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Italo Svevo – La coscienza di Zeno

Cominciamo a leggere il nostro primo testo: La coscienza di Zeno. Il percorso che facciamo comincia fuori
d’Italia e finisce fuori d’Italia. 17 Ricapitolazione: Italo Svevo nasce e vive a Trieste, una città che all’epoca
non era Italia, anche se veniva considerata parte della cultura italiana. Era al di fuori del confine, e per
arrivarci ci voleva il passaporto: il confine si trovava nella zona del Friuli, si passava il confine e si entrava
nell’impero austriaco. Italo Svevo, nome particolare: questi due nomi indicano un incontro di due civiltà,
ovvero la cultura italiana e la grande casa degli Svevi, degli imperatori (come Federico II), che poi si erano
stabiliti nel sud Italia, che avevano tanto interagito con la civiltà italiana, ma erano una dinastia tedesca. È
come se in questo pseudonimo, scelto da lui quando pubblicava dei romanzi, il signor Schmitz (vero nome di
Svevo) volesse dire io sono un po’ l’uno e un po’ l’altro, sono italiano ma sono anche tedesco. Lui era nato a
Trieste in un contesto prevalentemente italofono, anche molto dialettale. È una città meravigliosa, perché
luogo di incontro di tante culture, lingue e religioni diverse (nessun altra città del regno d’Italia aveva una
concentrazione così alta di luoghi di culto diversi come a Trieste). Il suo vero nome era Aron Hector Schmitz:
c'è il tedesco ma in mezzo c’è anche l’arabo, Aaron, Aronne, che significa che era anche di origine ebraica.
Italiano, tedesco, ebreo. Una fusione di lingue, di culture straordinaria. A Trieste però, che non era in Italia, la
cultura italiana arrivava mediata, arrivava in ritardo (lo vedremo anche quando leggeremo le poesie di
Umberto Saba). Italo Svevo mette insieme tutti questi elementi, e ne mette insieme anche un altro molto
interessante: lui non è un letterato, non è uno scrittore, non nasce subito come poeta… lui nasce da una
famiglia imprenditoriale, quella classe sociale che è in ascesa. Il padre è un piccolo imprenditore austriaco,
si è stabilito a Trieste, porto dell’impero, luogo fondamentale per i traffici marittimi. C’era il famoso Lloyd
Triestino, Lloyd Austriaco. Anche Italo Svevo nasce e si forma in questo ambiente, ambiente di commerci, di
traffici, di borghesia industriale e capitalista. Conosce però anche le difficoltà e la crisi, perché, ad un certo
punto, per traversie finanziarie, è costretto a lasciare questo tipo di attività, e trovarsi un impiego in banca.
Lui stesso vive sulla propria pelle una sorta di degradazione, sente quasi di essere diventato una specie di
uomo senza qualità. Sperimenta questa esperienza del fallimento, della crisi su se stesso. Negli anni
successivi le cose migliorano, in quanto si sposerà con una ragazza che appartiene ad un’importante
famiglia italiana molto ricca, e a quel punto comincerà anche ad avere la tranquillità economica ed
esistenziale per coltivare quello che era il suo interesse principale. Non gli piaceva molto né l’attività
capitalistica, né il lavoro in banca: ciò che gli interessava veramente era la scrittura. Fin da ragazzo, quello
che lo appassiona enormemente è la lettura, la letteratura, i romanzi, ma anche la cultura in senso generale:
non ha una vera e propria formazione da letterato, legge avidamente un po’ tutte le grandi novità della
cultura europea, che magari in Italia arrivavano di meno, mentre Trieste invece è meno Italia e più Europa.
Quello che in Italia non era ancora arrivato, Italo Svevo l’ha già letto, perché era già arrivato magari tradotto
in tedesco. Si appassiona, per esempio, alla lettura di Darwin, e sarà uno dei primi a capire quali potrebbero
essere i riflessi negativi se il pensiero di Darwin venisse applicato anche al sociale. È uno dei primi che
conosce il pensiero di Freud, perché Trieste è strettamente legata a Vienna, dove lavora il dottor Freud, che
ha pubblicato i suoi primi testi Introduzione alla psicoanalisi e L’interpretazione dei sogni solo pochi anni
prima (1899-1900). Italo Svevo si è tuffato nella lettura degli scritti di Freud: conosce anche alcuni suoi amici
che sono andati a Vienna e sono entrati personalmente in analisi con il dottor Freud, e a Trieste viene anche
qualcuno che fu allievo di Freud e comincia a svolgere la propria propria attività anche a Trieste. C’è un
legame molto molto stretto, di cui in Italia ancora nessuno sapeva niente. Per Italo Svevo, questa è anche
una sorta di illuminazione: nel momento in cui lui comincia a leggere gli scritti di Freud, capisce qual era la
sua strada, e anche qual era l’interpretazione che doveva dare retrospettivamente a quello che aveva già
scritto prima. 18 Come dilettante, lui aveva già iniziato a scrivere negli ultimi anni del 1800, prima ancora di
conoscere gli scritti di Freud. Aveva già scritto due romanzi, ma che nessuno conosceva. Uno l’aveva
addirittura pubblicato a spese proprie, ma era stato un fallimento. Si sentiva fallito nel campo lavorativo,
fallito come scrittore... addirittura, coloro a cui aveva mandato i romanzi, anche fuori da Trieste, avevano
fatto dei commenti negativi sulla sua scrittura: in effetti, anche la conquista dello strumento linguistico da
parte di Italo Svevo non era tanto facile, perché lui era più bravo nel tedesco che nella lingua italiana. Per lui
l’italiano, più che una lingua letteraria, era la lingua parlata, la lingua quotidiana (anche quella della famiglia
della moglie), la lingua del commercio, una lingua molto più semplice della lingua letteraria di D’Annunzio o
dei letterati italiani, che stavano molto più attenti alla retorica, allo stile, alle citazioni della tradizione letteraria
del passato… tutte cose che Italo Svevo conosceva di meno. Questo per lui è una fortuna, perché la lingua
italiana che Svevo poi si crea quasi da solo è una lingua molto più vicina alla quotidianità, al parlato. Frasi
molto brevi, che riflettono di più il pensiero e la realtà. C’è poca retorica. Italo Svevo aveva quindi già
pubblicato questi due romanzi, il cui titolo è Una vita e Senilità. In entrambi questi due romanzi, i protagonisti
sono due personaggi che potremmo definire degli inetti: dei personaggi che ad un certo punto falliscono
nella vita, in cui Svevo proietta se stesso. Il grande romanzo è La coscienza di Zeno, che già nel titolo,
rispetto ai precedenti, dà soprattutto importanza a questa prima parola, coscienza, che ci riporta allo scavo
interiore che ritroviamo nella psicanalisi. Trovata geniale di Italo Svevo nel suo romanzo, che gli fa risolvere i
problemi di strategia narrativa: nei due romanzi precedenti, non sapeva a chi affidare la voce; la narrazione
in terza persona, anche se narra tutta la storia di un personaggio (è tutta una focalizzazione interna, tutto il
punto di vista di un personaggio), non suona autentica… ci voleva una narrazione interamente in prima
persona. Se si tratta di uno scavo interiore dentro la coscienza e la psiche di una persona, è quella stessa
persona che ve lo deve raccontare dall’inizio alla fine, in prima persona. È un’analisi, una psicoanalisi, è un
po’ come quello che accadeva nella pratica inaugurata da Freud. Normalmente, questo tipo di pratica è
completamente orale, raramente ci si serve di testi scritti. Qui, invece, è una specie di infrazione alla regola,
per cui l’intero romanzo è una psicoanalisi, che però viene scritta interamente in forma di memoir in prima
persona dallo stesso paziente analizzato. In questa forma di infrazione non c’è solo Zeno, ma c’è anche il
dottore, di cui non conosciamo il nome perché viene indicato solamente con una sigla (dottor S). La
coscienza di Zeno, Alla ricerca del tempo perduto di Proust e l'Ulisse di Joyce sono i tre grandi romanzi della
coscienza europea di questo periodo. Occhio alle date: escono quasi tutti e tre insieme, c’è un filo che li
lega. Sono tutti e tre romanzi che adottano punti di vista diversi e metodologie diverse (Joyce con il flusso di
coscienza ininterrotto, Proust con la propria ricerca personale ossessiva…), ma quello che li differenzia è
che Svevo riprende anche in modo quasi ironico un elemento tradizionale della storia del romanzo, sia del
romanzo italiano che del romanzo europeo, cioè la finzione del manoscritto. Se vogliamo è un manoscritto
ritrovato, che viene addirittura pubblicato dal dottor S. Quindi, il dottor S e anche l'editore di questa specie di
diario, di autobiografia, che il paziente Zeno gli ha dato. Tutto il romanzo è uno scavo interiore nella vita di
quest’uomo, in tutte le vicende ordinarie di questa vita che lui analizza, in cui scava, facendoci vedere tutti i
momenti di debolezza nei confronti delle scelte di fronte alle quali si è trovato. 19 LETTURA
DELL’ESTRATTO E COMMENTO DEL PROFESSORE Novella: qui quasi in forma spregiativa, la novella è
un racconto. Si potrebbe dire un racconto di invenzione: in origine, questa parola che compare ad esempio
con Boccaccio indicava una storia vera, in latino tardo significa notizia, un racconto di un qualcosa di
veramente accaduto. Ma qui, il dottore utilizza questo termine in forma spregiativa. Sappiamo che, nella
pratica dell’analisi, molto spesso si creano dei sentimenti contrastanti tra paziente e medico, una sorta di
odio e amore. Spesso la paziente si innamora dell’analista, e convolano insieme. Qui siamo proprio anche
agli inizi, quindi anche nella lingua italiana non è entrata la parola psicanalisi. Svevo fa un calco diretto dal
tedesco (psico-analisi), perché lui questi testi li ha letti direttamente in tedesco. Qui usa un altro termine
tecnico della storia della letteratura (autobiografia), che ci porta immediatamente a confrontare con il genere
della scrittura dell’io, genere antichissimo. Questo è un grande genere moderno, perché rinasce nel 1700
(nel medioevo non era popolare), e diventerà poi dominante nella letteratura contemporanea. L’80% dei
romanzi contemporanei sono in prima persona e in scrittura autobiografica. Ma perché Zeno scrive la sua
autobiografia? Il dottore, ad un certo punto, deve lasciare Trieste perché per un lungo periodo deve andare a
Vienna, e per noi interrompere il rapporto con il paziente gli dice di scrivere. Il dottore pubblica il diario di
Zeno per vendetta. Questa è una cosa che non doveva fare, è un crimine contro la privacy. Questo è uno
scritto privato, in cui lui racconta le peggio cose anche di sé, i peggiori pensieri che gli venivano. C’è anche
tutta la storia del matrimonio di Zeno: lui avvicina questa famiglia in cui ci sono tre sorelle, e prima prova con
una, poi con l’altra… alla fine si accontenta dell’ultima sorella, e scrive che è la più brutta, la più scema. Era
tutto sbagliato quello che diceva, invece sarà la più amorevole. Questa è una scrittura privata che il dottore
non avrebbe mai dovuto pubblicare. Avrebbe dovuto radiarlo dall’albo degli psicologi! I diritti d’autore glieli
riconosce, ma neanche tutti. Fa questo ricatto: se tu ritorni in analisi, dividiamo i diritti d’autore. Anche
quest’ultima frase è importantissima, perché troviamo queste due parole, verità e bugie. Ma quando mai
l’autobiografia ci racconta la verità di una persona? In genere, quando uno racconta se stesso, non è
sempre per dire la verità, ma è per costruirsi una verità, una dimensione. Questa dimensione di solito è
positiva (qui non lo è) però di solito, nella scrittura dell’io (vediamo Alfieri, il Settecento), lo scrittore tende a
fare una rappresentazione ideale di quello che avrebbe voluto essere, più di quello che è stato veramente. È
sempre una mescolanza di verità e menzogna. Questo c’è sempre nella letteratura, è uno dei elementi
fondamentali della comunicazione letteraria, soprattutto del romanzo, dove c’è sempre mescolanza tra verità
e menzogna, tra fatti e finzioni. Ci troviamo di fronte a La coscienza di Zeno, che ha una struttura molto
particolare. Finora abbiamo analizzato la prefazione del dottor S, che ha pubblicato questo memoriale per
vendetta, in quanto Zeno è un paziente che si è sottratto alla cura. Poi comincia direttamente il memoriale,
quello che lui ha avuto dal paziente, con un preambolo che ci spiega perché l’ha scritto. Spesso, nella
pratica della psicanalisi, si cerca di rimontare ai periodi più remoti della nostra vita, di risalire all’infanzia, a
quei momenti che abbiamo rimosso e che non ricordiamo più, o che si sono trasformati, nel nostro ricordo, in
elementi simbolici, elementi presenti nei sogni. 10 lustri -> più di 50 anni. Svevo è sovrapponibile a Zeno, ha
più o meno la stessa età. Zeno è una proiezione autobiografica dell’autore, come anche i protagonisti dei
romanzi precedenti (Una vita e Senilità). Svevo proietta se stesso in questi personaggi: qui siamo intorno al
1910, a Trieste, pochi anni prima dello scoppio della prima guerra mondiale. E questo vecchiarello (Zeno),
che si avvicina quasi ai sessant’anni, corrisponde più o meno a Italo Svevo in quello stesso periodo, durante
il quale si è avvicinato alla conoscenza della psicanalisi (infatti nel preambolo vediamo che dichiara di aver
letto un manuale di psicanalisi). Molte delle cose che racconta sono una specie di travestimento della sua
vita. Poi racconta in modo un po’ comico come, dopo la lettura del manuale, abbia cercato anche di farsi un
po’ di autoanalisi, per recuperare dei materiali da scrivere in questa specie di memoriale per il dottore. Si
sdraia comodamente sulla poltrona, con la matita e un pezzo di carta in mano, cercando di trovare calma e
tranquillità… Ma non riesce a fare niente. Non riesce a recuperare i ricordi, c’è qualcosa che gli offusca la
mente. L’esperimento finì nel sonno più profondo: si è seduto sulla poltrona, ha chiuso gli occhi, cercando di
concentrarsi, e si è addormentato. Resta con questa matita in mano, vorrebbe vedere questa immagine dal
passato, ma non riesce. Parla di questa situazione come di un dormiveglia. Il testo a cui si riferisce potrebbe
essere proprio quello di Freud, Introduzione alla psicoanalisi. Nel testo legge che, con questo sistema, si può
arrivare a ricordare la prima infanzia, quella in fasce, quella che sfugge ai nostri ricordi coscienti. Proprio nel
1910, Freud aveva pubblicato uno dei suoi saggi più belli: una conferenza che lui aveva dato alla società
psicoanalitica di Vienna, intitolato Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci. Partendo da uno strano ricordo
di Leonardo, riuscì a ricostruire la sua infanzia, e a dare una spiegazione della sua psicologia e anche della
sua sessualità. Questi grandi autori della crisi della coscienza borghese, come Italo Svevo, Proust, Joyce, in
realtà ci presentano sempre la stessa figura di uomo: l’inetto, l'irrisolto, il fallito. Questa è la crisi della
coscienza borghese, e in modo straordinario Freud mostra la stessa cosa proprio per Leonardo da Vinci. Noi
lo immaginiamo come un genio universale che è riuscito a fare tutto, e invece storicamente non è andata
così. Leonardo ha realizzato poche opere, e la maggior parte sono rimaste incompiute, non riusciva a finirle.
Dai contemporanei era considerato uno troppo geniale, non riusciva a concludere le cose. Anche lui è una
specie di Zeno, di inetto. Zeno rinuncia a raccontare la propria infanzia, dice che è impossibile. Dice che
ritenterà domani. Cosa significano gli asterischi? Dall’ultima ultima parola del preambolo, domani, alla data
del 24 marzo 1916, ci sono in mezzo 300 pagine del memoriale di Zeno (che il professore ha tagliato). Il
memoriale è a sua volta diviso in cinque grandi capitoli. La sua narrazione non è veramente 21 cronologica:
dal momento in cui Svevo/Zeno racconta verso la fine della sua vita, lo sguardo è retrospettivo, non ha
bisogno di seguire un filo cronologico. Salta da una parte all’altra come in Alla ricerca del tempo perduto di
Proust. L’altro corrispettivo è Joyce con il suo Ulisse, ma con una grande differenza rispetto a Svevo. Joyce
era un grande amico di Svevo: Joyce aveva accettato un lavoro di insegnante di inglese a Trieste presso
una scuola tedesca di lingue, e tra i suoi alunni c’era Italo Svevo. Dopo il matrimonio si era rimesso in affari
nell’imprenditoria, in quanto la famiglia della moglie era un importante industriale di vernici per le navi. Svevo
deve viaggiare, commerciare, deve andare in Francia e soprattutto in Inghilterra, e deve conoscere bene le
lingue straniere. Il suo insegnante di inglese è Joyce, è l’inizio di una grande amicizia. La grande differenza è
che, mentre nell’Ulisse domina il monologo interiore e il flusso di coscienza (non c’è il problema del
destinatario, c’è tutto ciò che passa nella mente del protagonista), Zeno parte subito con la finzione della
scrittura. Svevo ha risolto l’eterno problema del destinatario che si pone ogni scrittore di narrativa. Certe
volte alcuni scrittori lo risolvono con l’artificio del manoscritto ritrovato, come Manzoni. Svevo risolve tutto
questo, per la prima volta e in modo modernissimo, facendo finta che tutto questo fosse un memoriale
avente come destinatario il dottor S. Noi siamo i veri destinatari, perché noi siamo i lettori, ma il destinatario
letterario è il dottor S. Dal momento che lui ce l’ha a morte con questo dottore, alla fine si spiegherà che
quasi tutto ciò che lui ha scritto è menzogna, perché lo doveva ingannare, doveva fargli credere certe cose e
mascherarne altre. Aveva capito come funzionava il sistema, avendo letto il manuale di psicanalisi. Andava a
raccontare al dottore quello che era contento di sentirsi dire, perché corrispondeva a una certa ipotesi di
patologia, e quindi di cura psicologica. Nel caso di Italo Svevo, c’è la finzione della scrittura, mentre nel caso
di Joyce, c’è la finzione dell’oralità mentale. C’è la data (24 marzo 1916). In tutto il resto del libro non ci sono
date, è una specie di mondo senza tempo in cui tutto si mescola. Si va avanti, indietro, ricordi antichi, tempi
moderni. I cinque grandi capitoli sono la storia del fumo, il grande vizio di Zeno (l’ultima sigaretta, dettaglio
minuscolo della vita quotidiana, ma molto spesso la psicanalisi si concentra su questi piccoli dettagli per
identificare certe patologie); la morte del padre, altro momento fondamentale; la storia del mio matrimonio e
conseguentemente poi anche la vita successiva, in cui fatalmente entra anche un amante. L’ultimo capitolo
riguarda le vicende del lavoro e della società commerciale con il cognato, che è una specie di
doppio/opposto, una persona che sembra tutto il contrario di quello che lui è. Alla fine muore, e il tragico si
mescola al comico: Zeno va al funerale del cognato Guido, dopo averlo seguito ed essersi disperato con
tutta la gente che piangeva, e alla fine si accorge che era il funerale sbagliato. C’è il comico e il tragico in
questo libro, dove non ci sono date: è come se il tempo si fosse annullato e non esistesse. È un memoir, non
è un diario, è una scrittura memoriale. Queste sono le ultime 20 pagine del libro, il memoir si conclude
improvvisamente, e appaiono delle date. Tutte le ultime pagine sono come delle pagine di diario aperte da
una data, ci troviamo a qualche anno dopo. Ci sono già alcune pagine di diario prima di questa del 24 marzo
1916, in cui ci racconta che ha completamente rotto con il dottore. Non vuole più continuare la cura, ma il
memoir gliel’aveva già mandato, voleva richiederne la restituzione. Dice di essere completamente guarito.
22 Continua a scrivere pagine di come sta vivendo in quei giorni, che corrispondono all’inizio della grande
tragedia collettiva della prima guerra mondiale (marzo 1915, in realtà l’Austria-Ungheria era già in guerra da
un anno). Quando tutto sembra affondare nella malattia universale della guerra, lui dice di essere guarito e di
stare bene. Anzi, interrotti i traffici normali, lui si dà a speculazioni, merci di contrabbando, mercato nero, e
diventa ancora più ricco di prima. C’è proprio una distorsione dell’umanità a cui noi assistiamo in questa
fase. C’è una pagina molto bella di qualche giorno dopo, dove scrive che lui ha una piccola proprietà sul
confine con l’Italia, dove c’era la famiglia e i figli. Cerca di raggiungerla, ma viene bloccato dalle guardie
austriache, che lo sbattono via e poi scopre che non l’hanno fatto passare perché gli italiani stavano
attaccando, avevano varcato il confine ed era cominciata la guerra anche con l’Italia. La guerra da questo
momento è alle porte, lo sarà per tutti questi tre anni. Svevo vede tutto questo e lo proietta nelle vicende del
suo personaggio. LETTURA “24 MARZO 1916” E COMMENTO DEL PROFESSORE Il dottor S vuole anche
le paginette del diario, e infatti poi faranno parte dell’intero libro, perché il dottore pubblica tutto insieme,
memoir e diario finale. C’è il concetto della lotta per la vita, della selezione naturale: vince il più forte, il più
furbo, il più prepotente. Questa sorta di salute che lui individua è, in realtà, arrivare a questa forma di
disumanizzazione. C’è sempre l’idea darwiniana, quella che origina nella teoria dell’evoluzione della specie,
ma soprattutto quella della selezione naturale degli individui più forti e più sani rispetto a quelli più deboli.
Non c’è l’idea di compassione, di aiuto verso gli altri. Vince e sopravvive il più forte. L’Olivi: era il gestore
dell’azienda, che in quel momento non era a Trieste. Va avanti con queste azioni di speculazione dei beni,
che poi nel bisogno tutti andavano a cercare, e lui li rivendeva 10 volte tanto. Si parla della vita come
malattia. È come se contraddicesse se stesso: lui dice di essere sano, ma in realtà la vera malattia è la vita
stessa, una malattia che si conclude sempre con la morte, una malattia mortale. È una ripresa delle filosofie
antiche, di Seneca, che diceva che ogni giorno moriamo un po’. Nelle parole finali della coscienza di Zeno,
Italo Svevo riesce ad arrivare ad una visione universale del male che l’uomo sta facendo non solo ai propri
simili, ma anche alla natura, al mondo in cui vive. Improvvisamente, tutta questa riflessione e meditazione
sulla malattia dell’anima, quindi sulla crisi della coscienza borghese che ha percorso tutto il libro, esplode
nell’ultima pagina, e riguarda tutto l’universo, arrivando fino ai giorni nostri. Le cose che scrive qui hanno un
valore quasi profetico. Triste e attivo animale: l’uomo. Potrebbe scoprire e mettere al proprio servizio delle
altre forze: non si era ancora scoperta l’energia atomica. Allorché la rondinella comprese che per essa non
c'era altra possibile vita fuori dell'emigrazione, essa ingrossò il muscolo che muove le sue ali e che divenne
la parte piú considerevole del suo organismo. La talpa s'interrò e tutto il suo corpo si conformò al suo
bisogno. Il cavallo s'ingrandí e trasformò il suo piede: sta riprendendo pari pari Darwin. 23 L'homo sapiens,
nel momento in cui è andato oltre i progressi naturali dell’evoluzione con la tecnologia, ha accelerato tutti
questi sistemi. L’occhialuto uomo: l’uomo ha inventato le lenti per vederci meglio, mentre un animale
avrebbe impiegato milioni di anni per adattare la sua pupilla e vederci bene. Non sarà più la legge del più
forte, ma la legge del più ricco e del maggiore possessore di ordigni. Io la bomba atomica e tu no, io
prevalgo su di te. Io ho i cacciabombardieri e tu no, io ho i missili e tu no. È la cronaca di oggi, il mondo
contemporaneo. Le ultime parole del libro sono al futuro, una specie di profezia. Qui, più che Zeno, sta
parlando proprio Italo Svevo. Questa è la sua critica del mondo, e di dove l’umanità stia andando a sbattere.
Qui siamo solo alla fine della prima guerra mondiale, Svevo non ha proprio idea di quello che succederà
negli anni successivi con la seconda guerra mondiale, la Shoah, la bomba atomica. Vede un cammino che
andrà in questa direzione, se non ci saranno degli uomini che diranno di no e lo fermeranno. Quando i gas
velenosi non basteranno piú, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo,
inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno
considerati quali innocui giocattoli. È una specie di profezia della bomba atomica. Nella prima guerra
mondiale, i gas venefici erano considerati la peggior arma che si potesse usare in quel periodo, infatti poi
vennero vietati dalle convenzioni internazionali, ma qualcuno continuò a usarli tranquillamente (tra cui l'Italia
in Etiopia nel 1935). Ci sarà un'esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di
nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie. I parassiti sono gli esseri umani. La coscienza di
Zeno finisce con delle parole che ci dovrebbero far pensare, come succede sempre con la grande
letteratura.

Luigi Pirandello – La giara


Parlare di un gigante della letteratura italiana come Pirandello non è assolutamente facile, egli è ritenuto non
solo il più grande autore del 900 italiano ma anche del 900 mondiale.

Pirandello nasce nell'estrema periferia del Sud dell'Italia che si era da poco unita, in Sicilia, ad Agrigento e
nel 1867 quindi 7 anni dopo l'unità, fosse nato prima sarebbe potuto nascere Borbonico suddito del re di
Napoli, le date significano molto ed è già una forte differenza rispetto a Verga che era nato prima, e muore a
Roma nel 1936.

Agrigento all'epoca non si chiamava così, il nome era stato dato presumibilmente durante il fascismo,
quando ci fu la restaurazione dei templi greci della città greca la quale si chiamava Agrigento e quindi viene
dato questo nome antico per richiamare l'antica grandezza dei popoli greci e romani, tuttavia quando nasce
Pirandello viene scritto sulla sua carta identità Girgenti non Agrigento, perché quello era il vero nome antico
della città, forse per intercessione della lingua araba.

Il poeta nasce da una famiglia benestante, una classe molto ridotta rispetto alla maggior parte della
popolazione la quale lavorava nei campi agricoli e nelle miniere di zolfo, le famose zolfare, un lavoro terribile
e disumano, spesso si moriva o si portavano dietro le conseguenze di quel tipo di mestiere per tutta la vita, e
pochi si arricchiranno veramente, Pirandello appartiene a una di queste famiglie ricche. Tuttavia egli non
vuole occuparsi degli affari di famiglia, vive una sorta di ribellione e si interessa alla letteratura e alla poesia,
va a Roma e da lì si trasferisce in Germania, perché la grande passione di Pirandello da giovane è la
linguistica e la filologia, e va a studiare a Bonn la quale in quel periodo era l'avamposto della cultura
europea, paradossale rispetto all'orrore di cui sarà teatro nel 900.

La Germania era anche ricca di filosofi, artisti, scrittori e musicisti, e Pirandello studia e legge in lingua
originale, le università tedesche in quel periodo erano le prime al mondo in moltissimi ambiti, soprattutto
quelli filologici e archeologici, e questo è rilevante perché dietro a tutto ciò che lui scriverà negli anni
successivi si nota la presenza di questo tipo di studio.
La filologia significa capacità di analisi delle parole principalmente, ma anche capacità di pensiero critico nei
confronti della realtà, stessa cosa che pensava all'epoca Gianbattista Vico.

Pirandello si laura e appena dopo la laurea però viene costretto a rientrare e ad occuparsi degli affari di
famiglia, addirittura sposa la figlia di una famiglia di proprietari di zolfare, ma in Sicilia non vuole proprio
rimanere e quindi torna a Roma e va ad insegnare per un lungo periodo in un istituto a metà tra scuola e
università, l'istituto di Magistero, luogo importante nell'Italia dell'epoca perché l'Italia unita combatteva la
grande battaglia dell'educazione e in questi istituti si formavano i grandi maestri delle scuole dell'obbligo i
quali quasi sempre erano ragazze che andavano in giro per l'Italia per combattere l'analfabetismo.
Insegnare è il vero mestiere di Pirandello prima di diventare scrittore, e in quegli anni ha il tempo di scrivere
anche se nessuno lo considera tanto, riprendendo lo stile del verismo e ispirandosi a Verga e a Capuana,
anche se si distacca molto da loro perché non riesce ad essere totalmente impersonale; tra le produzioni di
questi primi tempi ci sono novelle e romanzi, tra cui citiamo "L'esclusa", romanzo sulla condizione della
donna che lotta contro il pregiudizio ed inevitabilmente ne esce sconfitta.

Improvvisamente questa tranquillità viene scossa, avviene un cambiamento radicale, Pirandello subisce un
crollo economico, l'azienda di famiglia fallisce, probabilmente a causa del valore dello zolfo che cala
drasticamente, e quindi a questo punto il poeta è costretto ad andare a lavorare per sopravvivere, la moglie
non regge il colpo di degrado sociale e impazzisce, scoppia poi la prima guerra mondiale, il figlio va in
guerra e viene catturato dagli Austriaci, e quindi tutti questi avvenimenti influiscono sulla vita di Pirandello e
innescano qualcosa nella sua anima spingendolo a concentrare tutta la sua attenzione nello scrivere opere,
muovendosi sempre tra racconti e romanzi, soprattutto i racconti che lui vorrebbe raccogliere in una racconta
chiamata "Novelle per un anno", anche se mai ci arriverà però questa era l'idea, molto antica come quella
delle opere di Boccaccio che hanno numeri tondi, quasi come un diario interiore.

I romanzi a questo punto diventano qualcosa di assolutamente nuovo e subiscono grande fortuna tra questi:
Il Fu Mattia Pascal, I quaderni di Serafino Gubbio, operatore, primo romanzo ambientato nel mondo del
cinema che era da poco nato, il titolo originale era molto più breve, Si gira!, perché la manovella della
macchina da presa doveva essere girata a mano e Serafino Gubbio faceva questo di mestiere, girava la
manovella con grande abilità perché c'era una velocità prestabilita da rispettare; ultimo romanzo è Uno,
nessuno e centomila.

In tutti questi romanzo Pirandello approfondisce il tema dell'assurdità della vita che spesso supera addirittura
l'immaginazione, si trattano temi come il grottesco della figura umana, la dissoluzione dell'identità, si cerca di
capire se l'io corrisponde davvero all'identità precisa o si rispecchia in una serie di maschere, le mille identità
che riconosciamo negli altri, se siamo una sola persona o 100 identità diverse, e Pirandello lascia senza
risposta queste domande.

Questi temi verranno spesso trattati cambiando costantemente genere letterario, perché egli sperimenterà
tantissimo, fino ad arrivare al teatro che però era in qualche modo già presente in alcune novelle, alcuni
racconti che sembravano già scritti per essere rappresentati.

In questi anni della crisi lui riprende dei vecchi racconti e li trasforma in atti unici fino ad arrivare una serie
incredibile di commedie, atti unici e tragedie, e il teatro è il terreno perfetto per elaborare il tema della
maschera che dev'essere tolta per mettere a nudo ciò che c'è sotto, lo stesso Pirandello proporrà un titolo
per la sua intera opera teatrale e il titolo è Le maschere nude, tolta la maschera però non è detto che sotto
non ce ne sia un'altra.

Nelle ultime opere teatrali entrano altri elementi direttamente in dialogo con la cultura Europea, temi come
surrealismo e il simbolismo.

Pirandello avrà anche un grande successo all'estero, arriverà ad interessarsi di cinema e sarà persino
chiamato ad Hollywood.

Una delle sue opere più famose è Sei personaggi in cerca d'autore che quando fu rappresentata fu una
totale rivoluzione del teatro europeo moderno, non c'era sipario ma direttamente la scena con gli attori che
preparavano la scena, quasi come se gli spettatori fossero entrati prima dell'apertura, una totale illusione
della realtà, e improvvisamente dalla stessa sala dov'è seduto il pubblico, iniziano ad entrare i personaggi
che chiedono di esistere, chiedono che la loro storia venga rappresentata, il teatro nel teatro in cui si
confonde finzione e realtà è gli stessi spettatori non sanno più dove si trovano.

Iniziamo a leggere i testi, partendo dalla novella (La giara), ricordiamo che le novelle di Pirandello tra tutte le
sue opere fanno un po' da incubatrici soprattutto alle opere teatrali, Pirandello quando scrive crea la
situazione e qualche anno dopo la riprende e ne fa un atto teatrale; tra l'altro egli spesso tornerà
metaforicamente in Sicilia e vorrà raccontarla soprattutto quando sarà lontano da questa, infatti gli stessi
testi teatrali verranno tradotti da lui in dialetto Girgentino, un dialetto Siciliano, che è diverso rispetto ai vari
dialetti presenti sul territorio.

La giara è una delle prime novelle scritte da Pirandello è parla della profonda crisi vissuta dal poeta, scritta
poco dopo Il Fu Mattia Pascal, composta nel 1906 viene recuperata solo 10 anni dopo e la pubblica sul
corriere della sera essendo lui già diventato famoso, l'anno dopo la inserisce nella raccolta delle Novelle per
un anno e contemporaneamente la traduce nel dialetto Girgentino e la fa rappresentare nel teatro di Roma
da un grande attore Siciliano.

Addirittura qualche anno dopo ne fu tratto un balletto che essendo un’arte senza dialoghi ci fa capire che
dialetto o meno i gesti soli probabilmente permettono di capirne il contenuto; a Parigi un grande musicista ne
scrive le musiche e a teatro le scenografie sono a cura di Giorgio De Chirico, l'opera fu anche rappresentata
nel teatro nordafricano in lingua Berbera, che ebbe molto fortuna nei paesi del Maghreb che evidentemente
si sentivano molto vicini alla cultura Mediterranea.

Iniziamo con la lettura del testo La Giara

Piena: ellissi del verbo, molto spesso presente nella scrittura di Pirandello, gli permette di velocizzare lo stile,
frasi senza verbo dovrebbe essere il verbo essere qui.

Piante massaje: piante produttrici, allevate e selezionate proprio per produrre.

Cariche l'anno avanti: sta ad indicare la sorpresa dell'autore nel notare quanto abbiano prodotto anche
quest'anno (quell'annata) perché solitamente quando un albero produce tanto in una determinata annata,
quella successiva tende ad essere meno prospera ed invece quell'annata fu ugualmente prospera.
Avevano raffermato tutte, a dispetto della nebbia che le aveva oppresse sul fiorire: uso intransitivo, avevano
affermato questa loro capacità di produrre, a dispetto della nebbia.

Zirafa: Nome del proprietario terriero, il quale aveva tanti ulivi aveva previsto che le sue vecchie cinque giare
non sarebbero bastate le sue giare e quindi ne aveva ordinate di nuove nel paese dove si producevano
(Santo Stefano di Camastra), e Pirandello descrive poi la giara, da notare il crescendo degli aggettivi (bella,
panciuta, e maestosa) quasi come fosse una persona che incute timore.

badessa: metafora monastica, quasi come se fosse un convento e le altre 5 giare più piccole fossero le
monache mentre la grande giara sarà la badessa del convento.

Da notare come in tutte queste metafore legate al mondo medievale ci sia un filo di personificazione e
personalizzazione delle cose, le cose vengono umanizzate e dal momento che sono strumenti di produzione
al servizio del padrone maschio vengono sempre femminilizzate, e questo vale per gli ulivi che diventano
piante, e le giare che diventano badesse.

Viene chiesto cos'è una massaja: colui che si prende cura delle masse, delle fattorie, degli animali e delle
piante, e riferito alle piante fa intendere che queste sappiano come produrre.

Abbiamo a questo punto i primi due elementi narrativi, la super produzione di olive e necessità di un nuovo
contenitore per l'olio che verrà prodotto in più anche quest'anno.

Pirandello inizia poi ad entrare nell'aspetto psicologico dei personaggi, anche attraverso dettagli fisici, in
questo caso gli occhi, lo sguardo, i tic, le manie, com'è fatto, egli è attentissimo a questo particolari perché
spesso lui riprende la fisiognomica, che consisteva nell'attribuire una corrispondenza tra l'apparenza
esteriore del viso e del corpo con i caratteri morali interiori (es. naso a becco d'aquila e occhi stretti potevano
indicare un personaggio cattivo)
La descrizione di Zifara si rifà a quella di Mastro Don Gesualdo solo molto meno furbo perché si lascia
prendere dalle liti con gli altri quindi piano piano distrugge il suo patrimonio.

Intanto notiamo una lingua molto semplice, una sintassi che è quasi sempre una paratassi e si avvicina
anche al parlato, viene anche inserita una domanda quasi come fosse una conversazione con anche la
risposta, è sempre lingua italiana è solo molto semplice.

Il codice: si parla del codice civile.

(si scapasse) scapare: letteralmente è tagliare la testa ai pesciolini come acciughe e alici, scaparsi vuol dire
anche perdere la testa, quasi come se l'avvocato gli stesse dando il codice civile invitandolo a perdere la
testa lui stesso dietro nel tentativo di capirlo.

Dicevano (ad inizio periodo): impersonale, rappresenta gli spettatori di questo dramma, delle voci indefinite
che appaiono spesso anche nei romanzi di Verga, sono le voci di tutti, tutti coloro che erano presenti ad
osservare protagonisti di questo genere che sono in una crisi esistenziale, e che stanno per vivere una
tragedia.

Calepino: modo per riferirsi al codice

Finita la sequenza della presentazione del personaggio, arriviamo alla presentazione di un nuovo
personaggio in scena, in questo caso la giara che viene umanizzata quasi come fosse una donna.

Palmento: lungo corrispondente al frantoio delle masserie antiche, in quel momento unico luogo dove c'era
spazio, quel luogo dove c'è la macina e quindi siamo ancora nel periodo di raccolta delle olive ancora non
devono essere premute, è un luogo sporco e maleodorante con ancora i residui della premitura dell'anno
prima.

Allogata: sistemata

abbacchiatura: altro termine tecnico per indicare il bastone chiamato bacchio che serviva a raccogliere le
olive.

Anche la descrizione degli atteggiamenti e del viso di Don Lollò ci aiutano a capire il carattere del
personaggio.

Restarono: rimasero di sasso letteralmente

I contadini trovano la giara con tutta la pancia staccata ma con un taglio netto, un mistero.

Da notare le battute successive al momento del ritrovamento della giara che sono già di stampo teatrale,
cosa anche presente anche all'inizio dei Malavoglia con le voci dei personaggi iniziali.

Don Lollò è un personaggio comico e si nota dalla descrizione, la comicità era spesso ricercato da Pirandello

Tra la pace che scendeva su la campagna con le ombre della sera e la dolce frescura: un paesaggio quasi
idilliaco, come la sera Fiesolana di D'Annunzio.

Avventavano i gesti di quell'uomo sempre infuriato: Pirandello cerca spesso i contrasti come ha detto anche
in un celebre saggio, la comicità è data dal contrasto stesso, soprattutto quella inconsapevole, il contrasto
qua è quasi cosmico l'ora della pace Don Lollò è ancora più infuriato.

lo impiccò al muro: lo tenne con la mano attaccato la muro

Stravolti nelle facce terrigne e bestiali: spesso in Pirandello c'è la bestializzazione, si lascia prendere così
tanto dalla degradazione del lavoro umano che quasi diventano delle bestie.

Non incignata ancora: non ancora usata, nuova.

Questa specie di Mastro Don Gesualdo è sempre interessato ai soldi ("Quattro onze giara")
A questo punto c'è un cambio molto interessante nello stile narrativo, finora abbiamo avuto uno stile
semplice, con delle esclamazioni improvvisamente lo stile cambia e inizia con una parte che si rifà al verismo
e a verga, ossia l'uso del discorso indiretto, cioè sono le frasi o il pensiero di un personaggio che anziché
essere riferito come pezzi di dialogo vengono rappresentati con il tempo al passato come se fossero sempre
parte della narrazione (Voleva sapere chi gliel'avesse rotta...)

Se si cambiano i verbi e si pongono al presente, si può intuire come questi sembrino i suoi pensieri, e questo
va avanti anche per le risposte dei contadini, però i pensieri dei contadini sono plurimi a differenza di quelli di
Don Lollò e tutti gli consigliano di rivolgersi all'aggiustatore di vasi che si dice abbia un mastice miracoloso
(una colla).

E in quattro e quattrotto la giara meglio di prima: anche qui ellissi del verbo.

Come un ceppo antico di olivo saraceno: Altra descrizione, ora di Zi' Dima, così come le piante e gli oggetti
vengono umanizzati così gli esseri umani vengono rappresentati come cose della natura o bestie, e qui il
vecchio viene rappresentato come un vecchio ulivo con una forma molto strana quasi scolpita nel tempo
come le fattezze di un vecchio.

Radicate: altra ellissi del verbo che si rifà alle radici come se in quel corpo deforme avessero fatto radici la
mutria e la tristezza.

Zi Dima non parlava mai aveva anche poca fiducia nelle persone.

Negò con il capo pieno di dignità: anche i gesti indicano tratti della personalità.

Zi Dima...e la curiosità di tutti: Tutta questa parte ci fa capire già lo spirito da teatrante di Pirandello che fa
accalcare la gente intorno a zi Dima che in realtà è il pubblico teatrale, siamo noi, e siamo incuriositi da
questa specie di rituale e da un momento all'altro questa specie di mago tira fuori questo mastice magico.

gli altri risero: non era nulla di magico in realtà

Zi Dima non se ne curò: era superiore a tutto questo.

aja: la giara rotta è stata portata fuori sull'aja nel cortile della masseria

Verrà bene: Zi Dima parla poco come già detto

Ci voglio anche i punti: quando le riparazioni dei vasi di terracotta erano massicce si facevano dei buchi da
una parte e dall'altra e questi punti venivano poi legati da un filo di ferro.

Me ne vado: Zi Dima si sente offeso perché lui vuole riparare solo con il mastice

Ma guarda un po' che arie da Carlomagno: in Sicilia darsi le arie da Carlomagno è un'espressione che deriva
dalle opere dei Pupi nella quale Carlo Magno è il personaggio più importante, e durante gli scontri tra
cavalieri cristiani e i mori, il Puparo era il capo.

Zi Dima chiuse gli occhi, strinse le labbra e scosse il capo: i gesti parlano e ci aiutano a definire meglio il
carattere del personaggio

C'è forte contrasto tra i due personaggi, da un lato il proprietario e dall'altra il povero artigiano che è sicuro
del suo lavoro ma deve sottostare al capo.

Saettella: era una sorta di trapano a mano e quando si girava la manovella faceva un rumore che sembrava
quello di uno sbattere d'ali

Il viso gli diventava più verde della bile, e gli occhi più aguzzi e accessi di stizza: la deformazione, l'assurdità
di questo viso che cambia per via della rabbia.
Come per offrirlo a Dio: è un gesto sacrale come una sorta di operazione magica, ricostituire l'unità di
quest’oggetto

Zi Dima per ricucire la pancia della giara ci si mette dentro.

Spesso i contadini usano i proverbi per parlare, stessa cosa la fanno i personaggi di Pirandello in questa
novella.

I sudori, giù a fontana, dentro la giara: era ancora estate e in Sicilia faceva caldo.

Questo è caso nuovo...La Mula: ogni volta che Don Lollò ha un problema cerca la sua mula e corre in paese
dall'avvocato.

Quando Don Lollò va dall'avvocato quest'ultimo si mette a ridere e gli dà solo un consiglio, ossia rompere la
giara per far uscire Zi Dima, perché tenerlo lì equivaleva a sequestro di persona, ma Don Lollò non vuole
perdere i soldi spesi per la giara, a questo punto dunque l’avvocato gli da un altro consiglio ossia di far
stimare la giara rotta e poi riparata da Zi Dima stesso, a questo punto Don Lollò gli bacia le mani e se ne va.

Quando Don Lollò torna alla fattoria nota che intorno alla giara c'è un sacco di gente che gioisce, lo stesso Zi
Dima sembra essersi calmato, e questo è quasi rappresentato come un rito orgiastico, sintomo della
liberazione di quella sottomissione feudale alla quale erano costretti alla presenza di Don Lollò.

6° LEZIONE 24/10

Torniamo alla giara, ricordiamo le descrizioni fisiche per umanizzare gli oggetti, o per animalizzare gli umani,
ricordiamo i particolari della scrittura di Pirandello che spesso tende a rappresentare momenti di vita
quotidiana per poi arrivare ad eventi che quasi scardinano le certezze di quest'ultima, l'imprevisto, la follia,
ed è qualcosa che anche Freud aveva teorizzato con la teoria del perturbante, ossia in un sogno sogniamo
di essere nella nostra stanza con gli oggetti di tutti i giorni e poi improvvisamente uno di questi oggetti inizia
a trasformarsi; Pirandello non è vicino a Freud come pensiero però vive la sua stessa epoca e le sue stesse
perturbazioni.

Il primo elemento assurdo, che poi trascina la narrazione della novella è la rottura della giara, è il motore
narrativo, la giara si è rotta e va riparata.

La figura di chi la deve riparare, ossia l'artigiano è particolare, sembra più uno stregone, è estraneo a questo
sistema di dominio, suscettibile e non sopporta i soprusi di Don Lollò, ricordiamo che Zi Dima vuole riparare
la giara con un suo mastice miracoloso di cui lui solo ha il segreto, e tutti lo conoscono proprio per questo.

Zi Dima vorrebbe usare solo la sua colla ma Don Lollo pretende vengano messi anche dei punti e proprio nel
mettere questi punti che Zi Dima rimane bloccato nella giara, e Pirandello non ci prepara a quest'altra
sorpresa, non ci dice che tutta l'operazione di Zi Dima viene fatta da dentro la giara, cosa insolita, se ne
accorgono tutti solo quando è troppo tardi e il lavoro è talmente ben fatto che Zi Dima è ormai bloccato.

Don Lollò non vorrebbe neanche liberarlo perché significherebbe perdere i soldi della brocca, ma l'avvocato
gli spiega che non può tenere Zi Dima dentro il vaso perché significherebbe sequestro di persona, l'unica
soluzione è mettersi d'accordo e far pagare a Zi Dima i danni, ed ecco che Don Lollò, dopo aver parlato con
l'avvocato ritorna a casa, trovando una grande inflazione dell'ordine sociale, anche se non è violenta come
quella naratta da scrittori come Verga, dove i contadini si ribellarono con violenza, facendo finire il tutto in un
bagno di sangue.

Ma quella dei contadini di Don Lollò è a tutti gli effetti una ribellione, seppur inconsapevole, e questa è la
terza sorpresa della novella (La prima è la rottura della giara senza come nè perché, la seconda è Zi Dima
che rimane bloccato dentro la giara), il terzo caso è dunque la ribellione messa in atto dai contadini, e la
parola caso è scelta apposta da Pirandello, tra l'altro fa parte del linguaggio giuridico ("questo è un caso
strano").

Caso vuol dire anche evento, evento straordinario che infrange la regolarità della vita, che scardina la realtà.
Quando Don Lollò torna a casa trova tutto il popolo che sta facendo festa intorno a Zi Dima, questo vaso
diventa centro rituale di un rito quasi pagano e tutti stanno facendo festa, lo stesso Zi Dima che è ancora
dentro la giara, e lo fa con la gaiezza mala dei tristi, come dice di Pirandello stesso.

Riprendiamo la lettura

Quanto credi che possa costare adesso?: domanda maliziosa detta proprio in virtù del consiglio
dell'avvocato di farsi rimborsare

Come me qua dentro?: Zi Dima risponde in modo ironico sostenendo che quella giara ora valesse di più
essendoci lui dentro.

Da notare come prima Zi Dima è stato pagato con 5 lire, però quando si tratta di oggetti del vecchio mondo
contadino ancora si usano misure monetarie antiche, le once erano l'unità di misura che si usava per loro o
per l'argento.

Don Lollo pretende che Zi Dima paghi.

Qua dentro ci faccio i vermi: espressione popolare per dire che Zi Dima non ha intenzione di uscire,
umorismo macabro.

E tratta di tasca...per il collo della giara: scena che ci fa capire come Pirandello avesse gia intenzione di
costruire un'inquadratura cinematografica, nonostante il cinema fosse nato da pochi anni.

Quest'altro caso: da notare come la parola si ripeta indicando sempre un evento, è un evento eccezionale,
perché personaggi come Don Lollò capiscono solo la realtà dei soldi, degli avvocati, della povera gente e
della realtà circostante non si curavano.

Fu lì lì per ordinare di nuovo: <<La mula>>, ma pensò che era già sera: ricordiamo come Don Lollò per ogni
problema chiedeva della mula per correre dall'avvocato, elemento comico visto che era una mula e non un
cavallo.

Tu vuoi docimiciare nella mia giara: l'espressione è interessante perchè ci fa capire l'intento di Pirandello di
prendere in giro il sistema giuridico, perché all'epoca era gestito solo da gente ricca e dai padroni, e quindi
c'è tutta una serie di lessico giuridico per sfottere questo sistema.

Testimoni tutti qua: ricordiamo che qui noi abbiamo due attori principali, Don Lollò e Zi Dima, i due
protagonisti, ma intorno c'è tutto il popolo che costantemente viene chiamato in ballo, o per festeggiare Zi
Dima che viene visto come un eroe che si ribella, oppure vengono chiamati come testimoni di un atto
giuridico.

Cito per alloggio abusivo: linguaggio giuridico

Vede che mastice?: Zi Dima prende in giro Don Lollò

Arriviamo al finale, la sorpresa finale di tutta la novella, Zi Dima pensa a cosa fare con le 5 lire e pensa di far
festa con i contadini.

Strano accidente: caso strano

A farlo apposta c'era una luna che pareva fosse raggiornato: la luna piena e sorta e pare aver riportato il
giorno; a Pirandello piace molto la luna, spesso la riprende nelle sue opere, la luna è simbolica, è qualcosa
che illumina la realtà ma in modo strano, non è la luce del giorno ma ci da un'impressione strana della realtà,
una dimensione onirica, quasi fosse un sogno, ma mentre il sogno è un'esperienza individuale, qui invece è
un sogno collettivo, senza saperlo questi contadini si trovano a vivere un sogno sotto la luna.

Un baccano d'inferno: si rifà ad un'idea di rituale pagano.

Alla fine Don Lollò perde, rompe la giara, perde i soldi e Zi Dima ne esce salvo e trionfante, questo finale è
simbolo di libertà, ci da quasi una specie di scena di festa collettiva simbolo della rivolta nei confronti
dell'ordine costituito, questi sono i temi principali.

Possiamo notate che Pirandello lavora per opposizione tra simboli, che appartengono alla sfera semantica
del chiuso da un lato, e simboli che rimandano all'aperto dall'altro, da un lato il chiuso ossia la società
feudale, immagine della giara ancora piena, integra, è così che la società dovrebbe essere, con un ordine
preciso; dall'altro lato la giara che si rompe, da sola perché non ne può più, dopo millenni di soprusi, la giara
si svuota, queste due catene nel linguaggio critico, nella critica letteraria, le chiamiamo isotopie.

Le isotopie sono catene di simboli e metafore che seguono una stessa linea semantica, opposizione tra
isotopia del chiuso e dell'aperto che corrisponde allo sfondo sociale a cui appartiene la novella, cosa strana
visto che non è un tema particolarmente presente in Pirandello fatta eccezione per le novelle iniziali come
l'esclusa o i vecchi e i giovani; a lui generalmente non interessa la critica sociale, ma è chiaro che in questo
caso si colloca la frattura che c'è tra il mondo di Don Lollò, fatto di padroni e soldi, di legge, la giara, la
produzione, e il mondo di Zi Dima, l'aperto, la magia, la ribellione, desiderio di riscatto e di rivolta, Zi Dima è
vicino al popolo e conosce questo mondo.
La giara che si rompe rappresenta un evento liberatorio e la liberazione viene sentita da tutto il popolo che
alla fine si scatena in una festa.

Questa novella piaceva molto anche a Pirandello che la riprende spesso, la modifica e la traduce.
È un aspetto interessante questo perché dal punto di vista della linguistica Pirandello utilizza tutte le varietà
(diatopica, diafasica ecc) proprio perché va da un genere all'altro per questa novella.
La varietà su cui si concentra di più Pirandello è quella diamesica, va da un medium ad un altro, già quando
la porta a teatro si preoccupa di recitazione e regia, c'è un medium diverso, tutte le parti di narrazione e
descrizione nel teatro non ci sono più, vengono viste direttamente.

Nella variazione diamesica, il regista teatrale tutti questi elementi deve trasformarli, e la cosa straordinaria è
che lo fa in prima persona, lui è il primo intellettuale italiano che lavora sulla varietà diamesica in prima
persona, l'unico fatta eccezione per Pasolini, che lavorerà su linguaggi diversi.

Pirandello è forse il più importante autore italiano del 900, è uno dei pochi autori che si inserisce nel clima
culturale europeo. Noi prima di Verga non avevamo l'idea della novella come l'abbiamo oggi, ma è Pirandello
che la costruisce in Italia e lo fa riflettendo sulle forme stesse del racconto.

I formalisti russi teorizzano proprio su come si scrive una novella, e quando Pirandello inizia a scrivere non
esiste una distinzione netta tra novella, romanzo o racconto, erano tutti termini generici, il romanzo era
solitamente più lungo, mentre la novella e il racconto erano più brevi e solitamente legati al mondo del
giornalismo; Pirandello insiste molto sul fatto che la novella deve essere come il teatro greco, deve
racchiudere tutto in un'immagine, le 3 sorprese e il rito dionisiaco finale, questo legame con la natura, questo
lavorare sul punto focale è tipico della novella, che a differenza del romanzo è molto analitico, Pirandello più
di Svevo e più di Verga la costruisce in Italia.

Secondo Edgar Allan Poe la novella ha uno spazio di lettura di 2 ore perché deve seguire le sensazioni,
dev'essere letta tutta d'un fiato, Piranello è attento a mettersi nei panni del lettore e la fortuna delle novelle di
Pirandello è dovuta al legame del poeta con il giornalismo perchè è proprio sul corriere della sera che le
vediamo pubblicate (probabilmente anche perchè era più redditizio), per questo motivo aveva una lunghezza
standard la novella classica.

