Il tema degli Esercizi


L’affermazione di Gesù è molto bella e se alla fine della vita ci sentissimo dire: “Tu sei
colui che hai perseverato con me nelle mie prove”, saremmo pieni di gioia. È interessante
che questa parola viene detta dopo che gli apostoli hanno litigato: «Sorse anche una
discussione, chi di loro poteva essere considerato il più grande» (Lc 22,24).
Partendo dunque da un diverbio che rivela le ambizioni, le tensioni, le piccole invidie
esistenti in mezzo al gruppo degli apostoli, Gesù insegna che chi vuol essere il più grande
deve servire e subito dopo aggiunge: «Voi siete coloro che avete perseverato con me nelle
mie prove». Egli non si illude che i Dodici abbiano raggiunto una eccelsa santità e però sa
che ci può essere una grande fedeltà anche là dove ci sono difetti, debolezze, meschinità.
Come introduzione alle successive meditazioni, vi invito a riflettere sui singoli
vocaboli della espressione evangelica: le prove, la perseveranza nelle prove, le mie prove, la
perseveranza con me.

1. La parola greca peirasmós è assai frequente nella Scrittura.


Originariamente significa ‘esplorazione’, ‘tentativo’. Si cerca di vedere quanto uno
vale, quanto è fedele, quanto resiste, quanta forza ha.
A questo senso originario se ne aggiungono poi, nella Bibbia, altri due: a) la
tentazione, che dice una spinta al peccato da parte di una qualche potenza maligna o
comunque a causa delle cattive inclinazioni del male presente nel mondo. È la tentazione
vera e propria di cui la vita umana è intessuta; b) la prova, alla quale si riferisce
l’affermazione di Gesù e che può venire anche da Dio. Allude a tutte le situazioni di
afflizione e di difficoltà che spesso incontriamo. Esse fanno parte del cammino della Parola
in noi, del suo ingresso nel terreno del cuore umano. Così, nella parabola del seme che cade
sulla pietra leggiamo che «quelli sulla pietra sono coloro che, quando ascoltano, accolgono
con gioia la Parola, ma non hanno radice; credono per un certo tempo, ma nell’ora della
tentazione vengono meno» (Lc 8,13).
Quindi la Parola, entrando nel cuore umano, è soggetta alla tentazione. L’evangelista
Matteo ne specifica alcuni modi: «Quello che è stato seminato nel terreno sassoso è l’uomo
che ascolta la Parola e subito l’accoglie con gioia, ma non ha radice in sé ed è incostante,
sicché appena giunge una tribolazione o una persecuzione a causa della Parola, egli ne resta
scandalizzato» (Mt 13,20-21).
Prova, tentazione, tribolazione, comunque la si chiami, è una situazione corrente,
ordinaria dell’uomo sulla terra, specialmente dell’uomo giusto, intendendo per “giusto” chi
vuole essere fedele a Dio e cerca di camminare per le sue vie.
Il libro di Giobbe esprime questa realtà in maniera poetica, in particolare dove dice:
«Non ha forse un duro lavoro l’uomo sulla terra?» (7,1). La nota della Bibbia di
Gerusalemme spiega che il «duro lavoro» indica piuttosto la condizione del servizio militare,
ossia lotta e impegno. La versione greca traduce il termine con «prova» riferendolo appunto
alla prova dell’esistenza umana. La Volgata, invece, ha la famosa frase: «militia est vita
hominis super terram», e l’espressione è ripresa nel capitolo XIII del libro I della Imitazione
di Cristo: De tentationibus resistendis, del resistere alle tentazioni. È un capitolo notissimo,
che comincia così: «Fino a che dura la nostra vita in questo mondo non possiamo andare
esenti da tribolazioni e da tentazioni. Perciò nel libro di Giobbe sta scritto: “La vita
dell’uomo sulla terra è tentazione”».

Poi Giobbe prosegue:


«E i giorni (dell’uomo) non sono come quelli
di un mercenario?
Come lo schiavo sospira l’ombra
e come il mercenario aspetta il suo salario,
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così a me sono toccati mesi di illusione


e notti di dolore mi sono state assegnate.
Se mi corico, dico: Quando mi alzerò?
Si allungano le ombre
e sono stanco di rigirarmi fino all’alba.
Ricoperta di vermi e di croste è la mia carne,
raggrinzita è la mia pelle e si disfà.
I miei giorni sono stati più veloci di una spola,
sono finiti senza speranza.
Ricordati che un soffio è la mia vita» (7,1-7a)

La Bibbia di Gerusalemme annota:


«Solidale con tutta l’umanità, sofferente, rassegnato a morire, Giobbe abbozza una
preghiera per domandare a Dio qualche istante di pace prima della morte» (p. 1049).
Con grande concretezza il brano veterotestamentario descrive l’esistenza umana come
prova.

2. Gesù, riferendosi a questa prova, dice: «Voi siete coloro che avete perseverato». In
greco, più semplicemente, «siete rimasti», cioè siete coloro che non se ne sono andati. È una
parola di lode: Avete sofferto così tanto che avreste potuto andarvene, e non l’avete fatto.
Viene alla mente l’episodio di Gv 6,67-68: «Volete andarvene anche voi?», e Pietro
che risponde: «Signore, da chi andremo?». Gesù verifica che fino all’ultimo istante gli
apostoli sono rimasti, hanno perseverato, non l’hanno abbandonato.
Il concetto di perseveranza lo si trova spesso nella Scrittura, con espressioni diverse.
Ad esempio, «custodire la parola» indica la pazienza perdurante e resistente: «Il seme caduto
sulla terra buona sono coloro che, dopo aver ascoltato la Parola con cuore buono e perfetto,
la custodiscono e producono frutto con la loro perseveranza» (Lc 8,15). L’uomo fa fronte
alla situazione di prova con la perseveranza, la perduranza, la resistenza, la custodia della
Parola. Mentre la prova tende a far tornare indietro, induce a perdersi d’animo,
l’atteggiamento direttamente contrastante non è necessariamente quello della vittoria
immediata ma del resistere, del rimanere fermo, saldo. L’evangelista Giovanni usa un verbo
molto semplice: ménein, che indica qualcosa di simile. «Se rimanete in me — dice Gesù — e
le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato» (Gv 15,7). Il
“rimanere in Gesù” è il modo per op-porsi alla prova.

3. «Voi avete perseverato nelle mie prove», non genericamente «nelle prove».
Questa specificazione dà una colorazione del tutto diversa all’esistenza umana.
Noi ci domandiamo: Quali sono le prove di Gesù?
— In verità i vangeli ci danno poche indicazioni in proposito e però sono sufficienti
per comprendere che anche Gesù è stato tentato e provato.
«Subito dopo lo Spirito lo sospinse nel deserto e vi rimase quaranta giorni, tentato da
Satana»; così Marco inizia il racconto della vita pubblica del Signore (Mc 1,12-13). Il
mettere al principio la prova indica che non è stato tentato una sola volta ma che la sua
esistenza è stata tutta sotto il segno della prova.
La Lettera agli Ebrei ci apre un ulteriore spiraglio: «Infatti non abbiamo un sommo
sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato lui stesso provato in
ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato» (Eb 4,15). “In ogni cosa”, quindi in tanti
aspetti concreti della vita, difficili, pesanti, faticosi, ripugnanti, per i quali Gesù è passato e
che ha condiviso con i Dodici.
— Ma l’espressione “mie prove” non si può limitare alle circostanze storiche di Gesù
di Nazaret; egli parla di sé come Messia, come colui che riassume l’esistenza di tutto il
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popolo di Dio, il cammino di questo popolo verso il Padre. Dobbiamo quindi riferirla alle
prove messianiche, del Regno. Gli apostoli sono stati coinvolti in tali prove, sono stati setac-
ciati, vagliati, triturati. Molte delle prove di noi credenti vengono dalle situazioni concrete
della realtà storica e sociale nella quale ci riconosciamo, ossia la Chiesa cattolica con i suoi
problemi, le sue fatiche, le sue pene e difficoltà. Queste sono le prove di Gesù capo del
popolo messianico.
— Possiamo dire di più. Dal momento che Gesù è Figlio dell’uomo, egli fa sua e vive
in sé la prova di ogni uomo e di ogni donna della terra; è il capo dell’umanità e le sue prove
si allargano a questa moltitudine immensa di persone che hanno popolato, popolano e
popoleranno la terra.
Crescendo nell’esperienza della vita, cresciamo nella partecipazione a queste prove
perché conosciamo di più la Chiesa, la gente, estendiamo la nostra amicizia a un gran
numero di persone e soffriamo con esse.
Oggi noi assumiamo, come nostre, le prove del Libano, perché le sente il Papa,
leggiamo i giornali, guardiamo la televisione, conosciamo persone di quel paese.
E sono nostre pure le prove della Cina; le prove della poverissima India; le prove della
miseria terribile, della fame dei popoli dell’America Latina, dell’Africa; sono nostre le prove
d’Israele, del popolo ebraico, del popolo eletto, con tutte le sue difficoltà e con i suoi
problemi di dialogo.
Tutto questo ci pesa, talora ci irrita, ci inquieta perché vaglia la nostra fede, la nostra
speranza, la nostra carità, la nostra pazienza, la nostra sopportazione, il nostro senso del
limite. Ma sono proprio queste le prove di cui Gesù dice «mie».
Poi, naturalmente, ciascuno vive quelle delle persone che gli sono affidate: la gente
della parrocchia, i giovani, coloro verso i quali abbiamo doveri pastorali specifici. Ciascuno
è in qualche modo sommerso dalle sofferenze della propria gente, dei propri confratelli, di
quanti amiamo.
Sono tutte le prove di Gesù Messia, Figlio dell’uomo, capo del popolo messianico,
dell’umanità e ad esse partecipiamo di fatto, non soltanto con la fantasia, e vi partecipiamo
intimamente.

4. «Avete perseverato nelle mie prove con me». Le prove non sono semplicemente
oggettive, quasi fossero macigni o onde che si riversano su di noi. Dicendo «con me», Gesù
le carica di un sapore diverso, sottolinea un aspetto affettivo, personale, molto profondo. Le
soffriamo con lui, amando lui, in intimità con lui. Egli ci domanda di entrare in questa via
per identificarle e comprenderle meglio; è infatti importante riuscire a guardare in faccia le
prove.
Spesso ci sentiamo oppressi, affaticati, frustrati da qualche cosa di indistinto. Il
Signore ci invita a dare un nome alle nostre difficoltà, a enumerarle e poi a capire come
affrontarle insieme con lui. Perché è saggezza fondamentale dell’uomo e del cristiano
cogliere l’utilità delle prove per la vita e viverle con fedeltà.
E quanto più uno ama, quanto più uno serve e si rende disponibile, tanto maggiori esse
sono.
Se, invece, ci chiudiamo nel nostro ambiente, se siamo dei misantropi, se non usciamo
dall’egoismo, sperimenteremo soltanto la prova della frustrazione personale.
L’apostolo san Giacomo incomincia la sua Lettera con questa esortazione:
«Considerate perfetta letizia, miei fratelli, quando subite ogni sorta di prove, sapendo che la
prova della vostra fede produce pazienza. E la pazienza completi l’opera sua in voi, perché
siate perfetti e integri, senza mancare di nulla» (Gc 1,2). E più avanti aggiunge: «Beato
l’uomo che sopporta la tentazione, perché una volta superata la prova, riceverà la corona
della vita che il Signore ha promesso a quelli che lo amano» (1,12). Questa è la sintesi della
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vita umana, che ci offre san Giacomo esprimendo nelle sue parole la grande sapienza di tutto
il Nuovo Testamento.
In proposito si pronuncia anche l’Apocalisse, che è per eccellenza il testo dei cristiani
nella prova: «Poiché hai osservato con costanza la mia parola» — quindi l’hai conservata
resistendo — «anch’io ti preserverò nell’ora della tentazione che sta per venire nel mondo
intero, per mettere alla prova gli abitanti della terra» (Ap 3,10). È il concetto di prova
cosmica, universale, che ritorna sovente nel nostro tempo, soprattutto in certe predizioni di
carattere apocalittico. Ad essa allude forse la preghiera che recitiamo quotidianamente: «Non
ci indurre in tentazione», non permettere che cadiamo nella grande prova.
Tuttavia dobbiamo sapere qual è questa prova globale, cosmica, nella quale siamo di
fatto immersi e di cui spesso non ci accorgiamo, mentre costituisce la nostra vita reale, nella
sua totalità.

Il libro di Giobbe
Il tema degli Esercizi tocca dunque un aspetto che caratterizza costantemente la vita
ma che non deve renderla triste. Dirò di più: affrontare la prova in un certo modo è l’unica
garanzia di serenità nell’esistenza. Non è il rimuoverla, bensì il viverla che rende singolare la
gioia del cristiano.
Noi vogliamo riflettere in questi giorni mettendoci davanti a Gesù che dice: Tu sei
colui che desideri perseverare con me nelle mie prove; io voglio aiutarti, voglio darti una
mano, voglio invitarti a pregare, a meditare, a guardare bene in faccia le tue prove, a dare
loro un nome preciso togliendole dalla nebulosità; e poi voglio aiutarti ad accoglierle con
amore, ad abbracciarle come io ho abbracciato la croce.
“Donaci, Signore, di partecipare al tuo atteggiamento coraggioso, di entrare nella tua
verità, per poter sperimentare la gioia di chi affronta con entusiasmo la vita come prova”.
Cercando le pagine della Scrittura, che si riferiscono al tema della lotta, della prova,
della tentazione, ci fermeremo in particolare su Giobbe, il libro della prova dell’uomo. Vi
suggerisco perciò di leggerlo, dal momento che non potremo farne l’esegesi passo per passo.
Vi chiedo inoltre una rilettura almeno di alcuni capitoli della Imitazione di Cristo, un
testo un po’ dimenticato e che però ha un senso molto grande della vita dell’uomo come
lotta. È ricco di saggezza, di equilibrio, di serenità, proprio perché chi l’ha scritto ha
fortemente avvertito il carattere di tentazione e di esperimento dell’esistenza umana. Così
come l’hanno avvertito i Padri che hanno commentato il Libro di Giobbe, per esempio san
Gregorio Magno; questo grande Papa, avendo vissuto tutta la vita come una prova, trovava
infatti molto conforto meditandolo e spiegandolo.

Lasciamoci guidare da questi maestri nella fede e contemplando la parola di Gesù nel
vangelo di Luca, chiediamo:
“Signore, fa’ che io possa guardare in faccia le mie prove, rendermi conto di come le
affronto, pormi in maniera giusta per superare quelle della mia gente, nella consapevolezza
di partecipare alle prove di tutta la Chiesa, della nostra Diocesi, dell’umanità in questo
momento cruciale della storia del mondo”.
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INTRODUZIONE
AL MISTERO DELLA PROVA

“Donaci, o Signore, di lasciarci introdurre a questa realtà della prova, che non è
semplicemente un fatto; è un mistero, perché mediante essa noi cogliamo un aspetto della
contingenza storica sofferta che siamo noi e insieme qualcosa di te. Noi, d’altra parte,
desideriamo conoscerti e penetrare col cuore e con la mente nel tuo mistero indicibile.
Infondi dunque in noi, Padre, qualche briciola della contemplazione del tuo mistero anche
attraverso l’esperienza della prova”.

Come tema di questa prima meditazione propongo i primi due capitoli del Libro di
Giobbe, che costituiscono l’introduzione in prosa al poema propriamente detto.
Facciamo anzitutto una lettura riassuntiva e poi ci porremo delle domande.
Da tempo avevo desiderato riflettere su Giobbe in un corso di Esercizi.
Tuttavia nutrivo delle incertezze perché questo Libro così affascinante è anche molto
difficile; san Girolamo lo paragona a un’anguilla che quanto più si tenta di afferrare tanto più
sfugge.
Finalmente mi sono deciso a richiamare, in questi giorni, almeno alcune pagine che ci
aiutino a socchiudere la porta di questo testo misterioso e pieno di enigmi: enigmi filologici,
storici, letterari, interpretativi.

La storia del prologo di Giobbe


I personaggi fondamentali del racconto sono tre:
— Giobbe, il quale viveva nella terra di Uz, al di fuori quindi dei confini di Israele,
«uomo integro e retto, temeva Dio ed era alieno dal male». Uomo ricco: «gli erano nati sette
figli e tre fìglie; possedeva settemila pecore e tremila cammelli, cinquecento paia di buoi e
cinquecento asine, e molto numerosa era la sua servitù. Quest’uomo era il più grande tra tutti
i figli di oriente» (Gb 1,1-3).
— La seconda figura caratteristica del prologo è Satana, l’Accusatore, personaggio
misterioso che appare presso la corte di Dio come colui che mette in luce negativamente le
azioni degli uomini. Egli chiede che Giobbe venga tentato.
— Il terzo personaggio del dramma è Dio che, dall’alto della sua corte, segue le azioni
degli uomini e in qualche maniera le ha presenti.

Il racconto è composto di due momenti o prove:


— Giobbe è provato nei suoi beni. «Un messaggero venne e gli disse: I buoi stavano
arando e le asine pascolando vicino ad essi quando i Sabei sono piombati sui tuoi figli e sulle
tue figlie, li hanno predati, hanno passato a fil di spada i guardiani. Sono scampato io solo
che ti racconto questo. Mentre egli ancora parlava, entrò un altro e disse: Un fuoco divino è
caduto dal cielo, si è attaccato alle pecore e ai guardiani e li ha divorati. Sono scampato io
solo che ti racconto questo». Il terzo messaggero annuncia la rapina dei cammelli e il quarto
la morte dei figli e delle figlie a causa del vento impetuoso che ha investito la casa dove essi
stavano mangiando e bevendo (cfr. Gb 1,13-20).
A questa prova, certamente durissima, segue un atteggiamento di Giobbe, che viene
espresso così:
«Si alzò, si stracciò le vesti, si rase il capo, cadde a terra, si prostrò e disse:
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“Nudo uscii dal seno di mia madre


e nudo vi ritornerò.
Il Signore ha dato, il Signore ha tolto,
sia benedetto il nome del Signore”.
In tutto questo Giobbe non peccò e non attribuì a Dio nulla di ingiusto» (Gb 1,20-22).

— Allora Satana chiede una seconda possibilità di provare Giobbe e lo colpisce con
una piaga maligna «dalla pianta dei piedi alla cima del capo» (2,7). Privato della sua
integrità fisica, oltre che di tutti gli averi, Giobbe è considerato come maledetto da Dio;
allontanato da casa sta seduto in mezzo alla cenere, ad indicare simbolicamente che non è
altro che miseria. «Allora sua moglie disse: “Rimani ancora fermo nella tua integrità?
Benedici Dio e muori!”». In realtà, la moglie lo invita non a benedire bensì a maledire Dio;
la Scrittura conia la frase in maniera da non offendere. «Ma egli rispose: “Come parlerebbe
una stolta tu hai parlato. Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il
male?”. In tutto questo Giobbe non peccò con le sue labbra» (2,9-10).

La storia si conclude con la notizia dei tre amici che vanno per condolersi con Giobbe
e consolarlo. Alzano gli occhi da lontano, non lo riconoscono e poi, dando in alte grida, si
mettono a piangere. Si siedono accanto a lui per sette giorni e sette notti in silenzio. Questo il
prologo.

Le domande
1. Che cosa significano i personaggi?
— Giobbe è certamente una figura non reale, una specie di modello di laboratorio. Egli
è simbolo dell’uomo giusto, e quindi benedetto da Dio, che non ha alcun motivo per attirare
su di sé il male: né per causa sua e nemmeno per causa dei figli dal momento che suole
addirittura sacrificare ogni volta che essi hanno banchettato, onde cancellare le eventuali
colpe commesse.
Non è personaggio reale perché ciascuno di noi ha delle colpe di cui dolersi se deve
sopportarne le cattive conseguenze. Viene dunque creata appositamente una figura astratta
nella quale si possa cogliere un modo di conoscenza di Dio.
È pure interessante che Giobbe sia presentato con delle caratteristiche che non lo
legano a una particolare tradizione religiosa, confessionale. In tutto il Libro, infatti, non
occorrono i vocaboli tipici della tradizione ebraica — alleanza, legge, tempio, Gerusalemme,
sacerdozio —. In lui può rispecchiarsi qualunque uomo di buona volontà, onesto, che abbia
il senso di Dio e del suo mistero.
— Satana significa ciò che in qualsiasi modo tenta e prova l’uomo attraverso momenti
difficili.

2. Se queste sono le due realtà che si muovono nella scena introduttiva, ci chiediamo
che cosa sta al centro di questa azione tanto singolare.
— Potremmo rileggere la domanda del Satana che è colui che muove l’azione. Il
Signore gli dice: «“Hai posto l’attenzione al mio servo Giobbe? Nessuno è come lui sulla
terra, uomo integro e retto, teme Dio ed è alieno dal male”. Satana rispose al Signore e disse:
“Forse che Giobbe teme Dio per nulla? non hai forse messo una siepe intorno a lui e alla sua
casa e a tutto quanto è suo? Tu hai benedetto il lavoro delle sue mani e il suo bestiame
abbonda sulla terra. Ma stendi un poco la mano e tocca quanto ha e vedrai come ti benedirà
in faccia”» (1,8-11).
La posta in gioco si configura come una domanda irriverente o una scommessa fatta
sull’uomo: esiste o non esiste la gratuità nell’azione umana? Esiste o non esiste la libertà
che si giochi per se stessa e non per un calcolo sottile? non è forse vero che tutto ciò che
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avviene nell’uomo, anche nei suoi sentimenti più profondi, è frutto di un calcolo, di un
tornaconto, di una speranza di ricevere, di un “do ut des”?
Questa è l’accusa che ciascuno di noi sente in fondo dentro di sé e che l’analisi del
profondo mette continuamente in luce: l’uomo non sa amare gratuitamente e ogni sua azione
è motivata da un interesse o addirittura da un risentimento, da una vendetta.
Azioni veramente limpide, pulite, non esistono e la stessa religiosità — l’azione più
alta dell’uomo — nasce dalla speranza di ricevere un premio o si appoggia a un premio già
ricevuto.
È il dramma che avvolge la nostra realtà, perché ogni situazione umana libera vuole
sapere se si fonda nella verità, nell’autenticità, nella gratuità oppure sul tornaconto. Quante
volte noi ci poniamo domande anche sulla scelta della vocazione, sulla perseveranza, sul
nostro servizio: sono frutto di amore di Dio oppure di comodità, calcolo, inclinazione,
predisposizione? E alla fine restiamo desolati perché ci accorgiamo che le reali motivazioni
delle azioni sono spesso meschine.
Il Satana, l’Accusatore, afferma dunque che non esiste religiosità vera, che l’uomo è
incapace di amore gratuito, di vivere l’alleanza con Dio. Dio gli offre un’alleanza alla pari e
con amore autentico e sincero attende una risposta di amore autentico e sincero; ma questa
non è possibile, è falsità, illusione. La religione perciò è oppio del popolo, copertura di
motivazioni economiche, sociali, politiche, psicologiche, culturali; non esiste il vero amore
di Dio, la divinità stessa è inventata dall’uomo per coprire e sublimare le proprie
motivazioni. In realtà l’uomo gioca con se stesso.
— Al centro del dramma narrato nel Prologo c’è però non soltanto la scommessa del
Satana sull’uomo ma anche la scommessa di Dio che crede alla verità dell’uomo e ha fiducia
in lui.
Per questo è un dramma universale; esso copre tutta la gamma delle situazioni umane
libere, soprattutto di quelle nelle quali una sofferenza innocente mette alla prova portando
l’uomo all’espressione più vera di sé.
Il lettore si sente coinvolto nella lotta perché avverte subito che è in gioco anche la sua
capacità o incapacità di essere autentico. Come dice un commentatore contemporaneo del
Libro di Giobbe: «La sacra rappresentazione di Giobbe è troppo poderosa per ammettere
lettori indifferenti. Chi non entra nell’azione con sue domande e risposte inferiori, chi non
prende posizione con passione, non comprenderà un dramma che per sua colpa rimarrà
incompleto. Ma se entra e prende posizione si scoprirà sotto lo sguardo di Dio, messo alla
prova dalla rappresentazione del dramma eterno e universale dell’uomo Giobbe» (cfr.
Alonso Schökel, Giobbe, Borla 1985, p. 108).
È ciò che noi chiediamo al Signore di poter fare attraverso la rilettura del Prologo del
Libro, che vi invito a meditare personalmente interrogandovi.

Gli insegnamenti
Per aiutarvi propongo alcune riflessioni conclusive sul tema della prova.

1. La prova c’è e c’è per tutti, anche per i migliori. Giobbe non offriva nessun motivo
per essere tentato, perché era perfetto in tutto. È dunque necessario prendere coscienza che la
prova o tentazione è un fatto fondamentale nella vita.

2. Dio è misterioso. Egli sa benissimo se l’uomo vale o non vale, lo sa prima di


provarlo, eppure lo prova.
«Io ti ho fatto passare per quarant’anni nel deserto per metterti alla prova e per vedere
se tu veramente mi amavi» (cfr. Dt 8,2), dice il Signore agli Israeliti esprimendo lo stesso
concetto. Questo comportamento di Dio è parte, mi sembra, di quel mistero impenetrabile
11

per cui, pur conoscendo il Figlio, lo mette alla prova nell’Incarnazione. Perché anche
l’Incarnazione e la vita di Gesù sono una prova.

3. L’atteggiamento a cui tendere nella prova è la sottomissione, l’accogliere e non il


domandare. Nel Prologo emerge come conclusivo e risolutivo ma verrà poi elaborato nelle
sue tappe lungo il corso del poema. «Nudo uscii dal seno di mia madre e nudo vi ritornerò; il
Signore ha dato, il Signore ha tolto; sia benedetto il nome del Signore. Se da Dio accettiamo
il bene, perché non dovremmo accettare il male?» (1,21; 2,10). Questa misteriosa
sottomissione, culmine dell’esistenza umana davanti a Dio, è presentata fin dall’inizio come
l’atteggiamento a cui ispirarsi. Ciò non vuol dire che è già in noi, perché in Giobbe stesso
sarà il frutto di tutto il suo travaglio. Tuttavia viene messa in luce perché, sola, è capace di
gettare una scintilla di luce sull’esperienza drammatica dell’esistenza.

