Non siamo noi i superstiti, i testimoni veri. Noi sopravvissuti siamo una minoranza anomala oltre che esigua:
siamo quelli che, per loro prevaricazione o abilità o fortuna, non hanno toccato il fondo. Chi lo ha fatto, chi ha
visto la Gorgone, non è tornato per raccontare, o è tornato muto; ma sono loro, i sommersi, i testimoni
integrali, coloro la cui deposizione avrebbe avuto significato integrale. […]
Noi toccati dalla sorte abbiamo cercato, con maggiore o minore sapienza, di raccontare non solo il nostro
destino, ma anche quello degli altri, dei sommersi, appunto; ma è stato un discorso per conto di terzi, il
racconto di cose viste da vicino, non sperimentate in proprio. La demolizione condotta a termine, l’opera
compiuta non l’ha raccontata nessuno come nessuno è tornato mai a raccontare la propria morte. I
sommersi, anche se avessero avuto carta e penna, non avrebbero testimoniato, perché la loro morte era
cominciata prima di quella corporale.
(P. Levi, I sommersi e i salvati, cit. pp. 64-65)
Come spunto di riflessione sul tema si può leggere questo passo delle memorie scritte da
Rudolf Höss, il comandante del campo di Auschwitz, un criminale senza pietà, che rimane
allibito di fronte al comportamento di uno dei membri dei Sonderkommando (le squadre di
deportati addette a sgomberare le camere a gas, a far funzionare i forni ecc.):
Nell’estrarre i cadaveri da una camera a gas, improvvisamente uno dei Sonderkommando si arrestò, rimase
per un istante come fulminato, quindi riprese il lavoro con gli altri. Chiesi al kapo che cosa fosse successo:
disse che l’ebreo aveva scoperto tra gli altri il cadavere della moglie. Continuai ancora a osservarlo per un
certo tempo, ma non riuscii a scorgere in lui alcun atteggiamento particolare. Continuava a trascinare i suoi
cadaveri, come aveva fatto fino allora. Quando, dopo un poco, ritornai al comando, lo vidi seduto a mangiare
in mezzo agli altri, come se nulla fosse accaduto. Possedeva una capacità sovrumana di celare le proprie
emozioni, o era diventato talmente insensibile da non saper più reagire?
Che cosa dava agli ebrei del Sonderkommando la forza di assolvere giorno e notte a un compito così
orrendo? Speravano forse in un evento particolare che li salvasse dalla morte all’ultimo momento? O gli orrori
a cui avevano assistito avevano ucciso in loro la sensibilità, oppure, ancora, erano troppo deboli per farla
finita da sé e sottrarsi così a quell’“esistenza”? Li ho osservati molto a lungo e attentamente, ma non sono in
grado di dare spiegazioni sul loro comportamento.
(R. Höss, Comandante ad Auschwitz, trad. it., Einaudi, Torino 1995, pp. 134-135)
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I ‘giusti’ I cosiddetti ‘giusti’ o ‘giusti delle nazioni’, sono i non ebrei che hanno salvato
ebrei dallo sterminio e che, dopo essersi prodigati mettendo a rischio la vita per salvare
esseri umani, sono scomparsi o si sono ritirati nel silenzio della loro vita privata, dal quale
non sarebbero emersi se qualcuno dei beneficati non li avesse ritrovati.
Per illustrare questo tipo di comportamento si può fare riferimento alla frase fin troppo nota,
anche se non per questo meno significativa, pronunciata da Giorgio Perlasca al giornalista
Enrico Deaglio che gli chiedeva perché avesse messo in atto un piano al limite dell’assurdo
per salvare alcune migliaia di ebrei: «Lei, al mio posto, che cosa avrebbe fatto?»
La prima fase dello sterminio Una prima fase, dal 1933 al 1939, prevede la soluzione
ancora cauta dell’emigrazione allo scopo di rendere la Germania Judenfrei («libera da
ebrei»). L’antisemitismo prende corpo nel settembre del 1935 con le leggi di Norimberga,
che privano gli ebrei della nazionalità tedesca e, attraverso una serie di divieti, li escludono
dalla vita civile e dall’economia.
