Sei sulla pagina 1di 3

SOCIOLOGIA DELLA COMUNICAZIONE 24-02-2022

Iniziamo da un livello base della comunicazione.


Cominciamo con una citazione di Shalamov, autore de “i racconti della Kolyma”: la Kolyma era un
gulag dell’estremo nord della Siberia dove c’erano le miniere d’oro. Era tutto un sistema di gulag,
quindi di campi di concentramento sovietici, che servivano a estrarre l’oro dal pdv economico, ma
era anche un sistema di sterminio di una gran parte della popolazione non gradita.
Shalamov trascorse nei gulag più di dieci anni qui, e come pochi, è sopravvissuto.
I campi di concentramento erano fatti fondamentalmente per sterminare le persone, per fortuna una
parte di queste sono sopravvissute e ci hanno lasciato testimonianze delle loro vite all’interno dei
gulag e dei lager.

“La mia lingua, la lozza di giacimenti, era povera. Povera quanto i sentimenti che continuavano a
vivere vicino alle ossa. Alzata, adunata, appello, lavoro, pranzo, fine lavoro, ritirata, piccone,
pioggia, fuori fa freddo, minestra fredda, minestra calda, pane, razione, lasciamene un tiro…da anni
me la cavavo con una ventina di parole, e la maggior parte erano imprecazioni” -cit.