4. Nella prova corriamo anche il rischio della riflessione. L’uomo, per grazia di Dio,
può rapidamente assumere l’atteggiamento della sottomissione, ma subito dopo sopravviene
il momento della riflessione che è la prova più terribile. Il Libro di Giobbe si sarebbe potuto
concludere alla fine del secondo capitolo, dimostrando che Giobbe aveva resistito perché il
suo amore per Dio era vero, autentico. In realtà, bisogna attendere e la situazione concreta di
Giobbe non è quella di chi se la cava con un sospiro, con una accettazione data una volta per
tutte; piuttosto è la situazione concreta di un uomo che, avendo espresso l’accettazione, deve
incarnarla nel quotidiano. Tutto questo dà adito allo sviluppo drammatico del Libro.
Talora noi sperimentiamo qualcosa di simile: di fronte a una decisione difficile, a un
evento grave, li accogliamo presi dall’entusiasmo e dal coraggio che ci viene dato nei
momenti duri della vita. Dopo un poco di riflessione, però, si fa strada un tumulto di pensieri
e sperimentiamo la difficoltà di accettare ciò a cui abbiamo detto di sì. Questa è la prova vera
e propria.
Il primo “sì” detto da Giobbe è proprio di chi istintivamente reagisce al meglio; la
fatica è di perdurare per una vita in questo “sì” sotto l’incalzare dei sentimenti e della
battaglia mentale.
La prima accettazione, dunque, che spesso è una grande grazia di Dio, non è ancora
rivelativa completamente della gratuità della persona. Occorre sia passata per il vaglio lungo
della quotidianità.
La prova di Giobbe non è tanto l’essere privato di ogni bene e l’essere piagato, ma il
dover resistere per giorni e giorni alle parole degli amici, alla cascata di ragionamenti che
cercano di fargli perdere il senso di ciò che egli è veramente. Da questo punto la prova
comincia a snodarsi dentro l’intelletto dell’uomo e la vera e diuturna tentazione nella quale
anche noi entriamo e rischiamo di soccombere è quella di perderci nel terribile travaglio
della mente, del cuore, della fantasia.

Il libro dei più poveri dell’umanità


Aggiungo un’ultima annotazione che potete tenere presente, meditando su Giobbe
come il libro dei più poveri dell’umanità. In proposito mi ha molto illuminato un commento,
regalatomi lo scorso anno a Mosca dallo stesso autore, Gustavo Gutiérrez (cfr. G. Gutiérrez,
Giobbe. Parlare di Dio a partire dalla sofferenza dell’innocente, Ed. du Cerf, Parigi 1987).
Non si tratta di una riflessione propriamente esegetica ma è un testo capace di illuminare
l’umanità del Libro di Giobbe, che il Gutiérrez rilegge cogliendovi il grido dei poveri
dell’America Latina.
Tutti soffriamo a causa di errori anche nostri, e tuttavia c’è una gran parte degli uomini
che soffre più di quanto non meriterebbe, che soffre più di quanto non abbia peccato: è la
gente misera, sofferente, oppressa, che costituisce forse i tre quarti dell’umanità. Questa folla
immensa fa nascere il problema: perché? che senso ha? è possibile parlare di un senso?
12

L’affrontare un interrogativo così drammatico è proprio di un libro fuori degli schemi


ordinarI della vita, come è il Libro di Giobbe.
E noi, che vogliamo essere fedeli a Gesù nelle sue prove e sappiamo che le sue prove
sono quelle del popolo messianico, del popolo dei sofferenti, dei popoli della fame e della
povertà, cerchiamo, attraverso le nostre riflessioni, di farci loro vicini e di accettare le nostre
prove, spesso piccole, pensando a quelle tanto grandi che affliggono molta parte
dell’umanità.
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LA PROVA DEL GIOVANE RICCO


Omelia nel lunedì della XX settimana «per annum»
Letture: Gdc 2,11-19; Mt 19,16-22

Ci troviamo, in questa cappella, di fronte all’immagine della Madonna ritratta nel


momento della prova più terribile della sua vita, nel momento della sua tentazione più
grande e più drammatica: l’immagine della Madonna addolorata.
L’effigie ci ricorda anche le lacrime di Maria, cioè la sua partecipazione alle nostre
prove, alle prove e alle sofferenze dei suoi figli.

“O Maria, madre nostra, noi ti offriamo questi nostri giorni, la nostra vita, tutto ciò
che noi ci sforzeremo di compiere per entrare più intimamente nel mistero di Gesù,
nell’intimità con le sue prove e con il suo cammino”.

— La prima lettura (Gdc 2,11-19) suscita in noi un interrogativo circa il significato di


un Libro dell’Antico Testamento che parla di guerre, di battaglie, di uccisioni, che è
certamente assai lontano dal nostro modo di vivere il mistero di Dio.
Tuttavia si può comprendere che esso vuole rispondere alla domanda che gli ebrei si
ponevano pensando agli inizi della loro storia: Come mai Dio ci ha promesso una terra dove
scorre latte e miele e poi non ce l’ha data gratuitamente ma come terra da conquistare
faticosamente, attraverso tante ansietà e sofferenze?
Come mai ce l’ha data dopo secoli di incertezze, facendoci sentire per tanto tempo
minacciati da altri popoli, quasi stranieri in questa terra?
Vengono proposte diverse risposte a questa domanda che, in fondo, è sulla prova ed è
quella stessa di Giobbe: perché Dio si è comportato con me così e non altrimenti?
Per esempio, nel capitolo seguente al brano che abbiamo ascoltato, viene detto che Dio
non voleva che gli Israeliti dimenticassero l’arte della guerra, arte che i padri avevano
imparato per entrare nella terra. In un’altra pagina si risponde che Dio voleva che il terreno
non inselvatichisse; quando le cose vanno molto bene, l’uomo tende a impigrire, a rifiutare la
fatica di coltivare il terreno. Oppure, nei Libri sapienziali, si adduce, come motivo, il voler
dare spazio di conversione agli altri popoli.
La ragione fondamentale che il Libro dei Giudici porta è che gli ebrei non meritavano
il dono della terra e che si allontanavano regolarmente dal Signore ogni volta che veniva
rimesso loro in mano.
Noi possiamo allora ricavare una grande verità: ciascuno di noi e l’umanità come
insieme ci logoriamo facilmente quando tutto va a gonfie vele, quando preghiera, salute,
apostolato, amicizie, affari vanno bene. Non dovrebbe essere così dal punto di vista teorico,
dal momento che l’uomo è fatto per la felicità, per la pienezza dei doni. Però in concreto la
situazione storica dell’uomo ferito dal peccato fa sì che nella condizione di benessere egli si
mette ad adorare gli idoli, si insuperbisce, adora se stesso, la propria potenza, lo sfoggio
delle proprie possibilità, delle proprie prestazioni fisiche, sociali, intellettuali.
Il Signore mette alla prova gli Israeliti allorché, avendo raggiunto un minimo di pace e
di bene, diventano idolatri.
La prova appare dunque una maniera provvidenziale con cui Dio ci tiene svegli.
Noi dobbiamo ammettere, ripensando alla nostra esperienza, che ci addormenteremmo
facilmente se non ci fossero continuamente piccole sofferenze, stimolazioni fisiche e morali,
che ci obbligano a rimetterci in assetto di lotta spirituale.
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C’è una provvidenza divina misteriosa nel fatto che il popolo non può godere
pacificamente fin dall’inizio del possesso della terra; c’è un cammino misterioso di
raffinamento della persona singola e del gruppo, attraverso difficoltà e dolori.
Anche se non comprendiamo bene il perché di questa economia divina, siamo chiamati
a contemplarla nel cammino del popolo di Dio, per poterla accettare almeno un poco nella
nostra esistenza personale.

— Nel brano evangelico (Mt 19,16-22) Gesù mette alla prova un giovane che credeva
di essere molto bravo, di avere raggiunto il pieno possesso della propria terra, delle proprie
facoltà, di averle disciplinate sotto la legge della ragionevolezza, sotto la legge di Dio.
Riteneva di essere a posto, e chiedeva: Che cosa mi manca, che già non ho? Eccomi, sono
pronto.
Gesù pronuncia una parola semplice: «Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che
possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi» (v. 21). E il giovane
comprende di essere ancora molto lontano dalla mèta: «Udito questo, se ne andò triste;
poiché aveva molte ricchezze» (v. 22). Questo è il mistero della prova, che si verifica quando
una persona si ritiene sicura, quasi all’apice di un cammino spirituale. Con una richiesta
nuova, il Signore fa capire che c’è ancora tanto da fare, e beata quella persona se non se ne
scandalizza.
Il dramma del giovane è di non aver capito che si trattava di una prova, di avere preso
l’invito di Gesù troppo sul serio, per così dire. Se avesse risposto: Tu mi chiedi, Signore, una
cosa difficile e soltanto adesso apro veramente gli occhi. Non so come fare a seguire la tua
proposta ma aiutami, dammi grazia. Se avesse avuto questo guizzo di intelligenza, la sua
storia sarebbe stata diversa.
Egli non ha colto che la prova mostrava una fragilità di cui non doveva stupirsi perché
era un gradino per camminare più speditamente verso Gesù. Così, si è rattristato, se ne è
andato.
La sua è una delle tante situazioni in cui la prova, non recepita, genera chiusura e
morte.

“Signore, noi siamo qui di fronte a te, per dirti che siamo fragili; pur non
immaginando quale sarebbe la richiesta capace di metterci in crisi, sappiamo che esiste.
Noi però non ci stupiremo se faremo fatica ad accoglierla, se proveremo ripugnanza.
Piuttosto ti chiederemo: Abbi pietà di noi! Usaci misericordia!
O Maria, madre di Gesù crocifisso, sciogli il nostro cuore con quell’amore e
quell’umiltà che il Signore avrebbe voluto dal giovane ricco. Fa’ che là dove constatiamo
incapacità o rifiuto, possiamo servircene come gradino per crescere nella conoscenza di noi
stessi, nell’amore del tuo Figlio. E attraverso il dono della morte e della risurrezione di
Gesù, medica il nostro cuore da tutte le sue povertà, angosce, paure, perché possa essere
illuminato dalla gioia della divina presenza”.
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GIOBBE NON SA ACCETTARSI

Premessa
Vorrei, a modo di premessa, indicare una difficoltà che potrebbe impedirci di trarre il
maggior frutto possibile dagli Esercizi, ed è la materia del Libro di Giobbe. Per questo sono
stato a lungo incerto se sceglierlo come testo di riferimento per le riflessioni.
Richiede infatti anche a me una lunga lotta per riuscire a comprenderne il messaggio;
non soltanto è un libro che parla della prova dell’uomo, ma è una prova in se stesso, per le
affermazioni sconcertanti che contiene e che non troviamo in altre parti della Scrittura.
Quali dunque i rimedi a questa difficoltà?
a) Il primo è di lottare con Dio come Giacobbe, senza lasciarci spaventare ma
affrontando la lettura del testo anche nella sua struttura che, tra l’altro, è abbastanza
semplice. Il problema è di capire che cosa voglia dire, con quale ordine, con quale cammino:
è solo poesia confusa oppure è una tesi?
Il fatto che a questa domanda non sia stata data ancora una risposta risolutiva, ci
sollecita a cogliere il messaggio di ogni pagina: Signore, che cosa stai dicendo a me? in che
maniera ciò che leggiamo è suggerimento per parlare o per tacere di Dio nel nostro mondo e
nei suoi drammi? questo Libro ha a che fare con il mistero tuo e mio, Signore, con il mistero
della Chiesa, del dolore umano, dei poveri?
Viene ripetuto spesso, ultimamente, a proposito delle polemiche con il mondo ebraico
per il Carmelo di Auschwitz che, dopo l’olocausto, non è più possibile parlare di Dio, che
c’è soltanto il silenzio. La frase è penetrata nella carne di parecchi teologi, specialmente
tedeschi, o comunque sensibili alla storia europea del nostro secolo. Quindi ci si interroga:
Siamo davvero ridotti al silenzio dopo certe tragedie? Possiamo ancora parlare mentre
perdurano le tragedie del Libano o della fame nei paesi poveri?
Il Libro di Giobbe entra nelle piaghe dell’umano e forse per questo lo rifuggiamo,
facendo fatica a parlare di Dio e non accettando un parlare di Dio che sconvolge le nostre
categorie comuni del divino.
È dunque un Libro che richiede lotta nella preghiera, adorazione, domanda, supplica; è
il primo modo col quale aiutarci.

b) Il secondo, già suggerito, è di trasformare la materia di meditazione in preghiera


personale affettiva; lasciarci coinvolgere e pregare a partire dal nostro vissuto e da quello di
coloro che amiamo, soprattutto di quanti vediamo soffrire, dalle sofferenze della Chiesa e
dell’umanità.
In altre parole: dobbiamo riscoprire i salmi di lamentazione. Giobbe, in fondo, si può
considerare come introduzione a quella metà del salterio, che recitiamo ma in cui fatichiamo
a immedesimarci; i salmi, appunto, di lamentazione.
Vi suggerisco, per esempio, per trasformare in preghiera la lettura di Giobbe che
faremo oggi, di riferirvi al Salmo 87, intitolato Preghiera dal profondo dell’angoscia, il più
pessimista di tutti. Mentre molti altri salmi di lamentazione terminano con parole di
esaudimento, di ringraziamento, l’ultimo versetto del Salmo 87 recita: «Hai allontanato da
me amici e conoscenti, mi sono compagne solo le tenebre». Perché allora questo salmo è
preghiera? come posso pregarlo? Il problema di Giobbe è proprio di capire come una
situazione di angoscia può essere vissuta nella fede.
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c) Infine, è importante non lasciarci prendere dalla indisciplina mentale. Ciascuno,


secondo la sua esperienza adulta di preghiera, deve stabilire nella giornata dei tempi: per la
preghiera mentale, silenziosa; per la lettura; per la preghiera vocale, molto utile, in
particolare il Rosario. Un ritmo di preghiera adatto al nostro momento di ricerca di Dio, sarà
utilissimo a superare la difficoltà della materia del testo biblico.

Giobbe maledice il suo giorno


Riflettiamo sul capitolo 3 di Giobbe, domandandoci dapprima, nel momento della
lectio, che cosa dice e poi, a livello di meditatio, qual è il messaggio per noi.
Dopo i sette giorni e le sette notti durante le quali gli amici siedono accanto a lui, per
terra, in silenzio, «Giobbe aprì la bocca e maledisse il suo giorno». Il contenuto del capitolo
è proprio questo: «maledisse il suo giorno».
«Prese a dire:
“Perisca il giorno in cui nacqui
e la notte in cui si disse:
È stato concepito un uomo!
Quel giorno sia tenebra,
non lo ricerchi Dio dall’alto,
né brilli mai su di esso la luce.
Lo rivendichi tenebra e morte,
gli si stenda sopra una nube
e lo facciano spaventoso gli uragani del giorno!
Quel giorno lo possieda il buio,
non si aggiunga ai giorni dell’anno,
non entri nel conto dei mesi.
Ecco, quella notte sia lugubre
e non entri giubilo in essa.
La maledicano quelli che imprecano al giorno,
che sono pronti a evocare Leviatan.
Si oscurino le stelle del suo crepuscolo,
speri la luce e non venga;
non veda schiudersi le palpebre dell’aurora,
poiché non mi ha chiuso il varco del grembo materno,
e non ha nascosto l’affanno agli occhi miei!
E perché non sono morto fin dal seno di mia madre
e non spirai appena uscito dal grembo?
Perché due ginocchia mi hanno accolto,
e perché due mammelle, per allattarmi?
Sì, ora giacerei tranquillo,
dormirei e avrei pace
con i re e i governanti della terra,
che si sono costruiti mausolei,
o con i principi, che hanno oro
e riempiono le case d’argento.
Oppure, come aborto nascosto, più non sarei,
o come i bimbi che non hanno visto la luce.
Laggiù i malvagi cessano d’agitarsi,
laggiù riposano gli sfiniti di forze.
I prigionieri hanno pace insieme,
non sentono più la voce dell’aguzzino.
17

Laggiù è il piccolo e il grande,


e lo schiavo è libero dal suo padrone.
Perché dare la luce a un infelice
e la vita a chi ha l’amarezza nel cuore,
a quelli che aspettano la morte e non viene,
che la cercano più di un tesoro,
che godono alla vista di un tumulo,
gioiscono se possono trovare una tomba...
a un uomo, la cui via è nascosta
e che Dio da ogni parte ha sbarrato?
Così, al posto del cibo entra il mio gemito
e i miei ruggiti sgorgano come acqua,
perché ciò che temo mi accade
e quel che mi spaventa mi raggiunge.
Non ho tranquillità, non ho requie,
non ho riposo e viene il tormento!”» (Gb 3).

Abbiamo accennato alla stranezza di questo capitolo; mentre al capitolo precedente


sembra che Giobbe non abbia maledetto Dio, che abbia resistito alla durezza degli eventi, ora
ci accorgiamo che la prova è appena cominciata. L’atto di sottomissione deve entrare nella
mente, nel cuore e nel corpo di colui che l’ha fatto, e questo è molto difficile.
Dopo sette giorni di silenzio, il vulcano che covava nell’animo di Giobbe erompe.
Cerchiamo di suddividere il testo nelle sue quattro parti.

1. vv. 1-10: il tema è la maledizione del giorno della nascita, qualunque sia stata l’ora.
«Se è giorno sia tenebra, se notte sia talmente lugubre che non entri giubilo in essa». Giobbe
tenta di cancellare quel giorno e quella notte dal tempo, di riportarli nel buio primitivo nel-
l’inesistenza.
Il tema non è frequente nella Scrittura che, in generale, è un inno alla vita. Ci sono
tuttavia pagine illustri che fanno da parallelo al disgusto di Giobbe. Ad esempio, il Libro di
Geremia là dove il profeta esclama:

«Maledetto il giorno in cui nacqui;


il giorno in cui mia madre mi diede alla luce
non sia mai benedetto.
Maledetto l’uomo che portò la notizia
a mio padre, dicendo:
“Ti è nato un figlio maschio”,
colmandolo di gioia.
Quell’uomo sia come le città
che il Signore ha demolito senza compassione.
Ascolti grida al mattino
e rumori di guerra a mezzogiorno,
perché non mi fece morire nel grembo materno;
mia madre sarebbe stata la mia tomba
e il suo grembo gravido per sempre.
Perché mai sono uscito dal seno materno
per vedere tormenti e dolore
e per finire i miei giorni nella vergogna?» (Ger 20,14-18).

Vi invito però a leggere il capitolo a partire dal v. 7.


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Geremia è un uomo illustre e straordinario, dotato di poteri di visione del mondo di


Dio quasi unici nella storia, riservati a pochissimi; eppure giunge a lamentarsi come Giobbe
proprio perché Giobbe non è figura singolare ma esprime i momenti più drammatici dell’es-
perienza umana.

2. vv. 10-19: il tema non è più soltanto quello della nascita aborrita, ma della morte
bramata.
«Perché non sono morto fin dal seno di mia madre e non spirai appena uscito dal grem-
bo?» (v. 11).
Possiamo pensare all’episodio di Giona. Deluso per l’agire di Dio, cade nella
depressione e chiede al Signore di togliergli la vita.
«Provò grande dispiacere — perché Dio aveva rinunciato a fare del male alla città di
Ninive — e ne fu indispettito. Pregò il Signore:
“Signore, non era forse questo che dicevo quand’ero nel mio paese? Perciò mi affrettai
a fuggire a Tarsis; perché so che tu sei un Dio misericordioso e clemente, longanime, di
grande amore e che ti lasci impietosire riguardo al male minacciato. Or dunque, Signore,
toglimi la vita, perché meglio è per me morire che vivere!”» (Gn 4,1-3). Nel momento in cui
la misericordia di Dio si sta rivelando, il profeta si sente scavalcato, quasi sconfessato nella
sua profezia e il dispetto, la stizza, la rabbia sono così forti che desidera la morte.
Viene alla mente un’altra figura straordinaria, Elia. Per la sua incapacità a vincere i
falsi profeti nel nome di Jahvè, fugge; impaurito per le minacce della regina Gezabele, «si
alzò e se ne andò per salvarsi. Giunse a Bersabea di Giuda. Là fece sostare il suo ragazzo.
Egli si inoltrò nel deserto una giornata di cammino e andò a sedersi sotto un ginepro.
Desideroso di morire, disse: “Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono
migliore dei miei padri”» (1 Re 19,3-4).
Elia, che pure viveva in intimità col mistero di Dio, giunge all’esasperazione perché
non è riuscito a fare quanto avrebbe dovuto.

3. vv. 20-23: l’invocazione della maledizione del giorno della nascita con la bramosia
della morte viene generalizzata dando voce al non senso generale della vita:
«Perché dare la luce a un infelice
e la vita a chi ha l’amarezza nel cuore,
a quelli che aspettano la morte e non viene?».

4. Infine, la quarta parte (vv. 24-26): è un ritorno di Giobbe su di sé per descrivere da


vicino che cosa sta vivendo:

«Al posto del cibo entra il mio gemito,


e i miei ruggiti sgorgano come acqua,
perché ciò che temo mi accade,
e quel che mi spaventa mi raggiunge.
Non ho tranquillità, non ho requie
non ho riposo e viene il tormento».

È così espresso efficacemente il grido che nasce dai sette giorni di silenzio di Giobbe:
aborrisce la nascita, desidera la morte, dichiara senza senso la vita di tutti coloro che
soffrono e alla fine ritorna su di sé per concludere: eccomi qua, inquieto e tormentato.

Il grido di Giobbe e la preghiera di lamentazione


Passando alla meditazione vera e propria del capitolo, ci chiediamo: le espressioni di
Giobbe sono retoriche, sono dovute all’esagerazione tipica degli orientali che usano spesso
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l’iperbole? Come mai, allora, sono contenute in una Scrittura che ha valore perenne? C’è
qualcosa di simile nella nostra esperienza?
Penso che quando ad esempio una persona viene messa in maniera lucida di fronte a
una prospettiva di malattia inguaribile, non di rado scoppia nel grido e nel lamento. Se da
parte dei medici si ritiene opportuno usare il metodo della verità diretta al malato, la prima
reazione è sempre di drammatica ribellione: Che senso ha, perché proprio a me?
Ciascuno di noi può trovarsi, da un momento all’altro, in queste condizioni di un male
gravissimo, inguaribile, e il grido di Giobbe può ben diventare il nostro.
Oppure pensiamo alla gente che vive, in certi periodi dell’esistenza, una serie di disagi
e di disgrazie di ogni genere che si accumulano una sull’altra portando all’esasperazione. È
mirabile che la Bibbia non abbia condannato questo sentimento, non l’abbia esorcizzato
bensì l’abbia ritenuto come parte del Testo Sacro ispirato.
Allargando il discorso, è legittima la domanda: Quale senso ha la vita miserabile di
tanti uomini e donne? una vita di estrema indigenza, priva di qualunque prospettiva umana?
Che senso hanno le folle di diseredati, di poveri, di persone che sono al limite della vivibilità
e per le quali non esiste un rimedio immediato? Quando ci accorgiamo della immensità di
questa miseria, dei tempi lunghissimi che saranno necessari per dare a tanta gente condizioni
di vita migliore, e insieme ci scontriamo con la corruzione politica nazionale e internazionale
che si oppone allo sviluppo dei popoli, non possiamo non chiederci il senso di tutto questo e
se non era meglio che quella gente non fosse mai nata. E che dire dei bambini che nascono,
in paesi sottosviluppati e ad alta prolificità, già malati, handicappati, impediti fin dall’inizio
di crescere per mancanza delle necessarie cure?
Quello di Giobbe è dunque un grido che attraversa anche il mondo d’oggi e la
tentazione radicale di bramare la morte minaccia tutti, nessuno escluso, minaccia anche
coloro che si rallegrano perché non vengono toccati da miserie terribili ma non possono
sottrarsi alla realtà di degrado che incombe su tanti popoli.
Il giudizio che noi diamo della pagina biblica si fa allora più moderato, più
comprensivo della verità del grido che corrisponde al modo di esprimersi dei derelitti di tutti
i tempi.
Non a caso è stato assunto dalla Scrittura come preghiera di lamentazione. È la
riflessione che fa Gustavo Gutiérrez, nel suo commento al Libro di Giobbe, mutuando
l’opinione di C. Westermann secondo il quale il genere letterario del testo biblico è la
lamentazione, la denuncia della propria miseria davanti a Dio. «Solo questa prospettiva
permette di comprendere correttamente la struttura dell’opera. L’autore scrive: “Nella mia
ricerca parto dal semplice riconoscimento del fatto che nell’Antico Testamento la sofferenza
umana possiede il suo linguaggio proprio. Non si può comprendere la struttura del Libro di
Giobbe se non si è compreso anzitutto questo linguaggio, cioè il linguaggio della
lamentazione”» (G. Gutiérrez, op. cit., p. 37 nota 14). Spiega poi che contrariamente
all’accezione negativa che la lamentazione assume nella mentalità occidentale —
rassegnazione, ripiegamento su di sé, incapacità ad aiutarsi —, nella prospettiva biblica essa
è profondamente legata alla preghiera, è un elemento di supplica, di appello a Dio. Egli nota
che nelle giovani Chiese cristiane questa forma di preghiera riprende sovente il suo posto:
basta pensare alle grandi devozioni popolari dell’America Latina, del Cristo morto, dove il
pianto esprime anche la sofferenza del povero (cfr. op. cit., p. 43 nota 7). Verso la fine del
suo commento, Gutiérrez cita un altro autore contemporaneo le cui parole ci permettono di
capire ulteriormente il mistero della preghiera di lamentazione che può sembrare talora
bestemmia: «Il miracolo del libro è precisamente nel fatto che Giobbe non fa un passo per
fuggire verso un qualche Dio migliore, ma rimane nel pieno campo di tiro, sotto il tiro della
collera divina, ed è là che, senza muoversi, nel cuore della notte, dal profondo dell’abisso,
Giobbe, che Dio tratta come nemico, fa appello non a qualche superiore istanza, non al Dio
dei suoi amici ma a questo stesso Dio che lo opprime. Giobbe si rifugia presso Colui che egli
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accusa; si affida al Dio che l’ha deluso e reso disperato. Giobbe confessa la sua speranza e
prende per difensore il Dio che lo mette in giudizio, per liberatore Colui che lo imprigiona,
per amico il suo nemico mortale» (R. De Pury citato da Gutiérrez, op. cit., pp. 155-156 nota
1).
La lamentazione è preghiera che scuote l’anima, facendo uscire il pus dalle piaghe più
profonde della nostra esistenza ed è quindi capace anche di liberarci interiormente. Perché il
cammino di Giobbe è di liberazione e di purificazione, per poter rivedere il volto di Dio e
riprendere il senso della propria dignità e verità.