L’anno fondamentale di questa prima fase è il 1938, quando l’annessione dell’Austria alla
Germania offre un banco di prova delle misure antiebraiche che riducono gli ebrei in
condizioni di vita disumane, mentre i timidi tentativi di giungere a una soluzione
internazionale per risolvere il problema degli ebrei allontanati dalla Germania
nazionalsocialista falliscono con la conferenza di Evian del luglio 1938, in cui appare chiaro
che non vi sono Paesi disposti ad accogliere i profughi ebrei.
Nella notte tra il 9 e il 10 novembre del 1938 (Kristallnacht, «Notte dei cristalli»), con il
pretesto dell’uccisione a Parigi di un diplomatico tedesco per mano di un giovane ebreo,
viene scatenato in tutta la Germania un grande pogrom («eccidio») nel quale sono
incendiate sinagoghe, mandate in frantumi finestre e vetrine di negozi appartenenti a ebrei
e vengono assassinati un centinaio di ebrei. Subito dopo decine di migliaia di ebrei
vengono chiusi nei campi di Dachau e Sachsenhausen per indurre gli altri all’emigrazione.
Intanto le leggi razziali vengono emanate anche nei Paesi governati da regimi che
collaborano con Hitler, come Austria, Italia, Olanda.
La seconda fase La seconda fase della politica di sterminio dura dal 1939 al 1941 e ha
inizio con l’entrata in guerra della Germania nel 1939. La soluzione del problema ebraico
si orienta verso l’eliminazione fisica quando l’occupazione della Polonia e dei territori
sovietici comporta l’ingresso in questi Paesi di un elevato numero di ebrei (tre milioni nella
sola Polonia) poverissimi, per i quali vengono riprese sinistre usanze del passato, dalla
stella gialla di riconoscimento che sono obbligati a portare cucita sul vestito, alla reclusione
nei nuovi ghetti di Varsavia, Cracovia, Riga ecc.
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L’ultima fase e l’eccidio La terza fase, quella dell’eccidio vero e proprio, inizia nel 1941
con l’ingresso delle truppe tedesche in Unione Sovietica. Prima ancora che la Endlösung
(«soluzione finale») fosse definitivamente approvata e organizzata dallo stato maggiore
nazista nella Conferenza del Wannsee del 20 gennaio 1942, l’assassinio sistematico era
già stato messo in opera dalle cosiddette Einsatzgruppen («squadre speciali»). Queste
unità mobili, dipendenti dall’Ufficio centrale per la sicurezza del Reich, avanzavano in
territorio baltico e ucraino al seguito della Wehrmacht (l’esercito regolare tedesco) ed
eseguivano la fucilazione in massa di ebrei, tra l’indifferenza e talora l’accorrere curioso
delle popolazioni locali.
Con questo sistema caddero da 1 500 000 a 1 800 000 vittime, ma fu subito evidente che
la soluzione era troppo lenta e dispendiosa per essere applicata in Polonia e in Europa
occidentale, senza contare le difficoltà materiali inerenti allo smaltimento dei cadaveri e le
conseguenze psicologiche su parte degli esecutori.
Si attivarono pertanto altre tecniche, dall’eutanasia con uso di farmaci e iniezioni letali ai
Gaswagen usati a Chelmno, dove le vittime erano fatte salire su camion sigillati e poi
asfissiate con il gas di scarico, fino ad arrivare alle camere con gas Zyklon B (acido
cianidrico). Questa soluzione, destinata a prevalere per la sua economicità (le vittime erano
uccise con il gas e i cadaveri smaltiti nei forni crematori) fu praticata sia in campi di
sterminio in senso proprio, cioè destinati alla sola eliminazione, come per esempio, in
Polonia, Chelmno, Belzec, Sobibor e Treblinka, sia in campi ad attività mista, come il più
grande di tutti, il campo di Auschwitz-Birkenau, cui faceva capo una serie di sottocampi di
lavoro, per esempio quello di Buna-Monowitz (a cui fu destinato Primo Levi), nato per
produrre gomma sintetica per la ditta tedesca I.G. Farben. Altri noti campi di
concentramento e sterminio erano quelli di Dachau (nei pressi di Monaco), Mauthausen (in
Austria) e san Sabba (a Trieste).