Questa è una parte del racconto. Queste parole si possono ritrovare anche in altri testi di autori come
Primo Levi. La prima cosa che si evidenzia è proprio quella che dice Shalamov, che trascorse dieci
anni in un gulag e alla fine nella vita quotidiana del gulag usava 20 parole. La testimonianza dai
lager o gulag è che il nostro vocabolario si restringe, e alcune parole sono imprecazioni, che
esprimono uno stato d’animo. Considerate che nei gulag della Kolyma i lavori venivano sospesi
solo se si arriva a -30°. Al di sopra, si andava regolarmente a lavorare, e le giornate di lavoro
duravano dieci ore, gli abiti erano insufficienti e l’alimentazione scarsa. Per questo gran parte della
gente è morta, oltre al fatto che molto spesso i gulag venivano usati per sterminare fin da subito
gran parte dei prigionieri.
Dal gennaio 1942 con la conferenza di Wannsee, Hitler e il regime nazista decide la soluzione finale
sulla questione ebraica. Questo vuol dire che viene deciso che una parte degli ebrei venivano usati
per il lavoro, altri invece direttamente uccisi. Fu inventato il sistema dei camion; una parte dei
prigionieri veniva caricato sul camion, dove si collegava il tubo di scarico col cassone chiuso del
camion, si faceva un breve percorso fino a una fossa già scavata, e qui le persone che morivano
anche dopo poco venivano seppellite.
Vengono creati dei gas asfissianti dalle industrie chimiche tedesche, e nei grandi campi di
concentramento vennero installate anche le camere a gas.
Ebrei, partigiani sovietici, omosessuali, disabili, oppositori… sia nei gulag che nei lager il grosso
della popolazione morta moriva per inedia, perché il lavoro era duro, con condizioni climatiche
terribili, e chiunque non arrivasse alla propria quota di produzione, riceveva una razione di cibo
molto bassa.
Contemporaneamente a questa situazione, anche il linguaggio subisce una differenza. Nei racconti
di Shalamov vediamo come il linguaggio si riduca.
Nella prima metà del ‘900 c’era un filosofo molto famoso: Ludwig Wittgenstein. La sua
caratteristica era di essere stato molto influente in maniera contraddittoria. Ha avuto due fasi del suo
pensiero molto diverse tra loro, e ha influenzato una vastissima platea di intellettuali, filosofi,
sociologi, ma con due teorie diverse.
Quello che è interessante è vedere come un filosofo possa avere due teorie così contrapposte.
La prima, unico libro pubblicato in vita, si chiamava Tractatus logico-philosophicus: scritto durante
la Seconda Guerra Mondiale, pubblicato inizialmente in tedesco, espone la teoria su quali siano i
rapporti tra il mondo e il linguaggio.
Lui sostiene che il linguaggio ha una sola funzione, ovvero esprimere il mondo fisico. C’è una
perfetta omologia tra questi il mondo e il linguaggio. Ogni elemento del linguaggio serve per
descrivere il mondo, e quindi un oggetto nel mondo. Quali sono questi oggetti? C’è la necessità che
ci sia una corrispondenza a uno a uno tra questi oggetti del mondo e il linguaggio (si pensi ai
bambini, che associano la parola ad un oggetto/immagine per comprenderla).
In filosofia questa visione verrà adottata dai positivisti logici. Questi filosofi, che erano d’accordo
con Wittgenstein, iniziarono ad affermare che tutte le filosofie che non descrivono il mondo
dovrebbero essere eliminate ed ignorate, ma non è ciò che Wittgenstein voleva condividere nel suo
scritto.
L’etica e le filosofie non elementari non devono assolutamente essere ignorate, in quanto sono due
discipline distinte.
Dopodiché, ci fu una attenta riflessione del suo pensiero che porterà due anni dopo la sua morte alla
pubblicazione della seconda teoria delle ricerche filosofiche.
Nelle “Ricerche Filosofiche” assume una posizione completamente diversa.
Inizia le Ricerche con un racconto molto breve di un muratore, suo assistente, che deve costruire un
capanno. Secondo lui il loro linguaggio può ridursi a pochi termini come mattone, pietra, lastra,
strumenti e ordini elementari come “passami” e “dammi”. E Wittgenstein definisce questo
linguaggio come un linguaggio primitivo completo.
A ciò molti intellettuali ribatterono sostenendo che un linguaggio così ridotto non può essere
completo. Ma Wittgenstein intendeva che il linguaggio, per quanto primitivo, era completo e
sufficiente per compiere quel compito; quindi, in questo caso, per costruire quella casa.
Alcuni suggeriscono che gli schiavi potrebbero avere un linguaggio del genere.
Tornando al discorso dei campi di concentramento, qui troviamo che il linguaggio si riduce quasi a
zero.
C’è una sorta di disciplina linguistica “pragmatica della comunicazione umana”: il suo presupposto
principale è che non è possibile non comunicare. Cosa vuol dire? Che gli esseri umani in presenza,
qualsiasi cosa facciano, comunicano. Con le parole, gesti, sguardi, movimenti, anche con il silenzio.
Tutto viene considerato una forma di comunicazione, anche il non dire niente. Anche il silenzio
comunica, e può essere di indifferenza, di odio, di imbarazzo. Quindi non è possibile non
comunicare.
Eppure, nell’esperienza dei campi di concentramento si raggiunge quasi il grado zero della
comunicazione. Il passaggio da un lessico molto più ricco derivante da una vita quotidiana (quando
arrivano nel campo di concentramento) avviene un assottigliamento del linguaggio. La vita si riduce