Suggerimenti
Per la meditazione personale e concreta del capitolo 3 di Giobbe, vi suggerisco quattro
riflessioni.

1. È necessario imparare a distinguere, nella nostra vita, la lamentazione dalla


lamentela. Questa in genere è molto comune perché ci lamentiamo un po’ di tutto e ciascuno
si lamenta degli altri; è difficile che in ambienti religiosi, sociali e politici non si senta parlar
male degli altri. Si è perso il senso vero del lamento che consiste nel piangere davanti a Dio.
Così, le forze di resistenza, di irritazione, di stizza che si agitano nell’animo, non trovando il
loro sfogo naturale e giusto, si scagliano su chi e su ciò che ci circonda e formano l’infelicità
della vita, della famiglia, delle comunità, dei gruppi. Solo Dio che ci è padre è capace di
sopportare anche le ribellioni e le grida del figlio; è il rapporto con un Dio tanto buono e
forte che ci rende possibile litigare con lui. Egli accetta questo confronto, come l’ha accettato
da Elia, da Giona, da Geremia, da Giobbe. È vero che Giona sarà rimproverato quando
chiede di morire, però intanto Dio l’ha lasciato parlare.
Aprire la vena della lamentazione è il modo più efficace per chiudere i filoni delle
lamentele che intristiscono il mondo, la società, le realtà di Chiesa e che sono senza uscita
perché, essendo vissute a livello puramente umano, non giungono al fondo del problema.
Molte volte, se a lamentele sterili, generatrici di nuove piaghe, sostituissimo il lamento
profondo nella preghiera, troveremmo la soluzione di problemi nostri e altrui o, comunque,
prenderemmo la via espressiva più giusta per denunciare la sofferenza e il disagio nella
Chiesa.
Confesso di aver vissuto situazioni in cui di fronte alla domanda: Dov’è nella Bibbia
una pagina che corrisponda a ciò che sento adesso?, mi sono riconosciuto leggendo le
Lamentazioni di Geremia e ho sperimentato la pace. Anziché esprimermi in critica, in forme
di rivalsa e di risentimento, ho lasciato che le parole del profeta, pur tanto drammatiche,
addolcissero e sciogliessero il cuore.
Forse i poveri hanno più forza di sopportazione dei ricchi perché non hanno perduto
questa via profonda e interiore, questa sapienza della vita. Chi l’ha smarrita reagisce solo con
rabbia; pensa di essere padrone di tutto e se le cose non vanno come vuole lui si rivale sugli
altri.

2. Una seconda riflessione. Giobbe vive un’esperienza di cui non vede il senso e non si
accetta:
«Al posto del cibo entra il mio gemito
e i miei ruggiti sgorgano come acqua,
perché ciò che temo mi accade
e quel che mi spaventa mi raggiunge.
Non ho tranquillità, non ho requie,
non ho riposo e viene il tormento» (3,24-26).
21

La sua condizione, per usare un’espressione corrente ai nostri giorni, è propria di chi è
demotivato, di chi non trova più le ragioni per resistere nella lotta.
Tale condizione suona per noi come un campanello di allarme. Quando infatti,
esaminandoci in qualche momento di incertezza e di fatica, ci sembra di essere demotivati, ci
spaventiamo. E quando viene da noi una persona, magari un giovane ai primi anni del
matrimonio, per confidarci di sentirsi demotivato, siamo presi dalla paura. I motivi sono due:
anzitutto perché avvertiamo che la situazione di quella persona potrebbe diventare nostra. In
secondo luogo perché la parola “demotivazione” sembra non ammettere appello, sembra
giustificare le fughe: Non sento più niente, non ho più voglia, e che colpa ne ho?
Giobbe ci suggerisce, invece, di guardarla in faccia in modo da farle perdere un poco
della sua sinistra potenza. Ci invita a esaminarla con coraggio, a non considerarla così
terribile, quasi non ci fosse più niente da fare. Ci stimola a chiederci che cosa in realtà
significa, tanto più che chi si trova demotivato non è oggettivamente molto cambiato, se non
per il fatto che non riesce più a capire la gratuità.
Nel Prologo di Giobbe, abbiamo contemplato la scommessa di Dio: egli ritiene che
l’uomo è capace di agire per gratuità d’amore anche là dove le gratificazioni ordinarie
vengono meno. La persona demotivata dovrebbe, in verità, dire: Sono giunto al punto in cui
posso, per la prima volta nella mia vita, cominciare a essere uomo perché non ho più quella
serie di gratificazioni che avevo prima.
Il 98% delle nostre azioni sono frutto di un flusso e riflusso di gratificazioni reciproche
che ci sostengono; ed è giusto che sia così. Ma la prova che esiste un amore disinteressato e
gratuito scatta quando siamo totalmente nudi di fronte a Dio e al suo amore crocifisso.
Questa è la scommessa proposta dal Libro di Giobbe che grida e può gridare di essere
demotivato, di desiderare la morte, che la vita non ha senso e però grida davanti al suo Dio e
ai suoi amici; continua a muoversi, a operare, continua a cercare.
Nella demotivazione, la sua libertà si purifica, quella libertà di cui si poteva dubitare,
prima della scommessa, se fosse veramente capace di gratuità. Gradualmente l’uomo Giobbe
arriva al vero se stesso.
Quando dunque pensiamo di essere a un limite da cui non possiamo più muoverci,
siamo semplicemente giunti al punto in cui la nostra libertà è nel suo momento espressivo
più autentico. Gesù ci ha mostrato la gratuità del suo amore, non solo nel fare miracoli ma
sulla croce, perché ci fosse corrispondenza tra due gratuità messe a confronto liberamente.
Da Giobbe impariamo che la nostra dignità di uomini si rivela nell’amare Dio anche se
la demotivazione ha raggiunto la violenza espressa dalle parole su cui abbiamo riflettuto.
Se scopriamo in noi qualche radice di frustrazione, se abbiamo il timore che le nostre
azioni siano prive di senso, e magari abbiamo persino paura a riconoscerlo, dobbiamo
cercare di dirlo a Dio attraverso la forma della lamentazione.

3. Dobbiamo accettare di essere ciò che siamo. Parlando dei poveri, ad esempio,
avvertiamo sempre il tormento di non poter condividere davvero la loro situazione. Avendo
infatti avuto, nella nostra esistenza, una formazione, una cultura, non saremo mai come la
gente povera, qualunque cosa ci possa accadere.
Come comportarci? Forse come coloro che nel ‘68 si sforzavano di portare la barba
incolta, di essere sporchi per assomigliare in qualche modo a chi è privo di tutto?
Sarebbe assurdo; dobbiamo ringraziare il Signore di essere quello che siamo e
chiederci che cosa possiamo fare, qui e adesso, per il fratello che è diverso da noi. Chiederci
che cosa possiamo ricevere da lui che, a sua volta, si porrà le stesse domande. L’importante è
che io risponda a Dio di me e che ami gli altri quanto posso. Il voler andare al di fuori di sé è
pretesa mefistofelica.
Giobbe ci aiuta a smontare questi castelli in aria, ad essere umilmente capaci di
accettarci e di accettare i fratelli perché la verità è che siamo al mondo per donarci
22

reciprocamente. La pretesa di entrare nella pelle di tutti per avere la soluzione


geometricamente perfetta si rivela, alla fine, clamorosamente sbagliata.
Quante volte, pensando, ad esempio, di aiutare la povertà dei popoli africani si sbaglia
totalmente, si pongono gesti che non vengono accolti.
Se, invece, mi metto ad ascoltare con amore quella gente, mi accorgo che posso
ricevere molto e, pur se non comprendo del tutto la loro mentalità, si vivono rapporti di
scambio esistenziale che permettono di dire: Signore, ho fatto ciò che ho potuto seguendo il
tuo Figlio, e tu ora donami la tua misericordia.
Questa sobrietà di giudizio, che naturalmente impone sacrifici alla mente, è difficile e
la si acquista con l’età e con l’esperienza. Finché si è giovani non si accetta la riduzione della
propria capacità mentale di conoscere il tutto e di conoscere se stessi come totalità, di
valutare, a partire da se stessi, l’altro come totalità.

4. Infine, vorrei ricordare il titolo dei nostri Esercizi: Voi avete perseverato con me
nelle mie prove. Chiediamo a Gesù nell’orto del Getsemani:

“Signore, hai mai vissuto momenti in cui tutto ti sembrava strano, insulso, senza
senso, in cui non avevi più voglia di niente e non provavi più alcuno stimolo? E come li hai
vissuti?’’.

San Carlo Borromeo racconta di aver sperimentato la frustrazione, il sentimento di


inutilità, di disgusto; e un giorno, al cugino Federigo che gli domandava come si
comportasse durante quei momenti, mostrò il libriccino dei Salmi, che portava sempre in
tasca. Egli ricorreva ai canti di lamentazione per dare voce alla sua sofferenza e, nello stesso
tempo, per riprendere fiato e fede di fronte al mistero del Dio vivente.
Preghiamo perché il Signore ci doni di saper accedere anche noi alla fonte purifìcatrice
e balsamica della lamentazione biblica.
23

L’ESAME DI COSCIENZA DI GIOBBE

Il rischio teologico della lettura del Libro di Giobbe mi pare bene espresso da una
citazione che ho trovato in un articolo del filosofo Emanuele Severino, dal titolo: Il rischio
della fede nell’“ironico” Sacrate.
Egli scrive:
«Al re Mida, che vuole sapere da lui quale sia la cosa migliore e più desiderabile per
l’uomo, il Sileno» — che rappresenta la tradizione della saggezza dionisiaca — «dopo aver a
lungo taciuto, risponde infine ridendo: “Stirpe miserabile ed effimera, figlio del caso e della
pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non sentire? Il meglio è
per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in
secondo luogo migliore, per te, è morire presto” (cioè ritornare al più presto nel niente)» (cfr.
«Corriere della Sera», 21.8.1989).

Potremmo esprimere il problema teologico di Giobbe nell’interrogativo: Quale la


differenza tra parole di questo tipo e quelle del capitolo 3 di Giobbe?
Avvertiamo una certa assonanza di linguaggio, talora i vocaboli sono identici e tuttavia
la diversità è abissale perché l’uomo del testo biblico non è né scettico né deluso della vita.
Noi siamo dunque chiamati a entrare nell’abisso della vera e misteriosa conoscenza di
Dio, del Dio indicibile.
E ne abbiamo paura. Probabilmente, se il Libro di Giobbe fosse affidato oggi a una
commissione dottrinale o teologica per decidere se inserirlo o meno nel canone, si
giungerebbe a non inserirlo nel timore di creare disagio e disturbo.
Il fatto però che sia nel canone come parola di Dio ci invita ad accettare la fatica della
lettura chiedendo al Signore di donarci spirito di preghiera, di umiltà, di adorazione per non
lasciarsi irretire dai termini puramente razionali del conoscere. A un amore senza fine
corrispondono misteri senza fine e noi vogliamo correre, superando una prima impressione
di disagio, i cammini difficili della Parola senza sapere in anticipo dove essa ci condurrà.
“Donaci, Signore, una vera, nuova e più approfondita conoscenza di te. Anche
attraverso le parole che non comprendiamo, fa’ che possiamo intuire con l’affetto del cuore
il mistero tuo che è al di là di ogni comprendere.
Fa’ che l’esercizio di pazienza della mente, il percorso spinoso dell’intelligenza, sia il
segno di una verità che non è raggiunta semplicemente coi canoni della ragione umana, ma
è al di là di tutto e, proprio per questo, è luce senza confini, mistero inaccessibile e insieme
nutritivo per resistenza dell’uomo, per i suoi drammi e le sue apparenti assurdità.
Donaci di conoscere te, di conoscere noi stessi, di conoscere le sofferenze
dell’umanità, di conoscere le difficoltà nelle quali si dibattono molti cuori e di ritornare a
una sempre nuova e più vera esperienza di te”.

L’ultimo monologo di Giobbe


Saltando i capitoli intermedi, dal momento che non ci è possibile rileggere l’intero
Libro, vogliamo riflettere sui capitoli 29, 30, 31, perché costituiscono l’ultimo monologo,
grande e lungo, di Giobbe.
Dopo quello del capitolo 3, vengono presentate tre scene, in cui i tre amici parlano e
Giobbe ogni volta risponde. Segue poi un intermezzo misterioso, una specie di bagliore di
fuoco dall’alto, che è l’inno della sapienza (c. 28).
24

Quindi riprende il monologo, l’ultima parola prima del dialogo con Dio.
Per il valore riassuntivo, sintetico, conclusivo di questi tre capitoli mi pare utile
proporre una lettura secondo i due tempi della lectio e della meditatio.
L’esame di coscienza di Giobbe ci aiuterà a prepararci al nostro esame di coscienza per
la giornata penitenziale di domani.
Mi servo soprattutto della spiegazione che don Gianfranco Ravasi dà di questi tre
capitoli nel suo commento a Giobbe (cfr. Ravasi, Giobbe, Borla, 1979), valendomi, per
comodità, della traduzione dello stesso autore. È infatti una spiegazione che seziona
accuratamente il testo secondo le sue divisioni interne offrendo così una prima chiave di
lettura.
Il cap. 29 è intitolato: Il canto del passato e della nostalgia; in esso tutti i verbi sono al
passato, Giobbe richiama le situazioni e gli ambienti vissuti.
Il cap. 30 è intitolato: Il canto del presente e dell’orrore, e comincia con la parola «ora,
adesso».
Il cap. 31 è intitolato: Il canto del futuro e dell’innocenza. Riguardando la sua vita
passata, Giobbe fa una confessione di innocenza, molto dettagliata, a partire da una serie di
criteri morali etici che esamina uno per uno; conclude sfidando Dio a portare le sue ragioni
contro di lui.

1. Capitolo 29. «Giobbe continuò a sviluppare il suo intervento dicendo:


Chi mi farà rivivere i mesi d’un tempo,
i giorni in cui Dio sopra di me vegliava,
quando la sua lampada splendeva sopra il mio capo
e con la sua luce attraversavo le tenebre?
Rivivere come nei giorni del mio autunno fecondo,
quando Dio era in mezzo alla famiglia nella mia tenda,
quando Shaddaj stava ancora con me
e mi circondavano i miei giovani,
quando mi lavavo i piedi nel latte
e la roccia mi versava fiotti d’olio» (vv. 1-6).

In questa prima strofa Giobbe si descrive come colui che viveva la gioia di un amico
di Dio. Lo sentiva presente nella preghiera, nella vita quotidiana con i suoi momenti difficili,
ne gustava la vicinanza continua.

«Quando m’incamminavo verso la porta della città


e mi insediavo nella piazza centrale,
al mio apparire i giovani si eclissavano,
gli anziani si alzavano e restavano in piedi,
i notabili sospendevano i loro discorsi
turandosi la bocca con la mano,
ammutoliva la voce dei politici,
la loro lingua s’incollava al palato.
Chi ascoltava le mie parole mi celebrava,
chi mi vedeva mi rendeva testimonianza» (vv. 7-11).

È un secondo quadretto nel quale Giobbe non si definisce soltanto nel suo rapporto
intimo col mistero di Dio ma anche in relazione alla gente del villaggio.

«Io salvavo il povero che implorava aiuto


e l’orfano indifeso;
25

la benedizione del disperato mi inseguiva,


riaprivo alla gioia il cuore della vedova;
la giustizia era il vestito di cui mi ricoprivo,
il diritto era il mio manto e il mio turbante.
Ero occhio per il cieco,
ero piede per lo storpio,
ero padre per i poveri,
mi impegnavo anche per la causa d’uno sconosciuto,
fracassavo le mascelle del perverso
per strappargli dai denti la preda» (vv. 12-17).

Giobbe era uomo giusto, che si occupava attivamente dei poveri e per questo chi lo
vedeva rendeva testimonianza. Dall’apologia di sé, centrata unicamente sulla sua persona,
passa gradualmente a considerare l’aspetto sociale; la sofferenza gli ha aperto gli occhi per
capire la necessità di un rapporto con i più abbandonati, i diseredati.

«Pensavo:
“Quando spirerò nel mio nido,
moltiplicherò di nuovo i miei giorni come la fenice.
Le mie radici si dirameranno fino all’acqua
e la rugiada notturna si deporrà sui miei rami,
la mia gloria ritroverà sempre freschezza,
e il mio arco avrà sempre forza nella mia mano”» (vv. 18-20).

Ecco il sogno della sua vecchiaia: Giobbe era certo che avrebbe dato frutti come una
giovinezza perenne.

«Attenti mi ascoltavano
in silenzio attendevano i miei consigli.
Dopo il mio intervento nessuno replicava,
le mie parole stillavano come gocce su di loro,
le sospiravano come pioggia
e le sorbivano a bocca aperta come l’acqua primaverile.
Il mio sorriso li colmava di stupore,
non si lasciavano sfuggire alcun segno di favore
del mio volto.
Assiso come un principe,
indicavo loro la strada da seguire,
come un re intronizzato tra la sua guardia del corpo,
come un consolatore di afflitti» (vv. 21-25).

In questo ultimo quadretto, quasi facendo un salto indietro, Giobbe ricorda il suo
impegno più specificamente politico, la forza della sua presenza nella società.

Il capitolo 29 è dunque un canto nostalgico in cui viene rievocato il bene vissuto e


compiuto, la condizione pacifica, serena, piena di gratificazioni di ogni tipo.
Giobbe era giusto, buono, amava i poveri, però era anche ricompensato, riverito,
ascoltato, stimato: tutta una situazione che ora è messa in questione dal nuovo corso della
sua storia.
26

2. Capitolo 30. Questo canto del presente e dell’orrore, Ravasi lo divide in sette brevi
sezioni, che descrivono l’una dopo l’altra atteggiamenti di un uomo che scende sempre più
in basso: umiliato, disprezzato, attaccato, atterrito, osteggiato da Dio, piangente, sofferente.
Giobbe umilato:
«Ora, invece, si burlano di me
individui più giovani di me
i cui padri io mi sarei rifiutato
di mettere persino tra i cani del mio gregge,
le cui braccia non mi sarebbero servite
perché ogni loro forza sarebbe venuta meno.
Consumati dalla fame e dalla indigenza,
brucano nella steppa,
lugubre e desolata solitudine,
strappano erbe amare dai roveti,
si nutrono di radici di ginepro.
Banditi dalla società civile,
si grida dietro loro come ai ladri.
Abitano perciò in burroni spaventosi,
in antri del terreno e in caverne,
lanciano ululati in mezzo alla macchia,
bivaccando sotto i rovi.
Canaglia ignobile, razza infame,
strappata via dalla terra» (vv. 1-8).

Giobbe disprezzato:
«Ora, invece, io sono divenuto la loro canzone,
sono divenuto la loro favola!
Mi aborriscono e mi schivano
né si trattengono dallo sputarmi in faccia» (vv. 9-10).

Giobbe attaccato:
«Lui, infatti, ha allentato il mio arco
e mi ha abbattuto;
hanno infranto ogni freno nei miei confronti.
A destra insorge la feccia
per far inciampare i miei piedi
e per preparare la strada del mio sterminio.
Hanno sconvolto il sentiero da me battuto,
cospirano per la mia rovina
e nessuno li trattiene.
Irrompono su di me come da una breccia aperta,
emergono da sotto le macerie» (vv. 11-14).

Dio è pertanto il soggetto reale, benché anonimo — «lui» —, della battaglia aperta
contro un uomo umiliato e disprezzato.

Giobbe atterrito:
«Quanti terrori ho puntati contro di me!
La mia dignità si è dispersa come vento,
la mia felicità si è dissolta come nube.
Ora la mia anima svanisce a goccia a goccia,
27

mi incombono giorni funesti;


di notte le mie ossa sono trafitte
e non si placano le piaghe che mi rodono.
Egli mi afferra con violenza per la veste,
mi soffoca con l’accollatura della mia tunica,
mi tuffa nel fango,
sono una maschera di polvere e cenere» (vv. 15-19).

E, se non bastasse, Dio lo osteggia:


«Ti imploro, ma tu non mi rispondi,
ti sto davanti, ma tu non badi a me.
Ti sei trasformato nel mio boia
e con la forza della tua mano tu mi stritoli.
Tu mi fai levare in volo a cavallo del vento
e mi fai sballottare dalla bufera.
So che tu mi hai votato alla Morte
dove si danno appuntamento tutti i viventi» (vv. 20-23).

Perciò Giobbe è un uomo piangente:


«Nella disgrazia non si tendono le braccia?
Non si invoca aiuto nella sventura?
Non piangevo io con chi aveva una vita dura?
Non mi si rattristava l’anima alla vista d’un povero?
Speravo felicità:
mi è venuta disgrazia,
speravo luce:
mi è venuta tenebra.
Le mie viscere ribollono e non si placano,
giorni funesti mi sono venuti incontro» (vv. 24-27).

Abbandonato, egli vive nell’oscurità più totale ed è infelice e sofferente:


«Cammino tetro, senza la luce del sole;
nell’assemblea mi alzo solo per urlare.
Fratello degli sciacalli sono divenuto,
compagno degli struzzi.
La mia pelle si incancrenisce e si squama,
le mie ossa bruciano di febbre.
La mia cetra s’accorda solo per il lutto
e il mio flauto accompagna solo voci in pianto» (vv. 28-31).

3. Dopo aver descritto la propria terribile situazione presente, quest’uomo si erge, d’un
balzo, in un canto di fierezza, il canto del futuro e dell’innocenza.
Capitolo 31:
«Avevo concluso coi miei occhi il patto
di non fissare mai lo sguardo su una vergine.
Ed invece quale sorte mi riserva Dio dall’alto,
quale eredità mi destina Shaddaj dai cieli?
Non dovrebbe toccare al criminale la disgrazia
e la rovina al malfattore?
Ma non vede Egli la mia condotta?
Non conta i miei passi?
28

Ho forse camminato insieme con la menzogna


e i miei piedi si sono forse affrettati
verso la frode?
Mi pesi pure Dio su bilance giuste
e si verificherà la mia perfezione.
Se i miei passi hanno deviato
e il mio cuore ha seguito il capriccio degli occhi,
se le mie mani si sono imbrattate di ingiustizie,
allora, sia un altro a mangiare il frutto di ciò che semino
e siano sradicati i miei germogli!» (vv. 1-12).

Il tono è completamente cambiato e assume il linguaggio di una confessione morale e


sociale.
Giobbe si dichiara innocente da peccati contro l’impudicizia, contro la falsità, contro
l’adulterio. Ravasi riporta, in proposito, alcuni interessanti paralleli dell’antichità semitica,
quando si pensava che il morto nel presentarsi agli dèi, facesse una confessione di innocenza.
Interessante, tra gli altri, un formulario tratto dal Libro dei Morti egiziano:
«Io non ho commesso colpe contro gli uomini,
Io non ho maltrattato i bovini.
Io non ho bestemmiato Dio.
Non ho colpito il misero.
Non ho causato malattie.
Non ho affamato.
Non ho ucciso.
Non ho rubato focacce agli Spiriti.
Non ho commesso pederastia.
Non ho commesso atti impuri.
Non ho falsificato la misura del campo...».

Queste invocazioni rituali il morto le gridava seduto sulla barca che lo portava al di là
del fiume: se erano vere non veniva bruciato ma se non lo erano veniva divorato dal fuoco.
Le parole di Giobbe tuttavia hanno un aspetto non propriamente rituale e giudiziario
ma, come abbiamo detto, morale.
Passa quindi alla dichiarazione di innocenza verso lo schiavo che ha trattato sempre
con giustizia:
«Se ho calpestato i diritti del mio schiavo
e della mia schiava
quando erano in causa contro di me,
che farei quando Dio si leverà,
che risponderei quando aprirà l’istruttoria?
Chi mi plasmò nel ventre materno
non plasmò anche loro?
È lo stesso Dio che ci formò nel grembo» (vv. 13-15).

Poi si difende dall’accusa lanciatagli da Eliafaz, affermando di essere stato caritatevole


verso i poveri:
«Se ho negato allo sfinito quanto bramava
o se ho lasciato languire gli occhi della vedova,
se con egoismo ho mangiato il mio boccone di pane
senza spartirlo con l’orfano
— io che fin dall’infanzia l’ho cresciuto come un padre,
29

io che gli fui guida, appena generato —


se ho visto un miserabile senza vestito
o un indigente senza niente per coprirsi,
e non mi hanno benedetto i suoi fianchi
riscaldati dalla lana dei miei agnelli,
se ho alzato la mia mano contro l’orfano,
quando avevo influenza nell’ambito del tribunale,
mi caschi la spalla dalla schiena,
mi si spezzi il braccio al gomito!
Il mio terrore, infatti, è il castigo di Dio,
mi paralizza la sua maestà» (vv. 16-23).

Quanto all’accusa di aver abusato delle ricchezze e di essere stato idolatra dichiara:
«Se ho riposto la mia fiducia nell’oro
ed ho chiamato il metallo prezioso mia sicurezza,
se ho tratto la mia gioia
dall’abbondanza delle mie ricchezze
e dalla fortuna ammassata dalle mie mani,
se, vedendo il sole risplendere e la candida luna errare,
il mio cuore si fosse lasciato segretamente sedurre
ed avessi lanciato ad essi un bacio con la mano,
anche questo sarebbe stato un delitto in tribunale
perché avrei rinnegato il Dio del cielo» (vv. 24-28).