I numeri del genocidio Il totale delle vittime della ‘soluzione finale’ si aggira intorno ai sei
milioni di persone. La stima viene fatta sottraendo il numero dei sopravvissuti a quello
della popolazione ebraica all’inizio della guerra, perché i tedeschi distrussero la
documentazione minuziosissima in loro possesso. Solo ad Auschwitz furono assassinati
almeno un milione di ebrei e ve ne furono deportati 1 100 000.
2. Le colpevolezze e le responsabilità
[Secondo capitolo della tesina: incomincia ad approfondire l’argomento indicando colpevoli
e responsabili]
Il passato che non passa Anche da questo sommario resoconto ci si accorge subito che
la Shoah non è un problema storiografico che si possa serenamente affrontare come molti
altri. Del resto, iniziative recenti – dalla decisione del parlamento italiano di celebrare una
giornata commemorativa il 27 gennaio (ricorrenza della liberazione di Auschwitz, simbolo
della Shoah, dove le truppe sovietiche entrarono il 27 gennaio 1945) alla richiesta di
perdono del Sommo Pontefice Giovanni Paolo II – dimostrano che, a distanza di oltre
mezzo secolo, lo sterminio degli ebrei continua a pesare sulla coscienza dell’Europa.
Decantate le emozioni del momento, venute alla luce le prove documentarie, quando ormai
la generazione dei testimoni oculari è prossima a scomparire per ragioni anagrafiche,
ritorna più angosciante la domanda: come è potuto accadere? Di chi furono le colpe e le
responsabilità?
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Il processo di Norimberga Il processo di Norimberga dal novembre 1945 all’ottobre 1946
sottopose a giudizio ventidue capi e responsabili del Terzo Reich per complotto, crimini di
guerra, delitti contro la pace e crimini contro l’umanità. Benché gli imputati si dichiarassero
non colpevoli per aver semplicemente eseguito degli ordini, furono inflitte dodici
condanne a morte oltre ad alcuni ergastoli e a pene di varia entità.
Ma la questione è ben lontana dall’essere chiusa.
In primo luogo il processo stesso venne contestato con la ragione che ai vincitori non
sarebbe stato lecito giudicare i vinti; inoltre si erano perse le tracce di molti criminali nazisti,
primo fra tutti il ‘ragioniere’ della morte Adolf Eichmann, colui che aveva fatto funzionare
con perfetta puntualità la macchina dello sterminio e che fu poi catturato nel 1960 in
Argentina, processato a Gerusalemme e impiccato nel maggio del 1962.
C’è da aggiungere che le colpe dei principali carnefici erano solo l’ultimo anello di una
catena di responsabilità assai più diffuse, da ripartire tra tutti i membri del complesso
apparato organizzativo dello sterminio: in primo luogo le SS (Schutzstaffel, «squadroni di
protezione», cioè gli esecutori materiali dello sterminio), che deliberatamente avevano
scelto di farsi esecutori diretti del crimine, ma anche i funzionari che organizzavano il
trasporto dei deportati, gli industriali della I.G. Farben, della Siemens, della Krupp che
sfruttavano i deportati come forza lavoro a costo irrisorio, e via via le ditte che fornivano i
forni crematori, i civili che operavano nei campi di sterminio, la popolazione ordinaria, che,
pur non accedendo ai campi, vedeva passare i treni carichi di detenuti e poi ritornare vuoti.
E tutti fingevano di ignorare quello che stava succedendo.
