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L'ERA DEL TESTIMONE

Testimoniare un mondo sepolto;

''Scrivevamo tutti, i giornalisti e gli scrittori, ma anche gli insegnati, i giovani e persino i
bimbi. La maggior parte teneva diari nei quali i trafici avvenimenti di ogni giorno si
riflettevano attraverso il prisma dell'esperienza personale. ''
Mentre il genocidio era in corso, l'intuizione della necessità di rendere testimonianza,
affinchè un giorno si potesse scriverne la Storia, è stata un'intuizione degli storici, da Simon
Doubnova a Ignacy Schiper. Quest'ultimo, assassinato a Majdanek, affermò che tutto
dipende da coloro che trasmetteranno il testamento alle future generazioni, da coloro che
scriveranno la storia di quest'epoca. La storia viene scritta dai vincitori. Tutto ciò che si sa
dei popoli assassinati è ciò che i loro assassini hanno voluto far sapere. Se gli assassini del
genocidio vinceranno, se saranno loro a scrivere la storia di questa guerra, allora il nostro
sterminio sarà presentato come una delle più belle pagine della storia mondiale. Essi
possono anche decidere di cancellare le vittime dalla memoria del mondo, come se non
fossero mai esistite. Queste riflessioni sono contemporanee ai discorsi di Himmler (tedesco),
come il discorso pronunciato dinanzi ai Reichsleiter e ai Gauleiter a Posen nel 1943. Ci si
pose la domanda: che ne facciamo delle donne e dei bambini? In questo caso, si è deciso per
una soluzione chiara. Non si ritenne giusto sterminare gli uomini e lasciare crescere i
bambini che potranno vendicarsi sui figli e nipoti dei responsabili. Così, si dovette prendere
la difficile decisione di far scomparire questo popolo dalla terra. Del popolo ebraico rimarrà
soltanto qualche resto, tra coloro che hanno trovato rifugio. Ora siete al corrente, disse
Himmler durante il suo discorso, e dovete tenere tutto questo per voi portando questo
segreto con voi nella tomba. Se Himmler esprime il timore di una vendetta da parte degli
ebrei, timore che gli serve per giustificare l'assassinio dei bambini, esso non pensa mai alla
possibilità che essi possano scrivere la pagina di questa storia. Ma su questo punto si è
sbagliato. Tom Segev racconta quale fu il piano di vendetta di Abba Kovner, una grande
figura della resistenza del ghetto di Vilna, l'uomo a cui si attribuisce la redazione del primo
volantino che esorta gli ebrei a non lasciarsi condurre come pecore al macello. Questo
combattente arrivò in Palestina con un piano per avvelenare l'acqua potabile di alcune
grandi città tedesche. Ma se la vendetta non era la centro delle preoccupazioni dell'insieme
dei sopravvissuti, ben presto, cioè non appena ebbero realizzato l'enormità degli eventi, le
vittime furono consapevoli di essere le uniche in grado di scrivere questa pagina della storia
e di svelare al mondo ciò che esse chiamavano l'Hurbn, la distruzione. Schiper afferma che
se saranno le vittime a scrivere la storia di questo periodo di lacrime e di sangue, quasi
nessuno crederà ai loro racconti. Schiper in questa affermazione lascia intravedera una
capacità di preveggenza: il mondo non vorrà sapere nulla di questo disastro. Il progetto
nazista, così come è stato annunciato nel 1943 da Himmler, può essere enunciato in questo
modo: cancellare un popola dalla memoria e dalla storia del mondo. I dottori Soifer, in
yiddish significa scriba, che si rendono conto di star perdendo il loro popolo ripongono la
loro ultima speranza nella scrittura. Quando un popolo è morto e non ha più presente, in
quale modo può scrivere la propria storia? La scrittura della storia non può essere realizzata
senza le ''testimonianze'', e cioè senza delle tracce costituite in gran parte dagli archivi, che
permettano questa scrittura. Ma la storia non può essere scritta nemmeno senza gli storici, e
cioè senza quegli uomini e quelle donne che, dal presente della loro esistenza, dallo loro
esperienza di vita, cercano di comprendere e di mettere in forma di racconto questa
conoscenza al fine di trasmetterla, interrogano il passato a partire dalle tracce che tale
passato ha lasciato. Le tracce di coloro che perirono nel genocidio non mancano. In vari
luoghi, esse furono raccolte, e gli archivi più ricchi sono quelli del ghetto di Varsavia e di
Lodz. La storia degli archivi del ghetto di Varsavia è nota grazia ad un romanzo che fu un
best-seller dapprima oltreoceano e poi in Francia, La Muraglia di John Hersey, e il cui
protagonista, Noach Levinson, è stato ispirato dalla figura di Emmanuel Ringelblum, uno
storico polacco di origine ebraica vittima dell'Olocausto. Nel 1927, all'Università di
Varsavia, aveva discusso una tesi sugli ebrei di Varsavia nel Medioevo. Nel 1930 aveva
accettato di lavorare per il Joint Distribution Committee, la grande organizzazione ebraica
americana di soccorsi agli ebrei di tutto il mondo creata durante la guerra del '14-18. Nel
1938, il Joint l'aveva inviato in missione nel campo di Zbazsyn in cui erano internati circa
seimila ebrei polacchi. Trascorse lì cinque settimane che lo segnarono profondamente.
L'idea di creare degli archivi cominciò a delinearsi in lui dai primi mesi dell'occupazione
tedesca di Varsavia. Aiutato da un piccolo gruppo di amici, iniziò a raccogliere
testimonianze e rapporti tra i numerosi ebrei che allora si rifugiavano a Varsavia. Aveva la
coscienza che stava accadendo qualcosa di inedito nella storia. Il suo gruppo aumentò,
raggiunto da scrittori e giornalisti, e costituì una vera e propria organizzazione di resistenza
senza pari, che essi chiamarono Oneg Shabbat, Gioia dello Shabbat, perchè si riuniva il
sabato. Tale organizzazione raccolse documenti di vario genere: tracce della vita culturale
all'interno del ghetto, decreti delle autorità naziste, verbali delle riunioni dello Judenrat, il
consiglio ebraico che amministrava il ghetto, ecc. Tali archivi furono sotterrati in diversi
luoghi del ghetto, nei bidoni del latte o all'interno di casse metalliche. Ma dopo la
repressione dell'insurrezione del ghetto di Varsavia, nel 1943, tutto fu raso al suolo. Nello
spiriti dei nazisti, non solo gli ebrei dovevano scomparire, ma dovevano essere cancellati
anche i luoghi in cui essi avevano vissuto. Il ghetto si era trasformato in un deserto di pietre.
Per ritrovare gli archivi, è stato necessario ricorrere a degli ''scavi archeologici''. Due archivi
sono stati ritrovati e si trovano ora all'Istituti storico ebraico di Varsavia di cui costituiscono
il 60% dei fondi.
A Lodz, il ghetto fu creato molto presto e fu uno degli ultimi ad essere liquidato nel 1944.
L'archiviazione sistematica fu organizzata al suo interno dallo stesso Judenrat,
l'amministrazione ebraica del ghetto. Il 17 novembre 1940, il presidente del Consiglio
ebraico di Lodz fonda il dipartimento degli archivi simili a quelli esistenti nelle normali
amministrazioni e la cui esistenza ufficiale era nota ai tedeschi. Tuttavia, alcuni archivi,
vengono tenuti nascosti. Il principio che spinge a creare l'archivio viene enunciato con molta
chiarezza: ''Permettere ai futuri ricercatori di studiare la vita della società ebraica durante
uno dei suoi periodi più difficili''. Josef Klemenynowsky, accettando di lavorare per gli
archivi e di esserne il primo direttore, riconosce ad essi piena autorità nel raccogliere il
materiale proveniente da tutti i dipartimenti dell'amministrazione ebraica. E concede loro
l'autorizzazione di procedere alle interviste di tutti i rappresentanti delle diverse
amministrazioni, di conservarle in forma scritta. Gli archivi riescono così a raccogliere
diversi materiali provenienti tanto dall'amministrazione tedesca del ghetto che da quella
ebraica. Nello stesso tempo, gli archivisti tentano una prima scrittura della storia,
intraprendendo la redazione di alcune monografie. In questo caso il lavoro viene diviso in
grandi temi: storia del ghetto, problemi economici, religione e cultura. Due di queste
monografie sono interessanti perchè esse si basano su documenti che risalgono al primo
periodo dell'occupazione tedesca di Lodz, quando gli archivi non esistevano ancora. La
prima, tratta della storia degli ebrei di Lodz. La seconda concerne la storia di Lodz. Essa si
conclude con una sorta di dizionario biografico delle personalità ebraiche del ghetto, con
diverse informazioni sulla sua amministrazione. È negli archivi che nasce la Cronaca del
ghetto di Lodz, scritta collettivamente. L'ideatore di tale iniziativa è Julian Cukier, è
attorniato da dieci collaboratori. Gli uomini che redigono la Cronaca e che lavorano
all'archivio sono funzionari del Consiglio ebraico del ghetto. Come gli altri funzionari
ricevono un supplemento di cibo, il che non significa che non soffrano la fame sino a
morire. I cronisti hanno condiviso la stessa sorte di tutti gli altri abitanti del ghetto di Lodz:
la morte nel ghetto o nella deportazione, nei centri di sterminio di Chelmno o di Auschwitz.
La prima parte della cronaca, quella che va dal 1941 al 1942, è scritta in polacco, l'ultima
dal 1942 al 1944 è stata redatta in tedesco. Tuttavia, la Cronaca mantiene una certa unità.
Ogni bollettino, qualsiasi sia la lingua in cui è scritto, presenta le stesse rubriche, anceh se
esse non appaiono quotidianamente, indicate con dei sottotitoli: il tempo che fa nel ghetto,
le nascite e i decessi e, nella parte redatta in tedesco, il numero preciso della popolazione del
ghetto, le persone uccise vicino al fino spinato che circonda il ghetto, i suicidi, la salute
pubblica e le malattie, le direttive tedesche, le attività culturali e religiose. Ma c'è anche una
rubrica che si intitola ''voci''. Le voci e le dicerie pullulano nel ghetto e in tutte le
testimonianze vi è la loro eco. Alcune voci vengono espressamente diffuse dai tedeschi, ma
altre nascono spontaneamente. Le dicerie occupano un posto centrale nell'opera di Jurek
Becker, bambino nel ghetto di Lodz, sopravvissuto e installatosi nella Germania dell'est nel
dopoguerra, che scriverà un romanzo basato proprio su di esse, Jakob il bugiardo. Il suo
eroe, Jakob, viene portato al comando di Polizia, dove gli capita di sentire un'informazione
radiofonica che lo sconvolge. Ma dal momento che la sua storia, ossia il fatto di essere
uscito vivo dal comando di polizia, è del tutto incredibile, inventa di possedere una radio e
che le notizia siano tutte positive. Nel ghetto di Lodz e di Varsavia, anche nella realtà le
false notizia hanno la funzione di rassicurare. Illudono, permettono di sognare una possibile
liberazione. E riescono così a mettere a tacere il sentimento di essere al di fuori del mondo,
abbandonati da tutti. Oltre agli archivi dei ghetti, ci sono anche i diari, le cronache
individuali, e i racconti pensati come libri dai loro autori. L'Istituto storico ebraico di
Varsavia ne ha catalogato 321, ritrovati tra le rovine, consegnati all'Istituo dai sopravvissuti
o portati da coloro che li avevano ritrovati. Ma molti altri scomparvero con i loro autori.
Dopo ogni deportazione quando i vicoli dei ghetti erano carichi di sangue e gli alloggi
attraversati dal vuoto creato dall'assenza di migliaia di persone strappate dalle loro
abitazioni, le truppe tedesche confiscavano i mobili e i beni abbandonati. Sui marciapiedi si
trovavano allora i resti di ciò che era stato saccheggiato, tra i quali spiccavano talvolta dei
fogli zeppi di scrittura. Trovati nei cassetti e nei nascondigli più svariati dai soldati, furono
gettati lungo le strade, destinati a scomparire. Probabilmente è questo il modo in cui
scomparvero i numerosi scritti. Michel Borwicz, uno dei pionieri dello studio delle
testimonianze, osserva che la grande voga degli scritto del ghetto e il mutare del loro
contenuto, coincidono con la svolta che si viene a creare nella coscienza collettiva a partire
dal 1942. Sino al 1942, infatti, si continuava a credere nell'imminente sconfitta della
Germania. Si riteneva dunque possibile e probabile che un certo numero di vittime si
sarebbe salvato. Ma allorchè iniziarono le grandi deportazioni dai ghetti verso i centri di
sterminio, la credenza nell'imminente sconfitta nazista non venne meno, ma essa fu
affiancata dalla consapevolezza della fine degli ultimi ebrei sopravvissuti. A tale proposito
Borwicz affermava che non sarebbe rimasta alcun erede e nessuna memoria. La scrittura
diventa allora il bisogno vitale di conservare la traccia di eventi e di assicurarsi
l'immortalità. Anche le vie attraverso cui questi scritti sono giunti sino a noi appartengono
alla storia della testimonianza. Ad esempio il Livre retrouvè, è un libro salvato, e racconta
che due polacchi di Lodz consegnarono all'Istituto ebraico di Varsavia una bottiglia sigillata
che conteneva dei fogli scritti in alfabeto ebraico. Nascosta sotto un gradino, la bottiglia era
stata ritrovata a Radom, mentre si stava ricostruendo una casa. Nella bottiglia c'erano strisce
di carta ben arrotolate, numerate e scritte in yiddish, a volte con una scrittura talmente
minuscola da risultare quasi illegibile. Lo scritto riportava la storia degli ebrei di Plock, a
partire dall'inizio dell'occupazione tedesca sino alla liquidazione del ghetto. Alcuni
documenti, sebbene fossero conosciuti e archiviati, sono stati pubblicati solo molto tardi, per
ragioni ideologiche o di convenienza. L'opera di Calel Perechodnik, intitolata ''Sono un
assassino?'' ebbe un destino analogo. Calel Perechodnik era stato un poliziotto nel ghetto di
Otwock, una piccola città di villeggiatura a pochi chilometri da Varsavia. Sfuggì alla
liquidazione del ghetto, nel corso della quale furono deportate la moglie e il figlio di due
anni. Dopo diverse peregrinazioni, rgli si nascose nella Varsavia ariana, e nel suo
nascondiglio scrisse la sua opera. Egli perì nell'insurrezione di Varsavia dell'agosto del
1944. Ma aveva affidato il suo manoscritto ad un amico polacco che lo diede a sua volta al
fratello. Una copia del manoscritto fu depositata all'Istituto di storia ebraica di Varsavia,
accessibile a tutti. Ma è solo nel 1993 che uno storico polacco ha pubblicato questo
documento. L'acuità psicologica, l'estrema lucidità che confina con la crudezza e rende la
lettura dell'opera sopportabile sono rese possibili dalla certezza dell'autore che egli non
sarebbe sopravvissuto. La morte ineluttabile l'autorizza a rendere pubblici dei sentimenti o
delle analisi che avrebbero celato nel caso in cui fosse ritornato nella comunità di esseri
umani. Questi scritti hanno un punto in comune: sono memorie dell'oltretomba. Tra di essi
ci sono dei veri e propri diari, dove l'autore registra ogni giorno ciò che gli capita, quello
che vede, le notizia che gli giungono dalle voci che corrono, e quello che prova. Alcuni di
essi sono scritti con appunti che hanno la funzione di conservare la memoria degli eventi e
dei fatti. Adam Czerniakow, presidente dello Judenrat di Varsavia, porta sempre con sé dei
quadernetti sui quali appunta diversi dati. Ogni giorno scriveva sul tempo che faceva, sui
suoi appuntamenti mattutini, su tutto. Spesso lo stile di Czerniakow è telegrafico, privo di
enfasi. Secondo Hilberg che trascorse quasi sei anni in compagnia di Czerniakow, i quaderni
stabiliscono un punto tra gli esecutori e le vittime. Egli racconta di esser rimasto presso
Czerniakow per capire come si dibattesse con i problemi delle abitazioni,
dell'approvigionamento, della fame, delle malattie, per osservarlo mentre doveva ascoltare
gli incessanti lamenti delle donne ebree che imploravano il suo aiuto dietro alla porta
dell'ufficio. E conclude, un po' sconsolato, che il giorno in cui i diari furono pubblicati negli
Stati Uniti egli credette di aver fatto vedere tutto ciò a un pubblico più numeroso. Ma il
pubblico non ama guardare ciò che accadeva veramente nel ghetto; accetta di guardare solo
nel caso in cui gli venga fornito un racconto soft degli eventi. Leggere Czerniakow, significa
portsi in una disposizione diversa da quella del giudicare. Significa voler comprendere un
uomo e la situazione storica che egli decide di affrontare, sino al punto in cui non ce la fa
più e si suicida. Per quanto riguarda il ghetto di Varsavia vanno ricordati ancora altri diari,
scritti in yiddish, in ebraico e in polacco, tradotti e pubblicati in francese e in inglese. Ad
essi vanno aggiunti gli scritti ritrovati nel perimetro delle enormi camere a gas e dei
crematori di Auschwitz all'interno del quale sono stati fatti degli scavi. Le testimonianze, a
volta, prendono la strada della letteratura. Si pensa che un vero libro possa assicurare meglio
la trasmissione. In un paesaggio in cui la morte è onnipresente, si diffonde l'idea che l'opera,
per le meno, sia immortale, che essa sola possa assicurare il ricordo, ossia l'eternità. Nel
ghetto di Lodz, Abraham Cytryn, un adolescente, vuole essere scrittore e testimonia la vita
nel ghetto in alcune novelle, racconti brevi e poesie. C'è poi il libro di Simha Guterman, che
lo concepì come un vero e proprio libro e non come una semplice testimonianza. Si tratta di
un racconto, un qualcosa in più di un semplice diario. L'autore aveva voluto che questa
cronaca fosse un vero e proprio testo, scritto, costruito, suddiviso in capitoli, articolato
attorno ad alcune scene e ad alcuni personaggi chiave. Ultima resistenza contro l'oblio e la
morte: egli aveva scritto affinchè un giorno, in un mondo in cui egli non sarebbe
sopravvissuto, i lettori potessero scoprire la sua sofferenza e quella dei suoi cari. ''Sono un
assassino?'', l'opera di Calel Perechodnik, appartiene alla stessa categoria di quella di Simha
Guterman. Mentre si trova nascosto nella parte ariana di Varsavia, Perechodnik scrive un
vero e proprio libro, dedicato alla memoria della figlia di due anni. Scrive che un tempo
voleva avere un figlio perchè, quando fosse morto, lui si ricordasse del padre. Adesso, dopo
la morte della figlia, non potendo lasciare una creatura viva dopo di lui, ha dovuto generare
un figlio morto, nel quale ha infuso la vita. Il figlio in questione sono queste memorie che
verranno un giorno stampate, affinchè tutto il mondo conosca i patimenti. Attraverso la
scrittura egli sente di essere diventato immortale, giacchè ha creato un'opera immortale.