Scrivere una novella vuol dire prendere un fatto per la coda, la giara che si rompe, un fatto casuale, diventa
il motore della storia, Pirandello fa della casualità un fatto costante, la casualità rompe il quotidiano e diventa
un fattore costante. La parola casualità deriva dalla parola caso, notiamo come c'è sempre
un ritorno a questo termine, è una riflessione quasi esistenziale, che scardina anche la visione positivistica
della realtà a differenza delle letterature precedenti (naturalismo e verismo) che avevano spinto l'uomo a
leggere gli eventi e a vederci costantemente una catena di causa effetto, un mondo macchinistico in cui
Pirandello invece insinua il dubbio, nella novella non ci sono causa ed effetto, c'è solo il caso.

In questo periodo la scienza arriva alla stessa conclusione, prima imperava la fisica di Newton, ora invece
nel 900 iniziano le ricerche di Einstein e la fisica quantistica che pian pian spiegherà che nel profondo della
materia ci sono dei processi che sembrano avvenire per caso è che noi non possiamo spiegare o capire con
la fisica delle particelle elementari.

Torniamo alla parola caso, se facciamo uno scambio di lettere abbiamo la parola caos, nel caos tutto
avviene per caso, ed è una parola fondamentale per Pirandello perchè la sua casa, una piccola tenuta a
poca distanza dai templi greci, vicino ad Agrigento, si trovava in una zona che si chiamava appunto caos,
egli aveva scelto di vivere lì in solitudine, e aveva chiesto che le sue ceneri fossero lanciate nel vento, nel
caos. Pirandello muore alla fine degli anni 30 per via di una polmonite presa per andare ad assistere a delle
riprese in una zona molto fredda, come i grandi scrittori del passato muore in scena.

Vecce mostra un filmato, preso da un film di due registi che spesso riprendono le novelle di Pirandello; il film
è ad episodi e si chiama Caos, l'episodio principale è proprio la Giara.

Giuseppe Ungaretti
Giuseppe Ungaretti nasce nel 1888 e muore nel 1970, un poeta che attraversa la storia italiana, l'Italia del
900 quella contemporanea, lui nasce ad Alessandria D'Egitto e questo è un elemento fondamentale perché
lui come altri autori trattati non viene dal centro, dalle periferie, addirittura viene fuori dall'Italia stessa.
Egli nasce ad Alessandria perché i suoi genitori erano migranti, come tanti italiani fino a poche generazioni
fa, operai che venivano dalle campagne Toscane, dalla zona di Lucca, ed erano emigrati in Egitto per
cercare lavoro dove avevano trovato una notevole comunità di italiani.
Ungaretti addirittura vive in Egitto fino ai primi 20 anni della sua vita quindi periodo fondamentale per la sua
formazione, anche per le prime cose che scrive, e questo indica che nel patrimonio genetico della cultura
italiana ci sono elementi multiculturali e multilinguistici.

Ungaretti quando lascia l'Egitto non va in Italia ma va a Parigi, siamo nei primi anni del 900, e Parigi è una
città piena di esperienze intellettuali e artistiche, c'è l'arte, c'è il cinema, Picasso e altri artisti e poeti saranno
suoi grandi amici. Ungaretti in questo momento è povero, questa era la vita dei primi
anni 20.

Questo è un periodo di rivoluzioni, molti giovani all'epoca volevano scrivere nuove poesia, abbandonare
quella di poeti come Pascoli, Carducci e D'Annunzio, questi giovani come Ungaretti o scrittori come Giovanni
Papini cercano nuove strade, si avvicinano a filosofie europee ed inventano un movimento culturale che si
chiamava Avanguardia, termine che si rifà al linguaggio militare, a quando i soldati andavano in
avanscoperta, un'avanguardia artistica che viene chiamata futurismo e Ungaretti infatti ci si avvicina quando
forma in Italia viene fondato da un altro poeta che era nato anche esso ad Alessandria D'Egitto, Filippo
Tommaso Marinetti. Questo ci fa inquadrare l'ambiente in cui nasce Ungaretti, un ambiente
di giovani che si scontrano con i poeti del passato e che hanno un occhio sul futuro, tuttavia dobbiamo
ricordare che questo tipo di Futurismo sarà molto diverso da quello di Ungaretti.

(Viene chiesto se Ungaretti è un ermetico, e Vecce risponde che il giovane Ungaretti non nasce ermetico)

Ungaretti va a Parigi perché lì ci sono i grandi poeti simbolisti come Baudelaire, ecco perché non torna
subito in Italia.

Iniziamo a leggere la prima poesia

In memoria
Iniziamo con questa poesia perché è una delle prime poesie di Ungaretti e si lega al tema della perdita di un
suo amico arabo-libanese, Mohamed Sceab, con cui era partito da Alessandria per tentare questa avventura
e insieme arrivano a Parigi, ma col tempo Mohamed vive una crisi interiore, non sa più chi è; la crisi è tale da
decidere di suicidarsi. Nessuno lo
conosce tranne Giuseppe ed è l'unico che lo accompagna a Parigi dove viene sepolto; scompare la figura di
Mohamed e Ungaretti dedica a lui una sua poesia ed è grazie a questa che Mohamed Sceab continua a
vivere.

Si nota subito che a differenza della prosa si usano i versi (dal latino vertere, andare a capo, portare dall'altro
lato) Ungaretti rivoluziona completamente le regole della poesia, non ci sono versi regolari, non c'è una
metrica regolare (la metrica dal greco metros, la misura della poesia, tecnica con cui si creano i versi, ed
esiste in tutte le poesie del mondo, nasce dagli accenti naturali delle parole, come con il greco e il latino che
avevano sillabe lunghe e sillabe brevi).

Ungaretti abbandona la metrica nazionale, ossia quella di Dante, Petrarca, ma anche quella di Leopardi,
Carducci e Pascoli, tutta la poesia italiana si basa sulla metrica nazionale, cioè sulla regolarità della
lunghezza dei versi, il famoso endecasillabo o il settenario, e con tutte le combinazioni di accenti della
poesia italiana, tutto questo era usato fino a D'Annunzio, questi nuovi poeti cambiano tutto, niente più metro,
niente più ritmo, niente punteggiatura, alcuni versi sono addirittura costituiti da una sola parola.
Cambia anche la struttura che prima era regolare e fissa, avevamo quindi sonetto, canzone, ballata, sestina
ora non ci sono più; se però andiamo a vedere più da vicino notiamo come Ungaretti comunque in qualche
modo si è servito di alcuni moduli della poesia tradizionale italiana, quasi come se gli tornassero in mente.

Il primo verso, Si chiamava sono 4 sillabe, il secondo Mohamed Sceab sono solo 3 sillabe, 4+3=7, e il 7 si
rifà ad una delle strofe più usate nella poesia italiana. Altro esempio, discendente di Emiri di
nomadi, se contiamo i versi con quel ritmo cadenzato, abbiamo 4 sillabe + 7 sillabe che fa 11, quindi un
endecasillabo; il secondo verso è sdrucciolo, quindi apparentemente c'è un verso in più, ma nella lingua
italiana il conteggio lo facciamo sulla base dei versi pari non quelli dispari.

Ungaretti effettivamente usa i versi della poesia tradizionale italiana, li dispone solo in modo diverso per dare
un'idea diversa del loro ritmo naturale, isolando le parole chiave e dando un maggior valore semantico e
simbolico a quelle parole che sono improvvisamente isolate, come nel verso 5 costruito da una sola parola:
suicida, in sé ha tutta la tragedia del gesto, non viene spiegato il come, e questa attenzione è solitamente
presente nelle parole che vengono isolate nei testi di Ungaretti, una parola assoluta, pura, un’idea della
poesia in cui la parola non è quella della poesia tradizionale ma trova un suo significato originario, come
nella poesia Fratelli, questa parola che risuona da sola con tutto il suo significato originario voluto da
Ungaretti: basta guerre, bisogna ritrovare la fratellanza tra esseri umani.

Andiamo ai contenuti, un primo livello è quello in cui Ungaretti ci descrive la graduale perdita d'identità da
parte di Mohamed che è partito per l'avventura a Parigi, in un nuovo mondo, ma ha perso l'identità,
cominciando dal nome, lui si fa chiamare Marcel perché non vuole essere identificato come immigrato, però
così gradualmente allo stesso tempo egli perde la sua identità e comunque non viene integrato nella nuova
comunità, nonostante avesse fatto di tutto (amò la Francia, cambiò nome).

Questa è una poesia modernissima, all'epoca la Francia non era come oggi, era un paese con pochi
migranti, dopo arriveranno le grandi masse di artisti e poeti dall'Algeria, dal Marocco, questi sono gli stessi
problemi della Francia di oggi che è piena di immigrati che però di fatto non sono per nulla integrati nella
società.

(Viene chiesto come mai Patria sia con la P maiuscola, e il professore sostiene che effettivamente è strano
perché comunque Mohamed viene da una famiglia di nomadi)

Fu Marcel

ma non era Francese


e non sapeva più

vivere

nella tenda dei suoi

dove si ascolta la cantilena

del Corano

gustando un caffè

Mohamed aveva perso anche la memoria delle sue tradizioni, abbiamo il dettaglio bellissimo della tenda, la
tenda dei suoi genitori dove viveva quando era bambino, forse sono dei racconti che Mohamed faceva ad
Ungaretti. Ungaretti è sempre preciso nella scelta delle parole, attento anche ai
dettagli apparentemente meno importanti, egli dice gustando un caffè, e infatti il caffè arabo non si beve ma
si gusta perché è ad infusione.

E non sapeva

sciogliere

il canto

del suo abbandono

Questo senso di negatività della vita, di questo giovane che ha cambiato paese, lo ha amato, si vorrebbe
integrare ma si sente rigettato, la sua vita arriva ad una negatività profonda che viene espressa da Ungaretti
con la ripetizione quasi ossessiva della negazione (usa spesso il NON)

L’ho accompagnato

insieme alla padrona dell’albergo

dove abitavamo

a Parigi

dal numero 5 della rue des Carmes

appassito vicolo in discesa.

La negatività è tale che Mohamed arriva alla scelta del suicidio, non sappiamo nulla della sua morte ma
abbiamo il racconto dell'ultima volta che lo ha accompagnato, l'ultimo viaggio di Mohamed è verso il cimitero,
e ci sono solo 2 persone: Ungaretti e la padrona dell'albergo; un albero malfamato, siamo nel quartiere latino
di Parigi, e questo albergo esiste ancora oggi con una piccola targa su cui è inciso che ci è passato
Ungaretti.

Riposa

nel camposanto d’Ivry


sobborgo che pare

sempre

in una giornata

di una

decomposta fiera

Notiamo il passaggio al presente e ci soffermiamo sulla figura di Mohamed, la figura di Mohamed è quella di
un migrante dal Libano alla Francia, un viaggio verso una nuova città, ma è anche il viaggio della sua vita,
della fine di questa sua esistenza con il riposo.
Questo sobborgo descritto da Ungaretti ha sempre l'aspetto di una decomposta fiera, una festa paesana, un
luogo dove anticamente c'erano delle taverne, un luogo che da sempre questa impressione di essere una
fiera.

E forse io solo

so ancora

che visse

Sono fondamentali questi versi, qui entra il poeta che aveva già accompagnato Mohamed, finora si è sempre
parlato di Mohamed e si è usata la terza persona, Ungaretti entra al verso 22 quando dice l'ho
accompagnato, e soprattutto nel finale. La presenza dell'io è un altro elemento fondamentale della
poesia di Ungaretti, la poesia più che la narrativa si basa sull'introspezione, pensiamo a poeti come Petrarca
e Leopardi, l'io è sempre presente, la poesia è la rappresentazione dell'io. In questo caso è ancora più forte
perché generalmente quando uno scrittore parla di sé stesso non è molto onesto, spesso si racconta meglio
di quanto è, Ungaretti no.

La scelta di Ungaretti a di raccontare sé stesso cercando la verità, la verità è essenziale, deve esistere e
quindi cercare di legare la poesia alla vita, la poesia è la vita e la vita è poesia, c'è una specie di identità
assoluta. Quando Ungaretti alla fine della sua carriera raccolse le sue poesie in
un unico tomo gli diede un titolo profondamente simbolico, Vita d'un uomo, per Ungaretti la poesia è vita e
questo vuol dire che essa deve testimoniare la vita, è testimonianza; in questo momento lui è sconvolto dalla
morte dell'amico, di questo ragazzo che nessuno sa essere esistito, e decide di scrivere questa poesia per
raccontare di questa esistenza ed infatti usa il suo vero nome, Mohamed Sceab, perché è l'unica memoria
che ci resta della vita di questo ragazzo.

Alla fine della poesia c'è un luogo e una data, in un testo poetico anche questi elementi paratestuali sono
significativi, come abbiamo visto in Svevo, significa che a quel punto la narrazione è cambiata, è diventata
un diario, è un'altra tipologia di testo. La presenza di una data è importantissimo, pensate se le avesse
messe Petrarca nel canzoniere, che nasce come diario per un anno, noi siamo dovuti risalire alla data
perché all'epoca non si usava datare i testi, ma sarebbe stato utilissimo se Petrarca le avesse messe.
Anche Leopardi mette le date, pensiero per pensiero. Tutte le poesie
della prima raccolta di Ungaretti alla fine riportano luogo e data, c'è una geografia e c'è un tempo, spazio e
tempo sono precisi, e se il poeta li ha messi vuol dire che è importante sapere questo, non sono casuali.

In questa poesia viene riportato, Locvizza 30 aprile 1916. Se noi oggi


andiamo a Locvizza troviamo un posto bellissimo, pieno di prati, non lontano da Gorizia, ma che attualmente
si trova dall'altra parte del confine, in Slovenia, infatti anche il nome è sloveno (non so come si scriva);
all'epoca in quel periodo, Locvizza era una delle città più distrutte dalle battaglie di trincea della prima guerra
mondiale. Ungaretti quindi scrive questa
poesia forse in una trincea, magari accanto ha un morto, di notte, durante una pausa dai bombardamenti, lui
sta scrivendo queste poesie.

Il 30 settembre il 1916 segna la data di una delle battaglie dell'Isonzo, una delle più terribili sul fronte
orientale, tra l'esercito italiano e quello Austroungarico, la gente di tutta Italia era mandata a morire nelle
trincee durante la prima guerra mondiale ed erano sostanzialmente persone comuni, tra queste persone
c'era anche Ungaretti che come loro era costretto ad avere la morte davanti agli occhi tutto il giorno, ed è
importante sapere anche questo, perché è durante questo momento tragico che Ungaretti ricorda Mohamed
ancora una volta.

Tornando alla dimensione autobiografica, l'io come testimone racconta la verità e lo fa cercando di trovare le
parole originarie, una poesia pura ed assoluta. Quello che molti non sanno è che Ungaretti
aveva già pubblicato qualcosa in ricordo di Mohamed, l'anno prima quando era rientrato in Italia e voleva
andare a combattere insieme ad altri giovani per questo ideale di riportare all'Italia Trento e Trieste, pubblica
sulla rivista futurista la Cerva, fondata da Marinetti ed altri poeti, una breve poesia che è quasi in prosa, una
specie di poemetto in prosa, ed è la prima versione di in memoria.

"Mi è tornato a ritrovare il mio compagno Arabo che si è suicidato, e quando mi incontrava, negli occhi
parlandomi con quelle sue frasi, cupe e frastagliate, era un cupo navigare nel mansueto blu, è stato
sotterrato a Ivry, con i splendidi suoi sogni, e ne porto l'ombra"

Queste brevi parole pubblicate nel 1915 sono la prima idea della poesia per Mohamed, il ricordo di
Mohamed gli è riapparso e lui ha ricordato tutto, da qui nasce l'idea.

L'ultimo verso, ne porto l'ombra, questo ricordo che si fa sentire e si tramuta in bisogno di testimoniare, la
poesia è anche liberazione, per uno scrittore che magari si sente un peso dentro e ha bisogno di liberarsi,
così come per un poeta, a lui è riapparso Mohamed che gli chiede di essere ricordato, in modo che non sia
vissuto invano visto che Ungaretti era l'unico a sapere della sua esistenza. Ungaretti era
nelle trincee, sarebbe anche potuto morire il giorno seguente, ma lui quella notte ha scritto questa poesia per
Mohamed e ha lasciato così testimonianza della sua vita.

La prossima poesia è Il porto sepolto, datata 29 giugno 1916, pochi mesi prima di In memoria, in mezzo c'è
la carneficina più terribile della prima guerra mondiale, Ungaretti l'aveva scampata nonostante gli austriaci
avevano usato i gas asfissianti sulle trincee, più della metà dei soldati italiani era morta, quindi gli ungheresi
avevano conquistato facilmente le trincee italiane, e quelli che trovano vivi li finivano con dei colpi di mazza
ferrata, episodi di una crudeltà immensa.

Siamo a giugno del 1916 e anche qui Ungaretti, mentre intorno a lui c'è la violenza della guerra, si rifugia
nella poesia, e questa poesia dà il titolo a tutto il libro che viene pubblicato pochi mesi dopo, fortunatamente
queste battaglie dell'Isonzo si concludono con la conquista italiana di Gorizia, e quindi per un certo periodo
le cose vanno bene all'esercito italiano; dopo questo momento un ufficiale italiano vede che Ungaretti aveva
scritto queste poesie e gliele pubblica a Gorizia, tutte poesie scritte su pezzetti di carta, su cartoline,
addirittura sulla carta che avvolgeva i proiettili, saranno poi ripubblicate con un altro titolo successivamente
Allegria di naufragi poi ancora con un altro titolo Allegria, ma Il porto sepolto era il primo titolo.

Perché ha dato il titolo a tutta la raccolta? Perché questa è


l'unica poesia metapoetica cioè in cui il poeta parla di sé stesso e del suo modo di fare poesia, cos'è per lui
fare poesia.
Mariano il 29 giugno 1916

Vi arriva il poeta

e poi torna alla luce con i suoi canti e li disperde.

Di questa poesia

mi resta 5

quel nulla

di inesauribile segreto

il titolo fa parte integrante del testo perché il testo inizia con Vi arriva e quindi si rifà al porto, il porto che è
sepolto e poi ritorna alla luce portando con sé i canti, perché le poesie con la loro bellezza sono sepolte lì, il
poeta fra gli altri esseri umani è l'unico a sapere del porto sepolto, è l'unico intermediario, quasi stregone,
sommozzatore, in grado di scendere sott'acqua al porto sepolto, trovare i tesori, risalire in superficie e
condividerli con gli altri esseri umani, per Ungaretti questa è la poesia, non si tratta di esaltazione del suo
talento ma di semplice condivisione.

Fin qui terza persona, poi ritorna l'io, mi resta, Ungaretti si chiede cosa gli resti, è diventato palombaro per
riportare questi tesori alla luce, ha fatto il suo, e a lui cosa resta dopo tutto ciò? Il nulla, il nulla di un segreto
inesauribile, infinito, perché il segreto della poesia non ha limiti, è infinito come l'animo umano.

Per capire veramente questa poesia dobbiamo anche capire questa immagine del porto sepolto che è
un’immagine che si rifà all'infanzia di Ungaretti, e anche qui torniamo ad Alessandria D'Egitto, perché è una
delle più belle leggende che Ungaretti aveva sentito da bambino.
L'Egitto e tutto un sogno è tutto leggende e storie infinite, ma Ungaretti in particolare vive ad Alessandria
D'Egitto che ha la grande leggenda di essere la città fondata da Alessandro Magno dopo la conquista
dell'Egitto, che diventa una delle capitali del mondo mediterraneo, antico e medievale.

Una città meravigliosa, nell'antichità era la sede di una delle biblioteche più antiche del mondo quella di
Alessandria D'Egitto, con il più grande porto del mondo, con il famoso faro di Alessandria, tutto questo fu
distrutto nei secoli, sepolto dalle sabbie del deserto o inghiottito dalle acque del mare e l'idea del porto
sepolto è proprio questa, la leggenda che nel porto di Alessandria sotto le acque ci fossero ancora le rovine
e i tesori della città che diventa metafora dei tesori della poesia, la poesia è come un porto sepolto e il poeta
è colui che è in grado di scendere in queste profondità e di portare alla luce questi tesori.

L'altra poesia è I fiumi

I fiumi è una delle poesie più belle di questa raccolta, perché anche questa poesia riporta Ungaretti indietro
nel tempo e gli fa ricordare le sue origini familiari, e tutto questo viene simboleggiato da un elemento
naturale, sono i fiumi della sua vita, e il fiume è un elemento simbolico perché l'acqua è l'elemento della vita,
datata Cotici 16 agosto 1916.
Siamo nella sesta battaglia dell'Isonzo, nei momenti più terribili degli assalti alla baionetta da una trincea
all'altra, per conquistare una montagnella alta 200 metri per la quale sono morte pii di 40.000 persone.

Il poeta anche in questo caso è in grado di aggrapparsi agli elementi della vita, Ungaretti si immerge in
queste acque e rinasce; quest'acqua gli fa sentire la continuità con tutte le acque della sua vita ecco perché
fiumi al plurale. Anche qui come nelle poesie precedenti, abbiamo una metrica libera, andare
a capo anche dopo poche parole, parole isolate che quindi acquistano un significato assoluto, che proprio in
senso etimologico significa sciolto da tutte le altre parole, quindi una forma che tende all'essenzialità perché
di fronte alla morte e alla guerra non serve più retorica e rappresentazione, c'è solo l'essenzialità della vita a
cui siamo aggrappati con tutte le nostre forze e che potremmo perdere da un momento all'altro.

Mi tengo a quest'albero

mutilato

abbandonato in questa dolina

che ha il languore

di un circo

prima o dopo lo spettacolo

e guardo

il passaggio quieto

delle nuvole sulla luna

In questa prima strofa il poeta soldato si aggrappa all'unica cosa rimasta in questo paesaggio di morte dove
tutto è stato distrutto, ossia un albero mutilato, come molti esseri umani, abbandonato in una dolina (termine
geologico caratteristico del paesaggio di questa zona a confine con l'Italia, che su chiama Carso, sono le
colline fra Gorizia e Trieste, e per un fenomeno geologico un altopiano calcareo viene eroso dall'acqua e fa
degli avvallamenti, come una specie di imbuto in cui l'acqua continua a scorrere ed entra nella dolina, nella
profondità e scava delle grotte sotterranee dove si collocano questi fiumi che riappaiono dopo decine di
chilometri e arrivano al mare, questi sono I fenomeni carsici)

Lui sta abbandonato in questo piccolo spazio circolare, una specie di avvallamento che funge anche da
rifugio per avere una pausa dai bombardamenti, questa dolina che sembra quasi un circo che ha questo tipo
di forma, prima o dopo lo spettacolo che in realtà sarebbero i bombardamenti, quello è lo spettacolo della
morte. Eppure intorno a questo spettacolo di morte c'è la divina indifferenza, il passaggio della luna
indifferente che crea contrasto nell'animo del poeta che solitamente avrebbe apprezzato quello spettacolo
ora invece si sente angosciato perché la morte regna sovrana, una morte causata dall'uomo alla fine, non è
uno scontro con la natura come ce lo racconta Leopardi, là in alto ci sono le nuvole e la luna, una tranquillità
di un altro universo.

Stamani mi sono disteso

in un'urna d'acqua

e come una reliquia

ho riposato

Questa mattina si è riposato, è vicino al fiume Isonzo, in una pozza d'acqua dov'è stato accolto come in
un'urna (vaso sepolcrale), ha abbandonato il suo corpo nell'acqua, ormai è vicino alla morte, e dentro
quest'urna ha riposato come una reliquia e anche questo semanticamente ci riporta al tema della morte.
Questi sono tutti vocaboli che ci riportano alla sfera del sacro, dove il sacro non c'è più, dove l'uomo ormai
uccide un altro uomo, la natura è violata, l'uomo sta commettendo un sacrilegio, e in questa atmosfera
Ungaretti riscopre il senso del sacro, quasi un rito religioso che sta facendo, si immerge in un'acqua
purificatrice che lava il sangue e le brutture del mondo.
Questo è una scena che troveremo spesso nei racconti di guerra di questo periodo, nelle pause i soldati si
immergevano nel fiume, intanto per pulirsi ma era anche un momento liberatorio, potevano giocare tra di loro
e dimenticare quella realtà crudele.

La parte drammatica è meno presente in un altro autore contemporaneo di Ungaretti, Giovanni Comisso
perché questo non si trova in trincea, ma vede comunque i giochi tra soldati che in fondo sono ragazzi come
noi. In Comisso c'è anche la parte di purificazione, c'è questa idea di entrare
in un contatto con la natura quasi mistico. La guerra ha sempre un po' attratto i poeti, prima di combatterla
loro vivono di questi momenti di contatto con la natura, e il fiume rappresenta un momento purificatore.
Anche Comisso ha questo momento quando vede in una pozzanghera scavata dalle bombe il riflesso della
luna, questi attimi che fanno riflettere, la luna rappresenta lo sguardo dall'alto passivo della natura di fronte a
queste cose, sono cose che per l'animo del poeta diventano importante perché ci fanno riflettere sulla natura
stessa dell'uomo, e c'è una fortissima contraddizione tra la natura che ispira pace e la guerra dell'uomo.

Rivediamo questi due campi semantici, da un lato questa dolina che è come un circo, e dall'altro la parte
religiosa, l'urna e la reliquia, queste due ritornano anche nel resto della poesia.

L'Isonzo scorrendo

mi levigava

come un suo sasso

Il poeta si è steso come una reliquia, il fiume lo ha accolto e ha iniziato ad accarezzarlo, l'acqua scorreva
sulla pelle come se la levigasse. Qui il poeta descrive sé stesso come in una sorta di metamorfosi, e questa
è una cosa che troviamo anche in altri poeti come Petrarca, che in una nota canzone, la canzone delle
metamorfosi, per l'amore di Laura si trasforma, e in una di queste trasformazioni Petrarca diventa acqua e in
un'altra sasso, ed è sorprendente notare come torna sempre la memoria dei poeti antichi pur essendo
Ungaretti un poeta che guarda al futuro. Ungaretti prima si è
trasformato in una reliquia, quindi in un osso, ora si è trasformato in un sasso levigato dall'acqua, levigato
vuol dire che l'acqua lo erode e quella roccia che magari era caduta da una montagna e quindi era piena di
spigoli, con il tempo l'acqua la leviga e la fa diventare tonda e liscia, toglie ogni asperità, e lo stesso vive
Ungaretti.

Ho tirato su

le mie quattr'ossa

e me ne sono andato

come un acrobata sull'acqua

Dopo questa prima immersione l'acqua gli ha dato vita, lui si è rialzato cambiato. Ungaretti è nudo, si rialza,
tutto magro ha tirato su le sue 4 ossa e se ne va saltellando come un acrobata sull'acqua.
Questa immagine del circo torna spesso in questo periodo, basti pensare a Picasso che dipinge solo clown,
il circo è la metafora della vita.

Mi sono accoccolato

vicino ai miei panni


sudici di guerra

e come un beduino

mi sono chinato a ricevere

il sole

I raggi del sole sulla pelle, sul corpo purificato, cime un ricordo dell'infanzia africana (come un beduino)

Questo è l'Isonzo

e qui meglio

mi sono riconosciuto

una docile fibra

dell'universo

l rito sacro si è compiuto, l'uomo è tornato in armonia con la natura, mentre prima era una scheggia
impazzita che uccideva sé stesso e la natura, ora l'uomo è tornato ad essere una docile fibra dell'universo.

Il mio supplizio

è quando

non mi credo

in armonia

Ma quelle occulte mani

che m'intridono

mi regalano

la rara

felicità

Che cosa sono le mani? È il flusso


dell'acqua che come delle mani lo ha accarezzato e levigato, quelle mani che ci sono ma non si vedono,
sono nascoste. Intridere significa attraversare, come se una
corrente di energia lo avesse attraversato regalandogli la rara felicità, e questo fa scattare la memoria, e
l'Isonzo diventata tutti i fiumi della sua vita.

Ho ripassato

le epoche
della mia vita

Questi sono i miei fiumi

Qui riprende un'anafora (ripetizione all'inizio o alla fine del verso di una strofa della stessa parola)

Questo è il Serchio

al quale hanno attinto

duemil'anni forse

di gente mia campagnola

e mio padre e mia madre

Questo è il Nilo

che mi ha visto

nascere e crescere

e ardere dell'inconsapevolezza

nelle estese pianure

Questa è la Senna

e in quel torbido

mi sono rimescolato

e mi sono conosciuto

Questi sono i miei fiumi

contati nell'Isonzo

Questa è la mia nostalgia

che in ognuno

mi traspare

ora ch'è notte

che la mia vita mi pare

una corolla

di tenebre
Cotici, il 16 agosto 1916

I fiumi si identificano nell'Isonzo; il Serchia è il fiume della Toscana vicino Lucca da dove provenivano i
genitori di Ungaretti, il fiume dell'origine prenatale. Il Nilo è il fiume sulle cui sponde
Ungaretti è nato, l'acqua della nascita. La Senna è il fiume del suo periodo a Parigi,
c'è il torbido della vita, lì si è rimescolato e conosciuto, il fiume del passaggio dall'infanzia alla vita adulta.

Questa è anche la sua nostalgia, perché in ognuno di questi fiumi emerge una stagione della sua vita, un
ricordo di infanzia e di purezza, ora invece che è notte, una notte di guerra e di morte, intorno a lui la vita
sembra fatta di una corolla di tenebre, un fiore dai petali neri, ora questi fiumi gli danno la memoria della vita
e questa memoria è una nostalgia.

Nostalgia è una parola moderna nonostante venga dal greco (nostos: ritorno a casa e algheia: dolore. Il
dolore del ritorno), la inventarono i medici agli inizi del 1800 per descrivere quell'inguaribile malinconia che
prendeva i soldati quando erano lontani da casa e che diventava quasi una malattia che portava i soldati a
sedersi e a smettere di combattere o addirittura a spararsi. Qui
questa parola viene usata quasi in senso originario, è quasi una malattia, un senso del ritorno ai fiumi della
sua vita, un ritorno a quest'acqua che è simbolo della vita proprio ora che lui è circondato dalla morte.

Eugenio Montale
La vita poetica di Montale inizia con “Ossi di Seppia” dove si nota l’influenza di d'Annunzio, anche se poi si
allontana.

Montale nasce a Genova ed è molto condizionato dal paesaggio marino. Nelle 5 terre, dove va in
villeggiatura, cerca ispirazione nella natura, che in “Ossi di Seppia” ha due valenze: òa vaenza dell’infanzia e
il rapporto panico, ovvero il rapporto con la natura e il mare, simbolo di

beatitudine e che unisce uomo e natura. Da quella condizione di beatitudine Montale racconta poi il
distaccco. Gli ossi di seppia potevano galleggiare sul mare, sballottolate sulle onde vivendo il rapporto
panico, oppure viene sbattuto sulla spiaggia, come un relitto, un rifiuto, qualcosa che si è staccato da un
benessere originario ed è arrivato a una condizione da emarginato. Montale insiste molto su questa valenza.

Più avanti Montale si schiererà contro la massificazione e la modernizzazione tecnologica, che lascia
indietro chi non riesce a cogliere il progresso.

“Ossi di Seppia” sarà una raccolta di formazione. Si confronta con D’Annunzio e con “la Ronda”, seguendo
quindi l’idea di una metrica con cui gioca molto e usa l’endecasillabo. Si avvicina ai Crepuscolari e Vociani,
avanguardia di inizio ‘900. Anche in Montale, come in D’Annunzio, c’è il fascino dei simbolisti francesi
considerato il faro del ‘900.

Montale con” Ossi di seppia” scrive delle poesie ricche di volontà per lavorare guardando al passato italiano,
quindi alla tradizione poetica di Dante o di Foscolo, e di entrare a far parte delle avanguardie.

“Ossi di seppia” viene scritto nel 1925, nel periodo Genovese. La seguente raccolta è “le occasioni”, del
periodo fiorentino e si concentra nel periodio del fascismo insieme a “la bufera”. Nel periodo di stesura de “la
ronda” lavora per il gabinetto a Firenze, dove vi sono materiali letterari. In seguito viene allontanato dopo
aver firmato il manifesto di Benedetto Croce.
Le due raccolte nascono in un contesto di allontanamento e contrasto dal fascismo e si avvicina
all’ermetismo. In Montale ci sono varie donne che hanno una funzione salvifica, ispirandosi alla lezione
Stilnovistica, ma non necessariamente trascendente e divina. La prima è Arletta/Annetta, Clizia a cui dedica
“Le Occasioni”, Mosca la moglie. In altri quaderni compare Volpe, poetessa di cui si innamora ma non si sa
se realmente o platonicamente.

“Le occasioni” vengono scritte nel ‘39 e “La Bufera e altro” nel ‘56. In quest’ultima, nella sezione “silvae” vi è
l’anguilla. “La Bufera e Altro” è composta da 7 sezioni. Il linguaggio si abbassa e diventa un linguaggio
degradato, non ha fiducia nella società ormai allo sbando. I due grandi partiti, capitalista/fascista e
comunista, avevano ormai fallito. L’unione sovietica, dopo la morte di Stalin e la destalinizzazione, porta
nelle persone una forte delusione.

In “Satura” abbiamo un’altra poesia importante dove parla di un’alluvione che sommerge i libri. E’ la morte
delle poesia e Montale si chiede quale sia il ruolo della poesia in un mondo che va a rotoli.

“L’anguilla”-1948 da “La Bufera”

La poesia è interessante del punto di vista metrico. Alcuni parlano di metrica dell’anguilla, quindi una metrica
che si fa portavoce del contenuto. Si pensa non sia una scelta casuale. La metrica ricorda quella classica,
arrivando a usare il verso alessandrino (14 sillabe) al quinto verso.

La poesia, insieme a “Gallo Cedrone”, non ha un vero e proprio ruolo nella società post bellica. Quando ciò
che riguarda la ragione, quindi le ideologie sulla società, sembra aver fallito bisogna tornare agli istinti e
sopravvivere.

Sono trenta versi, non c’è un punto fermo e un punto interrogativo finale. Il soggetto della domanda è
l’anguilla. Puoi tu non credere sorella l’anguilla?

Con questa domanda si rivolge alla donna a cui dedica la poesia.

Parafrasi

“Sirena”-vv.1: fa riferimento alla natura ibrida dell’anguilla. come se fosse un “pesce serpente”. Fa riferimento
al simbolo del canto poetico, come la sirena che canta e incanta chi l’ascolta.

La prima parte della poesia è caratterizzata dal movimento e racconta il percorso dell’anguilla, che arriva dai
mari freddi dell’europa(il Baltico, Penisola Scandinava) e segue un percorso per arrivare sino al
mediterraneo. Il percorso è immaginario e non è scientificamente accurato.

L’anguilla arriva sino alle foci dei fiumi e ai corsi dei fiumi stessi, andando controcorrente, di affluente in
affluente(“di ramo in ramo”-vv.6) e di ruscello in ruscello(“di capello in capello”-vv.7). Montale rimanda a
immagini che fanno capire quanto l’anguilla si addentra nel cuore del macigno(metonimia che fa riferimento
al fiume, nato dalle rocce). Va nei sottili percorsi d’acqua con la melma(idea inospitale della natura). Un
giorno un raggio di sole viene scoccato dal dio D’Amore e che illumina filtrando dai castagni. Ne accende il
guizzo in pozze d’acqua morta(guizzo-pozze vv.12→assonanza; richiama al saltare dell’anguilla che va da
una pozza all’altra).

Quindi l’anguilla passa dal mare alla pozza. L’anguilla passa dalla bellezza incondizionata del mare a un
paesaggio inospitale. Le pozze si trovano nei fossati che vanno dall’Appennino alla Romagna.

“L’anguilla torcia, frusta e freccia”-vv.15: oggetti a cui è associata non sono lalguilla ma anche il dio
Eros/Amore.

La presenza del dio Amore è legato allo stilnovo di Dante e di Cavalcanti, che aprlava di un dio guerriero che
quando scoccava le sue frecce rendeva inerme chi ne veniva colpito. Anche la luce scoccata fa riferimento
alla tradizione stilnovista.

A partire dagli oggetti-emblema che mette in scena richiama delle emozioni e dei sentimenti, usa quindi il
correlativo oggettivo.
L’anguilla viene ospitata o nei piccoli riuscelli italiani o in quelli aridi dei Pirenei. Nel clima di aridità Montale ci
riconduce a paradisi di fecondazione: l’anguilla in un clima ostile e inospitale si riproduce.

Sono luoghi totalmente inospitali. La rima tra “fecondazione/desolazione”(-vv.19 e 22) rimanda a un forte
contrasto. L’anguilla cerca vita dove c’è desolazione totale: l’anguilla è un simbolo della poesia, che per
Montale nasce in un apparente clima di morte dove in realtà c’è la vite e si può rinascere.

Con scintilla(metafora della torcia del dio d’Amore e del movimento guizzante dell’anguilla) tutto ha inizio.
Dove tutto sembra morire la scintilla illumina.

“Bronco seppellito”(-vv.25) è una metafora dell’anguilla: il bronco è un ramo secco deppellito sotto la melma
dell’acqua, che poi diventa vita. Il Bronco incarbonito non è qualcosa di negativo, ma dà l'idea di qualcosa
che brucia, crea una scintilla e dà vita.

Il bronco è quasi un anagramma[iNCaRBONiRsi→BRONCO], quindi può sia essere creata attraverso


un’altra(incarbonirsi, in questo caso), ma anche quando le lettere di una parola sono comprese in un’altra più
grande.

L’ultima parte della poesia si chiude con una domanda: l’iride è una sineddoche (una parte per tutto:
iride=occhi). L’iride breve dell’anguilla è gemella degli occhi della donna a cui si riferisce. Usa il verbo
“incastonare”(-vv.27) dando un valore prezioso all’occhio, messo in realzione con le ciglia.

Gli occhi brillano mentre sono immersi nel fango, i figli del’uomo e un’umanità allo sbando. Lo sguardo di
Clizia porta qualcosa di positivo a una società decadente(=fango) come quella in cui vive Motale composta
da uomini che si ritrovano in luoghi desolati, persi ed emarginati. La domanda retorica, e tutta la poesia, è
rivolta a Clizia: gli occhi dell’anguilla sono gli stessi della donna, rendendole come sorelle.

La poesia può essere divisa in tre parti:

1. Vv.1-14: la prima parte è quella di movimento, dove viene raccontato il percorso dell’anguilla;

2. Vv.15-25: la seconda parte presenta il contrasto tra il contesto desolato e la vita che viene sparsa
dall’anguilla;

3. Vv.26-30

Come già detto la metrica riprende il percorso dell’anguilla, i versi si allungano e si abbreviano. Montale
inserisce nella poesia molti settenari, ottonari ed endecasillabi, usando dei metri classici in maniera
innovativa. Alla fine ci sono versi molto brevi. La poesia ha una struttura anguillare.

La parola anguilla fa molte consonanze con sorella, gemella, ruscelli, scintilla. Sono tutti termini che
attraverso il significante richiamano all’anguilla.

Vita, morde(cambia la dentale da “t” a “d”morte): c’è l’idea di vita dove tutto è decadente(-vv.21-22).

“La casa dei doganeiri”-1930 da “le occasioni”

Siamo nel periodo fiorentino e più ermetico di montale, infatti qui il correlativo oggettivo è legato proprio
all’ermetismo.

Anche qui la figura femminile appare alla fine. E’ un momento in cui Montale ricorda momenti felici del
passato. Ricordiamo che Montale scrive la poesia nel periodo della seconda guerra mondiale. La donna,
oltre a essere la poesia, è Arletta/Annetta che non sappiamo se è già morta o c’è stato un distacco fisico tra i
due.

C’è un'opposizione tra interno(vita autentica) e esterno(società fascista, in cui Montale non ha fiducia perché
era contro l’arte se non per poter innalzare il regime). L’esterno è anche la società di massa, composta da
persone che non hanno un pensiero proprio e si omologa. I pensieri sono così numerosi e rumorosi che
sono come sciami.
La prima e la terza strofa sono di 5 versi. La seconda e la quarta di 6. Per quanto riguarda la metrica si
alternano endevasillabi e settenari, ma vi sono anche dei quinari o endecasillabi ipermetri.

Prima strofa: La casa dei doganieri, ovvero di coloro che stanno alla dogana, rappresenta il limite e il confine
tra la vita autentica e inautentica della società che porterà alla guerra, ma anche tra la memoria, priva di
movimento, e il movimento del tempo.

Montale accusa Annella che non ricorda questa casa, che si trova tra il mare e la terra ferma. Srova quindi
su uno strapiombo. La casa è solitaria e aspetta Annetta da quando l’ha lasciata da sola con il suo sciame di
pensieri. C’è quindi un’attesa.

Il sostare irrequieto dei pensieri è un ossimoro(associazione di due termini contrastanti). La vita autentica dei
pensieri non si blocca, dando un’irrequietudine di fondo. Montale da quindi un’immagine di movimento.

Seconda strofa: In questa strofa Montale porta a vedere come gli eventi agiscono sulla casa. Il libeccio
sferza le mura e c’è l’idea che la memoria di Annetta viene assalita. Montale parla al passato e c’è tensione
tra il periodo che vive e quello che descrive nella poesia. Dopo questo vento il poeta nota che la faccia beata
della donna non lo è più: l’immagine sbiadisce, non arriva più come in origine.

Altra idea è quella della bussola impazzita(-vv.8) e il conto dei dadi che non torna(-vv.9): sono simbolo di una
società allo sbaraglio senza punti di riferimento affidabili. Montale vuole parlare del disorientamento sia
comune, della società, che personale. Il tempo passa velocemente e la dimensione del ricordo sbiadisce.

Dopo l’aggressione alla memoria vi è l'anafora di “tu non ricordi”(-vv.10). L’immagine del filo rimanda al filo
della memoria che se ne va. Il filo potrebbe essere quello di arianna, che aiuta a ritrovarsi, ma in questo
caso indica la perdite della memoria che non rimane.

Terza strofa: Nonostante provi a mantenere il capo del filo, non riese e la memoria della casa e i ricordi legati
a essa si fanno più offuscati. La “banduerola/affumicata”(-vv.13-14) è un forte enjambement tra un sostantivo
e un aggettivo. La banderuola deve segnare i venti e ed è affumicata perchè troppo vicina al comignolo. Gira
senza pietà ed è passato troppo tempo: come nella bussola, gira senza dare riferimento. Inoltre gira perchè
è stata colpita da tutti i venti delle stagioni, indicando il lungo tempo passato.

Cerca ancora di mantenere il filo, ma il tempo continua a passare. La strofa si chiude con l’oscurità,
immagine di qualcosa di perso nel tempo.

Quarta strofa: Nell’ultima strofa, come in “l’anguilla”, si dà speranza al lettore. Nell’orizzonte si vedono delle
navi in lontananza, vede la luce(del ricordo) che si illumina raramente, come a intermittenza. Si chiede se qui
ci sia il varco, è qui che il ricordo ripullula, che ritorna?(-vv.19-20)

Sino ad ora sembra che il poeta, che si impegna per ricordare i momenti di felicità, incolpi la donna di non
fare lo stesso. La accusa ancora dicendo “tu non ricordi la casa di questa/mia sera”(forte enjambement;-
vv.21-22). Se sino a prima voleva mantenere il filo/il capo della memoria, ormai non sa più chi passa per la
casa(vv.23:”... Ed io non so chi va e chi resta.”). Il filo che cerca di non perdere è stato lasciato da Arletta
stessa. Arletta, che appartentemente è andata, forse ha voluto lasciare il filo per dare a Montale un segno di
salvezza.

Dallo spaesamento c’è l’idea della poesia come salvifica, proprio come nella poesia precedente.

Gli oggetti embleama sono oggetti legati alla vita reale(bussola, dado, banderuola) e rimandano allo
spaesamento.

Il varco è un elemento che torna spesso nelle poesie di Montale: apre la dimensione del ricordo e di una
società possibile.

L’assenza di vita non è necessariamente morte, abbiamo visto che anzi è un punto di rinascita.

!Le due poesie che seguono sono state viste in maniera abbastanza sommaria, verranno riprese nella
prossima lezione!
“Riviere” e “Al mare(o quasi)”

La poesia “Riviere” è la somma di tutte le questioni che Montale inserisce in “Ossi di Seppia". il rapporto
panico, la natura rigogliosa.

All’inizio c’è la descrizione paesaggistica, rimandando all’influenza di D’Annunzio. La terza strofa è molto
importante perchè rimanda all’immangine dell’ossio di seppia sballotato. Passa da essere parte della natura
mentre galleggia sul mare(o il bambino nel grembo materno) a essere sballotato sulla riva, iniziando una vita
degradata(o la nascita del bambino). Una volta espulso dal mare la vita non è facile, ma c'è comunque la
possibilità di concluderla con felicità. Viene data l’idea della dualità della natura.

Inoltre nella quarta strofa c’è il ritorno del varco presente in “La casa dei Doganieri”.

Un elemento che lega "Riviere" e “Al mare(o quasi)” è l’eucalipto.

In “Al mare” l’eucalipto mette in evidenza un aspetto più duro e crudo della realtà. Montale richiama la pace
alcionica(Alcione è la terza delle laudi di D’Annunzio). C’è l’emento della cicala che stride e i bambini che
raccolgono i pinoli. Molti termini sono cacofonici.

Inoltre è presente l’immagine che siamo tutti terremotati sulla terra, i figli sono allo sbando, parla di
un’umanità persa e basata sul capitalsimo. Al mare non si vede la proda, la riva: il turismo di massa è stato
vissuto da Montale a pieno, e viene visto da lui come una sconfitta. Dove si trova il rapporto panico con la
natura?

Le siepi sono state sostituite dai rifuti e gli uccelli non hanno un posto dove stare. La musa del nostro tempo
è la precarietà: non sappiamo domani cosa succederà. Noi “hic manebimus” (rimarremo qui) se vi piace, ma
giungerà la morte che paice sono ai giovani(riferimento ai giovani soldati in guerra).

La volta scorsa abbiamo visto le prime due poesie di Montale della raccolta. La poesia Riviere è importante
perché Montale la scrive prima, nel 1920, però poi decide di metterla in chiusura; quindi, nonostante l'abbia
scritto prima delle altre viene posta a conclusione degli Ossi di seppia, diventa il manifesto di tutta la raccolta
perché sono riassunti i temi dell’attraversamento dell’uomo.

Si tratta di un'esperienza di vita che partendo dalla febbre del mondo del fanciullo e attraverso
un'identificazione cosmica con le cose e la natura, giungeva a una meta e una disposizione nuova.

Qui c’è la metafora dell’osso di seppia che è l'unica poesia in cui viene citata dal poeta come oggetto e la
poesia è formata da tre grandi sequenze:

● la prima, in cui l’infanzia è protagonista e si vede il rapporto con la natura. Qui l’io lirico è ancora
nascosto in questa dimensione, è imprigionato dalla natura. Ricorda come, durante l'adolescenza, riuscisse
a osservare la natura per quella che è, senza filtri. L'io lirico guarda la natura senza interrogarsi sul suo
perché, qui non si tratta di domande sui perché, si interroga in maniera scettica poiché non accetta la natura
in cui è immerso, si sente un tutt’uno con essa. Montale descrive un ricordo autobiografico: analizza, in
maniera dettagliata, gli elementi del paesaggio ligure, ove trascorreva le vacanze (la ringhiera arrugginita, le
rocce scure). L'io lirico constata la legge della natura: il sacrificio dell'essere umano, a favore della sua
sopravvivenza;

● la seconda parte, la seconda sequenza inizia con un distacco, troviamo il mondo della natura che
viene rivisitato, c’è un atteggiamento più maturo in cui si fanno i conti con la natura, questo avviene quando
l’osso di seppia viene allontanato dal mare, galleggia per finire sulla spiaggia. Quindi dal momento
dell’immersione segue il momento dell’osso di seppia che va quasi come un relitto e finisce sulla spiaggia.
● la parte finale che tenta di ricomporre queste due dimensioni, c’è un senso di rinascita, di possibile
rigenerazione in questo confronto tra il momento dell’infanzia e quello dell’adolescenza.

Riviere,

bastano pochi stocchi d'erbaspada

penduli da un ciglione

sul delirio del mare;

o due camelie pallide

nei giardini deserti,

e un eucalipto biondo che si tuffi

tra sfrusci e pazzi voli

nella luce;

ed ecco che in un attimo

invisibili fili a me si asserpano,

farfalla in una ragna

di fremiti d'olivi, di sguardi di girasoli.

Dolce cattività, oggi, riviere

come a rivivere un antico giuoco

non mai dimenticato.

Rammento l'acre filtro che porgeste

allo smarrito adolescente, o rive:

nelle chiare mattine si fondevano

dorsi di colli e cielo; sulla rena

dei lidi era un risucchio ampio, un eguale

fremer di vite,

una febbre del mondo; ed ogni cosa

in se stessa pareva consumarsi.

Oh allora sballottati

come l'osso di seppia dalle ondate

svanire a poco a poco;

diventare
un albero rugoso od una pietra

levigata dal mare; nei colori

fondersi dei tramonti; sparir carne

per spicciare sorgente ebbra di sole,

dal sole divorata…

Erano questi,

riviere, i voti del fanciullo antico

che accanto ad una rósa balaustrata

lentamente moriva sorridendo.

Quanto, marine, queste fredde luci

parlano a chi straziato vi fuggiva.

Lame d'acqua scoprentisi tra varchi

di labili ramure; rocce brune

tra spumeggi; frecciare di rondoni

vagabondi…

Ah, potevo

credervi un giorno, o terre,

bellezze funerarie, auree cornici

all'agonia d'ogni essere.

Oggi torno

a voi più forte, o è inganno, ben che il cuore

par sciogliersi in ricordi lieti - e atroci.

Triste anima passata

e tu volontà nuova che mi chiami,

tempo è forse d'unirvi

in un porto sereno di saggezza.

Ed un giorno sarà ancora l'invito

di voci d'oro, di lusinghe audaci,

anima mia non più divisa. Pensa:

cangiare in inno l'elegia; rifarsi;

non mancar più.

Potere
simili a questi rami

ieri scarniti e nudi ed oggi pieni

di fremiti e di linfe,

sentire

noi pur domani tra i profumi e i venti

un riaffluir di sogni, un urger folle

di voci verso un esito; e nel sole

che v'investe, riviere,

rifiorire!

Ci soffermiamo su “dolce cattività” (vv. 14), è come se fosse una prigionia dolce, dolce perché si tratta di
un’emozione piacevole che ci fa vivere in simbiosi con la natura. C’è l’immagine della farfalla come se la
natura riuscisse a renderla prigioniera. L'io lirico vive una sensazione di prigionia, come la farfalla incastrata.

Non si può vivere questa esperienza pratica come un’esperienza dell’infanzia del poeta che vive questi
elementi naturali che appunto incontriamo in questa fase, abbiamo una parte solare.

‘’Erano questi… saggezza’’ (vv-34-54) c’è l’idea di ricordare questa esperienza come sofferenza. Il
protagonista della poesia apprende che, solo nel momento in cui riuscirà a far convivere i ricordi sia belli che
brutti, apprezzerà la natura per quella che è.

Qui vengono rappresentate anche le diverse fasi della vita, la gioventù, la maturità e quello che verrà,
abbiamo dunque in questo componimento la profonda presenza del tempo, del suo passare e dei
cambiamenti che comporta, e della volontà di ritornare indietro scandito dai numerosi verbi con il prefisso -ri
che indicano la necessità di un nuovo inizio, non necessariamente verso il futuro bensì come un ritorno alle
origini.

‘’Ed un giorno sarà…rifiorire!’’ (vv.55-69) Il componimento termina lasciando aperta una speranza: forse un
giorno anche l'io lirico riuscirà a sentirsi come i rami secchi che si riempiono di vita.

Montale mette Riviere alla fine della raccolta (nonostante sia stato scritto per primo), si tratta di un
disincanto, la coscienza che sta all’origine diventa esaltazione per qualcosa, quindi con rifiorire, c’è l’idea di
mettere insieme questi pezzi e di dare una conclusione favorevole. ù

Al verso 48 “bellezze funerarie, auree cornici...” c’è l’esperienza della sofferenza su cui insiste Montale, c’è
un'attenzione per la sofferenza della natura, stessa natura che nel paesaggio marino viene associata al
sentimento della sofferenza, della morte. La descrizione del mondo naturale si rifà a d’Annunzio.

C’è un contrasto tra i componimenti precedenti e Riviere in quanto quest’ultimo sembra in apparenza portare
con sé un messaggio di speranza ma in realtà stesso Montale la definisce una “sintesi, una guarigione
troppo prematura”.
(Parla il prof. finalmente)

In questi testi, soprattutto in questi di Montale, c’è una forte relazione con il paesaggio, la realtà che ci
ricorda il poeta, ed è sempre il paesaggio marino.

Riviere significa “costa” in francese, le coste frastagliate, le onde del mare, gli scogli della liguria. Paesaggio
di mare ma anche molto aspro, molto differente dalle nostre coste.

Questo paesaggio ispira la poesia di Montale, una poesia che ci parla dell’asprezza della vita, di una vita che
alla fine si riduce a pochi elementi veramente autentici, veramente importanti e che viene simboleggiato dal
suo primo grande libro di poesie Ossi di Seppia.

L’osso di seppia una volta si trovava facilmente sulle spiagge che sono un po’ più deserte, un po’ più
solitarie, no? Si tratta di un piccolo osso piatto di forma un po’ ellittica, bianco perché l'acqua del mare e la
sabbia lo scarica, lo riduce proprio all'essenziale, e questo piccolo osso è un simbolo di quello che resta
proprio dell'essenza della vita. Anche Montale ricerca l'essenzialità della vita rinunciando a tutto quello che è
decorazione esteriore, la retorica, lo stile, le belle parole, sono carenti poiché Montale cerca gli ossi di
seppia, cerca proprio l'essenza della vita. E Montale molto spesso in questa ricerca si lega anche al
paesaggio che lo circonda. Quindi paesaggi del mare, dell'acqua e l'acqua in genere è sentita anche in una
bellissima poesia, L’anguilla. È una specie di simbolo di vita con questo suo movimento sinuoso, che
accompagna lo stesso movimento delle onde, il movimento dell'acqua e del mare.

Questi sono i grandi simboli della vita. Quindi di nuovo, e qui riporto al concetto di lessico, la critica letteraria,
il concetto di isotropia, cioè di serie, di simboli, di significati che appartengono a una stessa semantica e
quindi in questo caso tutti i simboli che si collegano all'acqua e al mare formano una specie di grande isola
della vita: la vita del movimento.