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Perché i comandi militari di Washington e di Londra non presero la decisione di
bombardare la rampa ferroviaria o almeno tratti della ferrovia su cui passavano i convogli
diretti ad Auschwitz? Certo, la linea sarebbe stata ben presto ripristinata, ma ai deportati
sarebbe giunto almeno un segnale di solidarietà e agli aguzzini sarebbe stato dimostrato
che il mondo sapeva e che alla fine della guerra avrebbero dovuto rendere conto del loro
operato.
In realtà, tutti sapevano tutto almeno dal novembre 1942, da quando Jan Karski, corriere
del governo polacco in esilio, durante una missione da Varsavia a Londra e negli Stati
Uniti, aveva consegnato appelli e richieste e aveva raccontato ad alti dignitari alleati –
compresi il presidente Roosevelt, dirigenti ebrei e giornalisti – le cose incredibili che aveva
visto nel ghetto di Varsavia e nel campo di Belzec. Ma ciascuno aveva le proprie ragioni
per fare finta di nulla: il Congresso ebraico mondiale temeva ritorni di antisemitismo; il
padre fondatore di Israele Ben Gurion pensava al dopoguerra e al futuro stato; il primo
ministro britannico Churchill e il presidente statunitense Roosevelt pensavano a vincere la
guerra: per loro la tragedia degli ebrei era un problema secondario.
La Croce Rossa internazionale sapeva tutto dei campi nazisti: inviò aiuti, ma i vertici
evitarono prese di posizione.
E così si preferì il silenzio alla denuncia, al soccorso, all’azione, lasciando mano libera a
Hitler. Ma quante vite umane sarebbero state salvate se almeno fossero state avvertite per
tempo dell’atroce destino che per loro si preparava?
Tesi contrapposte Nella più recente storiografia del genocidio si distinguono due tesi
fondamentali. Secondo Daniel Goldhagen, responsabili dell’eccidio non furono solo le SS,
ma i tedeschi di ogni condizione ed estrazione sociale, che brutalizzarono gli ebrei per
libera scelta sulla scorta dell’antisemitismo secolare che assimilava queste vittime a una
forza demoniaca da eliminare.
Secondo Christopher R. Browning, invece, la responsabilità della Shoah non deve essere
attribuita a una particolare predisposizione alla ferocia del popolo tedesco, ma a un
meccanismo di abdicazione collettiva delle responsabilità da parte di uomini comuni.
Come succede quando due tesi nascono opposte e in polemica, è difficile che la verità stia
da una parte sola: certo, si potrebbe opporre alla visione di Browning che il perfetto
funzionamento della macchina dello sterminio presupponeva almeno una notevole
dedizione, a monte della quale c’erano la convinzione di essere nel giusto e il gusto di fare
ciò che si faceva. Goldhagen insiste molto, anche con idonea documentazione fotografica,
sul fatto che molti dei tedeschi coinvolti in atti violenti si compiacessero dell’ordinaria
crudeltà e, per una sorta di deformazione sadica, provassero divertimento nelle loro azioni
persecutorie. In opposizione, Browning cita confessioni o dichiarazioni in cui uomini
coinvolti nelle stragi come esecutori hanno momenti di ripensamento oppure si esimono dal
partecipare ad azioni giudicate ripugnanti.
Zygmunt Bauman, infine, individua un ulteriore elemento nel carattere
deresponsabilizzante della civiltà tecnocratica, per il quale ogni individuo che costituisce
un ingranaggio nella macchina della distruzione diviene moralmente indifferente di fronte
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alle azioni che superano la sua esperienza e non si chiede quale siano il senso e lo scopo
di ciò che sta facendo.