Infatti ciò che mette in moto la scrittura, è proprio la protesta contro la morte, il bisogno di
lasciare una traccia. Le prime testimonianze, le testimonianze del tempo dei ghetti, dello
sterminio, sono testimonianze di uomini e donne che non sono sopravvissuti. Chi sta per
morire sa di non lasciare discendenti dopo di sé, che nessuno commemorerà l'anniversario
della sua morte. E sa inoltre che il popolo al quale appartiene sarà cancellato dalla faccia
della terra. Come fare in modo che non venga cancellato anche dalle memoria e dalla storia?
Questo primo movimento di testimonianze di massa non si interrompe con la liberazione
dell'Europa dal nazismo. Continua in due forme principali. La poesia yiddish, che occupa un
posto particolare poiché la poesia in quanto testimonianza è la voce umana che dice ciò che
è irriducibilmente umano. Ma continua anche attraverso la redazione collettiva del libri del
ricordo, gli Yizker-bikher. Sin dal momento della capitolazione della Germania alcuni storici
si riunirono nei campi per persone trasferite e formarono delle commissioni per raccogliere
le testimonianze dei sopravvissuti e per scrivere la cronaca del massacro. Per il mondo
yiddish c'è stata una distruzione, non tanto per l'immensità del numero delle vittime, quanto
piuttosto perchè la totalità di questo stesso mondo è stata distrutta e allora non è solo il
cronista di professione che, come invece accadeva in passato, prende in mano la penna. Ma
si dà la parola a tutti. E anche dopo la liberazione dal nazismo, tutti continuano a scrivere.
Aver vissuto in una comunità ebraica, essere sfuggiti al genocidio è sufficiente a legittimare
la propria scrittura e la propria parola. Tali scritti e tali testimonianze sono state raccolte
nelle opere chiamate Yizker-bikher, libri del ricordo, che si collocano all'incrocio tra due
diverse tradizioni: quella memorialista, del Memorbukh, il libro che conteneva il
martirologio della comunità, e quella della scuola storiografica ebraica nata dopo la Grande
Guerra. Ogni comunità ebraica possedeva un Memorbukh, che ricordava il martirologio
degli abitanti del luogo. Ma il genocidio, che questi libri designano per lo più con il nome di
dritter hurbn, la terza distruzione, aveva creato una situazione inedita. Il massacro non
comportava più la distruzione di una determinata comunità, la morte di una determinata
persona. Era l'abolizione totale di una collettività, di una cultura, di un modo di vita. Tutto
ciò che permette all'uomo di orientarsi: la propria lingua, la propria storia, il proprio
territorio, la sua rete di socialità, è stato cancellato. La compilazione di questi libri del
ricordo corrisponde alla volontà o alla necessità di ricordarsi, di far rinascere attraverso le
parole stampate un mondo annientato. È il lavoro collettivo del lutto che mira a ricostruire
sulla carta l'oggetto perduto e a descriverne l'agonia. Tale corpus permette di riflettere in
modo pertinente sulla costruzione della memoria collettiva, poiché i libri del ricordo
pubblicati, circa quattrocento, formano un corpus omogeneo: sono un insieme di racconti e
di testimonianze di un'esperienza vissuta da una collettività viva, sopravvissuta. Ogni
società funziona malgrado e contro la morte. La sua cultura, un patrimonio collettivo di
saperi, di norme, di forme d'organizzazione, ha senso solo perchè le vecchie generazioni
muoiono e perchè essa deve essere trasmessa alle nuove generazioni. I sopravvissuti della
Shoah usciti dal mondo yiddish si trovarono, invece, con una cultura priva di senso. Essendo
stati tagliati i ponti dietro di loro, il ritorno era interdetto, e la trasmissione alle nuove
generazioni appariva più che problematica. Coloro che avevano scritto questi libri avevano
voluto salvare il mondo dall'oblio. La violenza del trauma che nega l'individualità implica
un'affermazione non meno potente dell'individualità, che si tratti della propria o di quella di
un essere caro o vicino. L'individualità che si erge dinanzi alla morte è un'individualità che
si afferma contro la morte. I libri del ricordo volevano essere un modo di salvare i morti dal
nulla. Coloro che redigevano questi libri onoravano un testamento implicito che deve essere
compreso nel senso ebraico del Patto: il patto dei vivi con i morti e dei morti con i vivi. La
specificità di un individuo non esiste mai da sola: è il gruppo a conferirla. I libri del ricordo
sono stati ignorati. Non sono stati trasmessi, mentre proprio la loro trasmissione era
l'obiettivo iniziale assegnatogli dai loro autori. Lo sguardo che le generazioni nate dopo la
distruzione, dopo la Shoah, rivolgevano al mondo dei loro nonni era uno sguardo cieco.
Ebrei senza eredità. Il legame tra le generazioni era stato interrotto dalla morte dei nonni o,
quando quest'ultimi sopravvissuti, dal fatto che le generazioni non potevano comunicare tra
di loro, dal momento che i nonnni parlavano male la lingua del luogo, e i nipoti ignoravano
lo yiddish. I libri del ricordo insistevano sul legamo che avrebbe dovuto collegare nella
memoria la vita ebraica di prima del genocidio e le generazioni nate dopo il secondo
conflitto mondiale. Eppure tale legame era impossibile. Così i libri del ricordo sono rimasti
come cimiteri che nessuno ha mai visitato. I libri del ricordo si richiamano ai Memorbikher
soprattutto nelle liste dei nomi dei morti. E anche il lavoro compiuto da Serge Klarsfeld si
collega a tale tradizione. Le famiglie i cui morti non avevano avuto sepoltura potevano
infine conoscere quale era stato il loro destino. Con il Memorial des enfants, Serge Klarsfeld
cerca di dare un'identità e un volto ad ognuno dei 110.000 bambini deportati dalla Francia e
assassinati nella camere a gas di Auschwitz. Il lavoro di Serge Klarsfeld appartiene
all'ambito della testimonianza, anche se i testi che egli ritrova, specialmente le lettere dei
bambini, hanno un tono diverso rispetto a quello dei racconti dei ghetti. Le lettere sono così
toccanti non tanto per il loro contenuto, ma per l'ulteriore destino dei loro autori. Mentre i
racconti dei ghetti ci pongono dinanzi a una societò che si confronta con la crudeltà, con la
violenza, la morte, le lettere dei bambini ci pongono dinanzi a delle giovani vite piene di
promesse che finiscono per essere assassinate senza alcuna ragione appartente. Da alcuni
anni, la lettura dei nomi ha assunto un posto essenziali nei rituali commemorativi di
carattere nazionale. Sino alla fine degli anni Ottanta, i nomi venivano letti solo nei cimiteri,
in una determinata data. Si trattava di una cerimonia il cui carattere era quasi privato,
dinanzi alle tombe appartenenti alle famiglia, tombe che rappresentavano dei cenotafi su cui
erani stati impressi i nomi dei morti senza sepoltura, vittime della barbarie nazista. Ormai, i
nomi non vengono più letti soltanto nei cimiteri ma all'interno dello spazio pubblico, e la
loro lettuea non si rivolge più soltanto alla comunità religiosa, alle famiglie d'orgine ma a
tutti: ai discendenti delle vittime così come a coloro che provengono dal bacino
mediterraneo, e che non hanno conosciuto l'occupazione nazista. I libri del ricordo pongono
il problema della lingua della testimonianza. Problema che ossessione il poeta di lingua
yiddish Avrom Sutzkever dopo essere stato sentito dai sovietici per la sua testimonianza al
processo internazionale di Norimberga, dove egli rappresenta il solo testimone dello
sterminio degli ebrei. Nel diario che egli teneva all'epoca annota il fatto che andrà a
Norimberga e che sentiva tutto il peso della grande responsabilità che incombe. Egli pregava
affinchè le anime scomparse dei martiri potessero comparire attraverso le sue parole. Egli,
inoltre, afferma di voler parlare in yiddish e in nessun'altra lingua. Vuole parlare la lingua
del popolo che gli imputati hanno cercato di sterminare. Vuole che tale lingua trionfi come
simbolo di perennità. Avrom Sutzkever arriva a Norimberga nel 1946 e scrive nel suo diario
il fatto che egli si sia recato in quel luogo non solo per deporre ma anche come testimone
dell'immortalità del suo popolo. Il giorno dopo, Sutzkever apprende che, per via della
lingua, il numero dei suoi testimoni si è ridotto allo stretto necessario. Ed infine, il 27
febbraio del 1946, egli testimonia per trentotto minuti in russo. La questione della lingua in
cui viene fatta la testimonianza è fondamentale. Per lo storico, la questione della lingua ha a
che fare con due domande fondamentali: da dove si testimonia? E, di cosa si testimonia? Si
tratta di un testimone dell'universo nazista o si tratta, invece, di un testimone della morte di
un popolo? Ma lo yiddish è la sola lingua che condivide la sorte dei suoi locutori. Anche se
continua a vivere di tanto in tanto grazie a qualche individuo o a qualche gruppo marginale,
essa è morta ad Auschwitz, a Majadanek, a Treblinka, insieme al popolo che la parlava. Gli
scrittori e i poeti yiddish sono gli unici a scrivere nella sordità del mondo, con la coscienza
di essere privi di filiazione, gli unici a scrivere nella lingua di nessuno. La morta di una
lingua è qualcosa di irrimediabile. È questa la lingua in cui Elie Wiesel scrisse il suo primo
libro, la sua prima testimonianza, Un di Velt hot geshvign (E il mondo taceva) che diventerà
poi La nuit. Il racconto in yiddish di Elie Wiesel è stato scritto nel 1954 con estrema
rapidità, mentre attraversa l'Atlantico a bordo di un piroscafo che lo conduce dall'Europa al
Brasile. Solo uno dei libri di questa importante collana è stato recentemente tradotto in
francese. E il mondo taceva è un libro di 245 pagine, molto più voluminoso della sua
versione in francese, La nuit, di 178. Una storica americana, Naomi Seidman, ha compiuto
un lavoro di comparazione delle due opere. La lunghezza differente è dovuta essenzialmente
al fatto che la versione in yiddish è attenta ai dettagli, mentre il testo in francese è molto più
ellittico. Un solo esempio: La nuit presenta Sighet, la città natale di Wiesel, come ''questa
piccola città della Transilvania dove ho trascorso la mia infanzia'', mentre in E il mondo
taceva, Sighet non è una piccola città ma ''la città più importante'' e in tale versione, Wiesel,
descrive dettagliatamente la storia della sua città. Nella Notte, così come in E il mondo
taceva, il narratore sembra deplorare il fatto che, nei giorni successivi alla liberazione, i
sopravvissuti siano ossessionati sola dalla ricerca di cibo, e che non pensino alla vendetta. Il
primo gesto da uomini liberi fu quello di gettarsi sulle tovaglie. Non pensavano che a quello,
né alla vendetta, né ai parenti: solo al pane. E anche quando non avevano più fame non ci fu
nessuno che pensò alla vendetta. In E il mondo taceva, l'ebreo sopravvissuto rompe
l'immagine della morte. E tale rottura può essere interpretata come il segno di una rinascita.
Il protagonista vuole vivere affinchè il mondo si ricordi, affinchè i criminali nazisti non
possano passeggiare liberamente per le vie della città, affinchè la Germania non possa
ricominciare. Scrivere è contemporaneamente un atto di vendetta e uno strumento di lotta. Il
tema del silenzio, declinato in tutte le sue dimensioni è uno dei grandi temi della riflessione
degli universitari americani e israeliani sulla Shoah e la sua letteratura. E La notte sembra
essere la matrice di tale tematica. I commenti a questo testo dispiegano la loro riflessione
intorno al mistero del silenzio di Dio di fronte al male, del mutismo della morte e
dell'impossibilità da parte del linguaggio di trendere conto del genocidio: tali eventi
sarebbero innominabili, irrappresentabili e indicibili. In La notte si parla, infatti, del silenzio
notturno che ha tolto per l'eternità il desiderio di vivere. Mai verranno dimenticati quegli
istanti che assassinarono il Dio e l'anima delle vittime. Questi temi non sono un'invenzione
di Wiesel, ma sono già ripetuti in modo martellante nelle diverse testimonianze dei ghetti. Il
1958 è il periodo in cui la memoria del genocidio comincia ad emergere e il libro di Wiesel
è divenuto la quintessenza di tale tematica. Secondo Naomi Seidman, il libro avrebbe
stabilito i fondamenti di una nuova teologia inaugurata da una nuova alleanza. La morte di
Dio (o la sua assenza, il suo silenzio) sarebbe ricompensata dalla nascita dell'eterna
memoria del testimone. ''Auschwitz è altrettanto importante del Sinai'', ha dichiarato Elie
Wiesel. Naomi Seidamn ritiene che, con La notte, Wiesel sia giunto a un compromesso tra
un'autentica scrittura ebraica e le attese dei lettori non ebrei. Avrebbe, così, pagato il prezzo
necessario per entrare nella letteratura. Tale prezzo consisterebbe nell'abbandono del
desiderio di vendetta. Negli Stati Uniti l'articolo di Naomi Seidman ha avuto una notevole
eco emotiva e ha suscitato molte polemiche. In tale articolo essa accusa Wiesel di mentire,
insistendo sugli elementi che, a suo avviso, rientrano nel campo dell'oblio. L'oblio, per
esempio, di dire che il primo testo venne scritto a Buchenwald, subito dopo la liberazione.
Un oblio che non può che essere volontario da parte di Wiesel, e che maschera delle
intenzioni che lo storico deve svelare. In questo senso, la Seidamn appartiene a quella
categoria di storici che puntano la loro attenzione sulle trasformazioni della testimonianza,
che ne misurano gli scarti rispetto alla verità, senza mai cercare di capire a che cosa
corrispondano nell'evoluzione psicologica del testimone e in quella della coscienza
collettiva. Per chi è familiare con le condizioni in cui sono state prodotte le prime
testimonianze, immediatamente dopo la liberazione del testimone, allorchè molti
sopravvissuti erano in preda a una emorragia dell'espressione, la scrittura della prima
testimonianza e l'ulteriore oblio del fatto d'averla scritta appaiono come qualcosa di banale.