Giobbe si difende anche dall’accusa di odio e da quella di aver violato l’ospitalità:


«Ho mai goduto per il mio nemico in rovina?
Ho mai gridato di gioia se una sventura lo colpiva?
Ho mai permesso alla mia bocca di peccare
augurandogli la morte con maledizioni?
La gente della mia tenda esclamava:
A chi non ha offerto le sue carni per saziarsi?
Il forestiero non doveva pernottare all’addiaccio,
al viandante io aprivo la mia porta» (vv. 29-32).

Infine, da quella di ipocrisia e di sfruttamento:


«Non ho, come Adamo, occultato il mio delitto
né ho celato nel mio petto la mia colpa
per timore della opinione della folla,
atterrito dal disprezzo del mio clan,
ammutolito e tappato in casa.
Se le mie campagne gridano contro di me
e i loro solchi piangono a una voce,
se ho mangiato i loro prodotti senza pagarli
riducendo alla fame i loro affittuari,
allora, invece di frumento mi crescano spine,
invece di orzo, ortiche!» (vv. 33-34.39-40).

Un lungo esame di coscienza sociale, che Giobbe fa ritrovandosi giusto in tutti i diversi
momenti dell’esistenza umana.
I versetti 35-37 costituiscono come la sfida finale per Dio. Infatti, se Dio è giusto non
può tacere ma deve avallare la confessione:
30

«Oh! datemi qualcuno che mi ascolti!


Ecco, qui la mia firma. Shaddaj mi risponda!
Il mio rivale scriva il suo allegato!
Io me lo caricherei sulle spalle
e me lo cingerei come un diadema.
Gli renderei conto di tutti i miei passi
e, come un principe, mi presenterei a Lui».

Così finisce questo lunghissimo e ampio monologo di Giobbe, poeticamente ricco e


pieno di immagini. E noi dobbiamo rileggerlo attentamente per cercare di entrare nel mistero
dell’uomo e nel mistero di Dio, che esso esprime.

Avvio alla meditatio


Suggerisco tre riflessioni che possono aiutarvi nella meditazione e nella ricerca
personali.
— La prima è che un uomo così non è mai esistito. Si tratta chiaramente di una
proiezione teorica, di un caso limite, della proiezione di un Adamo paradisiaco che fa ogni
cosa sempre e solo bene.
Perché allora dobbiamo tentare di capire questo ipotetico uomo che chiama in giudizio
tutto il mondo proclamando di non aver fatto mai male a nessuno, di non aver avuto
nemmeno un momento di defaillance?
Per convincerci che, anche se esistesse un uomo come Giobbe, non sarebbe sottratto
alla prova drammatica espressa nel capitolo 30.
La prova è dunque insita nel rapporto Dio-uomo, che essendo fondato sull’amore
gratuito, non semplicemente sulla giustizia commutativa, comporta pure la prova.

— Tuttavia colui che può affermare: Chi di voi mi convincerà di peccato? è esistito, ed
è Gesù. Egli non è stato sottratto alla prova dell’amore gratuito verso di noi e ciò significa
che il tema della prova non è semplicemente legato alla colpa, alla purificazione, all’uscita
dalla situazione inautentica. Piuttosto, è legato alla verità delle relazioni libere tra l’uomo e
Dio, alla gratuità assoluta di queste relazioni, che viene messa in luce nel momento in cui le
gratificazioni cessano.
L’autore del Libro di Giobbe è alla ricerca di un aspetto del mistero di Dio che dia alla
prova un senso che non sia semplicemente quello di una purificazione dal peccato.
Questo aspetto noi lo contempliamo nel Crocefisso.

— La nostra condizione è comunque ben diversa dalla condizione del giusto Giobbe, e
possiamo ripercorrere i cammini del capitolo 29 e poi del 31 esaminandoci: come ci
troviamo rispetto agli ambienti e alle relazioni della nostra esistenza, ai doveri etici? quali i
peccati che abbiamo commesso, quali i peccati di omissione?
Di questi peccati vogliamo accusarci non semplicemente per sfuggire alla pena, per
instaurare con Dio un rapporto basato sulla giustizia, ma nella ricerca di quel dolore perfetto
che nasce dall’amore, seguendo quanto ci indica, almeno come tentativo misterioso, il
cammino di Giobbe. Accusare le nostre colpe per amore puro, perché Dio sia benedetto,
lodato, santificato, per entrare con lui in un rapporto di alleanza.
Noi siamo chiamati alla verità e libertà del nostro rapporto con Dio, a vivere sta-
bilmente l’amicizia con lui: Vi ho chiamati amici, non servi... Voi siete coloro che avete
perseverato con me nelle mie prove, per amore e non solo per essere fedeli a voi stessi e ai
vostri propositi.
31

Le pagine drammatiche di Giobbe ci fanno intravedere questa ricerca profonda del


cuore umano che desidera un rapporto con Dio che sia al di là della mera obbedienza, della
mera giustizia, un rapporto nel quale si giochi la libertà di ciascuno di donarsi, di concedersi,
di dedicarsi con disinteresse e con purità.

“Donaci, Signore, di comprendere nelle pieghe difficili dì questo libro biblico la tua
ansia di farci come te, l’ansia di renderci simili al Figlio, di introdurci in una relazione di
tipo trinitario, in quel mistero di amore e di dono che costituisce l’intima tua essenza.
Maria, madre di Gesù e madre nostra, fa’ che possiamo anche noi gustare una scintilla del
profondissimo mistero di Dio”.
32

LA BENEDETTA TRA LE DONNE


Omelia nella memoria di Maria Regina
Letture: Is 9,2-4.6-7; Lc 1,39-47

La memoria della Beata Vergine Maria Regina, nell’ottava dell’Assunta, cade


opportunamente nel secondo giorno dei nostri Esercizi, per ricordarci che dobbiamo viverli
soprattutto in unione e in imitazione dell’ascolto che Maria fa della Parola, della sua
preghiera affettiva.
Non ci viene chiesto di raggiungere nuove intuizioni, pur se queste hanno la loro
utilità, ma di allargare il cuore nell’affetto orante, nell’essere vicini a Gesù come Maria vi
stava lungamente anche in silenzio, di nutrire il nostro spirito di questa affettività interiore
che è tanto importante per sostenere il cammino spirituale.

— Il vangelo odierno (Lc 1,39-47) possiamo considerarlo l’inizio delle benedizioni


tributate a Maria, la prima proclamazione delle sue beatitudini: «Benedetta tu fra le donne,
benedetto il frutto del tuo grembo!... Beata colei che ha creduto nell’adempimento delle
parole del Signore».
Queste parole suonano opposte all’esclamazione di Geremia: «Maledetto il giorno in
cui nacqui» (Ger 20,14). Qui, invece, viene esaltata l’opera di Dio in Maria, e l’esaltazione si
esprime in giubilo. Per l’uomo questo giubilo è tanto più grande quanto più profondo è il
senso della solitudine e della disperazione nelle quali egli può cadere senza il mistero di Dio.
Come dice il profeta Isaia, il moltiplicarsi della gioia, l’aumentare della letizia, il gioire
simile al gaudio della mietitura, l’esultare proprio di chi si spartisce la preda, sembrano
proporzionali alle tenebre nelle quali camminava il popolo, all’«abitare nella terra tenebrosa»
(cfr. Is 9,2-4).
È dunque la coscienza delle tenebre e del non senso a cui ciascuno di noi è condannato
in forza della condizione peccaminosa dell’umanità, che fa risplendere con tanta più letizia
ed esultanza il mistero dell’amore di Dio.
In Maria si esprime la beatitudine di ogni donna e di ogni uomo che si sente
abbracciato dal mistero dell’alleanza di Dio: «Benedetta tu fra le donne, benedetto il frutto
del tuo grembo, beata colei che ha creduto!».

— Se però riflettiamo su quale è stata la sorte di Maria, ci accorgiamo che, dopo la


proclamazione di queste parole che la presentano immersa in un torrente di luce, ella entra
ben presto, di nuovo, nell’oscurità. Sono più numerosi gli eventi che Maria non capisce,
nella sua vita, di quelli in cui vede realizzarsi questa profezia: la nascita in povertà del figlio,
il suo abbandono da parte di tanti, la sua esistenza nella quale non rifulge niente della
grandezza predetta dall’angelo.
Per anni e anni vive un dolore molto grande, godendo della presenza immediata del
Figlio e insieme leggendolo immerso in una assoluta tenebra del mondo rispetto a lui.
La Vergine è entrata in questa durissima prova, ha compiuto il pellegrinaggio della
fede fino al momento del buio del Calvario. La benedizione dell’inizio non le ha tolto nulla
delle prove successive della sua vita; è stata soltanto una parola che l’ha accompagnata nel
suo credere e nel suo affidarsi.
Vogliamo, allora, in questa Eucaristia, affidare alla Madonna tutte le nostre oscurità e
le oscurità nelle quali camminano le persone che conosciamo, che ci stanno a cuore, che ci
sono vicine, per le quali preghiamo. Le oscurità per le quali camminano gli uomini e le
donne del mondo, in grande maggioranza, chiedendo al Signore di farci comprendere come
33

noi tutti siamo benedetti in Gesù, e come la gioia che ha inondato il cuore di Maria e di
Elisabetta è gioia anche per noi, quando abbiamo il presentimento, sia pur lontano, della
ricchezza misteriosa contenuta nelle parole del Signore.

“Donaci, Maria, di entrare talmente nel mistero della tua prova da potere fin da ora
ripetere: ‘L’anima mia magnifica il Signore’.
Fa’ che anche dalla valle della nostra oscurità sappiamo gridare: ‘II mio spirito
esulta in Dio mio salvatore’.
Fa’ che ci interroghiamo se questo è il nostro atteggiamento quotidiano, se siamo
capaci di elevarci dalla lamentazione verso la glorificazione del mistero di Dio, di
abbandonarci al mistero che, nell’oscurità o nella luce, sempre ci tiene tra le braccia
irrevocabilmente.
Donaci di comprendere e di affidarci come te al mistero dell’alleanza”.
34

MODERAZIONE E CONOSCENZA

“Signore Dio nostro tu sei mistero inaccessibile, tu abiti una luce eterna che nessuno
poté contemplare se non il tuo Figlio che ce l’ha rivelata dall’alto della croce. Donaci di
penetrare nel mistero di Gesù così da poter conoscere qualcosa di te, nella grazia dello
Spirito santo. Donaci di penetrare in questo mistero con pazienza, con umiltà, convinti della
nostra ignoranza, del molto che ancora non conosciamo della tua Trinità d’amore, del tuo
progetto salvifico. Fa’ che ci umiliamo nella nostra ignoranza, per poter meritare almeno
una briciola della conoscenza di quel mistero che ci sazierà in eterno. Te lo chiediamo per
intercessione di Maria che ha creduto profondamente pur senza conoscere direttamente ed è
pervenuta prima di noi, e già anche a nome nostro, alla conoscenza immediata della tua
gloria”.

Dopo aver ascoltato Giobbe, vogliamo ora ascoltare il suo partner, cioè Dio. Sarà un
modo per camminare verso la vera conoscenza del suo mistero. E, per graduare il cammino,
ho pensato di riflettere su tre diversi capitoli del Libro biblico.
Anzitutto sul capitolo 9, in cui Giobbe parla di Dio; poi il capitolo 28 dove qualcuno,
ignoto, parla di Dio; infine, i capitoli 38 e 39 dove Dio stesso comincia a parlare.

Giobbe non accetta di non conoscersi


Il capitolo 9 è una risposta di Giobbe alla parola, che voleva essere consolatrice, del
terzo amico, Bildad il Suchita. Questi aveva sottolineato che non si può mai dubitare della
giustizia di Dio: e poiché Egli è giusto, i cattivi sono puniti, i buoni premiati. Giobbe dunque
può stare tranquillo, i suoi nemici saranno coperti di vergogna (cfr. 8,20-22). Prontamente
Giobbe replica accettando il principio fondamentale, anzi rincarando la dose:
«In verità io so che è così:
e come può un uomo aver ragione innanzi a Dio?» (9,1-2).

Nei versetti seguenti esprime in maniera un poco ironica questa assoluta certezza:
nessuno può resistere davanti a Dio che ha ragione su tutto, sempre, in ogni caso. Poi
aggiunge:
«Tanto meno io potrei rispondergli,
trovare parole da dirgli!» (v. 14).

Qui la sua certezza si muta in dubbio sofferto: Dio ha talmente ragione che, se anche
l’avessi pure io, non l’otterrei. A partire da questo versetto Giobbe comincia quindi a
dubitare di se stesso: Ma io chi sono? ho ragione o no?
Le sue parole sono caratteristiche dell’atteggiamento di un uomo nell’acme della
sofferenza, che si potrebbe esprimere così: Giobbe non accetta di non conoscersi, è
tormentato dall’assillo di non riuscire a sapere con sicurezza se è giusto o meno; è convinto
di esserlo, tuttavia vorrebbe che gli fosse dichiarato; l’incertezza lo rode.

«Se avessi anche ragione, non risponderei,


al mio giudice dovrei domandare pietà.
Se io lo invocassi e mi rispondesse,
non crederei che voglia ascoltare la mia voce.
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Egli con una tempesta mi schiaccia,


moltiplica le mie piaghe senza ragione,
non mi lascia riprendere il fiato,
anzi mi sazia di amarezze.
Se si tratta di forza,
è lui che dà il vigore;
se di giustizia, chi potrà citarlo?
Se avessi ragione, il mio parlare mi condannerebbe;
se fossi innocente, egli proverebbe che io sono reo» (vv. 15-20).

Al versetto 21 pone l’interrogativo drammatico:


«Sono innocente? Non lo so neppure io,
detesto la mia vita!
Per questo io vi dico: “È la stessa cosa”:
egli fa perire l’innocente e il reo!
Se un flagello uccide all’improvviso,
della sciagura degli innocenti egli ride.
La terra è lasciata in balìa del malfattore;
egli vela il volto dei suoi giudici;
se non lui, chi dunque sarà?» (vv. 21-24).

Giobbe è giunto al colmo del dolore: non capisce più niente, non sa più chi è; si sente
giusto ma non sa quale sia la differenza tra giusto e ingiusto e non riesce più a darsi ragione
di sé. In altre parole, sta perdendo il senso della sua identità: Se almeno sapessi perché sono
così!
Mi sono soffermato su questo tema perché, anche se viene espresso come caso limite,
paradossale, esprime una situazione abbastanza comune: il tormento dell’identità fa soffrire
molte persone, pur se a livelli non sempre drammatici. In particolare, fa soffrire tutti coloro
che hanno compiti non rigorosamente programmati; perché se uno è impiegato di banca
magari il lavoro gli pesa ma sa che il suo dovere è quello, e che farà carriera in rapporto a
come lo svolge. Invece i genitori, ad esempio, non avendo compiti geometricamente definiti,
si tormentano nella domanda: Che cosa vuol dire oggi essere genitore? fino a che punto mi
impegna, mi obbliga, mi coinvolge? E così pure gli educatori e i pastori, soprattutto quando
le cose non vanno del tutto bene, quando non ricevono le approvazioni che si attenderebbero,
dicono a se stessi: Se almeno sapessi se vado bene o meno, se almeno sapessi ciò che devo
fare, se almeno sapessi che io sto facendo tutto quello che devo fare... L’incertezza sul ruolo
tormenta: Quali sono le mie responsabilità precise? che cosa si aspettano da me e che cosa
posso fare per essere lodato?
Giobbe rappresenta dunque anche questa dolorosa incertezza di sé e la voglia di
saperci giudicati a fondo, di essere giustificati in pieno e chiaramente su ciò che facciamo e
che ci tocca.

La sapienza è al di là di ogni comprensione


Su questa luce di un Giobbe che non accetta di non capirsi a fondo, leggiamo alcuni
passi del misterioso capitolo 28, che non si sa come sia entrato nel Libro. Non è indicato
nessun interlocutore particolare come invece nei dialoghi precedenti; d’un tratto c’è un
discorso, chiamato anche intermezzo. La Bibbia di Gerusalemme annota, in proposito: «La
collocazione e il significato originario di questo ‘intermezzo’ nel dialogo degli amici di
Giobbe rimangono oscuri» (cfr. p. 1080). Non sappiamo neppure quale giustificazione dare
al brano; tuttavia, in questa sua oscurità, ci avvicina al cuore del nostro discorso.
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Si tratta in pratica di un elogio, di una glorificazione della sapienza divina, e però


l’insistenza è sul fatto che la sapienza l’uomo non la conosce.

Inizia così:
«Certo, per l’argento vi sono miniere
e per l’oro luoghi dove esso si raffina.
Il ferro si cava dal suolo
e la pietra fusa libera il rame.
L’uomo pone un termine alle tenebre
e fruga fino all’estremo limite
le rocce nel buio più fondo... Una terra da cui si trae pane
di sotto è sconvolta come dal fuoco.
Le sue pietre contengono zaffiri
e oro la sua polvere.
L’uccello rapace ne ignora il sentiero
non lo scorge neppure l’occhio dell’aquila,
non battuto da bestie feroci,
né mai attraversato dal leopardo...» (28,1 ss.).

Il testo continua con immagini poetiche molto belle per affermare che a tutto si può
giungere tranne che alla sapienza:
«Ma la sapienza da dove si trae?
E il luogo dell’intelligenza dov’è?» (v. 12).

Poi cominciano i “no”:


«L’uomo non ne conosce la via,
essa non si trova sulla terra dei viventi.
L’abisso dice: “Non è in me!”.
Non si scambia con l’oro più scelto,
né per comprarla si pesa l’argento.
Non si acquista con l’oro di Ofir,
con il prezioso berillo o con lo zaffiro.
Non la pareggia l’oro e il cristallo,
né si permuta con vasi di oro puro...» (cfr. vv. 13-19).

Interessante la forza con cui viene detto che la sapienza non la si trova, non la si
compra, non la si vende. Quindi si riprende la domanda: «Ma da dove viene la sapienza? / E
il luogo dell’intelligenza dov’è?» (v. 20).

La risposta è sempre la stessa:


«È nascosta agli occhi di ogni vivente
ed è ignota agli uccelli del cielo.
L’abisso e la morte dicono:
“Con gli orecchi ne udimmo la fama”» (vv. 21-22).

Finalmente, la chiave di tutto il capitolo:


«Dio solo ne conosce la via,
lui solo sa dove si trovi...» (cfr. vv. 23 ss.),
con la conclusione:
«Ecco, temere Dio questo è sapienza
e schivare il male,
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questo è intelligenza» (v. 28).

Mi sembra molto bello l’avverbio ripetuto a riguardo di Dio, perché questa parola —
solo, soltanto, solamente — rappresenta uno dei momenti decisivi nei quali l’uomo biblico
coglie il Dio vivo. Noi troviamo questo avverbio, talora, nei Salmi, quando si vuol
proclamare la trascendenza e insieme la sua comunicazione: «Egli solo ha compiuto
meraviglie», egli solo ha creato i cieli; «In pace mi corico e subito mi addormento;/ tu solo,
Signore, al sicuro mi fai riposare» (Sal 135,4; 4,9).
Nella Bibbia alla profonda intuizione dell’unicità di Dio si accompagna sempre
l’affermazione che in lui solo è il nostro riposo, la nostra salvezza, la nostra pace.
Intravediamo allora, nel capitolo 28, un importante passo avanti: l’uomo non si
conosce, non deve pretendere di conoscersi, ma a Dio, e a lui solo, affida la sua giustizia, la
conoscenza di sé, la certezza della sua verità, del suo essere.
In maniera discreta, si risponde all’ansietà di Giobbe che vuole possedersi, vuole
conoscersi, vuole la sicurezza, in cielo e in terra, di essere giusto, di essere un uomo a posto.

La risposta di Dio
Ora possiamo passare ai discorsi di Dio che, dopo essere stato invocato all’inizio del
Libro, chiamato in giudizio, trattato male e insultato, ha sempre ascoltato tranquillamente,
senza scomporsi; si può pensare anzi che abbia ascoltato con amore, con benevolenza, con
bontà, le farneticazioni di Giobbe e degli amici.
Considereremo brevemente i capitoli 38 e 39, restando a voi la cura di leggerli e
meditarli per intero.
«Il Signore rispose a Giobbe di mezzo al turbine» (38,1). La teofania ricorda l’episodio
di Elia quando il profeta riuscì a cogliere qualcosa di un mistero inaccessibile.
E rispose facendo piovere su Giobbe una pioggia torrenziale di interrogazioni. Giobbe
ha continuato a far domande a Dio e Dio replica interrogando lui.
«Chi è costui che oscura il consiglio
con parole insipienti?
Cingiti i fianchi come un prode,
io ti interrogherò e tu mi istruirai» — notate il tono ironico: ecco, mi metto alla tua
scuola! —. «Dov’eri tu quand’io ponevo le fondamenta della terra?
Dillo, se hai tanta intelligenza!
Chi ha fissato le sue dimensioni, se lo sai,
o chi ha teso su di essa la misura?
Dove sono fissate le sue basi
o chi ha posto la sua pietra angolare,
mentre gioivano in coro le stelle del mattino
e plaudivano tutti i figli di Dio?» (vv. 4-7).

L’interrogazione “dov’eri?”, un genere di domanda che provoca in chi l’ascolta una


grande emozione, si trasforma in un’altra: Come è avvenuto questo, come si è verificato
quest’altro?
E più avanti:
«Sei mai giunto alle sorgenti del mare
e nel fondo dell’abisso hai tu passeggiato?
Ti sono state indicate le porte della morte
e hai visto le porte dell’ombra funerea?
Hai tu considerato le distese della terra?
Dillo, se sai tutto questo!» (vv. 16-18).
38

La serie di interrogazioni continua per tutto il capitolo e nei primi due versetti del
capitolo 39. Quindi Dio passa a descrivere la realtà che l’uomo vede attorno a sé nel mondo
animale ma di cui non sa rendersi ragione fino in fondo.

Avvio alla meditatio


Sono molte le piste di riflessione per la nostra meditazione: un filone, ad esempio,
potrebbe considerare la possibilità o meno della natura di rivelare il mistero di Dio, dunque
la possibilità di parlare di Dio a partire dalla natura. Di questo la teologia oggi parla sempre
di più, soprattutto in rapporto ai grandi temi dell’ecologia: come dobbiamo concepire la
presenza di Dio nella creazione?
Tuttavia non seguirò questa linea ma mi atterrò a qualche riflessione sul tema della non
accettazione, da parte di Giobbe, dei limiti della sua conoscenza: mi pare infatti un aspetto
assai importante dell’insegnamento del Libro.

1. Prima riflessione: devo accettare di non saper fare il giro dell’universo, di non saper
fare il giro dei piani di Dio e della Chiesa, anzi neppure il giro completo delle mie
responsabilità.
Può essere duro, perché la nostra epoca è giustamente fiera dei suoi progressi
scientifici e anche le scienze umane aspirano, almeno inconsciamente, a possedere la totalità
del mistero.
Mi sembra però saggezza autentica, il riconoscere che non sappiamo e non possiamo
sapere tutto, che ogni scienza, di natura sua, è settoriale e conosce un solo aspetto della
realtà.
Questo limite della nostra conoscenza ci brucia e ci umilia dal momento che siamo
continuamente tentati di possedere l’insieme della realtà per poter prevedere anche il futuro.
In fondo, tale tentazione si collega all’originaria: Voglio mangiare l’albero della scienza del
bene e del male, voglio avere la chiave della totalità dell’essere, della totalità del misterioso
piano di Dio, del mistero della Chiesa, del futuro della nostra società. Invece, la sapienza
autentica nasce dall’accettazione di questo limite umano.

2. Seconda riflessione: devo accettare, di conseguenza, di non conoscermi del tutto.


Come dice san Paolo, anche se non sono consapevole di aver fatto del male ad alcuno, non
per questo sono giustificato; chi mi giustifica è il Signore (cfr. 1 Cor 4,3-4).
Il depositario della scienza totale, anche sulla mia vita, è Dio solo. Questo è il passo
ulteriore della sapienza, così difficile da comprendere per Giobbe e per l’uomo in generale,
ma necessario se vogliamo giungere a una certa pace interiore.

3. Terza riflessione: devo affidarmi a Dio per quanto riguarda la conoscenza globale di
me, dell’essere, dell’orizzonte trascendente del tutto. A partire da questo affidamento saprò
trarre segmenti utili di conoscenza, investigativa e deduttiva, su di me e sugli altri.
Sempre però con la riserva che la conoscenza della totalità del mistero non ci è data.

Applicazioni pratiche
Ancora nell’ambito della meditatio, suggerisco tre applicazioni pratiche per la nostra
vita.

1. Il futuro della Chiesa è nelle mani di Dio, come pure i piani pastorali dipendono, nei
loro risultati, da mille imprevisti che ci sfuggono e la cui totalità è conosciuta solo dal
Signore.
39

A noi è chiesto di applicarci con umiltà a questi segmenti di conoscenza che ci sono
possibili, di esprimere i corsi di azione e di esecuzione che ci sembrano ragionevoli,
accettando anche che gli eventi ci superino, ci smentiscano, ci obblighino a rivedere tutto.
Il tentativo più grande di forzare la conoscenza della totalità dei fatti e di prevederne il
corso storico è quello delle ideologie totalitarie che stanno crollando perché
drammaticamente smentite dalle circostanze. Nel nostro cammino di Chiesa, pur lasciandosi
giustamente influenzare dalle richieste di maggiore razionalità, è necessario renderci conto
che tale razionalità è sempre relativa e parziale, che richiede da noi onestà, lealtà, capacità di
rispondere alle situazioni così come le conosciamo, sempre ricordando la riserva del Salmo:
«Tu solo, Signore, al sicuro mi fai riposare» (Sal 4,9).