L'acqua del mare che non sta mai ferma, che è sempre movimento, è il simbolo della vita da sempre, in tutti i
grandi poeti. Pensate che Dante nella nella Divina Commedia, fin dall'inizio, dal primo canto dell'Inferno fino
al Paradiso, dove si parla del grande mare dell'essere, quindi dell'incontro con Dio, c'è sempre questa
metafora dell'Acqua del mare, della navigazione, il movimento è il simbolo della vita ed è su questa linea
anche in Ungaretti, l'acqua e i fiumi, quante volte anche in Ungaretti c’è l’elemento dell'acqua, del mare: il
ricordo del Mediterraneo, del mare d'Egitto di Alessandria, del porto alla foce del Nilo affacciato sul
Mediterraneo.

Per questa ragione alle poesie di Montale che erano il numero più ampio e anche abbastanza toste,
abbiamo accostato un'altra poesia dell'altro grande poeta di quel tempo, e anche questa è sul tema del
mare. Andiamo a vedere questo bellissimo paesaggio della Sicilia settentrionale. La strada che va da
Messina a Palermo, una strada che costeggia le montagne, costeggia la costa con degli scorci bellissimi
delle scoperte anche improvvise quando la strada arriva a Cefalù e c'è questa meravigliosa cattedrale
normanna appoggiata alla roccia della montagna e sempre il mare è qui presente.

(Poi il prof mostra un’altra fotografia di una spiaggia, ci spostiamo dalla Liguria alla Sicilia in quanto Sicilia di
Pirandello e la collega al poeta Salvatore Quasimodo in quanto poeta siciliano).
Tempo fa si riteneva che il numero tre fosse il numero perfetto e quindi accostavano un trio di poeti (Dante,
Petrarca e Boccaccio) e lo stesso si faceva con Montale, Ungaretti e Quasimodo in quanto si attaccavano
all’ermetismo e questo è sbagliato perché nessuno di questi poeti è totalmente ermetico ed è una fase molto
breve della poesia italiana del Novecento.

Ci sono diverse ragioni per la nascita di questa corrente letteraria poetica che noi chiamiamo ermetismo, che
nascono già dalle correnti letterarie precedenti, dalla poesia francese della seconda metà dell'Ottocento, dai
poeti italiani del primo 900 come Ungaretti e Montale.

Che cosa notiamo in tutti questi poeti?

In tutti questi poeti c'è la volontà di rivoluzionare il linguaggio della poesia. Basta retorica, decorazione, in
Italia, basta D'Annunzio, basta Carducci. Questa è la rivoluzione del linguaggio della poesia.

Per quale ragione?

Non per una ragione solo formale ma anche per una ragione esistenziale. Abbiamo già riconosciuto in tutti
questi poeti la volontà di ritrovare la verità della vita e servirsi della poesia per rappresentare, per esprimere
la verità della vita che viviamo. L'abbiamo visto in tutti questi poeti che abbiamo letto, ma questa è l'arte della
poesia francese, della seconda metà dell'Ottocento, la ricerca di una parola pura, originaria, autentica.

Mallarmé è il grande maestro di questi poeti. Una parola essenziale. Tutte volte questa parola pura,
essenziale, quando viene ridotta al suo stato originario può anche diventare quasi una parola oscura,
ambigua perché può avere diversi significati contemporaneamente. È un'immagine che si serve di simboli.

Un critico della letteratura italiana degli anni 30 (siamo più di fronte a questo pullulare di poesie di cui non si
capiva niente) è stato anche un grande storico della letteratura italiana del Novecento, Francesco Flora e
con cui si conia l'espressione “ermetico” ma con una critica in quanto molto spesso le definizioni della critica
letteraria nascono da parole negative, ad esempio chiamare i poeti del decadentismo decadenti, come dire
“poeti decadenti”. Oppure Gozzano e altri poeti furono chiamati crepuscolari. La sua è un'accusa e una
critica e così anche Francesco Flora chiamò questi poeti per quello che scrivevano in questi anni e li chiamò
ermetici.

Un altro grande critico letterario di nome Carlo Bo riprese questa definizione e disse tutto il contrario. Disse
che questi poeti erano ermetici all'interno di questa musica nascosta, non facilmente comprensibile, e questi
poeti cercavano la verità della vita. Scrisse un libro che s’intitola Letteratura e vita. E da quel momento
quindi si diede tanto valore a questa corrente letteraria.

Salvatore Quasimodo
Ma c'è anche un'altra ragione dietro la fortuna dell'ermetismo in Italia, perché una corrente solo italiana non
la troviamo tanto negli altri Paesi?

Perché ci sono altre regioni che hanno una matrice sociale e culturale. Sono gli anni della dittatura fascista e
per molti giovani poeti, non c'è altro modo di esprimersi se non in modo un po’ nascosto, in modo subdolo
per parlare di libertà. La poesia è una forma nascosta di ribellione. Quasi tutti i poeti di questi anni, infatti
durante la Resistenza e dopo la guerra sarebbero tutti diventati poeti di grande impegno sociale, civile e
politico.
E questa storia è proprio la storia di Salvatore Quasimodo, un ragazzo, quasi un emigrante, che parte dalla
Sicilia, quindi dalla piccola Italia, ed emerge pian piano nella società. Figlio di un ferroviere, parte per Milano
con il sogno di diventare uno scrittore, riesce a entrare nel mondo del giornalismo, comincia a scrivere
poesie e pian piano arriva alla fama e alla celebrità ed è conosciuto anche come poeta ermetico nelle sue
prime poesie.

Con la raccolta Oboe Sommerso Quasimodo sembra quasi riprendere la metafora di Ungaretti ‘’porto
sepolto".

Quasimodo, in quanto siciliano si sente diretto discendente degli antichi greci e ama talmente tanto la
letteratura antica, latina e greca, che ha dedicato gran parte della sua attività di poeta come traduttore. Infatti
è stato il più grande traduttore di poesia italiana del Novecento.

Che cos'è la poesia?

È una specie di tesoro sommerso in fondo a questo leggendario porto di Alessandria. È così intensa che
Quasimodo elogia uno strumento musicale, simbolo della poesia, strumento di canto.

Un'altra cosa importantissima per capire questa poesia è che Quasimodo viene dalla Sicilia e per quasi tutta
la vita, a Milano e fuori dalla Sicilia, anche lui recupera come Verga e Pirandello a livello primordiale, quasi
fisionomico, il punto d'origine.

Se fosse rimasto in Sicilia forse sarebbe diventato un piccolo scrittore locale; la realtà è che quando uno
scrittore vive il dramma della frattura con le proprie origini e con la propria terra, probabilmente scatta la
poesia, la visione poetica delle cose nel ricordo. Ed è quello che avviene proprio con lui, a Milano scrive il
suo primo libro da dove tratta questa poesia.

Nei suoi testi riprende la tecnica greca, la metrica latina, ma lo fa con spontaneità e non come Carducci o
come d’Annunzio che aveva cercato di riprodurre i versi greci e latini con gli accenti cadenzali uguali alle
poesie di Orazio. In Quasimodo questa cosa è spontanea, interna, come se fosse un poeta antico.

VENTO A TINDARI - LETTURA E COMMENTO DEL PROFESSORE

Vento a Tíndari

Tíndari, mite ti so

fra larghi colli pensile sull’acque

delle isole dolci del dio,

oggi m’assali

e ti chini in cuore.

Salgo vertici aerei precipizi,

assorto al vento dei pini,


e la brigata che lieve m’accompagna

s’allontana nell’aria,

onda di suoni e amore,

e tu mi prendi

da cui male mi trassi

e paure d’ombre e di silenzi,

rifugi di dolcezze un tempo assidue

e morte d’anima.

A te ignota è la terra

ove ogni giorno affondo

e segrete sillabe nutro:

altra luce ti sfoglia sopra i vetri

nella veste notturna,

e gioia non mia riposa

sul tuo grembo.

Aspro è l’esilio,

e la ricerca che chiudevo in te

d’armonia oggi si muta

in ansia precoce di morire;

e ogni amore è schermo alla tristezza,

tacito passo al buio

dove mi hai posto

amaro pane a rompere.

Tíndari serena torna;

soave amico mi desta

che si sporga nel cielo da una rupe

e io fingo timore a chi non sa

che vento profondo m’ha cercato.

La poesia si divide in quattro strofe di versi liberi, perché sono differenti e senza rime. Le quattro strofe sono
irregolari, non hanno lo stesso numero di versi:
● 1°: 15 versi; presentazione del paesaggio di Tindari;

● 2°: 7 versi; meditazione, riflessione del presente e del passato;

● 3°: 8 versi; meditazione, riflessione del presente e del passato;

● 4°: è una specie di “chiusa” e ha 5 versi; sintesi di quello che la vita del poeta era contrasto,
opposizione, sofferenza. Il poeta dice di ritrovare l’armonia perduta di ricordi, di luoghi che lui recupera
grazie alla poesia.

Non ci sono rime, sono presenti versi liberi senza chiusura.

Che cosa fa la poesia?

E’ il ritmo naturale degli accenti delle parole, che fa da musica, ovvero il suono delle consonanti delle vocali
che si riverberano all’interno dei testi.

PRIMA STROFA

Tindari, mite ti so

fra larghi colli pensile sull’acqua

delle isole dolci del dio,

oggi m’assali

e ti chini in cuore.

Salgo vertici aerei precipizi,

assorto al vento dei pini,

e la brigata che lieve m’accompagna

s’allontana nell’aria,

onda di suoni e amore,

e tu mi prendi

da cui male mi trassi

e paure d’amore e di silenzi,

rifugi di dolcezze un tempo assidue

e morte d’anima.

Il poeta sta parlando a Tindari, quindi la poesia comincia subito con una personificazione. Tindari infatti è un
luogo e non una persona, però per lui è una donna a cui lui parla.

Questo è ciò che gli antichi greci e romani definivano con il nome di genius loci, ovvero una specie di divinità
del luogo, ad esempio Neapolis e Partenope.
Tindari non è solo un paesino, ma è ancora più suggestivo perché appartiene a degli scavi archeologici che
sono le rovine dell’antica città greca che ci spiega anche il richiamo di Udito greco antico.

PARAFRASI

“Tindari io ti conosco mite (cioè come luogo di serenità di pace e di dolcezza) e so qual è la tua posizione, tu
sei un luogo elevato, da dove guardi il mare, il paesaggio.’’

Ci sono tanti colli, le montagne, le colline e la costa siciliana ed è possibile sulle acque affacciata a quella
terrazza sulle acque delle isole eolie, poi di nuovo mite, dolce, risolutiva della dolcezza della serenità.
Questa serie di parole sono associate a Tindari poiché Tindari è una specie di dea della dolcezza, della
serenità.

Le isole di fronte, che si vedono all’orizzonte sono le isole eolie, ed è per questo che dice “isole dolci del
dio”, cioè del dio Eolo che è il dio dei venti: nell’Odissea fu uno dei luoghi che Ulisse visitò, ed era arrabbiato
perché voleva ritornare ad Itaca, ma Poseidone arrabbiato con lui scatenava venti e tempeste. Quindi il
protagonista del poema epico, stufato di tutto questo si reca dal dio dei venti, nella famosa grotta del dio
Eolo che manteneva tutti i venti che a suo piacimento scatenava. Dunque c`è un riferimento diretto alla
mitologia greca in quanto le isole che stanno di fronte ricordano il viaggio di Ulisse e l’Odissea.

“oggi m,’assali e ti chini in cuore”: il poeta NON è a Tindari, nonostante usi il presente. Si trova infatti a
Milano nella nebbia, dove sta piovendo, fa freddo, e il suo cuore per un istante è a Tindari, il ricordo lo ha
assalito (m’assali e ti chini in cuore), cioè questa dea, questa divinità del luogo lo ha assalito nel suo ricordo
e si è chinata sul suo cuore.

Questa poesia sin dall’inizio ha il sapore di una poesia antica, della poesia greca e della poesia latina, come
ad esempio i versi antichi, i versi latini, l’esametro il più famoso, usato nell’Eneide.

ESAMETRO: si basa sulle unità metriche che hanno (di solito), l’accento sulla prima sillaba e le unità
metriche dell’esametro sono sempre composte da tre sillabe o due sillabe che hanno sempre l’accento sulla
prima sillaba.

● “Tindari”: una parola di tre sillabe sdrucciola e ha l’accento sulla prima I;

● “mite”: parola di due sillabe ha l’accento sulla prima sillaba;

● particella atonica “ti”;

● accento sulla parola “so”.

Le prime sillabe di questo verso riproducono esattamente l’inizio di un esametro latino. Questa figura
metrica, di tre sillabe con la prima sillaba accentata, nella poesia latina si chiama DATTILO.
La magia della poesia ha fatto sì che Quasimodo sia a Milano fisicamente, però con la testa e con il cuore
sia a Tindari contemporaneamente, infatti lui continua ad usare il presente.

Questi sono dei versi di movimento, di azione, perché ad esempio dice: “salgo sopra le rocce” (vertici aerei
precipizi) la cima delle rocce della scogliera che ha precipizio sull’area. Davanti non c’è niente, il poeta è
preso dal vento che sale dalle pinete.

I compagni che erano con lui in questa gita a Tindari si allontanano, e lui resta da solo, immerso in questo
paesaggio mitologico dove c’è un’onda di suoni e di amore, di suoni che lui sente come L’Infinito di Leopardi,
come il vento che fa tremare le foglie degli alberi.

E Tindari si impadronisce di nuovo di lui, del suo cuore, della sua anima. Tindari da cui lui si è allontanato, lo
trasse a sé quando era giovane e se ne andò migrante al nord, a Milano.

Quando si è allontanato da lei ha vissuto nelle paure, nei silenzi, nell’ombra della mancanza dei suoni delle
onde del mare. Al poeta sono mancate queste dolcezze che un tempo componevano la sua vita quotidiana,
quando lui viveva con lei.

Questi versi mitici sono sensazioni intime del poeta.

SECONDA STROFA:

A te ignota è la terra

ove ogni giorno affondo

e segrete sillabe nutro:

altra luce ti sfoglia sopra i vetri

nella veste notturna,

e gioia non mia riposa

sul tuo grembo.

Questi versi rappresentano l’opposizione tra Tindari e Milano, tra dove il poeta vive e dove il poeta lavora, e
l’altrove cioè tra il presente e il passato.

Lui dice che questi due mondi sono incomunicabili e Tindari non conosce nemmeno la terra dove vive
adesso, anzi, dove affonda ogni giorno. Dove ogni giorno scende dentro un’oscurità, una profondità che gli
toglie dalla vita. E si difende come può, nutrendo segrete sillabe, ovvero scrivendo poesie.

Pianta delle piantine, che però il clima di Milano non fa crescere rigogliose. A Tindari c’è tutt’altra luce, una
luce che sfoglia sopra i vetri della veste sua e se ci sono delle gioie non sono gioie del poeta che riposano
nel suo grembo.

C’è l’immagine di una ragazza, di una personificazione.


TERZA STROFA:

Aspro è l’esilio,

e la ricerca che chiudevo in te

d’armonia oggi si muta

in ansia precoce di morire;

e ogni amore è schermo alla tristezza,

tacito passo al buio

dove mi hai posto

amaro pane a rompere.

Questa è l'amara riflessione personale di questo esilio della sua amata Tindari.

La lontananza da Tindari è aspra, difficile. Quando era giovane ha cercato in lei l’armonia, ma quel senso di
armonia si è trasformata in un’ansia precoce di morire.

“Ogni amore è schermo alla tristezza”: ovvero, è un filtro d’amore, questa è una citazione di Dante, cioè la
donna dello schermo. Un amore finto con cui Dante scherma, fa finta di amare un’altra donna ed è per
questo che poi Beatrice gli nega il saluto. Quindi ogni amore è schermo alla tristezza.

Bisogna notare i suoni finali del verso, questa stanchezza è scandita dalla ripetizioni delle consonanti
vibranti amaro, rompere.

QUARTA STROFA:

Tindari serena torna;

soave amico mi desta

che si sporga nel cielo da una rupe

e io fingo timore a chi non sa

che vento profondo m’ha cercato.

A questo punto il poeta può solo invocare il dono di Tindari, ovvero questa dea, presenza sacrifica che ci
salverà, il ritorno della bellezza di Tindari può salvare il poeta.

In questa strofa finale si conclude il sogno, il desiderio, del poeta.

È presente un’ambiguità sintattica: il poeta ha sempre utilizzato la seconda persona, cioè sta parlando a
Tindari.
ANALISI DEL TESTO LETTERARIO - FUNZIONI DEL LINGUAGGIO Un grande linguista di nome Jakobson
ha identificato le principali funzioni dell’arto comunicativo, identificando anche i principali attori dell’atto di
comunicazione.

L’atto di comunicazione è sempre costituito da che è colui che manda il messaggio (mittente, autore, poeta)
e dal destinatario che siamo noi, ovvero il lettore o l’ascoltatore, colui che si trova dall’altro lato.

Un poeta può decidere a quali pronomi dare più importanza e questo determina quale funzione del
linguaggio utilizza.

La FUNZIONE EMOZIONALE ad esempio dà grande importanza al mittente, a sè stesso perché si usa


sempre il pronome ‘’io’’, come ad esempio nei testi di Dante.

La FUNZIONE CONATIVA consiste invece nel dare importanza al pronome ‘’tu’’, ad un destinatario fittizio,
che in questo caso è la stessa Tindari.

La FUNZIONE REFERENZIALE consiste nel restare ancorati alla realtà e togliere di mezzo l’io, senza
nemmeno utilizzare il ‘’tu’’. Si usa infatti solo la terza persona.

In questa poesia la funzione dominante è quella CONATIVA, cioè il bisogno del poeta di ritrovare il contatto
con Tindari.

Questa poesia si conclude circolarmente, come un cerchio, con il nome di Tindari, perché è cominciata con
Tindari e si conclude con Tindari, quindi è una figura retorica dell’anafora, ovvero la stessa parola all’inizio
della poesia e alla fine della poesia.

Qui non è una seconda persona come all’inizio, ma alla fine è “Tindari serena torna”, c’è la FUNZIONE
REFERENZIALE: la forma della realtà = indicativo presente, la magia finisce e la poesia realmente ha fatto
tornare Tindari nel cuore del poeta. Quindi Tindari torna serena e fa tornare l’armonia nel cuore del poeta.

“soavo amico” è un’apposizione a Tindari, perché è di nuovo soave, serena, mite e dolce, come un amico
dolce che si sporga nel cielo da una nube. Il poeta sente quasi un senso di paura.

Finisce anche circolarmente per quanto riguarda il vento, questo vento che gli è entrato nel profondo del
cuore e dell’anima. E non è un vento generico, perché lo ha cercato, questo vento infatti proviene dalla
Sicilia e ha cercato proprio lui.

Umberto Saba
Si torna a Trieste, la città di Italo Svevo.

È uno strano fenomeno che la letteratura italiana contemporanea si nutre molto di aree

marginali periferiche, difatti, non siamo al centro, dove si trovano le grandi città italiane, ma
in zone marginali: la Sicilia, l’Egitto, Trieste… Nonostante ciò la loro voce rinnova la poesie a

la letteratura italiana.

VITA:

Umberto Saba nasce a Trieste nel 1883 e muore nel 1956. Lavorava come libraio, in una

libreria antiquaria, in una zona di Trieste.

Egli, anche dal punto di vista esistenziale rappresenta l'incrocio di mondi diversi: suo padre

era di origini italiane, di una città multietnica come Trieste, sua madre era ebrea, mentre la

sua balia era slovena. Ad un certo punto Saba ha odiato tanto il padre, in quanto era

scappato abbandonando la madre e il piccolo Umberto (non l'aveva mai conosciuto).

Cambia cognome da Poli a Saba.

Saba era più vicino alle letture dei grandi intellettuali e filosofi europei (Nietzsche, Freud…)

No poesia più recente ma POESIA ANTICA: i grandi poeti del 900 tra cui: Petrarca, Leopardi

ma anche Carducci (Poeti tradizionali).

Saba si immedesima nella posizione della metrica libera che si deve liberare dalle costrizioni

ma avendo anche grande amore per la poesia classica. Perciò la sua poesia è ancora piena

di ritmi e versi tradizionali: endecasillabo, settenario, uso della rima, però un uso irregolare,

libero, molto vicino alla canzone popolare.

A Saba piace usare la rima, questa però è una rima che va da un verso all'altro: RIMA

BACIATA (Come una specie di eco). È una cosa tipica della poesia popolare, delle

filastrocche.

Va alla RICERCA DI SEMPLICITÀ. Direzione opposta alla retorica di D'Annunzio, alla

grande poesia difficile e raffinata, ma anche rispetto all'ERMETISMO, fatta di segreti,

simboli.

Saba invece, va verso la semplicità della poesia, della vita, della realtà dell'esistenza umana.

Una poesia che si riesce a capire facilmente e che deve parlare di affetti e di sentimenti

(anche questa una rivoluzione).

Di solito i poeti e i letterati si ponevano a un livello superiore rispetto a quello della gente

comune, Saba invece, vuole scendere al livello degli UMILI (chiamati così da lui e Manzoni).

Saba lo dice anche esplicitamente in alcune poesie che hanno un valore METAPOETICO: in

cui si parla del modo di fare poesia. Come in "Amai" (piccolo testamento poetico).

POESIE:

(poesia “Amai”)

- Trite: banali, consumate dall'uso. Le parole di tutti i giorni, che D'Annunzio non
poteva usare.

- La rima fiore-amore: rime facili, non difficili.

- Saba come Ungaretti e Montale cerca la verità delle cose. Come con Ungaretti e

Quasimodo c'è la METAFORA DEL PROFONDO: il POETA è qualcuno che

SCENDE NEL PROFONDO PER CERCARE LA VERITÀ.

(Articolo mandato ai letterati italiani del 1911: quello che resta da fare ai poeti, articolo che

non fu mai pubblicato, perché lo lessero e dissero: "ma che ingenuità, che sciocchezze!").

Esempio di "POESIA ONESTA" è Manzoni. POESIA DISONESTA fatta da D’Annunzio:

Una poesia antiretorica portata a scoprire la parola, sia quotidiana che aulica.

-Poesia che cerca la VERITÀ.

Lettura poesie fortemente legate alla città dove Saba vive: con paesaggio urbano con dei

tratti che guardano anche alla natura ( è presente il mare, le colline, le montagne vicine).

La città è il luogo dove gli uomini vivono insieme, in forma associata, con i vantaggi e gli

svantaggi che ne derivano, perché la vita in città può essere caotica, quindi si può avere

anche desiderio di scappare e di rifugiarsi nella natura per trovarsi soli con sé stessi.

Natura —> Protagonista di queste poesie: città di Trieste, la sua città.

Lo stesso nome "Trieste" viene interpretato da Saba come valore morale-psicologico. Trieste

in tedesco si dice "triest" che si legge "trist".

Trieste è quasi per antonomasia una città triste, che ha dentro di sé un po' di malinconia.

(Poesie di Saba giovane dei primi anni).

(Poesia "Trieste": lui fugge dalla città per restare in solitudine)

- Prima strofa: quasi narrativa.

Di solito le poesie di Saba partono con la narrazione di quello che sta facendo, spesso in 1a

persona.

In queste poesie è molto forte l’utilizzo di una specie di AUTOBIOGRAFISMO.

L’intera raccolta delle poesie di Saba si chiamerà "Canzoniere" come quello di Petrarca in

cui vi è anche molto autobiografismo.

Il poeta cammina e cammina, ha attraversato tutta la città, c'è il porto, poi c'è la collina, sulla

quale lui sale per una strada ripida ripida, fino al punto in cui finisce perché chiusa da un

muretto, e lì ha trovato un angolo in cui si è seduto. Passeggiata che ha fatto per arrivare nel

punto più lontano.

Muro=fine della città.

Sono dei versi liberi, ma se si contano le sillabe si nota che i versi lunghi sono tutti
endecasillabi.

Versi brevi: settenari. (Alcuni potrebbero essere tronchi o sdruccioli).

Due versi classici della poesia italiana: sono gli stessi di Leopardi.

Tutte le poesie principali di Leopardi sono fatte con una successione libera di endecasillabi e

settenari. Se si osserva solo le parole, queste stesse parole si trovano nell'INFINITO di

Leopardi, in cui (Leopardi) cerca un luogo in cui isolarsi. Lì non c'è un muricciuolo ma una

siepe. Lui con l'immaginazione va oltre, continua ad andare avanti col pensiero fino ad

arrivare all'idea di infinito. (Queste parole vengono dall'infinito di Leopardi).

Dimensione interiore per contemplare l'infinito che c'è oltre la città.

Subito il poeta torna indietro. Arrivato in cima, invece di guardare verso l'infinito guarda giù

verso la città con amore e affetto nei confronti della stessa.

Erta-deserta.

Fiore-amore.

Piace-vorace.

- Si nota tutti i vari procedimenti metrici adottati dal poeta.

Trieste viene quasi personificata. Diventa una creatura umana da amare, ma con delle

difficoltà.

(Trieste) È un ragazzaccio aspro, scontroso, che risponde male. È difficile da amare. Un

amore con gelosia. Dall'alto lui contempla questa città-ragazzaccio. Ne contempla ogni

dettaglio fisico, ogni particolare. La vista si estende verso le colline, le montagne, sulla cui

cima si aggrappa ad una casa, che è l'ultimo dettaglio che vede Saba.

- "Cosa-tormentosa".

- Ripetizione della parola "aria" (3 volte).

- Vi è un CRESCENDO, un CLIMAX, un'aria strana, un'aria tormentosa, l'aria natia.

- Campanile della chiesa, case, collina (intorno a tutto circola l'aria).

- A Trieste, c'è la famosa BORA (vento fortissimo). Un'aria che è simbolo della vita. Così

come l'acqua,sente l'aria intorno a sé, ed il primo aggettivo che usa è "strana".

L'aria è straniera, non la riconosco.

“Tormentosa" = senso di sofferenza.

"Natia" è l'aria del Paese (=dove sono nato), del mio Paese. Sono le stesse parole di

Leopardi, che provava un amore-odio verso Recanati. (Recanati = sofferenza, una prigione).

ISOTOPIA DELLA VITA SI CONCRETIZZA CON L'USO DELLE DUE PAROLE: VIVA E

VITA.
“La mia città in ogni parte è viva”.

Solo nell'ultimo verso la città è diventata "la mia città". Prima diceva "la città" (in modo

generico), poi è diventata "la mia città": non mi è estranea ma è la mia città, è la città dove

sono nato, che in ogni parte è viva. Questa città ha un cantuccio, un angolino, destinato a

me, alla mia vita pensosa e schiva.

(Città = Un angolo dove si è rifugiato il poeta).

La ricerca della solitudine ricorda Leopardi ma anche Petrarca (Valchiusa, luoghi della

Provenza dove abitava, dove ricorda il pensiero di Laura).

- "Scontrosa grazia" —> ossimoro ed enjambement.

- "intorno circola ad ogni cosa un'aria strana" —> IPERBATO

- "Termina termini" —> figura etimologica.

Quando un poeta va a capo spezzando un'unità sintattica: enjambement.

Figura metrica (molto usata nella poesia moderna e contemporanea), è presente in "solo

siedo".

Nella poesia italiana antica si chiama anche "inarcatura" o "spezzatura". Si crea un'onda

ritmica che va oltre la fine del verso.

Il ritmo prosegue da un verso all'altro.

(Poesia: "Città vecchia".

Si entra nella città vecchia, anzi in cittavecchia (tutta una parola). All’epoca, era la parte più

malfamata della città, con vicoli stretti, maleodoranti, con case che stanno quasi per crollare,

luoghi di prostituzione)

- Prima strofa: siamo di sera e non conviene andare in questi vicoli. "spesso" ( quindi è

un'azione ripetuta dal poeta), preferisco passare proprio dal cuore di cittavecchia, idea del

buio e della mancanza di luce, condizione di povertà. Nelle pozzanghere si riflette la luce

gialla di un lampione (ricorda Van Gogh o i pittori contemporanei). La strada però non è un

luogo solitario, è affollata (= è un luogo pieno di vita).

I versi sono tutti endecasillabi, regolari.

- "vecchia-specchia" —> rima baciata.

- tra "casa" e "strada" —> assonanza (= è una rima imperfetta in cui cambia la consonante).

- È importante l'avverbio di luogo "qui". Procedimento opposto all'infinito di Leopardi.

Saba trova l'infinito nelle persone umili che incrocia nei vicoli di cittavecchia.

Si nota la musicalità delle parole brevi, con molto ritmo ed i luoghi della vita degli esseri

umani.
In mezzo agli scarti, ai rifiuti umani, Saba ritrova l'infinito nell'UMILTÀ: parola chiave,

(condizione umana più bassa, ma proprio per questo più vera e più autentica), è QUI CHE

RITROVO L'INFINITO.

- Rime sono molto efficaci ed espressive: "dolore-amore-Signore". Legami di significato tra le

parole in rima tra di loro.

Il Signore indica Dio (l'essere più alto), che fa rima con amore, dolore e friggitore.

Idea di una trascendenza, di una Provvidenza (come direbbe Manzoni), su tutte queste

persone. Società di emarginati, di subalterni.

Dragone = soldato. Sono tutte creature della vita e del dolore dove c'è una scintilla del

divino.

Tutta la poesia di Saba è attraversata da un senso religioso.

Anafora —> strofe che iniziano con l'avverbio "qui". Paradosso —> la vita sembra più bassa

e disperata ma riconosciamo maggiore purezza.

Questo cercare gli umili sarà presente anche in Pierpaolo Pasolini: ricerca della purezza,

della vita che lui riesce a trovare proprio nei contesti in cui la morale borghese vedrebbe il

massimo della perdizione, ma invece in questi luoghi si trova una presenza di Dio.

- "Degli umili sento in compagnia" —> è un iperbato (= figura di posizione che inverte l'ordine

naturale delle parole). È questa la differenza tra la prosa e la poesia.

- "Giallo" rimanda a un quadro molto bello di Van Gogh con un vicolo di Parigi che richiama i

vicoli di cittavecchia.

In realtà anche la Genova di De André e tutte le grandi città di mare hanno questi vicoli

angusti:

(abbiamo ascoltato il brano "La città vecchia" di Fabrizio De André.)

(Poesia: "Dopo la tristezza" siamo ancora a Trieste)

- Prima strofa: sempre gli stessi luoghi (anche prima ha ricordato un'osteria).

Il pane ha il sapore di un ricordo.

Poesia scritta prima di Proust (del tutto indipendente da lui).

Endecasillabi: poesia un po' più regolare.

Parte da un dettaglio minimo della sua vita quotidiana ed ora è in un’osteria e sta mangiando

il pane che ha il sapore di un ricordo (ritorna al pensiero dell'infanzia e della fanciullezza).

Si trova in un luogo umile, in una povera osteria.

- Seconda strofa:

Il poeta nel mentre sorseggia una birra si siede per strada e di fronte a sé ritrova un
paesaggio scuro e montuoso, illuminato da un faro.

- Strofe successive:

un pilota = un nocchiero, un marinaio.

È un momento in cui il poeta ha superato la tristezza e la malinconia, ha superato il suo

momento di solitudine e di tristezza.

Caratteristica della gente di mare: marinaio parte, sta via 7 mesi, ritorna solo un mese e poi

riparte. Quando ritorna ritrova la moglie incinta della volta precedente.

Figura della nave in lontananza gli sembra un vecchio disegno fatto da un bambino. Si

ricorda che sono passati esattamente 20 anni e si rende conto che è passato molto tempo.

Tutto questo tempo è passato come in un attimo ma senza rimpianti. Chi poteva immaginare

la mia vita così bella?

“l'affanno che però è anche dolce” —> ossimoro.

La beatitudine, la felicità è trovata però nella solitudine ( "romita" ). Immagine del disegno e

della memoria che lo fa ritornare indietro: c'è di nuovo Leopardi (Leopardi delle

rimembranze). "Beatitudine", "romita" —> termini che derivano da Petrarca. L’animo del

poeta va da un estremo a un altro, è inquieto.

(Poesia: "Tre vie": descrive i luoghi più importanti e significativi della città che sono rimasti

uguali. Ognuno corrisponde anche a un momento interiore. Il paesaggio, rispecchia sempre

una condizione interiore del poeta.

Il paesaggio dei poeti è un paesaggio dell'anima.)

- Via del Lazzaretto vecchio —> è una delle stradine di cittavecchia. Quando era

particolarmente triste, andava in questa strada.

- Le droghe —> sono le spezie. Il pepe, per esempio (quello che veniva dall'oriente). Quello

di trieste è un grande porto.

L'odore delle droghe è quello delle spezie

- Questa stradina è tutta ingombra di negozi

- Antitesi finale —> tetre-allegre

- Passando per questa stradina, vede un negozio, fuori c'è una bandiera. Tristezza di

quest'umile lavoro, quasi da schiave che queste ragazzine sono costrette a fare dalla

mattina alla sera.

- Trieste —> città triste: gioco semantico.

Sinagoga e chiostro —> simboli di religioni diverse: ebraismo e cristianesimo. (Il chiostro è

quello del convento).


Mortorio —> funerale.

Via del monte —> mentre il Lazzaretto vecchio è nel cuore di cittavecchia, via del monte è la

strada che porta a un colle lontano dal centro.

"I miei morti" —> sono gli antenati della madre che era ebrea.

- "Via Domenico Rossetti" —> altro punto della città. Si passa da una via chiusa, a una via

aperta, ad una via d'affetto: CAMBIAMENTO DI SENTIMENTI.

Una via un po' decentrata che si apre alla natura e alla gioia.

Agucchiando —> usare l'ago (l'agucchia) per cucire. Queste tre vie sono un itinerario di

Saba alla gioia e all'amore, parole chiave che si incontrano all'inizio di ogni strofa.

Metrica regolare —> rime regolari tra ognuno dei versi

(Poesia: "Ulisse")

- Grande figura mitologica importante per Dante ma anche per Pascoli.

Figura sovrumana: assetato di conoscenza sfida il divino. In Dante finisce male (atto di

superbia). In Saba, Ulisse è sé stesso. È una controfigura dell'io. Poesia legata alla metafora

della navigazione di cui si sente parlare in Comisso, in "gente di mare" che ha scritto il più

più bel libro sul mare.

- Il poeta si sente come l'Ulisse di Dante.

Nella leggenda successiva Ulisse, dopo il ritorno a Itaca sente il bisogno di ripartire, non

riuscendo a rimanere nello stesso porto, così succede anche per Saba.

Il mio non domato spirito mi spinge ancora ad andare a largo. (Lo spirito del poeta è senza

pace). Questa è una delle ultime poesie di Saba, (degli ultimi anni).

Fino agli ultimi anni di vita si sente spinto a vivere, alla vita, immagine bellissima delle isole,

della scoperta della vita (metafora) che continua a spingerlo più in là.

Carlo Emilio Gadda


Gadda nasce nel 1893 a Milano, ha una vicenda familiare alquanto controversa, data la perdita sia del
padre che del fratello.

Non è uno scrittore per formazione, anzi, coltiva la passione ingegneristica ( era noto come “ingegnere
Gadda”) tuttavia, durante la 1 guerra mondiale comporrà diari (giorni di guerra e di prigionia=> pubblicati
postumi).

Gadda è un poeta che si interroga molto, la guerra, come per tutti i poeti a lui coevi, lo segna molto. (è inoltre
interventista convinto, torna spesso nelle sue opere la critica velata al fascismo). Libro meno noto:Eros.

Tra le opere più significative vi è “Quel pasticciaccio brutto di via merulana”:

La scrittura adoperata da Gadda è quella del Pastiche, riprende infatti nel ‘900 il plurilinguismo dantesco,
abbiamo una vera e propria commistione di dialetti e lingua letteraria.
Con Carlo Emilio Gadda la lingua italiana, a livello letterario e sperimentale, subisce un’artificiosa
modificazione genetica destinata, ad un livello più basso, a trionfare decenni dopo su altri mezzi di
comunicazione di massa, come soprattutto la radio.All’origine l’obiettivo dello scrittore era però chiaramente
quello di evidenziare la profonda ipocrisia sottesa alla realtà dello stile di vita della borghesia a lui
contemporanea, giocando su un tono sarcastico impietoso e corrosivo, con un linguaggio sferzante ed
innovativo, costruito attraverso una miscellanea di strutture dialettali (in parte lombarde, in parte toscane e in
parte laziali) unite a termini della lingua colta e ad espressioni e modi del linguaggio scientifico, filosofico e
burocratico; costringendo anche i registri stilistici a continui mutamenti, fondendoli in un particolare ed
efficace “melting pot” linguistico.

ROMANZO: cognizione del dolore.

Lo pubblica tra il 1938 e 1941 nella rivista “letteratura”=> Veicolo di promozione della cultura.

Collabora anche con la rivista Solaria (la stessa di Montale).

Partendo dal titolo, cos’è che ha provocato dolore nella sua esistenza?

Sottolineiamo che avesse una vicenda familiare alquanto complessa e che il rapporto con la madre lo fosse
ancor di più.

Questo libro è ambientato in Sudamerica, in un paese fittizio (Marardagal) che rispecchia però il fascismo
della Brianza. (Gadda trasporta infatti questa situazione complessa della Lombardia nel sudamerica, modo
estremamente efficace per non essere censurato e parlare più liberamente.)

Vi è nel libro, oltre che l’aspetto biografico, anche un forte aspetto politico.

In questo romanzo troviamo tanti anagrammi del suo nome= gioca a nascondersi nei personaggi che crea e
ci dà un'idea della letteratura come ricerca del dolore (cognizione).

Un altro importante aspetto che bisogna evidenziare è che essendo ingegnere ha un forte spirito analitico da
matematico=> parte da una matrice matematica e arriva alla letteratura.(discipline tutte trasversali)

Scava nella propria biografia con impeto scientifico- matematico, analizza come un matematico i processi
della conoscenza del dolore (cosa rara in letteratura)

ASSISTENTE HA FINITO,

SPIEGAZIONE DEL PROF

Cos’è l’espressionismo?

Con espressionismo indichiamo un tipo di letteratura che dà un’importanza molto forte al significante,
ovvero a ciò che possono evocare le parole.

In Europa è il periodo delle avanguardie=> forme di rottura nei confronti della tradizione (cubismo, futurismo,
dadaismo..)

In Germania ad esempio, l’ espressionismo nasce dopo la disfatta della 1 guerra mondiale.

La pittura espressionista va a deformare la realtà nei caratteri del grottesco=> caricature figura umana, arte
di forte critica sociale.

Obiettivo: criticare la deriva della società tedesca del dopoguerra, società dove poi nascerà il fascismo.
Non è un caso che i fascisti facessero roghi di opere d’arte e quadri, bruciavano tutto quel che
criticasse/andasse contro quella società (l’arte che si opponeva ai rigidi schemi del regime era da loro
chiamata“arte degenerata”).

Un importante artista espressionista fu de Chirico, la cui pittura era “ metafisica”: la più grande caratteristica
di quest’ultima era l’annullamento della figura umana,l’uomo scompare e viene sostituito da manichini=>
metafora di come de Chirico e altri artisti e letterati vedevano il mondo.

Vi sono riferimenti nel brano di gadda a de Chirico, i personaggi inscenati, infatti,non hanno più le loro
caratteristiche umane.

La lingua all’epoca di Gadda:

In pieno periodo nazionalista si privilegiava la lingua nazionale italiana, la quale doveva anche essere
portata nelle varie imprese coloniali fasciste.

Possiamo parlare di una vera e propria “Italianizzazione forzata” avvenuta anche al sud, discriminando
bambini di origine più umile e che parlavano solo il loro dialetto.

Vi sono stati poeti che sono andati controcorrente, ma solo nelle prime fasi della loro carriera; ad esempio
Pirandello, agli inizi della sua carriera letteraria, scriveva in siciliano..

Chi invece come Viviani lo prediligeva sempre era emarginato, messo da parte.

Gadda ammira molto Manzoni e a volte cerca di riprenderlo ed imitarlo nelle sue opere. Lo sfondo del
romanzo “la cognizione del dolore” sembra ricordare la Lombardia del 600, dei promessi sposi, dove Gadda
attua una trasformazione comica, scrive di questo paese sud americano fittizio riferendosi in realtà alla
Lombardia.

Può però anche permettersi di fare ciò poiché conosce bene il Sudamerica, vi era andato a lavorare come
ingegnere…

Prima di essere scrittore era infatti, come abbiamo detto, ingegnere. (vedi la parte dell’assistente!)

Tra le professioni umane quella dell’ingegnere è sicuramente quella più “legata” alla realtà che ci circonda,
abbiamo l’applicazione pratica di conoscenze scientifiche, perché bisogna essere precisi, meticolosi, poiché
anche solo un minimo errore di calcolo può cambiare tutto.

Gadda avrà però un periodo di crisi sotto quest’aspetto, poiché arriverà ad avere un’idea di inconoscibilità
del reale, non vi sono calcoli matematici o conoscenze scientifiche che tengano, qualcosa sfuggirà sempre
all’occhio e alla mente umana=> forte paradosso, proprio lui che era ingegnere maturerà questo pensiero..
(non costruirà/ progetterà più nulla).

Gadda nelle sue opere ci dà la concezione di un mondo caotico nel quale ci aggiriamo senza sapere quella
che è la nostra parte, ragione per la quale tutti i suoi romanzi sono incompiuti.

Il pasticciaccio ad esempio sarebbe un giallo perché inizia con un delitto e vi è un investigatore che deve
risolvere il caso. La storia però si aggroviglia così tanto che diventa labirintica e alla fine è totalmente
inspiegabile, non sappiamo come va a finire=> metafora del mondo secondo gadda= >funzione della
letteratura=> darci questa impressione di inspiegabilità.

COGNIZIONE DEL DOLORE ANALISI DEL TESTO


È un testo breve, siamo nel ristorante di una stazione. E’ un brano cominciato a scrivere negli anni del
fascismo, messo all’interno di una raccolta di bozzetti, disegni, e viene inserito nella cognizione del
DOLORE, primo romanzo incompiuto.

Attraverso questo personaggio immaginario parla di se stesso.

Non è nemmeno un brano reale, è una visione: a un certo punto il protagonista si trova da solo nella cucina
di casa davanti un piatto di minestra e nel buio di questa stanza ha la visione di un ambiente luminoso,
ovvero del ristorante di una stazione ferroviaria.

Si comincia con una descrizione molto realistica in 3 persona, il brano è tutto al tempo presente: le persone
appaiono come reali ma poi iniziano a diventare automi, manichini..(ricordati di de Chirico!)

Camerieri neri=> prima immagine che abbiamo. (Nero colore dominante del brano)

Padelle=> macchie di unto.

Frac => abbigliamento del cameriere

Piastrone=> parte anteriore camicia di gala

Cravatta posticcia=> finta, tenuta dietro con elastico forse..(era tutta un’eleganza apparente, si voleva
apparire ciò che non si era)

Onninamente= >latinismo, si mescola lingua aulica con elementi umili (immagina camerieri solo con canotta
e sopra il frac tutto unto:immagine ridicola, grottesca: caricatura)

La presentazione delle immagini da parte di Gadda si avvicina molto al cinema, vi è un passaggio da un’
immagine a un’altra come se fossero inquadrature cinematografiche, es: si passa dai camerieri alle signore
del ristorante(brevi ma efficaci sequenze descrittive)

Gadda passa spesso a uno stile nominale con l’ellissi del verbo.

Es: “ pervase da un sottile brivido le signore, le quali sono contente di essere in questa rappresentazione
sociale, si sentono al centro, felici di essere chiamate signore”(anche se signore non erano)

-Camerieri chiamati col loro abito, (fracs) = progressiva disumanizzazione , perdita caratteri della persona
umana.

-"Pura gioia ascosa" = citazione di Manzoni da uno degli Inni Sacri, in particolare la Pentecoste, Manzoni
scrive questi Inni Sacri prima dei Promessi Sposi e dopo la conversione. L’uso di questa citazione invece è
rovesciato in Gadda: non è un amore verecondo, questa gioia è una soddisfazione personale e del tutto
egoistica

-“Dimenticati tutti gli scioperi”= queste persone si dimenticano dei problemi in questa sospensione del
ristorante.

-Goyesco: riferimento a opera di goya “ 3 maggio”

-Melode elisia di Bellini= canto paradisiaco di Bellini

-Locupletando: latinismo=> moltiplicare

-Destrogiri: linguaggio tecnico della medicina= strutture molecolari


Solo il suono delle grida dei camerieri rivoluziona la chimica interna di coloro che ascoltano: sentono questo
piacere intenso alle parole sissignora o al taglio del limone..

Prova dentro di loro quasi un cambiamento chimico.

-“Taglio limone seltz per quel belinone d ‘un 128” belinone = cazzone =>nella sala sono chiamate signore,
nella cucina invece belinone. (e sì, il prof ha usato esattamente questo termine...)

-Rappresentazione teatrale in cui non vi è una divisione tra pubblico e scena, stanno tutti dentro .

-Godono nel guardare e nel sentirsi guardati questi finti nobili, fanno finta di essere signori, così come i
camerieri non sono dei fracs..

-Ripetizione parola serio: poiché nella rappresentazione teatrale l’elemento fondamentale è l’assoluta
serietà.

-Ossobuco con risotto: tipico piatto da osteria, non da restaurant

-Poppe: linguaggio nave

-Usucapione: presa di possesso di qualcosa che non è di nostra proprietà (usucapione compiuto dal
deretano, signori seduti tanto a lungo su quella sedia che ormai era loro, del loro deretano: comico/
grottesco).

-Altra inquadratura: il tipico coltello che non taglia. Qui è il coltello della frutta. Espressionismo gaddiano:
particolari grammaticali e sintattici della lingua italiana antica: uso del plurale neutro. "Le uova" plurale neutro
latino antico quasi scomparso. "Le frutta" non lo diciamo più invece, ma anticamente si diceva, qui Gadda lo
riecheggia. . Inquadrature cinematografiche. Macchina da presa sta seguendo il movimento della mela che è
fuggita ed è andata a rotolare fino a scarpe lontanissime. . Il nuovo coltello tagliava ancora meno di quello
precedente.

-Trasvolato: fracs corrono, non hanno tempo da perdere

-Attenzione nel dettaglio che gadda riprende tantissimo da Parini, (il giorno ‘700)

-mela lustra e verde= perfettamente verde, non sembra vera sembra una mela metafisica (de chirico.)

Mela diventata pallone: linguaggio calcistico, camerieri ci intoppano o comunque scalciano.

-Strameledisa: stra maledetto milanese

-Bambini di 3 anni: si credono grandi signori ma sono belinoni, bischeri come bambini di 3 anni

-“E quella era la vita” : espressione lapidaria, quasi come un’epigrafe.= alla fine quella era la vita, fatta solo
di apparenze, non c'era altro.

-Fumavano…=> linguaggio tecnico, spinterogeno: parte importante del motore -dell’automobile. La sigaretta
è vista come il coronamento di tutto il pasto al restaurant, è un momento magico . Qui la descrizione somiglia
molto a quella del Parini nel Giorno.

-Bustine a matrice: vecchie bustine dei fiammiferi

-. La magia del fuoco come per gli uomini primitivi(accensione sigaretta)

-123esimo taschino :particolare grottesco dell’abito da cerimonia

-Caricatura dandy: questi nuovi ricchi fanno finta di godersi il piacere della sigaretta in una voluttà di
SIBARITI: Abitanti di Sibari, antica colonia greca achea nel golfo di Taranto, nota per la ricchezza e la
mollezza dei costumi.
-Stomaco in giulebbe: bevanda dolce, parola araba che sta per dolcezza, stomaco messo in movimento e
continuava come un’ameba a sfrantumare e peptonizzare, ridurre in molecole il cibo che sta dentro
(linguaggio medico)

il grottesco raggiunge livello massimo nella descrizione del movimento della PERISTALSI (colon, altro
linguaggio medico) :

Marcia trionfale degli escrementi accompagnata da musica di marcia trionfale dell’ Aida e toreador. Effetto
comico raggiunge dei livelli di scatologia, ovvero di descrizione della parte bassa corporeo.

-Manichini ossibuchivori ( de Chirico): delle” cose” impegnate a mangiare l’ ossobuco, sono occupati a
guardarsi nelle pupille altrui= realtà deforme e grottesca della società umana agli occhi di Gadda

Pierpaolo Pasolini
Pasolini è uno dei più grandi scrittori della letteratura italiana contemporanea ,in più è l'unico fra tanti scrittori
e letterati ad essere in grado di passare tra le varie tipologie di linguaggio senza cadere dalla poesia alla
prosa. Lui si interessò al giornalismo, gli piaceva disegnare (voleva fare il pittore), si interessava di musica e
soprattutto verso la fine gli interessò il cinema. Questo significa che Pasolini scriveva sia i testi che le
sceneggiature ,quindi la parte di scrittura per il cinema: tutto il lavoro profilmico che c'è prima della
realizzazione di un film (in genere non le fa mai il regista)veniva fatto da Pasolini da solo. Spesso scriveva
anche dei testi poetici per la sceneggiatura dei suoi film,per poi andare a realizzarli ed era talmente
appassionato alla fase di realizzazione del film ,che molto spesso la faceva lui personalmente prendendo
una macchina da presa antica (non digitale quindi) e faceva lui personalmente gran parte delle riprese dei
suoi film (con tutto che era dilettante e gli altri registi dicevano fosse imperfetto: non sapeva regolare la luce
o la scenografia), il suo era un cinema da poesia infatti al centro dell'opera di Pasolini c'è la poesia. Da
quello che hanno riconosciuto i suoi amici, i suoi contemporanei, i critici letterari, prima di ogni altra cosa lui è
un poeta e ciò significa che la sua visione del mondo (come Quasimodo e Montale) è quella con cui cerca di
scoprire qualcosa che nella vita a tutte le persone è sconosciuta e cerca di farla leggere e condividerla con
gli altri: ha una visione poetica della vita, dell'esistenza. Dal punto di vista esistenziale ed umano, anche
Pasolini sente il bisogno di sentire la fratellanza con gli altri uomini (anche con i nemici dall'altra parte), per
lui siamo tutti fratelli ,tutti esseri umani: Pasolini sente un movimento assoluto importantissimo che lo spinge
ad andare verso l'altro, ha bisogno di comunicazione e la sua opera è proprio il bisogno di comunicare con
gli altri soprattutto i più deboli, i più emarginati , gli strati più bassi della società (come gli immigranti italiani
che in passato erano coloro che dal sud andavano al nord). Pasolini si avvicinò al popolo, tutta la sua opera
è un tentativo di dare dignità alla vita ed al contesto popolare nei vari contesti in cui si trova a vivere poiché
lui nasce nel nord Italia a Bologna nel 1922: la sua vita è tutta spostamenti sia nella sua infanzia che nella
sua adolescenza perchè il padre era militare e quindi doveva spostarsi. La madre era friulana, di un piccolo
paesino tra Pordenone e Udine e quindi ,quando si poteva, andavano lì anche durante le vacanze perché
c'era la famiglia della madre, che faceva la maestra elamentare (quindi Pasolini vive a stretto contatto con
l'ambiente scolastico). Durante la seconda guerra mondiale si rifugiano proprio lì ed è il momento in cui
Pasolini, 20enne, impara il dialetto difficilissimo friulano e si innamora di questa lingua. Non c'erano altri
poeti che l'avevano utilizzata ,quindi è il primo che comincia a scrivere poesie in friulano: si intitolano "poesie
a Casarsa" (il nome del piccolo paesino in cui vive) e riprendono tutto dal poeta che Pasolini amava di più:
Giovanni Pascoli. Pasolini è influenzato dalla sua poesia semplice e ci fa anche la tesi di laurea, si impone
nella lotta per migliorare la società, per uscire dalla guerra, dal fascismo, dal nazismo e vuole diventare un
maestro quindi comincerà poi ad insegnare come professore alle medie e impegnandosi anche nel partito
comunista. Improvvisamente tutto ciò finisce perché vine cacciato con l'accusa infamante di omosessualità e
di pedofilia ed abuso sessuale verso gli studenti della scuola dove insegnava, con questo trauma fugge con
la madre a Roma, dove vivono in condizioni disagianti ma Pasolini riesce a ripartire grazie al contesto
popolare e periferico di Roma, dove vivevano immigrati, sfollati e senzatetto. Si immerge totalmente in
questo contesto, impara il dialetto e scrive i suoi capolavori narrativi di vite violente sperimentando con la
lingua ed il dialetto ,attraverso il quale vuole far emergere la voce della gente più umile arrivando poi
finalmente al cinema. I suoi primi film sono tutti ambientati nella periferia romana e dal punto di vista del
popolo, arriveranno poi anche il "Decameron" (interamente girato a Napoli con attori napoletani ed in dialetto
napoletano) e "La mille e una notte" (con la narrativa araba e che ha origine nel medio oriente ,poichè
capisce che non è solo il sud Italia ,ma sono anche tutti i sud del mondo ad essere schiacciati dal
capitalismo occidentale). Tutto questo messaggio deriva da Antonio Gramsci ,fondatore del partito comunista
italiano(la scissione del vecchio partito socialista avvenne nel 1921), che fu arrestato in carcere dove rimase
fino alla sua morte lasciandoci un'opera scritta completamente in carcere ,anche con difficoltà materiali con
solo una matita ed un quaderno, che gli venivano portati via appena terminava di scrivere, quindi cercava di
imparare a memoria ciò che scriveva e ricominciava nel quaderno successivo da dove si era interrotto in
precedenza (ne utilizzó più di 30 ,dove spiegò dov'era nata la questione meridione , quale fosse il problema
del lavoro ed il contesto della risorgimento italiano). Questi quaderni furono salvati e portati in Russia da
dove furono poi rimandati in Italia durante il dopoguerra e furono pubblicati durante la giovinezza di Pasolini,
che ne fu ispirato, spingendolo ad andare incontro agli umili. Pasolini è un poeta mentre Gramsci non lo è,
perciò comincia ad immaginarlo come un personaggio con cui parlare e fare un dialogo, quindi va sulla sua
tomba (che si trova in un cimitero acattolico nella periferia romana chiamato "cimitero degli inglesi", dove
sono sepolte molte persone importanti tra cui anche il nostro ultimo presidente della repubblica e Gramsci
che vi fu sepolto nel 1937 appunto) e comincia a parlargli venendo ispirato per la sua poesia della logica che
si basa su due funzioni: la funzione emozionale (l'io del poeta) e la funzione connettiva attraverso il dialogo
(il tu).