Ciò è dovuto al fatto che in questi primi scritti riversati sulla carta non c'era il prohetto di
scrivere un libro, ma, più semplicemente, la pulsione di liberarsi di alcuni elementi della
propria esperienza e di ritrovare la propria identità. Così possiamo pensare che gli appunti
riversati sulla carta da Elie Wiesele eda tanti altri immediatamente dopo la loro liberazione
ebbero una funzione analoga: la ricostruzione della propria identità. Naomi Seidman non
riesce a intravedere lo straordinario paradosso racchiuso nei due epiloghi. L'opera in yiddish
è stata pubblicata nel 1956, allorchè tale lingua stava agonizzando, e i suoi lettori
costituivano delle piccole isole all'interno delle società. Tali lettori si riducono notevolmente
nel corso degli anni. L'epilogo in yiddish è ottimista. Segna la rinascita di un Wiesel
combattivo. Mentre, al contrario, l'epilogo in francese, è di un pessimismo assoluto. Wiesel
non divette forse pagare la sua entrata nella letteratura francesce attraverso la morte della
propria lingua, una lingua in cui non scriverà più alcun libro ma alla quale rimarrà tuttavia
attaccato? Per Wiesel, che negli Stati Uniti fu uno dei pionieri dell'insegnamento della
letteratura della Shoah, lo yiddish rimana la lingua per eccellenza del testimone. Egli
afferma che bisogna sottolineare che tra le lingue nessuna è comparabile allo yiddish, senza
tale lingua, la letteratura dello sterminio sarebbe priva di anima. Le opere più autentiche
sullo sterminio sono infatti quelle scritte in yiddish. Egli, quindi, ha dovuto attraversare la
morte per ben due volte: è sopravvissuto alla morte fisica e alla morte del linguaggio. La sua
capacità di scrivere in francese spiega il ruolo di araldo della memoria che egli ha rivestito
negli Stati Uniti. I testi sui quali ha insegnato appartengono tutti al mondo yiddish
annientato. Elie Wiesel riuscì a convertirsi a una lingua non ebraica, che gli permise di
raggiungere ciò a cui ogni scrittore aspira: un pubblico di lettori. Egli vuole essere
contemporaneamente testimone e scrittore, e in ciò è paragonabile soltanto a Primo Levi. In
Primo Levi si ritrova la stessa sofferenza, lo stesso desiderio di essere riconosciuto non
unicamente come sopravvissuto, ma come un vero e proprio scrittore. Quando aveva già
pubblicato numerose opere distanti, per forma e contenuto, dalla struttura della
testimonianza, Levi non aveva ancora conquistato questo statuto a cui aspirava. Un giovane
critico constata il fatto che nel mondo letterario nessuno si interessava a Levi e che lui è
stato il primo ad averlo considerato come scrittore e non solo come critico e testimone del
Lager. Che ci sia una memoria della Shoah propria ai sopravvissuti del mondo yiddish è un
dato incontestabile. Nell'ambito di questo mondo ci fu l'illusione secondo cui tale mondo
sarebbe potuto rinascere altrove, in Francia, in Argentina. Ma i rari sforzi compiuti dai
sopravvissuti affinchè la società nella sua globalità si assumesse il carica del genocidio
furono destinati all'insuccesso. Emblematico, da questo punto di vista, è l'esempio del
memoriale di New York, la cui prima pietra fu posata nel 1947 e che in seguito non venne
mai costruito. A Riverside Drive, a New York, il passante può percepire una lapide,
circondata da una piccola grata in ferro, che riporta la seguente iscrizione: ''Questo è il luogo
del memoriale americano dedicato agli eroi della battaglia del ghetto di Varsavia dell'aprile-
maggio 1943 e ai sei milioni di ebrei martiri. Nel 1947 una folla di diverse migliaia di
persone si era riunita per la posa di tale lapide che doveva rappresentare la prima pietra del
primo memoriale. Ai piedi della lapide era stato posto un cofanetto contenente la terra dei
campi di concentramento. L'iscrizione sulla lapide corrisponde bene allo spirito che
all'epoca regnava tanto negli Stati Uniti quanto altrove: i sei milioni di morti della Shoah
sono citati come eroi dell'insurrezione del ghetto di Varsavia, divenuta una battaglia. Sono
dunqeu morti per la libertà. L'iniziativa della creazione di tale memoriale era dovuta a
Adolphe R. Lerner. Ebreo polacco, egli aveva raggiungo gli Stati Uniti. Dopo la guerra, egli
diventa il presidente dell'associazione degli ebrei polacchi a New York, e decide che le
vittime ebree devono avere un loro memoriale. Nel 1947, il comitato comincia a raccogliere
fondi per la costruzione del monumero. Si tratta di un monumento realista in cui vengono
rappresentate le diverse figure ritenute emblematiche: un eroe, un ebreo religioso in atto di
preghiera, un uomo che aiuto un ferito e un morto. Ora mancano solo i soldi. Il comitato che
non beneficia di alcun reale sostegno, non riesce a raccoglierli. Alla fine degli anni Quaranta
e all'inizio degli anni Cinquanta, le organizzazioni ebraiche, hanno altre priorità politiche e
finanziarie: il sostegno allo stato d'Israele, l'aiuto ai sopravvissuti che si trovano ancora nei
campi per persone trasferite nelle zone di occupazione americana della Germania. C'è, poi,
anche la paura che un progetto antinazista possa essere considerato come filocomunista. Un
memoriale potrebbe suscitare l'attenzione sul fatto che molti dei combattenti ebrei erano
comunisti. I sopravvissuti, inoltre, che sono nello stesso tempo dei nuovi immigrati,
vengono considerati come cittadini di seconda classe. Alla fine, questo primo progetto di un
memoriale, venne abbandonato nel 1954. All'interno dei cimiteri ebraici, i sopravvissuti
hanno fatto erigere dei monumenti che sono al contempo dei cenotafi, poiché su di essi sono
stati iscritti i nomi della vittime che ogni anno vengono letti ad alta voce a una determinata
data. Ma tale memoria, pur essendo collettiva poiché è la memoria di un gruppo, è una
memoria chiusa, una memoria di cui ben poco filtra e penetra in una società più ampia. Si
tratta, infatti, di una memoria ignorata e respinta dalle società estranee al mondo yiddish.
Rispetto ad essa, la biografia di Jacob Shatzky ci permette di chiarire meglio tale fenomeno.
''Lo storico ebraico di Varsavia'', come viene comunemente chiamato, appartiene alla nuova
generazione di storici ebrei che lavora sulla storia dell'ebraismo, fortmatasi nelle università
polacche e tedesche. Nato a Varsavia nel 1893, durante la Grande Guerra combatte nella
Legione polacca di Pilsudski. Nel 1922 abbandona la Polonia per trasferirsi a New York
dove fonda la sezione americana dello YIVO (Istituto scientifico ebraico). Qui realizza vari
lavori di carattere storico, poi, allorchè arriva la notizia dell'insurrezione del ghetto di
Varsavia e della sua liquidazione lo YIVO gli confida il compiti di scrivere una storia degli
ebrei di Varsavia. E Shatzky pubblica tre volumi della Geshikhte fun Yidn in Varshe (Storia
degli ebrei in Varsavia). Si tratta di un lavoro immenso ed unico nel suo genere. In vari suoi
testi lascia vedere la sua disperazione, la quale dipende dalla presa di coscienza del declino
della cultura ebraica secolare fondata sullo yiddish. Il suo pessimismo è radicale anche per
quanto concerne la possibilità di condurre delle ricerche sulle comunità ebraiche della
Polonia. E spiega tale pessimismo durante la ventinovesima conferenza annuale dello
YIVO. E dice: ''Non so quale possa essere il contenuto delle ricerche sulle vecchie comunità
in Europa. La ricerca dettagliata nell'ambito della storia politica ed economica è ormai priva
di senso. Da nessuna parte c'è un'eredità che possa essere trasmessa nei luoghi dove
attualmente vivono gli ebrei''. Ma egli è soprattutto affaticato dalla redazione del terzo tomo:
''Mi chiedo per chi io stia lavorando, per chi stia scrivendo e su chi. Il mio popolo è morto. Il
mio soggetto è un soggetto morto''. Sharzky muore nel 1956 di una crisi cardiaca senza
essere riuscito a scrivere il quarto volume della storia degli ebrei di Varsavia, il periodo a lui
contemporaneo. Egli si era trovato dinanzi a un duplice problema: quello della difficoltà di
scrivere su un mondo scomparso. Nel caso degli ebrei di Varsavia, si tratta di una duplice
scomparsa, quella del popolo ebraico polacco, e quella dello spazio in cui si iscriveva la vita
di tale popolo. Gli ebrei di Varsavia e la Varsavia ebraica sono entrambi scomparsi. E in
misura generale, tale considerazione può essere estesa a tutta l'ebraicità d'Europa centrale e
orientale, alle comunità della Polonia, dell'Ucraina, dei Paesi Baltici, della Russia. Ma allora
in quale modo scrivere la storia quando un mondo è scomparso, quando non esiste alcuna
possibilità di stabilire una minima continuità tra il mondo di prima e quello abitato dallo
storico? Ogni storia interroga il passato a partire dal presente. Ma quando il presente non
esiste più, quali sono le domande che lo storico può porre al passato? Nel mondo non ci
sono più ebrei. È un popolo che non esiste più. In questo primo periodo, quello
immediatamente successivo alla Shoah, i sopravvissuti non emergono come gruppo in
alcuna parte del corpo sociale. Le associazioni dei sopravvissuti ebrei sono luoghi di
socializzazione e di aiuto reciproco che non hanno l'ambizione di rivolgersi ad altri che non
abbiano vissuto la stessa esperienza. E anche quando compiono degli sforzi per far emergere
il ricordo nello spazio pubblico, tali sforzi non hanno alcun successo. Nell'ambito della
memoria di un gruppo chiuso, viene a costituirsi una memoria individuale. Affinchè
l'espressione del ricordo dello Hurbn penetri il corpo sociale, è necessario che la
testimonianza assuma un peso che superi l'esperienza individuale. Ciò avverrà con il
processo Eichman, ma al prezzo di una modificazione del contenuto e del significato di tale
memoria.

L'avvento del testimone;

Il processo Eichman segna una vera e propria svolta rispetto all'emerhere della memoria del
genocidio, in Francia, negli Stati Uniti così come in Israele. Con tale processo inizia una
nuova epoca: quella in cui la memoria del genocidio diviene l'elemento costitutivo di una
determinata identità ebraica e la sua presenza nello spazio pubblico viene rivendicata con
forza. Tale svolta è stata rilevata da tutti i ricercatori che hanno studiato l'evoluzione della
costruzione della memoria. Per la prima volta, un processo si pone esplicitamente l'obiettivo
di dare una lezione di storia. Per la prima volta, appare il tema della pedagogia e della
trasmissione, un tema che avrà un grande futuro poiché è attualmente presente in diversi
paesi e in diverse forme: la presenza della Shoah nei programmi educativi, la costruzione di
musei-memoriali per i giovani, la costituzione di archivi di filmati. Se il processo di
Norimberga era stato integralmente filmato ed alcune sequenze erano state diffuse nei
cinegiornali, le immagini del processo Eichmann,a sua volta integralmente filmato, vengono
diffuse in tutto il mondo tramite la televisione. Ma il processo Eichmann rappresenta
innanzitutto ciò che viene chiamato l'avvento del testimone. Il 23 maggio 1960, il Primo
ministro Ben Gurion aveva avvisato la Knesser (parlamento di Israele) che uno dei
principali criminali di guerra nazisti, Adolf Eichmann, fu uno dei responsabili di ciò che essi
chiamavano ''la soluzione finale del problema ebraico'', ossai dello sterminio di sei milioni
di ebrei in Europa. Adolf Eichmann si trova già in Israele e verrà giudicato tra breve in base
alla legge sulla punizione dei nazisti e dei loro collaboratori. La decisione di rapire
Eichmann e di processarlo è una decisione politica, dettata da diverse motivazioni
intrecciate fra loro. Ma si tratta anche di ricordare al resto del mondo la vergogna del fatto di
aver abbandonato gli ebrei e di sollecitare le grandi potenze a dare un maggior sostegno allo
stato di Israele. Si tratta inoltre di ridurre alcune fratture che minacciano il senso di coesione
nazionale del giovane stato ebraico. Ad esempio la frattura tra le generazioni: i giovani
erano attratti da una concezione più semplice dell'esistenza, meno tormentata, ma anche più
superficiale dal punto di vista intellettuale, rispetto a quella dei primi pionieri. Uno dei
grandi momenti di verità dell'unificazione fu la cattura di Adolf Eichmann e il suo processo.
Per Israele, il processo ha a che fare con degli obiettivi di politica interna ed esterna. Si
tratta di una strumentalizzazione del genocidio a scopi politici. Ma tale strumentalizzazione
viene resa possibile dal fatto che la sensibilità su quella che fu la sorte degli ebrei durante la
seconda guerra mondiale si sta via via modificando. All'inizio degli anni Cinquanta gli
ultimi campi per persone trasferite in cui venivano stanziati gli ebrei in attesa che qualche
paese li accogliesse sono stati chiusi, e i loro occupanti sono immigrati negli Stati Uniti e in
Israele. Il 27 settembre del 1951, il cancelliere della Repubblica federale tedesca aveva fatto
una dichiarazione storica, affermando che è stato in nome del popolo tedesco che furono
commessi crimini indicibili che esigono una riparazione sul piano morale e materiale. E
proprio per questo la Repubblica federale veglierà sulla ratificazione e l'esecuzione di una
legislazione appropriata. Una parte dei beni ebraici identificati è già stata restituita, ma a ciò
faranno seguiti altre riparazioni. La questione delle riparazioni tedesche venne sancita con la
firma dell'accordo tra la Germania e Israele il 10 settembre del 1952. le riparazioni versate
ad alcune organizzazioni ebraiche allo stato di Israele e ad alcuni sopravvissuti
comportarono una sorta di normalizzazione materiale della vita della maggior parte dei
sopravvissuti che avevano ormai scelto il paese in cui risiedere. In questi anni di guerra
fredda, i dibattiti politici si sviluppano in un periodo di stasi della memoria. La
pubblicazione delle testimonianze e la posa di lapidi commemorative, cessano. Tuttavia, alla
fine degli anni Cinquanta, sembra emergere un interesse per il genocidio. In Francia
vengono pubblicate varie opere, ma si riprende anche a pubblicare le testimonianze dei
sopravvissuti dei campi di concentramento nazisti. In tale ambito, il fattore decisivo
potrebbe essere il passare del tempo, che metabolizza in un certo senso l'esperienza vissuta e
che permette di trasformarla in oggetto letterario. Dal 1915 al 1922, era apparsa una prima
ondata di racconti e di romanzi. Poi, non c'è il silenzio, perchè si pubblica ancora qualche
libro, ma un netto rallentamento del ritmo delle pubblicazioni. Gli editori ritengono che il
pubblico sia stanco dei racconti di guerra. Le cose cambiano nel 1927-28, una decina di anni
dopo la fine della guerra, così come cambiano nel 1958-59 per ciò che concerne le
testimonianze delle vittime del nazismo. Nel 1928, per esempio, in Francia ci fu l'enorme
successo della seconda ondata di libri di guerra. Il tempo ha compiuto la propria opera, i
ricordi si attenuano, le ferite si cicatrizzano. Diventa così possibile scambiarsi le
impressioni, i racconti; è un modo di verificare i propri ricordi, di confermare l'autenticità di
un'esperienza troppo pesante per non essere condivisa. In questo periodo si riaprono anche
le procedura giudiziarie in Germania. Un'ondata di processi senza precedenti nella storia dei
dopoguerra. Ognuno serba nella propria memoria il processo ai grandi criminali di guerra
che si svolse a Norimberga dal novembre del 1945 all'ottobre del 1946. Spesso, però, si
dimentica la definizione data allora all'aggettivo grande: una persona responsabile di crimini
in diversi paesi, ossia, i responsabili politici della Germania nazista. Gli altri criminali,
coloro che avevano compiuto i loro misfatti in un solo paese, dovevano essere giudicati in
tale paese. Ma le procedure giudiziarie variarono a seconda dei singoli paesi. A seconda dei
paesi, i criminali vengono giudicati in base al diritto penale ordinario. Così, per fare un
unico esempio, Rudolf Hoss, il comandante di Auschwitz, fu condotto in Polonia, giudicato
a Cracovia, condannato a morte e impiccato ad Auschwitz. In Germania, i processi si
svolsero nelle zone di occupazione. Tra questi processi devono essere enumerati anche i
dodici processi svolti sempre a Norimberga da Telford Taylor, noti come ''processi
successivi'' o ''processi ai professionisti'', in cui vennero giudicati i medici, i giuristi, gli
industriali. Il 1955 segna anche l'anno in cui viene introdotta una novità nel diritto tedesco:
le persone sospettate di crimini che comportano pene inferiori a dieci anni non saranno
processate; le uniche a poter essere ancora processsate sono le persone sospette di omicidi
premeditati. A distanza di dieci anni dalla capitolazione tedesca, mentre l'occupazione della
Germania giunge al termine, si può pensare che il passato sia passato e che nessuno, né in
Germania né altrove, voglia più sentirne parlare. Ma si tratta di un'illusione. In Germania
come altrove, la fine degli anni Cinquanta segnò la reviviscenza del ricordo del nazismo, e
la ripresa delle procedure giuridiche. Nel 1958, vicino Stoccarda, viene creato il servizio
centrale di inchiesta sui crimini nazionalsocialisti. Erwin Schule, che ne fu il primo
direttore, era stato incaricato dell'indagine che si concluse con il cosiddetto processo del
battaglione. Un comandante, responsabile del massacro degli ebrei in Lituania nel 1941, era
stato giudicato non colpevole da un tribunale di denazificazione. Lo scandalo era rivelatore
dell'impunità di cui beneficiavano innumerevoli massacratori. Fu per ovviare a tale
ingiustizia, giudicata insopportabile, che il ministro della Giustizia dei Lander provvide alla
creazione di un servizio di ricerca. Il Servizio centrale delle inchieste sui crimini
nazionalsocialisti formò delle équipes di specialisti che si misero a indagare in ognuno dei
grandi settori geografici in cui avevano avuto luogo i massacri. Quando l'inchiesta era
terminata, il Servizio trasmetteva le informazioni alla procura del Land da cui dipendeva
l'indiziato. La procura dava allora corso a un'azione giudiziaria. Il Servizio individuò anche
il caso del battaglione di riserva della polizia tedesca, che perpetuò alcuni di tali massacri. È
in questo contesto tedesco che si colloca l'arresto di Eichmann. Chi l'ha effettuato? A tale
proposito ci sono diverse versioni. Nel settembre del 1957, Fritz Bauer, ebreo tedesco
sopravvissuto al nazismo, membro del Partito socialdemocratico, chiede di essere ricevuto
dal rappresentante dello Stato di Israele a Bonn, e l'informa che Eichmann vive a Buenos
Aires. Isser Harel, allora capo del Mossad, il servizio segreto israeliano, inviò uno dei suoi
uomini dal procuratore tedesco per controllare l'informazione. Ma gli agenti israeliani non
riuscirono a individuare Eichmann. Due anni dopo, Bauer ricontattava il Mossad: Eichmann
era stato individuato e si conosceva il suo falso nome. Israele, allora, si mise in azione.
Eichmann fu rapito, narcotizzato, condotto clandestinamente in Israele per esservi
processato nel corso di un processo che soprattutto doveva dare agli israeliani e al resto del
mondo una lezione di storia. Il processo Eichmann è effettivamente un processo spettacolo
in cui tutto è stato soppesato. Gideon Hausner fu in grande artefice del processo di
Gerusalemme. Hausner scrisse le sue memorie nelle quali ci permette di vedere quale fu la
sua concezione del processo. Ogni processo implica una volontà di risanamento, un
desiderio di esemplarità. Attira l'attrnzione, racconta una storia, esprime una morale. Per
raccontare questa storia e per trarne la morale, Hausner decide di costruire la scenografia del
processo sulle testimonianze. Il processo di Norimberga gli fa da contro canto. In questo
caso, il procuratore americano Jackson aveva fondato l'accusa su una massa di documenti.