2. Molte volte invochiamo nella pastorale l’ausilio delle scienze sociali e in genere
della rilevazione scientifica del tempo, dell’ambiente, della situazione, dei modi secondo i
quali si muove l’umanità. Un filosofo contemporaneo ha recentemente scritto che le scienze
sociali sono la riflessione «sulle conseguenze inintenzionali dei progetti intenzionali».
Perché il gioco delle realtà non intenzionali, delle conseguenze non previste razionalmente è
vastissimo. E quel filosofo opponeva una mentalità progettuale — che può diventare pretesa
di programmare la totalità — a una mentalità pellegrinante, più aperta, che cerca di
accogliere le cose che ci sono, di valutare ciò che si deve fare e poi di vivere con quella
fiducia che non presume di poter conoscere tutto, neppure di noi, della nostra giustizia, del
nostro fare davvero bene.
Quanto più il nostro compito è di responsabilità, tanto meno dobbiamo sperare di
trovare attorno a noi dei parametri geometrici che ci assicurino la bontà delle nostre azioni.
Solo Dio nell’eternità ce lo potrà dire. L’importante è di andare avanti con la libertà di
colui che si sa giudicato solo da Dio e che si sforza di correggere gli sbagli che conosce pur
non riuscendo del tutto a rendersi conto in che misura sono davvero sbagli.
Questa è la mentalità che Giobbe fatica ad assumere. Egli vuole arrivare alla chiarezza
su di sé, sugli altri, su Dio, una chiarezza che non lasci adito ad ombre. E Dio lo redarguisce:
«Dov’eri tu quando io ponevo le fondamenta della terra?», cosa ne sai tu di questo e di
quello?
Nella sua personale giustizia, nella sua rettitudine, Giobbe — l’insegnamento è per noi
— è ricondotto alla giusta misura, che poi emergerà nelle dichiarazioni finali.

3. Oso fare un’applicazione dell’atteggiamento che potremmo chiamare di riverenza


amorosa verso il mistero, atteggiamento fondamentale biblico, per cui ci si fida dell’alleato:
Hai messo la tua mano sulla mia spalla e anche se andassi per una valle oscura non temerò
alcun male perché tu sei con me.
Questo atteggiamento ci può aiutare in angosciose discussioni che oggi si pongono
nell’ambito delle scienze e dei giudizi morali. Perché viviamo in una situazione certamente
molto complessa, e nella ricerca delle grandi decisioni morali (riguardanti la pace, lo
sviluppo, l’economia, eccetera) non è sempre facile cogliere il giusto e l’ingiusto. Non parlo
evidentemente di casi singoli, immediati, ma di problemi a raggio cosmico. Non è possibile
oggi esporre, ad esempio, una teoria dello sviluppo che veramente soddisfi tutti i dati del
problema mondiale e non lasci indietro nessuna sacca di miseria o di sofferenza. E questo è
motivo di ansietà, di sofferenza, di ricerca, ma non di disperazione perché il mistero di Dio
guida il nostro universo confuso e pieno di assurdità, permettendoci di trovare momento per
momento il nostro piccolo compito con la speranza che, se commettiamo errori, egli ci
perdonerà conducendoci a una più grande unione tra noi e facendo crescere l’amore.
Solo così è possibile affrontare le grandi decisioni morali su situazioni di cui non
riusciamo a cogliere totalmente la portata.
40

In proposito Giobbe libera dalla preoccupazione di trovare risposte totalmente razionali


a livello teologico e mette in crisi il tentativo di trovare risposte che incapsulino i problemi
limite dell’umanità in una razionalità percepibile a una sintesi mondana. Questa per me è una
grande liberazione, perché ero stato abituato dalla corrente teodicea comunemente insegnata,
a sforzarmi di trovare soluzioni convincenti per me e per gli altri. Dove invece sono libero e
ho il dovere di cercare soluzioni razionali, è nella ricerca delle cause storiche. Al riguardo,
Giuseppe Dossetti, nella prefazione al libro Le querce di Montesole, scrive delle splendide
pagine. Egli esamina con lucidità implacabile le cause storiche di tanti terribili massacri che
sono stati perpetrati nell’umanità, insieme con le radici culturali ideologiche, che allora
possono essere percepite con libertà. Se non cerchiamo solo la soluzione razionale astratta,
riusciamo a impegnarci nella realtà storica vedendo che cosa ci è dato di fare qui e ora.
Mentre cerchiamo di rispondere alle interrogazioni che pone il nostro secolo, Giobbe ci
aiuta a distinguere un doppio corso di pensieri: quelli che cercando le soluzioni perfette,
generali, alla fine ci immergono in una serie di domande a circolo chiuso, che lasciano
freddi, vuoti, aridi, e quelli che ci riportano alla capacità di agire con più amore.
A questo passaggio corrisponde una visione teologica che si immerga maggiormente
nel mistero trinitario, abbandonando i lidi della considerazione del Dio uno e della filosofia
su Dio, mutuata dalla tradizione greca. È la dedizione al Dio dell’alleanza ad impegnarci qui
e ora per l’amore alla gente, ed è l’unica soluzione ragionevole di chi si trova a vivere in
questo nostro tempo.
Vorrei aggiungere che io leggo così, per me stesso, l’enigma dell’uomo oggi; mi
interessa meno, a questo livello, il fatto di essere prete o vescovo, del fatto di essere uomo,
cioè di dover rendere conto dei miei anni di umanità in una situazione tanto drammatica e
assurda. Giustamente ci lasciamo prendere dall’uno o dall’altro evento che mettiamo a
simbolo (Auschwitz è sicuramente un simbolo) di tanti mali; se però pensiamo a ciò che è
successo in Cambogia, in Armenia, a quanto sta accadendo in Libano, in India, in America
Latina, ci accorgiamo che non si tratta tanto di risolvere una situazione, quanto di esserci
dentro con una moralità più seria, con la capacità di esprimere le nostre energie
coraggiosamente e non lamentandosi addirittura filosoficamente o teologicamente. L’ha
capito bene la teologia della liberazione.
Giobbe giunge a capirlo attraverso la prova e, per grazia di Dio, ciascuno di noi
giungerà a capire l’importanza di crescere anzitutto nell’abbandono al mistero, con umiltà e
con spirito di ascolto, nell’amore reciproco, paziente e perseverante; allora troveremo alcune
soluzioni forse non del tutto giuste o indovinate e però meno ingiuste e migliori delle attuali.

Vi leggo, a questo punto, un pensiero di Giovanni XXIII, tratto dal Giornale dell’a-
nima, che va nella linea delle nostre riflessioni: «Più mi faccio maturo d’anni e di esperienze
e più riconosco che la via più sicura per la mia santificazione personale e per il miglior
successo del mio servizio della santa Sede resta lo sforzo vigilante di ridurre tutto —
principi, indirizzi, posizioni, affari — al massimo di semplicità e di calma, con attenzione a
potare sempre la mia vigna di ciò che è solo fogliame inutile e sviluppo di viticci e ad andare
diritto a ciò che è verità, giustizia, carità, soprattutto carità. Ogni altro sistema di fare non è
che posa e ricerca di affermazione personale, che presto si tradisce e diventa ingombrante e
ridicolo. Oh la semplicità del Vangelo, del libro della Imitazione di Cristo, dei Fioretti di san
Francesco, delle pagine più squisite di san Gregorio nei Morali» — che è poi un commento
al Libro di Giobbe —. «Tutti i sapienti del secolo, tutti i furbi della terra, anche quelli della
diplomazia vaticana, che meschina figura fanno, posti nella luce di semplicità e di grazia che
emana da questo grande e fondamentale insegnamento di Gesù e dei santi? Questo è l’accor-
gimento più sicuro, che confonde la sapienza del mondo e si accorda egualmente bene, anzi
meglio, con garbo e con autentica signorilità» (Giornale dell’anima, 1948, pp. 275-276).
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Chiediamo umilmente nella preghiera che venga donato anche a noi questo
atteggiamento, non remissivo ma che permette di passare in mezzo alle vicende della vita,
alle situazioni e alle cose con signorilità e con gioia.
42

LA LOTTA
PER L’OBBEDIENZA DELLA MENTE

Propongo una istruzione — non quindi una meditazione su un brano biblico — che
vorrebbe riferirsi all’insieme del Libro di Giobbe e al significato che può avere per la nostra
vita quotidiana.
Quando ho scelto, come tema centrale degli Esercizi, la parola di Gesù: «Avete
perseverato con me nelle mie prove», c’era in me il desiderio di mettere in luce un aspetto
particolare, talora un poco trascurato, dell’esistenza cristiana: l’aspetto conflittuale, e
specificamente di lotta per il controllo e l’obbedienza della mente.
Questo aspetto viene splendidamente esemplificato in Giobbe; tutto il Libro, infatti, è
una grande lotta intrapresa dall’uomo per l’obbedienza della mente a Dio.
Cercheremo quindi di capire anzitutto l’espressione biblica: obbedienza della fede. Poi
rifletteremo sul disordine della mente; sui diversi modi di disobbedienza della mente; sulla
purificazione della mente secondo la dottrina dei Padri greci. Da ultimo trarremo alcune
conseguenze per noi.

“O Maria, tu che hai avuto una mente, un intelletto purificati e obbedienti fin
dall’inizio; tu che dopo una semplice domanda: Come avverrà questo?, ti sei acquietata e
non hai più dato adito ad ansietà, a ripensamenti, a timori, donaci di seguire la tua via in
una pacificazione della mente e del cuore, che ci permetta di attendere con tutta l’anima e
con tutto lo spirito al servizio e all’amore del prossimo, secondo la nostra vocazione”.

L’obbedienza della fede


Scrive san Paolo: «Per mezzo di lui» — Gesù Cristo nostro Signore risorto dai morti
— «abbiamo ricevuto la grazia dell’apostolato per ottenere l’obbedienza alla fede da parte di
tutte le genti, a gloria del suo nome» (Rm 1,5).
L’obbedienza alla fede è dunque lo scopo dell’apostolato di Paolo, è lo scopo della
morte di Gesù e dell’invio dello Spirito santo sugli apostoli per abilitarli, appunto, a
ottenerla. E lo scopo della Chiesa, della missione cristiana: ottenere l’obbedienza della fede
di ogni creatura ragionevole al mistero di Dio, al kerygma, all’annuncio di salvezza. Il tema
è centrale in tutto il Nuovo Testamento. Non a caso la Lettera ai Romani, nella dossologia
finale, torna a ripetere: «A colui che ha il potere di confermarvi, secondo il vangelo che io
annunzio e il messaggio di Gesù Cristo, secondo la rivelazione del mistero taciuto per secoli
eterni, ma rivelato ora e annunziato mediante le scritture profetiche, per ordine dell’eterno
Dio, a tutte le genti perché obbediscano alla fede, a Dio che solo è sapiente, per mezzo di
Gesù Cristo, la gloria nei secoli dei secoli. Amen» (Rm 16,2 5-27).
Il concetto è espresso anche nella Lettera agli Ebrei dove si dice che il Figlio di Dio
«reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono» (5,9).
Gesù è per noi salvatore mediante quell’atto fondamentale che è chiamato obbedienza
della fede.
Ma pure gli antichi padri si sono salvati attraverso l’obbedienza e l’ascolto: «Per fede
Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e
partì senza sapere dove andava» (Eb 11,8). Possiamo immaginare Abramo che cammina
verso la prima tappa della sua peregrinazione, ignorandone la mèta. Quale tumulto di quesiti
si sarà scatenato nella sua mente? Certamente non è stato facile per lui rispondere ad
43

interrogativi di questo genere: Chi me lo fa fare? è giusto davvero? perché non sono rimasto
dov’ero?
L’obbedienza alla fede non si esaurisce in un atto unico, indivisibile; piuttosto, è
l’inizio di una lotta contro tutte le tentazioni mondane di disobbedienza, di autosufficienza,
di presunzione, pensieri proprii dell’uomo carnale, psichico che, secondo le parole di Paolo,
ha sempre mille ragioni da opporre alla fede.

Il disordine della mente


L’obbedienza alla fede suppone la vittoria su tutto ciò che costituisce il disordine della
mente: fantasmi contrari o disturbanti, che si oppongono al cammino di fede, lo avversano,
lo deridono, lo mettono in questione, lo vorrebbero interpretare diversamente, lo interrogano.
Essi sono — come dicono gli spiriti immondi nell’episodio degli indemoniati di Gerasa (Mc
5, 1 s.) — una legione, una sarabanda.
Se ne accorge bene chi vuole iniziare davvero il cammino della fede. Ogni uomo è
soggetto a questa moltitudine di idee moleste e trasversali che, quasi fossero parassiti,
cavallette o moscerini, ronzano intorno impedendo l’applicazione a quello che è il dovere
fondamentale. Coloro che non tentano una vita spirituale non se ne accorgono e vivono di
impressioni, di letture, di giornali, di ascolto di suoni, di rumori, di televisione, passando
dall’una all’altra di queste cose in un continuo vortice di immaginazioni, di fantasie, di
desideri, spegnendo una visione con la visione successiva, proprio come chi guardando un
programma televisivo dopo l’altro resta sempre sotto l’influsso di una eccitazione.
Il disordine della mente è, possiamo dire, una situazione costante dell’esistenza, anche
se non è avvertito. Lo si avverte quando si comincia a fare silenzio, a meditare regolarmente:
allora si è assaliti da una folla di pensieri inutili, vani, disordinati, e il combatterli può
diventare un vero martirio nascosto, una vera penitenza capace di supplire a tante altre
penitenze esteriori. Ma è anche condizione di sanità psichica perché chi riesce a disciplinare
il mondo delle fantasie, degli affetti, dei desideri, dei timori, delle previsioni, delle fughe in
avanti, delle nostalgie, ottiene una certa buona salute interiore. Altrimenti la persona è
sempre sballottata da sentimenti diversi nei quali non sa orientarsi, e cambia rapidamente di
umore reagendo in maniere di cui non sa neppure rendersi conto.
La lotta contro il disordine della mente è una delle occupazioni più importanti per colui
che vuole obbedire a Dio e abbandonarsi alla sua azione.

I diversi modi di disobbedienza della mente


Tra i tanti modi di disobbedienza della mente vorrei identificarne almeno alcuni. Molti
sono semplicemente disturbanti e li chiamiamo distrazioni: vanno e vengono e però non
militano direttamente contro l’obbedienza, pur se sono sempre capaci di diminuire la forza
dello spirito.
Tuttavia non di rado ci sono pensieri che assumono l’aspetto di vere disobbedienze alla
fede, magari implicite o nascoste. Giobbe ne è un continuo esempio. Se rileggiamo il Libro
da questo punto di vista, ci accorgiamo che Giobbe e i suoi amici esprimono, parlando, una
sarabanda di idee parecchie delle quali tendono alla disobbedienza. Di esse abbiamo
esperienza anche noi: pensieri, ad esempio, che frullano nella testa per farci ribellare alla
situazione che stiamo vivendo; non accettazione di noi, del nostro fisico, della nostra
famiglia, della nostra storia; non accettazione della società. Noi siamo, infatti, tenuti a
combattere il male che è in essa, ma se sogniamo e fantastichiamo condizioni diverse, irreali,
questo ci impedisce di amare, di servire, di contribuire a migliorare il mondo perché
continuamente ci presentano una situazione diversa da quella reale.
E ancora, non accettazione di essere peccatore, di avere sbagliato. Quante volte siamo
vessati dall’autogiustificazione; soprattutto se criticati, a torto o a ragione, emerge nella
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nostra mente una lunga teoria di autogiustificazioni e ci rivediamo mille volte nella
situazione per dire a noi stessi che gli altri non ci hanno capito e che noi abbiamo ragione.
Giobbe ci ha insegnato anche il pericolo della non accettazione di non sapere chi siamo
e se siamo giusti o meno, il pericolo del bisogno assoluto di definirci, di capirci nelle nostre
radici. E c’è un modo di fare su di sé l’indagine psicologica o la psicanalisi, che sottende
proprio questa bramosia: voglio possedermi fino in fondo e perciò perseguo una ricerca
infinita di sogni, di fantasie, di tic nervosi, di gesti inconsci, per riuscire a scoprire quel
segreto di me così difficile da possedere.
Da questi pensieri si passa certamente a quelli di più diretta disobbedienza: la non
accettazione di Dio. È, in fondo, la grande tentazione che pervade tutto il Libro di Giobbe.
Egli lo accetta, ed è il suo grande atto di fede, tuttavia la sua mente è sempre tentata di
rifiutarlo, fino alla tentazione di disperazione e anche, nel senso negativo, di rassegnazione:
Non credo più in niente, non accetto più niente, non ho più voglia di niente.
Ecco il giro dei pensieri: si presentano in genere come innocui, occupano le prime ore
del mattino, allo svegliarsi, ci assalgono nei tempi in cui non siamo molto impegnati e a un
tratto invadono la nostra mente in modo che, riprendendo gli impegni, ci sentiamo tristi,
fiacchi, deboli senza sapere il motivo. In realtà, non li abbiamo disciplinati attentamente, non
li abbiamo fermati; così forme di esaltazione o di risentimento, di infatuazione o di
depressione o di stizza contro noi stessi o contro altri sono entrate inconsciamente in noi che
poi le abbiamo coltivate.
Potrei menzionare anche le fantasie di sensualità, i desideri, tutte quelle fantasticherie
che magari surrettiziamente si insinuano in noi lasciandoci a un certo punto vuoti, poco
invogliati a pregare, poco impegnati nella Messa, nella recita del breviario: non
comprendiamo il motivo, ma è semplicemente che ci siamo lasciati un po’ trastullare, senza
accorgerci, da una serie di pensieri indisciplinati che hanno finito con lo svigorirci.
La scoperta di questo mondo interiore difficile è parte del cammino spirituale e ci
conduce a ingaggiare una lotta continua e faticosissima.

La purificazione della mente secondo i Padri


Se partiamo da questi presupposti, abbiamo una chiave per leggere un gran numero di
testi della grande letteratura patristica orientale, soprattutto della letteratura monastica. I
volumi della Filocalia trattano ampiamente questo tema: la lotta per la disciplina della
mente, dei pensieri, dei sentimenti del cuore. Il monaco, infatti, entrando nella vita solitaria,
è chiamato ad affrontare primariamente il suo mondo interiore e la sua vita diventa una lotta
per ridurlo all’obbedienza.
Per questo, i libri della Filocalia sono carichi di sapienza spirituale e psicologica: essi
ci rendono partecipi di una tradizione millenaria di disciplina della mente. Significativi gli
stessi titoli delle singole opere: La custodia dell’intelletto, di Isaia Anacoreta; Sommano di
vita monastica che insegna come si debba esercitare l’ascesi e l’esichia, di Evagrio Monaco
(esichia indica la calma di chi possiede la mente, cioè la pace interiore che è considerata
come ideale della vita monastica e per cui si lotta un’intera esistenza); Sul discernimento
delle passioni e dei pensieri, dello stesso Evagrio; Gli otto pensieri viziosi, di Cassiano. Il
trattato di Cassiano mette in luce, smaschera e combatte tutti quei pensieri che debilitano
l’uomo, perché coi pensieri si scoprono anche le passioni andando così alla radice del cuore.
Tra i tanti brani interessanti, leggo una frase di Evagrio sul discernimento. Con la
maniera pittoresca tipica dei Padri del deserto, scrive: «Vi è un demonio, detto vagabondo,
che si presenta ai fratelli soprattutto sul far del giorno; porta in giro l’intelletto di città in
città, di villaggio in villaggio, di casa in casa, ed esso fa, s’intende, solo dei semplici
colloqui» — quindi si presenta in maniera innocua facendo ripensare a una persona o a
un’altra — «poi s’incontra più a lungo con qualche conoscente e corrompe con quelli che
incontra il suo stato interiore, quindi, spintosi più lontano, a poco a poco si dimentica della
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conoscenza di Dio, della virtù e della professione fatta. Bisogna dunque che il solitario
osservi da dove venga questo demone e dove voglia andare a finire. Perché non è per niente
né a caso che fa tutto quel giro. Fa questo per corrompere lo stato interiore del solitario: in
modo che l’intelletto, infiammato da queste cose, ebbro per molti incontri, subito incappi nel
demone della fornicazione o dell’ira o della tristezza, tutte cose che massimamente
distruggono lo splendore del suo stato interiore» (cfr. La Filocalia, vol. 1, Gribaudi, pp. 112-
113).
Mi sembra che sia chiaramente indicato il processo di corruzione della mente.

Suggerimenti
Esprimo infine qualche osservazione conclusiva.

1. È giusto, fino a un certo punto, volere uscire razionalmente dal turbinio dei pensieri
che ci assalgono. Istintivamente siamo portati a dare a ciascuno di essi una risposta logica
perché si presentano spesso come interrogazioni.

2. C’è però un limite. Ci accorgiamo infatti, a mano a mano che cresce la nostra
sensibilità, che le domande non si accontentano in realtà di una risposta ma continuano a
deprimere lo spirito. Allora deve scattare l’avvertenza della lotta, deve emergere
l’atteggiamento disciplinato di colui che tende alla esichia, al controllo ordinato della propria
mente, attraverso tre modi concreti:
a) troncare coraggiosamente il turbinio di pensieri ripetendo la decisione anche mille
volte. Non appena comprendiamo che non sono costruttivi, pur se sembrano razionali, che
debilitano la mente, occorre immediatamente stroncarli. Se tante persone l’avessero fatto per
tempo, si sarebbero risparmiate molti esaurimenti nervosi, molte amarezze, molti
risentimenti ormai troppo coltivati, molte fatiche.
È dunque estremamente importante la decisione interiore.
b) II secondo modo, suggerito pure dalla Imitazione di Cristo, è semplice e spesso lo
dimentichiamo mentre invece è davvero vittorioso: age quod agis, mettiti tutto in ciò che fai
facendoti aiutare anche dalla sensibilità. Se stai leggendo un libro, sentilo nella mano,
sentine il peso, rivolgi gli occhi alle parole una dopo l’altra, cerca di evidenziarle attraverso
gli stessi caratteri. Così, se canti canta con tutto il cuore, se scrivi scrivi con tutte le tue forze,
se cammini cammina con tutta la tua energia. Non lasciarti prendere da pensieri parassiti che
vorrebbero, con risentimenti, animosità, paure, angosce, dominare il tuo agire. Sembra un
mezzo persino troppo semplice eppure è utilissimo, e ci sono addirittura scuole di psicologia
fondate su di esso: un’autocoscienza ordinata parte dalla percezione sensibile di alcune realtà
immediate, per poi ordinare il filo della mente secondo una linea diritta che non devii
continuamente a destra e a sinistra.
c) Il terzo suggerimento, dato spesso dai Padri greci soprattutto nel procedere della
tradizione monastica, è la preghiera di Gesù. Questa preghiera consiste nel trasferire la
mente nel cuore, quindi nel non lasciare che la mente dilaghi nella selva dei pensieri,
dedicandola totalmente e affettivamente alla persona di Gesù. La preghiera del cuore ha una
sua tecnica, forse non molto adatta per noi occidentali ma che nella Chiesa greca e nella
Chiesa russa è assurta a elevazioni mistiche davvero grandi.
Comunque anche noi abbiamo delle forme di preghiera del cuore: il Rosario, ad
esempio, quando è ben recitato, tende a pacificare la mente portandola su alcune parole e
immagini fondamentali; la via Crucis suscita sentimenti e affetti verso Gesù; le giaculatorie e
le parole dei salmi, ripetute molte volte, possono diventare così preghiera del cuore. A poco
a poco la molteplicità dei pensieri si semplifica e si riduce a unità. Sono tutte forme che ci
aiutano anche a ritrovare quella unità interiore, nella distrazione e nella rottura spesso create
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dalla molteplicità delle attività, che trova nella preghiera di Gesù un suo punto di riferimento
privilegiato.
Durante l’esperienza che ho vissuto in India, dove ho conosciuto da vicino l’ascesi
indù e i cammini compiuti da molti giovani alla ricerca di guru, di maestri spirituali, ho
compreso che anche là l’ideale è di giungere al possesso di sé, all’unità, non in modo logico,
razionale, possessivo, ma attraverso un dono; in India si parla di svuotamento di sé, di
abbandono al nulla. Per noi significa abbandono al mistero ineffabile nel quale siamo
immersi e che, essendo più intimo del mio intimo, è nel fondo del cuore, per cui posso
ritrovarlo in ogni momento — di giorno o di notte, nella malattia o nella buona salute, nella
tristezza o nella gioia — facendo unità profonda in me stesso.
La preghiera di Gesù è alla portata di tutti e tuttavia introduce nei misteri più profondi;
è compatibile e si adatta a tutte le situazioni, e può essere praticata pure da chi ha molti
impegni e talora ha poco tempo per una preghiera prolungata e intensa. Anche se dobbiamo
riconoscere per esperienza che non è possibile vivere la preghiera di Gesù o comunque una
preghiera affettiva, del cuore, durante le occupazioni della giornata se non si pongono
insieme momenti forti e seri di preghiera e di silenzio.