Ma ogni tentativo di spiegazione coglie determinati aspetti senza mai essere del tutto
esauriente. È certamente nel giusto Gadi Luzzatto Voghera, quando rileva la sproporzione
fra la grande complessità e dispendiosità della ‘soluzione finale’ rispetto a uno scopo che –
da qualsiasi lato lo si osservi – appare irrazionale e assurdo. Non è facile dire perché una
nazione impegnata in una durissima guerra di conquista, in un periodo pieno di difficoltà
come quello dal 1943 al 1945, abbia sottratto uomini e mezzi all’attività bellica per
deportare da tutta Europa una popolazione civile imbelle e scarsamente minacciosa.
Centinaia di migliaia di anziani, donne, bambini, vennero fatti viaggiare per giorni
occupando linee ferroviarie e una grande quantità di personale militare e civile, solo per
giungere in campi dove venivano avviati alle camere a gas e ai forni crematori.
Sicuramente in tutto questo giocò un ruolo determinante la componente mistica
dell’antisemitismo nazista, congiunta con alcuni pregiudizi antiebraici privi di fondamento
(il complotto ebraico ai danni dell’Occidente, il controllo dell’economia tedesca da parte
degli ebrei, la necessità di trovare uno ‘spazio vitale’ per i tedeschi) e con fobie personali di
Hitler (riteneva che sua madre fosse morta per colpa di un medico ebreo, sospettava di
avere un nonno ebreo).
La menzogna della razza La teoria razzista, peraltro, così come era formulata nel Saggio
sulla ineguaglianza delle razze umane del conte Joseph-Arthur de Gobineau (1853-1855),
conferiva una dimensione antropologica alla dottrina linguistica che distingueva un ceppo
indoeuropeo da un ceppo semitico, ma non implicava un decisa connotazione antisemita.
Essa infatti non era stata concepita contro gli ebrei, ma come supporto teorico
all’imperialismo ottocentesco, che aveva la necessità di motivare la colonizzazione in Africa
e in Asia in nome della superiorità razziale degli europei.
Fu Houston Stewart Chamberlain (un tedesco di origine inglese, da non confondere con il
primo ministro britannico) a teorizzare una razza ebraica opposta a quella ariana europea
e non mancò poi chi si diede pensiero di individuarne i tratti somatici (naso adunco,
orecchie sporgenti, piede piatto ecc.) e quelli comportamentali (gli ebrei erano usurai,
sudici, nevrotici, corpi estranei annidati nel popolo europeo). Si preparava così il terreno
alle violenze antisemite – fisiche o verbali e morali – che coinvolsero buona parte degli stati
europei a cavallo del secolo, per poi riprendere con virulenza dopo la prima guerra
mondiale, quando la rivoluzione russa del 1917 e i tentativi rivoluzionari in Germania e in
Ungheria rinvigorivano la teoria del complotto ebraico per rovesciare l’Occidente.
A questo punto il pregiudizio antisemita era abbastanza consolidato da fornire al Mein
Kampf di Hitler la base ideologica atta ad alimentare quella che Luzzatto Voghera chiama
«la componente mistica» dell’antisemitismo hitleriano.
In realtà non si può parlare di una razza ebraica omogenea né esistono caratteri
somatici comuni: quelli abitualmente ritenuti i tratti distintivi (naso curvo, capelli crespi,
colorito scuro ecc.) non sono esclusivi degli ebrei e compaiono anche in altre popolazioni
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mediterranee. L’origine di questo popolo (il cui nome la Bibbia fa derivare da Eber, un
antenato del patriarca Abramo, ma che secondo gli studiosi risale al termine habiru,
propriamente «predoni») si radica in gruppi di tribù nomadi attestate nel Vicino Oriente siro-
arabico dal secolo XX al XII a.C., nelle quali confluirono elementi etnici compositi (semiti,
hurriti, fuorusciti di varia provenienza ecc.).
L’invenzione di una razza ebraica risale dunque alle teorie ottocentesche e trova oggi
credito solo presso l’antisemitismo neonazista.