"Le ceneri di Gramsci" di Pierpaolo Pasolini

Dal punto di vista formale si tratta di un poemetto diviso in 6 parti, come dei canti, perché la forma metrica è
quella delle terzine: la stessa della Divina Commedia di Dante, ma qui le rime sono irregolari e spesso non ci
sono proprio e ritroviamo questo concetto in Pascoli che scrive un poemetto intitolato "Italy" che racconta dei
migranti italiani in America. Il poema di Pasolini è una poesia civile che si appoggia sull'idea del sepolcro che
è un'idea antica poichè viene da Foscolo con i "Sepolcri": questo luogo comune della comunicazione con i
grandi del passato, si ritrova nel recente libro "Gomorra" di Saviano che va proprio sulla tomba di Pasolini
come lui fece con Gramsci. La poesia di Pasolini tende molto alla prosa poiché utilizza il linguaggio del
popolo, per questo motivo non è difficile da capire.

"Non è di maggio questa impura aria

che il buio giardino straniero

fa ancora più buio, o l'abbaglia

con cieche schiarite... questo cielo

di bave sopra gli attici giallini

che in semicerchi immensi fanno velo

alle curve del Tevere, ai turchini

monti del Lazio..."

Inizia con la descrizione del paesaggio e delle sensazioni olfattive, coloristiche di ciò che c'è intorno a lui,
una cosa simile a ciò che fa Pascoli con l'impressione della realtà e di ciò che lo circonda.
La narrazione di Pasolini è ambientata nel mese di maggio, ma non percepisce la gioia della rinascita della
natura bensì la tristezza che prova anche Pascoli in "Novembre". Il ritmo è cadenzato con accento in
seconda sillaba e ritmo ascendente che crea angoscia, ci sono delle descrizioni di paesaggi quasi come
fossero inquadrature cinematografiche. La zona interessata è una zona popolare vicino a porta San Paolo
che si trova vicino ad una strana collinetta che si chiama "testaccio" (dove testa significa vaso) che era una
montagnella nell'antica rovina romana fatta di rifiuti, vecchi vasi rotti accumulati nel corso dei secoli. La
maggior parte delle volte sia i versi che le terzine sono enjambement e l'ordine delle parole non è alterato
tendendo più verso la prosa che verso la poesia.

"alle curve del Tevere, ai turchini

monti del Lazio... Spande una mortale

pace, disamorata come i nostri destini,

tra le vecchie muraglie l'autunnale

maggio. In esso c'è il grigiore del mondo,

la fine del decennio in cui ci appare

tra le macerie finito il profondo

e ingenuo sforzo di rifare la vita;

il silenzio, fradicio e infecondo..."

Il poeta sente questo grigiore del cielo e la storia del decennio dal 1945 al 1954, quei dieci anni dopo la
seconda guerra mondiale in cui i poveri intellettuali avevano la speranza di ricreare il mondo e invece queste
illusioni erano crollate anche con il mito che molti avevano dell'unione sovietica, l'ideale del comunismo e si
cominciava a scoprire anche tutto l'orrore dietro il socialismo, quindi il mondo delle illusioni.Nelle strofe dopo
si comincia con il tu (funzione connettiva) e Pasolini parla direttamente a Gramsci ,che mori giovane (a poco
più di 40 anni) completamente distrutto nella salute dal carcere fascista.

"Tu giovane, in quel maggio in cui l'errore

era ancora vita, in quel maggio italiano

che alla vita aggiungeva almeno ardore,

quanto meno sventato e impuramente sano

dei nostri padri - non padre, ma umile

fratello - già con la tua magra mano

delineavi l'ideale che illumina

(ma non per noi: tu morto, e noi

morti ugualmente, con te, nell'umido

giardino) questo silenzio."


In questi versi bellissimi Pasolini riesce a rivolgersi direttamente ad Antonio Gramsci, parla di maggio (mese
in cui Pasolini colloca la sua visita al cimitero) e racconta come Gramsci fosse per lui un maestro ma non
fosse come un padre bensì come un fratello. Gramsci è in grado di mettersi sul suo stesso piano ed anche
essendo morto gli indica una strada da percorrere dando a pasolini la speranza (concetto preso da
Leopardi).

"giardino) questo silenzio. Non puoi,

lo vedi?, che riposare in questo sito

estraneo, ancora confinato. Noia

patrizia ti è intorno. E, sbiadito,

solo ti giunge qualche colpo d'incudine

dalle officine di Testaccio, sopito

nel vespro: tra misere tettoie, nudi

mucchi di latta, ferrivecchi, dove

cantando vizioso un garzone già chiude

la sua giornata, mentre intorno spiove."

Questa è invece la vita del popolo che continua a dialogare con Gramsci nella tomba attraverso i rumori
quotidiani (tutto ciò viene sempre preso da Leopardi). Questa prima strofa è quindi quella d'esordio e del
primo contatto con Gramsci, mentre la seconda strofa è la descrizione pascoliana ed impressionistica del
cimitero degli inglesi, che finisce in un modo inaspettato e plurilinguista, terminando cioè con un verso in
inglese.

LE CENERI DI GRAMSCI

PRIMA STROFA: possiamo notare un “tu”, rivolto a Gramsci;

SECONDA STROFA: c’è la descrizione del cimitero, una descrizione crepuscolare, con una conclusione
plurilinguista (il testo in inglese): “fra i due mondi, la tregua, in cui non siamo”; “tra i due mondi”, ovvero
quello della morte e quello della vita; Il cimitero inglese ospita principalmente uomini e donne illustri, “le
iscrizioni grigie e superbi” “le ossa dei miliardari”; da una parte abbiamo il cimitero, e al di fuori la grande città
di Roma, tra le rovine e le sue baracche, ma soprattutto delle grandi chiese; Il cimitero è caratterizzato dal
“bosso”, un tipo di cespuglio che cresce in modo irregolare; è talmente tanto preso da questa atmosfera, e
dalle tombe inglesi, che torna alla memoria un verso di William Wordsworth “and o ye fountains”: l’ode
all’immortalità;

TERZA STROFA: ci troviamo finalmente sulla tomba di Gramsci; ci sono segnali ideologici del socialismo e
del comunismo: ricordiamo il colore rosso, che ridà alla bandiera comunista e dei fiori, i gerani; Pasolini
gioca molto sulle ripetizioni delle parole (in questo caso la parola rosso), o usando anche la parola “altro”;
arrivato davanti alla tomba, nota che Gramsci si trova tra le tombe che lui definisce (i morti) come “liberi”;

“E, da questo paese in cui non ebbe posa la tua tensione, sento quale torto - qui nella quiete delle tombe - e
insieme quale ragione - nell'inquieta sorte nostra - tu avessi stilando le supreme pagine nei giorni del tuo
assassinio.” si riferisce al rimanere in carcere per più di 10 anni (mentre scriveva pagine e pagine) a cui
Gramsci dovette sottomettersi, che furono anche un lento assassinio premeditato; “non ancora disperso
dell'antico dominio, questi morti attaccati a un possesso che affonda nei secoli il suo abominio e la sua
grandezza” si riferisce ai ricchi viaggiatori e borghesi e le loro tombe posizionate vicino alla tomba di
Gramsci; “Ed ecco qui me stesso... povero, vestito dei panni che i poveri adocchiano in vetrine” qui Pasolini
racconta uno dei periodi più difficili della sua vita, in cui viveva nelle periferie di Roma insieme a sua madre;
“se in esso mi feriva il male borghese di me borghese” qui Pasolini è consapevole di essere nato in una
famiglia borghese (di fatti la madre era insegnante), però nell’incontrarsi con i compagni del partito socialista,
i proletari si è sempre trovato a disagio nella consapevolezza che, essendo borghese, gli altri compagni non
lo rispettino perché pensano di non essere capiti, si sente scisso; Pasolini ammette di “sussistere”, cioè
“continuo ad esistere oscuramente” perché non riesce a fare una scelta, non riesce a scegliere nel suo
essere borghese.

QUARTA STROFA: “Lo scandalo del contraddirmi, dell'essere con te e contro te; con te nel core, in luce,
contro te nelle buie viscere” questi sono i versi più importanti perché parla di se stesso: con lo scandalo del
contraddirsi; “con te e contro di te” lui vuole essere come Gramsci ma allo stesso tempo è anche contro di
lui; “con te” l’isotopia del cuore, della luce; “contro di te” nelle viscere, nella corporeità, nella natura della vita;
“del mio paterno stato traditore” perché era proprio lo stato per cui ha servito suo padre, una persona odiate
da Pasolini, descritta da lui come negativa e fascista; “attratto da una vita proletaria a te anteriore, è per me
religione la sua allegria, non la millenaria sua lotta: la sua natura, non la sua coscienza: è la forza originaria”
non è la lotta di classe che attira Pasolini, ma la vita millenaria del popolo; “Come i poveri povero, mi attacco
come loro a umilianti speranze, come loro per vivere mi batto ogni giorno” qui è presente un’anafora (“come
loro…come loro…”) serve a far capire questo suo interesse al mondo dell’uomo subalterno; nelle ultime
strofe Pasolini sta affondando nella critica del pensiero di Gramsci e del pensiero marxista;

QUINTA STROFA: “Non sono immuni gli interni e esterni atti, che lo fanno incarnato alla vita, da nessuna
delle religioni che nella vita stanno, ipoteca di morte, istituite a ingannare la luce, a dar luce all'inganno.” Qui
Pasolini sta giudicando la religione cattolica, e delle forme istituzionalizzate della regione (destinate a
scomparire a suo parere); Pasolini si riprende da tutte le imposizioni delle istituzioni delle ideologie e grida
“vive l'io: io, vivo, eludendo la vita” comprendendo il senso della vita “accorante o violento”, si ribella a tutte
le imposizioni della società (anche quelle politiche e cristiane) e grida “io vivo, comprendendo la vita”;
richiama “Shelley”, cui la sua tomba si trova affianco a quella di Gramsci; “Shelley... Come capisco il vortice
dei sentimenti, il capriccio (greco nel cuore del patrizio, nordico villeggiante) che lo inghiottì nel cieco celeste
del Tirreno; la carnale gioia dell'avventura, estetica e puerile: mentre prostrata l'Italia come dentro il ventre di
un'enorme cicala, spalanca bianchi litorali, sparsi nel Lazio di velate torme di pini, barocchi, di giallognole
radure di ruchetta, dove dorme col membro gonfio tra gli stracci un sogno goethiano, il giovincello ciociaro...”
sceglie un “grand tour” chiamando tutti i luoghi che Pasolini ama dell’Italia (di fatti questa parte è un canto
all’Italia); “Mi chiederai tu, morto disadorno, d'abbandonare questa disperata passione di essere nel mondo?”
Pasolini, dopo aver finito il discorso, saluta Gramsci, e torna dentro la vita;

SESTA STROFA: Me ne vado, ti lascio nella sera che, benché triste, così dolce scende per noi viventi, con la
luce cerea” la frase, che porta tristezza, ci fa vedere l’immagine di una luce che si contrae; “E lo sommuove.
Lo fa più grande, vuoto, intorno, e, più lontano, lo riaccende di una vita smaniosa che del roco rotolio dei
tram, dei gridi umani, dialettali, fa un concerto fioco e assoluto. E senti come in quei lontani esseri che, in
vita, gridano, ridono, in quei loro veicoli, in quei grami caseggiati dove si consuma l'infido ed espansivo dono
dell'esistenza quella vita non è che un brivido” qui Pasolini non fa altro che parlare dei rumori della vita, una
vita di tutti i giorni che lui ha sempre amato osservare e studiare;

Scorate officine: senza cuore, senz'anima.


Già si accendono i lumi...: ecco la passeggiata di Pasolini nei luoghi nei quartieri popolari di Roma, di cui si
ricorda anche i nomi delle strade. È una poesia in movimento, dello spazio ma anche del tempo, perché c'è il
tramonto, e i colori e le forme che stanno cambiando.

\\Nella scena della notte che avanza, Pasolini ci descrive i militari, i giovani, le prostitute, i ragazzi di vita.
Pasolini vede da lontano questa oscura pulsione di vita che rinasce, anche nella condizione del sesso a
pagamento, delle puttane, dei ragazzi di vita.

Alla fine, Pasolini si sente separato dalla storia e dalla vita.

Ma io, con il cuore cosciente di chi soltanto nella storia ha vita, potrò mai più con pura passione operare, se
so che la nostra storia è finita? La domanda finale è una domanda angosciosa, con cui si conclude la
poesia. È una domanda retorica, Pasolini sa che la risposta è negativa probabilmente. Ma, in realtà, la sua
storia non è finita qui: qui finisce con questa poesia, ma continuerà nei 20 anni successivi in cui la pulsione
di vita lo costringerà sempre ad andare avanti, e a cantare la vita del popolo.

LETTURA DELLA POESIA "PROFEZIA" DI PASOLINI Questa poesia fu scritta nel 1964. Pasolini era andato
a Parigi e aveva conosciuto Jean Paul Sartre, grande filosofo contemporaneo, maestro dell'esistenzialismo.
Era una persona molto attenta al rapporto con gli altri popoli che si affacciano alla luce della storia, i popoli
subalterni, africani, che prima erano colonie e ora invece stanno lottando per la libertà (decolonizzazione).
C'è questo grande movimento di ribellione di popoli al sistema del colonialismo. In questo incontro, Sartre
racconta a Pasolini la storia di un ragazzo africano che scappa in Francia, che si chiama Ali, che ha gli occhi
azzurri. È una storia che suggestiona molto Pasolini, che scrive questa poesia.

Notiamo l'impaginazione di questa poesia: la disposizione dei versi ricorda una croce, perché voleva
presentare anche visivamente una serie di grandi tragedie dell'umanità contemporanea, che sono come
delle croci, come la croce su cui è inchiodato Gesù Cristo. Ci sono anche altri componimenti di questo tipo,
raccolti nel Libro delle croci.

Si intitola Profezia perché, quando Pasolini scrisse questa poesia, è come se avesse avuto una visione di
quello che all'epoca non c'era ancora. Questa profezia si sta avverando. Pasolini è profeta: lui ha visto la fine
del mondo popolare in Italia, la fine del vecchio mondo contadino, l'inizio del progresso, dell'omologazione,
dell'alienazione dell'essere umano, del neocapitalismo. Tutte queste sono visioni di Pasolini quando ancora
nessuno pensava a queste cose. L'ultima sua profezia è quella del movimento dei popoli che noi stiamo
vedendo del nostro tempo, e che è solo l'inizio.

Pier Paolo Pasolini attraversò tutta la penisola italiana nella sua Fiat 1100: parte da La Spezia, attraversa la
Sicilia e risale dalla costa orientale. Scrisse “La lunga strada di sabbia”, un reportage, commissionato dalla
lista Successo.

Giovanni Comisso, venti anni prima rispetto a Pasolini, fece una cosa simile: scrisse un reportage
commissionato sempre da Successo, intitolato “L’italiano errante per l’Italia”. Egli partì sempre dal nord e
scese fino al sud, soffermandosi sugli elementi naturali e sui paesaggi. Comisso viaggiò anche nel Medio e
nell’Estremo Oriente con i soldi che si guadagnava attraverso il suo lavoro di giornalista. In seguito ai suoi
numerosi viaggi, acquistò una casa e si stanziò in una campagna Veneta.

Attraverso l’analisi di Pasolini, notiamo che prima di questo momento, la scrittura di Comisso è “senza
diaframma”, molto giovanile e istintiva. A volte risultava anche essere un po’ sgrammaticata e disinteressata
sotto il punto di vista della sintassi. Si sofferma maggiormente sulle sensazioni e sulle impressioni personali.

Durante la maturità diventò più attento ai dettagli, addirittura correggeva le sue opere e le riordinava.
Partecipò alla prima guerra mondiale, non in prima linea, ma in quanto collaboratore nella fase logistica della
guerra.

Nel 1930 Comisso pubblicò diverse opere dedicate proprio a questo periodo, ma viene censurato dal Partito
Fascista perché fece apparire la guerra come un’esperienza futile e quasi noiosa (visto che non era in prima
linea). Descrisse questa sua esperienza come fosse stata una vacanza. Tuttavia, non mancarono momenti
rischiosi: in “Giorni di guerra” (la sua terza opera) racconta di quando si recò alla telefonica per portare
informazioni da un reparto all’altro e di come rischiò di essere fucilato. Comisso descrisse la sua esperienza
in guerra come una vacanza, perché lo liberarono dai suoi impegni (quali l’università, che stava andando
rovinosamente). Dopo la guerra avrebbe dovuto continuare gli studi, ma sentendo di ciò che stava
accadendo a Fiume (1919), sotto il comando di D’Annunzio, si avviò immediatamente per appoggiare la
causa. Di questo scrisse ne “Il porto dell’amore”(prima opera ufficiale), e anche in questo caso non si parla di
esperienze belliche, ma si concentra sempre nella parte più paesaggistica e naturale degli eventi. Qui viene
a conoscenza di Guido Keller, con il quale divenne amico. Questa amicizia lo porta all’allontanamento dalla
vita borghese: commettono piccoli reati.

In “Gente di mare”(1928), raccontò dei giri che fece con Keller sui velieri. Partirono con il capitano Gamma.
Grazie a quest’opera vinse il premio Bagutta. Essa è una raccolta di dodici racconti, che si divide in due
parti. La pubblicò insieme a “Il porto dell’amore”, in questo si sofferma maggiormente sulle esperienze sulla
terra ferma. Pubblicò una seconda edizione di “Gente di mare” nel 1953 con il titolo di “Al vento
dell’Adriatico”. Nel 1959 viene pubblicata una terza volta e l’ultima edizione risale al 1966 (con 32 racconti).
La seconda, è la parte che rimase immutata ogni volta, mentre la prima è quella più descrittiva sotto il punto
di vista delle singole esplorazioni e delle emozioni suscitate da queste ultime. Il libro venne scritto sotto il
modello del “poeme en rose” (classico di D’Annunzio): opere scritte in prosa e in stile impressionista.

“Lungo il mare” è uno dei testi che vennero aggiunti nell’ultima edizione di “Gente di mare”. Possiede una
musicalità tale che rimanda a un testo poetico e diverse ripetizioni (come la parola “morte”, il tema del testo).
Comisso va oltre alle regole grammaticali sin dalla prima frase, infatti il verbo non concorda con il soggetto.
Così crea una condizione universale assoluta con il verbo “camminando”, senza specificare chi stia
compiendo l’azione. Di qui inizia immediatamente la descrizione del paesaggio costiero. “Lungo il mare”
porta un classico esempio della superfetazione aggettivale di Comisso, ovvero la sua tendenza a descrivere
in maniera molto specifica oggetti o animali. Al luogo naturale (la bassa marea), viene contrapposta la figura
dell’uomo. L’andamento di quest’ultima parte, dà l'impressione di seguire il ritmo di versi ottonari e imitare
quello del passo umano. L’immagine che viene mostrata mette a confronto il mondo naturale con quello
industriale e contemporaneamente, il paesaggio marittimo (la sabbia) a quello terreno (la terra coltivabile),
che si incontrano a un certo punto del percorso. Viene messa in evidenza la diversa reazione che hanno
l’uomo e la natura nei confronti della morte: il primo vi lotta contro e la seconda, accetta passivamente il suo
fato, un po’ come le conchiglie di mare che, venendo erose, si trasformano in terra. Da questo, Comisso
ricrea una specie di processo storico millenario, nel quale la “morte” delle conchiglie ha la funzione di creare
terreno nuovo per far nascere piante.

Se in passato gli uomini erano in armonia con la natura, adesso, Comisso riconobbe che esisteva una lotta
contro essa. Infatti, descrive degli umani spaventati dal mare, schivi nei confronti del suo lavoro. Lavorando
non entrano mai nell’acqua e costruiscono dighe per separare il mare dai campi. Coltivare intorno ai campi
che si trovano accanto alle coste, genera un perenne conflitto con la natura (che di norma non
permetterebbe la sopravvivenza delle piante) e per questo, l’occupazione di questi agricoltori viene
considerata strana. Il loro aspetto, la loro cadenza e la loro vita è diversa da quella dei paesani del luogo
(Pioggia, una laguna di Venezia dove si incontrano l’acqua del mare e le foci di fiumi importanti).

Un grande mistero viene svelato alla fine del testo, quando il soggetto del verbo “camminando” viene
svelato. L’”io” si riferisce proprio a Comisso, che è colui che stava camminando sulla spiaggia sin dall’inizio.
Egli si trova a osservare i movimenti dell’acqua, che assale la spiaggia e si ritira da essa allo stesso ritmo del
passo dello scrittore. Anche i granchi nel frattempo, sensibili ai movimenti umani di Comisso, compiono
diverse azioni (muovere le chele, nascondersi, attaccare i piedi dello scrittore). I granchi raccolgono i pezzi
delle loro prede (il tentacolo di un cannolicchio), esattamente come i coltivatori di Pioggia prendevano i loro
prodotti. In questa similitudine, anche i granchi sembrano avidi e agguerriti come gli umani. Questa lotta per
la vita appare ovunque, nella società umana e anche in quello animale. Ciò da uno sguardo universale
sull’esistenza.

Comisso si rende, come altri scrittori suoi contemporanei, rivelatore della realtà e dei segreti della vita.

In “Donna sul mare” invece, Comisso descrive come i viaggi fatti in mare (dove il paesaggio rimane uguale
senza sosta), possano creare delle ossessioni incontrollabili. La prima immagine mostrata è quella dello
scrittore appena sveglio, che si sciacqua il viso con dell’acqua fresca. Ma l’iniziale immagine piacevole,
viene contrapposta alla vita di ciurma: Comisso e gli altri viaggiatori hanno finito le provviste di fumo, il che
inizia a riempire ossessivamente le menti di tutti. Improvvisamente, uno dei mozzi trova una cartolina lucida
(di genere erotico) con una donna che fuma voluttuosamente delle sigarette (ce ne sono esattamente
quattro nell’immagine). Ciò risveglia il desiderio di fumare, ma anche il desiderio sessuale nei confronti della
femminilità.

Un veliero proveniente dalla Danimarca (dove vendono tanto tabacco) si avvicina alla loro imbarcazione e i
protagonisti del componimento approfittarono dell’avvicinamento per chiedere al capitano barbuto se
qualcuno avesse del tabacco. Per loro sfortuna, nessuno nel veliero fumava. E a questa brutta notizia, gli
astinenti videro una donna malinconica sull’imbarcazione danese. Ella guarda lontano, come se avesse
ancora viva la mancanza delle sue terre. La voce della donna ammalia lo scrittore, il che lo porta a scrutare
profondamente il suo aspetto triste (quasi da schiava) e i suoi occhi (che riflettono l’azzurro del mare). Il
capitano della nave di Comisso lo risveglia dalla sua trance e lo costringe a tornare nella sua imbarcazione.

In seguito, Comisso fa una riflessione nella quale si rende conto di quanto la sua vita sia cambiate e di
quanto sia invecchiato (di ciò che ha perso sin dalla gioventù). La navigazione è descritta come un “divenire
convalescente”, che, come la vita, è l’unica grande malattia del mondo (ci manda inesorabilmente alla
morte).

Gli errori grammaticali che si trovano nel testo (tra i quali, l’assenza dell’h nelle coniugazioni del verbo
avere), sono semplicemente simbolo del suo stile (sfrutta largamente la sua licenza poetica).

Prima ancora de “Il porto dell’amore”, scrisse delle poesie adolescenziali sotto l’influenza francese dello
scultore Arturo Martini (che recitava gli autori francesi nei caffè di Treviso). Anche per questo, da giovane,
Comisso espresse più volte ai suoi genitori il suo desiderio di essere libero (grande ideale francese).

Nel 1955, con “Il gatto attraversa la strada”, vinse il Premio Strega. Questo libro è una raccolta di racconti
canonici.

Alberto Moravia
Dopo i brani di Giovanni Comisso, oggi il testo è di Alberto Moravia. Non si potrebbe immaginare nulla di più
lontano fra questi due scrittori. Giovanni Comisso è uno scrittore di grandi spazi aperti: il mare, l’Adriatico, le
isole, la navigazione, la vita dei pescatori, dei contadini è tutta una tensione verso la vita, verso la natura.
Non si dovrebbe immaginare niente di più diverso rispetto ad Alberto Moravia: è stato uno dei grandi scrittori
della letteratura italiana. È uno degli scrittori del '900 che è stato tra quelli più tradotti all’estero e più
conosciuto nel resto del mondo. Ci sono delle ragioni concrete linguistiche e stilistiche. Alberto Moravia è
contemporaneo di Comisso e questo libro esce quasi insieme a quelli di Comisso, siamo negli anni 20 del
1900. Moravia è nato a Roma nel 1907 e morirà nel 1990. La sua vita attraversa tutto il '900 dal periodo della
gioventù (che lui vive nel periodo fascista, nel periodo di chiusura ideologica, sociale, del cosiddetto
"ventennio fascista" e come tutti i giovani di quell’epoca sente molto l’angoscia e la crisi di quel periodo)
arrivando poi nel secondo dopoguerra dove diventa uno degli scrittori anche più impegnati nella
rappresentazione della realtà e della società. Moravia era considerato da Pierpaolo Pasolini come il suo
maestro e anche un suo grande amico. Quando Pierpaolo Pasolini arriva a Roma è una delle prime persone
con cui fa amicizia e lo guida anche nel mondo della letteratura, perché Pasolini era arrivato a Roma con
tanta confusione nella testa, aveva scritto quasi solo poesie, voleva fare tante cose ma era in un momento di
grande sbandamento della sua vita, e fu grazie a Moravia che Pasolini si indirizzò prima verso la narrativa
con “Ragazzi di vita” e “Una vita violenta” e poi verso il cinema. L’amicizia, il sodalizio, tra Moravia e Pasolini
dura fino alla morte di Pasolini, quando fu assassinato sulla spiaggia di Ostia, vicino Roma, nel 1975. Ce un
momento sconvolgete: Al funerale di Pasolini, che avvenne qualche giorno dopo, nella commozione
generale, prese la parola Albero Moravia facendo un discorso con parole davvero straordinarie, di cui le più
belle al centro di questo discorso erano: “Pasolini era un poeta e non bisogna uccidere i poeti, noi abbiamo
bisogno della poesia, abbiamo bisogno dei poeti”. Moravia accusava l'Italia di allora di essere un paese dove
si uccidono i poeti o si mettono in carcere gli intellettuali e si fanno morire abbandonati, quindi era un atto di
accusa verso la società contemporanea, Moravia è uno scrittore di narrativa, non è un poeta, è uno scrittore
di prosa narrativa, racconti e romanzi. Il suo ambiente di riferimento è il mondo della borghesia è la
rappresentazione realistica del mondo borghese, della società italiana del '900 ed è una rappresentazione
impietosa, realistica e soprattutto critica, critica in una sorta di decadenza morale, di corruzione che lui vede
intrinseca in questo ambiente medio, piccolo, alto borghese in cui vede la ragione di tutti i grandi mali che
affliggono l'Italia. L’esistenza di una fase intermedia che, tranne alcune eccezioni, per Moravia sembra quasi
una classe di parassiti che vive di affresco, di speculazione, e di piccoli capitalisti. Tutto questo lo vede
durante il periodo fascista, nel periodo del regime in cui dopo le promesse di una nuova Italia, dell’inizio del
regime fascista poi il resto del ventennio è una società che viene presa in mano da imprenditori, affaristi e
speculatori. Ed è questa società che Moravia rappresenta, su cui ritorna anche qualche anno dopo la 2ª
guerra mondiale. Si accorge che anche l’Italia che era uscita dalla seconda guerra mondiale, dopo il periodo
di illusione della resistenza alla lotta di liberazione e quei primi dieci anni tra gli anni 40 e gli anni 50 della
ricostruzione, del miracolo economico e delle grandi speranze degli italiani di costruire una società migliore,
più giusta, competente, allargato a tutte le classi della società, si era tornati totalmente ai mali del passato.
Filo che collega tutte le opere di Moravia dall'inizio alla fine. Dal periodo in cui era giovane sotto il fascismo
al periodo degli anni 50 o degli anni 60. Dei tantissimi libri e romanzi di Moravia leggiamo l'inizio del suo
primo romanzo, quello più famoso, è quello che fece grande scalpore e anche grande scandalo quando fu
pubblicato nel 1929. Moravia aveva solo 22 anni. Nelle interviste ci racconta che lui sentiva la vocazione di
scrivere, di raccontare, già quando era bambino. All’età di 10 anni scriveva già piccoli racconti, piccole cose.
Aveva l’idea di questo romanzo, più o meno della trama, del sistema dei personaggi, da più di 10 anni gli
girava dentro la testa ( la scrittura per lui in questi anni dell'adolescenza e della giovinezza, era quasi una
forma di liberazione e di distrazione da ben altri problemi che aveva da ragazzo, era molto malato ai
polmoni, e quindi aveva problemi di respirazione, si temeva avesse la tubercolosi, per lui periodi di cure,
viveva di grandi periodi di solitudine, e riempiva questa solitudine, questa tristezza con la scrittura, con
l’immaginazione continuando ad immaginare famiglie borghesi, case borghesi della Roma dell’epoca poi la
sua salute si fortificò dopo questi anni. Quando lavora ha al suo romanzo ed arriva alla fine cambia diverse
volte anche il titolo e alla fine l'ultimo titolo che per lui sembrava sicuro, molto significativo, era LA PALUDE.
Forse all'editore non piaceva nemmeno. (Fu pubblicato a sue spese perché era un piccolo editore che non
dava fiducia ad un ragazzino di 22 anni e quindi fu costretto a chiedere a suo padre 5000 lire per pubblicarlo.
A quell’epoca 5000 lire era una cifra enorme), dovette cambiare titolo da “LA PALUDE” a “GLI
INDIFFERENTI”.

L'inizio di una narrazione di un grande romanzo è sempre fondamentale nel rapporto con il lettore perché è il
momento in cui si installa un dialogo tra lo scrittore ed il lettore. È un momento fondamentale perché se
quest'atto di comunicazione non si instaura bene fin dall'inizio, il lettore potrebbe lasciare stare. Un grande
critico francese, Gerard Genet, fondamentale per i nostri studi, parla di SOGLIE, la soglia di un romanzo, la
prima pagina, è fondamentale. Abbiamo bisogno che l'autore ci faccia entrare nel suo mondo immaginario.
La prima pagina ci dice dove siamo, entrano in scena i personaggi, cominciano a parlare, quando non ne
sappiamo ancora niente, quando lo scrittore è veramente bravo comincia a farli agire in MEDIAS RES,
direttamente nel mezzo all'azione senza perdere tempo, come facevano i narratori dell’800, Alessandro
Manzoni, Balzac, ecc., prima di cominciare l’azione in Medias res, riprendevano tutto il resto scrivendo prima
un lungo preambolo iniziale. Persino in Svevo c'era l'espediente del manoscritto, oppure in Pirandello c'era
una almeno una rievocazione del passato. Novità di Moravia: non c’è nessuna premessa, non c’è funzione di
un manoscritto, nessuna rievocazione al passato, siamo già dentro la stanza. C’è qualcuno che entra ma noi
siamo già nella stanza.
(Leggiamo da "Entrò Carla") noi siamo già dentro, entra Carla, non sappiamo chi è Carla: una donna, una
ragazzina, una nonna, non sappiamo chi sia.

“Entrò Carla; aveva indossato un vestitino di lanetta marrone con la gonna così corta, che bastò quel
movimento di chiudere L’uscio per fargliela salire d’un buon palmo sopra le pieghe lente che le facevano le
calze intorno alle gambe; ma ella non se ne accorse e si avanzò con precauzione guardando
misteriosamente davanti a sé, dinoccolata e malsicura; una sola lampada era accesa e illuminava le
ginocchia di Leo seduto sul divano; un’oscurità grigia avvolgeva il resto del salotto.

Questa è la prima scena che ci porta all’interno di una stanza sembrerebbe già dall’inizio dei primi elementi
un interno borghese, abbiamo due minimi elementi ci dicono stiamo all’interno i un ambiente borghese. Un
salotto, un appartamento di un certo livello. È illuminato solo dalla luce di questa lampada poggiata su
questo tavolino di fianco al divano, ambiente tipico del salotto che era la stanza buona, con i mobili migliori,
dove si ricevevano gli ospiti, dove si prendeva il tè, si sono presentati i due personaggi: uno che si trovava
già lì, seduto sul divano e una che è entrata. (Scena quasi teatrale, che ritroviamo negli anni 20 con
Pirandello e altri molti autori italiani di quest’epoca) “entrò Carla” da quello che dice dopo, riusciamo a capire
che Carla è una ragazzina “è un vestitino di lanetta marrone”, una gonna molto leggera che diventa quasi
una minigonna, un vestitino abbastanza aderente, questo vestitino risale lungo le gambe, questi sono
dettagli di un realismo straordinario, Moravia si presenta uno scrittore REALISTA, attento ai minimi dettagli
della vita quotidiana. “che le facevano le calze intorno alle gambe” tutti elementi dell’intimo femminile che
faceva impazzire gli uomini, erano appassionati di queste cose, l’erotismo e tutto il resto. Già all’inizio
Moravia ci inserisce una sottile vena di erotismo. Perché ovviamente dove va a fissarsi lo sguardo
dell’uomo? Perché c’era un uomo, seduto sul divano, come un animale da preda che vede questa bella
ragazzine entrare dalla porta, la gonna sale un poco, le calze si vedono, la gamba nuda, l’uomo comincia a
fare brutti pensieri. Il tutto in una luce che sembra quasi l’ideale per una scena di seduzione. Carla entra,
vorrebbe ornare indietro invece la prima cosa che fa è chiudersi la porta dietro, guarda misteriosamente
davanti a sé, malsicura, indossando quest’abitino sapendo che lì c’è Leo, ma nello stesso tempo è
malsicura, incerta del portamento. A questo punto incominciano i dialoghi, altra caratteristica della lingua e
dello stile di Moravia, prevalenza della paratassi: un discorso semplice, non c’è complicazione della sintassi,
è molto chiara, è una lingua che si avvicina al parlato, alla lingua quotidiana e questo diventa ancora più
forte subito dopo con l’inizio dei dialoghi che sono la finzione del parlato, già nel cinema muto facevano le
famose “didascalie” che lo spettatore doveva leggere tra una inquadratura e un’altra. (Tra uno o due anni
nasce il cinema sonoro e grandi attori e attrici devono arrangiarsi ad usare anche la voce). Qui ci sono i
dialoghi quindi i lettori e gli spettatori sono già abituati a questa parte dialogica invece di quella normale del
teatro borghese di questi anni soprattutto Pirandello.

<<Mamma sta vestendosi>>, ella disse avvicinandosi <<e verrà giù poco>>.

È la prima comunicazione da parte di Carla a questo misterioso Leo. Si sta vicinando a Leo, tramite questa
comunicazione è come se stesse cercando di dirgli qualcosa. “Si sta vestendo” come per dire “abbiamo
qualche minuto di tempo però verrà giù tra poco”.

<<L’aspetteremo insieme>>, disse l’uomo curvandosi in avanti; <<vieni qui Carla, mettiti qui>>.

Con questa grande familiarità, le da subito del “tu”. Un uomo maturo, potrebbe essergli padre.

Ma Carla con accettò questa offerta; in piedi presso il tavoli della lampada, cogli occhi rivolti verso quel
cerchio di luce del paralume, nel quale i gingilli e gli altri oggetti, a differenza dei loro compagni morti e
inconsistenti sparsi nell’ombra del salotto, rivelavano tutti i loro colori e la loro solidità, ella provava col dito la
testa mobile di una porcellana cinese: un asino molto carico sul quale tra due cesti sedeva una specie di
Buddha campagnolo, un contadino grasso dal ventre avvolto in un kimono a fiorami; la testa andava in su e
in giù, e Carla dagli occhi bassi, dalle guance illuminate, dalle labbra strette, pareva tutta assorta in questa
occupazione.

. "Pareva": in realtà non gliene importava. Le case piccolo-borghesi volevano imitare le casi aristocratiche
che avevano le famose cineserie, una moda che si diffonde molto nel Settecento.

. Tavolino, la lampada, sotto il tavolino si mettevano tutti i gingilli (la bomboniera, l'argento): tutto questo
Moravia lo prende da GUIDO COZZANO, un autore di vent'anni a lui precedente che lui sicuramente ha
letto, che descrive gli ambienti piccolo-borghesi dell’epoca, i piccoli oggetti di cattivo gusto che rientrano
nelle case degli italiani dell’epoca.

<<Resti a cena con noi?>> ella domandò alfine senza alzare la testa.

<<Sicuro>>, rispose Leo accendendo una sigaretta;

<<Forse non mi vuoi?>>.

. "Non mi vuoi?": ambiguità nel dialogo tra Carla e Leo. Doppia comunicazione anche dal punto di vista
linguistico. Tentativo di un discorso erotico, amoroso. Aggettivo con funzione avverbiale "sicuro?": Leo è
sicuro perché appartiene a questa nuova generazione del periodo fascista che con la prepotenza e gli affari
si vuole impadronire della realtà. LUI è SICURO. La casa sta diventando piano piano di mia proprietà.

-Accensione della sigaretta: elemento interessante della letteratura dell’epoca, e anche nel cinema.
Diminuite molto, oggi, nel cinema, perché su qualunque pacchetto di sigarette ci sono le avvertenze.
All'epoca no. Il fumo, la sigaretta, era una specie di ATTEGGIAMENTO, più che un vizio o un bisogno.
Seduto sul divano mollemente appoggiato con le volute di fumo che salgono in alto, osservava la fanciulla,
con attenzione avida.

In quello che segue vediamo la grandezza della narrativa di Moravia

- Finora tutto quello che abbiamo letto era realistico al 100%, al grado zero. La posizione del narratore
all’interno della narrazione può avvenire a diversi livelli quindi possiamo avere il narratore onnisciente, poi
gradualmente abbiamo il livello più realistico, puro che è quello che avveniva in Francia col NATURALISMO.
Era il tentativo di eliminare la presenza del narratore dando al lettore la sensazione di essere presente nello
svolgimento dei fatti, senza nemmeno la fastidiosa presenza del narratore come in Manzoni che fa
digressioni. Gradualmente dal romanzo di primo '800 vi è il tentativo di eliminare la figura del narratore per
aumentare il realismo. Questo lo faranno moltissimo gli scrittori americani contemporanei es. Hemingway.
Moravia ha iniziato così, le prime righe sono senza narratore, siamo noi dentro la stanza che vediamo Carla
entrare, vediamo Leo, e vediamo che parlano. Ma le cose cambiano: Moravia è uno scrittore di SCAVO
PSICOLOGICO. Quindi ora diventa necessariamente un narratore ONNISCIENTE, senza però interrompere
e disturbare, quindi entra dentro la testa di ognuno dei suoi personaggi volta per volta e ci fa vedere le cose
come se noi fossimo nella testa dei personaggi.

- Il primo momento in cui avviene (e forse neanche ce ne accorgiamo) è nel momento in cui c’è la
descrizione fisica di Carla, ma attenzione quello che la esamina è Leo. Finora Carla l'abbiamo vista entrare,
però non l'abbiamo ancora studiata, esaminata.

-Leo sta guardando, mentre fuma la sigaretta, Carla, cominciando a studiarla, come oggetto del desiderio.
Descrizione che non è più realistica ma siamo nella testa di Leo: nel cinema si dice che è UNA
SOGGETTIVA. È il mondo visto dagli occhi di Leo e ne viene fuori non un ritratto di grande bellezza, perché
Leo è un esperto di donne e subito identifica tutti i difetti del corpo di Carla, una ragazzina ancora acerba,
ma è questo forse che la rende ancora più desiderabile come oggetto da conquistare.
- "Gambe dai polpacci storti, ventre piatto, una piccola valle di ombra tra i grossi seni, braccia e spalle
fragili": l’occhio di Leo indugia nella sua scollatura; essendo ancora una ragazzina, ha una testa così
pesante su un corpo così sottile. “-che bella bambina- egli si ripeté”.

-“ti sei accorto quanto….. sollevò un lembo di quella gonna” Comincia ad alzare un pochino il vestito di
Carla. E le dice che ha delle belle gambe, anche se aveva appena pensato a tutti quei difetti. Carla NON
arrossì, né rispose, e con un colpo secco abbassò la gonna.

- "Mamma è gelosa di te": ambiguità nelle relazioni familiari.

-“per me…. Quelle parole dell’uomo avessero ridestato in lei una rabbia antica e cieca… chi dilatati dall’ira
puntandosi un dito sul petto” È recitazione, tutto riprende dal grande teatro contemporaneo di Pirandello.

-“ se tu sapessi……assistere tuti i giorni” Carla sta cercando di aprirsi con Leo, dentro di lei abbiamo la figura
di una ragazza che vorrebbe ribellarsi dal mondo chiuso nel quale assiste a tanti momenti di sofferenza e
corruzione e fuggire, seducendo quest’ uomo. Ribellarsi alla decadenza. Tentativo di uscire da questa
PALUDE (ricordiamoci il titolo precedente).

- Questa non è vita, questo è un ripetersi di avvenimenti noiosi, monotoni. Una rappresentazione che non è
vita, sono delle maschere, direbbe Pirandello.

- A questo punto, l'ombra nell’angolo del salotto che diventa un fantasma scivolando contro il petto di carla ,
come la personificazione dell’odio, del rancore che Carla sta provando dentro di sé, non abbiamo più
realismo bensì SIMBOLISMO. Lo ritroviamo anche nel cinema, di quel periodo es. primo film del fu mattia
pascal.

- quando Carla vide l’ombra ebbe quasi paura perché è come se ella avesse visto materializzarsi l’odio per
la madre e per questo mondo borghese nel quale è prigioniera. Senza respiro

-“diavolo pensava Leo… la cosa è seria” questo non è un dialogo ma sono i pensieri nella sua testa. Lui
pensava fosse una cosa facile un’avventura con questa ragazzina, ma si è quasi spaventato.

- “Tese l’astuccio” All'epoca le sigarette non si tenevano, dalle persone eleganti, nel pacchettino, ma le
riponevano in eleganti porta-sigarette.

-“una sigaretta …. Gli si avvicinò ancora di un passo” GRADUALE AVVICINAMENTO FISICO TRA CARLA E
LEO.

“dal tono confidenziale che assumeva il dialogo” Carla vorrebbe recitare un po' di più quella parte quasi
tragica da teatro, invece Leo ha una prosa più dimessa, più confidenziale.

-“sai cosa si fa…. Si cambia” Leo è sempre deciso nelle sue azioni e decisioni, non ha dubbi, è uno sicuro.

-“ è quello che finirò per fare …. L’andava insensibilmente portando?” È come se Carla in realtà non
decidesse mai niente, lei sta scivolando su un piano inclinato verso una situazione dalla quale non può
scappare. Non è un atto di scelta e libertà lei vuole fuggire a tutti i costi dalla palude ma in realtà sta
scivolando nelle braccia di Leo. Crede di sedurlo ma in realtà ci sta cadendo dentro.

- “Lo guardò…. Salotto oscuro” negli anni precedenti egli non l’aveva mai degnata di uno sguardo, nel suo
pensiero, Carla si fa un film: immagina che lui ha aspettato per 10 anni che lei maturasse per saltarle
addosso.

- “Cambia… vieni a stare con me” a questo punto Leo si lascia sfuggire quello che aveva in testa.

-“Ma sì tu avrai tutto quello che vorrai Carla” già prima con questi accenni alla madre: cominciamo a capire
la relazione tra Leo e la madre. LEO è L'AMANTE DELLA MAMMA DI CARLA E STA PASSANDO DALLA
MAMMA ALLA FIGLIA.
“Portamela a casa …. Vieni a stare con me Carla” notiamo come nel dialogo le prime parole sono pensate
mentre queste sono tutte pronunciate con respiro affannoso. Le frasi che si interrompono, punti sospensivi,
ellissi del verbo, il discorso, le parole, si fanno concitate, è l'eccitazione di Leo che aumenta.

-“Essere a casa mia pensava” passiamo da frasi realmente dette a pensieri.

-“Ella fece di nuovo … ma ancor più fiaccamente di prima” In realtà non lo sta respingendo veramente.

-“che ora la vinceva…. Gettarsi a capofitto nel vuoto” Tecnica dei pensieri e questo tipo di scende di caduta
della volontà: Moravia ha dei grandi precedenti: Pirandello, Manzoni quando entra nei pensieri dei suoi
personaggi, anche il marchese de Sade (scrittore 1700, personaggio che è incerto tra la virtù e il vizio,
restare fedele alla morale borghese e il lasciarsi precipitare nell’abisso della volontà è tipico di questo
scrittore, e lo ritroviamo nelle sue due eroine Juliette e Justine,) e qui Carla è come una di queste eroine.

- “ ma la veste …. Nessuna liberazione avrebbe potuto più abolire.” Moravia è grandioso in queste
descrizioni.

-“ l’avvertì che qualcuno entrava” La scena di seduzione finisce per l'ingresso sulla scena teatrale di qualcun
altro. Pensiamo allo scandalo che questo romanzo fa nella morale borghese benpensante dell’Italia del
1909, nel fascismo anche concordato con la Chiesa Cattolica. Ma pensiamo anche al grande successo che
questo romanzo ebbe sempre in quel periodo, che fu quasi avvertito come un atto di ribellione e di
resistenza al buon senso, alla morale comune che il regime e la chiesa volevano che ci fosse.

- “pareva una maschera stupida e patetica” Di nuovo il tema della maschera, che insieme alle altre parole
appartengono all'ISOTOPIA DELLA FINZIONE, DEL TEATRO. La madre ha le stesse caratteristiche di
Carla: dal passo malsicuro, indecisa. Solo Leo è sicuro. Tutti gli altri sono indecisi, malsicuri, INETTI come i
personaggi di Svevo ma anche quelli di Pirandello.

- “ stavo appunto dicendo a sua figlia …. Che restare in casa” in particolare quando stanno davanti ai figli
all'amante dà del lei, nessuna familiarità, è una recitazione, Tutti fingono davanti agli altri🡪 tipica finzione
borghese (che ritroviamo in tutte le commedie di Pirandello), ma tanto tutti sanno qual è la verità.

-“ sei personaggi della compagnia di Pirandello…. È una serata popolare” Moravia ce lo richiama che tutto
questo è legato a Pirandello. Non l’aveva ancora visto altrimenti avrebbe capito che i 6 personaggi in cerca
d'autore sono loro, sono proprio loro. E’ una serata popolare nei teatri.

- "Io che sono una donna di alta borghesia, come faccio a mescolarmi a quella plebe, che vuole andare a
teatro (forse nella periferia di Roma)?"

-“le assicuro non perde nulla” Leo l’aveva visto ma non ci ha capito nulla.

-“la maschera e il volto mi ci sono tanto divertita” Il pubblico borghese dell'epoca che è andato a teatro, ha
visto "la maschera e il volto", una delle commedie di maggior successo in quegli anni, e non si è nemmeno
accorto che NON è DI PIRANDELLO, è DI LUIGI CHIARELLI (che oggi nessuno ricorda ma che all'epoca
era più famoso di Pirandello) uno degli inventari del genere grottesco nel teatro.

Trama “la maschera e il volto”: Storia di un femminicidio. Un’ uomo tradito da sua moglie tenta di ucciderla
ma essendo un inetto non riesce. Schiacciato dal peso della morale e aspettative sociali (tutti aspettavano
che la uccidesse) chiede alla moglie di sparire, cambiando città e di non tornare più. Insieme, quindi,
organizzano questa commedia (ovvero l’omicidio) venendo anche processato, ma visto che era delitto
d’onore non è andato neanche in prigione. Però alla fine la moglie ritorna.

- Moravia pensava proprio a "la maschera e il volto" di Chiarelli quando scriveva gli indifferenti, poiché più
avanti nella storia ci sarà un inetto che vuole uccidere ma non ci riesce (quest'influenza oggi quasi non si
ricorda.)

- “mah sarà …. Sempre annoiato a morte” a Leo il teatro non interessa perché vive la vita, lui quando va lì si
annoia perché non capisce che il teatro è lo specchio sia di lui stesso che della società.
- “abituale e angosciosa fosse la scena che aveva davanti agli occhi” Abbiamo sempre il collegamento con il
teatro.

-“la vita non cambia non vuole cambiare”

- Saltiamo la parte in cui parla la madre, e parla male di un'altra donna, uguale a lei, ed essendo
economicamente nei guai come lei, sfrutta l'amante per farsi comprare i vestiti ecc. Andiamo avanti fino a
quando non entra in scena Michele, fratello di Carla e il protagonista di questa storia.

- Carla, schifata da questo dialogo tra la madre e Leo, se ne va, esce dalla stanza e incontra il fratello.

- “… e prima di tutto che siamo rovinati” Anche la loro famiglia è rovinata, forse prima era una famiglia
borghese ma sta perdendo tutto, piena di debiti. Leo, che da alcuni anni si è attaccato a questa famiglia
come una sanguisuga con la finzione di tenere alla mamma e di aiutare, ma in realtà vuole impadronirsi di
tutto, approfittando di questa situazione di indigenza. Michele se n’è accorto e ora vorrebbe ribellarsi come
voleva farlo Carla.

-“ ….tutto questo mi è indifferente” Compare per la prima volta la parola chiave che è servita a Moravia per il
titolo: "indifferente". Quando rivide il testo per l’ultima volta prima di pubblicarlo, si accorse che i personaggi
pronunciavano questa parola continuamente. Usavano questa parola per risultare superiori al crollo e alla
decadenza morale della loro famiglia, ma in realtà usano questa maschera per nascondere la realtà di un
crollo interiore a cui sono tutti condannati. E quindi Moravia va dall'editore, cancella "la palude" e scrive "gli
indifferenti".

- Michele entra nella scena e non c'è vero dialogo tra Michele e Leo perché Michele appena vede Leo non
gli rivolge la parola, invece Leo parla a lui direttament. Michele vorrebbe ribellarsi, dirgli in faccia quello che
pensa di lui, cacciarlo di casa ma NON CI RIESCE perché è UN INETTO. Un po' come nella COSCIENZA DI
ZENO. Michele è in piccolo tutto quello che c’è stato nei romanzi di Svevo che Moravia ha letto e da cui è
stato influenzato.

-“che bel vestito che hai ” Leo prende in giro Michele perché sa che non ha soldi per comprarsene di nuovi.

-“sono stato dal tuo amministratore Leo” ma Leo svia il discorso.

- Alla fine nell'ultima parte del capitolo si alzano tutti per andare alla cena.

- “alla porta si fermarono…. Posandogli una mano sulla spalla” è la finta familiarità che Leo vuole avere con
tutti i membri della famiglia a cui lui sta succhiando il sangue.

-“ cediamo il posto …. Nel corridoio dietro la madre” Michele non aveva il coraggio di parlare.