3. Un’ultima osservazione è sull’ira dell’intelletto, espressione che traggo da Isaia


Anacoreta: «Vi è tra le passioni un’ira dell’intelletto, che è secondo natura» (un’ira buona
dunque, perché nella tradizione greca “secondo natura” vuol dire “secondo Dio”, come Dio
ha fatto le cose). «Senza ira non vi è neppure purità nell’uomo, se cioè egli non si adira
contro tutto ciò che il nemico semina nell’uomo a suo danno». Se un uomo tollera
pazientemente che un turbinio di pensieri lo invada e non lo sente come nemico, questo
uomo non vive la verità e non raggiunge mai la purezza interiore. «Quando Giobbe trovò
questo nemico, lo insultò nei suoi amici dicendo: “Gente senza onore, spregevoli, privi di
ogni bene, non vi ho stimati degni di essere tra i miei cani da pastore”... Se tu stai
opponendoti alla turba dei nemici e li vedi indeboliti fuggire all’indietro, non si rallegri il tuo
cuore, perché la malizia degli spiriti sta dietro di loro. Preparano una lotta peggiore della
prima, lasciano altri appostati dietro alla città e comandano loro di non muoversi. Se tu ti
opponi e li affronti, fuggono davanti a te sopraffatti. Ma se il tuo cuore si innalza perché li
hai scacciati, gli uni sorgono da dietro, gli altri si ergono davanti e lasciano la misera anima
in mezzo a loro senza più scampo. La città è la preghiera. La resistenza è la contraddizione
in Cristo Gesù. Il sostegno è lo sdegno» (op. cit., p. 89).
Isaia Anacoreta afferma dunque che occorre adirarsi contro tutto ciò che tenta di
distruggerci e disturbarci, per arrivare a una forte disciplina interiore nella quale soltanto è
possibile vivere anche attraverso continue mutazioni della situazione intorno a noi e della
nostra stessa situazione di spirito. Tenendo però fisso l’occhio su Gesù Signore, principe
della pace, colui che regna nel nostro cuore, al di là e al di sopra di tutte le vicissitudini
umane.
È l’obbedienza della mente a cui Giobbe giunge soltanto dopo una lunga fatica e
penosissimo travaglio.
Ci conceda il Signore di arrivare presto a questo traguardo importante per la nostra vita
e per il nostro servizio pastorale.
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L’INDICIBILE GIUSTIZIA DI DIO


Omelia nel mercoledì della XX settimana «per annum» (Anno dispari)
Gdc 9,6-15; Mt 20,1-16

“Donaci, Signore, di vivere con intensità la comunione eucaristica che non ha confini,
che si allarga a tutti coloro che conosciamo e amiamo, che sono affidati alla nostra
responsabilità; ai malati e ai sofferenti; a tutte le Chiese, al Papa, a tutte le Diocesi, a tutti i
Vescovi, a tutte le missioni, a tutte le situazioni più dolorose dell’umanità. Donaci, o Padre,
di vivere davanti a te in rappresentanza di questa umanità compiendo così il nostro servizio
sacerdotale con tale ampiezza di orizzonti”.

— La prima lettura, dal Libro dei Giudici (9,6-15) ci offre il primo esempio nella
Bibbia di una parabola, quasi un racconto immaginario; nel nostro caso vi è contenuto un
insegnamento molto perspicuo, antimonarchico, antiautoritario.
È il primo esempio di quella diffidenza verso la monarchia che apparirà chiaramente
nel primo Libro di Samuele, quando si tratterà di dare a Israele un re. È l’espressione della
diffidenza rispetto all’affidamento di tutti i destini umani a una persona.
La parabola mette in scena diversi alberi utili all’uomo, dotati di vera capacità, di
ragionevolezza, di serietà, alberi che sono davvero benefattori dell’umanità; come l’ulivo e
la vite che non vogliono saperne di assumere responsabilità, affermando di avere un compito
più importante e ad essi proprio.
Chi accetta, invece, di assumere responsabilità è un albero privo di frutti, inutile: il
rovo.
Traducendo, gli uomini veramente intelligenti fanno il loro mestiere, agiscono nel loro
campo; ma chi non ha vera intelligenza accetta di avere responsabilità di altri e, accettandole,
diventa pretenzioso, vano, superbo, crudele, come questo rovo.
Siamo di fronte a una descrizione molto negativa del potere nella storia. Tuttavia è in
parte realistica; quante volte accade, nella politica ad esempio, che uomini veramente probi,
competenti, capaci, si rifiutano di occuparsene. Mentre accettano di fare politica persone che
farebbero meglio a rifiutare.
Ma al di là della saggezza umana contenuta nel racconto, noi cogliamo l’insegnamento
più profondo, biblico: il destino dell’uomo è nelle mani di Dio e non è bene affidarlo a una
persona. “Tu solo, Signore, al sicuro mi fai riposare”; il mio destino appartiene a te.
Diffidenza, dunque, che teme si giunga, attraverso la consegna del destino di alcuni
uomini nelle mani di altri, ad abusi di potere, a forme di sopraffazione indegne del popolo di
Dio. Tutta la storia dei Libri dei Re mostra la giustezza di tale timore. Timore che resta
incombente nella storia di salvezza, dove ci si affretta ad affermare che, anche quando alcuni
uomini hanno cura di altri, sono pastori del gregge, c’è però un solo pastore supremo, Gesù.
È lui ad avere la piena, totale responsabilità dei credenti; tutti gli altri sono secondari,
mandatari, sorveglianti, relativi a Cristo. Devono preoccuparsi del buon andamento delle
cose, sapendo che le speranze e la fiducia del popolo di Dio sono sempre poste nel Signore.
È molto importante imparare a leggere tutte le autorità umane, comprese le
ecclesiastiche, sapendo che l’onore a loro tributato è sempre in riferimento all’unico, vero
responsabile delle nostre anime, all’unico capo della Chiesa, il Signore Gesù da cui ogni
autorità dipende. Lui solo è degno di aprire il libro sigillato con sette sigilli, che contiene i
segreti del Regno di Dio. Perché è lui l’agnello immolato, che ha dato se stesso per noi fino
alla morte.
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Tutto ciò che facciamo ha riferimento a Cristo Signore, alla sua potenza unica,
legittima; gli altri poteri non sono che partecipazioni limitate a questo servizio che è la vita
stessa di Gesù.

— La parabola evangelica (Mt 20,1-16) raccontata da Gesù va nella linea della


riflessione precedente, potremmo dire nella linea di Giobbe.
Al posto di Giobbe ci sono i lavoratori della vigna, servitori che mormorano perché
vorrebbero che il padrone si conformasse a un ideale di giustizia univoco. Il problema è di
ciò che è giusto. Il padrone afferma che darà ai lavoratori quanto è giusto, ma a un certo
punto essi pretendono che la giustizia sia concepita secondo una proporzionalità rigida, che
possa essere prevista da un calcolatore elettronico togliendo spazio alla bontà, all’amore, alla
misericordia, all’infinità del disegno di Dio.
Giobbe deve convertirsi proprio da un senso della giustizia fortissimo, vivissimo, e
però univoco e geometrico, che pretende di comprendere se stesso e Dio alla luce di questo
quadro immutabile e indubitabile. Invece Dio è Trinità di amore, è sorpresa, è relazione di
tenerezza indicibile, gioco d’amore misterioso, che si svela, si nasconde e si manifesta in
forme sempre nuove.
L’uomo è dunque chiamato a regolarsi secondo la giustizia di Dio, del suo essere
trinitario, dedito, donante, inventivo, creativo, sorprendentemente più buono di quanto
l’uomo riesca a immaginare.

Anche noi, in questi giorni di Esercizi, siamo invitati a convertirci; ossia a conoscere il
Dio dell’alleanza non attraverso nozioni che noi sovrapponiamo e mediante le quali lo
giudichiamo, fossero pure altissime come la giustizia e la carità. A conoscere il Dio
dell’alleanza come egli è, nella sua vita debordante, traboccante di amore e di misericordia,
che prepara disegni di luce nelle più profonde oscurità.
L’affidamento al mistero di Dio viene chiesto ai lavoratori della vigna, a Giobbe, a
ciascuno di noi.
E noi preghiamo di camminare per questa strada mediante l’adorazione del mistero
eucaristico davanti al quale ci sentiamo smarriti ogni volta che lo celebriamo, che lo
rinnoviamo, che teniamo tra le mani il corpo e il sangue di Cristo, perché non è contenibile
nella misura dei nostri concetti ma supera nell’amore ogni nostra preveggenza, ogni calcolo,
ogni pur alta nozione del mistero di un Dio infinito che si china sulla sua creatura povera e
limitata.
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TRE MODI DI LOTTARE CON DIO

Nel nostro sforzo di comprendere l’enigma di Giobbe, meglio ancora di penetrare un


poco di più nel mistero di Dio, altissimo, inconoscibile, misericordioso e giusto, sovrano e
impenetrabile, tre volte santo, dobbiamo ricordare che il Libro di Giobbe è parte della
Scrittura, e quindi il suo messaggio va assimilato insieme con la totalità del messaggio
biblico.
Per questo vorrei proporvi di continuare la nostra lettura allargando lo sguardo verso
alcune pagine vetero e neo-testamentarie secondo tre direzioni. Con termini pretenziosi si
potrebbero chiamare rispettivamente dimensione antropologica, cristolagica, trinitaria.
Abbiamo visto la lotta di Giobbe contro il disordine della mente; tutto il suo travaglio è
una purificazione dalla molteplicità dei pensieri che sembrano ragionevoli, giusti, logici ma
che, alla fine, non tengono. L’ultimo suo atto è una resa al mistero.
In questo combattimento contro il disordine della mente, egli lotta anche con Dio.
Come Giacobbe, in quel racconto misterioso, esemplare per tutte le forme di lotta con Dio
nella storia e nella spiritualità, così Giobbe vuole essere benedetto, giustificato, dichiarato
giusto, vuole ottenere ciò che desidera.
Il tema della lotta con Dio è inesauribile e forse noi non lo affrontiamo molto proprio
perché è un tema della mistica cristiana; tuttavia ci riguarda, e vogliamo approfondirlo.
Propongo dunque di riflettere, a livello antropologico, su tre episodi:
— il capitolo 10 di Giobbe — “L’arringa della creatura contro il Creatore”;
— il capitolo 2 di san Giovanni (vv. 1-12);
— il capitolo 25 di san Matteo (vv. 21-28), col parallelo di Marco (7,24-30).

L’arringa della creatura contro il Creatore (Gb 10)


«Giobbe sembra introdurre una specie di discorso immaginario da pronunciare davanti
ad un’ipotetica alta corte di giustizia in cui anche Dio sia presente» (cfr. Ravasi, op. cit., p.
408). E il discorso si può dividere nelle seguenti parti:

— vv. 1-2, l’apertura dell’arringa. «Stanco io sono della mia vita! Darò libero sfogo al
mio lamento, parlerò nell’amarezza del mio cuore. Dirò a Dio: Non condannarmi! Fammi
sapere perché mi sei avversario».
Sono parole introduttive al momento della lotta serrata.

— vv. 3-7: l’arringa comincia con cinque domande poste all’avversario.


In precedenza abbiamo letto quelle che Dio farà a Giobbe, ma qui è Giobbe a
tempestarlo di domande retoriche, tese a conquistarlo.
«È forse bene per te opprimermi,
disprezzare l’opera delle tue mani
e favorire i progetti dei malvagi?
Hai tu forse occhi di carne
o anche tu vedi come l’uomo?
Sono forse i tuoi giorni come giorni di un uomo,
i tuoi anni come i giorni di un mortale,
perché tu debba scrutare la mia colpa
e frugare il mio peccato,
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pur sapendo ch’io non sono colpevole


e che nessuno mi può liberare dalla tua mano?».
Dio è messo in causa nella sua bontà: perché mi tratti in una maniera che non si
conviene a te e non mi tratti, invece, benignamente?
— vv. 8-12. Le interrogazioni cedono il posto a una commovente perorazione, proprio
come in un’arringa quando si invoca la clemenza della corte:

«Le tue mani mi hanno plasmato e mi hanno fatto


integro in ogni parte; vorresti ora distruggermi?
Ricordati che come argilla mi hai plasmato
e in polvere mi farai tornare.
Non m’hai colato forse come latte
e fatto accagliare come cacio?
Di pelle e di carne mi hai rivestito,
d’ossa e di nervi mi hai intessuto.
Vita e benevolenza tu mi hai concesso
e la tua premura ha custodito il mio spirito».

Anche se non c’è un riferimento verbale specifico, possiamo leggere nelle parole di
Giobbe il mistero dell’alleanza: tu mi hai creato, mi hai fatto tuo, sono tuo, non dimenticare
la tua creatura, siimi vicino, non abbandonarmi.

— vv. 13-17: dopo la perorazione, le accuse contro Colui che agisce da nemico.
«Eppure, questo nascondevi nel cuore,
so che questo avevi nel pensiero!» (v. 13).

La denuncia è gravissima e la Bibbia di Gerusalemme, nell’annotazione, mostra


qualche imbarazzo nello spiegare il versetto: «Il lamento di Giobbe traduce una tragica
verità. L’uomo dovrebbe essere in grado, usando spontaneamente della sua libertà, di vivere
in pace con Dio e in armonia con gli esseri e le cose. Si sente invece dipendente da una
volontà misteriosa ed esigente che lo lascia nell’incertezza su se stesso e su Dio, mette alla
prova la sua coscienza e gli nega quelle garanzie sulle quali vorrebbe appoggiarsi. In forma
negativa, Giobbe evoca il dramma stesso della fede» (p. 1055).
Forse questa annotazione corre troppo avanti e però le parole di Giobbe esprimono
qualcosa del mistero dell’uomo di fronte a un’incertezza che egli vorrebbe riuscire a
determinare:

«Tu mi sorvegli, se pecco,


e non mi lasci impunito per la mia colpa.
Se sono colpevole, guai a me!
Se giusto, non oso sollevare la testa,
sazio di ignominia, come sono, ed ebbro di miseria.
Se la sollevo, tu come un leopardo mi dai la caccia
e torni a compiere prodigi contro di me,
su di me rinnovi i tuoi attacchi,
contro di me aumenti la tua ira
e truppe sempre fresche mi assalgono».

Dio è dunque visto come una belva feroce che non lascia in pace questo povero uomo.
51

— vv. 18-22: di nuovo si ritorna dall’aggressività alla supplica che fa leva sull’af-
fettività del mistero di Dio.
«Perché tu mi hai tratto dal seno materno?
Fossi morto e nessun occhio m’avesse mai visto!
Sarei come se non fossi mai esistito;
dal ventre sarei stato portato alla tomba!
E non son poca cosa i giorni della mia vita?
Lasciami, sì ch’io possa respirare un poco
prima che me ne vada, senza ritornare,
verso la terra delle tenebre e dell’ombra di morte,
terra di caligine e di disordine,
dove la luce è come le tenebre».

In questo capitolo Giobbe esprime la sua solitudine, la sua incertezza, il suo dolore per
non essere ascoltato e, come succede a chi vive un forte complesso di inferiorità, si esaspera,
lotta per avere ciò che vuole da Colui che ritiene possa e debba darglielo, con la stizza di chi
non è sicuro di sé e però pretende i suoi diritti.
Lotta con Dio, ma ancora molto con se stesso, con la smoderatezza dei suoi pensieri,
con il senso di inferiorità che lo assale, con l’insicurezza che lo rode interiormente e dalla
quale vorrebbe uscire con parole minacciose. Talora, le persone che verbalmente
aggrediscono di più sono le più deboli, le più fragili e si accaniscono contro l’altro nella
paura di non ottenere ciò che desiderano.

La lotta di Maria con Gesù (Gv 2)


Di fronte a questo modo di lottare con Dio, noi vogliamo leggere il modo di lottare
della Madre di Gesù, nell’episodio delle nozze di Cana. Maria pensa che dovrebbe ottenere
ciò che vuole e tuttavia non può essere assolutamente certa di riuscirci. Mette così in opera
tutto il suo impegno pur di strappare al Figlio quanto desidera.
La lotta è espressa con termini molto sobri, velati, ma è pur sempre una lotta con Dio.
In un primo tempo Maria espone la causa degli sposi facendosi loro avvocato presso
Gesù, con una perorazione brevissima e insieme forte: «Nel frattempo, venuto a mancare il
vino, la madre di Gesù gli disse: “Non hanno più vino”» (Gv 2,3).
È una parola accorata: Come mai con la tua presenza, con la mia, non possiamo aiutare
queste persone evitando loro l’umiliazione che resterà un’ombra per tutta la vita, un segno di
disgrazia sul matrimonio? È una parola splendida, che parte dal negativo e mette quindi di
fronte a un fatto che deve essere riparato.
Gesù però sembra lasciare sola Maria. «Rispose: “Che ho da fare con te, donna? Non è
ancora giunta la mia ora”» (v. 4). Qualunque sia l’esatto significato di queste parole, è certo
che non sono di accoglienza, di incoraggiamento, ma di distanza.
Maria non viene aiutata, è sola come Giobbe. E allora compie un gesto eroico di
fiducia, perché coinvolge non solo se stessa ma anche altri. Chiama infatti i servi e dice loro:
«Fate quello che vi dirà» (v. 5). Con un gesto pubblico, la madre forza l’adesione di Gesù.
Perché il suo sentimento non è di inferiorità, di paura, di debolezza, per cui abbia bisogno di
esasperarsi o di gridare, bensì è di certezza nell’alleanza. Abbandona dunque fiduciosamente
sé e i servi alla potenza di Gesù che, ella non sa come, provvederà.
Possiamo notare che il suo abbandono continua fino al momento decisivo, anche se il
brano evangelico non la nomina più. Continua ad affidarsi benché il Figlio compia
apparentemente un gesto contrario all’attesa. Ciò che ci viene raccontato delle sei giare di
pietra, contenenti ciascuna due o tre barili, fatte riempire di acqua, sembra infatti ben diverso
da quanto si poteva immaginare, quasi a dire: Se non c’è vino, si rassegnino a bere acqua! Si
ha l’impressione che Gesù non prenda sul serio la domanda della madre. Ma tutto quello che
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avverrà dopo e anche la gioia dell’evangelista mentre proclama che Gesù diede inizio ai suoi
miracoli in Cana di Galilea (cfr. v. 11) si deve a Maria che pur lottando, pur chiedendo con
insistenza e ponendosi in una situazione di esigenza, conserva la fiducia propria di chi ha
ormai superato la lotta per l’obbedienza della mente.
Forse noi ci troviamo, nelle nostre lotte con Dio, tra Giobbe e Maria e dovremmo
cercare di avvicinarci maggiormente a Maria, per quanto è possibile al nostro cammino
spirituale, passando attraverso quella obbedienza della mente che è l’atteggiamento
fondamentale del credente rispetto a Dio.

La lotta della donna cananea (Mt 15,21-28)


Un episodio bellissimo, strettamente parallelo al brano giovanneo delle nozze di Cana,
è quello che ci presenta la lotta della donna cananea con Gesù.
Una donna che sa di non appartenere al popolo eletto, e quindi di non avere diritti, di
poter nutrire poche speranze. Eppure si butta con tutta se stessa per strappare a Gesù ciò che
vuole.
«Una donna cananea, che veniva dalle regioni di Tiro e Sidone, si mise a gridare:
“Pietà di me, Signore, figlio di Davide. Mia figlia è crudelmente tormentata da un
demonio”» (v. 22). Notiamo la forza di questa supplica: nell’appello alla radice tradizionale,
familiare di Gesù e alla potenza delle promesse messianiche che riposano in lui — “Figlio di
Davide” —; nel chiamarlo “Signore”, titolo che racchiude l’apertura verso il mistero
dell’onnipotenza divina; nelle parole che invitano a compassione — “Pietà di me” — e nella
descrizione della sofferenza che la figlia vive. C’è tutto il contenuto di una perorazione
accorata, efficace.
Bellissima anche l’identificazione della madre con la figlia: “Pietà di me”, colei che
soffre è mia figlia, ma io soffro insieme con lei, quindi sono io che ti chiedo pietà.
Tuttavia Gesù non l’ascolta, non le rivolge neppure una parola (cfr. v. 23).
La donna cananea vive un forte senso di solitudine, di rigetto, ed entra maggiormente
in stato di lotta per ottenere ciò che vuole. Per riuscire in questa lotta commuove, in qualche
modo, i discepoli che «gli si accostarono implorando: “Esaudiscila, vedi come ci grida
dietro”», come ci mette in imbarazzo.
«Ma egli rispose» (seconda battuta negativa): «Non sono stato inviato che alle pecore
perdute della casa di Israele» (v. 24). Una risposta apparentemente decisiva dal momento che
Gesù definisce il limite della sua missione.
A quel punto la donna, se avesse avuto la disobbedienza della mente vissuta da
Giobbe, si sarebbe messa a imprecare contro un disegno di Dio che non riusciva ad andare al
di fuori dei piccoli confini di un popolo superbo, ripiegato su se stesso, incapace di guardare
ai vicini. Sarebbe addirittura giunta all’insulto e all’aggressione.
Invece, si prostra dinanzi al Signore dicendo: «Aiutami!» (v. 25). La lotta continua
però sul registro dell’amore, dell’affetto, della misericordia, perché la Cananea è certa della
misericordia di Gesù, al di là di quanto le parole di lui permettano di pensare.
Con la sua intuizione, pare che dica: Io ti conosco e so che puoi e vuoi aiutarmi, so che
ti comporti in questo modo per provarmi. Esperimenta la prova e riesce perciò a cogliere
l’aspetto della purificazione della sua fede. Così, la vive con umiltà, con decisione, con
calma.
E una terza volta viene respinta, in maniera durissima: «Non è bene prendere il pane
dei figli per gettarlo ai cagnolini» (v. 26). Parole che suonano come un insulto di tipo
nazionalistico, tali da suscitare una ribellione, un’ira, una esasperazione interiore incredibile.
La lotta tra Dio e l’uomo è all’acme. Il fatto è di una elevazione mistica profondissima ed è
straordinario vedere come la donna, nella obbedienza assoluta della sua mente, anziché
maledire o scagliarsi contro Gesù, riesce persino a essere umorista, tanto si sente libera e
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fiduciosa: «È vero, Signore, ma anche i cagnolini si cibano delle briciole che cadono dalla
tavola dei loro padroni» (v. 27).
La risposta è di una superiorità incomparabile, indice di una persona che crede
veramente in Gesù, nella misericordia di Dio, nella forza universale dell’alleanza, al di là
delle stesse parole ascoltate. Così la donna vince.
E Gesù vuole essere vinto. Il mistero della lotta con Dio sta proprio nel fatto che
l’angelo è contento di essere vinto da Giacobbe (cfr. Gn 32,23 ss.). Come dice un apologo
rabbinico: Dio è contento di essere superato e vinto dai suoi figli.
Esplode l’esultanza di Gesù: «Donna, davvero grande è la tua fede! Ti sia fatto come
desideri» (v. 28). Davvero grande perché ha compreso il cuore di Cristo al di là di tutto ciò
che velava l’amore del Signore proprio per suscitare la fede eroica.
È interessante notare il parallelo di Marco, forse ancora più illuminante: «Per questa
tua parola, va’, il demonio è uscito da tua figlia» (Mc 7,29). Dunque, è potente la parola della
donna; e la gioia di Gesù è che il miracolo non è quasi neppure suo, ma della potenza della
fede umana. Egli ha vinto perché è riuscito ad innalzare la Cananea a una qualità di fede
inaudita, nella linea di quella di Abramo. La donna ha vinto perché ha fatto sì che Gesù si
manifestasse nella sua verità divina.
Mi sono talora domandato che cosa sarebbe accaduto se la Cananea, di fronte al
comportamento di Gesù, si fosse messa a inveire. Certamente il Signore non compie miracoli
per chi li rifiuta, e tuttavia credo che anche in questo caso egli avrebbe distinto gli
atteggiamenti.
Se la donna avesse inveito come Giobbe, quindi con fede e nel desiderio di ricerca,
penso che Gesù le sarebbe andato ugualmente incontro. Ma ci avrebbe perso la Cananea. Se
la Madonna avesse inveito, Gesù le sarebbe andato incontro cogliendo la verità del suo
atteggiamento. Ma Maria sarebbe rimasta un passo indietro rispetto alla profonda pace della
mente che aveva raggiunto.
Siamo noi a perderci; Gesù agisce sempre con amore e con misericordia verso chi si
mostra desideroso di accoglierlo.

La nostra capacità di lottare con Dio


Rileggendo personalmente i tre episodi, dobbiamo cercare soprattutto di coglierli in
una contemplazione affettiva.
Qual è la nostra capacità di lottare con Dio? Siamo di coloro che facilmente si
deprimono, si sentono dimenticati, abbandonati, magari senza dirlo a se stessi ma nel
sottofondo della coscienza?
Oppure cerchiamo di imitare l’esempio di Maria e della Cananea, che sfidano Dio e nel
combattimento dell’esistenza vanno di fede in fede e accolgono il momento difficile,
accolgono anche l’oscurità come il momento più alto del grido, in cui Dio prova nel fuoco la
fede, la gratuità del dono, affinché si esprima in una pienezza che costituisce il culmine di
tutto il cammino umano, a partire da Abramo?
Potremmo vedere qui come una sintesi dell’intera storia di salvezza: l’uomo, creato
dall’amore di Dio e chiamato alla prova, non ha saputo accettare la sfida della fede e il
peccato fondamentale è appunto quello di non sapersi fidare di lui, di non sapersi appoggiare
alla guida della sua parola. Allora Dio ricostituisce l’umanità attraverso la via della fede, a
cominciare da Abramo. Così la fede viene purificata passando per tutte le grandi personalità
dell’Antico Testamento, riceve in Giobbe una particolare figura enigmatica esemplare, e
sfocia nella fede di Maria, nella fede dei santi del Nuovo Testamento, fino all’abbandono di
Gesù al Padre. Gesù è l’uomo dell’abbandono totale, pieno, completo, anche nel momento in
cui sembra che il Padre lo lasci nella più nera solitudine.
Tutte le figure — di Abramo, di Giacobbe, di Giobbe, di Maria, della donna cananea
— si ritrovano in quella di Gesù, abbandonato dal Padre e che al Padre si abbandona, e
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costituiscono una visione unitaria della salvezza con la quale siamo chiamati a confrontarci
nelle nostre lotte quotidiane col mistero di Dio.
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TRE ESEMPI
DI OBBEDIENZA DELLA MENTE

Tenendo sempre presente il Libro di Giobbe, scegliamo alcune pagine della Scrittura
che ci inducono a una riflessione di tipo cristologico.
Abbiamo già approfondito l’importanza dell’obbedienza della mente e ora
esemplifichiamo il tema in tre casi concreti:
Abramo (Gn 22);
Giobbe (Gb 40-42);
Gesù (Mc 14).