Il caso della Danimarca Nel 1940 l’esercito tedesco occupava il Regno di Danimarca. A
causa delle caratteristiche somatiche ariane, che gli alti e biondi danesi possedevano in
misura largamente superiore ai nazisti Hitler e Himmler (bassi di statura e neri di capelli)
ma anche della inconsistenza militare danese, i tedeschi accordarono una insolita
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autonomia a questo Paese. Lasciarono in piedi un governo nazionale, un Parlamento, un
Ministero degli Esteri e un esercito.
Ma la burocrazia nazista dello sterminio, capeggiata da uno ‘specialista’ dello sterminio
come Eichmann, non si dimenticò dei 6500 ebrei danesi.
Inizialmente vennero assunti provvedimenti discriminatori verso le imprese danesi di
proprietà ebrea; successivamente, nel 1942 si arrivò a escludere gli ebrei dalla vita
pubblica e dalla vita economica, pena l’arresto.
La situazione precipitò drasticamente nell’agosto del 1943, quando si diede inizio alla
persecuzione vera e propria, visto che anche il direttore del Ministero degli Esteri danese,
che pure si era adoperato in ogni modo per proteggere i cittadini ebrei, non riuscì a fermare
l’iniziativa tedesca di acquisizione dei dati relativi a tutti gli ebrei presenti nel Paese.
All’inizio di ottobre partirono le prime retate che, contrastate dagli sforzi della burocrazia
danese e in questo caso boicottate anche dalla Wehrmacht, non diedero i risultati sperati.
Dei 6000 ebrei che avrebbero dovuto essere deportati con navi e convogli, ne furono in
realtà rastrellati e trasferiti meno di 500. Gli altri, avvisati per tempo dalla solerte rete
informativa danese, riuscirono a nascondersi grazie all’aiuto della popolazione danese e
del governo svedese. Il fisico Niels Bohr fu tra i primi a raggiungere via mare il Paese
scandinavo, dove incontrò il ministro degli esteri e il re, e ottenne una pubblica denuncia di
quanto stava avvenendo e la disponibilità all’accoglienza degli altri profughi.
Il comportamento della Spagna La Spagna fu uno dei Paesi europei in cui il salvataggio
degli ebrei fu superiore a quello delle democrazie antihitleriane. Si sarebbe portati a
pensare che questo Paese, soggetto alla dittatura di Franco, si sarebbe comportato come
l’Italia di Mussolini e avrebbe avuto leggi razziali altrettanto dure. Invece non fu così.
Alleato di Hitler e Mussolini che lo avevano aiutato a prendere il potere, al termine della
guerra civile, nel giugno del 1940, Franco dichiarò la Spagna ‘non belligerante’ e per tutta
la durata della guerra assicurò a Hitler il proprio appoggio, ma rifiutò di prendere parte alle
azioni militari, benché venissero richieste da Berlino con sempre maggiore insistenza.
Anche sulla questione ebraica Franco si mantenne indipendente dai suoi amici, anzi favorì
in ogni modo le operazioni di salvataggio facendo fuggire circa 45 000 ebrei non solo
spagnoli, ma anche giunti da altri Paesi europei (Francia, Romania, Ungheria, Grecia),
attraverso la via dei Pirenei e poi facendoli imbarcare a Lisbona alla volta dei Paesi alleati.
Nel dopoguerra non si è parlato molto del rapporto tra Franco e gli ebrei europei: nell’unica
intervista su questo tema il Generalissimo si limitò a confermare le cifre e spiegò
laconicamente il suo atteggiamento come un «elementare senso di giustizia e carità
cristiana». Alcuni storici hanno messo in luce altre possibili ragioni, tra cui l'intuizione
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dell’esito finale della guerra, l’intenzione di ristabilire contatti politici e commerciali con gli
ebrei del Mediterraneo, la volontà di Franco di avere un posto nobile nella storia e una sua
possibile ascendenza ebraica.