Ordini, rendiconti, rapporti ufficiali, progetti, annotazioni personali. I testimoni erano stati
poco numerosi. Inoltre, la loro deposizione non fu affatto spettacolare e venne scarsamente
ripresa dalla stampa. I testimoni non erano stati convocati per raccontare la loro storia, per
commuovere i giudici, ma per confermare, commentare, sviluppare il contenuto dei
documenti cartacei. Il processo di Norimberga segnò il trionfo dello scritto sull'orale.
Hausner, certo, riconosce il merito del documento. L'eccellente dossier che gli è stato
preparato dalla polizia, incaricata dell'istruttoria come vuole il diritti israeliano, è costruito
su documenti nazisti, la maggior parte dei quali erano del resto già stati presentati a
Norimberga. La prova scritta è insostituibile, la sua eloquenza è là, nero su bianco. Non c'è
alcun bisogno di ricorrere alla memoria di un testimone, il quale nel frattempo è invecchiato
di dieci anni. Il documento parla sottovoce, non fa rumore, ma non può essere dimenticato.
Tuttavia, se a Norimberga era stata fatta giustizia in modo efficace, tale processo con
qualche testimone e un'immensa pila di documenti probatori non era riuscito a toccare il
cuore degli uomini. Ora, per Hausner, non si tratta solo di giungere a un verdetto. Egli vuole
molto di più di un semplice verdetto, ossia il racconto impresso con lettere di fuoco, di un
disastro umano sproporzionato. Hausner decide, dunque, di basare l'atto di accusa non su un
unico pilastro, ma su due: i documenti probatori e le deposizioni dei testimoni. Norimberga
voleva contribuire a dimostrare che la Germania nazista aveva complottato per conquistare
l'Europa e mostrare la sfilza di crimini che aveva accompagnato la guerra di aggressione per
fare in modo che i responsabili fossero puniti e che nel futuro non ci fossero più guerre
mondiali. Tale processo aveva una duplice pretesa storica: l'accusa doveva contribuire alla
scrittura di un racconto storico e, nello stesso tempo, voleva contribuire a mettere fuori
legge la guerra. Per Hausner, invece, nel caso del procesos Eichmann, non si tratta di
arricchire la Biblioteca della storia. Il processo si rivolge al presente, alle giovani
generaazioni del paese. Per il buon equilibrio dei nostri giovani era necessario che essi
conoscessero tutta la verità di ciò che era accaduto, poiché solo attraverso questa presa di
coscienza essi avrebbero potuto capire il passato e farsene carico. La nostra giovane
generazione aveva penetrato troppo poco gli evento che avrebbero dovuto costituire il
fondamento della sua educazione. L'israeliano è un ebreo nuovo, la cui mentalità deve
rompere con quella mentalità di sottomissione propria a coloro che, come si scrive spesso in
Israele, si sono lasciati condurre come pecore al macello. Fissato l'obiettivo, bisogna trovare
i mezzi per raggiungerlo. E tali mezzi saranno le deposizioni dei testimoni. Solo attraverso
la deposizione dei testimoni gli eventi potranno essere evocati nell'aula del tribunale, essere
resi presenti allo spirito del popolo di Israele e degli altri popoli, in modo tale che gli uomini
non potranno arretrare dinanzi alla verità. E tale deposizione non dovrà essere scritta, ma
dovrà essere enunciata da uomini e donne in carne ed ossa. Per Hausner il solo mezzo di far
toccare direttamente la verità era quello di chiamare alla sbarra il maggior numero di
sopravvissuti e di chiedere ad ognuno di loro un racconto dettagliato di ciò che avevano
visto e vissuto. Messa una a fianco all'altra, le successive deposizioni di genete diversa, che
ha vissuto esperienze differenti, daranno un'immagine sufficientemente eloquente da essere
registrata. Sperando così di riuscire a dare al fantasma del passato un'ulteriore dimensione:
quella del reale. Questi pensieri di Hausner meritano di essere analizzati. Trent'anni dopo,
Geoffrey Hartmanm, professore di letteratura all'Università di Yale, uno dei fondatori degli
archivi di videoregistrazioni Fortunoff, che hanno il compito di registrare le esperienze di
coloro che sono sopravvissuti al genocidio, non pone in dubbio l'importanza degli archivi
poiché senza le numerose tracce scritte lasciate dai colpevoli non si è in grado di avere
un'immagine adeguata. Ma a sua avviso, le testimonianze ci danno proprio ciò che non ci
può essere dato dal racconto storico, poiché l'immediatezza dei racconti in prima persona ha
l'effetto del fuoco. Hausner si mette, dunque, alla ricerca dei testimoni poiché spera di
ricostruire i diversi stadi del processo di sterminio. Nelle sue memorie, egli descrivere come
procede alla scelta dei testimoni. Contrariamente all'idea corrente, i sopravvissuti non
testimoniano al processo Eichmann per la prima volta: rispetto a tale processo, essi sono
stati scelti in base a una prima testimonianza, conservata per iscritto. Dopo una prima
deposizione, Hausner incontra i testimoni, e tra di essi sceglie coloro che avranno l'onore di
deporre al processo dinanzi a centinaia di giornalisti di tutto il mondo. Si tratta di un vero e
proprio casting. Alcuni, tuttavia, mostrano una certa reticenza. La reticenza a testimoniare
era in parte dovuta al tentativo deliberato di dimenticare gli eventi che li perseguitavano nei
loro sogni. Ma c'era anche un'altra ragione, ben più importante: essi temevano di non essere
creduti. Il giorno in cui i sopravvissuti cominciarono ad emergere, essi provarono un
bisogno di raccontare la loro storia. Ma quando si lasciarono andare a descrivere e a narrare
cose così inaudite accadeva, talvolta, che l'interlocutore avesse un gesto di dubbio, tale
atteggiamento esisteva soltanto nella mente del narratore; ma per molte di queste persone
ferite nell'anima ciò bastava a farle cercare rifugio nel silenzio. Decidevano di seppellire
nelle profondità del proprio cuore ciò che sapevano e di non parlarne mai più. Nel 1949, in
Israele vivono più di 350.000 sopravvissuti, ossia un terzo della popolazione. E, tuttavia,
anche in Israele l'atteggiamento comune è quello che ci viene riassunto in questo modo:
tanto meno si parlava del genocidio meglio era. Così iniziò il grande silenzio. Ma non
dobbiamo pensare che all'epoca del processo Eichmann la reticenza a testimoniare fosse un
fenomeno generalizzato. Al contrario, prima dell'inizio del processo si presentò una massi di
testimoni che chiedevano di deporre. Il che inquietò Hasner che temeva il loro desiderio di
comparire alla sbarra per assicurarsi un'inevitabile pubblicità. La scelta dei testimoni
compiuta da Hausner obbedisce a un duplice imperativo, storico e sociologico al contempo:
egli voleva far conoscere ciò che era accaduto in ogni luogo occupato dai nazisti e che la
storia fosse raccontata da una campione rappresentativo dell'intero popolo, professori,
domestici, artigiani, scrittori. Di qui la diversità dei testimoni. Appartenevano a tutti i gradi
della scala sociale com'essa si presentava nel momento in cui la catastrofe si era abbattuta
sull'intera nazione. Ma come evitare che gli errori si insinuassero nelle testimonianze? Per
ovviare a tale difficoltà, Hausner sceglie di chiamare quelle persone che avevano già da
tempo consegnato le loro dichiarazioni o che avevano scritto i loro ricordi, poiché le loro
memorie potevano essere così rinfrescate dagli appunto. In realtà, la memoria non viene
rinfrescata dagli appunto. Al contrario, è il racconto già fatto che diventa la memoria stessa,
come osserva Primo Levi che afferma che a distanza di circa quarant'anni si ricorda tutto ciò
attraverso quello che ha scritto. Alcuni autori di racconti già pubblicati vennero dunque
chiamati alla sbarra. È il 28 aprile, allorchè la corte ascolta Ada Lichtman, prima testimone
della Polonia. Prima di lei, erano già state chiamate alla sbarre le vittime del periodo
precedente alla Soluzione finale, quelle del primo periodo della persecuzione degli ebrei
tedeschi subito dopo la presa di potere da parte di Hitler. Sindel Grynzpan, il padre di
Hershl, il quale aveva assassinato a Parigi il terzo segretario dell'Ambasciata tedesca,
episodio che servì da pretesto nella notte tra il 10 e l'11 novembre, noto come la ''Notte dei
cristalli'', raccontò ciò che aveva originato l'atto di suo figlio: l'espulsione dalla Germania di
12.000 ebrei polacchi. Chi non poteva camminare veniva abbattuto, il sangue scorreva nella
strada. Si sono comportati in modo crudele e barbaro. A differenza di Ada Lichtman, quelli
prima di lei sono tutti testimoni del periodo che precedette la catastrofe. All'inizio della
guerra, Ada Lichtman abitava a diversi chilometri da Cracovia, dove era nata e aveva
compiuto i suoi studi. I tedeschi penetrarono nella città, riunirono tutti i maschi ebrei, li
picchiarono e li costrinsero a pulire le strade. Poi, li obbligarono a denudarsi. Tutti coloro
che si fermavano per prendere fiato venivano colpiti con il fucile sulla schiena. Quasi tutti
rientrarono nelle loro case sanguinanti. Il padre di Ada era tra loro. Alcuni giorni dopo,
l'esercito tedesco fece evacuare la piazza del mercato. Arrivò un camion dal quale scesero
ufficiale e soldati. Fecero radunare nella piazza del mercato tutti i maschi ebrei, di tutte le
età, e gli fecero incrociare le mani dietro alla testa. Gli fecere fare il giro della piazza
gridando ''Siamo traditori''. Poi li fecero salire sul camion. Con sua cognata, Ada corse
dietro il camion, sino a un bosco dove vide i corpi crivellato di pallottole. Alcune settimane
dopo, la ragazza fuggì a Cracovia, dove fu testimone oculare di altre atrocità. Alcuni ebrei
venivano rinchiusi in una sinagoga e lì fucilati. I malati che non si potevano muovere
venivano fucilati. Ada Lichtman è ancora testimone di altre scene. A Dublinka, i tedeschi
radunarono venti ebrei, li cosparsero di benzina e gli diedero fuoco. Questa testimonianza
segna un momento di cesura del processo. Una cesura linguistica, innanzitutto. Allorchè il
presidente chiede alla testimone se parla ebraico, essa risponde che non lo parla bene e che
preferirebbe parlare in yiddish. La corte prende atto della situazione e decide che anche le
domande saranno poste alla testimone direttamente in yiddish. L'ebraico scomparve
dall'aula e la lingua del popolo ebraico assassinato risuonò. Ma la testimonianza di Ada
Lichtman segnò anche una cesura rispetto alla struttura e alla natura stessa della
testimonianza. Essa non testimonia per portare un'ulteriore prova della colpevolezza
dell'imputato, ma per fare un racconto che un duplice scopo: raccontare la propria
sopravvivenza, ma soprattutto, evocare i morti e il modo in cui furono assassinati. Tra le
testimonianze che suscitarono grande impressione, ci fu quella di Leon Wells-Wieliczker.
Leon Wells fu il solo testimone che raccontò la propria storia per ben due giorni. È stata la
testimonianza più drammatica dell'intero processo. Wells, che insieme ad altri fu incaricaro
di aprire le fosse comuni, di estrarne i cadaveri, di preparare i roghi in cui bruciare i corpi, di
triturarne le ossa e di conservare tutti gli offetti di valore che si potevano ancora trovare tra
le ceneri. Come ultimo esempio si può citare la testimonianza di K-Zetnik, che nel
linguaggio dei campi di concentramento significa il ''detenuto''. Anch'egli aveva già
testimoniato, nell'immediato dopoguerra, in yiddish. Aveva poi scritto un'opera di ricordi,
La casa delle bambole, che negli Stati Uniti era diventata un best-seller. Ad Hausner che gli
chiede di spiegare il proprio nome, egli risponde che non è uno pseudonimo che ha scelto in
quanto scritto poiché non si considera uno scrittore nel senso letterario del termine. Ma è
solo uno storico del pianeta Auschwitz, dove è rimasto per due anni. Egli afferma durante la
testimonianza, di credere con tutto se stesso che gli astri abbiano un influsso sul destino e
che quel pianeta di ceneri, Auschwitz, sia in opposizione al pianeta terra e che l'influenzi
ancora. Dopo di ciò, disse ancora qualche frase e poi svenne. I due elementi decisivi per una
testimonianza sono il modo in cui viene condotta l'intervista e la prospettiva con cui viene
fatta. Il procuratore Hausner pone domande precise, che esigono delle risposte fattuali. Ogni
epoca trova mezzi diversi per le testimonianze: i fogli, le videocassette, la corte di un
tribunale, il documentario. Anche se il racconto rimane sempre lo stesso, a seconda delle
circostante stesse della testimonianza, esso si trova all'interno di una costruzione collettiva.
Fa parte di un racconto più vasto, di una costruzione sociale, come mostra il processo
Eichmann. Il processo di Gerusalemme doveva essere il processo al carnefice. Ma quasi
subito Adolf Eichmann scompare. I riflettori dei media non sono più puntati sul protagonista
della ''Soluzione finale''. L'uomo dietro la gabbia di vetro viene cancellato dalle vittime. Le
cose hanno preso delle proporzioni che vanno al di là dell'imputato. Nell'aula del tribunale
vi erano quattro telecamere nascosto e collocate in modo tale da filmare l'intero processo da
un'unica prospettiva. Era stata questa la tecnica con cui era stato filmato già il processo di
Norimberga. I testimoni raccontavano la loro storia, ed era proprio ciò che dava peso alle
loro parole. Ma anche il luogo dove esse vengono proferite dà loro un peso particolare,
poiché esse acquisiscono una duplice dimensione: politica e sociale. Politica, perchè è lo
Stato, rappresentato dal procuratore, ad essere all'origine della parola e della sua portata
istituzionale e simbolica; sociale, perchè la parole viene pronunciata davanti a dei giudici
che si suppone apprezzino la verità che essa contiene e perchè viene ripresa dai media di
tutto il mondo. Così, per la prima volta dalla fine della guerra, il testimone ha il sentimento
di essere realmente ascoltato. Nell'aula del tribunale di Gerusalemme sono state dette molte
cose già note, eppure, come per miracolo, d'improvviso esse hanno preso un'ampiezza
imprevedibile. È come se le parole fossero state trasformate dal pubblico silenzioso, dalle
telecamere, dalle penne che scorrevano sulla carta. La litania delle testimonianze costituisce
l'elemento essenziale del processo Eichmann: centoundici testimoni che si presentano uno
dopo l'altro alla sbarra dei testimoni per guidare gli ascoltatori lungo il regno della
desolazione. È proprio il numero che può fare un'immagine di questi anni, dell'estensione di
quest'universo scomparso. Il fatto che siano stati citati così tanto testimoni non era per far
crescere il dolore e la rabbia. Essi hanno testimoniato per far emergere i dettagli del
massacro. I testimoni sono stati l'elemento essenziale del processo poiché erano i delegati
ufficiali dell'Olocausto. Ma la funzione di un processo, oltre a quella di giudicare un uomo,
può essere quella di riscrivere la storia? Sono emersi alcuni interrogativi sul valore di una
giustizia che si pone una finalità diversa dalla sua. A tal proposito, Hannah Arendt fa alcune
osservazioni. La maggior parte dei testimoni non sapeva distinguere tra le cose che
l'interessato aveva vissuto e le cose che aveva letto e udito e immaginato. Ma, soprattutto,
essa critica il fatto che i testimoni avessero la possibilità di raccontare cose che non avevano
alcun rapporto con l'accusa. Così, la maggiora parte dei testimoni provenivano dalla
Polonia e dalla Lituania, territori in cui le competenze e l'autorità di Eichmann erano
limitate. Arendt critica il fatto che, nelle intenzioni dell'accusa, la Storia costituisca il centro
del processo, in quanto in questo processo, al banco degli imputati non siede un individuo, e
neppure il solo regime nazista, bensì l'antisemitismo nel corso di tutta la storia. Il pricesso
Eichmann ha liberato la parola dei testimoni, creando così una domada sociale di
testimonianze. Tale liberazione della parola ha veramente una funzione terapeutica? È, del
resto, probabile che gli effetti differiscano a seconda delle persone. Con il processo
Eichmann, il sopravvissuto acquisisce un'identità sociale di sopravvissuto, che gli viene
riconosciuta dalla società stessa. Prima di tale processo, il sopravvissuto che voleva
conservare la propria identità di sopravvissuto, lo faceva nella vita associativa, una vita
associativa chiusa in se stessa, che permetteva di onorare il ricordo dei propri morti e, nello
stesso tempo, di trovare una socialità tra persone che avevano vissuti gli stessi avvenimenti.
Il processo Eichmann cambia le carte in tavola. Al centro di questa nuova identità, al
sopravvissuto viene attribuita una nuova funzione: il testimone è portatore di storia.
L'avvento del testimone trasforma le condizioni della scrittura della storia del genocidio.