Poeti del secondo 900’


Oggi ritorniamo un po’ alla poesia, perché dopo che l’interno borghese descritto da Moravia che era un po’
deprimente, ma in generale anche le ambientazioni dei romanzi e dei racconti di Moravia, dal momento che
sono una descrizione realistica della società borghese italiana del ‘900, sono quasi sempre un po’ deprimenti
e soprattutto, privi di quei valori morali che invece noi vorremmo vedere comunicati dalla letteratura, valori di
generosità, di bontà, quei valori umani che noi vorremmo vedere anche essenziali nei rapporti fra gli esseri
umani, cose che invece abbiamo visto in alcuni testi poetici, dei valori molto belli ed importanti, che certe
volte anche la narrativa, la prosa, il romanzo, i racconti riescono a trasmetterci, abbiamo visto anche con
l’ironia ed il grottesco di Pirandello, anche in una novella come La Giara emergevano dei valori di ribellione,
di libertà rispetto alla costrizione di una società patriarcale dominante rispetto ai subalterni e invece c’era
anche questo spirito di ribellione a cui Pirandello sta attento; oppure se torniamo indietro anche nei Promessi
Sposi c’è un messaggio di speranza, di riscatto degli umili, delle classi più basse, più disagiate, rispetto alle
prepotenze e alle violenze di chi sta sopra ad esempio Don Rodrigo, gli Spagnoli, le classi dominanti; e
invece in Moravia, eravamo discesi un po’ più in basso, ma perché quella era anche la situazione concreta e
reale dell’Italia negli anni del fascismo, ricordiamo quale era il vero titolo de ‘’GLI INDIFFERENTI’’ che era
‘’LA PALUDE’’, vi era veramente questa idea di una palude, dalla quale poi anche i giovani protagonisti Carla
e il fratello Michele, che vorrebbero cercare di uscire, ma la loro è una ribellione vana, non riescono a farlo.
Una cosa simile vi era anche in molti intellettuali italiani di quel periodo, sia dell’epoca fascista ma anche
negli anni successivi. Che cosa succede nella metà del ‘900? Il grande episodio che coinvolge tutta
l’umanità è la seconda guerra mondiale. Le due grandi guerre mondiali sono i due episodi fondamentali della
storia del ‘900, due guerre mondiali per la prima volta. La guerra che purtroppo è uno degli elementi
ricorrenti nella storia dell’umanità, sembra che l’uomo non riesca a farne a meno, vi è come una specie di
malattia insita in questo strano animale che è l’uomo, un po’ lo aveva già detto Italo Svevo, dopo aver scritto
un intero romanzo di introspezione psicologica della coscienza di un solo uomo, poi quel finale sorprendente
ha trasferito questa idea di malattia che interessava solamente il Signor Zeno all’intera umanità; la malattia è
la vita, è l’intera umanità che è malata, malata di sete di dominio, di possesso, di violenza, di prepotenza, e
alla fine nell’ultima immagine di un piccolo uomo, però un po’ più malato degli altri che alla fine porterà quasi
alla distruzione l’intero genere umano. Svevo morì negli anni ’20 per un incidente automobilistico, non visse
un po’ più a lungo, altrimenti avrebbe potuto vedere, non tanto l’ascesa di Mussolini in Italia, ma quel piccolo
uomo malato sembrerebbe più l’ascesa di Hitler in Germania. Fortunatamente nella letteratura, c’è anche la
voce della poesia, che ci porta un messaggio diverso, migliore di quello della realtà che ci circonda, e questo
avviene anche nella metà del ‘990. La seconda guerra mondiale da alcuni storici è considerata una seconda
puntata della prima guerra mondiale, alcuni storici dicono che in realtà le due grandi guerre mondiali è come
se fossero un’unica grande guerra mondiale con una pausa intermedia, una specie di armistizio di 20 anni,
la cosiddetta Pace di Versailles sarebbe stata nient’altro che una specie di armistizio e poi si sarebbe ripreso
a combattere dopo pochi anni. Quindi un’unica grande guerra mondiale, che segna la fine di tutta la società
precedente, il mondo dell’800, la BELL’EPOQUE, in cui la cultura europea e la cultura occidentale erano
arrivate al massimo grado di sviluppo e di dominio rispetto al resto del mondo, con il massimo grado di
sviluppo tecnologico della rivoluzione industriale e di conquista coloniale ed imperiale del resto del mondo.
Prima della prima guerra mondiale, quasi tutto il resto del mondo era occupato anche da colonie dei grandi
stati europei, e anche gli Stati Uniti stavano cominciando ad occupare delle altre parti del mondo, le
Filippine, Cuba… Questa unica grande guerra mondiale è in realtà lo scontro di tutti i vari imperialismi che si
trovano nel continente europeo che coinvolgono il resto del mondo e anche l’imperialismo giapponese che
invece invade la Cina, vittima appunto dell’imperialismo giapponese in quel periodo, Giappone che è alleato
con Hitler e Mussolini, l’ASSE, le potenze dell’Asse, dall’altro lato le democrazie occidentali, gli Stati Uniti e
anche la Cina che riesce a resistere al Giappone. Questa lotta enorme di popoli che poi porta alla fine della
seconda guerra mondiale, con la sconfitta delle potenze dell’Asse, della Germania, dell’Italia e del Giappone
e porta la speranza anche di un nuovo ordine mondiale, la nascita delle Nazioni Unite, ma tutto questo si
rivela di nuovo una grande illusione perché la guerra continua, ma nella forma della Guerra Fredda,
dell’equilibrio tra le grandi superpotenze, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, basato anche sul controllo della
potenza nucleare. Quindi il ‘900 che noi ci siamo lasciati alle spalle, è un secolo molto difficile, molto duro,
per questi scenari che ci sono sullo sfondo che corrisponde ad uno straordinario progresso della tecnologia
e dell’industria in tutti i campi, grandissime scoperte scientifiche, come la scoperta dell’energia nucleare, la
diffusione quindi della tecnologia e del benessere in tutti i campi, a qualunque livello, la diffusione del
benessere anche agli strati più bassi della popolazione, e questo porterà ad uno sviluppo nel ‘900 della
civiltà, delle masse. Questo influisce anche sulle dinamiche della produzione culturale, della letteratura, della
poesia. La cultura, la poesia, la letteratura, le arti, prima della rivoluzione industriale, della civiltà di massa e
della cultura delle masse, erano qualcosa di quasi riservato ad una ristretta èlite della popolazione, a quella
classe ristretta di persone che sapevano leggere e scrivere, tutti gli altri ne erano esclusi ed il loro accesso
alla cultura era solo nelle forme della cultura popolare, dell’oralità, della cultura religiosa, quindi della chiesa
o delle altre religioni del mondo, che potevano mandare questo messaggio anche a livello popolare, ma per
il resto tutte le altre forme che noi studiamo, che consideriamo nella storia della letteratura italiana erano
riservate solo ad una ristretta èlite sociale, mentre tutti gli altri ne erano esclusi. Questo riguarda l’Italia ma
riguarda anche tutti gli altri i paesi del mondo, ad esempio in Cina l’elite culturale, all’epoca dell’impero, era
molto ristretta, quella dei mandarini, dei funzionari dello stato, della corte imperiale, mentre tutto il resto della
popolazione cinese era estraneo alla cultura e, solamente nel ‘900 invece, l’intera Cina e anche tutto il
popolo cinese è arrivato ad una alfabetizzazione di massa e ad una cultura ampliata a tutto il popolo. La
stessa cosa vale anche per la cultura italiana, quindi quando noi parliamo di cultura di letteratura, di poesia
del ‘900, dobbiamo fare i conti con questo allargamento ad una cultura di massa. Non sempre i letterati e i
poeti se ne sono resi conto nel ‘900, uno dei pochi è stato Pasolini, che ad un certo punto voleva parlare
direttamente al popolo, alle masse e si rendeva conto di questo grande cambiamento antrolpologico che noi
abbiamo nella letteratura.

Ritorniamo ad alcuni testi di poesia della metà del ‘900 e del secondo ‘900. Alcune figure di poeti che
attraversano l’esperienza della seconda guerra mondiale, mentre i poeti che abbiamo letto avevano vissuto
di direttamente o indirettamente il periodo della prima guerra mondiale e quindi erano anche stati influenzati
da quella tragedia collettiva, da questa idea della morte, della distruzione che c’era nella prima guerra
mondiale, ricordiamo soprattutto la poesia di Ungaretti, però questo stesso senso di angoscia affiora poi
anche negli atri grandi poeti dell’epoca, soprattutto Montale. I poeti che leggeremo adesso, invece
appartengono alla generazione successiva e sono poeti nati durante o dopo la prima guerra mondiale,
vivono l’esperienza della seconda guerra mondiale che significa anche la disfatta dell’Italia, la resistenza, la
guerra di liberazione e per alcuni di loro, che erano soldati durante la guerra, anche l’esperienza della
prigionia e del ritorno in Italia e poi l’esperienza della rinascita dell’Italia dopo le distruzioni della seconda
guerra mondiale.

In quella decina di anni, in cui l’Italia era veramente stata completamente distrutta, un po’, meno della
Germania e del Giappone, ma comunque l’Italia era stata molto distrutta ed era stata per quasi due anni
teatro di una guerra che l’ha attraversata da sud a nord, interamente, nessun punto dell’Italia è stato
risparmiato dalla guerra, dall’avanzata degli alleati e dalla guerra partigiana. L’Italia in quei due anni ha
vissuto forse gli anni peggiori della sua storia dal ’43 al ’45, e dopo però ha saputo risollevarsi nel periodo
degli anni ’40 e ’50, periodo di grande rinascita delle forze morali del paese, le giovani generazioni che
ricominciavano a ricostruire il paese d’Italia anche con le speranze della fondazione di una nuova
democrazia della repubblica che prendeva il posto della monarchia. Questo porta anche ad una rinascita
economica, che viene chiamata ‘’miracolo economico’’. In questa nuova Italia, quale è la voce dei poeti che
si afferma dopo la seconda guerra mondiale? Intanto c’è ancora la voce dei poeti precedenti, che sono
ancora vivi ed attivi, poeti come Ungaretti, Montale, Quasimodo, Umberto Saba, che attraversano anche la
seconda guerra mondiale e quindi continuano a scrivere poesie molto importanti anche in questo periodo.
Abbiamo già letto qualche poesia di Montale scritta dopo la seconda guerra mondiale, quando anche la
poesia di Montale cambia un po’.

Una caratteristica di questi poeti del secondo dopoguerra, della seconda metà del ‘900, che possiamo notare
è la persistenza di due linee principali di poesia, che derivano dalla prima metà del ‘900: una linea che
continua l’ERMETISMO, che come influenza poetica (secondo il professore) non è mai stata una vera e
propria scuola poetica, di poeti che hanno proprio una specie di tesserino su cui c’è scritto poeta ermetico
come professione (colui che scrive in modo chiuso, misterioso e non si capisce che cosa voglia dire).
(secondo il professore) è esistito invece un gruppo di poeti che in un certo periodo sentiva il bisogno di fare
poesia con quel tipo di parole, con quelle immagini, con l’uso di simboli un po’ chiusi, di enigmi quasi, una
poesia enigmatica. Questo tipo di poesia che si serve di simboli, di metafore, di utilizzare le cose della realtà,
i paesaggi, le piante, gli oggetti che ci circondano, resta anche dopo la guerra. Questa potrebbe essere una
cosa un po’ strana, perché durante la seconda guerra mondiale, il periodo della resistenza, della liberazione,
è un periodo in cui c’è un grande ritorno alla realtà, quindi si vuole abbandonare la cultura retorica del
periodo fascista e l’istanza che viene un po’ dalla società anche per i letterati e per i poeti è quella di
ritornare alla realtà. Quindi vi sono i valori della resistenza, della libertà, della lotta, della nuova repubblica
che sta nascendo, e questo trova uno spazio ad esempio nella narrativa e nel cinema, e si chiamerà il
NEOREALISMO, in particolare è importante nel cinema. Scrittori come Pavese, Vittorini, il giovane Pasolini,
e poi il cinema con Visconti, Rossellini, De Sica, tutti questi personaggi rappresentano l’Italia povera, che è
uscita dalla guerra, città in rovina, periferie, emigranti, all’epoca erano tutti italiani, siciliani e meridionali che
emigravano verso il nord, in cerca di un lavoro, in cerca di un qualcosa da mangiare, in cerca di fortuna,
oppure emigravano in Germania, in Belgio, in Svizzera… Il cinema del neorealismo rappresenta tutto
questo: le periferie urbane, gli eventi della guerra, l’istanza di realtà. E invece è strano che nella poesia resti
ancora una linea un po’ ermetica, resta questa caratteristica nella poesia italiana e resta anche un forte
legame con la tradizione. La grande letteratura italiana ha avuto poeti come Dante, Petrarca, arriviamo poi a
Leopardi ed è quindi impossibile per i nostri poeti, quelli più contemporanei, quelli più vicini al nostro tempo
non dialogare con Petrarca o con Leopardi, in questo momento quindi questo dialogo con la tradizione
continua nella poesia italiana. Si continua ad usare anche delle parole molto antiche, della letteratura
medievale, o di quella romantica, non c’è mai una censura, un taglio completo rispetto alla poesia del
passato, c’è una sostanziale continuità nella nostra poesia, e questa è una linea che noi vediamo
nell’ermetismo che alcuni critici chiamano del modernismo o della letteratura novecentesca. L’altra linea,
anche quella nata agli inizi del ‘900 invece ed era di una apparentemente semplice, dimessa, colloquiale,
quasi una poesia di tutti i giorni, di parole consunte dall’uso come diceva Umberto Saba, e la poesia delle
cose umili, delle cose di tutti i giorni è la poesia di Gozzano, dei poeti CREPUSCOLARI. Questa quindi è
l’altra linea di poesia, che noi troviamo ad esempio anche in Pascoli (il primo Pascoli, quello di Myricae, della
vita nei campi, dei contadini, della natura, altra linea di poesia che viene seguita in questo periodo, ad
esempio Pasolini si avvicina di più a Pascoli, Gozzano, Umberto Saba.

Quindi ci sono due linee del ‘900: da un lato una poesia difficile ed ermetica, e dall’altro una poesia più
semplice e quotidiana. Nei poeti del secondo novecento però queste due linee cominciano ad incontrarsi,
quindi lo stesso poeta utilizza dei simboli, delle parole difficili ma contemporaneamente cerca anche di
raccontare se stesso, la propria esperienza biografica, la propria dimensione esistenziale agganciandosi alla
vita di tutti i giorni. Quindi cerca di superare questo divario tra una poesia astratta, che sembra al di fuori
della realtà, ed una poesia che invece si lega interamente alla vita di tutti i giorni.

Vittorio Sereni
Questo è l’esempio del primo poeta che leggiamo: VITTORIO SERENI, poeta che nasce in un territorio di
confine, poeta del nord, di un piccolo paese che affaccia sul lago Maggiore, confine tra Piemonte e
Lombardia, zona dei grandi laghi, zona di confine tra la pianura, la montagna ed i laghi, che spesso
compaiono nel mondo della letteratura, che vengono raccontati dagli scrittori, dai romanzieri, da Alessandro
Manzoni ad esempio, che ambienta in una parte del lago di Como, tutto l’inizio e gran parte dei Promessi
Sposi, abbiamo anche delle scene dove si passa il lago in barca, come l’Addio Monti di Lucia, che è
ambientato sul lago di Como, abbiamo poi il lago Maggiore, molto evocativo anche per i viaggiatori stranieri
in epoca romantica, luoghi che attirano per la loro bellezza, anche abbastanza nebbiosi, vi è un senso di
confine, confine anche reale perché i luoghi di nascita di Vittorio Sereni sono anche il punto di confine tra
l’Italia e la Svizzera, il Cantòn Ticino. Vittorio Sereni nasce a Luino, piccola cittadina sul lago Maggiore nel
1913 e muore a Milano nel 1983, quindi è legato alla cultura lombarda e alla cultura milanese. La sua vita
non è stata una vita avventurosa, non c’è praticamente nulla da ricordare della vita di Sereni, tranne un
episodio che segna la sua vita ovvero la partecipazione alla seconda guerra mondiale come soldato ed è
quindi poi coinvolto nella disfatta, nella sconfitta dell’Italia nella guerra ed è uno dei tantissimi soldati italiani
che vengono fatti prigionieri in Africa. Egli faceva parte delle truppe italiane in Libia, quindi quando l’Italia
viene sconfitta anche Sereni viene catturato, è un giovane soldato e passa degli anni in prigionia in Algeria,
non era una prigionia dorata, era molto dura, anche se molto meno dura dei campi di concentramento, dei
lager tedeschi, è comunque però un’esperienza esistenziale forte che segna anche la sua scrittura poetica.
Da questo momento in poi lui vive gli anni di prigionia, li sente e poi li racconta nelle sue poesie come un
qualcosa che poi va oltre la sua esperienza individuale, la sente un po’ come esperienza dell’umanità intera,
e scrive un libro di poesie che si intitola ‘’DIARIO D’ALGERIA’’, poesie che scrive in questo periodo, in cui
medita sul senso di precarietà dell’esistenza umana, anche a contatto con il deserto, che circonda questo
campo di prigionieri e di soldati, la fragilità della persona umana di fronte all’immensità della natura, anche il
senso di morte, di precarietà appunto che investe la nostra vita, l’esperienza della guerra e della prigionia.
Quando poi ritorna dalla guerra Sereni si fa anche molto prendere da un’altra tematica che percorre la
letteratura italiana contemporanea della seconda metà del ‘900 cioè il valore del lavoro umano, il lavoro è
quella parte della vita umana in cui l’essere umano esprime qualcosa al di fuori di sé per mezzo del lavoro,
costruendo case, oggetti, per mezzo del lavoro industriale, ed è qualcosa che entra molto nelle discussioni e
nella produzione letteraria di questo periodo. Se ne interessano Vittorini, altri scrittori dell’epoca ad esempio
Pasolini, il lavoro umano che spesso è u lavoro sfruttato, soprattutto nel capitalismo l’essere umano rischia
di essere sfruttato nel lavoro in fabbrica, nel lavoro nei campi, rischia di essere portato all’alienazione e a
perdere se stesso dal punto di vista della dignità umana, e Sereni si occupa anche di questo confronto tra
letteratura ed industria, è uno dei poeti che va in fabbrica a descrivere il lavoro umano.
Nella sua poesia notiamo questo passaggio dall’ermetismo all’esistenzialismo, e quindi diventa una poesia
dell’esistenza umana, basata soprattutto sull’esistenza di oggetti, di cose, di piante, creature della natura, a
cui si agganciano i ricordi dell’esistenza, i ricordi della vita. Il poeta ha bisogno di queste cose concrete che
sono intorno a noi e non dei simboli, questi diventano anche dei simboli ma non sono astratti, sono concreti,
è quello che il grande poeta inglese Eliot chiama il correlativo oggettivo, qualcosa di concreto nella vita che
assume un livello simbolico e universale, quindi quell’oggetto, quella pianta, quell’uccello, quell’animale, se
acquista questo valore simbolico diventa un correlativo oggettivo di una sensazione, di un sentimento, di un
momento di tristezza, dell’idea della vita o di quella della non vita e della morte.

Lo stile di Sereni è uno stile molto semplice che si avvicina alla lingua quotidiana e anche lui si avvicina alla
prosa, addirittura nelle poesie che scriverà quando andrà in fabbrica, quando parla con gli operai, saranno
dei versi talmente lunghi che sembrano quasi prosa; quindi una poesia colloquiale, all’inizio narrativa, perché
lui parte sempre con un’immagine in cui sembra che stia descrivendo un’immagine della vita quotidiana,
oppure un momento della propria vita che sta ricordando, e passa poi ad un livello lirico e ci accorgiamo di
questo passaggio dall’uso delle figure retoriche. Quando cominciamo in questo inizio colloquiale di prosa
narrativa cominciano ad emergere metafore oppure delle figure di parola, di posizione, le anafore, le
ripetizioni delle parole, il gioco su alcuni elementi fonici, cioè di suono interno delle parole, di consonanti, di
vocali; è una poesia libera, non ci sono dei versi tutti uguali tra di loro, non ci sono delle rime regolari, ma
ogni tanto compaiono, così come compaiono assonanze, consonanze, i fenomeni di suono e di ritmo, che
sono tipici della poesia del ‘900, non solo italiana, ma anche delle altre letterature del ‘900, che si liberano
dalle costrizioni della metrica del passato, per cercare di avvicinarsi di più alla realtà che viviamo nel nostro
tempo.

Leggiamo questa poesia, questa è una delle più antiche, del primo Sereni, di Sereni prima della guerra e
prima della prigionia e compare in una delle sue prime raccolte poetiche, forse proprio nella prima raccolta
poetica, che si intitola ‘’FRONTIERA’’. Egli è un poeta di confine, e confine anche in senso metaforico,
simbolico, è un poeta che si colloca in ‘’between’’, in una zona di confine, di sospensione, in quella del lago
in cui lui è nato, tra la vita e la non vita, tra il presente e i ricordi del passato, e lui avverte la vita come un
qualcosa di fragile, di preziosissimo, sospeso fra queste diverse condizioni.

FRONTIERA è del 1941, quindi siamo proprio in un momento prima della sua partenza in Africa e quindi
anche prima della prigionia. E’ una poesia brave, ma bellissima, è una specie di ricordo della fidanzata, della
ragazza amata, che per lui in questo momento forse di lontananza si incarna soprattutto in una serie di
ricordi, ma sono dei ricordi bellissimi che si legano a loro volta a degli oggetti, a dei movimenti concreti della
vita.

In me il tuo ricordo

da "Frontiera"

In me il tuo ricordo è un fruscìo

solo di velocipedi che vanno

quietamente là dove l'altezza

del meriggio discende

al più fiammante vespero

tra cancelli e case

e sospirosi declivi

di finestre riaperte sull'estate.

Solo, di me, distante

dura un lamento di treni,


d'anime che se ne vanno.

E là leggera te ne vai sul vento,

ti perdi nella sera.

ANALISI DEL TESTO

Guardiamo la poesia da un punto di vista formale. Gli accenti naturali nella poesia italiana sono l’elemento di
base del ritmo, a differenza della poesia classica, greca e latina, ma anche della poesia cinese e russa, nella
poesia italiana il ritmo è dato dagli accenti naturali delle parole, non ci sono altri elementi. In altre lingue ci
sono degli elementi melodici, come in cinese che sale e scende, i toni, come nella musica; in altre lingue c’è
la durata delle sillabe, nelle lingue classiche, nel tedesco, nel russo, ma in italiano questi elementi non ci
sono. Quindi ogni poesia di ogni lingua è diversa anche per le caratteristiche linguistiche di quella lingua, di
quella cultura. In italiano questi elementi non ci sono, anche se noi nella recitazione saliamo e scendiamo un
po’, quindi un po’ di musica c’è sempre nella poesia. In italiano contano gli accenti naturali delle parole, sono
quelli che determinano il verso e sostanzialmente l’elemento principale che noi dobbiamo guardare in un
verso di poesia italiana è, se l’accento cade all’inizio oppure un pochino dopo, cioè se cade sulla prima
sillaba o sulla seconda o sulla terza; questo determina il ritmo discendente o ascendente: se l’accento cade
all’inizio inizio cioè sulla prima sillaba il ritmo è discendente, perché l’emissione di fiato avviene subito,
all’inizio e poi discende in attesa dell’accento successivo; se invece l’accento è sulla seconda o terza sillaba,
noi chiamiamo questo ritmo ascendente e questo crea, soprattutto nella successione dei versi, quando i
versi come in questa poesia, che continuano uno dietro l’altro senza interruzioni, non ci sono nemmeno i
segni di interpunzione, bisogna andare avanti fino alla fine, fino al verso 8 senza interromperci, e per di più
tra un verso e un altro abbiamo anche la figura metrica dell’enjambement, dell’inarcatura, del passaggio da
un verso ad un altro, ed è come se fosse un’onda continua di ritmo, che viene determinata dai primi accenti
del primo verso: in me il tuo ricordo…

E’ quindi un ritmo ascendente, perché il primo accento importante: in me, il tuo, ricordo, è fortemente
spostato sulla seconda sillaba, sulla terza, e poi di nuovo sulla O di ricordo, quindi è un ritmo molto
cadenzato, ma ascendente, che ci porta in avanti. Lo stesso ritmo della poesia ci dà un senso di leggerezza,
di movimento, qualcosa che si sta muovendo, anche prima ancora di capire il significato delle parole, solo i
ritmi, le i versi ci hanno dato questo movimento, noi siamo in movimento e poi, quando riusciamo a capire le
parole cominciamo anche a capire perché. C’è un’immagine bellissima di una ragazza su una bicicletta, che
sta correndo via nel vento, un’immagine di vita; sempre per i poeti il movimento, tutto ciò che si muove è
simbolo della vita, è vitale, è ciò che vive, come l’acqua, come l’aria, come gli elementi naturali, e quello che
invece sta fermo, è un’immagine della morte, come nella pittura, la famosa natura morta, sono degli oggetti
immobili, fermi.

Il primo verso è un verso che ci dà anche un senso sonoro con la parola ‘’fruscìo’’, con questi accenti che ci
portano in avanti, con una scansione: in me il tuo ricordo, lo avvertiamo come un verso, dovrebbero essere 9
sillabe, ma se aggiungiamo anche ‘’è un fruscìo’’, questa parte successiva, arriviamo quasi alla misura del
verso classico della letteratura italiana che è l’endecasillabo, e anche quello dopo è un endecasillabo, e
anche quello dopo ancora lo è: ‘’solo di velocipedi che vanno /quietamente là dove l'altezza’’; i primi tre versi
sono addirittura degli endecasillabi, quindi sono dei versi classici della letteratura italiana, ma non sono
separati tra loro, sono un’onda continua, un ritmo che va in avanti come quello di una bicicletta, una specie
di fruscìo che va in avanti.

In tutto questo, la parola chiave è quella iniziale: Ricordo.

Il poeta non sta descrivendo qualcosa che avviene davanti ai suoi occhi.

Le prime tre parole sono fondamentali: In me il tuo ricordo. C’è una relazione tra l’io e il tu, una forte funzione
conativa, il poeta si rivolge ad un interlocutore, in questo caso una interlocutrice. Un po’ come la poesia “A
Silvia” di Leopardi, è una poesia in cui il poeta si rivolge alla persona amata e cerca un contatto con lei, in
questo caso basato sul ricordo. Il ricordo di lei che affiora nella memoria del poeta, ed è fatto di sensazioni,
di suoni.
Il primo elemento del ricordo è un suono, il suono del fruscio, delle ruote, del passaggio di una bicicletta la
quale produce un suono simile ad un fruscio (rumore delle ruote sul selciato, della catena o dei pedali).

Un fruscio può essere quello delle foglie, o il rumore di una piccola creatura che si muove nel bosco tra le
foglie, quindi è un rumore che ci dà l'idea di un movimento leggero, di qualcosa che passa e se ne va.

-“è un fruscio solo di velocipedi”: velocipede è una parola rara, antica, quindi meno usata nel lessico normale
(noi diremmo “bicicletta”).

È una parola che ha un unico accento principale al centro e che quindi rende il verso solo con tre accenti
principali.

Quando c’è molta distanza tra un accento è un altro, nella recitazione, siamo costretti ad accelerare la
pronuncia delle sillabe, e questo dà una maggiore velocità al verso. Anche nella poesia latina antica, i poeti
classici, come Virgilio, sapevano bene che se volevano rappresentare nei versi un movimento, dovevamo
usare degli accenti molto distanziati; di conseguenza, nella pronuncia delle sillabe, il verso scorre più
velocemente, dà un’impressione di velocità, però è una velocità tranquilla, non affannata. La ragazza non
fugge, sta facendo una gita in bicicletta e va quietamente, quindi dà un’ idea di serenità e tranquillità.

-In che direzione? “là dove l'altezza del meriggio discende”.

-meriggio: tramonto. Qui vale come metonimia per indicare il sole; sole che sta scendendo da una posizione
alta nel cielo, e sta scendendo “al più fiammante vespero”.

Possiamo notare come in una prosa colloquiale il poeta inserisca parole difficili, parole tecniche (velocipide,
invece di bicicletta) e poi parole del lessico poetico antico e non della lingua di tutti i giorni.

Ad esempio usa meriggio, invece di pomeriggio. È una parola che torna con Montale(“meriggiare pallido e
assorto”), ma anche nella poesia classica.

Anche “vespero” è una parola antica latina usata dai poeti, invece di dire sera.

-“fiammante vespero”: la sera fiammeggiante, quando il tramonto si colora di rosso/arancione e sembrano


quasi delle fiamme, sembra che il cielo si incendia all’orizzonte nel momento del tramonto.

La ragazza in bicicletta va verso il tramonto, dove il cielo si sta colorando di rosso e sta diventando una sera
fiammeggiante “tra cancelli e case

e sospirosi declivi”.

-Declivi: altra parola antica, è il pendio di una collina. Non è la parete scoscesa di una montagna che scende
a picco dentro il lago, come il lago di Como (montagne alte che scendono a picco nell’acqua). Le sponde del
lago Maggiore, come il lago di Garda, sono contornate da colline abbastanza dolci, con delle ville, villaggi e
paesi.

-“tra cancelli e case e sospirosi declivi”: quindi cancelli e case, pendii di colline sospirosi. Gli elementi della
natura sono quasi personificati. Questi pendii e colline sono così dolci che sembrerebbero sospirare.
-“di finestre riaperte sull'estate”: indicazione del tempo, della stagione in cui è avvenuta questa corsa in
bicicletta. Il poeta ha visto davanti a sé questa ragazza che passava in bicicletta, sullo sfondo del tramonto, i
viali, i cancelli delle ville e il lago in lontananza.

Il poeta ha avuto davanti a sé l’apparizione della ragazza amata, un po’ come la Beatrice di Dante. Quando
Beatrice apparirà a Dante, a lui sembrerà una visione che non riuscirà a dimenticare più, iniziando a
descriverla nelle poesie (“tanto gentile e tanto onesta pare”).

Questa è una visione come quelle di Beatrice, che Dante poi ci racconta nel suo ricordo. È una cosa molto
simile a quella delle poesie stilnoviste (Cavalcanti e Guinizzelli); è come la poesia antica, medievale dei poeti
provenzali, ma è tutta MODERNA e CONTEMPORANEA: è l’immagine di una ragazza in bicicletta, che non
viene descritta dalla realtà, ma dal ricordo, è l’immagine del ricordo, l’immagine della memoria.

I tre versi finali sono,invece, più tristi e amari. Questo contrasto lo avvertiamo molto di più perché lui ci ha
descritto tutta la dimensione del ricordo utilizzando il presente, e non l’imperfetto per indicare una
dimensione sognante.

Ha descritto la dimensione memoriale al presente: “il tuo ricordo è…”, quindi sta ricordando in questo
momento.

Quello che c’è dentro il ricordo, però, si dovrebbe descrivere usando un verbo al passato, invece il poeta ha
continuato ad usare il presente (le biciclette che vanno, il sole che scende ecc..).

Questo perché il ricordo e la memoria ci fanno tornare nel presente di quel passato che abbiamo vissuto; e
questo è nella memoria, nel ricordo, nel sogno ma è anche il potere della poesia, quello di far tornare
presente qualcosa che abbiamo vissuto.

Ma i tre versi finali no. Ci riportano al presente del poeta, quello che di lui è fuori del ricordo.

-“Solo, di me, distante dura un lamento di treni, d'anime che se ne vanno”: qui possiamo capire qual è la sua
relazione rispetto alla ragazza amata, la quale è distante e lontana. Lui se n'è andato ed è rimasto solo.

Da notare l’anafora della parola “solo”. Non si può dire se è un aggettivo o un avverbio. Una caratteristica dei
poeti è quella di giocare anche sull’ambiguità sintattica e grammaticale. Alcune volte le parole possono
essere sia una parte che l’altra del discorso.

Questa parola in anafora all’inizio del ricordo di lei, e all’inizio dei tre versi di lui lontano ha un forte
significato: è l’elemento che lega lei nel ricordo e lui lontano che la sta ricordando.

Può avere diversi significati: 1) Nel primo verso può essere interpretato come avverbio (solamente) o
aggettivo (tra le tante biciclette riconosco SOLO il fruscio della tua, un fruscio solo e isolato rispetto agli altri
suoni della natura)

2)fruscio… solo: possibile enjambement che lega le due parole

3)all’inizio dei tre versi conclusivi della strofa, “solo” è una parola isolata e potrebbe essere un aggettivo
riferito a lui (io sono rimasto qui da solo). Può anche essere un avverbio (solamente; cosa resta solamente di
me, solo un lamento di treni).

-ho il desiderio di te, ma ti posso vedere solo nel mio ricordo, mentre io sono rimasto qui da solo.

-lamento di treni: suono che fa da antitesi al suono leggero e felice del fruscio della bicicletta della ragazza.
Fa da contrappunto il lamento, cioè un suono di sofferenza e di dolore.
Il suono dello sferragliare di un treno, o il fischio di un treno che parte, suono che è un correlativo oggettivo
di sofferenza perché di divisione dalla persona amata; il lamento dei treni è un suono di separazione.

Come correlativo oggettivo, viene spiegato subito dal verso successivo, è come se fosse una specie di
spiegazione: “anime che se ne vanno”.

I treni che si lamentano sono anime di persone che si allontanano, si distaccano tra di loro, è il lamento e il
dolore della separazione.

La parola “vanno” è figura metrica opposta dell’anafora, ovvero l’epifora (o omoteleuto). Non è una rima, è la
parola intera che viene ripetuta. Così come l’anafora viene ripetuta all’inizio del verso, l’epifora è una parola
identica che viene ripetuta alla fine di un verso o di un’unità sintattica.

Nella prima parte della poesia “le biciclette che VANNO” è un andare, però non un lasciarsi è un essere in
movimento, un vivere, è l’immagine quindi di lei che vive, che va nella vita, che si muove verso il sole al
tramonto, in questo bellissimo paesaggio del lago. Alla fine della strofa “anime che se ne VANNO” : la parola
è la stessa, ma il significato è diverso, le anime che se ne vanno è come l’anima di un emigrante, di una
persona che lascia la sua terra, che la lascia per sempre per emigrare, per andare in un altro paese oppure
un innamorato che lascia la propria fidanzata nel momento in cui sta partendo per fare il soldato, non si sa,
poche la poesia mantiene sempre il grado di ambiguità, di mistero; non si sa quando l’ha scritta, là si può
ipotizzare che il treno sta portando via loro soldati per portarli a Genova o a Napoli, al punto d’imbarco di una
nave che poi lo deve portare in Africa, forse a morire o non si sa, quindi potrebbe indicare la partenza di lui
soldato è il distacco da lei, e tra tutti i suoi ricordi c’è solo questo di lei sulla bicicletta. Quindi con l’ambiguità
sintattica si può far indicare ad un’unica sola parola tante più cose che con la lingua normale non potremmo
dire.

*I tre versi finali della strofa hanno un ritmo discendente perché il primo accento è sulla prima sillaba; è un
ritmo cadenzato che si riferisce a questa condizione di dolore e di sofferenza del poeta nel momento del
distacco.

•è presente un’isotopia che è legata al movimento, e all’andare, la quale è legato ad alcuni oggetti che sono i
velocipedi e sono i treni sono opposti tra di loro perché la velocipede è un mezzo di locomozione
strettamente legato a noi essere umani, c’è bisogno di una collaborazione tra uomo e strumento, bisogna
pedalare è quindi uno strumento umano; il treno ha una caratteristica meccanica, quasi di autonomia, i poeti
fra 800-900 usano spesso l’immagine del treno nei loro racconti, e nelle loro poesie, è un’immagine che
ritorna spesso nella letteratura, ma di solito è in immagine negativa, il treno viene visto come un sibilo del
progresso, ma spesso è anche visto come un mostro, soprattutto quelli antichi visto come una macchina
infernale.

Anche l’idea del vento e del fruscio sono legati al movimento, così come i verbi “vanno” “discende” —> idea
di un movimento in discesa

“E lá leggera te ne vai sul vento

ti perdi nella sera”


Questi versi sono staccati perché ritornano all’immagine di lei nel ricordo, che diventa un’immagine eterna
che non si può cambiare e lui si porta dentro in questa partenza perché non sa se ritornerà, se la rivedrà
mai. Ma si porta dentro di sé quest'immagine di bellezza e di vita che lo farà andare avanti e gli dà speranza
ed amore.

I due versi finali ci riportano ad un ritmo ascendente, è il ritmo di lei che continua ad andarsene, leggera
nella sera. La sua corsa in bicicletta diventa una corsa che non finisce più, non ha un termine e ne un punto
d’arrivo è un andare e basta ci da l’idea di leggerezza (percepito nella prima parte della poesia).

-lá—> perché l'avverbio di luogo indica un altrove, è una dimensione che non è più la sua, perché il treno lo
ha portato via, lo ha portato in guerra e lei invece è rimasta lá per sempre.

•abbiamo sentito i suoni : il fruscio della bicicletta ed il lamento del treno

•abbiamo i segni del tempo (anno e stagioni): meriggio,vespero,estate, sera

•Forte anafora: solo

•Forte epifora : vanno

Il senso generale della poesia è quindi: il ricordo di lei è qualcosa che si allontana, che scende (perché
l’isotopia dell’ andare diventa un’isotopia dell’ andare in discesa”), a poco a poco peró dolcemente,
tranquillamente e non veloce come un treno, ma come questa bicicletta da passeggio.

Da un punto di vista dell’intertestualità: ci sono molti collegamenti che il poeta presenta come il tema del
ricordo (Montale, Carducci, Leopardi); poi ci sono gli oggetti che ritroviamo nella poesia contemporanea
(treno) poi c’è l’immagine della sera (Pascoli, Foscolo).

C’è l’uso delle analogie per cui alcuni di questi elementi naturali, per analogia vengono personificati o
acquistano delle caratteristiche che sono del tutto poetiche: “fiammante vespero” significa una sera tutta
rossa come se fosse di fuoco come se ci fosse un incendio è in analogia; così come “sospirosi” che può
essere il sospiro del poeta che fa quando vedo la fanciulla passare; oppure i treni che si lamentano, ma
normalmente i treni non dicano nulla, ma si lamenta il passeggero se il treno è in ritardo, ma il per i poeti
anche i treni si lamentano.

Ci sono tutte queste analogie perché rappresenta il saluto degli amanti, forse è l’ultima volta che si vedono,
prima della sua partenza e questo ricordo in lui è il ricordo del saluto tra i due.

È un un’unica strofa, verso libero novecentesco.

I due versi di chiusa hanno una caratteristica antica, poiché nei due versi finali, il poeta si rivolge a lei che se
ne va, questa è una caratteristica di tutti i poeti medievali, provenzali, stilnovo, Dante e Petrarca, cioè
chiudere la poesia con due versi di congedo, di saluto e la maggior parte delle volte questo saluto viene fatto
o alla donna amata o alla poesia stessa “io ti lascio, tu vattene leggera leggera e raggiungi la mia
innamorata e dille quanto è bella”.
Sintassi: semplice, colloquiale tre periodi, e solo subordinata relativa —> massimo della semplicità.

*ricordo che il poeta ha di lei nel momento del distacco, tutto ciò si incarna in una maniera visiva e percettiva

*non ha un titolo e ha il le parole dei primi versi.

Abbiamo letto l’altra volta la poesia “in me il tuo ricordo”, dove troviamo immagine della ragazza amata dal
poeta, nel ricordo che lui conserva dopo un distacco, una separazione, e di conseguenza anche il dolore, la
sofferenza e come tutto questo nella poesia si incarna nella rappresentazione quasi visiva ovvero oggettiva
di elementi del paesaggio, di cose, di oggetti, di momenti del giorno o della stagione, che il poeta inglese
Eliot chiamava il correlativo oggettivo che è proprio una delle caratteristiche dello stile di Vittorio Sereni. La
poesia precedente non aveva titolo, “in me il tuo ricordo” sono le stesse parole dell’inizio. Certe volte il poeta
non scrive un titolo e quindi noi chiamiamo la poesia con le prime parole di essa; altre volte, invece, il poeta
lo scrive. Il titolo appartiene a quella parte del testo letterario che noi chiamiamo il paratesto. Il paratesto è
composto dal titolo, ma anche dai testi d’ingresso, le cosiddette soglie, ovvero la prefazione, la premessa,
l’introduzione e poi ci sono le soglie d’uscita quindi l’epilogo, la conclusione, il congedo, gli ultimi versi di una
poesia. Il paratesto è importante specie quand’è opera dello stesso autore, perché la sua intenzionalità, la
sua volontà artistica si riconosce anche in questi elementi, perché è proprio lì che l’autore ci lancia dei
messaggi dotati di significato. Il titolo è un elemento altrettanto importante, anche se bisogna saper
distinguere tra quello che voleva l’autore e quello che ci hanno dato gli altri dopo – un esempio può essere
Dante che voleva chiamare la sua più grande opera “comedìa”, <divina> è stato aggiunto successivamente
da Boccaccio. Basti ricordare la brevissima poesia di Ungaretti “il porto sepolto”, il titolo è tutto, perché
nell’opera non si parla di porti sepolti o sommersi, senza quel titolo noi non capiremmo molto di ciò che c’è
dietro quei pochi versi, non avremmo il rinvio all’antica legenda del porto di Alessandria d’Egitto sprofondato
nel mare e quindi completamente dimenticato. Quindi il titolo, quando c’è, è importante. Nel caso della
poesia “ancora sulla strada di Zenna” è importantissimo perché noi troviamo un nome proprio, un nome
geografico (il nome proprio vale per il nome di una persona, di un popolo, per i nomi geografici). È un
elemento che serve a noi e al poeta ad identificare un luogo (in latino hic et nunc – qui e ora, adesso,
posizione esistenziale nel tempo e nello spazio), in questo caso ci troviamo ancora sulla strada di Zenna
(nota per spiegare il titolo: la poesia precedente -non letta- si intitola “sulla strada di Zenna”, la poesia
analizzata dal professore la segue. Questa è una poesia come “il porto sepolto” di Ungaretti, una delle
poesie in cui il poeta rivela la propria poetica, cioè i segreti del mestiere e crea un tipo testo che definiamo
metapoetico, metaletterario, ovvero testi in cui il poeta racconta o presenta il proprio modo di scrivere, di fare
poesia. Questa poesia quindi è metapoetica perché al centro di essa compare il titolo dell’intera raccolta
poetica a cui questa poesia appartiene. La prima poesia, “in me il tuo ricordo”, fa parte della prima raccolta
poetica del giovane Sereni, intitolata frontiera e già ci dà l’idea di qualcosa al limite, al confine tra realtà e
ricordo, come idea della vita stessa che è qualcosa di sospeso tra la vita e la morte, fra l’essere e il non
essere. Questa seconda, “ancora sulla strada di Zenna”, racconta di quando Vittorio Sereni era tornato dalla
prigionia e ricorda quella forte esperienza esistenziale vissuta al confine con il deserto, immagine del nulla,
del non essere. Queste forti esperienze esistenziali sono momenti in cui la fragilità dell’essere si mette
proprio a confronto con l’infinito (l’infinito di Leopardi), andando oltre il limite che invece ci pone la natura
come creature viventi, come mortali. Allora tutto questo viene espresso in un nome geografico, ma davanti
ad esso c’è un’altra parola chiave, la parola strada. La parola strada si lega all’isotonia dell’andare; in una
strada non si sta fermi, ci si muove, si va avanti. In questa poesia Sereni sta descrivendo un piccolo viaggio
in automobile lungo la strada della costiera del Lago Maggiore. L’idea dell’andare è una delle dominanti in
tutta la poesia di Sereni e si associa all’idea della vita: la nostra vita è un continuo andare, un muoverci, un
camminare, un movimento. Dal punto di vista formale ci dà già una differenza rispetto alle opere precedenti
del giovane Sereni e anche alle poesie del Diario d’Algeria - sono delle poesie brevi, con dei versi che sono
spesso quelli tradizionali; il più lungo è un endecasillabo e poi quelli brevi sono settenari, senari, ottonari, a
seconda del numero delle sillabe, però è anche un unico periodo, un'unica onda ritmica che non si arresta.
Qui invece la poesia è cambiata molto, lo vediamo anche visivamente, troviamo dei versi molto lunghi, è una
poesia libera con misure irregolari, tutte diverse, sono dei versi lunghi che corrispondono di solito anche
all’unità sintattica, quindi magari è un’intera frase che arriva fino alla fine del verso. Ci sono pochi
enjambement, pochi collegamenti sintattici da un verso all’altro quindi è una poesia che anche nella
dimensione del verso si avvicina molto alla prosa, cioè alla lingua di tutti i giorni. È una poesia molto
semplice, come quella di Umberto Saba, è un superamento della dimensione dell’ermetismo, della poesia
invece alta, raffinata, poco comprensibile se non agli iniziati di quel linguaggio quando il poeta si considerava
un sacerdote della parola che va a scoprire i segreti nascosti nelle profondità dell’animo umano, che si serve
di simboli, di parole difficili e termini oscuri, e noi dobbiamo difficilmente a nostra volta cercare di interpretare
per costruire il cammino del poeta e farci anche noi, insieme a lui, palombari, sommozzatori, scendere
sott’acqua e trovare la verità insieme al poeta. Invece questa è la linea di Pascoli, Saba, della poesia
semplice, dell’esperienza esistenziale di tutti i giorni e ciò che incontra il poeta sono le cose del mondo
comune, del mondo di tutti noi. Non c’è una dimensione eroica come quella di d’Annunzio, non è una
dimensione sovraumana, è la dimensione normale, quotidiana di tutti noi. All’interno di questa poesia
l’espressione chiave che noi troveremo al centro è il titolo della raccolta, sono gli strumenti umani. Questa
parola indica le cose che noi esseri umani, nel cammino dalla dimensione animale a quella dell’homo
sapiens, nel cammino verso la civilizzazione, abbiamo fatto nostre, sono dei prolungamenti della nostra
umanità, degli strumenti che ci servono per vivere. Vittorio Sereni andrà anche in fabbrica, condividerà la
condizione degli operai, scriverà anche delle poesie sulle condizioni del lavoro. In fabbrica si interroga anche
di questo, non vuole che ci si dimentichi la dimensione umana del lavoro e anche degli strumenti di lavoro,
tutto ciò che ci circonda è una proiezione del lavoro umano. Questa è la proiezione dell’uomo nel mondo, del
sé fuori di sé, talvolta è una proiezione anche aggressiva, distruttiva e autodistruttiva. Questa raccolta
poetica, quindi, si intitola proprio strumenti umani. Siamo nel 1965 e ci troviamo sulla strada di Zenna, ultimo
paesino italiano sul lago maggiore prima del confine svizzero - a Sereni piacciono i luoghi di confine, il non
capire se è di qua o di là, quindi ha un valore simbolico per lui dire: “sono sulla strada di Zenna”.

Mentre nella poesia precedente il poeta è fermo e osserva la ragazza passare in bicicletta, in questa è in
movimento, guida pericolosamente mentre osserva il paesaggio, questo mondo apparente in movimento
attorno a lui, ma in realtà è lui che si muove.

Perché quelle piante turbate m'inteneriscono?

Forse perché (riferimento al sonetto di foscolo “alla sera”) ridicono che il verde si rinnova

a ogni primavera, ma non rifiorisce la gioia?

La poesia comincia con delle domande: la prima domanda parte da un’immagine che gli passa davanti agli
occhi mentre l’automobile va verso Zenna, quella delle piante turbate. Il passaggio di quest’automobile crea
un po’ di vento e fa muovere le foglie degli alberi, delle piante che circondano la strada lungo il lago. Lui
viene colpito da questo movimento delle foglie al suo passaggio, è avviene quasi un dialogo tra le piante ed
il poeta. Non è la prima volta che accade nella poesia, basti pensare a Carducci e alla sua poesia “davanti
San Guido”, dove il poeta è sul treno che sta attraversando la maremma toscana e quando passa dopo la
marina di Bibbona vede il luogo dove lui è nato, il paesino dove viveva da bambino e c’era ancora un
bellissimo viale di cipressi che saliva verso il paesino originario di Carducci. Lui vede questi alberi e ha
l’impressione che queste piante gli parlino, che ci sia una comunicazione tra lui che sta passando e queste
creature della natura, le piante gli dicono qualcosa della sua infanzia, della sua vita e così accade anche a
Sereni. Perché queste piante turbate? È lui stesso che con il suo passaggio, con l’aria che ha smosso, ha
fatto muovere le foglie e i rami delle piante. Si domanda perché queste piante turbate lo inteneriscano, lo
commuovano dento. Poi si dà una risposta, ma se la dà sempre in forma dubitativa, come domanda. Forse
la pianta lo ha commosso perché gli dà un messaggio, e questo messaggio è che il verde si rinnova ogni
primavera. Per illusione della vita la primavera è la vita che rinasce, i fiori, gli animali che fanno festa, la luce
del cielo. Poi troviamo la pienezza dell’estate, le foglie che cadono, l’autunno, e infine la morte dell’inverno.
Ma per noi esseri umani non rifiorisce la gioia, la nostra primavera (e qui riprende Leopardi) quand’è finita
non torna. La vita umana è fatta di stagioni, c’è la nascita, poi c’è la primavera, l’adolescenza, la giovinezza,
quando noi sbocciamo come dei fiori, mettiamo il verde - anche questo è Petrarca, lui sogna questi colori per
designare le stagioni, ma anche l’età della vita umana, l’età verde della vita umana, la primavera quando gli
alberi rimettono le foglie, i prati si colorano di nuovo di verde, quando prima erano marroni, se non bianchi
coperti di neve o di ghiaccio dell’inverno. Tutto rinasce, tutto rifiorisce nella natura, tutto ritorna, c’è l’illusione
della vita, perché la vita è qualcosa di ciclico, di perenne e di universale che, per noi esseri umani abbiamo
un’unica esistenza, non si ripete. Prima entra la primavera, poi incomincia l’estate, quando finisce l’estate c’è
l’autunno della nostra vita e poi ci sarà l’inverno, l’ultima stagione della vita e non rifiorisce la gioia che ho
provato da giovane, il primo amore, la ragazza in bicicletta, non tornerà mai più.

Vittorio sereni disse che quando scriveva questa poesia era ossessionato dalla bellissima opera teatrale di
Čechov (il grande scrittore russo)” lo zio Vanja” , un testo straordinariamente moderno, in quest’opera c’è
tutta questa dimensione di personaggi che avrebbero voluto vivere in un modo ma non l’hanno fatto ed
hanno perso per sempre quel momento della loro vita , hanno perso quel momento in cui potevano amare
ma non l’hanno fatto, quel personaggio Vanja poteva dichiarare il suo amore e fare sua la giovane Elena ma
non l’ha fatto ed è ormai troppo tardi. Quando si incontrano dopo anni, Vanja cerca di dichiarare il suo amore
ma è ormai troppo tardi, non è più possibile. Quindi queste parole sono le parole di Vanja anche se sono
molto diverse, Sereni le riprende a memoria, le ha fatte sue, le ha trasformate in una dimensione diversa, più
universale, più poetica e che ne risente anche dell’influenza di Petrarca e di Leopardi. Esattamente che cosa
dice Vanja a Elena in questa scena d’amore che non riescono a realizzare. essenzialmente Elena è sposata
con un vecchio professore e di conseguenza non sarà mai sua. Vanja dice “ora tornerá la pioggia e tutta la
natura sarà rinfrescata, solo io non tornerò alla vita…più avanti dice nulla cambia” E Sereni ha ripreso
questo passaggio. Ma adesso lui risponde in un altro modo, rovesciando un po’ i termini, non parliamo più di
primavera, non mi lamento della giovinezza perduta… Questa non è la primavera, ma è estate, questo
momento della mia vita è estate, è come Dante che dice “nel mezzo del cammin di nostra vita…” Questo è il
momento centrale della sua vita, il momento della maturità, il momento dell’estate, il momento della
pienezza, è l’estate, l’estate dei miei anni. È un po’ come l’inizio della commedia di Dante, il poeta ci dice
“nel mezzo del cammin di nostra vita…” anche con un certo ottimismo, perché in realtà lui morirà meno di
vent’anni dopo. Per Dante era la stessa cosa, perché questa sua celebre frase, è carica di ottimismo, lui a
35 anni ma non morirà a 70anni, morirà prima.

Sotto i miei occhi portata dalla corsa la costa va formandosi immutata da sempre e non la muta ricordate
Čechov nulla cambia e nulla cambierà, la frase di zio Vanja, frase terribile che ti toglie anche speranza nella
vita, quella speranza di cambiamento, di cambiare il mondo che ci circonda, NULLA CAMBIA E NULLA
CAMBIERÀ.

Sotto i miei occhi portata dalla corsa

la costa va formandosi immutata

da sempre e non la muta il mio rumore

né, più fondo, quel repentino vento che la turba

e alla prossima svolta, forse finirà.

Il mondo che ci circonda, nulla cambia e nulla cambierà, tutto questo universo immenso, il piccolo essere
umano che lo attraversa sposta un po’ d’aria, fa muovere un poco la foglia dell’albero, poi sparito
all’orizzonte e le foglie sono rimaste lì, e nulla cambia e nulla cambierà quel repentino vento che la turba non
tramuta il mio umore, quel piccolo passaggio della vita dell’essere umano è una cosa del tutto trascurabile
nell’ordine universale della natura. E io potrò per ciò che muta disperarmi, l’essere umano è superbo
(ricordiamo la Ginestra di Leopardi), noi ci crediamo il centro dell’universo, allora se mi accorgo di questo
nulla cambia e nulla cambierà, e la mia esistenza non ha niente.

E io potrò per ciò che muta disperarmi


portare attorno il capo bruciante di dolore.

Ma l'opaca trafila delle cose

che là dietro indovino

A questo punto ci sono 2 punti: c’è una ECOMERAZIONE, non sono le cose che lui realmente vede
andando sulla strada di Zenna ma le indovina. Perché dalla strada non si vede tutto questo che ci dirà, però
lui sa che c’è. È normale che ci siano, in una strada di campagna, dietro gli alberi, sulle rive del lago ci
saranno case di contadini, ci sono tutti gli strumenti umani della vita. È quindi lui ci numera gli strumenti
umani: la carrucola nel pozzo e la spola della teleferica nei boschi. Non ci sono solo strumenti ma anche
qualche elemento di modernità tecnologica, qui c’è una montagna che domani il lago maggiore e c’è però
anche un’antica teleferica i minimi atti, i poveri strumenti umani avvinti alla catena della necessità, la lenza
buttata a vuoto nei secoli, le scarse vite, che all'occhio di chi torna e trova che nulla è veramente mutato >
filigrana di questa poesia si ripetono identiche, quelle agitate braccia che presto ricadranno, quelle
inutilmente fresche mani che si tendono a me e il privilegio del moto mi rinfacciano. Questo attraversamento
è come una foresta di cose o di segni che ci danno dei messaggi da decodificare come in Corrispondenze di
Boudler.