Indipendentemente da quelle che possono essere state per Franco le ragioni del suo
atteggiamento, esso dimostra che un Paese alleato della Germania non necessariamente
doveva adottare i medesimi provvedimenti. E questo è un argomento di condanna per
l’Italia, per Mussolini e per Vittorio Emanuele III, che nel 1938 firmò leggi razziali di
estremo rigore e le mantenne anche dopo la caduta del fascismo l’8 settembre 1943. Dei
circa 330 000 ebrei italiani ne furono deportati quasi 8000, dei quali fece ritorno meno del
dieci per cento.
La voce dei ‘sommersi’ Proprio nel cuore della Shoah porta il libro intitolato La voce dei
sommersi (Marsilio, Padova 1999), che è la traduzione italiana della pubblicazione, fatta
nel 1996 dal Museo di Auschwitz, di alcuni manoscritti di membri dei Sonderkommando di
Auschwitz, da loro nascosti in recipienti improvvisati e tornati alla luce durante scavi nel
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terreno presso i crematori. Gli appunti e i resoconti lasciati da questi disgraziati, costretti a
farsi collaboratori del crimine (sgomberare le camere a gas, far funzionare i forni, strappare
i denti d’oro ai cadaveri ecc.) e destinati a essere a loro volta eliminati, sono una
testimonianza sconvolgente, la voce di Caino costretto a uccidere il proprio fratello.
Come ripete con insistenza Primo Levi, era assillante nei detenuti del Lager l’idea che delle
atrocità che ogni giorno subivano non sarebbe giunta notizia ai posteri perché i tedeschi ne
avrebbero cancellate le prove. Per questo alcuni ebrei trovarono la forza di affidare a
pagine improvvisate di taccuini di fortuna l’esperienza dello sterminio. Ma, in quanto
membri delle squadre speciali, questi miserabili erano anche preoccupati all’idea che sopra
di loro potesse ricadere una parte di colpa.
Dopo anni di silenzio, questi documenti sono oggi tanto più importanti in un’epoca in cui si
allarga di giorno in giorno il cosiddetto ‘revisionismo’, cioè la tendenza a ridimensionare,
sminuire, talora addirittura negare il crimine che grava sul passato prossimo dell’Europa
civile e in particolare della Germania.
La rivolta dei Sonderkommando di Auschwitz il 7 ottobre 1944 Tra gli ebrei addetti al
Sonderkommando c’era una cellula di resistenza interna le cui attività andavano
dall’approvvigionamento di cibo e medicinali alla documentazione dei crimini
all’organizzazione di fughe e sabotaggi. In vista della liquidazione totale del campo, che
avrebbe comportato anche l’eliminazione delle squadre speciali, si cercò di organizzare
una rivolta che avrebbe permesso ai prigionieri di fuggire. In realtà, questo progetto non fu
messo in atto perché molti, soprattutto polacchi e sovietici che erano i più attivi nelle file
della resistenza, furono trasferiti in altri campi. Inoltre, il movimento di resistenza polacco
riteneva che un'insurrezione generale avrebbe avuto poche possibilità di successo a causa
del numero enorme di internati.
Ci furono però, nel corso della storia del Lager, rivolte di singole parti del campo. La più
estesa fu organizzata il 7 ottobre dagli ebrei dei Sonderkommando. Essi erano
continuamente sotto minaccia di morte: per il terribile lavoro che erano costretti a compiere,
sapevano che i tedeschi li avrebbero eliminati in quanto testimoni dello sterminio. Quando
l’attività delle camere a gas cominciò a diminuire e fu chiaro che il pericolo era per loro
imminente, decisero di rischiare la vita e prepararono i piani per una insurrezione:
avrebbero dovuto far saltare i crematori, incendiare le baracche, recidere il filo spinato per
aprirsi una via di fuga. Il segnale sarebbe stato l'incendio del crematorio IV. Così avvenne.
Nel crematorio Il i ribelli riuscirono a uccidere i tedeschi, a raggiungere il cortile e, dopo
aver aperto una breccia nel filo spinato, a fuggire. Ma le SS ripresero quasi subito il
controllo della situazione: i membri dei Sonderkommando ancora nel campo vennero
uccisi, mentre i fuggiaschi, allontanatisi di poco, vennero arsi vivi nel fienile dove avevano
trovato rifugio. Alla fine, i tedeschi contarono solo tre morti; i quattrocento ribelli morirono
quasi tutti.