Con il processo Eichmann e l'emergere del testimone, uomo-memoria che attesta che il
passato è stata ed è sempre presente, il genocidio diventa un succedersi di esperienze
individuali con cui il pubblico è supposto identificarsi. Se a Norimberga la volontà di
mettere al bando la guerra, i suoi responsabili e i suoi criminali, aveva permesso di fare luce
sui carnefici e sui meccanismi che avevano dato luogo alla guerra stessa, ora tutta la luce
viene puntata solo sulle vittime. Nella scrittura della storia del genocidio si è tentato di
mantenere alcune regole fondamentali del mestiere dello storico, qualsiasi fosse la
prospettiva storica che si sceglieva. In realtà, sin dal dopoguerra vennero a delinearsi due
correnti storiografiche, le quali tracciano due storie della Shoah che corrono su linee
parallele senza mai incontrarsi. Da un lato, una storiografia della ''Soluzione finale'', e cioè
della macchina di produzione di morte nazista, dall'altro, una storia dello Hurbn, e cioè una
storia scritta dal punto di vista delle vittime. Gli storici, tuttavia, nel costruire dei racconti
che fanno appello all'intelligenza, non giocano di proposito sull'emozione. Come trovare il
tono giusto, come esprimere un'indignazione che tuttavia doveva rimanere implicita? È stato
questo l'aspetto più importante. Evitare le invettive, e lasciare che fossero i documenti a
parlare: erano sufficientemente eloquenti. La storia che viene scritta in tal modo non è
fredda. Il distanziamento non impedisce di provare empatia per le vittime né ottote per un
sistema complesso che ha prodotto la morte di massa. Restituisce, invece, dignità all'uomo,
proprio quella dignità che il nazismo aveva spazzato via giocando sulle emozioni o sui
sentimenti, come l'odio. L'opera di Daniel Goldhagen ha mandato in frantumi i criteri
universalmente stabiliti della scrittura accademica della storia. Daniel Goldhagen enuncia
sin dall'inizio di esser contrario a una descrizione meramente oggettiva che considera come
un errore rispetto a quello che chiama la realtà degli assassini. Egli vuole evitare l'approccio
meramente oggettivo e tenta di comunicare l'orrore, precisando la descrizione di schizzi di
sangue, frammenti di ossa e di cervello che spesso ricadevano sugli assassini. Per poter
comprendere il mondo fenomenologico di quel periodo dovremmo raccontare a noi stessi
ognuna delle immagini raccapriccianti che essi videro, ognuna delle grida di angoscia e
dolore che udivano. In tal modo, Goldhagen si spinge ben al di là del compito assegnato allo
storico. Come fa ad avere in mente le immagine e le grida? In quale magazzino di immagini
o di suoni può attingere per nutrire le sue descrizioni dal momento che non ha vissuto quegli
eventi? L'autore descrive la sua concezione della storia, affermando che l'analisi di ogni
operazione, di ogni singola morte dovrebbe ridondare di questo tipo di descrizioni; ma ciò
non è possibile, non solo perchè renderebbe troppo vasto qualsiasi studio sull'Olocausto, ma
anche perchè ben pochi riuscirebbero ad arrivare in fondo alla lettura di resoconti tanto
orripilanti. Una concezione della storia che ricorda quella di Hausner mentre chiamava i
testimoni alla sbarra. È una giustapposizione di racconti d'orrore. La storia ideale,
irrealizzabile, poiché sarebbe insopportabile e troppo lunga, consisterebbe nel racconto
individuale di sei milioni di vittime. Ma la concezione di Goldhagen non tiene conto, nella
storia del genocidio, della morte industriale, quella attraverso il gas, morte rispetto a cui il
carnefice è lontano dalla vittima e uccide a distanza, ci si può chiedere quale sia la virtù di
una simile storia, o anche, se questa volontà di non pensare in termini generali, o in termini
collettivi, non rappresenti la negazione stessa della storia. Essa distruggerebbe proprio
quell'operazione intellettuale che consiste nel costruire un racconto e che chiamiamo fare
storia. Al posto di questo racconto ci sarebbero altri racconti, individuali, che privilegiano
l'orrore. La concezione della storia propria a Goldhagen esalta il sentimento e l'emozione a
scapito dell'intelligenza e del pensiero. Inoltre, e anche questo è un elemento che avvicina
Goldhagen ad Hausner, mentre egli vuole interessarsi ai carnefici, di fatto, si richiama
soprattutto al racconto delle vittime. Il racconto dei sopravvissuti è in grado di far apparire
la criminalità dei carnefici. Il metodo di Goldhagen appare con chiarezza nella parte
dedicata alle marce della morte. Egli descrive la sofferenza dei detenuti messi in cammino,
in uno stato di totale sfinimento, maltrattati, affamati, uccisi senz'altra ragione che la volontà
deliberata di ucciderli. Così, proprio come il racconto dei testimoni durante il processo
Eichmann è sufficiente a far emergere la colpevolezza di quest'ultimo, le descrizioni
fenomenologiche dell'orrore sarebbero sufficienti per stabilire che i tedeschi comuni, mossi
da un antisemitismo secolare che Goldhagen definisce antisemitismo ''eliminazionista'',
siano stati, come indica il titolo dell'opera, ''volenterosi carnefici di Hitler''. Per l'ennesima
volta, Goldhagen si avvicina ad Hausner, il quale suggeriva che Eichmann era solo
l'innocente esecutore di un fato misterioso: l'antisemitismo. L'ultimo punto è quello del tono
adottato da Goldhagen, che corrisponde a quello di un procuratore. Marc Bloch aveva
sostenuto che lo storico soccombe la mania del giudizio. A suo avviso, l'imperativo
categorico dello storico doveva essere quello di comprendere e di spiegare e non quello di
esprimere dei giudizi perentori. Per quanto concerne la storia del nazismo sembra proprio
che alcuni storici abbiano rinunciato al difficile compito di cercare di comprendere. Lo
storico ha lavorato e lavora in un'atmosfera giuridica che contamina l'intera società.

L'era del testimone;

Alla fine degli anni Settanta le testimonianze audiovisive cominciano ad essere raccolte in
modo sistematico. Il contesto generale è cambiato. Il genocidio degli ebrei è ormai molto
presente nella vita politica dei vari paesi, in Francia, negli Stati Uniti, in Israele, e altrove.
Nell'ambito dell'editoria nascono collane specifiche dedicate alle testimonianze. Raccontare
la propria vita è la prova del fatto che si è esistiti e che un interlocutore è lì, pronto a
interessarsi a chi racconta. I grandi uomini hanno sempre bramato di rivolgersi al resto dei
mortali scrivendo le proprie memorie. Gli altri, la gente comune, si accontentavano del
pubblico più ristretto dell'ambiente familiare. Ma ora questa relatività dei destini individuali
non è più ammessa. Si è imposta l'idea che tutte le vite si equivalgano e siano degne d'essere
raccontate. Alla fine degli anni Settanta e all'inizio degli anni Ottanta, si assiste dunque a
uno straordinario amore per i racconti di vita. Si tratta di una democratizzazione degli attori
della storia, per cui la parola spetta ora agli esclusi, alle persone prive di grado e di voce. Gli
anni Settanta sono anche quelli in cui gli stati d'animo e le difficoltà psicologiche si
espongono ormai pubblicamente, attraverso la radio, e poi la televisione. Agli inizi degli
anni Ottanta, in Francia, sul modello americano, è apparso un nuovo tipo di spettacolo
televisivo basato sulla parola della gente comune. Questa irruzione della testimonianza
privata nello spazio pubblico costituisce l'aspetto più significativo di ciò che viene chiamato
la televisione dell'intimità. Sempre nello stesso periodo assistiamo al trionfo dell'ideologia
dei diritti dell'uomo. L'uomo-individuo viene così posto al centro della società e della storia.
Alla fine degli anni Settanta, per la prima volta nasce l'idea della necessità di registrare su
video le testimonianze di coloro che gli americani chiamano ormai Survivors, i
sopravvissuti, termine che si riferisce a tutti gli ebrei che vissero sotto l'occupazione nazista
e che sfuggirono alla Soluzione finale. Si tratta di una definizione molto larga, poiché essa
non comprende solo le vittime dirette, quelle internate nei vari campi o nei ghetti, ma anche
quelle persone che furono sì minacciate nella loro vita, ma che non necessariamente
soffrirono tale esperienza sulla loro pelle. Il serial televisivo Olocausto fu un grandissimo
successo negli Stati Uniti. In seguiti suscitò una profonda emozione in Germania. La
Germania è stata arricchita di una nuova parola americana: Holocaust, che designa il
genocidio degli ebrei, il serial televisivo e le reazioni emotive che ha suscitato. Il regista
Chomsky, il cui serial Radici, aveva ottenuto un enorme successo, ma che aveva realizzato
anche Colombo e Mannix, aveva costruito la sceneggiatura di questo serial di quattro
episodi. Il serial raccontava il destino di due famiglie tedesche, una nazista e l'altra ebrea, la
famiglia Weiss, che doveva incarnare il destino dell'ebraismo tedesco. Il serial dipingeva la
frantumazione dell'intero sistema di valori di tale famiglia: i nonni non trovarono altra
soluzione che quella di darsi la morte. Le critiche che suscitò lo accusarono di essere troppo
romanzato. Le situazioni rappresentate da tale serial erano quelle classiche dei gilm di
Hollywood: la separazione forzata tra gli amanti, la morta di un membro della famiglia.
Mentre non apparivano gli aspetti caratteristici della persecuzione degli ebrei: l'angoscia
insopportabile, la sofferenza, la fame, la morte. Ma, soprattutto, furono proprio alcuni
sopravvissuti a muovere le critiche più violente al serial Olocausto. La prima critica du
quella di Elie Wiesel sul Times, che affermò che questo film destinato al pubblico televisivo
è un insulto verso coloro che sono morti e verso coloro che sono sopravvissuti. Nonnostante
il titolo, questo docu-dramma non presenta l'Olocausto così come si ricorda. Piuttosto lo
trasforma in una farsa. A questo punto il testimone si sente obbligato a dire che ciò che i
telespettatori vedranno sullo schermo non è quello che è realmente accaduto. Negli Stati
Uniti, la reazione dei sopravvissuti comuni, quelli che non avevano scritto le loro memorie,
che non godevano di nessuna notorietà, fu identica. La principale lamentela era realtiva al
fatto che essi pensavano che in tal modo alle vittime venisse rubata la loro storia. Questa
lamentela rivela una forte inquietudine: quella di essere spossessati della propria storia da
qualcuno che non ha vissuto quell'esperienza il quale pretende di raccontarla. La famiglia
Weiss non può rappresentare tutte le famiglie ebraiche d'Europa. Nell'Europa degli anni
Trenta, la diversità delle situazioni sociali, politiche e culturali degli ebrei è tale che sarebbe
del tutto vano voler individuare una situazione-tipo. Ma il timore di essere spossessati non
concerne solo la storia dei sopravvissuti, ma viene espresso anche il timore che Olocausto
rubi ai morti, che non possono raccontarla, la loro storia. Ora, uno dei topoi delle
testimonianze, scritte e orali, è quello della promessa all'amico o al parente che sta morendo
di raccontare al mondo ciò che gli è accaduto, e di salvarlo così dall'oblio, di rendere la
morte un po' meno vana. Infine, l'ultimo argomento avanzato dai sopravvissuti che criticano
il film è che la loro storia sarebbe più autentica, e tale autenticità si manifesterebbe nel fatto
che verebbero raccontati più orrori. Negli Stati Uniti, una delle conseguenze del serial
Olocausto, fu quella di suscitare tra i sopravvissuti, come era già avvenuto in Israele durante
il processo Eichmann, un desiderio di raccontare. I sopravvissuti esprimono tale desiderio di
testimoniare in un preciwso momento della loro esistenza. Alla fine degli anni Settanta, tali
uomini e donne sono ormai ben installati negli Stati Uniti. La catena delle generazioni,
spezzata dal genocidio e dall'emigrazione è in via di ricostituirsi. I sopravvissuti non sono
più restii al fatto che il loro passato sia conosciuto e a trasmettere la loro esperienza come un
lascito. Al contrario, si è prodotto un cambiamento, innescato già dal processo Eichmann,
per cui il sopravvissuto è diventato una persona rispettabile e rispettata proprio in quanto
sopravvissuti. Il merito di tale trasformazione viene attribuita ad Elie Wiesel, infatti egli è il
primo ad esprimere l'idea che non c'è alcuna vergogna, né collettiva, né individuale, nel fatto
di essere stati vittime dell'Olocausto. Dopo tutto, l'Olocausto ha cambiato il mondo e
rappresenta il più grande evento della nostra epoca. Oggi tutto ruota intorno all'Olocausto. Il
compito degli educatori e dei filosofi ebrei dovrebbe essere proprio questo: il fatto di
riconsiderare l'evento con fierezza, di integrarlo nella nostra storia. Non sarebbe giusto
pensare agli ebrei come a delle persone sofferenti, piuttosto come a qualcuno che può
vincere la sofferenza e tale sofferenza ha una dimensione messianica: attraverso di essa può
salvare il mondo da una nuova Auschwitz. La loro assurda fede in un futuro inesistente era
un'affermazione dello spirito. E, dunque, la fierezza era loro propria. Due decenni dopo
qureste affermazioni Elie Wiesel, il cambiamento è del tutto compiuto. Ormai questi uomini
e queste donne sono guardati con ammirazione. Ma anche il contesto politico americano è
cambiato. Nel 1973, per la prima volta, le grandi organizzazioni ebraiche americano
integrano nei loro programmi la necessità di salvaguardare la memoria della Shoah. Nel
1995, più di cento istituzioni sono dedicate allo studio dell'Olocausto. Si tratta, negli Stati
Uniti, in Francia e in Israele, dell'effetto prodotto dalla guerra dei Sei giorni. Durante il
periodo che aveva preceduto la vittoria di Israele, la popolazione dello stato ebraico era stata
colta dall'angoscia. Un'angoscia vissuta in base al modello del genocidio e con intensità
quasi identica dagli ebrei degli Stati Uniti e della Francia. Si temeva la distruzione dello
stato d'Israele. Raymond Aron, alla vigilia della guerra, affermava l'esistenza di un
sentimento di solidarietà. Se le grandi potenze avessero lasciato distruggere lo stato
d'Israele, questo crimine avrebbe tolto la forza di vivere e diffuso la vergogna dell'umanità.
Ed egli chiama ''statocidio'' quest'eventuale distruzione. La solidarietà manifestata nei
confronti dello stato di Israele non tendeva a difendere una forma di governo né una
particolare politica. Essa si è manifestata in modo così vivace perchè ad essere minacciata
era l'esistenza stessa di una comunità originale che si era costituita in stato per rimanere in
vita. La minaccia che pesava su Israele non era una minaccia politica, ma una minaccia
ontologica, che mirava alla distruzione fisica e culturale di Israele, alla distruzione dei suoi
abitanti, dello Stato, della comunità. Si temeva un genocidio culturale. Nel 1977 gli Stati
Uniti mettono in piedi un organismo incaricato di trovare i criminali di guerra nazisti che si
erano lì rifugiati negli anni successivi alla capitolazione tedesca. Un mese dopo la diffusione
del serial Olocausto, prendendo atto dell'emozione da esso suscitata, il giorno in cui viene
celebrato il trentesimo anniversario della creazione dello Stato d'Israele, il presidente Carter
annuncia la creazione di una commissione presidenziale sull'Olocausto e ne offre la
presidenza a Elie Wiesel, che negli Stati Uniti incarna la figura del sopravvissuto. È un gesto
decisivo, volto a conciliarsi gli ebrei in prospettiva delle elezioni presidenziali. Il 7 ottobre
1980, viene istituito per legge un Consiglio del Memoriale americano dell'Olocausto che
dovrà lavorare al progetto di un memoriale nazionale. È il primo importante intervento
politico. Da quel momento la memoria del genocidio diviene anche uno dei temi degli
uomini politici. Così, il serial Olocausto, è una buona cartina di tornasole rispetto al
cambiamento del paesaggio della memoria. Un cambiamento in cui si combinano diversi
elementi: la modificazione dell'immagine del sopravvissuto, i modi in cui il genocidio viene
usato politicamente. A New Haven, una città del Massachussetts, in cui si trova la
prestigiosa Yale University, è grazie alla proiezione del serial che alcune persone prendono
coscienza del fatto che ignoravano tutto dei sopravvissuti della Shoah. Essi decidono allora
di fondare un ''Progetto cinematografico sui sopravvissuti dell'Olocausto''. Quando la Yale
University offre il proprio aiuto, e gli archivi video delle testimonianze sull'Olocausto
aprono i loro battenti a Yale, il ''Progetto'' aveva già raccolto circa duecento testimonianze.