Questi segni sono: la carrucola nel pozzo = questa è una citazione da Montale, cigola la carrucola nel pozzo,
e anche in Montale, Sereni riconosce questa caratteristica, quante volte In Montale ci sono gli umili dettagli
della vita quotidiana. La spola di una teleferica = cioè questo andare avanti e indietro, attenzione che questi
strumenti umani qui sono legati a un’altra ISOTOPIA Noi abbiamo visto L’ISOTOPIA DELL’ANDARE che è
una caratteristica proprio di noi esseri umani, che fin dagli albori della preistoria, noi siamo creature in
movimento, se il Signore ci ha creato, ci ha creato come migranti (Adamo ed Eva primi due migranti della
storia) -> loro sarebbero nati nel paradiso terrestre, cittadini del paradiso terrestre, e poi migranti. Gli esseri
umani sono per definizione migranti e quindi legati a questa specie di destino dell’andare, di camminare,
dello spostarsi verso altri continenti, per colonizzarli, per cercare cibo…, Ma in realtà anche noi siamo dentro
la natura, e anche noi siamo legati a questa legge universale della RIPETIZIONE. Gli strumenti umani di cui
parla Sereni sono infatti legati tutti all’ISOTOPIA DELLA RIPETIZIONE, sono movimenti che si ripetono
ciclicamente, come la vita a questo punto delle piante, degli animali, del nulla cambia e nulla cambierà.
Anche noi ci siamo dentro, crediamo di no, ma in realtà ci siamo dentro, se accettassimo questa cosa
avremmo una vita con più serenità con la natura. Il messaggio che ci lancia Sereni, la carrucola nel pozzo,
sale e scende, il secchio che scende giù per tirare l’acqua e poi continua a girare con una piccola rotella che
gira la carrucola nel pozzo. La spola della teleferica, anche qui ci sono delle carrucole sui cavi della
teleferica e c’è questa cabina che sale e scende, e ripete questo movimento, come tutti movimenti umani
degli strumenti che usiamo nel lavoro: il martello, l’incudine, la fabbrica…, c’è una ripetizione che può
diventare anche alienante, alienazione, ma in sé non è né positiva né negativa è la realtà della vita
universale. La lenza, la catena della necessità, la necessità universale, la lenza buttata a vuoto nei secoli,
quante volte il pescatore ha buttato la lenza, di 10 volte 1 volta ha preso il pesce e altre milioni e miliardi di
volte che una lenza è stata buttata avanti nei millenni di storia dell’umanità, Lenza come dimensione umana,
le scimmie non la usavano e noi l’abbiamo inventata, questo piccolo, minuscolo, strumento umano con il
quale ci procacciamo nutrimento dal mare.

le scarse vite, che all'occhio di chi torna

e trova che nulla nulla è veramente mutato

si ripetono identiche,
Alla fine ogni esistenza, ogni vita ha degli elementi di ripetizione, anche se poi ogni vita e ogni esistenza ha
degli elementi di unicità. Quelle agitate braccia che presto ricadranno, quelle inutilmente fresche mani che si
tendono a me e il privilegio del moto mi rinfacciano. Qui è ritornato ai rami degli alberi, che sono diventati
metafora, i rami sono come delle braccia, se togliamo il come dalla comparazione arriviamo alla metafora, le
braccia, i rami degli alberi agitati dal vento dell’automobile che presto diverranno del misero passato, anche
loro ritorneranno immobili. Quelle fresche mani, perché sono questi rami degli alberi che si sono appena
rivestiti di foglioline verdi, e che si tendono, e il privilegio del moto mi rinfacciano, quasi come se vedesse la
pianta come essere vivente condannata a stare nel luogo dove è nata. La pianta non è un essere migrante,
anche se in realtà migrano anche loro con i semi, popolando territori, anche le piante camminano come
specie, ma la singola creatura non si può muovere perché fa le radici, come cerchiamo di fare anche noi nel
mondo in cui ci troviamo poi però dobbiamo muoverci, viaggiare, migrare.. e perdiamo le radici, perdiamo
l’identità. Invece mettiamoci dal punto di vista della pianta, che vede passare l’essere umano su
un’automobile, beato lui che può girare, che può vedere il mondo, ognuno può avere invidia dell’altra
creatura. Leonardo Da Vinci non guardava gli uccelli pensando, beato lui che può volare!? E sognava per
tutta la vita di poterli imitare. E qui la pianta rinfaccia al poeta il privilegio del moto, beato te essere umano, tu
almeno ti puoi muovere, però stai più sereno, stai più contento della tua condizione esistenziale, non ti
lamentare troppo, più di me tu hai il privilegio del moto, almeno puoi girare , puoi vedere il mondo. Quindi lo
stile del poeta è diventato uno STILE NOMINALE: ma l'opaca trafila delle cose che là dietro indovino io lo
sento di più come un verbo all’interno della subordinata, abbiamo visto che anche qui la sintassi è molto
semplice, pochissima subordinazione, c’è ipotassi, oggetti, cose, strumenti che passano davanti agli occhi. E
lo stile nominale è presente anche nell’ultima strofa, non c’è verbo. Dunque pietà per le turbate piante
evocate per poco nella spirale del vento che presto da me arretreranno via via salutando. Ed ecco già
mutato il mio rumore s'impunta un attimo e poi si sfrena fuori da sonni enormi e un altro paesaggio gira e
passa. Dunque pietà è un’esclamazione, verbo sottinteso, dunque invoco pietà non significa
commiserazione per gli alberi, pietà qui ha il valore originario etimologico della parola latina PIETAS, (altro
grande poeta a cui sereni si rifà è Virgilio) pietas significa un senso di compartecipazione del destino,
dell’esistenza da parte dell’uomo nei confronti delle altre creature e viceversa. Le piante hanno pietas di noi,
e noi abbiamo pietas per loro, è un desiderio di trovare un elemento di comunicazione tra l’essere umano e
la natura che lo circonda. Dunque pietà per le turbate piante evocate per poco nella spirale del vento che
presto da me arretreranno via via salutando. Lui vede nello specchietto retrovisore dell’automobile, la
macchina si allontana e lui vede le piante e ha l’impressione, il moto apparente, sono le piante che si stanno
allontanando da lui e il movimento della fronda, che come una mano di queste braccia, le fresche braccia,
cioè i rami in verde, sono come delle mani che lo stanno salutando. Ed ecco già mutato il mio rumore
s'impunta un attimo e poi si sfrena fuori da sonni enormi e un altro paesaggio gira e passa. Ed ecco già
mutato il mio rumore s'impunta un attimo e poi si sfrena (siamo ad un giro di curva, deve cambiare marcia).
L’automobile ha svoltato la curva e un altro paesaggio arriva, non ci sono più quegli alberi, le montagne
lontane. Fuori da sonni enormi, più che sonni sono sogni, come se tutto quello che lui avesse immaginato
prima: queste piante turbate, poi tutte quelle immagini che gli sono venute davanti agli occhi come se fosse
un sogno, e quella macchina lo ha portato via. Quindi è come se fosse quasi trascinato dalla macchina,
come il treno della poesia precedente, la macchina è uno strumento, anche questo è uno strumento umano,
come il treno o l’aereo, è uno strumento umano più complesso e più grosso che ti porta via con tutto il tuo
corpo e ti porta altrove e un altro paesaggio gira e passa. Anche qui c’è questa idea del passare, dello
scorrere della vita, dell’esistenza, che non si arresta. In questa poesia abbiamo visto che ci sono degli
elementi del paesaggio, cioè delle piante che si sono umanizzate, sono diventa come degli esseri umani ,
perché all’inizio e alla fine della poesia , è questa strana comunicazione che è nata tra il poeta e le piante , il
punto di contatto tra loro è stato questo venticello che ha smosso le fronde delle piante , comunque c’è stato
questo collegamento, lui forse ha capito un po’ di più la dimensione delle creature del mondo della natura e
anche le piante hanno interagito con lui , e anzi lo hanno quasi invidiato il privilegio del moto. Quindi c’è stata
una comunicazione tra uomo e elemento naturale. Uno dei temi fondamentali, ripreso da Čechov è quello
del te lo perduto, della giovinezza perduta, in cui sembra che invece le piante e le creature della natura ti
insegnino a superare questo dolore, perché anche tu sei un essere dentro la natura, non devi considerarti
estraneo ad essa o nemico della natura, ma devi accettare questa condizione di stare dentro la natura,
anche tu sottoposto alle sue leggi, a questa immensa ruota della vita. Abbiamo visto la citazione a Čechov
che vale solo per la parte iniziale, perché lui non condivide quelle frasi di Varja, non le condivide nel loro
pessimismo esistenziale, lui va oltre, così come la sua automobile. In questa c’è una specie di metamorfosi
alla fine, perché questo scambio tra piante e gli esseri umani, questa comunicazione tra uomo e natura c’è
una metamorfosi, metamorfosi che significa cambiamento, in questa poesia si descrive il cambiamento, che
arriva un po’ nella parte finale, nell’ultimo verso. Il senso della metamorfosi noi lo ritroviamo in altri grandi
poeti dell’antichità ma anche nella letteratura italiana. Per l’’antichità Ovidio poeta latino, autore del poema
intitolato proprio le Metamorfosi, in cui molto spesso gli esseri umani vittime dell’incontro con gli dei
diventano piante, l’esempio più famoso, che poi diventa il simbolo della donna amata da Petrarca, è la
povera Dafne che si trasforma in alberi di lauro o di alloro. Quindi abbiamo questa idea che ritorna con le
stesse metafore che troviamo in Ovidio e in Petrarca , le braccia, il turbamento delle piante , che è un
turbamento, la parola turbare ha un significato oggettivo cioè smuovere, turbare l’acqua significa smuoverla,
ma anche sollevare la polvere o la sabbia dal fondale , e renderla torbida, ma turbare è anche un movimento
interiore, che deriva dal turbare l’acqua che da limpida diventa torbida , ma il turbare è anche dentro di noi,
l’anima umana , il cuore che scosso da qualcosa, un emozione, un dolere , diventa torbido , diventa opaco,
non ci si vede più dentro, prima era limpido come un cristallo e il turbamento vi porta a questa condizione di
opacità dell’anima e del cuore , quindi anche la parola turbare, le piante turbate , il poeta è turbato, c’è
questa dimensione.

QUESTA È UNA POESIA DI METAMORFOSI, in cui c’è questa relazione tra queste piante e il poeta.

Giorgio Caproni
Giorgio Caproni ha origini toscane, nasce a Livorno nel 1912, più vive una parte della sua vita a Genova e la
parte finale della sua vita a Roma dove muore nel 1990.

Qualche anno fa il professore andando in giro Roma nel quartiere di Monteverde, ritrovando i luoghi dove ha
vissuto Pierpaolo Pasolini, è andato a vedere il palazzo in cui abitava lui nel periodo dopo aver pubblicato
“Ragazzi di Vita” ha scoperto che in quella palazzina-condominio vivevano Pasolini con la madre, l’ingegnere
Carlo Emilio Gadda, il poeta Bertolucci e Giorgio Caproni, quindi che bella assemblea condominiale.

Giorgio Caproni ce lo ritroviamo di nuovo come Sereni, su una strada molto simile. Scrive poesie influenzate
molto dall’ermetismo, e poi pian piano anche lui come Sereni scopre una poesia colloquiale, quelle che
leggeremo dopo.

L’inizio di Caproni è un inizio un po’ ermetico, poesie un po’ difficili da capire e anche legate a uno sforzo
metrico e formale non indifferente, perché ogni tanto anche i poeti contemporanei cercano un dialogo con la
tradizione e quindi ci sono delle forme metriche antiche che però vanno a scandinare dall’interno.

Pensiamo a Pasolini che riprende le terzine da Dante perché lui si sente come Dante (la commedia,
l’inferno) tenendolo sempre nelle opere di Pasolini e quindi usa le terzine per descrivere il mondo con grafici.

Così all’inizio anche Caproni riprende la forma metrica più famosa ed usata della poesia italiana che è il
sonetto, la forma metrica nata proprio alle origini con i primi poeti della poesia italiana: i siciliani, lo stilnovo,
Dante, Cavalcanti, Petrarca (ne fa uso ossessivo nel Canzoniere), i petrarchisti.

Caproni usa proprio questa metrica ma la usa in modo strano. I poeti quando scrivono i sonetti vediamo
subito la divisione in quartine, terzine, e quindi vediamo subito le rime, ma in Caproni no, lui le scrive tutte di
seguito e quasi non te ne accorgi, ma uno che ha occhio o abitudine alla poesia di Petrarca, di Vega se ne
accorge subito. E quindi è un gioco che Cabroni fa con le poesie del passato, e anche i significati e le parole
che usa sono in parte parole antiche e all’inizio sono dei simboli che non si comprendono facilmente e quindi
bisogna fare un po’ di sforzo per entrare nella poesia e capire l’importanza delle cose che ci vuole
comunicare perché poi si scopre che c’è sempre un fondo di realtà, non sono enigmi allo stato puro come le
poesie di Quasimodo o di Cardarelli. Ci sono delle cose reali davanti ai suoi occhi anche molto tragiche che
lui riesce ad esprimere solo in questo modo. Talmente sono tragiche non riesce a capire come sono
successe perché sono troppo tragiche. E allora ha bisogno della forma ermetica per esprimere queste
tragedie della vita, e l’esempio migliore è proprio questa poesia che si intitola “1944”, titolo fondamentale
perché senza non avremmo nessun aggancio, non capiremmo niente, a differenza della “Strada per Zenna”
che è il nome proprio di un luogo geografico, questa è una data che è un nome proprio temporale, che
indicano un punto nel tempo.

Così l’immaginazione ci trasporta nel 1944 che non è proprio l’anno più felice e sereno della storia
dell’umanità, che se siamo fortunati ci teletrasportiamo sulla strada di Bahia, o Copacabana, ma se siamo
sfortunati ci troviamo nei fili spinati di Aushwitz, sotto i bombardamenti di Dresda, a Napoli a fare la fame o in
un sommergibile che sta affondando. Questo è il momento più terrificante e tragico della seconda guerra
mondiale, il momento di maggiore attività dei lager dei nazisti, è un anno terrificante e mostruoso in cui
anche l’Italia vive i suoi momenti peggiori come la battaglia di Cassino, le forze alleate e quelle artigiane
inchiodate dalle linee difensive tedesche, è un’Italia distrutta, stravolta, ancora occupata dai nazifascisti con
rastrellamenti, massacri, Marzabotto, Sant’Anna, le fucilazioni dei partigiani.

Questo non lo sapremmo senza il titolo che guida l’interpretazione, nello scoprire dietro i simboli la scena
che il poeta sta cercando di descriverci che scopriremo essere purtroppo una scena reale.

1944

Abbiamo detto che sono 14 versi, la misura dell’endecasillabo. Poi in realtà non ci sono le rime, ma ci sono
assonanze e consonanze (identità di vocali e consonanti): vv. 1-3 sole-fragore (assonanza) vv. 2-4 insacca-
faccia (consonanza) vv. 6-8 acqua-latta (assonanza) vv. 9-11 amore-amore una parola rima che si carica di
senso, è più di una rima. vv. poltroni-suoni-imponi rima. Tempore-amore-poltroni-suoni-imponi

sono le due terzine finali del sonetto.

È un sonetto un po’ irregolare, i versi sono endecasillabi, c’è qualche enjambement v. 3-4 fragore-di bottiglie
però non sono molto forti come un sostantivo spezzato col suo aggettivo come l’ultimo v. 12-13 tempore-
notturno che si presenta al finale della poesia come se si stesse spezzando qualcosa e si cerca che questo
tempore nella notte non si disperda.

Ma sul punto di vista del contenuto, del significato, il poeta ha descritto una scena di una fucilazione all’alba
dei partigiani, descrive la gente che sta morendo (parole chiave: morte, l’alba, la faccia del volto di una
persona che è stata coperta con un giornale, l’acqua della pioggia per terra che si mescola con il sangue,
una persona che si muove davanti a un muro, una scarica.).

L’ultimo tempore della vita che se ne va da questi corpi e la fucilazione ha un ruolo di questo giovane che sta
morendo.

È una poesia terribile ma bellissima come forza di espressione e se non ci fosse stato il titolo 1944 sarebbe
stato difficile arrivarci.

All’interno abbiamo questa linea di parole che messe una dietro l’altra ci hanno dato la scena che il poeta ci
voleva rappresentare.

Non è riuscito a farlo nella forma realistica degli scrittori neorealisti del dopoguerra ad esempio i romanzi dei
partigiani, Pettorini, il giovane Italo Calvino, in cui ci sono descrizioni degli scontri tra partigiani e fascisti,
Peppe Finoli, la letteratura della resistenza.

Invece è poeta che non riesce a descrivere queste cose in modo realistico e questo è l’unico modo in cui
riesce per esprimerci questa scena terribile in cui anche le altre immagini accadono all’alba del giorno del
momento in cui sta riprendendo la vita questa piccola cittadina con il rumore di carretti del latte sul selciato
delle cittadine che dalle campagne venivano nel centro delle città per portare le cose fresche ogni giorno. I
rumori sono collegati al rumore degli spari delle mitragliatrici si sovrappone ai rumori della vita quotidiana
che regna al mattino, delle ruote delle carrette del latte, delle bottiglie di vetro.

Vv. 1 Ahi è un’esclamazione che è come un grido di dolore.


Il cane addormentato al bordo della strada sta per essere svegliato dal primo raggio di sole, e lo riporta alla
vita di tutti i giorni.

Lì in quella piazzetta la morte è al lavoro.

Insacca perché anticamente i morti (per pestilenze o morti fucilati) si mettevano in un sacco.

Vv.4-6 L’immagine successiva è quella del risveglio della città in cui apre l’edicola e arriva il primo furgoncino
della tipografia che porta le prime copie stampate di giornale che ha ancora (v.6 afrore=) l’odore pungente di
piombo caratteristico dei giornali antichi di una volta.

Su questo morto fucilato qualcuno per pietà ha messo sul suo viso il foglio del giornale appena stampato che
ha l’odore del piombo come la pallottola di piombo che lo ha ucciso.

Vv. 6-9 immaginiamo una pozzanghera creata dalla pioggia dove si mischia il sangue.

Vv. 11 Nella parte finale il poeta è come se si rivolgesse ad una ragazza, o alla vita stessa che se ne va, o
lui si sta proiettando negli ultimi pensieri del partigiano fucilato che sta morendo, e contemporaneamente sta
riaprendo la vita al mattino, nei portoni qualcuno sta iniziando ad aprire le porte.

Quest’ultima voce alla fine della poesia che chiede all’amore, alla vita di non andarsene, di non fuggire con
l’ultimo tempore notturno, o due innamorati che si lasciano all’alba.

È questo il tema dell’antica poesia provenzale di amori illeciti, in cui in genere il lamento dell’innamorato (in
particolare della donna) chiedeva all’amante di non andarsene, è presente nel genere letterario le Albe,
nell’antica poesia medievale.

L’ultimo verso è tutta un’onomatopea: il battere dei denti, il crepitio delle pallottole sul muro, ripresa dalla
ripetizione delle consonanti dentali “del tuo tremito” (v. 14)

Le due poesie successive sono molto brevi e meno comprensibili poiché ermetiche ma meno tragiche della
precedente e più simile alla poesia di Sereni de “La Ragazza in Bicicletta”.

Basterà un soffio d’erba

Questa poesia è una poesia di addio che riguarda due innamorati che si stanno lasciando, e lei lascia lui nel
presagio d’addio, sicura di lasciarlo.

V. 6 Isotopia della freddezza, del marmo di questo amore che finisce, il calore, tepore che se ne va e resta la
freddezza di questo bacio leggero (v. 7-9) nel senso di qualcosa che finisce come le cose della natura, tipico
dei poeti.

Quindi anche nella natura con queste chiome dei pioppi, alberi che si muovono al vento, si esaudiva il
rossore del tramonto (v. 9) col venticello e la brezza. Il rossore non indica il pioppo ma il colore del tramonto.

V. 14 Il finale dice: tu già serena, ma lontana da me. Basterebbe poco perché il nostro amore fragile possa
fiorire è quello che vuole esprimere il poeta.

Preghiera

Quest’ultima poesia è semplice e bella perché la musa è stata sua madre, suo grande amore del ricordo
poiché morta giovane, e lui la ricorda sempre giovane come due innamorati. In “Preghiera” dialoga con la
propria anima, parla a se stesso, ma in realtà c’è lo sdoppiamento e parla con la propria anima
impersonificata come una ragazzina che esce da lui a cui chiede di andare a salutare la città dove viveva
con la mamma e la mamma morta, invia la propria anima a salutare la mamma lontana.

CAPRONI
Caproni appartiene a quella fascia di giovani poeti che non avevano vissuto di persona la prima guerra

mondiale ma il fascismo sì, e quindi sentivano quella mancanza di futuro che purtroppo si sarebbe realizzato

con lo scoppio della seconda guerra mondiale. Alcuni vi parteciperanno come Sereni. Giorgio Caproni

anche, vive l’esperienza della guerra, poesia ermetica, vive delle tragedie di cui non riesce a parlare

apertamente, quindi sfrutta i simboli. Abbiamo letto 1944: un soffio d’erba. Dopo la seconda guerra

mondiale questi poeti si avvicineranno alla poesia colloquiale, poesia “Preghiera” che è quasi una

canzonetta, una poesia della leggerezza che comunica in modo immediato i sentimenti del poeta, in questo

caso il suo grande amore che prova verso la madre morta da poco, ma non c’è il ricordo di questa madre

come un’anziana ma di una giovane donna. La colleghiamo alla poesia di Sereni. Un’altra poesia di Caproni

è “Congedo del viaggiatore cerimonioso”, poesia molto lunga; “La forma del poemetto”, sono 4 grandi

strofe, ci ricorda un po’ Leopardi, perché c’è una prevalenza dei versi che non vanno mai oltre

l’endecasillabo, ma al di sotto di questa misura Caproni mescola tutti i versi brevi dal quinario all’

endecasillabo, con una prevalenza del settenario, ritmo della canzone, della leggerezza. Non ci sono versi

lunghi che invece ci avvicinano alla prosa. Un’altra caratteristica di questi poeti è il bisogno di instaurare con

la poesia un dialogo con qualcun altro: es: Sereni che dialoga con la fidanzata con la quale si è distaccato,
c’è

sempre il tu e non solo l’io del poeta. Questo significa che queste poesie, la funzione conativa prevale sulla

funzione emozionale, viene proiettato tutto nella conversazione con un altro. Anche nelle poesie ermetiche,

1944 verso la fine abbiamo queste funzioni conative. Un altro elemento che prevale è la funzione fàtica, che

insiste sul contatto, cioè il momento in cui noi cerchiamo di stabilire un contatto con l’altra persona. Ad es:

“Pronto?” Non fa parte di una comunicazione vera e propria ma è quella parola che da origine al contatto

con l’altra persona e quindi l’inizio della conversazione. Il momento di contatto è quindi solitamente il saluto

che può essere anche dii addio, come nel caso della poesia di Caproni,

CONGEDO DEL VIAGGIATORE CERIMONIOSO

PRIMA STROFA:

Amici, credo che sia

meglio per me cominciare

a tirar giú la valigia.

Anche se non so bene l’ora

d’arrivo, e neppure

conosca quali stazioni

precedano la mia,

sicuri segni mi dicono,

da quanto m’è giunto all’orecchio


di questi luoghi, ch’io

vi dovrò presto lasciare.

“Congedo” saluto finale di un viaggiatore forse verso le persone rimaste alla stazione? No, ma un saluto di

un viaggiatore che scende e saluta gli altri viaggiatori che invece continuano il loro viaggio. Il titolo poteva

fermarsi a “Congedo del viaggiatore” ma Caproni sente il bisogno di aggiungere l’aggettivo “cerimonioso”.

Cerimonioso può avere una valenza sia positiva che negativa, per noi “fare cerimonie”, essere troppo

gentili/cortesi= falsità. Qui invece c’è un valore originario etimologico, atto del vivere nobile, del fare onore,

quindi è un altro tipo di comunicazione, non ha quella sfumatura negativa. Nella prima strofa non c’è

nessun endecasillabo, c’è qualche settenario ma quasi tutti sono ottonari e novenari, Gli ottonari

appartengono alla poesia popolare, in genere con degli accenti che vanno ogni due sillabe, poesia dei

menestrelli, dei cantastorie, dei poeti di piazza che imparano a memoria le filastrocche, antiche

rappresentazioni delle marionette. E infatti questa prima strofa ci ricorda un po’ una filastrocca. Quasi

nessun verso si conclude con un segno di interpunzione, questi stanno in mezzo. Ci sono un sacco di

enjambement, come se fosse un modo di parlare normale. Elemento importante. Funzione di contatto:

viaggiatore che si rivolge agli altri: “Amici”. Una personalità non cerimoniosa non si sarebbe scusata di tirar

giù la valigia e non li avrebbe ringraziati per la compagnia. Stile cerimonioso, uso dell’aggettivo, subordinate.

Si rivolge agli altri viaggiatori e li chiama amici, la prima parola è già carica di significato, parola isolata dal

resto della poesia, ricorda la parola “Fratelli” di Ungaretti, ritrovo del valore di fratellanza dei soldati che si

stanno uccidendo. Tra tutti i viaggiatori che stanno nello stesso scompartimento si è instaurato questo

“rapporto di amicizia”, valore antico, persone tra le quali qualcosa si è creato e che le stringe l’uno all’altro.

Forte presenza della seconda persona plurale, uso di un “voi” indistinto. (Potremmo essere anche noi il

“voi”?) Io e voi che però siamo accomunati non separati, anche se tra poco io vi devo lasciare comunque

siamo sullo stesso treno. E’ uno strano viaggiatore questo perché non sa bene dove sta andando, né l’ora

dell’arrivo né quali stazioni precedono la sua. Però “sicuri segni” lo avvertono che tra poco dovrà scendere,

ma quali? Alone di mistero. Verso la fine parla al passato, retrospettiva del viaggio che hanno fatto insieme,

“con voi sono stato felice”. E’ grato a oro per l’aver vissuto insieme questo viaggio. Parole come: partenza,

stazioni, il tutto si lega al viaggio che è in treno. Il viaggio a sua volta è legato all’idea di movimento e alla

grande metafora della vita umana. Tutto ciò che è in movimento in natura è vita, e questo viene reso dai

poeti con l’uso delle metafore. Dante: Commedia, l’allegoria del viaggio di tutti gli esseri umani. Possiamo

già capire che questa poesia ci sta parlando della vita umana, e probabilmente il viaggiatore cerimonioso

non è altro che il vecchio poeta che sta scrivendo questa poesia che sta quasi per morire. Il treno finché è in

movimento è in vita, quando scenderà alla stazione lui arriverà all’immobilità ma il treno continuerà a

correre. Isotopia della morte. Quindi da un lato abbiamo elementi che riconducono alla vita e altri alla
morte, sono elementi tristi ma che ci arrivano con leggerezza, il poeta vuol salvare il valore positivo che è in

quell’amicizia: quello che conta della nostra vita è il rapporto con gli altri, rapporto con i viaggiatori, lo stare

insieme, la società umana o come veniva chiamata nel Rinascimento, la civiltà della conversazione. Le

buone maniere non sono un’esteriorità priva di significato, ma Aristotele diceva che fosse una forma di

civilizzazione inventata dagli esseri umani per stare bene insieme. Non c’è niente di pesante in questo tipo

di messaggio.

Seconda strofa :

Eh sì, il viaggiatore da sicuri segni che deve scendere dal treno.

Per lui il tempo è arrivato, ma un pochino gli dispiace. Vorrebbe restare a vivere, ma non per se stesso, per

continuare a conversare con gli altri. Anche qui il valore etimologico della parola conversare conversazione.

E proprio l'idea dello stare con gli altri. Pensate che in toscano, per esempio, parlare si dice ragionare, cioè

proprio anche il pensare è qualcosa che si fa insieme parlando, ancora vorrei conversare a lungo con voi.
Ma

sia il luogo del trasferimento lo ignoro. Sento però che vi dovrò ricordare spesso nella nuova sede, mentre il

mio occhio già vede dal finestrino, oltre il fumo umido del nebbione che ci avvolge, rosso il disco della

stazione della mia, della mia stazione, solo la sua. Chiedo congedo a voi senza potervi nascondere lieve una

costernazione era così bello parlare insieme, seduti di fronte, così bello confondere i volti, fumare

scambiandoci le sigarette e tutto quel raccontare di noi, quelli inventare facile nel dire agli altri, fino a poter

confessare quanto anche messi alle strette mai avremmo osato un istante per sbaglio, confidare. Il

viaggiatore vorrebbe continuare a parlare a lungo con voi, ma si rassegna. Ma sia sia come è prescritto no,

io devo scendere, no. Ma non sa nemmeno dove sta andando. Il luogo del trasferimento lo ignoro. Adesso

scenderò a questa stazione, ma non so dove mi portano, Non so dove sto andando. Non sappiamo che cosa

c'è oltre l'ultima volta, oltre l'ultimo passaggio? No. Ignoriamo il luogo del trasferimento. Sento però che mi

dovrò ricordare spesso. No. L'illusione. Se la vita continuerà anche dall'altra parte. Vi ricorderò uno per uno.

Ricorderò questo momento la bellezza del vivere insieme nella nuova sede che non sa quale sia.

Mentre intorno al treno qual è la realtà che ci circonda? Il treno nel suo viaggiare e non è un panorama

distinguibile, è il nulla. Intorno al treno c'è una nebbia umida che avvolge tutto. Tutto è grigio e indistinto,

non si vede niente, fuori dal finestrino, molto diverso dal paesaggio di Vittorio Sereni, è il nulla.

Il viaggiatore non vede nulla fuori, tranne un'unica cosa il colore rosso del il semaforo del treno che obbliga

il treno a fermarsi, E anche qui lui dice Mia stazione, mio occhio. Questi elementi invece, con una forte

funzione emozionale, gli danno il senso della separazione adesso del suo destino da quello degli altri

viaggiatori. Ora lui sta per separarsi e allora dice chiedo congedo a voi e non vi posso nascondere che sento

dentro di me una costernazione però lieve, leggera, appena appena.

E qui c'è quasi un'antitesi tra queste due parole, perché la parola costernazione significa disperazione.
Angoscia però leggera, leggera no, giusto un poco, un poco. E qui è una di quelle antitesi non che mi fanno

pensare a Ungaretti, no? Ricordate il famoso titolo di Ungaretti? Allegria di naufragi? Naufragio, una cosa

terribile, soprattutto lo è anche oggi.

In effetti non pensate ai barconi, no, Qualcosa di terrificante se uno veramente ci pensa, no. E una barca che

si rovescia con 200 persone che non sanno nuotare e che si sentono la bocca e la gola riempire d'acqua e

poi scende, è terrificante. Ma in quel titolo non c'è questa antitesi. E qui anche la lieve, una costernazione

nel dire addio chiedo congedo.

Poi il tutto nei versi successivi si passa all'imperfetto, quindi si passa ormai già al passato che già nella

dimensione del ricordo il viaggio sta per finire e tutto è già un ricordo. Ed è nella forma dell'elegia il ricordo

bello di qualcosa però ormai finito per sempre.

Era così bello parlare, così bello confondere nella ripetizione, cioè in questo senso di malinconia, per questa

per la bellezza, la piacevolezza del conversare, del parlare, dello stare insieme, ma ormai al passato e con

dei gesti semplici della vita quotidiana e qui è fumare insieme scambiandoci le sigarette.

Anche questa è una cosa totalmente vietata nei treni di oggi. Quindi il viaggiatore di oggi non può essere

più così cerimonioso e scambiarsi le sigarette è severamente vietato. Fumare sui treni non è impossibile. E

invece anticamente io ricordo che alcuni treni a lunga percorrenza erano terrificanti. Anche gli

scompartimenti per non fumatori.

Anche lì era pieno di fumatori, No? E anche se riuscivi a stare con altri viaggiatori, non fumatori, ma dallo

scompartimento accanto e dal corridoio comunque entrava una nuvola di fumo, di sigaretta, di sigaro, di

pipa, i treni erano così anticamente non c'era il divieto di fumare. E’ tutto quel raccontare di noi nella

conversazione che cosa emerge nella conversazione? Anche anche elementi di verità non è una pura e

semplice conversazione per passare il tempo del più e del meno, ma certe volte con gli sconosciuti tu ti

metti a raccontare o a dire qualcosa di inconfessabile proprio perché sai che poi non lo rivedrai più, magari

non non dice esattamente questo è capitato, almeno però cominci a liberarti di qualcosa che senti dentro,

che mai riveliresti a a un conoscente lì dove abiti o un familiare o un amico strettissimo invece con un

compagno di viaggio che poi non rivedi più vai anche a confidare per sbaglio dei segreti inconfessabili. è un

gettare la maschera.

Ricordate Pirandello? Il tema della dell'essenza profonda dell'essere umano o di noi che ci mettiamo delle

maschere quando interagiamo con gli altri. E qui invece, a un certo punto, in questo viaggio, questi

compagni di viaggio hanno gettato la maschera, hanno anche rivelato delle cose eh inconfessabili di se

stessi. E questo mi ricorda invece l'inizio Stupendo, bellissimo tutto il primo capitolo di uno dei più bei

romanzi di Dostoevskij, L'idiota di Dostoevskij, che è tutto ambientato nello scompartimento di un treno,

dove tutti i personaggi fondamentali di questo libro per caso, si trovano a viaggiare insieme in questo
scompartimento, tra cui il principe, il giovane principe Myskin, il cosiddetto idiota, e parlano tra di loro e si

confessano tutto quello che poi sarà il motore degli eventi della del romanzo L'idiota di Dostoevskij.

Scusate, è una valigia pesante. Ricordate che deve cercare di prendere la valigia e di portarla giù. Scusate,
è

una valigia pesante, anche se non contiene granché, tanto che io mi domando perché l'ho regalata e quale

aiuto mi potrà dare poi quando l'avrò con me, ma pure la debbo portare. Non fosse che per seguire l'uso.

Lasciatemi, vi prego, basta. Ecco, ora che è nel corridoio mi sento più sciolto. Vogliate scusare. Questa
strofa

più breve inizia e finisce con la stessa parola che appartiene sempre alla funzione di contatto. Scusate,

vogliate scusare. E in mezzo c'è anche un lasciatemi vi prego passare quindi sempre la parte di linguaggio

cerimonioso no. E la strofa è anche molto realistica, perché sembra quasi di vedere questi momenti in cui lui

prende la valigia è molto pesante sta per cadere poi riesce faticosamente a portarla fuori nel corridoio e

quindi a prepararsi ad avvicinarsi poi alla porta d'uscita del vagone. Ma anche questa valigia e noi siamo

sempre in questa serie metaforica il treno il viaggio che è come la vita e questa valigia è il peso materiale

della vita che non è necessariamente le cose a cui siamo attaccati ma è tutte le cose che abbiamo vissuto

che abbiamo fatto nel corso della nostra vita che diventa a un certo punto un peso enorme da cui non

vorremmo distaccarci, c’è la fisicità del corpo, anche tutto quello che abbiamo vissuto ed è una valigia

pesante alla fine della vita.

E non sappiamo nemmeno però perché ce la stiamo portando dietro perché poi dall'altra parte, a che ci

servirà questo valigione? Non so che aiuto mi potrà dare quando l'avrò con me. Sì, l'avrò con me perché

questo per esempio è una delle immagini più terribili più agghiaccianti delle storie della Shoah che poi

erano tragedie che si sono consumate soprattutto sui treni su questi movimenti di migliaia di treni da tutta

Europa che andavano verso i campi di sterminio e molto spesso le persone c'è una domanda. (domanda in

aula : raccontava del suo viaggio )

Sì, e se uno ci pensa poi anche molte delle immagini e le narrazioni della Shoah, sono legate all'immagine

dei treni, è una delle cose che mi ha anche più sconvolto andando a visitare questi campi ad Auschwitz a

Mathausen ad Auschwitz, più perché nella parte più antica poi ci sono delle parti espositive dove sono

esposti tutti gli oggetti dei deportati e c'è un enorme stanzone con un ammasso di valigie vuote

naturalmente ma tutte le valigie con i nomi perché ognuno anche quell'ultimo momento dell'ultima

speranza che forse non sarebbe andato a morire che forse c'era ancora una speranza di vita ognuno si

portava dei valigione pesanti con tutte le ultime cose che pensava gli potessero servire nella vita quindi c'è

anche questa immagine in questa valigia pesante.

Dicevo qui riprende il discorso dalla seconda strofa dicevo che era bello stare insieme. Ricordate seconda

strofa era così bello parlare così bello confonde. Dicevo che era bello stare insieme chiacchierare. Abbiamo
visto come era importante chiacchierare, come è importante comunicare per noi esseri umani senza

comunicazione la nostra vita è niente è priva di, di significato di sale di valore.

Abbiamo avuto qualche diverbio è naturale ci siamo ed è normale anche questo, odiati su più d'un punto

quello che dice no io mi voglio vaccinare no vax, noi siamo odiati, abbiamo visto anche noi i nostri amici.

E frenati soltanto per cortesia non siamo passati ai coltelli perché siamo esseri civilizzati, per cortesia.

Quindi questo è il valore della cortesia è la civiltà umana, la civiltà della conversazione, dell'amicizia, del

venirsi incontro, del rispetto reciproco, anche di opinioni diverse. Anche se ci siamo incazzati, no e abbiamo

litigato.

Ma cosa importa? Sia come sia, torno a dirvi ancora grazie per l'ottima compagnia, ripetizione della frase

finale della prima strofa. Vi sono grato, credetemi, per l'ottima compagnia. E non è eh, è una frase

cerimoniosa, ma è vera e detta col cuore non è una finzione, potrebbe sembrare. E qui c'è ci sono tutti gli

addii. Uno per uno, non pensiamo di avere nello scompartimento tutte queste persone. Sono delle figure

ideali, perché ognuna di queste figure rinvia a un aspetto della vita.

Può essere l'amore, la gioventù, la religione sono delle figure ideali. Congedo a lei, dottore, e alla sua

facoltà. Dottrina. Congedo. Possiamo parafrasare Addio a lei, dottore, e alla sua facoltà, dottrina alla sua

cultura, alla sua sapienza. Quante volte in viaggio ci capita di trovarci di fronte a persone di grande cultura

che si mettono a parlare di tutto? Stiamo ad ascoltarli? Congedo a te, ragazzina smilza e al tuo lieve afrore
di

ricreatorio e di prato sul volto, è proprio il profumo di un profumo naturale di ricreatorio e di prato sul volo.

La cui tinta mite è sì lieve spinta. Il dottore, è simbolo della cultura. La ragazzina è il simbolo della

giovinezza, dell'amore a cui fa da corrispettivo l'immagine del militare, cioè del giovane che si innamora

della ragazzina. Congedo o militare o marinaio in terra come in cielo ed in mare, alla pace e alla guerra. E

qui nell'immagine del militare, sullo sfondo c'è anche quella negativa della guerra, cioè della violenza. Però

così come militare bello nella sua divisa e anche qui un'immagine della forza e della gioventù. E loro

continueranno il viaggio, il militare e non si sa se poi va veramente in guerra e quindi potrebbe morire. Però

allora si intuisce che il viaggio continuerà ancora per un po’ ,sono all'inizio del viaggio.

E anche a lei, sacerdote, è una figura, la più emblematica, perché il sacerdote è quello che ci dovrebbe

spiegare che altro viaggio c'è dopo la fine di questo viaggio? E anche a lei, sacerdote, congedo addio, anche

a lei, sacerdote che mi ha chiesto se io scherzava, naturalmente ho avuto in dote di credere al vero Dio.

Invece nelle conversazioni hanno anche fatto una bella discussione, il viaggiatore e il sacerdote magari

sull'esistenza di Dio. E poi, se il sacerdote gli ha chiesto ma lei ci crede veramente al vero Dio? Con grande

ironia in questa immagine finale.

Le tre figure vengono sintetizzate subito dopo, congedo alla Sapienza, congedo all’ amore, congedo anche

alla religione, ormai sono a destinazioni. Notate anche ogni tanto spuntano delle rime e queste rime sono
particolari.

Religione che fa rima con destinazione e quindi congedo alla religione, ormai sono a destinazione, se sono

arrivato alla fine della mia vita, cioè proprio oltre, non avrò più bisogno nemmeno della religione.

Qualunque cosa ci sia dall'altra parte, non ne avrò più bisogno è in questa vita che ne ho bisogno, la

religione mi dà una speranza, che la vita continua, che ci sia ancora qualcos'altro, ma dopo, quando sarò in

quell'altra dimensione, addio anche alla religione. Addio alla sapienza non ci serve più ,non ci serve più la

cultura. Addio all'amore, se c'è anche una vita oltre, sarebbe una condizione perfetta, beata, senza più

pensieri o preoccupazioni.

Ora che è più forte sento stridere il freno. Vi lascio davvero, amici. Addio. Di questo son certo io sono giunto

alla disperazione. Calma, senza sgomento.

Il treno si sta fermando e qui il poeta , anche da un punto di vista formale rallenta il ritmo in questi ultimi

versi, in questi ultimi sei versi, notate i segni di interpunzione che prima erano abbastanza rari, il ritmo

andava avanti, cantabile, leggero, diverso, inverso. Qui invece il ritmo si rallenta, si spezza e si ferma come
le

ruote del treno, il poeta proprio ce lo fa sentire, “sento stridere il freno” anche questo è un rumore

antipatico, e un po' pensiamo al lamenti dei treni della poesia di Sereni. È un rumore antipatico, stridere il

freno. Vi lascio davvero, amici addio. Di questo son certo. Il ritmo si è fermato, il treno si è fermato e lui

scende. Sono giunto, Sono arrivato.

A che cosa? Sono arrivato?

Alla disperazione. Non sento l'ultimo istante. Mi sento perduto. Mi sento improvvisamente sgonfio,

disperato, perché non so più che cosa ci sia in questa stazione e oltre. Però l’enjambement lega la parola

disperazione con l'aggettivo calma, come nelle strofe precedenti, la lieve costernazione, cioè la disperazione

leggera, sono sinonimi e qui la disperazione calma, senza sgomento. Non faccio scenate, però dentro di me

sono abbastanza disperato, mi dispiace.

Scendo, buon proseguimento. Per gli altri viaggiatori il proseguimento nel viaggio della vita.

Ecco una grande poesia, a me piace moltissimo questo congedo del viaggiatore cerimonioso.

C'era un'altra poesia molto bella, però era più lunga e non avrei avuto il tempo di leggere, però per

assegnare come titolo molto simile a questa, anche qui è un mezzo di trasporto, un mezzo di trasporto più

simile a quelli che abbiamo a Napoli cioè le funicolari , e quell'altra poesia si intitola Stanze della funicolare.

Stanze non significa le stanzette che stanno nella stazione della funicolare ma pensate alla funicolare di

Chiaia che poi è chiusa però ci sono delle stanze, non sono quelle. La parola stanza nel lessico poetico

italiano significa strofa, è una parola antica dell'epoca di Dante e Cavalcanti. Stanze della funicolare è

un'altra poesia bellissima in cui si descrive un mezzo di trasporto, il poeta che sale che scende perché la

funicolare serve a questo a Genova, tra la parte bassa e la parte alta della città, non se avete modo di
trovarla su internet molte di queste poesie. Ecco, la cosa bella è che si trovano facilmente, quasi sempre

anche su internet, ci sono dei blog di poesia, di persone appassionate, quindi le trovate tutte facilmente.

Caproni le stanze della funicolare.

Passiamo a un altro poeta amico di questi che stiamo leggendo, contemporaneo sempre a questa

generazione dei giovani poeti del 900, in un certo senso sono rimasti un po’ giovani per tutta la vita per la

freschezza della loro poesia, anche negli anni più tardi se pensate che questa è una delle ultime poesie di

Caproni, forse è più leggera e di quelle dei suoi anni iniziali.

Zanzotto
Il terzo poeta di questo ideale trittico, si chiama Andrea Zanzotto. Con Andrea Zanzotto ci spostiamo nel

Veneto. Quindi questi poeti sono tutti originari del nord, del centro, legati a città come Genova, la

Lombardia a Milano e Zanzotto invece è in Veneto, regione che ha prodotto dei grandi scrittori della

letteratura italiana contemporanea, abbiamo letto il brano di Comisso, ma potremmo ancora ricordarne altri

molto significativi sia per la prosa che per la poesia. Anche per Zanzotto non avrei niente da dirvi sulla vita.

Sono tre poeti che non hanno avuto una vita chissà che avventurosa come D'Annunzio, come Comisso,

come Pasolini , cioè vite anche straordinarie non fuori dell'ordinario piene di esperienze esistenziali anche

forti anche difficili.

Sono tre poeti che si sono proiettati principalmente nella scrittura.

Caproni, Zanzotto e Sereni sono 3 poeti che si sono proiettati principalmente nella scrittura e nella

letteratura. Andrea Zanzotto ha vissuto a lungo nel mondo scolastico, è stato maestro, ha insegnato per

tanti anni e ha anche conosciuto Pasolini. Zanzotto nel suo percorso letterario si è avvicinato alla poesia e

inizialmente all’ermetismo, poi alla tradizione poetica italiana, studiando quindi Petrarca e Leopardi, utilizza

tecniche tradizionali come il sonetto, la canzone. E poi ad un certo punto, oltre ad assimilare metodi

classici/tradizionali si avvicina alla lingua parlata e quotidiana utilizzando un qualcosa di “innotivativo” : i

giochi linguistici, lingua e poesia entrambe come gioco. A differenza sua, Caproni e Sereni non riescono ad

essere “giocosi”, né tantomeno ironici. Altri poeti invece, come Palazzeschi, lo sono.

Il passaggio di Zanzotto quindi è da una poetica seria ad una più “divertente”. Data la sua vita passata in

campagna, lontana dal mondo urbano, nella sua poetica è molto presente il senso della natura, dell’opera

dell’uomo che è in armonia con la natura. Il problema con la natura nasce nel momento in cui Zanzotto è

testimone del boom economico, dell’industrializzazione, della distrazione dalle campagne che soprattutto in

Veneto è stata poi causa di “catastrofi”, portando alla distruzione dell’ambiente, del vivere in armonia con la

natura. Zanzotto avverte questo disastro su di sé, sentendolo molto vicino e “proprio”. Inoltre proprio la

zona in cui viveva Zanzotto si trovava situato il fronte della Prima Guerra Mondiale (non era quello del

Carso, il fronte orientale di cui ci parla Ungaretti) ma il lato settentrionale dove per quasi 3 anni si
combatterono le battaglie più sanguinose tra italiani e austriaci. Proprio quel paesaggio fino all’epoca di

Zanzotto era pieno di crateri, case distrutte, mine inesplose, proiettili : è l’immagine di una natura violentata

e violata dall’uomo.

Poesia : Al Mondo

Titolo un po’ misterioso, che può indicare sia il mondo come argomento sia come destinatario della poesia.

Non si sa chi sia a parlare, se il singolo poeta, un uomo qualunque, l’umanità, o forse Dio che parla al

mondo nel momento della creazione. Il poeta non ce lo specifica, non si sa se sia un monologo, un dialogo,

non ce lo rende chiaro : è un gioco in cui il poeta non ci invita a decodificare tutto, ma a divertirci nella

lettura così come lui si è divertito nello scrivere. La prima strofa sembra parlare della creazione del mondo,

che viene creato con un’intrinseca bontà, ma c’è già un inclinamento tra i due verbi ESSERE (dimensione

ontologica) e ESISTERE. Dio è l’essere e tutto ciò a cui egli da l’essere, esistono.

L’essere è eterno ,e le cose invece esistono calate nella dimensione dello spazio e

del tempo ,hanno questa dimensione dell’esistere. In latino ex-sistere deriva proprio

dall’idea dello stare, dell’essere collocato tra altre cose.

Verso ll: esisti buonamente due versi in cui c’è l’idea della bontà,della creazione.

Dio da al mondo anche altre indicazioni più dettagliate ma senza specificare quali:

verso lll:

fa’ che, cerca di, tendi a, dimmi tutto,

ed ecco che io ribaltavo eludevo

e ogni inclusione era fattiva

non meno che ogni esclusione;

su bravo, esisti,

non accartocciarti in te stesso in me stesso.

Io pensavo che il mondo così concepito

con questo super-cadere super-morire

il mondo così fatturato

fosse soltanto un io male sbozzolato

fossi io indigesto male fantasticante

male fantasticato mal pagato

e non tu, bello, non tu «santo» e «santificato»

un po’ più in là, da lato, da lato.

Fa’ di (ex-de-ob etc.)-sistere

e oltre tutte le preposizioni note e ignote,


abbi qualche chance,

fa’ buonamente un po’;

il congegno abbia gioco.

Su, bello, su.

Su, münchhausen.

Si tratta di una poesia un po 'enigmatica,però allo stesso tempo giocosa.L’unico

elemento trovato dal prof per commentare la poesia è quella di interpretare due voci:

la voce di Dio che sta creando il mondo,e la voce del poeta che però sta creando la

voce di Dio, la sta immaginando lui. Sempre secondo la sua interpretazione,il prof

tende a mettere le virgolette ai primi tre versi. La prima frase detta da Dio,che poi

nell’antica teologia sia ebraica che cristiana, l’atto della creazione di Dio avviene

attraverso la parola,il verbo. Dio è il verbo, e nel momento in cui la divinità emette la

parola,quello è il momento della creazione. Nella mistica ebraica la creazione

dell’universo si interpreta come un respiro di Dio. Gli antichi teologi dicevano che

ogni cosa e ogni creatura del creato è una parola di Dio.

Le virgolette vanno anche ai versi 7 e 8 ,e su tutti i versi finali dalla frase “fa di (ex de

ob)....Su, münchhausen.” Queste sono ,secondo il prof, le frasi di Dio.Inframezzate

sono invece le parole del poeta che sta immaginando tutta questa scena. Il poeta sta

immaginando come Dio ha creato il mondo e si inserisce anche lui dentro avendo

dei dubbi: ma io questa cosa la sto immaginando bene o male?Ma forse è andato

tutto diversamente.Dio ha voluto creare il mondo buono,bello,perfetto,armonioso ,e

com’è che qua attorno a me è tutto sporco,inquinato,tutto sta andando a rotoli?

Allora tutto questo essere buonamente,questo esistere buonamente forse è andato

male,c’era qualcosa fatto male all’origine?

Quindi questa è l’interpretazione del prof,ci sono due voci:

- la voce di Dio che sta creando il mondo

Mondo, sii, e buono;

esisti buonamente,

fa’ che, cerca di, tendi a, dimmi tutto,

Più avanti Dio interviene di nuovo

su bravo, esisti,

Dio ha quasi paura che l’atto della creazione non stia andando bene perchè ha

appena creato l’universo,ma poi vede che l’universo si sta di nuovo


contraendo,l’esplosione è stata troppo forte e dice:

non accartocciarti in te stesso in me stesso.

non richiuderti subito dopo il big bang,continua ad andare aventi,continua ad

esistere.

Poi di nuovo alla fine:

fa’ di (ex de ob )esistere

E’ come se Dio desse al mondo anche altre possibilità,non solo quelle

dell’ex-sistere,cioè nello stare tra;ma anche possibilità di de-sistere e ob-sistere,cioè

opporsi. Dio dà al mondo la libertà di essere quello che vuole e tutte le preposizioni

note e ignote.

e oltre tutte le preposizioni note e ignote,

-la voce del poeta,che esprime i suoi dubbi:

ed ecco che io ribaltavo eludevo

e ogni inclusione era fattiva

non meno che ogni esclusione;

Più avanti il poeta critica l’opera della creazione,il mondo così fatturato(inteso in

modo negativo)ovvero l’idea di un mondo alterato,aduterato. A questo punto il poeta

dice ma se tutta l’opera della creazione non fosse altro che la proiezione di:

fosse soltanto un io male sbozzolato

fossi io indigesto male fantasticante

male fantasticato mal pagato

I critici dell’idea dell’esistenza di Dio,come i filosofi materialisti,pensano che l’idea di

Dio è nient'altro che la proiezione di un'idea dell’uomo.E’ un bisogno dell’uomo

crearsi una divinità, un ente superiore.Ed è quello che il poeta ci dice in questi versi

che tutto questo sia solo un illusione venuta male e che il mondo:

non è né bello né santo né santificato. vv 15

vv 16 il poeta sente la voce di Dio

Fa’ di (ex-de-ob etc.)-sistere

,egli cerca di dare una possibilità al mondo.

abbi qualche chance,

fa’ buonamente un po’;

il congegno abbia gioco.

Su, bello, su.


Come se l’intero mondo fosse una macchinina,un giocattolo,che girando la molla

esso parte;egli incita dunque al “giocattolino” a funzionare

L’ultima parola del tutto sorprendente è Münchhausen. Qui il poeta si riferisce alle

Avventure del barone di Münchhausen. Sono delle leggende nate da una storia

vera,di un vero barone tedesco del 1700,un avventuriero che girava per l’europa,la

russia,la siberia e sul quale erano fiorite le leggende più incredibili. Si diceva che gli

era andato sulla luna e che riusciva a volare.Mentre il vero barone al suo tempo era

conosciuto al suo tempo perchè aveva la fama di raccontare delle balle. Avevano

raccolto così alcune di queste storie inventate che lui raccontava nelle osterie

oppure nei palazzi dei principi e le avevano raccolte da questi autori tedeschi Raspe

e Burger. Questo libro ebbe una fortuna enorme all’epoca, di letteratura

popolare,perché raccontava un mondo meraviglioso nel tempo in cui quel mondo

stava scomparendo con la rivoluzione industriale e l’avvento della tecnologia. Quindi

tra 700 e 800 nascono questi libri di cose straordinarie proprio perché la tecnologia

sta distruggendo il meraviglioso del mondo. E Münchhausen è il simbolo del

desiderio di vedere il mondo. Questo nome,nome proprio di un personaggio

storico,di un personaggio romanzesco famoso nella letteratura,in particolare nella

letteratura dei bambini. In questa dimensione finale in cui Dio sembra presentare il

mondo come un bambino appena nato e sembra dirgli :”esisti,gioca,fatti venire come

a quel barone la voglia di vivere avventure meravigliose e di vedere la realtà che è

intorno a te”

Iniziamo con altre due poesie di Zanzotto. La poesia “al mondo” è della raccolta “Beltà” del 1968, e insieme
alla poesia “Sì come la neve” fanno parte della prima raccolta, mentre “perché siamo “è della seconda
raccolta. Zanzotto ha sempre amato la solitudine e la quiete, è stato perlopiù nel suo paese di origine Piel di
Sovigo, in provincia di Treviso. Nella sua prima raccolta “Dietro il paesaggio” ci fa immaginare una ricerca di
luoghi circostanti di qualche luogo nascosto fra le prealpi, questi luoghi sono infatti molto importanti per
l’autore. La poesia si intitola “Perché siamo”, come possiamo vedere sono 6 strofe, tutti versi di lunghezze
differenti infatti Zanzotto gioca molto con i versi diversi. Alterna ottenari, novenari, endecasillabi e nel terzo
verso troviamo un alessandrino (due settenari uniti). In questa poesia notiamo subito una nota nostalgica
che è anche un richiamo alla situazione prenatale, ovvero del bambino ancora nel grembo materno, quindi
un richiamo e un ritorno alla madre e ai suoi luoghi di riferimento, nei confronti invece di un mondo in
movimento che sta diventando sempre più industriale. Allora questa poesia non è facilmente ascrivibile ad
una corrente, infatti egli vive negli anni in cui l’ermetismo si afferma, ma non si avvicina per molto tempo ad
essa. Ha questa vena ecologica di rispetto per il paesaggio, però è presente anche una particolare
autoironia e anche giochi linguistici, soprattutto sui significanti. La sua scelta linguistica è per lui anche una
scelta politica, perché secondo lui la lingua, a causa dei mass media e dei vari slogan, si stava inaridendo:
era diventata logora. Quindi lui attraverso il gioco linguistico dà valore a quest’ultima, e sperimenta con
questi dialetti e il linguaggio infantile, cercando di creare qualcosa di autentico. E allora questa liberazione
Zanzotto cerca di ottenerla attraverso la poesia sapendo però che le sue scelte non potevano cambiare le
cose.
Perché siamo

Perché siamo al di qua delle Alpi

su questa piccola balza

perché siamo cresciuti tra l’erba di novembre

ci scalda il sole sulla porta

mamma e figlio sulla porta

noi con gli occhi che il gelo ha consacrati

a vedere tanta luce ed erba

Questa prima strofa presenta già un linguaggio poetico particolare: la struttura della frase è confusa e fa
pensare subito ad una domanda nei primi due versi e una risposta nei due seguenti con l’uso dell’anafora
“perché siamo…perché siamo”. Sta descrivendo il luogo dove lui nasce e cresce, su questa piccola balza.
La natura è estiva e l’epifora “sulla porta/sulla porta” ha in mezzo “mamma e figlio” come se volesse isolarli e
renderli il centro della poesia. Il gelo ha consacrato questo nucleo di mamma e figlio, e ha permesso di
vedere così tanta luce e ha permesso a mamma e figlio di perdersi tra la natura in un rapporto simbiotico.