davvero a poche decine di termini. In questo processo di morte per inedia, c’è l’ultimo stadio in cui
le persone non parlano più. Nei lager queste persone vengono chiamate muselmann.
Il termine “muselmann” indicava un prigioniero che a punto di morte si metteva questa sorta di
turbante intorno alla testa e vagava nel campo in cerca di cibo come un morto vivente, che smetteva
di parlare. Molto spesso non aveva più la forza di cercare di vivere.
Nei gulag, il dochodjaga è il suo equivalente russo, colui che è arrivato alla fine ed era
caratterizzato dalla mancanza di voce e dal suo inesistente contatto con gli altri prigionieri.
Però, la loro stessa esistenza, il loro muoversi nel campo, comunicava qualcosa agli altri, ovvero
l’immagine del loro futuro: un prigioniero debole, che perde la parola e muore semplicemente
crollando al suolo.
Questo linguaggio, queste poche parole, è particolare. È un gergo del lager e dei gulag.
Nel gulag c'è una lingua franca, ovvero il russo; quindi, non c’erano problemi comunicativi; ma nel
lager essendo che c’erano cittadini di tutta Europa, e si parlava solo il tedesco dal SS, si aveva un
problema comunicativo. I soldati davano ordini in tedesco, e se i prigionieri non avessero obbedito
per scarsa comprensione sarebbero stati picchiati con i manganelli.
Primo Levi è riuscito a sopravvivere anche per questo motivo. Essendosi laureato in chimica in
Italia negli anni ‘30 sapeva bene anche il tedesco (dato che l’università migliore di chimica era
tedesca, quindi anche i libri avevano la lingua tedesca). E poi, lo consideravano un chimico, quindi
passava molto tempo dentro, e non fuori al freddo a praticare lavori manuali.
Una prigioniera italiana arriva, e non capendo il tedesco, non capiva niente. Poi conobbe un'altra
prigioniera italiana, e si sentì sollevata, si sentì salva, conoscendo un'altra prigioniera come lei. Lei
però, parlava il gergo del lager, che non era un italiano come lo conosciamo noi (se abbiamo la
testimonianza vuol dire che si è salvata).
Infatti, nel gergo del lager non si parla più la lingua nativa di origine ma una vera e propria lingua
diversa nata nel campo di concentramento.
Pensiamo alla parola “organizzare” utilizzata sia in italiano che in tedesco da Levi nel suo libro “Se
questo è un uomo”. Esso è un verbo transitivo che viene tradotto nel nostro linguaggio quotidiano
come sopravvivere. Coloro che sono sopravvissuti, sono sopravvissuti proprio grazie al loro
organisieren. Organizzare, quindi, voleva dire riuscire a compiere tutte quelle attività vietate per
procurarsi del cibo, e sopravvivere. I prigionieri che sono sopravvissuti, erano molto concentrati
sull'organisieren. Primo Levi, pur scrivendo in modo libero, non si rende nemmeno conto di
utilizzare questo termine, nel senso del campo di concentramento.
Tornando a Wittgenstein, nelle Ricerche filosofiche piuttosto che l'idea del linguaggio con il solo
scopo di esprimere il mondo, Wittgenstein si rende conto che il linguaggio ha molte più funzioni.
Con esso, infatti, facciamo un sacco di cose, e tutto dipende dalla nostra forma di vita, non da un
mondo astratto, al di fuori. Esso dipende dall'espressione della vita che noi facciamo.
I giochi linguistici, quindi, dipendono dalla forma di vita.
Prima di tutto, i linguaggi sono plurali, non esiste un linguaggio che ricopre tutto il mondo fisico ma
ci sono tanti linguaggi diversi, tanti giochi linguistici (come li chiamava Wittgenstein), quante sono
le diverse forme di vita.
Secondo un suo famoso aforismo, se un leone potesse parlare noi non lo capiremmo. A parte lo
stupore iniziale, il leone non condivide la nostra forma di vita quindi se parlasse noi non lo
capiremmo perché lui vive nella giungla e ha una forma di vita completamente diversa dalla nostra.
Invece, se fosse un gatto a parlare molto probabilmente noi qualcosa capiremo, perché ormai i gatti
convivono con gli umani da anni.
Quindi, nei gulag e nei lager dove c'è questa forma di vita estrema, il cui l’unico scopo è la
sopravvivenza (cercare di sopravvivere), il linguaggio con le sue 20/40 parole, di cui la maggior
parte sono imprecazioni, risulta essere nella sua elementarità un linguaggio completo perché non c’è
bisogno d’altro.
Questo non vuol dire che tutto il resto scompaia, vuol dire che perde di significato.
Esempio: c’è questo intellettuale tedesco (ebreo tedesco), che racconta un episodio avvenuto nei
lager. Lui stava tornando dal lavoro, e vede delle banderuole che si muovono dal vento e fanno
rumore, e allora gli viene in mente una poesia (lui era un professore universitario). Ripete la poesia
ad alta voce a se stesso, e il suo commento è che queste parole non significano nulla. E in effetti ha
ragione.
Un altro episodio di Primo Levi: un giorno estivo lui e un amico prigioniero kapò vanno nel bosco
da soli in amicizia, e Levi si è messo a recitare un canto della divina commedia. E lo racconta come
un episodio magico, come se per quella mezz’ora fosse uscito dal campo. È un momento in cui, per
via dell’estate, nel bosco e per la giornata non lavorativa, ci fu una sorta di sospensione della vita
estrema dei lager. Erano rari momenti.
Il gergo del lager comunque non potrà mai scomparire dalla psiche della persona, ma lo inseguirà
per sempre; infatti, Primo Levi stesso finirà per suicidarsi.

Potrebbero piacerti anche