Si fa strada una preoccupazione relativa ai sopravvissuti, ossia il dovere di ascoltare e di
ristabilire un dialogo con delle persone che sono state marcate dalla loro esperienza a tal
punto che la loro completa integrazione nella vita di tutti i giorni è solo un'apparenza. Alla
testimonianza viene attribuiti subito una funzione difficile da definire: si tratta di una
funzione di terapia sociale, dal momento che consisterebbe nel restaurare un legame
spezzato? Rispetto alle finalità assegnate alle testimonianze si tratta di una nuova funzione:
quella di permettere al sopravvissuto di prendere la parola. Ogni sopravvissuto ha un
bisogno di raccontare la propria storia per riuscire a metterne insieme i frammenti; il
bisogno di liberarsi dai fantasmi del passato, di conoscere la verità di quest'ultimo per poter
ritrovare il cammino della propria vita. È un errore credere che il silenzio contribuisca alla
tranquillità. Non fa che perpetuare la tirannia degli eventi passati. Si può parlare solo se si
viene ascoltati: il racconto che non viene ascoltato è un trauma altrettanto grave di quello
della prova iniziale. Il metodo di raccolta della parola, elaborato a Yale, è legato a questo
obiettivo principale: far nascere una parola e permettere il suo ascolto. L'intervista si svolge
in uno studio, ossia in un luogo chiuso e isolato dall'ambiente normale dell'intervistato che
nulla deve distrarre dall'immersione in se stesso alla quale viene invitato. L'intervistatore
non ha a disposizione una griglia predefinita. I suoi interventi hanno la funzione di precisare
meglio un determinato punto del racconto, o di aiutare il testimone ad evocare gli episodi
particolarmente dolorosi. Non deve né commentare né rettificare il racconto. Tra
l'intervistatore e il testimone viene così a crearsi un ''patto testimoniale''. È soprattutto la
nascita della Survivors of the Shoah Visual History Foundation, creata da Spielberg nel
1994, a cambiare completamente i termini della raccolta delle testimonianze. Nel 1994,
mentre stava girando in Polonia Schindler's List, Spielberg era stato sconvolto dai racconti
dei sopravvissuti che accettarono di raccontare la loro storia davanti ad una telecamera. In
un'intervista, Spielberg spiega che egli voleva conservare la storia così come essa ci sarà
stata tramessa da coloro che l'hanno vissuta e che sono riusciti a sopravvivere; è
fondamentale vedere i loro volti, sentire le loro voci e capire che ad aver subito la Shoah è
gente comune come tutti. L'analogia con l'origine degli archivi di Yale, nati anch'essi
dall'esistenza di un film, è inquietante. I due film di finzione sul genocidio visti da decine di
spettatori in tutto il mondo, furono entrambi all'origine delle due più importanti raccolte di
testimonianze. Tuttavia, mentre i sopravvissuti testimoniarono in contrapposizione al serial
Olocausto, si può sostenere che, al contrario, essi testimoniano ora in simbiosi con
Schindler's List e non in opposizione. Ma non è questa l'unica differenza. Spielberg,
diversamente dai promotori di Yale, non pone più l'accento sulla persona del sopravvissuto.
Al centro del suo progetto vi è un concetto: quello di trasmissione. Mentre i promotori di
Yale insistevano sul sentimento dei sopravvissuti e sulla loro sofferenza dovuta al
sentimento di essere per sempre isolati dal mondo e dai loro cari a causa di un'esperienza
estrema, il profetto di Spielberg si fonda, al contrario, sulla volontà di mostrare ''gente
comune'' che è sopravvissuta al naufragio della guerra. Inoltre, il progetto di Spielberg ha
assunto una dimensione industriale. Tenendo conto dell'età dei sopravvissuti, bisognava
intervistare, nel più breve tempo possibile, tutti coloro che erano ancora intervistabili.
Vennero dunque formate delle équipes nei diversi paesi in cui abitano i sopravvissuti, le
quali dovevano lavorare al ritmo di quattro interviste al giorno. Il 12 gennaio 1998, Micheal
Berenbaum, presidente della fondazione Spielberg, faceva il punto sullo stato degli archivi.
Poiché i racconti dei sopravvissuti vertono per il 20% sulla loro vita quotidiana prima
dell'Olocausto e per il 15% sulla vita del dopo, si è costruito, per la prima volta, un quadro
esaustivo della vita delle comunità ebraiche del XX secolo. È anche per la prima volta in cui
la storia di un evento viene raccontata da coloro che l'hanno vissuto. La pretesa di Spielberg
è proprio quella di scrivere la storia della Shoah. Negli Stati Uniti, la Fondazione fornisce
agli insegnanti delle scuole superiori un materiale pedagogico. La Fondazione Spielberg ha
beneficiato dell'esperienza di Yale, a cui si richiama, trovandovi probabilmente una
legittimazione ''scientifica''. Ma ciò nonostante ha modificato in modo sostanziale la tecnica
delle interviste e, di conseguenza, il senso stesso del progetto. L'intervistatore è un
volontario che ha riempito un questionario con cui si voleva valutare le sue conoscenze
della Shoah e le sue competenze in generale. Nel caso in cui la sua domanda venga
accettata, fa uno stage di tre giorni. Alla fine di tale stage, viene dichiarato atto a condurre le
interviste. La testimonianza, secondo il metodo concepito da Spielberg, deve essere
calibrata. Deve durare, in linea di massima, due ore, e il 60% deve essere dedicato al
periodo della guerra, il 20% ai due periodi rimanenti, il prima e il dopo. Ma soprattutto, ed è
questa la principale innovazione rispetto alle interviste condotte a Yale, alla fine
dell'intervista il sopravvissuto deve esprimere un messaggio che corrisponda a ciò che
desidererebbe lasciare in eredità alle future generazioni. La famiglia del sopravvissuto,
esclusa dallo spazio scenico dell'intervista, viene invitata a raggiungerlo alla fine
dell'intervista stessa. I sopravvissuti intervistati mostrano la loro vita felice dopo essere
passati per così tante prove. È un messaggio ottimista: la famiglia ricostruita grazie ai
discendenti è la prova vivente del fallimento del progetto nazista di sterminare un intero
popolo. Un messaggio dal quale emerge la reale natura di tali interviste: non si tratta di
costruire degli archivi della Shoah, ma degli archivi della sopravvivenza. Se gli
intervistatori e lo staff degli archivi di Yale lavorano a titolo benefico, lo staff di Spielberg è
molto numeroso e i soldi non bastavano a finanziare il progetto e dunque i ricavati che
arrivavano nelle casse della fondazione Spielberg hanno cessato di essere assegnati ad altri
progetti concernenti la memoria del genocidio. Mentre le interviste a Yale non venivano
condotte secondo un quadro predefinito, e la loro durata non era limitata, quelle condotte
dall'équipe formata da Spielberg seguono un protocollo comune a tutti i paesi. I video
vengono inviati a Los Angeles, numerati e catalogati. All'avanguardia della tecnologia, le
testimonianze, numerate, dovrebbero essere disponibili su di un server, e, davanti al suo
schermo, il giovane, che la Fondazione Spielberg desidera educare, potrà consultare,
servendosi di un indice, gli estratti di tali testimonianze. Potrà consultare, inoltre, ogni
genere di informazione ad esse connessa: le foto concernenti gli avvenimenti a cui fanno
riferimento i testimoni, le carte geografiche che indicano il luogo del campo o del ghetto di
cui si parla. Micheal Berenbaum e Steven Spielberg aspirano alla sostituzione delle
testimonianze, che costituirebbero la vera storia. Ci invitano a una vera e propria rivoluzione
storiografica, rivoluzione resa possibile dalla moderna tecnologia. La storia verrebbe così
restituita ai suoi veri autori, a cui essa appartiene: gli attori e i testimoni che la raccontano
per l'oggi e per il domani. La banca dati della Fondazione Spielberg, nel 1998, aveva
catalogato solo 1600 testimonianze, ma la catalogazione continua. Affermano di star
preparando il materiale per gli insegnati, i quali usano ancora i libri ma che tra cinque anni
saranno tutti collegati alle reti informatiche. Si è messo a punto un nuovo sistema di
catalogazione numerica a partire da alcune parole chiave, inoltre, verranno creati dei CD-
Rom. Alla rivoluzione storiografica si affianca, dunque, una rivoluzione culturale:
l'abbandono dei testi scritti nell'ambito dell'insegnamento, a profitto delle moderne
tecnologie. La raccolta di Spielberg si inserisce in un contesto più largo, che Micheal
Berenbaum chiama l'americanizzazione dell'Olocausto, espressione che designa la
trasposizione di un evento dal luogo in cui si è prodotto, l'Europa, negli Stati Uniti. Egli
spiega in tale preocesso che l'Olocausto appartiene ora alla cultura occidentale e, in
America, rappresenta l'esperienza assoluta. La gente non sa che cosa sia il bene e il male,
ma ha una certezza: l'Olocausto è il male assoluto. Egli ha inventato il termine di
''americanizzazione dell'Olocausto'' in virtù del fatto che si è preso un evento europeo e si è
integrato nella cultura americana, nella cultura popolare. Negli Stati Uniti, l'Olocausto viene
utilizzato per insegnare i valori tradizionali americani: ogni persona viene creata uguale alle
altre, che ha i diritti inalienabili che non le possono essere negati dallo Stato. L'Olocausto
negli Stati Uniti serve ora d'esempio per giustificare il fatto che ci sia un controllo sulle
azioni di ogni governo. Il concetto di ''americanizzazione dell'Olocausto'' nelle intenzioni di
Micheal Berenbaum coincide con la volontà di descrivere una realtà multiforme che si puù
riassumere sostenendo che, attualmente, sono gli Stati Uniti ad essere al centro
dell'Olocausto: la storiografia è ormai prevalentemente americana; il Memoriale
dell'Olocausto di Washington ha intrapreso un'operazione di raccolta di microfilm degli
archivi di tutto il mondo concernenti il genocidio degli ebrei. Ma l'americanizzazione
dell'Olocausto non si riduce a questa trasposizione del o dei centri produttori di storia e di
memoria. Essa produce anche la propria visione della Shoah, una visione esportata
soprattutto attraverso i film. Vi è un paradosso: le recenti inchieste volte a valutare la
conoscenza relativa al genocidio degli ebrei indicano che, rispetto ai francesi, agli inglesi e
ai tedeschi, gli americani sono di gran lunga i più ignoranti mentre la presenza
dell'Olocausto negli Stati Uniti è la più pregnante. Negli Stati Uniti la maggior parte delle
persone percepiscono i crimini nazisti, non tanto attraverso i racconti storici, ma attraverso i
racconti prodotti dagli scrittori popolari, dagli artisti, dai produttori di film, ecc. Fa parte
dell'ethos americano il fatto di porre l'accento sull'ottimismo, sulla libertà. E allo stesso
ethos appartiene anche il fatto di sminuire o di negare i lati bui e crudeli della vita e di
sostituirli accentuando il potere salvifico dell'atteggiamento morale. L'americano preferisce
pensare in modo positivo. La visione tragica è antitetica alla visione americana del mondo,
che vuole che gli uomini trionfino rispetto alle avversità e non continuino a rimuginare le
loro pene. Il problema è che tale visione non coincide affatto con quella che si forma lo
storico allorchè studia il genocidio degli ebrei. Sino all'inizio degli anni Sessanta, anche
negli Stati Uniti il genocidio è assente dalla vita politica e culturale. Solo nel 1959, con il
film Il diaro di Anna Frank, Hollywood rompe questo silenzio. Il Diario di Anna Frank
concerne un ambiente chiuso e familiare, e se il destino tragico della sua autrice partecipa
all'intensità della storia, ad affascinare i giovani lettori sono soprattutto i rapporti familiari,
ecco perchè non si è certi del fatto che l'adolescente che si dedica a tale lettura ne esca
realmente informato sul genocidio. Buono Bettelheim è molto severo nei confronti della
famiglia Frank. Egli afferma che lo straordinario successo del Diario di Anna Frank è
significativo dell'intensità del bisogno di cancellare la consapevolezza della natura
distruttiva dei campi di concentramento e di sterminio, sottolineando che la vita intima e
personale dell'individuo può continuare anche sotto l'immediata persecuzione da parte del
più spietata regime totalitario. E, a suo avviso, il successo mondiale della storia di Anna
Frank non si spiega se non vi si riconosce il desiderio di dimenticare le camere a gas dando
il massimo valore alla capacità di ritirarsi in un mondo privato, intimistico, anche se intorno
l'uragano potrebbe inghiottire da un momento all'altro. Dal successo del libro, Bruno
Bettelheim passa al successo del film e ne analizza l'epilogo. Infatti, Anna afferma
nell'epilogo del film che nonostante tutto, continua a credere che, in fondo al cuore, gli
uomini siano buoni. Bettelheim commenta il fatto che questo sentimento improbabile viene
attribuito ad una ragazza che è stata fatta morire di fame, che ha visto la sorella prima di lei
andare incontro alla medesima sorte, che sa che la madre è stata assassinata, e che è stata
testimone dell'uccisione di migliaia e migliaia di adulti e bambini. Una frase del genere non
è giustificata da nulla. Qual è dunque la funzione dell'atto di fede finale sulla bontà del
genere umano inventato di sana pianta? Secondo Bettelheim, esso è stato messo, a torto, per
rassicurare: esso dà una falsa rassicurazione, perchè lascia con l'impressione che nella lotta
tra le atrocità naziste e l'unità della famiglia, quest'ultima ne esca vittoriosa, giacchè è Anna
che ha l'ultima parola. Questo è contrario ai fatti, perchè nella realtà è Anna che viene
uccisa. Perciò in questo modo lo spettatore si sente più sollevato, alla fine. Per questo
motivo commedia e film sono piaciuti così tanto: perchè, mentre mostrano che Auschwitz è
esistito, nello stesso tempo incoraggiano a ignorare tutte le sue implicazioni. Se tutti gli
uomini in fondo al cuore sono buoni, non ci fu mai veramente una cosa come Auschwitz.
Nel diario di Anna Frank trionfa, dunque, l'ottimismo, proprio come avviene in Olocausto e
in Schindler's List. Anche il percorso proposto dal Memoriale dell'Olocausto di Washington
sottostà a questo imperativo ottimistico. Il museo di Washington ha attirato una grande
massa di visitatori. È il maggior strumento d'educazione per le generazioni attuali e future.
Secondo Micheal Berenbaum, esso è anche uno strumento di americanizzazione
dell'Olocausto, americanizzazione implicita nello scopo che il museo si è prefissato: quello
di rivolgerso agli americani e di svolgere un ruolo nella futura politica degli Stati Uniti. Per
Barenbaum, il racconto della storia dell'Olocausto, avrebbe una chiara finalità: quella di far
comprendere la realtà attuale, di rispondere ai bisogni sociali degli americani di oggi. Lo
scopo ultimo del museo è quello di una comprensione intensa e generale. Non si parla di ciò
che i tedeschi hanno fatto agli ebrei, ma di ciò che l'uomo ha fatto all'uomo. Che il
Memoriale di Washington sia collegato all'enorme raccolta della Fondazione Steven
Spielberg lo si può innanzitutto dedurre dal fatto che Micheal Berenbaum abbia assunto la
direzione di entrambi i progetti. Ma il legame è assicurato dal fatto che i due progetti si
fondano sulla stesso ideologia: sono entrambi monumentali, coronati di successo ed
entrambi, riducono quasi all'insignificanza ciò che li aveva preceduti. In questo caso le
interviste sono migliori, condotte da persone che sono state formate meglio, che, nel loro
metodo, hanno rispettato maggiormente la personalità dei deportati. I sopravvissuti alla
deportazione preferiscono le modalità d'intervista dell'équipe di Spielberg a quelle di Yale.
Sono contenti di mostrare la loro interiorità. Ma soprattutto, la fama di Spielberg ricade su
di loro ed essi hanno l'impressione di ricevere di riflesso un frammento della sua notorietà.
Alla testimonianza spontanea ha fatto seguito l'imperativo sociale della memoria. Al
sopravvissuto viene chiesto di onorare un dovere della memoria al quale non può sottrarsi.
L'atto di testimoniare dinanzi alla telecamera, di poter poi mostrare la sua cassetta ai nipoti
ha un'importanza fondamentale per il sopravvissuto. Scrive Primo Levi: ''per molti di noi
essere intervistati rappresentava un'occasione unica e memorabile, l'evento che si era attesso
dal giorno della liberazione, e che ha dato un senso a quest'ultima''. Dire quale è stata la
propria esperienza durante la Shoah convalida questa stessa esperienza che spesso dopo la
liberazione è sembrata ai sopravvissuti irreale, e rispetto a cui hanno spesso temuto di non
essere creduti. In ogni deportato si nasconde una sorta di umiltà e quando l'ex deportato sa
di essere, se non compreso, per lo meno veramente ascoltato, la testimonianza gli restituisce
dignità proprio rispetto a quella parte di sé che è stata umiliata: quella di detenuto in un
campo di concentramento o di sopravvissuto dei ghetti. Tuttavia, nell'imposizione a
testimoniare, a raccontare davanti ai giovani, o a mettere nel cassetto la propria storia
affinchè la propria testimonianza, anche dopo la propria morte, possa ancora servire
all'educazione delle generazioni a venire, c'è un imperativo che irrita alcuni deportati: ''sii
deportato e testimonia''. In tale imperativo c'è il rischio di una duplice costrizione: quella di
essere racchiusi in un'unica identità, quella di deportato; e quella di essere, in quanto
deportato, solamente colui o colei che testimonia. Alla lamentela già analizzata, di non aver
potuto parlare al ritorno perchè nessuno stava ad ascoltare, se ne sostituisce ora un'altra:
quella di essere al contempo derubati e utilizzati. Un altro deportato, che ha testimoniato sin
dal suo ritorno, ha affermato che ad un convegno ha sentito dichiarare da parte di alcuni
storici che per loro gli ex-deportati erano dei documenti. Di fronte a tale affermazione, egli
ha espresso il suo stupore, in quanto all'improvviso si sentì trasformato in uno strano
animale chiuso in uno zoo insieme ad altre specie rare, poiché gli storici venivano ad
osservare gli ex deportati, chiedendo di sdraiarsi, di girarsi e rigirarsi proprio come si fa con
le pagine di un documento, ponevano delle domande e prendevano qualche appunto a caso.