Nelle mattina, se è vero

Di tre montagne trasparenti

mi risveglia la neve;

nelle mattine c’è l’orto

che sta in una mano

e non produce che conchiglie,

c’è la cantina delle formiche

c’è il radicchio, diletta risorsa

profusa alle mie dita

a un vento che non osa disturbarci

I contorni netti della natura che si mostra al poeta sembra un canto e ci riporta all’idea che lui sia in una fase
sognante e in una dimensione sospesa nel tempo. Quindi la neve è su queste tre montagne che circondano
la città, da notare quante anafore che danno l’idea della sacralità. Le conchiglie, formiche etc. sono tutti
piccoli oggetti dotati di una simbolicità del quotidiano e che ne connotano il territorio. La conchiglia rimanda
anche all’idea del guscio che protegge da cui il poeta alla fine cerca di uscire fuori. Lui si guarda intorno e ci
sono tutti elementi che gli danno sicurezza, con questo vento impercettibile, come se fosse fuori dal tempo.

Ha sapore di brina

la mela che mi diverte,

nel granaio s’adagia un raggio amico


ed il vecchio giornale di polvere pura;

e tutto il silenzio di musco

che noi perdiamo nelle valli

rende lento lo stesso cammino

lo stesso attutirsi del sole

che si coglie a guardarci

che ci coglie su tutte le porte

Anche la mela ricoperta di brina riporta sempre all’ambiente di montagna, insieme al raggio amico del sole
che ci riscalda la mattina. Tutto il silenzio si disperde nella valle e arresta il tempo e la mamma e il figlio sono
circondati da questo ambiente. E ora entra in gioco la madre:

O mamma, piccolo è il tuo tempo,

tu mi vi porti perch’io mi consoli

e là v’è l’erba di novembre,

là v’è la franca salute dell’acqua,

sani come acqua vi siamo noi;

senza azzurra sostanza

vi degradano tutte le sieste

cui mi confondo e che sempre più vanno

comunicando con la notte

Qui che la dimensione dell’acqua rimanda alla bibbia, all’acqua salvifica del vangelo di Giovanni 4. 29 e la
madre è la guida, possiamo dire che il poeta la indica come suo Virgilio.Vorrebbeil rapporto con la madre si
potesse prolungare nel tempo. L’idea dell’attimo fugace sta nell’erba di novembre, che dura poco perché
l’inverno sta subentrando, e in questo luogo incontaminato noi siamo salvi eppure da questo luogo ci sono
delle cose che sono degradate e lo confondono. Ci sono cose che ci staccando dal luogo ideale e ci metteno
di fronte ad una sfida oscura da superare.

Né attingere al pozzo né alle alpi

né ricordare come tu non ricordi:

ma il sol che splende come cosa nostra,

ma sete e fame all’ora giusta

e tu mamma che tutto

sai di me, che tutto hai tra le mani

Con la scorta di te e dell'erba


e di quella lampada precaria (simbologia della morte "lampada precaria" )

di cui distinguo la fine,

sogno talvolta del mondo e guardo

dall'alto l'inverno del nord. ( immaginate il poeta sospeso, dall'alto guarda il mondo e il verno che avanza.)

"Dietro il paesaggio", in questa prima raccolta di Zanzotto, avete visto che rispetto "al mondo ", ci sono meno
giochi di parole, c'è un lavoro sulla forma, l'armonia con la natura base, con il rapporto con la mamma e il
poeta, che da solo senza una madre che lo guida si sente meno al riparo dalle insidie del mondo. Poi
abbiamo invece la seconda poesia "Sì, ancora la neve" che fa parte della stessa raccolta di "al mondo" cioè
la "Beltà". Questa poesia è molto più frastornante, molto più frenetica rispetto all'altra, caos fonetico ci
riempie di stimoli che vengono da tutte le parti e non sappiamo dove orientarci, vediamo già la prima frase in
realtà sia ancora la neve posta al centro. Poi c'è questa costa che sembra una sorta di quelle citazioni che
vengono messe prima di una poesia, prima di un libro, poi in realtà ci leggiamo tutto: ti piace essere venuto a
questo mondo ? il bambimo: "si!" perchè c'è la stanna (è questa società anonima di magazzini che c'erano
negli anni 70, supermercati specializzati all'abbigliamento), quindi il bambino era felice perchè esistevano
questi ipermercati dove ci si può divertire, quindi prima critica al consumismo.

Sì, ancora la neve

Che sarà della neve

che sarà di noi? ( domanda che riguarda il destino dell'essere umano, una domanda che ci poniamo spesso
in un momento di crisi )

Una curva sul ghiaccio

e poi e poi... ma i pini, i pini (anafore, iterazioni che sarebbero delle ripetizioni)

tutti uscenti alla neve, e fin l'ultima età

circondata da pini. Sic et simpliciter?

E perché si è - il mondo pinoso il mondo nevoso -

perché si è fatto bambucci-ucci (sillabe che ripetono, associazione fonetiche, bambocci, aggiunta dal
bambino che sente la rima della filastrocca e aggiunge questo), odore di cristianucci,

perché si è fatto noi, roba per noi?

E questo valere in persona ed ex-persona

un solo possibile ed ex-possibile? ( qualcosa che si spersonalizza, vediamo che nel paesaggio iniziano ad
esserci ombre della società)

Hölderlin: "siamo un segno senza significato":

ma dove le due serie entrano in contatto?

Ma è vero? E che sarà di noi?( ci sono molte domande, ma mai risposte)

E tu perché, perché tu?( chiasmo)

E perché e che fanno i grandi oggetti

e tutte le cose-cause
e il radiante e il radioso?

Il nucleo stellare (costellazione)

là in fondo alla curva di ghiaccio,

versi inventive calligrammi ricchezze, sì,

ma che sarà della neve dei pini

di quello che non sta e sta là, in fondo?

Non c’è noi eppure la neve si affisa a noi

e quello che scotta

e l’immancabilmente evaso o morto

evasa o morta. ( c'è l'idea del sole che scotta, quindi la neve contrapposta al sole)

Buona neve, buone ombre, glissate glissate. (gioca molto sulle ripetizioni)

Ma c’è chi non si stanca di riavviticchiarsi

sgraffignare(rubare con astuzia) sgranocchiare, solleticare, (tre verbi di successione, allitterazione)

di scoiattolizzare le scene che abbiamo pronte,

non si stanca di riassestarsi (qualcuno che cerca una fonte di riparo, rispetto a questo caos del mondo, che
per Zanzotto è la società dei consumi)

– l’ho, sempre, molto, saputo –

al luogo al bello al bel modulo

a cieli arcaici aciduli come slambròt (parola tedesca, pane inzuppato e sporco, ma che stava a significare
questa parlata che ora è scomparsa nei pressi di Trento) cimbrici

al seminato d’immagini

all’ingorgo di tenebrelle e stelle edelweiss(fiore alpino, stella alpina)

al tutto ch’è tutto bianco tutto nobile:

e la volpazza di gran coda e l’autobus

quello rosso sul campo nevato. (contrapposizione)

Biancaneve biancosole biancume del mio vecchio io. Ma presto i bambucci-ucci

vanno al grande magazzino

– ai piedi della grande selva – (selva ci rimanda a Dante)

dove c’è pappa bonissima e a maraviglia ( il bambino si sta avvicinando verso il consumismo, questi
programmi, questa pappa buonissima, è una meraviglia)

per voi bimbi bambi con diritto

e programma di pappa, per tutti

ferocemente tutti, voi (sniff sniff (onomatopee)

gran gnam yum yum slurp slurp:


perché sempre si continui l’umbra fuimus fumo e fumetto”): ("fuimus" fummo ora, è latino e fumetto sono
accostamenti che non hanno senso, allitterazioni)

ahi colorini più o meno truffaldini

plasmon nipiol auxol lustrine e figurine

più o meno truffaldine: (rima baciate tra figurine e truffaldine, i colori che attirano molto l'attenzione dei
bambini, quindi questa scena descrive un bambino che arriva al centro commerciale, vede questi marche la
plasmon, nipiol tutte marche per bambini, lustrini ornamenti che luccicano che attirano, i bambini, figurine più
o meno truffaldine cioè che ingannano, perchè tutto ciò che è molto appariscente, tende a trarre in inganno,
attirare l'attenzione, si innamora dell'involucro e non del contenuto, tutto quello che appariscente che attira lo
sguardo è ingannevole è vuoto dentro, questa è una critica alla pubblicità)

meglio là, sottomano nevata sottofelce nevata… (forse rispetto a tutto questo caos inautentico è meglio,
quellan neva una felce di montagna, quindi tutto quello che è natura)

O luna, ormai, (richiama a Leopardi o al canto notturno del pastore il canto notturno di un pastore errante
dell'Asia, qui qua la luna la cita perchè dice che la natura era indifferente per Leopardi, la natura è matrigna
non se ne frega di noi, Zanzotto riprende la luna come elemento naturale che viene interrogata dal poeta, la
luna è come se non avesse più valore perchè siamo distratti da tutte altre cose)

e perfino magnolia e perfino

cometa di neve in afflusso, la neve. (magnolia, neve, prevale il colore bianco quindi prevale la vista)

Ma che sarà di noi?

Che sarà della neve, del giardino, (ottica religiosa, interrogazione sul proprio destino)

che sarà del libero arbitrio (ci fa pensare subito a Dio, che Dio ha concesso il libero arbitrio agli uomini quindi
la possibilità di credere o non credere in lui)

e del destino

e di chi ha perso nella neve il cammino

(e la neve saliva saliva – e lei moriva)?

E che si dice là( nell'aldilà) nella vita?

E che messaggi ha la fonte di messaggi? (noi spesso aspettiamo un segno dall'aldilà, come se lì fosse la
fonte dei messaggi)

Ed esiste la fonte( Dio) , o non sono

che io-tu-questi-quaggiù (oppure non è nient'altro questo mondo che ci siamo costruiti? che io tu questi
quaggiù, cioè noi tutti esseri umani)

questi cloffete clocchete ch ch (onomatopea, idea del caos)

più che incomunicante scomunicato tutti scomunicati? (tutti non credenti ) Eppure negli alti livelli

sopra il coma e il semicoma e il limine

si brusisce e si ronza e si cicala-ciàcola (chiacchiera, qui nella società dei vivi non facciamo che parlare delle
stesse cose, delle minime cose come ad esempio si parla per ora di un personaggio famoso)

– ancora – per una minima e semiminima (qui c'è una parte musicale)

biscroma semibiscroma nanobiscroma

cose e cosine
scienze lingue e profezie ( chi si fa scienziato, chi si fa linguista, chi si sente profetico)

cronaca bianca nera azzurra ( sta pensando quindi al chiacchiericcio, allo show, ai programmi che non fanno
che parlare del nulla)

di stimoli anime e dèi,

libido e cupìdo e la loro

prestidigitazione finissima; (creare questa illusione della realtà)

è così, scoiattoli afrori e fiordineve in frescura

e “acqua che devia

si dispera si scioglie s’allontana” ( lo mette tra virgolette perchè appartiene alla poesia, di "Dietro il
paesaggio", per dire che le sue convinzioni in questo caos del mondo hanno perso di forza, la sua poesia ha
perso di forza cita il suo verso per dire, anche me stesso è cambiato, la mia forza non è quella di prima, in
realtà è una critica all'ideologia che crolla e della religione, la religione forse è l'ideologia più forte)

oltre il grande magazzino ai piedi della selva

dove i bambucci piluccano (strappano) zizzole(giuggiole sono dei frutti, fatti come uva, quindi piluccare
staccare dei chicchi uno alla volta)…

E le falci e le mezzelune e i martelli (simbolo del comunismo)

e le croci e i designs-disegni

e la nube filata di zucchero che alla psiche ne vie?

E la tradizione tramanda tramanda fa passamano? (cioè lui qua sta dicendo, la tradizione che torna a nuove
parole, quindi le ideologie che vengono dal passato, falce e martello futurismo, le croci la religione, i designs
i disegni, quindi la nuova arte, ciò che nasce dopo la crisi della morte di Dio)

E l’avanguardia ha trovato, ha trovato? (la tradizione ha perso di valore e l'avanguardia cos'ha trovato ?)

E dove il fru-fruire dei fruitori (quindi porci che si mettono a mangiare, in questi recipienti, quindi abbiamo
l'idea di consumatore, come qualcuno che si cala, verso il mangime che non sa distinguere da ciò che è
buono e da ciò che non lo è, il consumatore che cerca di accaparrare quante più cose possibili, pur di
comprare)

nel truogolo (mangime dei maiali, c'è questa contraddizione, ossimoro tra la parte bassa della natura, il
mangime dei porci e invece poi la relazione verso il cielo) nel buio bugliolo (neologismo, arrivare al cielo) nel
disincanto,

dove, invece, l’entusiasmo l’empireirsi l’incanto? (empireo, per Dante c'erano i beati, incanto fa rima con
disincanto è una rima implosiva. )

Che si dice lassù nella vita,

là da quelle parti là in parte;

che si cova si sbuccia si spampana

in quel poco in quel fioco

dentro la nocciolina dentro la mandorletta? (diminutivi)

E i mille dentini che la minano?

E il pino. E i pini-ini-ini per profili (aggiunta di questi suffissi diminutivi, è un modo visivo di raccontare, che da
un pino passiamo alla foresta)
e profili mai scissi mai cuciti

ini-ini a fianco davanti

dietro l’eterno l’esterno l’interno (il paesaggio) (il paesaggio l'ha messo tra parentesi, ricordiamo che la
prima raccolta si chiama "Dietro il paesaggio", quindi tutto ciò che si nasconde dietro il paesaggio )

dietro davanti da tutti i lati,

i pini come stanno, stanno bene?

Detto alla neve: “Non mi abbandonerai mai, vero?” (la neve simbolo dell'intera poesia, per dire che
nonostante tutto questo caos del mondo la neve, cerca di resistere, non mi abbandonare mai, è
un'invocazione, una preghiera )

E una pinzetta, ora, una graffetta. ( e poi questo finale un pò strano, cioè vuole dire quando noi mettiamo ai
fogli una pinzetta e una graffetta, li ordiniamo, quindi qual è la risposta dietro a tutto questo caos? che
attraverso la letteratura, attraverso i fogli, raccolti con una pinzetta magari, parlando riusciamo a ordinare il
caos, quindi lo scopo della letteratura per Zanzotto è cercare di capire l'ordine, di tutto ciò che è caos, e
questo ci rimanda alla prossima lezione, con Calvino che anche lui ha un'immagine simile.)

Italo Calvino
La lezione di oggi è dedicata a Italo Calvino, il quale è stato uno dei grandi autori della letteratura italiana del
900, nasce nel 1923 a Cuba, perché i genitori per lavoro si trovavano momentaneamente lì, tuttavia
rientrarono presto in Italia e andarono a vivere a Sanremo.

Il giovane Calvino vive gli anni della prima guerra mondiale, si avvicina alla resistenza e si avvicina ad alcuni
intellettuali dell'epoca come Vittorini e Pavese, e come loro nel periodo della resistenza e quello successivo
alla seconda guerra mondiale condivide anche questa atmosfera di grande rinnovamento, portato avanti
soprattutto dai giovani intellettuali, è il periodo del neorealismo, e l'aspirazione delle arti, della letteratura e
della poesia di questo periodo è abbandonare la retorica fascista ritornare alla realtà, quella della povera
gente, delle città in rovina dopo i bombardamenti, della gente in difficoltà dopo la seconda guerra mondiale.

Una parte di questa produzione è dedicata alla guerra di liberazione, la guerra partigiana, e anche il il
giovane Calvino esordisce con due libri che sono interamente dedicati alla resistenza, un romanzo, Il
sentiero dei nidi di ragno, che rinnova molto rispetto agli altri racconti dell'epoca perché cerca di vedere tutte
le cose dagli occhi di un bambino che si trova coinvolto nei fatti della resistenza, e una raccolta di racconti,
Ultimo venne il corvo, ed è da questa che è tratto il testo che leggiamo oggi.

Ultimo viene il corvo

La prima frase ci porta in un paesaggio idilliaco, descritto in un modo quasi poetico, nell'acqua subito si nota
la presenza di pesci, precisamente trote, abbiamo quindi una prima immagine molto tenera, un'immagine di
vita e della natura, e abbiamo anche la percezione che ci sia un gruppo di uomini in questo posto, ma come
vedremo subito dopo non si tratta di un paesaggio idilliaco, non è un gruppo di uomini che sta andando a
pesca ma è invece una situazione molto più difficile.

Vediamo subito che la situazione è cambiatacon un unico colpo, facendola salire a galla.
Nel passaggio successivo il ragazzo continua a sparare colpendo anche un falco che chiude le ali e , siamo
in una situazione di guerra, questi uomini vorrebbero addirittura uccidere tutte le trote con un'unica bomba, e
invece spunta fuori un ragazzo, sono tutti personaggi senza nomi, indistinti, un montanaro con la faccia a
mela che non faceva neanche parte davvero del gruppo dei partigiani, egli si è unito a loro ma loro non lo
conoscono, e improvvisamente questo ragazzo prende il fucile a uno degli uomini e senza dire altro spara
alla trota cade come una fiera, qui nel giro di poco abbiamo un cambio di passo nella narrazione, mentre
tutte le frasi precedenti erano in uno stile molto oggettivo, e questa è una delle caratteristiche della narrativa
di questo periodo, cercare di avvicinarsi il più possibile alla realtà eliminando ogni tipo di introspezione
psicologica, autori come Vittorini e Pavese furono influenzati molto dalla narrativa americana anteriore alla
seconda guerra mondiale, quindi da autori come Faulkner e Hemingway, e non è un caso che entrambi
avessero dedicato molte energie nelle traduzioni e nelle pubblicazioni di questi grandi autori americani
dell'epoca che in Italia erano completamente sconosciuti, anche prima della seconda guerra mondiale,
quindi con grande coraggio culturale e politico.

Una caratteristica dello stile di quegli autori è quello di usare questo stile molto veloce. C’è la

descrizione delle azioni dei personaggi, quindi frasi anche molto semplici, un ritmo molto veloce. Il giovane
Calvino, però, dopo aver iniziato nello stile della letteratura realista dell’epoca, ad un certo punto comincia ad
entrare nei pensieri del ragazzo. La frase appena letta, quando il ragazzo muoveva ancora la bocca del
fucile in aria è la descrizione del gesto oggettivo del ragazzo La frase successiva invece è quello che lui sta
pensando in quel momento. Era strano, a pensarci, essere circondati così d’aria, separati da metri d’aria
dalle altre cose. Se puntava il fucile invece, l’aria era una linea diritta ed invisibile, tesa dalla bocca del fucile
alla cosa, al falchetto che si muoveva nel cielo con le ali che sembravano ferme. Per il ragazzo tutto questo
è un gioco, lui non si rende conto che nel momento in cui spara c’è una tragedia nell’ordine delle cose, lui
uccide una creatura, rompe l’armonia di qualcosa che c’è nella vita, nella natura. Non se ne rende conto, per
lui è una specie di magia per cui con il fucile e con lo sparo si crea una specie di linea dritta che ci congiunge
alle altre cose che sono intorno a noi, anche se sono molto lontane, separate da noi da questa grande
massa d’aria. Queste sono impressioni e pensieri del ragazzo, e anche l’ultimo punto, dall’otturatore aperto
usciva un buon odore di polvere, è quello che lui sente. In questi gesti, per il ragazzo tutto questo non è altro
che un gioco, non si rende conto che sta togliendo la vita ad altre creature. È un po’ il discorso indiretto
libero, l’autore non dice il ragazzo sta pensando: “….ecc. Fa capire che sono pensieri suoi tramite queste
piccole spie linguistiche. Prende anche il falco che vola nel cielo: già è difficile prendere una trota, ma un
uccello che vola nel cielo lontano sembrerebbe impossibile riuscire a colpirlo, e invece lui ha anche una
sensazione di potenza in questo momento sulle cose della natura.

Lettura del brano fino a ma il ragazzo aveva già visto dei bottoni d’oro sul petto di uno di quelli e fatto fuoco
mirando a un bottone.

Da quello che per il ragazzo era solamente un gioco, qui siamo passati alla guerra. Uccide le creature del
bosco e alla fine anche degli esseri umani nemici, dei soldati tedeschi che stanno risalendo sulla montagna
per andare a prendere i partigiani. Il ragazzo si imbatte in questo gruppo di soldati tedeschi dopo quella
strana passeggiata che aveva fatto prima. Questa è una cosa che ci lascia veramente con l’amaro in bocca,
quello che per lui è un gioco, un divertimento, è un uccidere tutti gli animaletti del bosco.

C’è qualcosa di strano in questo racconto di Calvino. È come se il Calvino, che è uno scrittore molto
pessimista nei confronti dell’essere umano, della storia, ci volesse dire che dentro l’essere umano c’è proprio
radicato il seme della violenza. Anche se noi non ce ne rendiamo conto, dentro ognuno di noi, anche nella
persona più calma, c’è il seme della violenza che è sempre pronto a spuntare fuori, anche se nella forma di
divertimento nei confronti delle altre creature più piccole e delle cose della natura. Anche in questo racconto,
anche la figura del ragazzo acquista una dimensione metaforica, allegorica. La grande violenza che c’è nella
guerra partigiana Calvino ci suggerisce che forse è qualcosa che sta già dentro il cuore dell’uomo,
indipendentemente da questa situazione esterna.

A questo punto, c’è l’incontro con i soldati tedeschi, e anche il primo bersaglio che viene colpito. Notiamo
che lui non ha mirato a un essere umano, lui è stato attratto dal luccichio di un bottone d’oro, su queste
divise dei soldati tedeschi. È stato attirato dal bottone e ha mirato direttamente lì, uccidendo il soldato. È
quasi un gioco conoscitivo, lui conosce il mondo uccidendo. C’è anche il piacere della distruzione, quel bel
fungo che ha disintegrato con il fucile, oppure il povero ghiro, e di come si sia ridotto dopo essere stato
colpito.

Una cosa interessante è che spesso viene definito con la faccia rossa a mela, c’è quest’idea del ragazzo che
è come se appartenesse lui stesso a questa natura che sta distruggendo.

Lettura

“Sentì l’urlo dell’uomo e gli spari a raffiche o isolati che gli fischiavano sopra la testa: era già steso a terra
dietro un mucchio di pietrame sul ciglio della strada, in angolo morto… [...] …Intanto inseguendosi erano
arrivati in una valletta sconosciuta, dove non si sentiva più il rumore della battaglia”

Da questo punto fino alla fine del racconto, il ragazzo e il soldato tedesco che sta fuggendo si isolano dalla
battaglia tra i partigiani e i soldati tedeschi, e diventa un confronto diretto tra due esseri umani, tra un
inseguitore e una preda. Il soldato tedesco è come se fosse disarmato, il suo fucile è stato colpito e non lo
può più ricaricare, quindi non ha possibilità di difendersi. L’unica possibilità vedremo che saranno delle
bombe a mano, ma concretamente il tedesco è disarmato. Il ragazzo continua a inseguirlo, perché per lui il
soldato è come una preda come quelle precedenti e come gli animaletti del bosco: falchetto, ghiro… e anche
il soldato che sta fuggendo.

Il ragazzo è ad una certa distanza, e vuole annullarla con un colpo del suo fucile, perché a lui è rimasto
sempre questo “gioco”, deve arrivare fino in fondo a questo gioco. La parte finale del racconto è un po’ dura,
è un “gioco di morte” che alla fine si sta svolgendo. Probabilmente anche il soldato tedesco che sta
fuggendo è un ragazzo, come il montanaro con la faccia a mela. Anche qui Calvino entra un po’ anche nei
pensieri anche del ragazzo tedesco, nella paura che ha di morire e dei tentativi che fa per salvarsi.

Lettura.

“A un certo punto il soldato non trovò più bosco davanti a sé, ma una radura, con intorno dirupi fitti di
cespugli… [...] …Ora il soldato sentiva un sapore di piombo in bocca; s’accorse appena che anche l’altro
uccello cadeva a un nuovo sparo.”

È un ragazzo che fa delle prove per salvarsi. Nella parte finale del racconto, la focalizzazione si è spostata
sul soldato. Prima ce l’avevamo sul ragazzo che correva nel bosco, trovava i bersagli e sparava, mentre
adesso nella parte finale la focalizzazione è sul soldato, e sulla paura che il soldato ha. Una paura
crescente, perché si accorge che questo nemico che l’ha inseguito è bravissimo, non sbaglia un colpo,
quindi comincia ad avere veramente tanta paura.

Lettura

…“Al soldato venne un’idea: «Se lui sta attento agli uccelli non sta attento a me… Il soldato si buttò faccia a
terra perché non gli arrivassero schegge.”

Il soldato le sta provando tutte, prova una strategia per testare la forza dell’avversario, e si rende conto ad
ogni passo che l’avversario è temibile. Caratterizzazione parossistica: nel racconto tipicamente si cerca di
mettere all’ennesima potenza le caratteristiche del personaggio: qui non sappiamo se questo ragazzo è un
eroe o un antieroe, perché non distingue più i nemici, gli basta che ci sia qualcosa in movimento. Non ci fa
capire se è davvero dentro la guerra, gli basta un oggetto difficile da colpire perché spari. Parossismo:
caratteristica accentuata. È un gioco conoscitivo, conosce la realtà in questo modo.

Lettura

“Quando rialzò il capo era venuto il corvo…. [...]... A una a una colpiva le pigne che cascavano con una botta
secca.”

La figura del corvo è arrivata alla fine del racconto, Ultimo viene il corvo, a differenza di tutti gli altri bersagli,
gli animali del bosco, le creature e i soldati. Il soldato è sicuro che ormai tocchi anche al corvo: così come il
ragazzo ha sparato a tutto quello che vedeva, adesso toccherebbe anche al corvo. Invece no, quello che lo
sorprende è che questo corvo continua a volteggiare in alto, questo uccello nero, continua a girare ma non
sta succedendo niente, il ragazzo non mira al corvo.

“A ogni sparo il soldato guardava il corvo: cadeva? …[...]..Il corvo s’abbassava lentamente, a giri.”

Il ragazzo lo prende e lo uccide. Il racconto finisce in questo modo anche un po’ strano, perché il soldato si
alza per avvisare il ragazzo che c’è il corvo e che si è dimenticato di ucciderlo, invece stava solo aspettando
il momento giusto.

Il corvo alla fine in questo racconto appare in modo un po’ misterioso, ci accorgiamo che Calvino sta
abbandonando la letteratura realistica. Nella parte finale il corvo è diventato un simbolo: intanto gli occhi del
personaggio, quindi all’interno della focalizzazione del racconto, che fino al momento finale è la
focalizzazione del soldato, poi il soldato viene ucciso e resta solo in questo paesaggio il corvo, che continua
ad abbassarsi lentamente. Forse il ragazzo non lo colpirà a questo punto perché la caccia è terminata,
l’ultima preda che doveva colpire lui l’ha colpita.

Notiamo anche che il proiettile che uccide il soldato colpisce il soldato sull’aquila che sta sulle divise dei
soldati tedeschi, colpisce esattamente in quel punto, e quindi c’è anche un collegamento tra l’aquila e il
corvo. Per il ragazzo colpire, mirare con il fucile è un gioco: anche prima quando colpiva i soldati tedeschi lui
in realtà mirava a un bottone dorato, ad una spallina, ad una lustrina, e così anche nell’istante in cui il
soldato si è alzato in piedi lui ha colpito l’aquila dalle ali spiegate, questo ricamo dorato che c’è sulla divisa.
Il soldato ha cercato di comunicare con il ragazzo e addirittura ha parlato, ha gridato, e ha gridato nella sua
lingua, quindi il ragazzo non ha capito nulla, ha detto la c’è il corvo in tedesco. Il ragazzo non l’ha capito ma
è un estremo tentativo di comunicazione tra questi due ragazzi, perché il soldato per un istante ha quasi
sperato di non essere lui il bersaglio, di non essere la preda, ma che invece si trova con l’altro ragazzo e che
si sta divertendo a colpire le biglie, a colpire tutti gli uccelli uno per uno. Gli vuole fare riscoprire che la preda
è il corvo, dovresti colpire lui… invece no, non è stato possibile, e finisce tragicamente per il ragazzo che
però è appunto un nemico.

Che cosa avrebbe dovuto fare il ragazzo di fronte a questo soldato disarmato, che non poteva difendersi?
Noi con senso di umanità diremmo che se ci troviamo davanti un nemico disarmato dovremmo risparmiarlo.
All’epoca, nella guerra di liberazione, nella guerra di resistenza e tante altre guerre feroci, non si facevano
prigionieri, ci si ammazzava e basta. Ormai i fascisti catturavano i partigiani, e così la stessa cosa i tedeschi
e fascisti. Il nostro senso di umanità ci direbbe, di fronte a un nemico disarmato, di risparmiargli la vita, gli
diremmo vai scappa non ti colpisco, e invece questa storia finisce così.

Domanda: il tentativo di comunicazione da parte del soldato tedesco è dovuto a un tratto di ingenuità o la
speranza che non fosse lui l’obiettivo?

Nella frase precedente rimanda prima al pensiero che forse quel corvo non esistesse nemmeno, una visione
che in quel momento ha solo lui. Il ragazzo lo dice allora forse non è vero quel corvo, è una visione che in
questo istante ho solamente io, perché è una specie di presagio di morte, come un segno il corvo è venuto
per me, e allora forse vuole sincerarsi della realtà del corvo.

Infatti, diciamo che questa è una caratteristica tipica allargando lo sguardo un po’ alla forma racconto, i
racconti moderni, le novelle del verismo hanno un altro intento, però se noi vediamo in senso moderno
l’ambiguità del finale. Se noi vediamo chi ha studiato la forma racconto gli strutturalisti e i formalisti russi ma
anche Edgar Allan Poe il primo che scrive racconti moderni (Il Corvo) ci dice a un certo punto alla fine del
racconto dobbiamo lasciare al lettore un’ambiguità, in questo caso ci lascia un’ambiguità. C’è questo
monologo interiore in cui il ragazzo entra nei suoi pensieri, è uno che è prossimo alla morte perché al di là
dello scherzo, se noi vediamo al di là del gioco del ragazzo, lui vede tutta morte intorno a sé quindi inizia a
dire sono già morto io, qui entriamo nella sua allucinazione. La scelta del monologo è un punto cardine che
ci fa entrare nella testa del soldato tedesco che ci dice cosa sta pensando, sta pensando che c’è morte, il
corvo è arrivato per lui. Allora l’ambiguità c’è, però la forza del racconto rispetto al romanzo è che il racconto
va letto tutto di fila, va letto massimo in due ore, se lo leggiamo oltre perde la forza. L’ultimo evento deve
essere quasi una catastrofe finale, il racconto precipita verso il finale e ci deve far star a bocca aperta, ci
deve far pensare. È così che ci resta impresso il racconto, è questa la forza della modernità, e quindi io
credo che il ragazzo lo faccia perché è entrato in un giro di allucinazione.

Domanda: c’è un motivo simbolico per il quale è il ragazzo che non spara al corvo nel senso che il corvo è
simbolo di morte e quindi la morte non viene eliminata?

Ora il ragazzo l’abbiamo perso di vista, non sappiamo più cosa sta pensando. Noi lo interpretiamo attraverso
i segni oggettivi di quello che vede l’altro, allora noi diciamo perché il ragazzo non spara al corvo? Nella
tradizione letteraria il corvo è l’uccello del malaugurio; poi il corvo è nero, ha una voce abbastanza sgraziata,
e quindi nella tradizione letteraria il corvo è sempre associato alla morte. Per questo riprende Edgar Allan
Poe, e c’è il famoso racconto che Marco ha ricordato (il Corvo). In generale vi ricordo Pinocchio: quando
Pinocchio è moribondo, i medici che vanno a visitarlo sono delle cornacchie, quindi Pinocchio si spaventa
ancora di più, perché sono un segno di morte. E il povero soldato tedesco quando vede questo corvo nero
che gira sopra di lui pensa che sia un’allucinazione, che non sia un corvo reale.
Calvino ci lascia questo dubbio fino alla fine: noi non sappiamo se il corvo esiste veramente, potrebbe non
esistere, potrebbe essere solo nell’immaginazione del soldato tedesco. Nella letteratura moderna e
contemporanea il finale del racconto, del romanzo o della novella resta in questa forma di ambiguità per
lasciare anche al lettore la possibilità di immaginare altre spiegazioni. Se noi eliminassimo il corvo,
l’atteggiamento del ragazzo lo capiamo, perché lui continua a sparare come ha fatto fino a poco prima.

Se fosse certa la realtà del corvo, sarebbe cambiato in questo punto finale del racconto, questo elemento di
meraviglioso, straniante. Sarebbe stato un episodio di guerra partigiana in cui uno insegue l’altro e lo uccide,
cosa quasi banale, e invece l’apparizione del corvo ce l’ha trasformata in una dimensione quasi magica.
Questi sono i semi del cambiamento di tutta la narrativa di Calvino negli anni successivi, perché un po’ alla
volta Calvino si distacca dal realismo, a differenza degli altri scrittori e intellettuali di quel periodo, Calvino
preferisce proseguire nel mondo della fiaba, della favola o anche nella trasformazione favolistica della vita
contemporanea. Scrive tutta una serie di racconti comici, avventure comiche di un umile operaio milanese
dell’epoca, che si chiama Marcovaldo, ma che in realtà sono una specie di favole, oppure inventa degli strani
personaggi aristocratici come il Barone rampante, il Visconte dimezzato, il Cavaliere inesistente: anche
queste sono delle favole. Oppure trasferisce questa immaginazione relativa anche al campo della
fantascienza, come le cosmicomiche.

A questo punto, con l’avvento della letteratura post-moderna e delle avanguardie, tutti i libri degli ultimi anni
di Calvino sono tutti dedicati a forme narrative ibride, fondate sul gioco della letteratura e sul gioco del
combinatorio dei testi. L’esempio che vediamo è l’inizio di un libro molto bello che è ispirato addirittura da
Ariosto, l’Orlando Furioso e il libro si intitola Il castello dei destini incrociati.

La base di partenza era l’Ariosto, perché nell’Orlando Furioso e nella letteratura cavalleresca appare spesso
questo tema dei cavalieri erranti, che seguendo qualche bella fanciulla costretta a fuggire, finiscono in
qualche modo in un castello remoto, dove vengono fatti prigionieri dai sortilegi di qualche stregone cattivo. È
quello che succede appunto ai paladini dell’orlando furioso, che si trovano all’interno di una specie di castello
dove non riescono più ad uscire, perché si vedono riflessi negli specchi e inseguono dei fantasmi, e quindi
diventa molto difficile poi uscire da quel castello incantato. Nel caso di Calvino, Il castello dei destini
incrociati ci rappresenta un insieme di storie che si incrociano tra di loro in modo molto strano, molto curioso,
che non si capisce subito all’inizio del libro.

Calvino inizia a giocare con la letteratura: lui fa un’esperienza in Francia insieme ad un altro scrittore,
iniziano a fare proprio dei giochi, del tipo scrivere una poesia utilizzando solo una vocale, oppure ogni verso
dovevano utilizzare una vocale differente. Stanno nell’ottica post moderna, quindi qui è come un incrocio di
cose strane, una letteratura che prende, in questo caso l’Orlando Furioso, ma per giocarci, per creare
qualcosa di nuovo. Quindi il romanzo non è altro che un insieme di incipit diversi.

LETTURA DELL’ESTRATTO

IL CASTELLO

In mezzo a un fitto bosco, un castello dava rifugio a quanti la notte aveva sorpreso in viaggio: … [...]... e
insieme il va e vieni d'illustri avventori - le avesse conferito un'imprevista dignità, tale da riempire di grilli la
testa dell'oste e dell'ostessa, che avevano finito per credersi i sovrani d'una corte sfarzosa.
Questo periodo era lunghissimo, però l’immagine è chiara: quella del castello che diventa una locanda o
viceversa. Tutta la parte iniziale è in prima persona, la persona è Italo Calvino che si traveste negli abiti di un
cameriere medievale che dopo aver attraversato un bosco tra mille avventure, duelli, scontri etc.. è arrivato
anche lui in questo castello. C’è un’ambientazione di tipo medievale, ma il racconto in prima persona ci
coinvolge direttamente anche nell’ingresso di questo castello, che si presenta in modo strano. Non riesce a
capire esattamente in che luogo sia finito, non è un vero e proprio castello che visto da fuori, da lontano
avrebbe un aspetto più severo, invece è entrato e si è trovato di fronte a un cortile sfarzoso, illuminato,
tavole imbandite. C’è qualcosa di strano in questo luogo in cui si trova, non riesce a capire se sia veramente
un grande salone di corte oppure una locanda arricchita e sfarzosa.

Lettura

Questi pensieri, a dire il vero, non m'occuparono che per un istante;... [...]... e ugualmente con gesti si
rivolgeva ai servi perché gli trinciassero una fetta del timballo di fagiano o gli versassero mezza pinta di vino.

Questo è il dettaglio più strano di tutti quanti, da cui il protagonista inizia a rendersi conto che in questa
grande sala nessuno parla, nessuno comunica con la parola, cosa che invece lui vorrebbe cominciare a fare
subito, intrecciare conversazioni, cominciare subito a comunicare con gli altri. Il primo movimento dell’essere
umano è fare conversazione, comunicare con gli altri le proprie esperienze, ascoltarli. Invece qua dentro
nessuno parla, e i pochi elementi di comunicazione che ci sono tra questi commensali sono limitati a dei
pochi gesti in cui un commensale indica la saliera o lo zenzero, e nessuno comunica con gli altri.

Lettura

“Deciso a rompere quel che credevo un torpore delle lingue dopo le fatiche del viaggio…[...]... era chiaro che
la traversata del bosco era costata a ciascuno di noi la perdita della favella.”

Questo è un primo elemento magico: tutti i commensali, compreso il protagonista, anche se cercano di
parlare dalla bocca non esce alcun suono, quindi è come se fossero diventati muti. Anche questo tentativo di
parlare e non riuscirci ci porta in una dimensione onirica, la descrizione di un sogno. Molto spesso alcuni
degli elementi della descrizione di un sogno sono una persona che cerca di camminare ma resta sempre
fermo nello stesso punto, oppure vorrebbe gridare, vorrebbe dire qualcosa, apre la bocca ma dalla bocca
non esce nessun suono. Questi sono elementi di descrizione onirica, quindi con questi elementi Calvino ci fa
anche capire che siamo entrati in un sogno, tutto quello che ora continua a raccontare è come se fosse ora
la descrizione di un sogno.

Lettura

Terminata la cena in un mutismo che i rumori della masticazione e gli schiocchi nel sorbire il vino non
rendevano più affabile…[...]...ci parve di capire che con quella carta egli voleva dire «io» e che s'accingeva a
raccontare la sua storia.

In questo momento cominciano tutte le storie del libro: le immagini che sono sulle carte dei tarocchi
corrispondono a tutti i commensali che si trovano nella sala, che saranno poi anche tutti i personaggi e i
protagonisti delle storie che stanno per cominciare. Ma in che modo Calvino pensa di raccontare queste
storie usando le carte dei tarocchi? Leggiamo solo la prima storia, quella che comincia immediatamente
dopo che questo personaggio, questo cavaliere ha tirato fuori una carta, e quella carta è lui stesso, quello
che appare nella carta è lui stesso.
Sia in quest’opera che in altre opere, Calvino è molto attento a riferimenti alla cultura figurativa, c’è una
specie di dialogo intermediale tra la letteratura, la parola ad esempio, e le immagini, anche l’immagine
cinematografica, anche questa ormai è una cosa caratteristica degli scrittori e intellettuali del ‘900, che
anche quando scrivono poesie o romanzi vivono in un mondo dove anche la parte dell’immagine è
importantissima. C’è sempre un continuo dialogo intermediale tra la letteratura e le altre arti, soprattutto più
recenti, per esempio come il cinema di Pasolini.

In questo libro, che sarebbe ambientato vagamente tra la fine del Medioevo e il Rinascimento, e che
riprende un po’ dall’Orlando Furioso dell’Ariosto, il punto di riferimento è l’arte del rinascimento, e in
particolare queste meravigliose figure dei tarocchi dipinte da alcuni pittori del rinascimento.

Allora la prima storia si intitola Storia dell’ingrato punito.

STORIA DELL’INGRATO PUNITO - LETTURA E COMMENTO DELL’ASSISTENTE

Presentandosi a noi con la figura del Cavaliere di Coppe era vocazione cavalleresca…[...]... Anzi, a chi
scrutasse la carta con occhio più acuto, il segmento verticale che incrocia gli altri legni obliqui suggeriva
appunto l'idea della strada che penetra nel folto della foresta.

Quindi lui sta raccontando attraverso queste due carte la storia della sua vita. Il padre che forse gli ha
lasciato una cospicua eredità, tramite questa eredità lui si è messo in viaggio.

A queste carte in fila, se ne aggiunse una che annunciava certamente un brutto incontro: La Forza. ….[...]...
Riconoscemmo nell'appeso il nostro giovane biondo: il brigante l'aveva spogliato d'ogni avere, e lasciato a
penzolare da un ramo, a testa in giù.

Finora le carte che ha messo sul tavolo sono cinque. Le prime tre, poi c’è la forza, l’idea di qualcosa di
negativo, e questo brigante che lo lascia senza niente, spogliato di ogni avere.

Respirammo di sollievo alla notizia che ci recò l'arcano La Temperanza…[...]... fu come se sentissimo lì
vicino il fiottare d'una sorgente e l'ansare dell'uomo che si dissetava bocconi.

Vedete pure l’immagine (?) che è chiaramente molto vicina allo stile dell’inizio del rinascimento, le fonti dove
si vanno a rifocillare i cavalieri, dopo battaglie, guerre, questi incontri che erano tipici delle traversate del
bosco che rendono tutto un’avventura, tutto molto avventuroso. Lui vede invece questo asso di coppe su cui
era disegnata la fonte.

Ma ci sono fonti, - qualcuno tra noi certo pensò, - che, appena se ne beve, accrescono la sete…[...]... indizio
più che probabile d'un incontro amoroso.

Questo è un altro aspetto tipico della letteratura medievale: l’incontro nel bosco, la fanciulla che aiuta il
cavaliere a uscire…(?) la fanciulla che si innamora e se ne prende cura. Quest’idea della fonte come fonte
d’amore. Quindi dice si placa la sete di acqua e si accende la sete di amore.
“Già ci disponevano - soprattutto le dame della compagnia - a goderci il seguito d'una tenera vicenda
amorosa… [...]... con due file di convitati che brindavano ai due sposi in fondo al tavolo dalla tovaglia
inghirlandata.”

C’è anche il tema della (?), tema che si afferma durante … (?). Cavaliere che si presta alla ricerca di
qualcosa, di un oggetto prezioso, ma anche di una donna. Nella letteratura provenzale hanno queste
avventure con donne di un basso ceto sociale, come la ragazza citata ad esempio, che era la figlia di un
montanaro, un boscaiolo. Aveva questi incontri fugaci, però il cavaliere deve innamorarsi di una donna
diversa, di alto rango, addirittura più vecchia di lui, e dunque abbandona la povera ragazza.

“La carta che fu posata poi, il Cavaliere di Spade…[...]... ed era per inseguire quel monello che lo sposo
aveva disertato il banchetto.”

C’è l’interpretazione. È bello, è realistico in questo caso. Realismo, fantasia… un concetto può voler
significare una cosa metaforica.

“Ma non andava trascurato l'oggetto che il bambino trasportava: …[...]... con un melanconico sorriso appena
accennato sulle labbra.”

Era sempre la ragazza di prima che aveva salvato, però ora vestita da cavaliere. Forse una vendetta,
arrabbiata perché abbandonata.

“- Che mai cerchi da me?...[...]...le lame taglienti delle scarmigliate seguaci di Cibele s'avventavano addosso
a lui, straziandolo.”

Così finisce il racconto dedicato al Cavaliere. Un po’ una storia di quei romanzi cavallereschi, dunque un
cavaliere che ha una storia fugace con una fanciulla incontrata nel bosco, poi però l’ha abbandonata, ma in
seguito ritorna come un guerriero assetato di vendetta, scoprendo che in realtà è una guerriera. Alla fine è
anche vittima di una cerimonia un po’ cruenta. Alla fine il cavaliere non viene ucciso ma ridotto a (?). È una
storia molto particolare.

Tutta questa storia viene raccontata attraverso le carte: i commensali intorno a questo tavolo continuavano a
guardare i tarocchi che il cavaliere continuava a tirare fuori per raccontare la sua storia. Anche tutte le altre
storie sono fatte così. Questo è un esempio migliore di letteratura come gioco, gioco delle carte, e della
tecnica combinatoria su cui poi si basa la letteratura contemporanea.

Se voi leggete le poesie della letteratura provenzale, ci sono queste immagini di donne e cavalieri con
queste vicende amorose, però poi lo stato sociale non gli permette appunto di viverle a pieno. Quindi è
interessante come riprende un modello antico e lo rende un gioco combinatorio.

Igiaba Scego
Tema della donna e della condizione femminile non solo nei paesi di origine della sua famiglia, ma anche in
Italia, insieme a moltissimi altri temi che sono di grande attualità nella cultura contemporanea.

Molti scrittori creano un proprio personaggio anche dal punto di vista estetico, non a caso Igiaba indossa
questi grandi occhiali neri, derivato non solo da un proprio gusto personale ma perché ha un problema agli
occhi, una degenerazione progressiva. Sono degli occhiali speciali che cercano di correggere tale difetto.

Le due figure femminili, Igiaba Scego e Dacia Maraini, rilevanti scrittrici contemporanee e donne del
900’,rappresentano tutto l’universo della scrittura femminile che nella letteratura italiana, così come nelle
altre letterature e culture, rappresenta la grande novità dell’età moderna e contemporanea, anche perché
dal punto di vista sociale e sociologico, fino alla vigilia dell’Età moderna, le donne in tutte le culture e società
del mondo, erano in grado di subalternità, e ovviamente anche escluse dall’accesso alla cultura,
dall’apprendimento della lettura, scrittura. Solo una ristretta élite di donne era concessa, diventandone
scrittrice, poetessa al fine di poter esprimere il proprio mondo interiore per mezzo della letteratura.

Tra i primi autori e scrittori della letteratura che si rendono conto di questo problema, mentre prima tutti gli
scrittori antichi come Dante, nello Stilnovo che presentava nelle proprie opere le cosiddette “donne angelo”,
Boccaccio fu il primo a percepire il problema; infatti, nel 1300 è il primo che scrive le proprie opere, il
Decameron e altre opere minori, a rivolgersi direttamente a un pubblico femminile.

Il Decameron, infatti, è una bellissima dedica alle donne che sono i suoi lettori, lettrici ideali.

Non erano tantissime poiché alcune facenti parti della borghesia mercantile di Firenze, oppure principesse
napoletane della corte angioina, patrizie fiorentine; quindi, era un numero ristretto di donne che però
rappresentava già un grande cambiamento.

Un altro movimento importante è il Rinascimento, la percentuale di donne (élite), che si impossessano dello
strumento della scrittura, appassionandosi della lettura e che incominciano anche a scrivere perlopiù lettere
e successivamente poesie, diventando infine scrittrici. Questa percentuale aumenta gradualmente, e ad un
certo punto, soprattutto in Francia con Cristine d’Aguisan che tra l’altro era anche figlia di un medico italiano,
nata alla corte francese e più avanti, Margherita di Navarra, in Italia, invece, il fenomeno riguarda soprattutto
la poesia con Vittoria Colonna, grandissima poetessa in cui visse gran parte della sua vita tra Napoli e Ischia
nell’attuale Via dei Mille (Palazzo d’Avalos). Ella è conosciuta anche come amante platonica di
Michelangelo, “platonica”, perché si pensava che Michelangelo fosse omosessuale, però ad un certo punto
questo loro rapporto si trasformò in amicizia, anzi amore ideale, spirituale con una donna, scambiandosi
anche delle bellissime poesie.

Questi momenti, però, restano un po' isolati, poiché la letteratura italiana come quelle straniere, restano una
cosa dominata principalmente da uomini e, quando le donne prendono iniziativa nella composizione di simil
scritture, ricevono complimenti limitati dagli stessi uomini: “che belle poesie sembrano scritte da un uomo”
(come successe a Vittoria Colonna dal famoso Pietro Membo).

Tali fenomeni restano abbastanza isolati già dall’epoca di Alessandro Manzoni, fino al primo 800’, fin quando
tutto prende una svolta al cambiamento in maniera rapida, perché le donne vivevano stabilmente una parte
importante del pubblico dei lettori, come lettrici prima in Inghilterra nel 700’ e successivamente in Europa tra
l’800’ e il 900’.

Si sviluppò quindi, una grande produzione di romanzi come quello dell’800’ e addirittura gran parte degli
scrittori dell’epoca si rendono conto che ormai la maggior parte dei lettori sono lettrici.

Tra Ottocento e Novecento il fenomeno si amplia anche alla presenza di importanti scrittrici che inizialmente
scrivono piccoli racconti sulle riviste.
Intervento dell’assistente:

la più importante di queste scrittrici è Matilde Serao. Spesso le donne scrivevano sulle riviste attraverso degli
pseudonimi (finti nomi maschili) , per nascondere la loro vera identità. Questi pseudonimi permettevano loro
di pubblicare ciò che scrivevano.

Le donne però prima di affermarsi come scrittrici si affermano come lettrici. Tant'è vero che scrivono lettere a
giornali spiegando perché era piaciuto un romanzo o meno; quindi, essendo lettrici davano delle direttive a
chi scriveva fino a quando poi le donne stesse non diventano scrittrici 🡪 si amplia il pubblico di lettori grazie
alle donne, in quanto stando a casa e essendo diminuito il prezzo dei giornali, accedono più facilmente alla
lettura e alla cultura. Nasce così un circolo virtuoso in cui le donne da lettrici che direzionano la scrittura,
entrano in possesso dello strumento della penna e iniziano a scrivere: racconti, cronache (a volte mondane,
cioè riguardante l'arte, il mondo dello spettacolo, ciò che succedeva in città), curano le rubriche nelle riviste...
Fin quando non si afferma il romanzo d'appendice (simile alle nostre serie televisive che ci lasciano con il
fiato sospeso, in quanto di volta in volta escono puntate nuove).

Le donne sono molto abili nella stesura di questi romanzi d'appendice.

Un ‘ altra scrittrice importante è Emma Perodi.

Anna Zuccari utilizza lo pseudonimo 'Neera'.

Gli pseudonimi utilizzati da Matilde Serao: 'Chiquita' (il più noto), 'Tuffolina', 'Gibus'. 🡪 usò nomi particolari
per fare breccia nei lettori.

Le tematiche delle loro opere erano spesso legate a tematiche d'amore ad eccezione di Matilde Serao, la
quale scrisse 'Il Ventre di Napoli', una delle prime inchieste sociali sulla nostra città (tema molto sentito e
riguardante la crescita in senso borghese di Napoli).

Le donne si ritagliano un proprio spazio nella letteratura d'amore, per poi affermarsi sempre di più nel 1900,
grazie ad "un'esplosione" legata anche al fenomeno migratorio.

Termina l'intervento dell'assistente 🡪 Inizia Vecce.

Saltiamo quindi tutto il Novecento di cui dobbiamo ricordare solo alcuni nomi importanti come: Grazia
Deledda (dalla Sardegna), Matilde Serao (qui a Napoli), Elsa Morante (Isola di Arturo/Procida), Anna Maria
Ortese (ancora Napoli). 🡪 Napoli, quindi, ha un ruolo importante nello sviluppo di questa letteratura.

Grazia Deledda è tra i primi e pochi italiani ad aver ricevuto uno dei premi Nobel per la letteratura. All’epoca
(inizi del Novecento) ciò fece indispettire non poco molti scrittori maschi in quanto gli ultimi premi Nobel per
la letteratura furono ricevuti da Carducci e Pirandello.

Arriviamo ad Igiaba Scego, che è nata a Roma nel 1974 da genitori somali, fuggiti dal loro paese dopo
l'inizio di una dittatura severa che aveva infranto ogni speranza di uno sviluppo democratico della vita della
Somalia. I genitori di Igiaba avevano un ruolo elevato nella società: il padre di Igiaba era un diplomatico
(credo ambasciatore)🡪 non ebbe infatti molta difficoltà ad ambientarsi all'estero e stabilirsi in Italia in quanto
la Somalia era un'ex-colonia italiana. Questo ci riporta anche al discorso sul problema del colonialismo,
quindi anche la storia individuale di Igiaba è una storia che rientra nella dimensione post-coloniale di cui lei è
consapevole e ne parla anche nei suoi libri, poiché influenza anche il suo vissuto e la storia della sua
famiglia, anche determinata da questo incontro con il mondo occidentale che visto dai loro occhi non è molto
felice, poiché la storia del colonialismo è una storia di violenza, di prepotenza di un mondo più sviluppato
che è andato nelle altre parti del nostro pianeta per depredare, per prendere le materie prime e ridurre intere
popolazioni in uno stato di semischiavitù /subalternità e queste sono cose che comunque restano nella
memoria della storia. Il padre del padre di Igiaba, quindi suo nonno, ebbe un incontro diretto con il potere
coloniale italiano in Somalia e in Etiopia in quell'epoca 🡪 poiché avendo una certa propensione ad imparare
le lingue, diventò interprete degli italiani occupanti queste colonie. Per un certo periodo fu l'interprete del
viceré di Etiopia, personaggio di estrema ferocia legato al regime fascista 🡪Il Maresciallo Graziani,
responsabile di crimini contro l'umanità; nella guerra di Etiopia fu il generale che aveva fatto usare i gas e
aveva sterminato parte della popolazione che resisteva all'invasione italiana. Aveva poi fatto compiere degli
eccidi di innocenti in Etiopia. I genitori di Igiaba, nel momento in cui arrivarono in Italia dovettero cambiare
completamente vita, arrivarono senza mezzi di sussistenza e si trovarono a vivere nella periferia romana
(storia che ci ricorda un po' quella di Pasolini) in uno stato di povertà. La madre di Igiaba fu obbligata a
lavorare come donna di servizio e venne trattata malissimo in molte case in cui lavorava e a lei si riferivano
con espressioni cattive e forti che Igiaba riporta nel suo libro.