Per la domanda di grazia che facciamo prima della meditazione ci ispiriamo alla parola
della Lettera agli Ebrei, che si può considerare riassuntiva di tutto un Corso di Esercizi:
«Anche noi, dunque, circondati da un così gran nugolo di testimoni, deposto tutto ciò che è
di peso e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti,
tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede. Egli, in cambio della
gioia che gli era posta innanzi, si sottopose alla croce, disprezzando l’ignominia, e si è assiso
alla destra del trono di Dio. Pensate attentamente a colui che ha sopportato contro di sé una
così grande ostilità dei peccatori, perché non vi stanchiate perdendovi d’animo» (Eb 12,1-3).
Gesù, autore e perfezionatore della fede, è colui che è passato nella grande prova; tale
prova ha avuto il suo culmine nell’ignominia della croce a cui si è sottoposto sopportando
una grande ostilità dei peccatori. Questo ci incita a correre con perseveranza nella corsa che
ci sta dinanzi, deponendo quanto ci è di peso e il peccato che ci assedia, circondati da un
grande nugolo di testimoni, che sono tutti i santi dell’Antico e del Nuovo Testamento, in
particolare quelli ricordati nella Lettera agli Ebrei, tra cui Abramo (cfr. Eb 11).

“Donaci, o Gesù, di tenere anzitutto lo sguardo fisso su di te. Tu sei colui da cui la
nostra fede deriva, sei colui che la porta a perfezione, colui che ha corso nella prova prima
di noi, colui che ci conduce, che non ci lascia sbagliare nel cammino.
Fa’ che noi ti contempliamo con affetto profondo e possiamo trovare forza e gioia nel
seguirti anche nelle scelte difficili”.

L’obbedienza di Abramo
«Dopo queste cose, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: “Abramo, Abramo!”» (Gn
22,1). Siamo al momento culminante della vita di Abramo, che resterà per tutta la tradizione
un momento altissimo, misterioso, drammatico, tale da essere addirittura letto
simbolicamente in riferimento a Cristo sulla croce e al rapporto del Padre col Figlio, quel
Padre «che non ha risparmiato il proprio Figlio» (cfr. Rm 8,32).
Dio mette dunque alla prova Abramo. Lo chiama per ben due volte e gli dice: «“Prendi
tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco, va’ nel territorio di Moria e offrilo in olocausto
su di un monte che io ti indicherò”. Abramo si alzò di buon mattino, sellò l’asino, prese con
sé due servi e il figlio Isacco, spaccò la legna per l’olocausto e si mise in viaggio verso il
luogo che Dio gli aveva indicato» (vv. 1b-3). Ci sorprende l’asciuttezza del racconto, quasi
che tutto vada da sé: Dio ordina, Abramo obbedisce e alzatosi di buon mattino si mette in
cammino.
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È tuttavia facile immaginare quale lotta si sia scatenata nella mente di Abramo, quali
pensieri, obiezioni, ribellioni l’abbiano assalito, quale ripugnanza abbia provato mentre
esteriormente poneva gesti semplici, come se si trattasse di una gita in campagna. E ci
sorprende che il testo biblico non commenti il fatto, non alluda all’Ulteriore lotta drammatica
di Abramo. Ne parla, invece, la Lettera agli Ebrei: «Per fede Abramo, messo alla prova, offrì
Isacco. E proprio lui, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unico figlio, del quale era
stato detto: “In Isacco avrai una discendenza che porterà il tuo nome”» (Eb 11,17-18). In
maniera sintetica, è espressa tutta la guerra interiore che Abramo deve combattere: Proprio a
me questo comando? a me che sono erede delle promesse, che sono stato lusingato,
affascinato dalla promessa di discendenza, che l’ho attesa per anni? Se almeno avessi più di
un figlio! Ma Isacco, proprio l’unico, proprio lui di cui mi è stato detto: “In Isacco avrai una
discendenza che porterà il tuo nome”?.
Da una parte Abramo lotta e sente in sé tumultuare le obiezioni così facili, così
ragionevoli, così logiche — come quelle di Giobbe — ma dall’altra, come dice ancora la
Lettera agli Ebrei: «Egli pensava che Dio è capace di far risorgere anche dai morti; per
questo lo riebbe e fu come un simbolo» (v. 19).
Riesce ad attuare l’obbedienza della mente perché si fida oltre ogni fiducia, spera
contro ogni speranza, secondo la fortissima parola di Paolo.
Mentre cammina nel silenzio e cerca di reprimere, di dominare la folla di pensieri che
lo tormenta, il figlio, con semplicità e ingenuità, fa la domanda che non si doveva fare e che
avrebbe potuto scatenare anche esteriormente la bufera interiore che Abramo stava vivendo:
«Isacco disse: “Padre mio!”. Rispose: “Eccomi, figlio mio”. Riprese: “Ecco qui il fuoco e la
legna, ma dov’è l’agnello per l’olocausto?”». Abramo si sente trafiggere il cuore e però
risponde: «Dio stesso provvederà l’agnello per l’olocausto, figlio mio!» (Gn 22,7-8).
Questa è obbedienza della mente: l’abbandono, al di là di ogni evidenza, al Dio più
grande di noi, che tiene in mano ogni cosa, che tutto sa e tutto può e a tutto provvede. Di fatti
il nome di quel luogo sarà «Il Signore provvede»; «perciò oggi si dice: “Sul monte il Signore
provvede”» (v. 14).
È un primo esempio drammatico di obbedienza della mente, ossia di ossequio a un
mistero di cui non si colgono le ragioni, e però se ne avverte la forza dentro di noi.
Per questo Abramo è il capostipite della fede.

Il termine del cammino di Giobbe


Giobbe, dopo tanto parlare e farneticare, giunge, al termine del primo discorso di Dio,
a una espressione che corrisponde alla raggiunta maturità di obbedienza.
«Il Signore riprese e disse a Giobbe:
“Il censore vorrà ancora contendere con l’Onnipotente? L’accusatore di Dio risponda”.
Giobbe rivolto al Signore disse:
“Ecco, sono ben meschino: che ti posso rispondere?
Mi metto la mano sulla bocca.
Ho parlato una volta, ma non replicherò,
ho parlato due volte, ma non continuerò”» (Gb 40,1-2).

È una prima risposta di Giobbe ed è un riconoscimento che il mondo, il mistero della


storia e il mistero di ogni singolo uomo sono parte di un mistero più grande e incontrollabile.
Poi segue il secondo discorso di Dio (40,6-41), che ha fatto scorrere fiumi di inchiostro
da parte degli esegeti, essendo difficile comprendere che cosa aggiunga, di essenziale, al
primo. Quale significato hanno le descrizioni quasi barocche di due grandi animali,
l’ippopotamo e il Leviatan? Perché questo gusto descrittivo che sembra far scemare l’acme
drammatico a cui il Libro è giunto?
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Gli esegeti cercano di rispondere in vari modi. A me sembra che forse una delle
risposte più pertinenti sia che, dopo aver parlato della natura, si parla della storia: si allude
cioè, sotto l’immagine delle bestie, alle due grandi potenze che per Israele appaiono
invincibili e capaci di distruggere l’universo: l’Egitto — l’ippopotamo che è la bestia dei
fiumi — e la Mesopotamia — il Leviatan, bestia mitica, ferocissima —. Ebbene, Dio
considera anche queste realtà dall’alto, quasi con gioco, perché le conosce dall’interno e, pur
se sono crudeli, le tiene nella sua mano.
Ma qualunque sia il significato del brano, certamente Dio riprende le sue contestazioni,
entrando non direttamente nel discorso di Giobbe bensì allargandogli gli orizzonti fino ai
limiti del possibile e pure oltre, facendo leva sulla forza di quell’uomo:

«Allora il Signore rispose a Giobbe di mezzo al turbine e disse:


“Cingiti i fianchi come un prode;
io ti interrogherò e tu mi istruirai”» (40,6-7).

Giobbe viene esaltato, sia pure un po’ ironicamente:


«Anch’io ti loderò,
perché hai trionfato con la destra» (v. 14).

Alcuni commentatori osservano che Dio è così uscito dal dilemma di Giobbe che
consisteva nel sapere se aveva torto o ragione. Il Signore dice: Anche tu sei forte, anch’io ti
glorifico, ma anch’io ho ragione.
La giustizia di Dio è diversa dalla nostra; è possibile una glorificazione insieme di Dio
e del mondo e dell’uomo, attraverso disegni misteriosi. Questo sembra essere il senso delle
parole.
Dopo la lode a Giobbe, Dio prosegue:
«Ecco, l’ippopotamo,
che io ho creato al pari di te,
mangia l’erba come il bue.
Guarda, la sua forza è nei fianchi
e il suo vigore nei muscoli del ventre.
Rizza la coda come un cedro,
i nervi delle sue coscie s’intrecciano saldi,
le sue vertebre, tubi di bronzo,
le sue ossa come spranghe di ferro» (cfr. 40,15 ss.).

E più avanti:
«Puoi tu pescare il Leviatan con l’amo
e tener ferma la sua lingua con una corda,
ficcargli un giunco nelle narici
e forargli la mascella con un uncino?
...Chi mai lo ha assalito e si è salvato?
Nessuno sotto tutto il cielo.
Non tacerò la forza delle sue membra:
in fatto di forza non ha pari.
...Nessuno sulla terra è pari a lui,
fatto per non aver paura.
Lo teme ogni essere più altero;
egli è il re su tutte le fiere più superbe» (cfr. 40,25-41,2 6).

Al termine della lunga descrizione delle due bestie, la risposta di Giobbe:


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«Allora Giobbe rispose al Signore e disse:


Comprendo che puoi tutto
e che nessuna cosa è impossibile per te.
Chi è colui che, senza avere scienza,
può oscurare il tuo consiglio?
Ho esposto dunque senza discernimento
cose troppo superiori a me, ch’io non comprendo.
“Ascoltami e io parlerò,
io t’interrogherò e tu istruiscimi”.
Io ti conoscevo per sentito dire,
ma ora i miei occhi ti vedono.
Perciò mi ricredo
e ne provo pentimento sopra polvere e cenere» (42,1-6).

Giobbe incomincia con una parola molto bella, che sarà ripetuta dall’angelo a Maria, e
poi da Gesù a proposito del giovane ricco e della salvezza di quanti hanno ricchezze: «Nulla
è impossibile a Dio». Il disegno divino è inscrutabile, al di là di tutte le possibili evidenze sia
fisiche sia morali. Dio è il Vivente, la regola ultima di amore di tutto l’universo.
«Chi è colui che, senza avere scienza, può oscurare il tuo consiglio?»: san Paolo, dopo
aver contemplato il mistero terribile di Israele, intuisce che deve racchiudere un disegno
impenetrabile ed esprime la medesima certezza di Giobbe (cfr. Rm 11).
E Giobbe fa l’atto finale di obbedienza della mente e insieme di confessione:
«Ho esposto dunque senza discernimento
cose troppo superiori a me, che io non comprendo».

È un giudizio su ciò che ha detto: le sue parole contenevano una parte di verità ma
l’insieme del discorso tendeva a esplorare cose che non gli competevano, che sfuggono
all’uomo.
Segue il versetto 5, che a mio avviso è il momento più alto di tutto il Libro, in
particolare per l’insegnamento che viene a noi:
«Io ti conoscevo per sentito dire
ma ora i miei occhi ti vedono».

Ecco il senso del lungo travaglio di Giobbe. Conosceva Dio dalla catechesi, dalla
teologia, dalle disquisizioni, dai libri. Non si trattava, bene inteso, di conoscenze false,
tuttavia non riuscivano a fare unità, a mettere veramente a fuoco il volto di Dio; e Giobbe si
perdeva nel tentativo di mettere insieme la molteplicità dei ragionamenti. Ora gli occhi gli si
sono illuminati ed è giunto a intuire direttamente che di Dio non si parla; lo si ascolta,
invece, e lo si adora.
Mettendosi in questa disposizione, che ho chiamato “affettiva” perché non pretende di
scoprire tutto con la forza dell’intelletto ma si sottomette al mistero, ci è donata la
connaturalità con questo stesso mistero, espressa da Gesù quando dice «Rimanete in me e io
in voi»: allora possiamo affermare di vedere Dio con i nostri occhi. Ovviamente è necessario
il ragionamento, sono necessario la teologia e la pastorale, ma al di là di tutto ciò conta
l’intuizione ultima. È questo il motivo dei motivi, anzi il motivo senza motivo, dal momento
che in Dio c’è soltanto il suo essere, il suo essere per noi, il suo essere per me, e tutte le
ragioni tacciono. Nella sottomissione al mistero noi conosciamo veramente Colui dal quale
tutto deriva, al quale tutto ritorna, e che fa unità nella nostra esistenza.
Notiamo che Dio ha ritenuto i ragionamenti di Giobbe migliori di quelli dei suoi amici
che si sono limitati a un’espressione teologica molto timida, troppo prudente, troppo legata
alla geometria più che alle profondità teologiche. Giobbe si è spinto più avanti, ha osato di
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più, è stato più animoso, più passionale, e quindi si è avvicinato di più al mistero trinitario
che è dedizione e passione, che è totalità e dono. Tuttavia, avendo preteso di farlo a parole,
ne è rimasto ancora lontano: «Perciò mi ricredo, e ne provo pentimento sopra polvere e
cenere» (v. 6).
Finalmente è giunto all’obbedienza della mente che è amore, umiltà, riverenza
amorosa, sottomissione che riassume tutta la spiritualità dell’alleanza: fiducia in chi mi è
alleato, abbandono a lui, non bisogno di sapere tutto né su lui né su me, e di conseguenza
una conoscenza ben più profonda di quella che si può raggiungere con la sottigliezza dei
ragionamenti.

L’esempio di Gesù nel Getsemani


Il terzo esempio di obbedienza della mente è Gesù nel Getsemani.
«Giunsero intanto a un podere chiamato Getsemani, ed egli disse ai suoi discepoli:
“Sedetevi qui, mentre io prego”. Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e cominciò a
sentire paura e angoscia. Gesù disse loro: “L’anima mia è triste fino alla morte. Restate qui e
vegliate”. Poi, andato un po’ innanzi, si gettò a terra e pregava che, se fosse possibile,
passasse da lui quell’ora» (Mc 14,32 ss.).
Non sappiamo se questo è stato l’unico momento così drammatico di prova per Gesù.
Qualche altro accenno dei vangeli induce a supporre che non sia stato il solo, perché san
Giovanni parla di turbamenti forti, di situazioni pericolose ancora durante la sua vita
pubblica.
Nel Getsemani abbiamo una concretizzazione tipica di quell’essere tentato di Gesù,
che la Lettera agli Ebrei riferisce all’insieme della sua esistenza terrena: «Non abbiamo un
sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato lui stesso
provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato» (Eb 4,15).
In ogni cosa, quindi la paura, il disgusto, il tedio, la ripugnanza, la demotivazione, che
vediamo affiorare nel Getsemani. È la prova che abbiamo visto ricordata in Ebrei 12.
Che cosa significano questi sentimenti di angoscia che hanno il culmine nella tristezza
«fino alla morte»?
Non è facile entrare logicamente nel contesto, e ci può forse aiutare una preghiera
affettiva che cerchi di rendersi presente alla coscienza di Gesù, di contemplarlo sentendo con
lui paura e angoscia.
Forse possiamo paragonare le sue paure con le nostre, soprattutto quelle che soffriamo
a riguardo del Regno di Dio, di ciò che noi non sappiamo fare e che avvertiamo incombente,
pesante; a riguardo dei timori che abbiamo per gli altri, per i pericoli spirituali gravissimi in
cui si trovano; a riguardo di quanti riteniamo essere insuccessi o arretramenti della Chiesa di
Dio; a riguardo di situazioni drammatiche di famiglie, di persone ammalate, di sofferenze
per figli drogati; a riguardo delle tragedie che la malattia psichica provoca nelle famiglie
rendendole un inferno.
Tutto ciò è, in qualche modo, partecipazione all’angoscia e alla tristezza provate da
Gesù.
E noi conosciamo tutti i sentimenti di inutilità, di disgusto, di fuga, di abbandono, che
ci vengono da quelle angosce, perché sono esemplificati nel Libro di Giobbe.
Ancora nella Lettera agli Ebrei la condizione che vive Gesù è così riassunta: «nei
giorni della sua vita terrena offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che
poteva liberarlo da morte...; pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che
patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono»
(5,7-9). L’insistenza è sul tema dell’obbedienza: egli impara l’obbedienza della mente e
diviene causa di salvezza per coloro che imparano a obbedire a lui.
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Come Gesù reagisce in questa lotta per l’obbedienza della mente, il cui esito, per
molti, è di fuggire, di ritirarsi, di abbandonare tutto?
Reagisce restando. Chiede ai discepoli di restare, di non fuggire, di non cambiare
situazione, ma di affrontare la lotta. Poi, andato un poco innanzi, si getta a terra e prega
perché, se è possibile, passi da lui quell’ora.
È molto bello che Gesù affronti direttamente il male ma a partire dalla propria
debolezza: «che passasse da lui quell’ora».
La sua è una lotta col Padre, ed egli vuole ad ogni costo che sia vittoriosa la volontà
del Padre. Infatti «diceva: “Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo
calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu”» (Mc 14,36).
Egli sa di volere altro, di volere che si allontani da lui quel calice, ma la parola decisiva
è «ciò che vuoi tu».
È la parola ultima della fede, dell’obbedienza della mente, parola che interpreta
Abramo, Giobbe, tutti i santi della via della fede nell’Antico Testamento.
Possiamo restare in contemplazione affettiva di Gesù nel Getsemani e chiedergli: Che
cosa dici tu a me? come vivo io queste realtà?

Riflessioni conclusive
Suggerisco tre riflessioni conclusive.

1. Se c’è una lotta per l’obbedienza della mente, il modello è Gesù nell’orto, Gesù
orante; lui è il modello ultimo che riassume tutto il combattimento di Giobbe nella sua
violenza e nella sua vittoria, il luogo migliore per rileggere l’insieme del Libro di Giobbe e
coglierne lo sbocco nel disegno divino.

2. Chi prega per non entrare in tentazione ha già vinto per metà. Difatti Gesù supplica
i suoi apostoli: «Pregate per non entrare in tentazione» e obbliga noi a ripetere questa
incessante domanda nella preghiera domenicale, domanda di cui non sempre comprendiamo
l’importanza e che spesso formuliamo a fior di labbra. Con essa si chiede al Padre di cogliere
il carattere di lotta e di prova di tante situazioni, di non entrarci a capofitto senza capire che
sono una prova, ma di affrontarle nella preghiera. Quando ci si accorge che una certa realtà,
un evento, sono una prova in cui Dio ci pone abbiamo già superato per metà la difficoltà;
quando invece li si legge come destino cattivo, come malvagità della gente, della società,
come ignoranza dei superiori o pigrizia di quanti ci sono affidati, è assai difficile uscirne se
non con discorsi razionali o con provvedimenti di tipo programmatico che però solo in parte
risolvono il problema.
Se colgo l’aspetto di prova emerge il grido:
“Signore, non permettere che io cada in tentazione! Fammi comprendere che sto
vivendo un momento importante della mia vita e che tu sei con me per provare la mia fede e
il mio amore”.

3. La vera vittoria è, come insegnano Abramo, Giobbe e soprattutto Gesù,


l’abbandono al mistero inesauribile, creativo, sorprendente di Dio che ha risorse al di là di
quanto noi possiamo pensare e capire. Non dobbiamo mai credere di essere in un vicolo
cieco, perché anche quando ne abbiamo l’impressione la Trinità è talmente capace di
creatività da accoglierci; quindi il muro dell’esistenza, il vicolo cieco in cui ci si sente, viene
scavalcato e superato da un abbandono che è l’atto supremo di libertà dell’uomo, l’atto in cui
l’uomo perviene ad essere maggiormente se stesso, cioè creatura fatta per il dialogo con Dio
e che si salva nell’affidamento totale a lui come Padre pieno di amore e di misericordia.
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“Donaci, o Padre, di conoscerti così. Fa’ che i nostri occhi ti conoscano e ti vedano
con quella verità che è la verità del kerygma, dell’evangelo, della salvezza definitiva”.
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IL COMPIMENTO
DELLA CHIESA SOFFERENTE
Omelia nella festa di san Bartolomeo
Ap 21,9-14, 1 Cor 4,9-15, Gv 1,45-51

— Il vangelo presenta un uomo che ci ricorda Giobbe. Natanaele infatti è uomo retto,
integro, semplice, tutto d’un pezzo, capace di aprirsi alla verità.
Avevamo letto: «Il Signore disse a satana: “Hai posto mente al mio servo Giobbe?
Nessuno è come lui sulla terra: uomo integro e retto, teme Dio ed è alieno dal male”» (Gb
1,8).
E Gesù esclama: «Ecco davvero un Israelita in cui non c’è falsità» (Gv 1,47).
Anche Natanaele è un uomo giusto, eppure dovrà passare per la prova.
Tutta la sua vita sarà partecipazione al mistero della passione di Gesù, fino alla prova
suprema del martirio che oggi la Chiesa ci fa meditare.

— Il tema della prova dell’apostolo è ampiamente descritto da Paolo: Noi, gli apostoli
— coloro che sono scelti, che hanno creduto, che si sono lasciati inviare accettando che la
giustizia di Dio si manifestasse nella loro persona — siamo stati messi da Dio «all’ultimo
posto, come condannati a morte, poiché siamo diventati spettacolo al mondo, agli angeli e
agli uomini». Sono parole sorprendenti.
L’espressione «spettacolo al mondo» fa pensare alla lotta impari che si svolge in un
anfiteatro tra uomini e bestie feroci.
Quindi Paolo elenca una serie di aggettivi negativi: «stolti, deboli, disprezzati,
affamati, assetati, nudi, schiaffeggiati, vagabondi, affaticati, insultati, perseguitati, calunniati,
spazzatura del mondo, rifiuto di tutti» (1 Cor 4,9-13).
Viene alla mente, ancora una volta, Giobbe che beve il calice fino all’ultima goccia.
Il mistero della prova del giusto diviene, nel brano paolino, il mistero della prova
dell’apostolo, con un’apertura neotestamentaria che in Giobbe è implicita e scoppierà
soltanto nella conclusione.
Qui è già presente tra le righe della stessa sofferenza: l’apostolo che partecipa alla
condizione del giusto sofferente esprime la pienezza della risurrezione: «insultati,
benediciamo; perseguitati, sopportiamo; calunniati, confortiamo».
È lo splendore della potenza della croce.

— Tutto questo ci riporta alla visione celeste della prima lettura, tratta dal Libro
dell’Apocalisse, che possiamo leggere come visione conclusiva della meditazione della
Chiesa sull’apostolo Bartolomeo. Non a caso le orazioni liturgiche di questa Messa sono
tutte centrate sul tema della Chiesa.
Essa, riflettendo su san Bartolomeo, riflette sul proprio mistero nel quadro dell’Apo-
calisse, dove la Chiesa appare perseguitata, sofferente, colei che realizza in se stessa la figura
di Giobbe e insieme guarda al proprio compimento.
Bellissima la descrizione della Gerusalemme messianica, che è chiamata con
appellativi dolcissimi: «la fidanzata, la sposa dell’agnello» (Ap 21,9).
Nella tradizione orientale i due termini si equivalgono, perché fidanzata vuol dire
definitivamente promessa come sposa, legata a un contratto che dura tutta la vita.
Si vuole indicare dunque la pienezza della sponsalità, il rapporto paritario, affettivo,
indissolubile che Dio stringe col suo popolo, la fiducia che il popolo, la Chiesa ha verso Dio.
63

Nel caso di Giobbe la fiducia era ancora travagliata, faticava ad esprimersi.


In Maria di Nazaret e nella Cananea la fiducia si esprime con tutta la ricchezza e
l’amore possibili a un cuore umano: tu non puoi dimenticarmi, non posso non avere fiducia
in te, tu non puoi non vedere la situazione dolorosa che vivo, e te ne prendi cuore perché hai
posto su di me la tua mano.
Questa è la Chiesa che vive la sua certezza di fidanzata e sposa dell’agnello, di colui
che tiene in mano i destini dell’universo e che con la sua morte ha salvato la storia e l’ha
redenta.
«L’angelo mi trasportò in spirito su di un monte grande e alto, e mi mostrò la città
santa, Gerusalemme, che scendeva dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio» (v.
10).
Mi sono spesso domandato perché la Chiesa venga descritta così.
Noi ci immaginiamo il contrario, la Chiesa che sale verso Dio attraverso le prove
storiche che la purificano. Invece la visione ci presenta, in maniera inaspettata, la Chiesa che
scende dal cielo.
Che cosa significa questa visione un poco paradossale rispetto a quella ascendente
storica che noi ordinariamente coltiviamo?
Significa, mi pare, che la Chiesa, pur essendo un popolo pellegrinante verso il suo
Signore, nel suo farsi e nel suo compiersi è tutta dono di Dio, viene dall’alto, dalla grazia,
dall’amore, dalla misericordia, e nel suo esistere come dono, nel suo fondarsi su Gesù, sul-
l’Agnello, esprime la totalità della salvezza, la propria cattolicità: in essa c’è l’apertura a
tutte le realtà, c’è il popolo ebraico e l’umanità intera.
Questa è la contemplazione della Chiesa che noi pastori dovremmo sempre avere
davanti agli occhi.
Noi, che vediamo dei segmenti talora imperfetti, forse irritanti, spesso inadeguati, della
realizzazione di Chiesa, noi che siamo tentati di frustrazione, di demotivazione, di venir
meno alla speranza, dobbiamo nutrirci di questa contemplazione.
E qualche volta mi è capitato, celebrando un pontificale o l’Eucaristia per una grande
moltitudine di persone, di rimanere sorpreso di tale visione: sono testimone dell’opera
meravigliosa di Dio, che scende dall’alto.
Con gli occhi potrei vedere gente distratta, assonnata, chiacchierona, ma con lo
sguardo della fede ammiro stupefatto questa fidanzata, questa sposa che, grazie
all’Eucaristia, discende dalla potenza di Dio e si sta costituendo nella sua definitività.
Lo stupore per la visione della Gerusalemme che scende dall’alto ci aiuta nel cammino
quotidiano, è il nutrimento che continuamente ci rigenera rispetto alle delusioni contingenti
che proviamo nelle diverse esperienze singole del nostro ministero.