Di fronte alla testimonianza del deportato lo storico, come ricorda Pierre Laborie, ha il
compito di ''guastafeste delle memorie'' perchè deve ricordare che gli scarti che esistono non
sono interamente riducibili. Lo scarto tra la certezza dell'esperienza vissuta e gli
interrogativi critici sul modo in cui si è svolto il passato; lo scarto tra le amnesie puntuali e
le dure realtà della cronologia minuziosamente ricostruita; lo scarto tra la seducente
coerenza del discorso esplicito e la ricerca del non detto, dell'oblio, dei silenzi; lo scarto tra
la legittimazione derivante da un passato ricostruito con troppa forza sulla scia di un
impegno, di un'eredità e dei valori da preservare dalla banalizzazione. Eppure, dinanzi a una
persona viva, lo storico piò essere moralmente un ''guastafeste delle memorie''? La
sofferenza che emerge dal racconto di un sopravvissuto lo contagia. Sebbene sappia di
possedere un sapere e senta che il testimone si allontana dalla verità, egli è terribilmente
impotente. Sa che ogni racconto di vità è una costruzione, ma sa anche che tale costruzione
è l'armatura stessa della vita presente. Ognuno ha il diritto di costruire la propria storia, di
ricamare i propri ricordi e i propri oblii. Ognuno ha dunque assoluto diritto alla propria
memoria, la quale non è nient'altro che la sua identità, il suo stesso essere. Ma tale diritto
può entrare in conflitto con uno degli imperativi del mestiere dello storico, quello
dell'ostinata ricerca della verità. Ma lo storico può anche procedere in altro modo. Può
leggere, ascoltare o guardare le testimonianze, senza mai cercarvi ciò che sa di non potervi
trovare: dei chiarimenti sugli eventi precisi, sui luoghi, le date, sulle cifre. Ma sapendo
anche che esse racchiudono una straordinaria ricchezza: l'incontro con una voce umana che
ha attraversato la storia indispensabile di un'epoca e di un'esperienza. L'attuale contrasto tra
i testimoni e gli storici deriva dall'intrecciarsi delle scene in cui essi sono presenti e dai ruoli
che vengono loro imposti. Storici e testimoni vengono chiamati negli stessi luoghi: aule di
tribunali, televisione, radio, scuole. Sono, dunque, spesso in competitività tra loro. Il
''dovere della memoria'' assegna al testimone e alla sua testimonianza una finalità che va ben
al di là del racconto di un'esperienza vissuta. Per esempio, il fine assegnato alle
testimonianze della Survivors of the Shoah Visual History Foundation, è molto ambizioso:
l'archivio verrà utilizzato come mezzo per l'intera educazione sull'Olocausto e per educare
alla tolleranza razziale, etnica e culturale. Conservando le testimonianze di decine di
migliaia di sopravvissuti all'Olocausto, la Fondazione permetterà alle future generazioni di
apprendere le lezioni di questo periodo devastante della storia umana da coloro stessi che
sono sopravvissuti ad esso. Primo Levi, che aveva riflettuto molto e molto testimonianto,
alla fine della sua vita esprime la sua stanchezza e il suo scetticismo. Una delle domande più
frequenti è il perchè di tutto ciò, perchè gli uomini si fanno la guerra, perchè sono stati creati
i Lager, perchè sono stati sterminati gli ebrei, ed è una domanda alla quale non si riesce a
rispondere, se non con delle vaghe generalizzazioni sul fatto che l'uomo è cattivo, che non è
buono. Primo Levi, del resto, smise di andare a testimoniare nelle scuole, perchè la sua
esperienza di deportato non gli suggeriva alcuna risposta alle domande che gli venivano
poste. La maggior parte delle volte il testimone esce dal proprio ruolo, spiega agli studenti
l'ascesa del nazismo e le sue molteplici malversazioni, e tenta di mobilitarli per le lotte del
nostro tempo. Ma lo fa anche con il largo consenso di una parte degli insegnanti, che in tal
modo si disfano del compito particolarmente arido dell'insegnamento della storia della
Shoah. Alcuni insegnanti preferiscono sostituire le lezioni con la proiezione di un film o con
il dibattito con un testimone, mentre un buon metodo pedagogico esigerebbe che ci fosse sia
la lezione sia la testimonianza. La testimonianza è dunque cambiata. Non è più unicamente
la necessità interiore, per quanto essa continui ad esistere, a spingere il sopravvissuto alla
deportazione a raccontare la propria storia davanti alla telecamera, ma è un vero e proprio
imperativo sociale che fa del testimone un apostolo e un profeta. Alla fine degli anni Ottanta
i viaggi sui luoghi dello sterminio ebraico diventano agevoli e poco costosi. Sono sempre
più numerosi i giovani di tutti i paesi che visitano tali luoghi in cmpagnia di ex-deportati. La
conoscenza deriverebbe, così, dal confronto con la realtà, con la verità: la realtà del luogo, la
realtà del vissuto del deportato. Una situazione il cui obiettivo è quello di trasformare il
giovane, che appartiene alla terza generazione rispetto agli eventi, in un testimone del
testimone, facendone il portatore di un ssapere sulla distruzione degli ebrei che non è stato
acquisito sui banchi di scuola, o sui libri, ma attraversi un'esperienza vissuta. Negli anni del
dopoguerra prevaleva l'idea di impedire alla Germania di rinascere, una Germania barbarica.
Attualmente, sia in Francia che negli altri paesi, tutti i testimoni sostengono di lottare contro
l'oblio della Shoah e contro la rinascita del fascismo. E a ciò si affianca, talvolta, la lotta
contro i genocidi. Divenuto romai uno stereotipo, tale discorsi si inserisce nel discorso
politico circostante il quale si sovrappone alla testimonianza che ne viene strumentalizzata.
Ma il discorsi del testimone è determinato anche dalla sua età. Il testimone degli anni
Novanta, in cui c'è stata una vera e propria esplosione delle testimonianze, è un uomo o una
donna di una certa età, che spesso ha ormai concluso la sua carriera professionale e che non
avrà più figli. Per lui, l'avvenire e le possibilitò che esso apre si sono fortemente ristrette. E
il tono della sua testimonianza è largamente influenzato dal bilancio che egli può fare della
propria esistenza. Ora, la persona intervistata, lo è in ragione della sua esperienza negli anni
della Seconda guerra mondiale, anche se le viene domandato di evocare gli anni del prima e
del dopo. Il testimone viene intervistato in quanto è un sopravvissuto o in quanto deportato.
Non gli viene dunque chiesto un racconto di vita ma un racconto della sua vita (prima, dopo
e soprattutto durante) basato su quel periodo. Se ci si riferisce alla psicoanalisi, la Shoah
sarebbe una nuova scena primaria, siamo dunque in presenza di un secondo mito delle
origini. Tutta la storia dell'individuo si trova ad essere intrecciata intorno agli anni della sua
vita trascorsi nel campo o nei ghetti, in virtù di un semplice postulato: quello secondo cui
questa esperienza è stata l'esperienza decisiva di un'intera vita. Auschwitz viene attribuita
come una sorta di luogo di origini a chiunque ne sia sopravvissuto. La parola Auschwitz ha
oggi un'aura, seppure negativa, e determina quel che si pensa di una persona, quando si sa
che è stata là. Ma come spiegare quest'esplosione delle testimonianze? Per alcuni, si tratta di
un classico programma dii costituzione di archivi di storia orale. È in questo modo che è
stata intitolata la raccolta del Memoriale dell'Olocausto di Washington. Per altri, i progetti di
raccogliere le testimonianze rappresentano uno sforzo disperato per salvare l'individuo
comune, per dare parola a gente semplice. Ritroviamo qui la stessa motivazione che fu
all'origine della scrittura dei libri del ricordo. A differenza della teologia e della sociologia,
che parlano dell'Olocausto, la letteratura dice: guardiamo questa particolare persona,
diamole un nome, un luogo. La forza della letteratura risiede nella capacità di creare
un'intimità. ''Salvare l'individuo dalla massa'', è questo il concetto di intimità che è il tema
centrale del lavoro di ricerca del gruppo da esso animato. Da tali raccolte emorgono due
aspetti. Il primo, che è una costante nella memoria ebraica della Shoah, è quello di ridare un
nome, un volta, una storia a ciascuna delle vittime della morte di massa. Era questo il
progetto dei libri del ricordi, così come quello di Serge Klarsfeld quando pubblicava Le
Mémorial des Juifs de France, un'opera in cui venivano elencati tutti i nomi. E anche
Gideon Hausner presentando l'atto di accusa ad Adolf Eichmann, parla in nome di tutti i
morti. Nei libri del ricordi, nei libri di Serge Klarsfeld e sulle labbra di Hausner, si tratta dei
nomi e del ricordo dei morti. Nei videoarchivi, si tratta, invece, dei vivi, dei sopravvissuti. È
ad essi che viene riferito il concetto di intimità che sta al centro dell'attuale movimento di
raccolta di testimonianze. Ora, tale concetto di intimità va ben al di là della semplice
testimonianza della Shoah. Sta al centro della nostra società e del funzionamento dei media.
La televisione dell'intimità si fonda sull'espressione delle emozioni e sulle testimonianze.
Mostra l'esperienza e valorizza l'esibizione. Del resto, nelle trasmissioni televisive e nelle
registrazioni delle testimonianze dei deportati si segue la stessa tecnica filmatografica: si
privilegiano sempre i primi piani. Il regista spia gli atteggiamenti, i sguardi, i gesti, le mani.
Nelle trasmissioni dell'intimità, l'occhio della telecamera spia l'occhio del testimone. Al
testimone la trasmissione permetti di perfezionare un'identità sociale, identità che richiede
uno sguardo o una sanzione da parte della società. Ci dobbiamo così confrontare con una
ideologia dell'intimità che tradforma delle categorie politiche in categorie psicologiche. Il
testimone si rivolge al cuore, e non alla ragione. Suscita compassione, pietà, indignazione e
talvolta persino un senso di rivolta. Il testimone stipula un patto di compassione con colui
che l'ascolta. Un patto che si caratterizza come una particolare interazione tra trasmissione e
ricezione. Per quanto concerne la trasmissione, il protocollo di compassione dispone una
messa in scena fondata sull'esibizione dell'individuo, della sua specifica sofferenza, e pone
l'accento sulla manifestazione delle emozioni e sulla espressione corporea. Per quanto
concerne la ricezione, l'identificazione con le infelicità e l'empatia con le sofferenze
costituiscono la molla dello slancio di compassione. È una visione che mette a disagio lo
storico. Non perchè sia insensibile alla sofferenza ma perchè sente che questa
giustapposizione di storie non è un racconto storico, e che anzi, in un certo senso, lo
cancella.

Il processo Papon o il passaggio del testimone;

Mentre il processo Eichmann segna l'avvento del testimone, il processo Papone segna,
invece, un doppio passaggio del testimone. Il passaggio agli storici, divenuti a loro volta
testimoni per il Pubblico ministero, per l'accusa e per la difesa. Ma anche, ed è quello che
più ci interessa qui, passaggio del testimone a una nuova generazione, quella dei bambini
che sono cresciuti durante la guerra, per i quali il ricordo di un passato traumatico non
risiede più nell'evocazione degli eventi ma nell'irrimediabile scossa che essi provocarono
nelle loro giovani vite. Nel caso del processo Eichmann, ogni processo ricorda una o più
testimonianze che sembrano aver pesato più delle altre. Per quanto concerne il processo
Papon, tutti sono d'accordo sul fatto che la testimonianza più significativa sia stata quella di
Esther Fogiel. Questa fa la sua comparsa il trentasettesimo giorno del processo, il 19
dicembre 1997. Prima di lei, la corte aveva già sentito altri testimoni. C'era stata per
esempio la testimonianza di Georges Gheldmann che, a settant'anni, usa ancora le parole di
quando era bambino per spiegare come era stato strappato alla mamma. Ma è soprattutto su
Esther Fogiel che le disgrazie sembrano essersi accanite. Lei racconta la sua infanzia di
figlia di immigrati, i cui genitori sono arrivati in Francia negli anni Venti per sfuggire ai
pogrom della Lettonia natale. Come tutti gli immigrati, i suoi genitori lavorano sodo. Sua
madra la lascia di balia in balia sin da quando ha sei mesi. Solo quando suo padre viene
congedato nel 1940, essa ritorna a casa. Poi, è la volta della partenza verso la zona non
occupata. Sua madre la va a prendere a scuola e la porta da una giovane coppia. Esther
Fogiel parte con una signora che non conosce, si titrova in una famiglia il cui
comportamento nei suoi confronti cambia improvvisamente tre giorni dopo il suo arrivo.
Erano diventati brutali. Più tardi, riflettendoci, essa pensò che tale comportamento fosse
dovuto al fatto che essi avevano appreso che i suoi genitori erano stati deportati. Viene
violentata, trascorre un periodo in un'istituzione religiosa dove viene trattata come
''un'anima nera''. Ritorna poi nella sua famiglia d'accoglienza in cui deve fare i lavori più
duri, e il suo unico legame affettivo è una cagnolina. Nel 1945 queste persone vengono
arrestate, messe in prigione. Non ha mai cercato di conoscerne il motivo. Quando, dopo la
guerra, ritorna nella sua città e nel suo quartiere, riconosce un vestito di sua madre indossato
da una sconosciuta. Essa aggiunge poi che per tutta la vita non ha mai smesso di fare quel
viaggio verso Auschwitz, precisando che a trent'anni fece un tentativo di suicidio. Eric
Conan e Bertrand Poirot-Delpech, che nelle loro analisi del processo hanno spesso pareri
contrastanti, si ritrovano in tutto nella valutazione della testimonianza di Esther Fogiel.
Entrambi affermano che vedendo questa sopravvissuta e ascoltando la sua storia, questo
processo non sarebbe stato mai vano se fosse riuscito a consolare almeno un po' Esther
Fogiel. Questo ''processo per la Storia'' non serva alla storia. Questo processo 'per la
memoria nazionale' risponde all'attesa delle vittime alla ricerca di un'origine della loro
infelicità. Quello di Esther Fogiel è certamente un caso estremo. Altri bambini separati dai
loro genitori ebbero la fortuna di essere accolti in un ambiente caloroso. Ma, con gradazioni
diverse, le sue sofferenze si ritrovano in molti di coloro che, bambini, dovettere venir
nascosti per sfuggire alla persecuzione. Alla testimonianza di Esther Fogiel sembra far eco il
commovente romanzo di Berthe Burko-Falcman, L'enfant caché. La testimonianza si stacca
così dalla Storia, si allontana ancora di più dall'evento. E leggendo o ascoltando la voce di
questi ''bambini nascosti'', ognuno impara molte cose sull'infanzia e sull'umanità, sulla
violenza di certi traumi e sul loro carattere irreparabile. Ma impara qualcosa dalla storia?
L'eco degli eventi informa sulla potenza dell'evento, ma non rende conto di ciò che è statp.
Qual è allora il dovere degli storici? Lo storico ha un unico dovere, quello di fare il proprio
mestiere, anche se i risultati del suo lavoro alimentano il dibattito pubblico o la memoria
collettiva o vengono strumentalizzati dall'istanza politica. E ciò perchè, quando il tempo
scolorisce le tracce, resta l'iscrizione degli eventi nella storia.

POSTFAZIONE
I testimoni segreti;

Il piccolo tamburino di Gunter Grass, Oskar, il protagonista del Tamburo di latta, suggerisce
l'idea dell'ottimismo di una sicura inscrizione di ogni fatto ed evento, di un'assoluta
impossibilità d'oblio che accompagna ogni accadere perchè la facoltà della memoria capace
di attestare il suo essere accaduto riceve un'estensione totale: non l'uomo, non Dio
permettono che tutto rimanga; ma le cose mute, gli oggetti inanimati. Come, del resto, il
tamburo di latta, che vede e commenta ogni evento della vita di Oskar, inseparabile da lui, e
testimone persino dei suoi segreti più intimi e per questo capace di aiutarlo nella scrittura
del racconto autobiografico. Consegnando ogni fatto alla memoria, mette in scena al
contempo la figura portatrice di tale memoria, il testimone oculare che permette al fatto di
non essere dimenticato. L'ottimismo lascia intravedere una piccola incrinatura: certo, tutto
rimane nelle cose che stanno a guardare, testimoni silenziosi della storia, eppure, affinchè il
ricordo del fatto non rimanga inanimato come le cose, esso ha bisogno di qualcuno, che sia
un soggetto, un io, che provi a raccontarlo. Così, la visione di qualcosa, la sua memoria e il
racconto di questo qualcosa formano un nesso imprescindibile affinchè la temporalità
puntuale di questo qualcosa acquisti la dimensione del permanere. Non solo, la comparsa
del racconto in quanto elemento necessario per la permanenza richiama un quarto elemento
sotto forma di un chi in grado di proferire il racconto. Da sempre, nella storia degli uomini,
gli eventi sono esistiti soltanto se visti, e hanno superato la fragile soglia del presente
soltanto perchè consegnati alla memoria di qualcuno che ha potuto tramandare. Da sempre,
accanto alle cose mute, gli eventi, per essere veramente tali, hanno richiesto che la figura del
testimone fosse, a differenza di ciò che pensa Oskar, una figura animata e con la facoltà di
parlare. Di raccontare una storia che consegni l'evento, individuale o collettivo, alla storia,
individuale o collettiva. Ma enunciata in tal modo, la condizione d'esistenza dell'evento è
data da una duplice dimensione temporale: l'evento è perchè rimane, e il suo essere presente
è possibile perchè in esso c'è già un passato. Ma enunciata in tal modo lascia indeterminata
la questione di sapere se il soggetto del racconto sia il testimone o un qualsiasi soggetto
postumo capace di vedere l'inscrizione dell'evento nel luogo in cui essa è stata consegnata,
di decifrarla, di interpretarla e di raccontarla. Restringendo il campo ai soli eventi a cui
diamo il nome di storia, non sempre i soggetti in grado di raccontarla, di tramandarla hanno
accettato di lasciare nell'indifferenza la risposta alla domanda sulla collocazione temporale
del soggetto del racconto rispetto all'evento raccontato. Restringendo ancora di più il campo
ai soli eventi storici del nostro secolo, proprio in questo secolo che con l'alfabetizzazione di
massa ha permesso che gli eventi venissero raccontati, scritti e inscritti anche da coloro che
erano stati presenti ad essi, dai testimoni, nell'ambito della disciplina storica sempre di più
l'interrogazione sulla differenza, ma anche sulle analogie, tra storia e testimonianza è stata
sentita come una questioni quasi ineludibile. Memoria, memoria indivuale e collettiva,
storia, testimonianza, la definizione di questi termini, la loro separazione o il loro intreccio
divengono questioni che richiedono risposte precise. E, sempre nel nostro secolo, l'evento
che ha dato inizio a una grande massa di testimonianze è quello della Prima guerra
mondiale. Proprio per questo, esso coincide con il momento in cui la disciplina storica ha
sentito l'esigenza di ridefinire le regole del proprio discorso. Posta di fronte a una memoria
dell'evento raccontata, non più soltanto oralmente, dai partecipanti allo stesso, a una
memoria collettiva che sembrava invadere il territoria inerente alla storia, quello del
documento scritto, la storiografia ha sentito l'esigenza, rispetto a questo evento, di
interpretarlo in un racconto in grado di dire al contempo la differenza delle proprie regole da
quelle del racconto di testimonianza. Marc Bloch riflette sulle differenze tra storia e
testimonianza in un saggio che relega la testimonianza nel campo della falsa notizia.