Lo sfortunato tentativo dei Sonderkommando di Auschwitz dimostra che gli ebrei non
accettarono passivamente la segregazione e le terribili condizioni in cui erano costretti a
vivere nel Lager: certo, la loro lotta si rivelò fin dall'inizio impari e le possibilità di successo
della rivolta erano oggettivamente molto scarse. Fuggire da Auschwitz era molto difficile; il
campo era ben sorvegliato: oltre al recinto vero e proprio c'era una zona di isolamento di
circa 40 chilometri e le zone limitrofe al campo erano abitate o dalle famiglie delle SS o da
coloni tedeschi insediati nelle fattorie dei polacchi sfrattati.
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4.3 I ‘giusti delle nazioni’ e i benemeriti della Shoah
Raoul Wallenberg Nella tenebra della Shoah, accanto a zone grigie c’è anche qualche
fascio di luce: ci si limita qui ai due nomi dello svedese Raoul Wallenberg e dell’italiano
Giorgio Perlasca.
Diplomatico di professione, inviato speciale del re di Svezia su richiesta del governo degli
Stati Uniti e di altri Paesi, Wallenberg opera a Budapest dal luglio del 1944 fino all’entrata
in città dell’Armata Rossa nel gennaio 1945, salvando decine di migliaia di ebrei
ungheresi con ogni mezzo possibile.
Nel 1945 sparisce dall’Ungheria dopo l’arrivo dei liberatori sovietici. Nei decenni sono state
avanzate diverse ipotesi sulla sua fine, compresa quella – sostenuta dai suoi familiari – che
egli sia ancora vivo e prigioniero nella ex Unione Sovietica.
La versione ufficiale, data nel 1987 dalle autorità di Mosca che fino a quel momento
avevano sempre negato di avere notizie di Wallenberg, è che egli morì nel luglio 1947 nella
prigione del KGB per collasso cardiaco: il suo arresto e la detenzione venivano spiegati
come un tragico errore dovuto alla confusione di quei giorni di guerra.
Nel gennaio 2001, sui mezzi d’informazione si diffuse notizia dei risultati delle indagini di
una commissione russo-svedese, secondo la quale non ci sarebbero dati certi della morte
di Wallenberg e, al contrario, ci sarebbero testimonianze che lo descrivono in vita dopo il
1947. Secondo un ex ufficiale del KGB, egli sarebbe morto in carcere nel 1992.
Subito la notizia destò interventi polemici e in particolare il sospetto che in realtà si
cercasse di coprire questa morte scomoda. Qualcuno pensa che Wallenberg potesse avere
le prove dei crimini sovietici, delle loro persecuzioni anti-ebraiche, come pure la prova che
l’esercito sovietico non volle intervenire nel ghetto di Varsavia ribellatosi ai nazisti e che
lasciò massacrare la resistenza antinazista.
In effetti, non si spiega come mai l’ex Unione Sovietica non abbia fornito prove né
dell’arresto né del processo né della condanna subita da Wallenberg, tanto più che non si
trattava di un qualsiasi prigioniero, ma di un diplomatico svedese protetto da immunità.
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residenti a Berlino; morì a Padova nel 1992, qualche anno dopo che Israele gli aveva
attribuito il riconoscimento di ‘giusto delle nazioni’ (così sono chiamati i non ebrei che
hanno salvato ebrei dallo sterminio) e lo aveva invitato a piantare un albero nella Strada
dei Giusti sul monte della Rimembranza a Gerusalemme.
La sua vicenda è stata resa nota dal libro di Deaglio, La banalità del bene (Feltrinelli,
Milano 1991), e ora anche dal film RAI di Alberto Negrin, Perlasca. Un eroe italiano (2002).
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