“Donaci, Signore, per intercessione di san Bartolomeo, la certezza, la chiarezza, di


questa visione dell’opera tua che inevitabilmente scende dall’alto e che tu costituisci con
assoluta determinazione e perpetuità nel nostro mondo pieno di incertezza, dì paura, di
timore, di incostanza.
Donaci, attraverso questa contemplazione, soprattutto mediata dall’Eucaristia, dal
corpo e dal sangue del tuo Figlio, di poter sempre camminare e sperare vedendo l’invisibile
già presente, ossia la Chiesa di Dio che dall’alto discende per rendere lieta la terra con
l’annuncio della definitiva salvezza”.
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GIOBBE E IL CANTICO DEI CANTICI

L’indicibile mistero Trinitario


Affronto con trepidazione il tema di quest’ultima meditazione — Giobbe e il Cantico
dei Cantici — perché si tratta di penetrare in quelle zone di adorazione del mistero che fanno
parte del livello mistico, di cui è sempre più opportuno tacere che parlare.
Tuttavia gli eventi della vita, le prove, l’accumularsi delle sollecitazioni dentro e fuori
di noi ci spingono a entrare in contatto col mistero Trinitario nel quale sono radicati
l’umanità, il mondo, la storia.

— Vi leggo anzitutto alcune stimolanti parole scritte recentemente da David Maria


Turoldo che riflette sulla malattia inguaribile che sta vivendo. Egli si domanda se sia giusto
pregare per essere guariti dalla malattia e dalla morte; scorrendo il Vangelo che, a suo
giudizio, è molto delicato in proposito, sottolinea gli episodi a favore (il cieco chiede di
vedere; il servo del centurione domanda la grazia per la figlia; Lazzaro è risuscitato; la
Cananea supplica e ottiene). «Tuttavia — continua Turoldo — il problema si impone con
tutta forza, nel rispetto stesso di Dio. No, io non penso che sia giusto pregare perché Dio mi
guarisca. Lo posso capire, ma solo a livello umano, a livello di un Giobbe che ancora
brancica nel buio del suo dolore e della sua disperazione; lo posso cioè ammettere come
necessario sfogo rimedio all’angoscia.
Io non prego perché Dio intervenga; io prego perché Dio mi dia la forza di sopportare
il dolore, e di far fronte anche alla morte con la stessa forza di Cristo. Io non prego perché
cambi Dio, io prego per caricarmi di Dio e possibilmente cambiare io stesso, cioè noi, tutti
insieme, le cose» (cfr. «Cosa pensare e come pregare di fronte al male», di D.M. Turoldo, in
«Servitium» [1989], n. 64).
Queste parole ci sollecitano verso certi orizzonti del mistero che altrimenti non
oseremmo affrontare.

— Soprattutto ci sollecitano non poche espressioni di Gesù, a cominciare dalle


predizioni della sua passione. «E incominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva
molto soffrire, ed essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, poi
venire ucciso e, dopo tre giorni, risuscitare. Gesù faceva questo discorso apertamente» (Mc
8,31-32a).
E questo discorso viene ripetuto tre volte. Potremmo dire di non conoscere nessun altro
personaggio storico che durante la sua vita abbia parlato tanto della sua morte come Gesù,
che abbia anzi interpretato la sua vita a partire dalla morte, e quindi abbia operato in vista
della morte.
Le profezie della passione, che i vangeli puntualmente ricordano, sono avvalorate da
altre parole. Ad esempio: «Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse
già acceso! C’è un battesimo che devo ricevere; e come sono angosciato, finché non sia
compiuto!» (Lc 12,49-50). Vengono alla mente i versetti del Salmo, che sono applicati dalla
riflessione spirituale all’Incarnazione del Verbo, al suo entrare nella lotta contro il peccato:
«Là pose una tenda per il sole
che esce come sposo dalla stanza nuziale,
esulta come prode
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che percorre la via» (Sal 19,6).


Si ha l’impressione che Gesù desideri la prova, che l’affronti esultando.
Continua:

«Egli sorge da un estremo del cielo


e la sua corsa raggiunge l’altro estremo:
nulla si sottrae al suo calore» (v. 7).

Gesù dice ancora, all’inizio dell’ultima cena: «Ho desiderato ardentemente di mangiare
questa Pasqua con voi, prima della mia passione» (Lc 22,14-15). E la stessa ansia di buttarsi
nella prova noi la leggiamo nel gesto simbolico della lavanda dei piedi: «Gesù, sapendo che
era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano
nel mondo, li amò sino alla fine».
Poi si alza da tavola, depone le vesti, prende un asciugatoio, se lo cinge, versa
dell’acqua, lava i piedi; per significare che dà la vita per noi, per la nostra vita, per
purificarci.
Infatti dice a Pietro: «Se non ti laverò, non avrai parte con me» (cfr. Gv 13,1-8).
Cerchiamo dunque di entrare nella coscienza di Gesù, in quella coscienza che da una
parte è esemplare per tutta l’umanità, essendo egli il capo dell’umanità redenta, il
primogenito dai morti, il primogenito della creazione, colui nel quale riconosciamo la nostra
vocazione umana creaturale, perché siamo stati creati e ricreati in lui; dall’altra ci permette
di contemplare in Gesù il mistero della Trinità, della vita intima di Dio.

Due instancabili ricerche


Con queste premesse riflettiamo sul rapporto tra Giobbe e il Cantico dei Cantici.
A prima vista sembrerebbe che non vi sia rapporto tanto i due libri sono tra loro
diversi. Però hanno in comune almeno il fatto che entrambi descrivono e rappresentano una
ricerca instancabile.
Giobbe è ricerca instancabile della giustizia divina, del modo in cui tale giustizia si
manifesta e con cui l’uomo può comprenderla. Il Cantico è ricerca instancabile di amore, del
volto dell’amato, della sua presenza, del gaudio di questa presenza.

1. Giobbe procede a tentoni, sembra un cieco che avanza nel buio e tuttavia nel suo
travaglio appare qualche lampo. Un lampo ampiamente commentato dagli esegeti, pur se
come tutto il Libro è difficilissimo da interpretare, è verso la fine del capitolo 19:

«Pietà, pietà di me, almeno voi miei amici,


perché la mano di Dio mi ha percosso!
Perché vi accanite contro di me, come Dio,
e non siete mai sazi della mia carne?
Oh, se le mie parole si scrivessero,
se si fissassero in un libro,
fossero impresse con stilo di ferro sul piombo,
per sempre s’incidessero sulla roccia!
Io lo so che il mio Vendicatore è vivo
e che, ultimo, si ergerà sulla polvere!
Dopo che questa mia pelle sarà distrutta,
senza la mia carne, vedrò Dio.
Io lo vedrò, io stesso,
e i miei occhi lo contempleranno non da straniero» (Gb 19,21-27).
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Parole enigmatiche, anche perché le traduzioni date dagli interpreti sono diverse, e
tuttavia sono tutti d’accordo nel ritenere che esprimono un lampo di certezza, di fiducia, che
supera ogni premessa perché si appoggia su qualche cosa che è al di là di ciò che l’uomo può
intuire.

2. Nel Cantico dei Cantici ci sono lampi e slanci di ricerca analoghi.


Vorrei citare soprattutto i brani che nella Bibbia di Gerusalemme portano il titolo di
«secondo poema» e di «quarto poema».
— Parla la sposa:
«Una voce!
Il mio diletto!
Eccolo, viene
saltando per i monti,
balzando per le colline.
Somiglia il mio diletto a un capriolo
o a un cerbiatto.
Eccolo, egli sta
dietro il nostro muro;
guarda dalla finestra,
spia attraverso le inferriate.
Ora parla il mio diletto e mi dice:
“Alzati, amica mia,
mia bella, e vieni!
Perché, ecco l’inverno è passato,
è cessata la pioggia, se n’è andata;
i fiori sono apparsi nei campi,
il tempo del canto è tornato
e la voce della tortora si fa ancora sentire
nella nostra campagna.
Il fico ha messo i primi frutti
e le viti fiorite spandono fragranza.
Alzati, amica mia,
mia bella, e vieni!
O mia colomba, che stai nelle fenditure della roccia,
nei nascondigli dei dirupi,
mostrami il tuo viso,
fammi sentire la tua voce,
perché la tua voce è soave,
il tuo viso è leggiadro”» (Ct 2,8-14).

Questo richiamo e queste parole rimangono alla fine solo un desiderio:


«Sul mio letto, lungo la notte, ho cercato
l’amato del mio cuore;
l’ho cercato, ma non l’ho trovato» (3,1).

L’ansia di ricerca, tipica del Libro di Giobbe, è espressa anche nel Cantico, ma è
espressa pure la delusione. Una delusione che non si dà per vinta, che non rinuncia perché
chi cerca è mosso dall’amore, non da motivi razionali e logici.
Infatti, continua a cercare anche dopo che non ha trovato:
«Mi alzerò e farò il giro della città;
per le strade e per le piazze;
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voglio cercare l’amato del mio cuore.


L’ho cercato, ma non l’ho trovato.
Mi hanno incontrato le guardie che fanno la ronda:
“Avete visto l’amato del mio cuore?”
Da poco le avevo oltrepassate,
quando trovai l’amato del mio cuore.
Lo strinsi forte e non lo lascerò
finché non l’abbia condotto in casa di mia madre,
nella stanza della mia genitrice» (3,2-4).

La descrizione è di un gioco continuo: il diletto viene, chiama, ma non c’è incontro:


allora è invocato, sfugge, e alla fine lo si trova e lo si trattiene.

— Il quarto poema ci sorprende perché l’amato è di nuovo lontano e sempre cercato:


«Un rumore! È il mio diletto che bussa:
“Aprimi, sorella mia,
mia amica, mia colomba, perfetta mia;
perché il mio capo è bagnato di rugiada,
i miei riccioli di gocce notturne”.
Mi sono tolta la veste;
come indossarla ancora?
Mi sono lavati i piedi;
come ancora sporcarli?
Il mio diletto ha messo la mano nello spiraglio
e un fremito mi ha sconvolta.
Mi sono alzata per aprire al mio diletto
e le mie mani stillavano mirra,
fluiva mirra dalle mie dita
sulla maniglia del chiavistello.
Ho aperto allora al mio diletto,
ma il mio diletto già se n’era andato,
era scomparso.
Io venni meno, per la sua scomparsa.
L’ho cercato, ma non l’ho trovato,
l’ho chiamato,
ma non m’ha risposto» (Ct 5,2-6).

Comincia allora il lungo dialogo prima con le guardie, poi col coro e questa volta
sembra che la sposa non riesca più a trovare il diletto.
Nel corso del Cantico, tra un dialogo e l’altro, riappare il tema fondamentale: «Il mio
diletto per me e io per lui». È una parola di fiducia, pronunciata sempre in assenza dell’a-
mato, e ricorre tre volte come tutte le realtà importanti nella Bibbia:
«Il mio diletto è per me e io per lui» (Ct 2,16);
«Io sono per il mio diletto e il mio diletto per me» (6,3);
«Io sono per il mio diletto
e la sua brama è verso di me» (7,11).

Dunque, tu sei il mio Dio, noi siamo il tuo popolo; tu sei il mio popolo, io sono il tuo
Dio. Come non vedere in queste parole la formula dell’alleanza espressa in termini di
reciprocità e di intimità?
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Alleanza indistruttibile, confidenza piena, attesa, stupore, certezza assoluta, pur se


l’amato non c’è, se lo si sta cercando, se non lo si possiede ancora.
Nel Cantico dei Cantici leggiamo dunque il tema di una ricerca basata sulla
indistruttibile speranza che colui che cerchiamo c’è e ci ama, che lo troveremo; insieme, il
tema dell’ansia, della sofferenza, dell’attesa generata da questa ricerca. Il ritrovamento
susciterà sorpresa, gioia, pace, entusiasmo, e subito dopo verrà di nuovo la perdita, quindi il
desiderio, la domanda, l’implorazione.
Si ha l’impressione che venga descritto il gioco d’amore che percorre tutta l’esistenza,
in forme semplicissime: dalla forma elementare della madre che si nasconde al bambino per
dargli l’entusiasmo e la gioia del ritrovamento alla esperienza dell’autentica amicizia.
L’amore chiede assenza e presenza, nascondimento e ricerca per aumentare la sorpresa e il
gaudio.
Mi hanno colpito alcune pagine di Adrienne von Speyr. Questa mistica contemporanea,
riflettendo sul tema del gioco d’amore in ogni rapporto — amicale, sponsale, familiare,
eccetera —, lo applica al mistero della Trinità come mistero di relazione amorosa in cui vi
può essere qualcosa di simile al gioco d’amore. Perché nella Trinità non esiste piattezza
d’amore bensì dolcezza, creatività, slancio, entusiasmo. Mi pare che sia un’osservazione
molto attenta e molto profonda, se non si vuole ridurre il mistero intimo di Dio a un oceano
immobile ma lo si intende pieno di quella potenza, quel gusto dell’imprevedibile,
dell’avventura, quel continuo dinamismo che solo riesce a spiegare la creazione e il rischio
di avere un partner con cui entrare in dialogo. Dio affronta la possibilità di essere respinto
pur di entrare in un rapporto di amore autentico. Nella stessa linea si può anche capire il
desiderio del Figlio di lanciarsi nell’avventura umana, di entrare nella prova e di viverla
dall’interno per costituire così, sia nelle relazioni con l’uomo che nelle relazioni col Padre,
questa ricchezza di amore mai stanco, mai spento.

Un Dio che si nasconde


Possiamo allora intendere meglio il senso delle prove cosiddette mistiche, che sono tra
le più terribili dell’esistenza: la notte dei sensi, la notte dello spirito, la notte della fede dove
l’uomo brancola in uno stato di quasi disperazione per l’assenza del suo amore totale di cui
non può più fare a meno. Intendiamo in questi movimenti misteriosi dello spirito qualcosa
che ci permette di comprendere come, sullo sfondo del mistero di Dio, non per un sapere
puramente logico ma per un cammino di simpatia con il divino, essi hanno un senso ben
preciso. Dio si nasconde per farsi cercare e trovare; la ricerca di lui, anche se sofferta e
dolorosa, è parte del gioco d’amore, necessario passaggio a un’esperienza più vera. “Ho
cercato ma non ho trovato” sottolinea così un formidabile dinamismo della nostra
conoscenza di Dio.
In fondo, anche Giobbe può dire: Ho cercato e non ho trovato, perché non ha avuto la
risposta nella quale voleva intrappolare Dio. Ma giungerà ad affermare: «ora i miei occhi ti
vedono» mentre «prima ti conoscevo per sentito dire» (cfr. Gb 42,5), perché sono penetrato
più profondamente nel tuo mistero.
Se abbiamo il dono di vivere noi stessi o di partecipare all’esperienza di altri che
attraversano momenti di oscurità, di sofferenza, di ricerca e di amore, noi possiamo forse
intuire qualcosa di più, anche se non è logicamente dicibile, del mistero della notte e della
prova. Esso non è legato ai rigidi canoni della giustizia — «è cieco, dunque ha peccato lui o i
suoi genitori» (cfr. Gv 9,1-2) —, ma è inserito nel mistero espresso da Gesù: «perché si riveli
in lui la gloria di Dio»
Dal momento che Dio è mistero di relazionalità sorprendente e continuamente in moto,
egli si comunica nel dinamismo di una ricerca intessuta di ombre e luci, nascondimenti e
manifestazioni. Non dunque nella chiarezza logica, cristallina, cartesiana, che l’uomo sempre
vorrebbe. Non come vorrebbero i fratelli di Gesù che lo esortano a manifestarsi. Gesù si
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manifesta in relazione a quel mistero, cioè rendendosi presente e nascondendosi. Si


manifesta nei miracoli e si nasconde nell’umiliazione della croce; si manifesta nella
risurrezione, però soltanto ad alcuni intimi, e si nasconde alle grandi attese spettacolari del
suo mondo e del mondo di ogni tempo.
A noi risulterebbe certamente più facile credere a un Dio che utilizza il palcoscenico
della storia per un grande spettacolo pirotecnico.
Tuttavia il Dio della Rivelazione è di natura misteriosa; non è soltanto estensione piatta
e plateale di sé bensì ricerca, gioco, relazione continuamente rinnovata.
Per conoscerlo dobbiamo quindi cercarlo, stare al suo gioco. Chi lo vuole ridurre a una
dialettica diversa da quella che gli è propria, farà fatica a conoscerlo e ad accettarlo. Lo
accetterà con l’intelligenza, ma non si rassegnerà al fatto che non sia come lui si attende.
Occorre entrare nel gioco, «esultare come giganti» per correre questa strada, così come la
percorre il sole dall’uno all’altro estremo. Il gioco racchiude sempre la serietà di un rischio e
insieme leggerezza e gioia. Mi viene in mente l’immagine dell’ascensione di una parete di
montagna; anch’essa è fatta per gioco, non si fonda su nessun calcolo di interesse. Per questo
fa piacere, e anche perché è rischio, è timore di non farcela. Ma quando, superando le varie
difficoltà, a poco a poco si intravede la cima, scoppia nel cuore la gioia di averla conquistata,
gioia che non può provare chi la raggiunge comodamente seduto in seggiovia.
Comprendere tutto questo equivale a entrare nella conoscenza vera di Dio. La
conoscenza «per sentito dire» presenta qualche crepa; possiamo conoscerlo come
relazionalità fantasiosa, giocosa, sorprendente, creativa, possiamo conoscerlo come Trinità
d’amore solo se corriamo il rischio di arrampicarci cercando di rassomigliare al Figlio di Dio
che si è giocato nell’universo creato fino a dare la vita.

Giobbe, un poema di amore


Al termine dei nostri Esercizi e delle nostre riflessioni sul Libro di Giobbe, dobbiamo
dire che anche il problema di Giobbe è problema di amore. Un amore che si sente respinto,
ma che crede contro ogni apparenza, che batte, che grida, che urla, che soffre perché vuole
arrivare a svelare l’oggetto amato.
Nella prima meditazione introduttiva al mistero della prova, ho parlato della
scommessa fatta dal satana sull’uomo: non esiste nell’uomo amore gratuito, non esiste
un’autentica libertà capace di donarsi.
Io non so se il mio amore per Dio è veramente gratuito, e se pretendessi di saperlo
cadrei nelle difficoltà di Giobbe, mi angustierei senza fine.
So però che Dio mi prova e che porterà il mio amore attraverso le sue vie misteriose a
completa purificazione. Il problema dell’amore puro, dell’amore gratuito non è mio, è di Dio
che ha fiducia in me e che mi sa capace di un amore pari al suo.
Per quanto sta a me, devo donarmi a Dio con tutto me stesso e con tutta quella
ricchezza di gratificazioni, umane e divine, che il Signore mi fa vivere.
Toccherà a lui attirarmi a sé nella maniera che ritiene più vera e più autentica.
Del resto, e il Cantico dei Cantici lo fa intuire, l’amore vero ha in se stesso la sua
pienezza, la sua bellezza, la sua ricchezza, il suo premio; capire questo è appunto entrare
nell’amore di Dio, in quell’amore che ha il potere di non essere giustificato se non da sé.
Sono questi gli orizzonti che abbiamo intravisto e che ogni amante conosce; chi ama sa
benissimo che l’amore scaturisce dalla gratuità, pur se poi si nutre di mille gratificazioni.
Però nella sua essenza più profonda è un dono di sé incomparabile, e quindi un riflesso della
vita trinitaria.
Chiediamo al Signore di accrescere in noi il senso delle cose che viviamo per
diminuire un poco la nostra ignoranza a suo riguardo e per sentirci dire da Gesù: «Avete
perseverato con me nelle mie prove», ora mi conoscete di più, siete pronti anche a regnare
con me perché con me avete sofferto.
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Avvicinandosi il mio decimo anno di servizio episcopale provo io stesso il bisogno di


esprimere a voi e a tutti i presbiteri della Diocesi la riconoscenza più viva perché avete
perseverato con me nelle mie prove, siete stati fedeli al cammino delle prove del Vescovo
portando la vostra croce con coraggio e con fierezza.

“Signore, le nostre prove sono le tue e le tue sono le nostre. Meditando la tua beata
passione, noi vogliamo acquisire quella koinonia con le tue sofferenze che ci dà la certezza
di conoscere la forza della tua risurrezione”.

Preghiamo insieme per poter compiere questo impegnativo e meraviglioso cammino.


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UN LUMINOSO ESEMPIO
DI AMORE GRATUITO
Omelia nel venerdì della XX settimana «per annum» (Anno dispari)
Rut 1,3-8.14-16.22; Mt 22,34-40

La storia di Rut, di cui si comincia oggi la lettura nella liturgia feriale, costituisce un
intermezzo pacifico nel quadro di sangue, di guerre, di lotte, di conflitti, di crudeltà, di
infedeltà, descritto nel Libro dei Giudici.
Il racconto di Rut mostra che, anche nei periodi in cui l’uomo sembra diventare “lupo”
per l’altro, in cui gli uomini sembrano ridotti a trattarsi come belve, ci sono tuttavia degli
episodi di amore, di carità, di bontà, di gratuità. È dunque molto bello questo piccolo libro
incastonato a modo di pietra preziosa nel quadro fosco della vita feudale di Israele.
Ed è bello anche perché parla della nonna di Davide, quindi del Messia; si nomina
Betlemme, città in cui è nato Gesù. Tutto fa presagire l’intimità, la tenerezza, la gioia del
Natale.
La storia si apre con la descrizione di una grande prova sociale, politica, culturale: la
carestia e, di conseguenza, l’emigrazione con tutte le sofferenze proprie di chi è costretto ad
andare in paesi lontani. Questa sofferenza un tempo è stata vissuta da molti italiani, mentre
oggi è sperimentata da altri uomini che giungono nel nostro paese e in tutta l’Europa.
Domani andrò a Francoforte per un incontro con la città, in occasione di un centenario della
Cattedrale, e dovrò tenere una relazione sul tema della nuova civiltà multirazziale europea,
che si sta costituendo a partire dalle massicce immigrazioni dal Terzo mondo; nella sola
Germania si calcolano oggi oltre cinque milioni di immigrati, per la maggior parte turchi.
La situazione di sofferenza da parte degli emigrati caratterizza dunque ancora oggi la
situazione mondiale. Ed è una prova grande per l’uomo quella di essere sradicato dalla
propria terra, dai propri affetti, per affrontare l’insicurezza.
Il libro di Rut descrive questa prova nella quale si innesta poi una dolorosissima prova
familiare: muore Elimélech, marito di Noemi, e muoiono i due figli. È una famiglia
perseguitata dalle disgrazie, si direbbe quasi una famiglia di cui Dio si è dimenticato. Noemi
è rimasta priva di tutto, priva di speranze e di avvenire. Allora, con un gesto eroico e
gratuito, invita le due nuore moabite a salvarsi, a ritornare a casa loro, lasciandola morire nel
pianto. Noemi vuole il bene delle due donne. Proprio qui risalta maggiormente il coraggio di
Rut, una moabita, perciò una straniera per Israele e membro di un popolo inviso agli israeliti.
Moab è simbolo di gente che si rigetta, come dice il Salmo: «Moab è il catino per lavarmi»
(cfr. Sal 108,10). Ma da questo popolo viene, con Rut, un luminosissimo esempio di amore
puro, autentico, gratuito.
Rispose Rut a Noemi: «Non insistere con me perché ti abbandoni e torni indietro senza
di te; perché dove andrai tu andrò anch’io; dove ti fermerai mi fermerò; il tuo popolo sarà il
mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio; dove morirai tu morirò anch’io e vi sarò sepolta...
Così Noemi tornò con Rut, la Moabita, sua nuora, venuta dalle campagne di Moab. Esse
arrivarono a Betlemme quando si cominciava a mietere l’orzo» (Rut 1,16-17.22).
Quando leggiamo il comportamento di questa donna nella cornice della forza delle
tradizioni familiari, ancora molto vive oggi nei popoli dell’Africa per esempio, rimaniamo
sorpresi per la semplicità con cui rinuncia a tutto questo sistema di relazioni e sceglie di
andare con la suocera verso un popolo che non è suo, che non conosce e con cui non ha
legami al di fuori di quello del marito morto che quindi non può più difenderla. Pur di essere
vicino a Noemi sceglie l’insicurezza, la solitudine, il possibile disprezzo.
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Il suo gesto è totalmente gratuito, non ha ragioni; era logico tornare a casa propria,
rifarsi una vita, dimenticare l’avventura con lo straniero israelita e, invece, spinta da una
forza interiore affronta l’ignoto, rimane fedele alla memoria del marito e alla madre di lui.
«Dove andrai tu andrò anch’io; dove ti fermerai mi fermerò; il tuo popolo sarà il mio popolo
e il tuo Dio sarà il mio Dio». Risuona la formula dell’alleanza: Tu sei il mio popolo, io sono
il tuo Dio.
Rut viene attratta dal mistero dell’alleanza e vi entra con amore, con gioia, con fiducia.
E il seguito del racconto mostrerà che questo abbandono fa di lei una donna nuova, creativa,
ardente. Uscendo dalle strettoie delle tradizioni che l’avrebbero vincolata in un ruolo chiuso
nell’ambito del suo clan, ha accettato il gioco d’amore che le viene proposto, il nuovo
mistero che conosce poco e di cui però sente la meravigliosa attrattiva.
Questa donna, per la sua meravigliosa storia e poi per il matrimonio felice con Booz,
sarà inserita nella genealogia di Cristo e ogni volta che noi leggiamo l’inizio del vangelo di
Matteo ci ricordiamo di lei, della sua fedeltà, del suo amore senza ragione che trova alla fine
la pienezza della sua giustificazione.
Abbiamo meditato a lungo, nei nostri Esercizi, sul mistero della prova e dell’amore e
vogliamo chiedere ancora una volta, davanti all’effigie della Madonna addolorata, di poter
penetrare più profondamente in questo mistero.
Preghiamo molto, ora e nei giorni che verranno, gli uni per gli altri, nel desiderio che
l’amore gratuito, frutto soltanto dello Spirito santo, ci venga abbondantemente elargito per
intercessione di Maria e di tutti i santi.

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