Basandosi sui testi della psicologia della testimonianza, Bloch trova in essi la ragione
scientigica, grazie a cui lo storico può porsi di fronte alle testimonianze, orali o scritte, con
un atteggiamento di diffidenza. Il dubbio diviene metodico: non esiste buon testimone, né
deposizione esatta in ogni sua parte. Al dubbio metodico dello storico, proposto da Bloch
come delimitazione del proprio campo dalla falsa notizia, si potrebbero affiancare in ambito
filosofico, le considerazioni di Walter Benjamin. Perchè l'incapacità di comunicare
l'esperienza e di tramandarla è qualcosa che Benjamin vede in atto proprio tra i reduci della
Prima guerra mondiale. Comunque, che si tratti della verità storica che sembra richiedere
criteri di validazione più scientifici e sicuri di quelli rintracciabili nei racconti di coloro che
prendevano parte ai fatti, incapaci di vedere con occhi veramente aperti, o che si tratti,
all'opposto, della verità narrativa che Benjamin descrive nel suo saggio sul Narratore, quella
che in epoche passate era capace di scambiare le esperienze proprio perchè riportando le
esperienze lontane nel tempo o nello spazio non richiedeva all'ascoltatore la loro
verificabilità, in entrambi i casi queste due verità definiscono se stesse in opposizione o
nell'oblio della non verità della testimonianza. La posizione di Bloch è attenta al territorio
della testimonianza: separando la storia da quest'ultima, Bloch propone di fare di essa, della
falsa notizia, un oggetto di studio per lo storico.

L'era del testimone di Annette Wieviorka;

Questo libro accoglie l'eredità di Bloch e fa del nostro presente, battezzandolo l'era del
testimone, un oggetto di studio. Un'epoca in cui la memoria dell'accaduto è lasciata alla
testimonianza, in cui la possibilità dell'estensione temporale dell'evento, ma, insieme, la
possibilità di delimitarlo, di interpretarlo, è lasciata ai soli racconti di coloro la cui biografia
è stata toccata da esso. Questo significa che l'epoca in cui viviamo è quella in cui la
testimonianza ha invaso il territorio del lavoro storico, sovvertendone le regole. L'evento,
ora, viene delimitato, interpretato e saputo da una serie di racconti individuali, nei quali
l'emozione del narratore, il suo specificio punto di vista, i suoi occhi più o meno aperti, il
ricordo a distanza di anni di ciò che i suoi occhi hanno visto, i falsi ricordi e le rimozioni
sono tutti fatti che tessono l'accaduto. Ma, innanzitutto, qual è l'evento che nella memoria e
nel sapere del senso comuno è stato stabilito e inscritto in modo così massiccio dai racconti
dei testimoni? Per Annette Wieviorka, se la Prima guerra mondiale segna l'inizio della
testimonianza di massa, l'evento che ha permesso l'avvento del testimone è quello della
distruzione degli ebrei d'Europa, l'Olocausto, la Shoah. Eppure il primo paradosso
sottolineato dall'autrice, questo enorme corpus di testimonianze scritte, orali, registrate,
filmate e videoregistrate è stato sinora studiato da varie discipline, preso in considerazione
come oggetto di studio dalla psicologia, dalla critica letteraria, dalla sociologia, ma
essenzialmente trascurato nell'ambito della storiografia. Invece, se la memoria della Shoah è
oggi il paradigma della costruzione della memoria di ogni evento storico, diventa urgente,
per lo storico, un'interrogazione sui modi della produzione delle testimonianze, un'attenta
riflessione sulla loro evoluzione nel tempo, sul ruolo che esse svolgono nel racconto storico
e nella memoria collettiva. La prima domanda che risuona nel libro è quella del perchè di
questa trascuratezza dell'enorme corpus formato dalle narrazioni dei testimoni. Il dovere
della testimonianza, l'imperativo del ricordare, del raccontare e del far ricordare, ha visto il
suo momento di nascista nel momento in cui la distruzione era ancora in corso. E a sentire
per primi l'urgenza di tale imperativo rispetto all'evento che stavano vivendo, sono stati
proprio gli storici ebrei rinchiusi nei ghetti della Polonia occupata. Tutti scrivevano nella
consapevolezza che quel mondo sarebbe scomparso, e che l'urgenza di una testimonianza
scritta del loro presente, della vita e della morte nei ghetti, era imperativa affinchè un giorno
di potesse fare la storia di quell'accaduto. Tutti scrivevano, e non solo gli storici, i
giornalisti, i letterati, abituati alla pratica della scrittura e consapevoli di ciò che doveva
essere registrato affinchè un giorno servisse alla storia, ma anche ai più giovani e persino ai
bambini. Nelle pagine in cui Wieviorka ricorda questo movimento e questa urgenza, in cui
le figure degli storici racchiusi nei ghetti prendono corpo insieme alla loro intuizione della
necessità di un archivio del presente, essa insiste su quello che è il presupposto di partenza
del libro. Se lo storico del genocidio degli ebrei deve integrare la testimonianza dei
sommersi e dei salvati nel suo corpus scientifico, lo deve fare innanzitutto da storico.
Storicizzando, cioè, le testimonianze stesse, ricordando che esse non sono mai il frutto di un
individuo isolato e staccato dal presente. Che esse, se sono inserite, come nel caso della
Shoah, in un movimento di massa, esprimono non soltanto i discorsi individuali, ma anche
quelli della società in cui vengono rese. E, per quanto riguarda la storia di questo primo
periodo delle testimonianze, la grande svolta indicata da Wieviorka è quella del 1942,
quando la consapevolezza che quel mondo sarebbe stato un mondo sepolto riesce a farsi
strada anche tra i prigionieri di quel mondo. Questi ultimi scrivono allora del loro presente
per il bisogno di consegnarlo al futuro, con una volontà di inscrizione dell'evento, sapendo
che le loro descrizioni sono, proprio mentre vengono scritte, già soltanto memoria
d'oltretomba. Proprio questa consapevolezza solleva vari problemi. Il primo è che in alcuni
testimoni di questo periodo, quello del durante, il sapersi già postumi rispetto al proprio
lavoro di memoria del presente poneva il problema di che cosa fosse memoria e il dubbio
sulla sua possibilità. Il secondo problema tocca più da vicino: la Shoah. Perchè gli storici
ebrei, ma non soltanto loro, i letterati, i giornalisti, e quei tutti che nei ghetti scrivevano le
loro testimonianze, diari, registrazioni degli episodi quotidiani in quella situazione di
eccezione testimoniavano del loro presente, nel loro presente, come non storicizzabile.
Come molti storici, Annette Wieviorka ricorda il discorso di Himmler dell'ottobre del 1943.
consegnado ai Reichleiter e ai Gauleiter presenti il segreto della ''Soluzione finale'', in esso
Himmler afferma che tutti loro avrebbero dovuto assumersi la responsabilità di quell'atto
portando con sé quel segreto nelle loro tombe. Ed effettivamente, gli artefici della
''Soluzione finale'' hanno operato secondo quella volontà, ponendoci di fronte all'unicità di
un evento della storia degli uomini che avrebbe dovuto essere talmente storico da cambiare
e sovvertire la natura, dando luogo a una seconda natura depurata dai germi della razza
inferiori, e poi, a cambiamento avvenuto, avrebbe dovuto cancellare se stesso in quanto
intervento dell'uomo sulla natura, e ritornare ad essere, per i posteri, soltanto ''natura''.
L'intervento storico dell'uomo sulla natura non avrebbe dovuto, cioè, lasciare traccia di sé.
Una volontà di assoluta scomparsa della traccia e del sovvertimento della modalità con cui
in un'intera tradizione, la nostra, quella occidentale, ogni generazione ha sentito il bisogno e
ha pensato il modo di lasciare i segni dei propri atti alle generazioni future: l'inscrizione
degli atti, appunto, nelle tracce che avrebbero potuto portare memoria degli stessi. Ma
allora, come fa vedere Wieviorka, che esse avrebbero dovuto contrastare la volontà di
assoluta cancellazione di quel presente, le parole dei testimoni del durante contengono già in
sé una volontà storica, un intuirsi come essenziali al costituirsi della storia. Rimane il
dubbio se questo debito della storiografia del genocidio ebraico nei confronti di questi
testimoni storici del genocidio mentre esso era ancora in corso, per quanto lo si possa
intendere come un debito simbolico, se insomma essa possa essere riconoscente nei
confronti di tale debito solo seguendo l'indicazione di Bloch per le testimonianze e false
notizia della Prima guerra mondiale, di farle diventare cioè a loro volta oggetto di studio
della storia, o se la storiografia non debba ripensare se stessa, integrando nel proprio tessere
le trame di quelle memorie individuali consegnateci da tali testimonianze. Annette
Wieviorka indica lo scarto tra memoria e sapere. La memoria della Shoah si è integrato
veramente in un sapere? Così, ricostruire la storia delle testimonianze con il presupposto che
esse non sono isolabili dal presente in cui si collocano, significa proporre,
contemporaneamente, una storia della loro ricezione. La pratica della scrittura continua
anche nel dopoguerra. E tanti consegnano ora alla scrittura l'esperienza dei campi sotto
l'impellenza di ricordare, di far sapere e di far ricordare. Ma è il tentativo di una generazione
che non riesce a parlare alla generazione ad essa subito successiva. I libri del ricordo in cui
ogni comunità raccoglieva le testimonianze orali dei propri sopravvissuti, e in cui riponeva
anche il tentativo di un'elaborazione collettiva del lutto, vengono scritti con la chiara
intenzione di trasmettere un mondo scomparso alla generazione successiva. Ma essi sono
stati del tutto ignorati. Quel mondo era veramente scomparso, con le persone che lo
componevano, la loro lingua, la loro cultura. Qualcosa si era spezzato, però, non soltanto da
una generazione all'altra degli appartenenti al popolo ebraico, ma anche tra i componenti di
tale popolo che erano passati attraverso l'esperienza della distruzione. L'autrivce dedica
molte pagine ai tentativi di progettazione e costruzione dei memoriali dell'Olocausto
intendendoli come domande rivolte alla società affinchè si facesse carico del genocidio. Con
la descrizione di tali successi, l'Era del testimone ci fa vedere come per lungo tempo la
società del dopoguerra non sentisse l'esigenza di tale riconoscimento. Nell'aprile del 1961,
comincia a Gerusalemme il processo a carico di Eichmann, responsabile della deportazione
degli ebrei dai paesi occupati dalla Germania nazista verso i campi della morte. Nella storia
delle testimonianze esso segna, secondo Wieviorka, il momento di una vera e proprio svolta.
Annette Wieviorka interroga il rapporto tra storia e giustizia, e, tema centrale del libro, il
rapporto tra storia e testimonianza. A differenza del processo di Norimberga, nel processo
Eichmann a comparire in primo piano, offuscando la figura dell'imputato, sono proprio i
sopravvissuti e testimoni della Shoah. Il processo Eichmann ha liberato la parola dei
testimoni, creando una domanda sociale di testimonianza, con esso il sopravvissuto
acquisisce un'identità sociale di sopravvissuto, che gli viene riconosciuta dalla società
stessa. Al centro di questa nuova identità, al sopravvissuto viene attribuita una nuova
funzione: il testimone è portatore di storia. Il procuratore Hausner, artefice del processo,
decide di basare l'atto di accusa non soltanto sui documenti probatori ma anche sulle
deposizioni dei testimoni. La sua intenzione è di far conoscere alle nuove generazioni
israeliane e al mondo intero la storiaa di ciò che era accaduto, dando al fantasma del passato
la dimensione della realtà. I momenti di svolta, di questo periodo, sono segnati da eventi
mediaatici accolti con emozione da un grande pubblico: il serial Olocausto e, solo qualche
anno fa, Schindler's Listi di Spielberg. Il primo di questi eventi mediatici aveva comunque
suscitato sentimenti contrastanti, soprattutto tra i sopravvissuti che cominciarono a
testimoniare in pubblico per raccontare la loro storia in opposizione a quella raccontata dal
film. Al contrario, il modo sistematico in cui ora la Fondazione Spielberg registra i video
delle testimonianze di tutti i sopravvissuti ancora viventi, mostra dei testimoni che hanno
attraversato un'esperienza eccezionale, che hanno vissuto su un altro pianeta. In questo
modo il testimone diviene un individuo comune, qualcuno che è sopravvissuto al naufragio
della guerra, che alla fine dell'intervista viene filmato insieme ai suoi discendenti, proprio
come nella scena finale di Schindler's Listi, e con cui ''noi'' possiamo identificarci. Nel
frattempo, si fa strada l'americanizzazione dell'Olocausto, che nelle intenzione dell'inventore
di tale termine, Micheal Barenbaum, vi è la volontà di descrivere il fatto che l'Olocausto ora
appartiene alla cultura occidentale e, in America, rappresenta l'esperienza assoluta. La gente
non sa che cosa sia il bene e il male, ma ha una sola certezza ed è quella che l'Olocausto è il
male assoluto. È che proprio l'incapacità di distinguere il bene dal male, l'assenza di una
capacità di giudizio su che cosa fosse bene e che cosa fosse male, aveva permesso agli
Eichmann di compiere il loro lavoro in buona coscienza. Un lavoro di messa a morte di
milioni di persone, compiuto senza alcun interrogativo sul male, è questo il senso dell'ormai
famosa espressione ''banalità del male''. Ma che il male potesse ormai essere definito banala,
significava che esso si poteva espandere alla superficie come un fungo, significava cioè la
sua tragicità. La capacità della cultura occidentale di saper distinguere, o almeno di porre il
problema della necessità della distinzione tra bene e male, eviterebbe forse ulteriori
banalizzazioni. In uno dei primi tempi del suo ritorno da Auschwitz, Primo Levi scrive una
poesia in cui riprende alcuni versi dello Shemà ebraico e che poi metterà a esergo del suo
libro di testimonianza del campo, Se questo è un uomo. Chiede, nella poesia, che ognuno
accolga nelle proprie preghiere i ricordi del campo, comanda, anzi, di meditare, comanda
agli altri di portare nelle loro case il ricordi di uomini che lavorano nel fango. Se questo è un
uomo esce per la prima votla nel 1947. Levi, come tanti altri testimoni di questo periodo,
chiede ancora che si sappia e che si ricordi che questo è stato. Cerca, anche, la propria
personale elaborazione del lutto, che poi lascerà traccia di sé nei Sommersi e i salvati, in un
passo del libro in cui scandisce una breve litania dei nomi dei compagni che non sono
tornati. Facendo precedere ognuno di questi nomi da un semplice ''è morto'', forse Levi
esprime l'esigenza di un proprio piccolo e personale ''libro del ricordo''. Eppure, per quanto
collocabile in questo primo periodo, la poesia di Levi apre a una dimensione etica del
ricordo che forse la storia dovrebbe accogliere in sé, riconoscendo che il suggerimento di
questo accoglimento non può derivarle che dalle testimonianze individuali di coloro che, nel
primo periodo, hanno chiesto o imposto di ricordare. I testi testimoniali, e soprattutto quelli
del primo periodo del dopoguerra, sono un riconoscimento dell'enormità dell'evento e di un
ricordo del mondo sepolto a una società che non aveva ancora elaborato i paradigmi per
accettare, riconoscere, elaborare quell'evento. Se, come insiste Wieviorka, quei testi sono
rimasti inascoltati, gli scritto del primo periodo o quelli del durante suggeriscono che
trovare quei paradigmi rimane pur sempre impossibile. Parole scavate nel silenzio, cadute
nel vuoto di un mondo che non ascolta, testimonianze che si riconoscono anche impossibili
perchè vorrebbero contenere in sé la voce dei non tornati. Questo fa emergere forse che
qualcosa di quella memoria non riesce ad entrare, a inscriversi nei nostri discorsi. Ma forse,
aveva ragione anche Oskar, il piccolo tamburino di Gunter Grass, quando dal suo
manicomio e insieme al suo tamburo di latta cercava di farci sapere che le cose stanno
sempre a guardare. Che, a volte, veri testimoni degli eventi sono proprio le sedie di cucina,
la statua di legno di una donna. E forse, per quell'evento che chiamiamo con vari nomi,
Hurbn, Shoah, Olocausto, distruzione, Soluzione finale, Auschwitz, le pietre di Paul Celan
si affiancano alla statua di legno di Oskar, rappresentando i testimoni di quel periodo, i veri
e propri guardiani della memoria.

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