Nei libri di Igiaba c'è un po' tutta la memoria di questi eventi: le origini della sua famiglia; la vita in Somalia
come era ai tempi antichi (prima delle guerre, del colonialismo e della distruzione del suo paese ); il
confronto con la cultura italiana (vista come una cultura di un popolo che era andato in Somalia per
dominare, quindi una cultura coloniale ) ; l'incontro positivo con una culture e una lingua che lei sente di non
poter non amare🡪 L'incontro con la cultura, la letteratura, la poesia nonostante appartenenti ad una lingua
coloniale è una contraddizione di origine che però lei supera in modo straordinario, in quanto diventa poi una
scrittrice di questa lingua che per le persone della sua origine veniva avvertita come una lingua di dominio e
coloniale. Altro tema affrontato nei suoi libri è quello della migrazione, anche se quella dei suoi genitori era
stata molto anteriore a quelle invece di massa a cui assistiamo nel nostro tempo negli ultimi 20 anni. Altri
temi trattati🡪 fenomeni di straniamento, di dislocazione, problemi linguistici, perdita di tutta la memoria
precedente, [24.13?] e tutta quella serie di traumi che inevitabilmente comportano il fenomeno della
migrazione.

Il libro più emblematico di Igiaba è stato pubblicato nel 2010 ed è intitolato '' LA MIA CASA È DOVE SONO"
🡪 è una frase che si applica molto bene alla dimensione del migrante. Non è la casa che ho perduto, ma è
quella dove concretamente sono e mi trovo con i miei effetti e le persone che oggi nel presente mi sono cari.

Continuando ci sono tre grandi romanzi:

● ‘La linea del colore’ datato 2010 il quale narra la storia pressoché fantastica ma con personaggi reali,
di una pittrice americana nella metà dell’800. Per la società contemporanea essere una donna pittrice era
vista come una vera e propria sfida, sia per l’introduzione alle gallerie sia per continuare il proprio percorso,
se pensiamo poi che il personaggio, Igiaba, era afroamericana acquista ancora più significato. La lotta di una
donna che desidera essere una pittrice e di concludere il proprio percorso in Italia, e lo farà.

● ‘Adua’ datato 2015 ci ricorda la città dell’Etiopia, teatro di una famosa battaglia delle prime guerre
coloniali italiane, eppure questo romanzo non è riferito alla località ma bensì a una donna ambientata nel
tempo presente di origini somale situata a Roma, figlia di un somalo interprete dei soldati italiani. Proiezione
autobiografica di Igiaba, così come in ognuno di questi romanzi, racconta sempre di se.

● ‘Cassandra a Mogadiscio’ dove trova il coraggio e l’energia di raccontare in prima persona la storia
della sua famiglia in un modo molto particolare, una cosiddetta struttura allargata ad una dimensione
familiare (padre, fratelli, zii, nipote) e soprattutto della madre ancora viva, considerata un’importante figura di
riferimento, aggiungendo poi la storia collettiva della Somalia descrivendo le disavventure accadute al
paese, peggiori del colonialismo. La Somalia dopo il periodo della dittatura militare negli anni 90’ sprofondò
in una dimensione peggiore della guerra civile che dura in parte ancora oggi, dominata da bande di terroristi
che eliminano la possibilità di una vita normale.

LETTURA BRANO FINE DEL LIBRO ‘AUTOBIOGRAFIA IN MOVIMENTO’

Qui Igiaba spiega cosa rappresenta il libro in sé.

“Non è la prima volta che scrivo della mia famiglia, anzi credo che la mia scrittura sia scaturita proprio
dall’urgenza di capire questa famiglia poliedrica e diasporica attraversata da una dittatura, una guerra infinita
e migrazioni multiple. Gli attraversamenti, gli incontri, le geografie e naturalmente i testi?(31.41) mi hanno
sempre posto delle sfide, hanno fatto scaturire in me numerosi interrogativi. Nel tempo mi sono resa conto
che seguire le tracce biografiche personali e familiari è per me il modo migliore per viaggiare nei territori
sconosciuti della storia e di un’intimità che chiede di essere espressa in tutta la sua potenza. I miei mentori
sono James Baldwin e Bell Hooks.”

Più avanti scrive: “Ho capito che l’autobiografia è affascinante per il suo costruirsi in costante movimento,
tutto il contrario della bibliografia classica quella del 700”. Qui un autore (come Gianbattista Vico, Alfieri)
scriveva per costruire un movimento che restasse immobile per i posteri, Igiaba invece ripeteva più volte che
la biografia è affascinante perché in movimento, il passato non è mai fermo ma segue i nostri cambiamenti.
Afferma inoltre che: “la materia biografica non era mai come l’avevo immaginata’ anche a distanza di
qualche anno quello che si ricordava in un modo, anche il ricordo stesso può cambiare nel tempo. Non si sa
se gli eventi sono accaduti in u modo oppure in un altro, non tutti gli eventi sono chiari nello stesso momento
o allo stesso modo; tutto è legato a quanto siamo disposti a scavare e ad accettare ciò che il passato ci
svela. La scrittura di questo libro è stata per me un viaggio nel tempo simile a quello di Marty Mcfly nel
ritorno al futuro, ed è stato anche un viaggio nel trauma tra guerra e colonialismo e soprattutto il
declassamento che ha portato svariate migrazioni. La costruzione di una Somalia fuori dalla Somalia con
Roma che tutto abbraccia. Ma tutto questo mi è stato possibile raccontarlo grazie ad un altro strumento
insostituibile: l’italiano, la lingua che mi ha accolta e cresciuta, che nasce con Dante Alighieri (o San
Francesco) e arriva a Djarah Kan, scrittrice di origine migrante.” L’italiano è descritto dalla scrittrice come
una cura, parola chiave, e nelle lettere da una zia alla propria nipote sul curare e sul curarsi in questo mondo
pieno di ecchimosi e malattie (funzione attribuita anche alla letteratura e alla poesia). Un dialogo necessario
soprattutto per una donna che come me sta per attraversare la parte matura della luna ovvero la fine della
sua età fertile.

Igiaba usa due parole molte significative ‘lessico familiare’ titolo del libro di Natalia Ginzburg, grandissima
scrittrice italiana. Il lessico familiare per ella è il recupero delle parole che si parlavano in famiglia, degli
scambi con i bambini, con il marito (che poi sarebbe stato ucciso dai fascisti durante la guerra); il recupero di
questa dimensione privata della vita attraverso le parole semplici, rappresentate nel libro come: Somale
dell’infanzia di Igiaba e del suo rapporto con il padre, la madre o parenti lontani che qualche volta sono
l’unico vero strumento di contatto tra questi migrati sparsi per i paesi del mondo.

E che ad un certo punto, qualche volta, sono l’unico vero strumento di contatto tra questi migranti sparsi in
tutti i paesi del mondo. Ora ci dirà uno parla l’italiano, gli altri in inglese, altri in francese e non si capiscono
nemmeno più tra di loro. Questo è anche il destino dei migranti perché se uno dal Senegal se ne va in
Germania o un altro se ne va in Svezia, dopo una o due generazioni anche loro rischiano di non capirsi più e
restano solo dei frammenti, delle parole del lessico familiare che ancora possono unire. Ecco la struttura del
libro che non è un ordine cronologico, l’indice del libro è un elenco di parole perché ogni capitolo inizia con
una parola somala, che ovviamente non conosciamo perché non siamo somali, ma non c’è un glossario in
questo libro perché leggendo capitolo per capitolo conosciamo perfettamente il significato di quella parola e
anche quello delle altre che ad un certo punto si intervallano nella lingua italiana. Quindi è anche un libro
plurilinguistico, soprattutto con l’italiano e il somalo contemporaneamente e qualche volta anche l'arabo, tutto
si mescola in una dimensione plurilinguistica e di contaminazione che è normale nell’incontro con le culture
migranti.

Le parole sono jirro (malattia), markhaati (testimone), ceeb (vergogna, la vergogna del migrante quando si
trova in un paese straniero ma anche la vergogna della donna a cui si attribuiscono colpe), af hooyo /
luqadda hooyo (lingua madre) e oblio, libro, famiglia, guerra, domande, occhi, tragedia, ritorno, memoria e
così via quindi possiamo immaginare dietro ogni parola che cosa c’è.
Nella nostra pagina in basso a sinistra c’è l'avvertenza linguistica per le parole in somalo che troverete in
questo libro si preferisce non utilizzare la grafica somala corrente ed esatta ma una traslitterazione che
agevoli la lettura di persone non madrelingua basata in particolar modo sulle sonorità della lingua italiana,
quindi, non è una trascrizione fonetica o scientifica ma un po’ alla buona per un lettore come noi, per cui
leggendo possiamo pronunciare così com’è scritto.

Ricordiamo che tutto il libro è una lettera, la destinataria è la nipote di Igiaba che abita in un paese lontano.

“Amatissima, come si disegna la tua risata? Disegnerei, se potessi, l'attimo in cui scoppi di improvvisa gioia.
Quella tua risata roca, quasi maschile, che con il passare dei secondi si ingentilisce di oro, incenso e mirra.
‘Saluta la tua edo.’ ti ha detto tuo padre. Edo, io, la tua zia paterna.” il padre della ragazza a cui si rivolge, il
cui nome è Soraya, è il fratello di Igiaba, quindi, è la zia paterna che in somalo si dice Edo.

“Eravamo insieme quando lo hai chiamato su Messenger.” insieme perché il fratello era andato a trovare
Igiaba a Roma “Insieme quando sei sbucata dallo schermo come una Madonna. Insieme quando tu, Soraya,
ci hai sorriso. Tuo padre è di passaggio a Roma. Qualche affare da sbrigare, noi da salutare, amici da
rivedere. Moh, il tuo aaho, (padre in somalo) ha il volo di ritorno per Nairobi tra quindici giorni. È bello averlo
intorno come ai vecchi tempi, quando eravamo ancora piccoli, ancora con le ali da mettere sulle spalle come
gli angeli. Anche lui come te ride molto, cara nipote. Ma la sua risata è grassa, piena, rotonda, quasi
debordante. È rimasta quella di quando, negli anni Ottanta, era un giovanotto alla moda. Quando Moh andrà
via, come al solito mi si spezzerà il cuore, lo so già. Noi sradicati dovremmo essere abituati a questi
distacchi, alle lunghe separazioni che sono il pane quotidiano di ogni famiglia migrante.” essere migrante è
un qualcosa che ti resta per tutta la vita, non ti staccherei mai da questa posizione “Ma la verità è che non ci
si abitua mai a dire addio a chi ami. Lo vorresti sempre accanto. Per specchiarti in ogni momento in occhi
così simili ai tuoi. Siamo una famiglia wabaan nabay qoys, e come tutte le famiglie somale della diaspora
siamo dispersi in cinque continenti. Spezzati dalla guerra che ci ha colpito, dagli infortuni, da un'antica
dittatura, dalla morte e dall'amore. E ogni separazione ci distrugge. Ci disperde. Ci annienta.”

Questo paragrafo era molto importante perché è la dimensione di un migrante e una dimostrazione di ciò
che la migrazione provoca nelle famiglie perché un migrante non è un punto isolato ma fa parte di una rete
di rapporti e affetti che inevitabilmente si spezza, si disperde in giro per il mondo.

Igiaba descrive poi la condizione di questa famiglia: “Il tuo aabo vive a Nairobi con tua madre e le tue
sorelline più piccole. Invece tuo fratello Sueyb è in Occidente come te, studia ingegneria civile, al contrario di
noi due ha una testa matematica. Tuo padre, e tu lo sai bene, moriva dalla voglia di tornare a vivere in
África.” È ritornato ma in Kenya quindi non in Somalia ma vicino.

“Io sono qui, a Roma, Sono una donna made in Italy. Unico punto fermo di una famiglia sempre in
movimento. Fissa nel luogo in cui sono nata e cresciuta. Abitudinaria come tutti i romani. Immersa in questo
Occidente con cui a volte anch'io faccio a pugni. Tu invece, nipote amatissima, hai vagabondato per un
mondo fatto di sentieri e foreste. E oggi sei nel Quebec canadese, parli francese come i personaggi di Xavier
Dolan annullando le vocali nasali di Parigi, quasi ribellandoti a esse. Torni a parlare francese standard solo
con tua madre Naima. La tua hooyo, Naima, è di Gibuti, ex Somalia francese,” La Somalia una volta era un
unico paese abbastanza unitario con una cultura molto simile e una lingua molto simile ma l’arrivo delle
potenze coloniali spezzava questi antichi popoli e la Somalia era divisa da una parte italiana, una parte
francese e una parte inglese quindi ognuna con una lingua dominante coloniale diversa che poi gli abitanti
sottoposti era obbligati ad imparare per la sopravvivenza. Quindi la madre di Soraya che era di Gibuti, antica
parte francese della Somalia, aveva imparato il francese ed era quindi proiettata verso una cultura diversa
da quella italiana.

“Invece con tuo padre, il tuo aabo, parli in inglese” Ritornato in Kenya dove la lingua coloniale invece era
l’inglese. Quindi questa pluralità di lingue riflette, purtroppo, ancora sull’effetto del colonialismo anche dopo
la fine delle colonie.

Arriviamo alla fine, pagina 12, che è molto importante da leggere legato alla lingua delle origini, il lessico
familiare e le parole che saranno il titolo di ogni capitolo.

“Nel tuo flusso però, e ti succede soprattutto proprio quando parli con il tuo aabo, ogni tanto fuoriesce
inaspettato il somalo. Non è il somalo della regione del Banaadir che parliamo noi in famiglia, non è
nemmeno il somalo del Nord, più chiuso, duro, che parlava tua madre a Gibuti nella sua prima giovinezza. Il
tuo somalo, Soraya, odora di casa, pannolini, primi passi, primo dentino. Un somalo quasi neonato, dolce e
tenero come una Sachertorte ripiena di nuvole e zucchero. È un somalo da bambina, mescolato
casualmente a quel tuo accento britannico da alta società, a fiorire nella tua bocca di giovane adulta quando
chiacchieri su Messenger con tuo padre. E ogni volta io lo ascolto con stupore. Sentirti parlare mi incanta,
Soraya, E mi fa sentire viva. Io parlo e scrivo in italiano. Parlo anche somalo, con le parole che mi ha
insegnato mia madre, la tua ayeyo,(nonna in somalo) una donna che durante l'infanzia è stata una pastora
nomade e che per tutta la vita ha avuto nostalgia di quella realtà rurale fianco a fianco con il proprio
bestiame, la propria fatica.” La madre di Igiaba ha quindi un'origine profonda e antica che viene dalla terra,
dalla pastorizia, dal contatto diretto con gli animali e la natura. “Ho imparato da lei, e dagli antichi sicomori
che punteggiavano il panorama della boscaglia, tutto il somalo che ho dentro.Mio padre, awowe Ali per te,
aabo Ali per me, era invece di madrelingua chimini, la lingua di Brava, sua città natale, affacciata sull'oceano
Indiano, a sud di Mogadiscio. Quel chimini che io non so parlare e nemmeno sognare. Lingua del mio
rimpianto, della mia essenza sospesa.”

“Insieme tu e io parliamo soprattutto inglese”

Quindi la lingua di mediazione tra loro due non è il somalo, non è l'italiano, non è il francese, è l'inglese.

“Lingua franca tra noi e il mondo. Ma io non sono perfetta in quella lingua imperiale che tu parli come un
rampollo di Eton. Incespico, da brava italiana erede di Totò e Peppino De Filippo, in qualche errore
grammaticale, in qualche dubbio sul tempo verbale da usare. Present perfect, present progressive, past
tense. E poi non riesco mai a stare ferma, sono talmente in estasi che passo dall’inglese al somalo, dal
somalo all’inglese, e ogni tanto c’è pure l’italiano. Ogni parola frulla sulla punta della lingua e spicca il volo in
una direzione diversa da tutte le altre. Ma nonostante questo ci capiamo. Dopotutto sono sempre la tua edo,
e tu la mia amatissima. Quasi non servono parole.

I’m your edo and you are my beloved.

My dream.”

Di nuovo ritorna alla lingua italiana, con un paragrafo molto bello in cui parla di nuovo dell'importanza della
lingua italiana e della cultura italiana, quindi di come quella che per lei era la lingua coloniale, la lingua del
dominio, sia diventata la lingua dell'accoglienza, la lingua della cultura.

"L’italiano, la lingua di chi ha colonizzato i nostri antenati a Brava come a Mogadiscio, una lingua un tempo
nemica, un tempo negriera, ma che ora è diventata, per una generazione che va da mia madre a me, la
lingua dei nostri affetti. Dei nostri più intimi segreti. La lingua che ci completa nonostante le sue
contraddizioni. Lingua di Dante, Petrarca, Boccaccio, Elsa Morante e Dacia Maraini. Lingua di Pap Khouma,
Amir Issaa, Leila El Houssi, Takoua Ben Mohamed e Djarah Kan. Lingua un tempo singolare e ora plurale.”

"Lingua un tempo singolare e ora plurale".

Una frase bellissima, molto importante, da imparare a memoria. Anche nel passato, qualche volta, la lingua
italiana non era singolare.

"Lingua mediterranea, lingua di incroci."

Queste sono le cose importanti.

"Jirro Malattia" è un titolo inquietante con cui comincia tutto il libro.

"La mia hooyo ascolta (con una certa felicità, va detto) il tuo proposito di imparare l’italiano.”''

Anche Soraya per comunicare meglio con zia Igiaba ad un certo punto le ha detto che le piacerebbe
imparare l'italiano e la mamma di Igiaba è contenta, "finalmente rivede fra voi un terreno comune. Un futuro
in cui non avrete bisogno di interpreti o dizionari. O di me a farvi da ponte. E ti sorride, Soraya. E ti dice
“Bella ciao” dandoti una prima lezione di lingua, e di vita, in un italiano che splende come una cometa. Tu
trovi le parole che sono appena uscite dalla bocca di ayeyo così musicali, così perfette, così italiane. “Bella
Ciao”, le rispondi.”

Ayeyo è la mamma di Igiaba, a seconda del punto di vista può essere Hooyo o Ayeyo. Queste sono parole
del lessico familiare, le prime parole di un lessico familiare sono quelle che designano le relazioni familiari,
come “papà” e “mamma”. Certe volte nelle altre lingue sono molte di più e molto più complesse che non
nella lingua italiana. Come succede anche nella lingua cinese, in cui ci sono parole che servono a indicare i
diversi gradi di sorelle, fratelli, zii, nonni. Le parole cinesi sono tantissime per indicare la famiglia cinese.

“Già ami la lingua italiana. Già te la senti addosso come un vestito di seta pregiato. Ma poi il tuo sorriso si
spegne, ti fai d’un tratto seria. Forse ti sei accorta che nella musica dell’italiana, in quella sua bellezza che
stordisce, c’è una piccola, quasi invisibile, nota stonata. Ti sei accorta che nei sorrisi di mia madre, di tua
nonna, c’è come una crepa.

Eh sì, Soraya mia. Una crepa.

Quello che vedi tra i suoi denti, attraverso lo schermo del cellulare, è il Jirro. Il Jirro che ci ha attraversati,
nipote mia. E che non smette, nonostante il tempo trascorso, di farci male."

“Jirro. Anch’io come mia madre sorrido, parlo, esisto, con quella stessa lieve fenditura che mi gonfia le
gengive, E’ come se ci fosse una fessura tra le nostre labbra, i nostri canini, la nostra lingua che si cela allo
sguardo.

Quella crepa la noti, se osservi bene, anche in altre parti del nostro corpo. Nella piega degli occhi. Nelle
ossa che si frantumano e diventano macerie. Nelle mani che impercettibilmente tremano a ogni sospiro.

Anche il tuo aabo è crepato dentro come noi. Ma sa nasconderlo meglio. In cumuli di risate grasse e di
battute al vetriolo. Però anche in lui, facci caso, c’è quella piccola, quasi invisibile spaccatura. E lì si è
insinuato il Jirro.

Jirro in somalo significa “malattia”, letteralmente è così, ogni vocabolario ti riporterà questa spiegazione.
Persino Google Translate.
Ma Jirro per noi è una parola più vasta. Parla delle nostre ferite, del nostro dolore, del nostro stress
postraumatico, postguerra. Jirro è il nostro cuore spezzato. La nostra vita in equilibrio precario tra l’inferno e
il presente.

Siamo esseri diasporici, sospesi nel vento, sradicati da una dittatura ventennale, da una delle più devastanti
guerre avvenute sul pianeta Terra e da un grosso traffico di armi che ha seppellitto le nostre ossa, e quelle
dei nostri antenati, sotto un cumulo di kalashnikov che dalla Transistria sono sbarcati direttamente al porto di
Mogadiscio. Per annientarci.”

Il Jirro è la malattia. La malattia in senso metaforico, la malattia dell'umanità, del mondo, della violenza, della
guerra, della sopraffazione, del colonialismo. È la ferita che viene inferta ad altri essere umani e che poi,
anche se si rimargina, si cicatrizza, è una ferita che resta per sempre. La malattia resta per sempre.

Per Igiaba è una malattia terribile, perché è quella che ha colpito sia il suo paese che la sua famiglia.

Salta un paragrafo in cui si sintetizza la storia recente della Somalia. Dalla guerra civile, cioè dall'inizio degli
anni '90. Quello che poi racconterà in maniera molto drammatica nel libro è perché tutto ciò si collega in
maniera così diretta alla loro famiglia, nonostante siano scappati 20 anni prima dello scoppio della guerra. La
motivazione è che la mamma di Igiaba era ritornata in Somalia proprio pochi mesi prima dell'inizio della
Guerra Civile e che si fosse trovata lì intrappolata e che per un certo periodo sia Igiaba che il padre erano
rimasti da soli a Roma senza notizie. Un periodo terribile, fatto di paura, prima che lei riuscisse a scappare.
Questa è la storia che percorre questo libro.

"Gli altri, quelli che abitano mondi di apparente pace, davanti alla nostra caduta si credono puri e innocenti.
Ma nessuno è innocente. In un mondo interconnesso come il nostro, dove le risorse viaggiano sempre a
senso unico, dal Sud verso il Nord, credersi innocenti è un’illusione.

E’ il delitto più grande.

Sono più di quarant’anni che il mondo, le multinazionali occidentali e non solo sversano rifiuti tossici in quel
mare somalo che un tempo ha visto le gesta dei nostri fratelli, delle nostra sorelle. Inquinano oceani e poi si
lavano le mani dal sangue tra le onde."

(legge il testo)

‘’Per questo la parola somala jirro, fatalmente ci descrive Soraya, descrive i nostri frequenti mal di testa, la
nostra ansia che non va mai via, i perenni dolori cervicali, il cervello che si dissocia da sé stesso, i tumori che
ci hanno quasi abbattuto. Gli occhi che si velano di opaca oscurità, le orecchie che si rifiutano di ascoltare il
cuore che perde battiti, la gola che si fa deserto, i capelli che cadono come foglie, i lavandini pieni di paure, il
jirro, la maledetta guerra che ci abita dentro e ci spezza. Sei forse tu il mio antidoto al jirro amore mio, a
questa guerra che ancora mi devasta?’’

Alcune delle frasi che abbiamo letto le potremmo anche applicare al nostro territorio. Anche la Campania,
anche il territorio di Napoli, la Terra dei Fuochi ha il suo jirro ,ha le sue guerre. Basta leggere Gomorra,
Roberto Saviano ci ha spiegato qual è il nostro jirro, qual è la malattia che percorre e ferisce anche il nostro
territorio.
Andiamo verso la fine di questo brano. A pagina 19.

(legge il testo)

“Ma zia, edo”, cioè io, “è anche colei che racconta storie. Quelle più belle. E quelle più scomode.

E io sono per te anche colei che traduce. Antenata dopo antenata. Virgola dopo virgola. Massacro dopo
massacro. Viaggio dopo viaggio. Kalashnikov dopo kalashnikov. Sono la turjumaan, la traduttrice, di una
storia ancora da scrivere che non so scrivere. Forse è per questo, Soraya, che mi sono seduta davanti al
computer. Per tradurre. Si lo turjumo wihi tagay. Tradurre la nostra follia. O semplicemente ciò che dice tua
nonna, con cui non condividi ancora una vera lingua per comunicare.”

E qui comincia a comparire in modo più evidente il personaggio della madre che percorre poi tutto il libro.
Questo Libro è anche un atto d'amore nei confronti dei familiari di Igiaba, la nipote Soraya, ma soprattutto è
l’amore di Igiaba per la madre.

(legge il testo)

‘’Lei mi passa accanto, leggera come una piuma di pavone. Io scrivo in cucina, come già sai. Tua nonna, la
tua ayeyo, sta aprendo il frigorifero in cerca di una mela golden da sgranocchiare. Mi vede trafficare con
l'alfabeto latino e la tastiera del Mac. Poi mi chiede, e noto stranamente una certa ansia nella sua voce:"Ma
davvero Soraya studierà l'italiano? Ah, se lo imparasse sul serio... Quante cose le direi."È strano: la tua
ayeyo ha più fiducia nella lingua italiana, la lingua degli ex colonizzatori, che nel somalo natio. Io
ribatto:"Soraya potrebbe imparare anche il somalo, hooyo. Impararlo bene. Invece di affidarsi alla lingua di
chi..."Non mi lascia finire la frase. "È madrelingua francese," mi risponde secca e pratica. "Per Soraya
imparare l'italiano sarà come bere un bicchiere d'acqua, un gioco, vedrai come sarà veloce."Nel suo tono
sento la pressione del tempo. Soprattutto quando pronuncia la parola "veloce". Ho un lampo. Ecco cos'è
quell'ansia, quella sua voce tremula. E il tempo che si assottiglia. Per lei. Ma anche per me. Dobbiamo fare
presto, se vogliamo passarti i nostri saperi. Se vogliamo davvero spiegarti il Jirro, dobbiamo fare presto.
Presto dobbiamo fare per insegnarti a guarire o quantomeno a convivere con questo mostro. C'è ancora luce
nelle nostre pupille. Non la dobbiamo sprecare. Wahaan rabaa inaan ku sbeego marka hore... Come prima
cosa voglio dirti che... Che noi non siamo vittime. Al giorno d'oggi tanti ambiscono in qualche modo a
esserlo. Lo rivendicano come forma identitaria. Noi invece no. La nostra famiglia mai. Non abbiamo bisogno
di queste medaglie.”Noi non lo siamo mai stati, vittime, e non lo saremo in futuro. Questo ci tengo a dirtelo
fin da ora, Soraya. Il Jirro ci ha annichiliti, certo. Annichiliti. A tratti dissanguati. Disuniti. Percossi. Ci siamo
persi. Più volte. Come donne, uomini, famiglia. Individui, società. Ma siamo ancora qui, amore mio, insieme.
E siamo integri. Alhamdulillabi! Siamo qui. A benedire la vita. A farci abbracciare dall'ignoto. Credendo ogni
mattina in un nuovo orizzonte. E nella follia di un nuovo sole che sorge. Davanti a noi. Perpetuo. Giallo.
Felice. Immenso. Aad u weyn. Per questo ogni volta che il Jirro torna a farci visita noi troviamo una cura’’.

Capito? La relazione tra jirro e cura. La cura è nelle parole della letteratura, nel messaggio, nella
comunicazione.

(legge il testo)

Hooyo Cuce. Io scrivo. Tuo Padre ride. E tu, amatissima?

Non siamo vittime. Noi. Siamo solo delle sopravvissute.

"I know I'll stay alive," cantava Gloria Gaynor, nostra sorella. Anche lei con un Jirro tra le cosce.
Perché il Jirro esiste. E’ qui scritto nella nostra carne fragile. Ci strazia. Ci svuota.Ci morde. Ma una cosa la
so per certo Soraya, sopravviveremo. Sembra banale dirlo, sembra una frase uscita da qualche confezione
di cioccolatini, ma è così wo lahi!’’ (wolahi > esclamazione in lingua araba diffusa in tutto il mondo islamico
che significa ‘lo giuro su Dio’) > tra l’altro nei paesi islamici è un’esclamazione che indica un giuramento sul
nome di Dio/Allah; quindi, non va mai fatto in vano. Quindi quando questa espressione compare nella prosa
tra le parole straniere nella lingua di Igiaba, sembra ‘uscire’ in modo casuale, ma in realtà è sempre legata a
momenti forti, dell’enunciazione a delle cose veramente importanti e qui è l'idea del vivere, del sopravvivere,
dell'analisi.

‘’vedrai sopravviveremo amandoci’’

Se noi pensiamo, Il primo destinatario è Soraya , la nipote. Però in realtà, come ogni opera letteraria, ogni
poesia o grandi romanzi, lo scrittore si rivolge a tutti noi. Quindi questo invito, questa speranza si rivolge a
tutti i lettori di questa storia, di questo libro.

Noi avremmo anche quasi finito, ma ne approfitto per leggere ancora un breve brano che non avevo
riportato nel pdf da uno dei capitoli successivi che è quello intitolato ‘Famiglia’🡪 COIS in somalo. Che poi,
leggendo questo brano, fa un po’ impressione, perché voi immaginerete che la parola famiglia e’ una parola,
importantissima proprio del lessico familiare, come vi ricordate in somalo, è importante. E invece nel corso di
questo capitolo, Igiaba ci racconta una cosa che gli aveva raccontato sua madre🡪 che in realtà aveva
imparato la parola italiana’’ famiglia’’ perché l'avevano scritta fuori la porta della loro capanna, della loro casa
e la madre le aveva spiegato ‘’ sai perché i soldati italiani scrivono la parola famiglia fuori la nostra capanna?
Per indicare agli altri soldati italiani di non entrare qua dentro a stuprare le donne o pensare che qui ci siano
delle ragazze disposte a darsi per qualche moneta’’. Nelle case dove fuori c'era scritta la parola ‘’famiglia’’, i
soldati italiani non entravano . Ecco, quindi, una cosa che mi ha fatto molta impressione. All’inizio del
capitolo era importante perché di nuovo ritorna sul tema della lingua e della lingua italiana come grande
lingua di mediazione linguistica e culturale, quindi come lingua plurale, come lingua di condivisione, di
incontro, tanto nel Mediterraneo e tra popoli diversi.

(legge il testo)

Ogni sito di ogni corso di italiano che ho trovato online racconta le sue top reasons, Le 5 o 10 o 20
motivazioni per cui studiare la lingua di Dante Alighieri. È una lingua che crea atmosfera, dicono in molti casi.
È la lingua dell'arte e dell'opera. Ah, Bravo Figaro bravo, bravissimo, bravo. Non più andrai, farfallone
amoroso, notte e giorno, d'intorno girando’’ sono le arie di Mozart, erano in lingua italiana,’’ ti permette,
dicono altri, di esprimere con una certa musicalità le emozioni. E poi ci sono la pizza, il caffè, il gelato, le
varie tipologie di questi alimenti hanno spesso nomi italiani e ti fa sentire bene l'italiano oh come ti fa sentire
colta, bella, unica, sgargiante, ti senti una regina, un re, una donna, un uomo del Rinascimento, Leonardo da
Vinci. L'italiano è una way of Life, uno stile di vita comodo, elegante e spumeggiante, sinonimo di buona
esistenza, indumenti sempre al passo con i tempi. Una lingua adatta a fare l'amore, ma anche a fare
shopping, melodia e sogno, la dolce lingua, la dolce vita, il made in Italy, romantica quanto basta e anche
pragmatica, senza esagerare si intende, ma nessuno di queste motivazioni è quella giusta per te. Lo sai
vero? E qui poi ricorda l'italiano, per noi che cosa è stato, che cosa c'era dietro? Era lingua del jirro, la lingua
della malattia e della ferita è una storia rapace, una relazione coloniale.

Dacia Maraini
Gli ultimi testi del programma appartengono a due grandi scrittrici italiane contemporanee che hanno anche
affrontato direttamente i temi della condizione femminile e della violenza. I brani più crudi e duri di
“Cassandra a Mogadiscio” e nei libri di Igiaba, il tema della violenza sulle donne viene proprio descritto e c’è
una parte che riguarda proprio la madre d'Igiaba. Quando era ancora una ragazzina, un’adolescente, la
madre d'Igiaba fu sottoposta alla pratica dell'infibulazione, una pratica terribile imposta come violenza
collettiva contro le donne.

Il testo di oggi è tratto da uno dei più bei libri di Dacia Maraini. Nonostante la maggiore età rispetto a Igiaba,
rimane sempre molto attiva nel sociale e scrive sui giornali, la vediamo in televisione, sempre
straordinariamente attiva ed interviene soprattutto su quelle tematiche che riguardano le donne, il femminile.
È una delle tematiche che ha sempre battagliato nel suo campo di lotta fin da quando era giovanissima. . La
sua stessa vita si potrebbe dire un romanzo, mettendo insieme le tante parti in cui parla di lei, si potrebbe
creare un romanzo sulla sua vita, una vita straordinaria. Dacia era figlia del più grande orientalista del
tempo, è una dimensione che si avvicina molto a noi dell'Orientale. Il padre si chiamava Fosco Maraini ed è
stato un grandissimo viaggiatore un po' in giro per il mondo, ma soprattutto in Oriente: in India, Cina, Tibet,
Giappone. Un personaggio straordinario grande fotografo e scrittore. In alcuni di questo viaggi lui era a
seguito di Giuseppe Tucci, un altro grande orientalista, il fondatore dell’Istituto italiano dell'Oriente. Insieme a
Tucci si era avvicinato alla civiltà del Tibet. Dacia è quindi figlia più che fiorentino toscano(?) e di una
principessa siciliana, un matrimonio molto particolare. Quindi questa duplice origine caratterizza la sua vita.
Da bambina aveva accompagnato i genitori in Giappone, dove il padre lavorava con l'Istituto italiano di
cultura, faceva lavori di relazioni culturali. Il problema è che nel 1943 l’Italia che prima era alleata della
Germania e del Giappone, chiede l'armistizio e quindi tutti gli italiani in Giappone vengono catturati e
rinchiusi in un terribile campo di prigionia che era quasi un campo di concentramento come quelli tedeschi,
dove ti riducevano alla fame e spesso anche alla morte. E questi sono i primi ricordi di Dacia Maraini
bambina, ricordi di prepotenze, della fame e di questo periodo che lei ha vissuto nel campo di
concentramento giapponese. Il resto della sua vita lo passò in Italia, si avvicinò al movimento femminista,
quindi ha sempre lottato per i diritti delle donne e ha deciso di diventare una scrittrice proprio per raccontare
le storie delle donne. Quasi tutti i suoi libri sono incentrati su storie di donne. In questo è stata molto vicina
ad altri grandi scrittori con cui ha condiviso la vita, il più grande Pierpaolo Pasolini, è stata la sua più grande
amica. Insieme a

Pasolini ha scritto le sceneggiature degli ultimi film di Pasolini “Il fiore delle mille e una notte”, “Il grande
sguardo di Pasolini all'Oriente e all'Africa” è stato scritto per metà da Dacia. L'altro grande scrittore è Alberto
Moravia, di cui Dacia è diventata addirittura la compagna, quindi ha condiviso la vita con Moravia per quasi
vent'anni, quindi un periodo molto importante.

La maggior parte dei testi di Dacia sono storie di donne e sono storie di donne di oggi. Però ad un certo
punto, Dacia ha sentito il bisogno di ritornare a parlare delle origini di sua madre che non conosceva tanto
anzi, quando era giovane, quasi non voleva mai parlarci, rifiutava questo modo un po’ arcaico e ancora
legato a grandi distinzioni di classe in cui la donna era ancora considerata ad un livello subalterno, nella
Sicilia tradizionale. Però ad un certo punto della
sua vita, Dacia ha sentito il bisogno di tornare nel mondo di origine di sua madre, in Sicilia, in una cittadina
bellissima della Sicilia vicino Palermo che si chiama Bagheria che è anche la città di origine di Tornatore
(giornalista), quindi è una città che viene raccontata in un bellissimo film di Tornatore “Baarìa” il nome
dialettale di Bagheria ma è anche il titolo di un libro di Dacia Maraini “Bagheria”, il suo libro più
autobiografico. In esso racconta un ritorno di Dacia a Bagheria, il paese di sua madre, e di un periodo di
soggiorni nella villa dei suoi antenati (principi e principesse) che esiste ancora a Bagheria, si può ancora
oggi visitare e forse addirittura anche soggiornare e l’edificio si chiama Villa Valguanera.
Dacia era quindi discendente di un’illustre famiglia aristocratica siciliana, la famiglia Alliata di Salaparuta,
ancora oggi una famiglia conosciuta in nome e nella seconda parte del nome perché sono produttori di vino ;
il vino Corvo di Salaparuta è uno dei migliori vini rossi siciliani e prodotto dai parenti di Dacia Maraini.
Un’altra sua parente Vittoria Alliata, la cugina, appassionata di letteratura inglese, è stata la prima traduttrice
italiana di Tolkien, del signore degli anelli.
Quando Dacia è tornata a Bagheria, quando è tornata in Sicilia, le è venuta l’idea di scrivere un libro che è
tutta la storia di una sua antenata, della più singolare, della più straordinaria delle donne che avevano
composto la sua famiglia e diventa emblema della sofferenza delle donne, della lotta che fanno le donne per
raggiungere una loro indipendenza, una loro autonomia, nonostante le violenze che segnano la propria vita.
La lunga vita di Marianna Ucrìa, il titolo del libro, un romanzo storico, la vita, la storia di Marianna Ucrìa
Alliatadi Salaparuta e che è l’antenata di Dacia Maraini, un po’ uno specchio perché spesso, questi
scrittori/scrittrici si proiettano in grandi personaggi che però sono una proiezione di sé stessi/sé stesse.
Marianna ha una caratteristica che condiziona tutta la storia dall’inizio alla fine: è sordomuta. E’ stata privata
della capacità di comunicare con gli altri, con il mezzo che per gli esseri umani è tradizionalmente più
normale, il mezzo di comunicazione che è la parola e quindi la combinazione orale che è inanzitutto
ascoltare e parlare. Tutto questo a Marianna è negato, è negata la comunicazione per mezzo della parola, è
sordomuta e allora lei impara a comunicare in un modo strano, particolare, con la scrittura che in siciliano si
dice “pizzini”, quelli che usavano anche i mafiosi (pezzetti di carta su cui scrivere messaggi). Non lo fa
perché è mafiosa, ma perché doveva comunicare in qualche modo e gli altri comunicavano con lei su dei
foglietti di carta. (Lei fa la domanda, scrive e la mamma, il papà e i fratelli le rispondo scrivendo su un altro
pezzo di carta).

Lettura

-Cominciamo a leggere uno di questi episodi in cui Marianna, bambina, da poco adolescente quindi le hanno
detto “Ma..se..diventando donna” e ha uno svenimento e allora la mamma, in camera sua, le va a parlare;
intanto quindi hanno questa comunicazione strana, una comunicazione deviata dalla carta (il brano di questo
capitolo 6 è la pagina 29).

(testo)

Quando la duchessa Maria vede che la figlia si riprende

va verso lo scrittoio, afferra un foglio di carta e vi scrive sopra

qualcosa. Asciuga l’inchiostro con la cenere e porge il foglio

alla ragazzina.

<<Come stai figghiuzza?>>

-Queste frasi che nel libro noi vediamo come se fossero frasi di un dialogo, ricordiamo sempre che non sono
un dialogo, non sono parole pronunciate, ascoltate, ma sono parole scritte.

Marianna tossisce sputando l’aceto che le è colato fra i

denti nel tirarsi su.

-Era svenuta e l’hanno fatta rinvenire.

La signora madre le toglie ridendo lo straccio bagnato dalla faccia.

Poi si dirige alla scrivania, scarabocchia ancora qualcosa

e torna con il foglio verso il letto.

(continuare sul testo da dove dice “Ora hai tredici anni, approfitto per dirtelo…”)

“<Ora hai tredici anni, approfitto per dirtelo che ti devi maritari…>” devi eh, non è che PUOI per tua scelta,
no, devi maritari. “<…che ti avimu trovatu uno zito per te perché non ti fazzu monachella come è destino di
tua sorella Fiammetta>.”È destino, no, anche la sorella non è che ha scelto mi faccio monaca, no, tu ti fai
monaca. Tu ti devi maritari. Non c’è libertà, non c’è scelta. “La ragazzina rilegge le parole frettolose della
madre che scrive ignorando le doppie, mescolando il dialetto all’italiano, usando una grafia zoppicante piena
di ondeggiamenti. Un marito? Ma perché? Pensava che mutilata com’è, sordomuta, le fosse interdetto il
matrimonio, e poi ha appena tredici anni. La signora madre ora aspetta una risposta. Le sorride affettuosa
ma di un’affettuosità un poco recitata. A lei questa figlia sordomuta mette addosso un senso di pena
insostenibile, un imbarazzo che la gela. Non sa nemmeno come farsi intendere da lei. Già lo scrivere le
piace poco, leggere poi la grafia degli altri è una vera tortura, ma con abnegazione materna si dirige docile
verso la scrivania, afferra un altro foglio” E scrive la tratta “prende la penna d’oca e la boccetta dell’inchiostro
e porta ogni cosa alla figlia distesa sul letto. <Alla mutola un marito?> Scrive Marianna appoggiandosi su un
gomito e macchiando nella confusione, il lenzuolo di inchiostro.” E la madre risponde tutto per iscritto un
foglio intero che lei ha scritto faticosamente perché non sa scrivere molto bene l’italiano, così così il dialetto
siciliano. “<Il signor padre…>” Il papà pure è morto eh “<…tutto fici per farti parlari portandoti cu iddu perfino
alla Vicaria che ti giovava la scantu…>” (La paura) <“…ma non parlasti perché sei una testa di balata…>”
(Sei mezza scema) “<…non hai volontà… tua sorella Fiammetta si sposa con Cristo, Agata è promessa col
figghiu del principe di Torre Mosca, tu hai il dovere di accettare lo zitu che ti indichiamo perché ti vogliamo
bene e perciò non ti lasciamo niescere dalla famiglia…>” Per questo. Questi discorsi che ancora oggi anche
nella società di oggi anche nel mondo di oggi pensate anche alla povera ragazza pakistana ecco. La
famiglia, la violenza che sta dentro la famiglia. “<…per questo ti diamo…>” Non ti chiediamo no, sei una
cosa, un oggetto, ti diamo “<…allo zio Pietro Ucrìa di Campo Spagnolo…>” è suo fratello, il fratello della
madre “<…barone della Scannatura, di Bosco Grande e di Fiume Mendola, conte della Sala di Paruta,
marchese di Solazzi e di Taya…>”. Tu ti sposi i titoli per diventare principessa ma sei un oggetto, sei una
cosa, sei una merce di scambio. C’è tutto uno sdegno di Dacia quando scrive queste cose. Ma perché non
mandare in convento Marianna? È sordomuta, è la più menomata di tutte, e invece c’è una ragione
purtroppo. Questo capitolo ci descrive una prima violenza, la violenza morale e psicologica della famiglia su
una bambina di tredici anni che si deve maritare e non può difendersi, non ha libertà. “<…che poi, oltre a
essere mio fratello è pure cugino di tuo padre e ti vuole bene e in lui solo ci puoi trovare un ricetto all’anima.>
Marianna legge accigliata non facendo più caso agli errori di ortografia della madre né alle parole in dialetto
gettate lì a manciate. Rilegge soprattutto le ultime righe: quindi il fidanzato” Attenzione fidanzato, un bel
giovane no, anche se non lo scegli tu va beh no, “ma il fidanzato, lo zitu, sarebbe lo zio Pietro? Quell’uomo
triste, ingrugnato, vecchio,sempre vestito di rosso che in famiglia chiamano il gambero? <Non mi marito>,
scrive rabbiosa dietro il foglio ancora umido delle parole della madre”. Marianna è una ragazzina di tredici
anni e ha l’illusione di essere ancora libera, di poter decidere il suo destino, e quindi dice di no, pensa di
poterlo fare. “La duchessa Maria torna paziente allo scrittoio, la fronte cosparsa di goccioline di sudore: che
fatica le fa fare questa figlia mutola: non vuole capire che è un impiccio e basta. <Nessuno ti prende attia
Mariannina mia. E per il convento ci vuole la dote, lo sai.>” Era costoso anche monacare una figlia. “<Già
stiamo preparando i soldi per Fiammetta, costa caro. Lo zio Pietro ti prende senza niente perché ti vuole
bene e tutte le sue terre seriano le tue, intendisti>?” È come Dacia “Ora la signora madre ha posato la penna
e le parla fitto fitto come se lei potesse sentirla, accarezzandole con un gesto distratto i capelli bagnati di
aceto. Infine, strappa la penna dalle mani della figlia che sta per scrivere qualcosa e traccia rapida, con
orgoglio, queste parole: In contati e subito quindicimila scudi.” È il prezzo di questa compravendita. La
mamma vende la bambina allo zio, a suo fratello in cambio di quindicimila scudi. Il tempo un pochino ci
manca e avrei voluto leggere altri brani che sono quelli che ritrovate nel pdf quindi vi invito poi a leggere un
pochino i brani ma sono dei brani molto belli. Il passaggio successivo è tratto da un capitolo, uno dei più belli
del libro, intanto è un libro che vi consiglio di leggere interamente, veramente, secondo me, è il più bel libro
di Dacia Maraini.

Il capitolo più bello è il quindicesimo, ambientato di notte, in cui Dacia rimasta sveglia di notte gira

per la casa semivuota perchè se ne sono tutti andati, la sorella si è fatta monaca, l'altra si è maritata ,

il fratello è diventato Vate, è l'unica rimasta nella casa e in ogni stanza, in ogni luogo troviamo i icordi delle
persone che non vivono più con lei.

E' un capitolo veramente molto bello e si nota che alla fine, quando ritorna nella sua stanza (nella

parte finale del capitolo), c'è suo marito che sarebbe lo zio Pietro che scopre di condividere il suo

letto con lei e ad un certo punto cerca di prenderla con la forza, come se fosse sempre un atto di

violenza, come la prima volta che si erano sposati.

A questo punto, Marianna cerca disperatamente degli spazi di libertà, di indipendenza, che possono
essere concessi anche ad una donna aristocratica del suo tempo perchè la punizione sulla fertilità

delle donne era comune per qualunque strato sociale (c'erano dei livelli di sofferenza e di violenza

diversi, ma infondo erano identici per tutti, sia per una schiava, sia per una donna libera che per una

donna aristocratica, comunque non potevano essere libere).

Alcune volte c'erano spazi di libertà, per mezzo della scrittura e dell'arte dove le donne diventavano

scrittrici e poetesse, anche per mezzo della pittura, ovvero la strada che sceglie Marianna. A lei piace

dipingere e leggere e quindi pian piano si forma una grande biblioteca di libri straordinari ed è il capitolo 21,
come vi avevo riportato perchè si trovano i titoli dei libri che leggeva Marianna e tra

questi libri compare un certo mito dell'epoca, un libro del filosofo inglese (il prof vecce nomina il filosofo ma
non si capisce). Quindi ci sono spazi di libertà per Marianna, (Qui fanno una domanda al

prof ovvero ''Marianna è ancora vergine? lui risponde dicendo: adesso siamo passati a qualche anno

dopo, lei è ancora giovanissima tra i 20/22 anni ha già avuto tre/quattro figli, purtroppo all'epoca era

così però comunque troviamo questi spazi di libertà grazie alla pittura e la lettura che erano diciamo

la cosa che rendeva libera la donna in quel caso).

(Fanno un'altra domanda al prof, ovvero: Marianna come affronta quel periodo? anche perchè lei

era una ragazza , lui risponde: sono le parti che vengono descritte negli altri capitoli del libro , quindi

la risposta è leggete questo libro perchè è bellissimo, gli spazi di libertà più importanti arriveranno

dopo quando finalmente muore il marito, e si sente libera perchè farà delle cose che scandalizzano tutti ,

scandalizzano i fratelli che volevano togliere l'eredità al marito, anche per senso di colpa anche

perchè aveva intestato tutto, le terre e infatti lei diventa duchessa e diventa anche enormemente ricca,
anche perchè agli altri non ha lasciato niente e quindi era uno scandalo. Lei va a

visitare quelle terre e preoccupa delle condizioni dei contadini ,soprattutto delle donne e cambia la vita degli
altri , porta un messaggio di speranza, di un cambiamento ma resta il mistero sulla sua vita (Perchè è
sordomuta ?), ogni tanto dentro la sua testa compaiono degli strani ricordi e le

sembra di ricordare di quand'era piccolissima , quando aveva 5/6 anni come cantava , gli sembra di
ricordare nella testa il motivo di una canzone , ma come fa a ricordare un suono di una canzone se

lei era sordomuta dalla nascita e quindi la musica in teoria non l'ha mai ascoltata , qualche volta gli

sembra di sentire la voce della mamma o del papà e questo era impossibile se hanno detto che lei è nata
sordomuta , infatti credeva che fosse un sogno ma ad un certo punto non c'è la fa più e dopo la

morte del marito, il fratello (Dacia nel libro usa uno strano artificio ) dice quasi per magia, Marianna,

che era sordomuta e per comunicare con gli altri si serviva solo della scrittura, ma certe volte aveva la
capacità di leggere nei pensieri delle persone che stavano d'avanti, un mistero della letteratura,

non sappiamo se è vero o non è vero, ma quasi per magia , in questo modo Dacia ci ricorda anche i pensieri
degli interlocutori di Marianna che quando scrivono, scrivono una frase

breve, poi magari dentro di se pensano un'altra cosa , dice: "guarda questa scema che non capisce", ma in
realtà capisce e sente tutto. ora leggiamo il capitolo 34 pag 209. L'abate è molto malpensante, visto che
Marianna è rimasta libera vedova, finalmente forse ha anche la speranza di scegliersi l'amore
C'è un bellissimo ragazzo che è il fratello di una sua serva con cui lei però non ha un rapporto di padrona
serva, ma quasi come una sorella minore. Due ragazzi sventurati perchè erano figli di un condannato a
morte, che era stato impiccato e il fratello, il ragazzo bellissimo, stava diventando il suo intendente, si sta
anche innamorando di lui di Saro. allora l'abate molto malpensante, pensa: mia sorella mi ha chiamato
perchè forse vuole un consiglio morale, che devo fare?

Non le rimane che ringraziare e andarsene.

Eppure qualcosa la trattiene, una domanda che le stuzzica la mano. Prende la penna, ne mordicchia la
punta, poi scrive rapida al suo solito.

"Carlo, ditemi, voi ricordate che io abbia mai parlato?"

"No, Marianna."

Nessuna esitazione. Un no che chiude il discorso. Il no che è sempre stato detto a Marianna, da sua madre,
da tutti : tu sei sordo mutola dalla nascita.

Un punto esclamativo uno svolazzo.

"Eppure io ricordo di avere udito con queste orecchie dei suoni che poi ho perduto."

"Non ne so niente sorella."

E con questo il colloquio è concluso. Lui fa per alzarsi e congedarla ma lei non accenna a muoversi. Le dita
tormentano ancora la penna, si macchiano di inchiostro. Bellissima la metafora della comunicazione che
passa solo attraverso la scrittura.

"C'è altro?" scrive lui chinandosi sul taccuino della sorella.

"La signora madre un a volta mi disse che non sempre sono stata mutola e priva di udito." Tutto quello che
segue non è più scritto sono i pensieri di Carlo del fratello che lei riesce a percepire.

"Adesso che le prende? perchè il fratello sa tutto, sa tutta la verità non le è bastato venire a disturbarlo per
un famiglio, di cui magari è innamorata... già, come non pensarci prima?...non sono fatti della stessa carne?

lubrichi e indulgenti verso le proprie voglie, pronti a carpire, trattenere, pagare, perchè tutto è loro permesso
per diritto di nascita?...santo Signore perdono!...forse è solo un pensiero cattivo...gli Ucrìa sono stati dei
buoni cacciatori, degli insaziabili accaparratori...anche se poi si fermavano sempre a mezzo, perchè non
avevano il coraggio degli eccessi come i Scebarràs... (famiglia aristocratica) guardate la signora sorella
Marianna (sono i pensieri di Carlo) con quel pallore da lattante, quella bocca morbida... qualcosa gli dice che
è tutto da inventare in lei... un bel gioco sorella alla vostra età... una "locura"(una pazzia)... e nessuno che le
insegni i rudimenti dell'amore... ci lascerà le penne com'è facile prevedere... lui potrebbe insegnarle qualcosa
ma non sono esperienze che si possono scambiare far fartelli... che leprotta era da piccola, tutta paura e
allegria... ma è vero, parlava quando aveva quattro, forse cinque anni... lo ricorda benissimo e ricorda quel
sussurrare in famiglia, quel serrarsi di bocche atterrite... ma perchè? cosa cavolo stava succedendo in quei
labirinti di via Alloro? una sera si erano sentiti dei gridi da capponare la pelle e Marianna con le gambe
sporche di sangue era stata portata via, sì trascinata dal padre e da Raffaele Cuffa, strana l'assenza delle
donne... il fatto è che sì, ora lo ricorda, lo zio Pietro, quel capraro maledetto, l'aveva assalita e lasciata
mezza morta... sì lo zio Pietro, ora è ricchissimo, come aveva potuto dimenticarlo? per amore diceva lui, per
l'amore sacrosanto che lui l'adorava quella bambina e se n'era "nisciut pazzu"... com'è che aveva perduto la
memoria della tragedia? nei pensieri dello zio Carlo era uscita tutta la verità, Marianna a cinque, sei anni era
stata violentata dallo Zio Pietro e dopo aveva perso completamente la voce, diventata completamente
sordomuta.

"E dopo, sì dopo, quando Marianna era guarita, si era visto che non parlava più, come se, zac, le avessero
tagliato la lingua... il signor padre con le sue ubbie, il suo amore esasperato per quella figlia... cercando di
fare meglio ha fatto peggio... una bambina al patibolo, come poteva venirgli in mente una simile
baggianata!... per regalarla poi a tredici anni a quello stesso zio che l'aveva violata quando ne aveva
cinque...uno "scimunitazzu" il signor padre Signoretto... pensando che il mal fatto era pur suo, tanto valeva
che gliela dava in sposa... La piccola testa ha cancellato ogni cosa... non sa e forse è meglio così,
lasciamola nell'ignoranza, povera mutola...farebbe meglio a prendere un bicchiere di laudano e mettersi a
dormire... non ha pazienza lui con le persone sorde, né con quelle che si legano con le proprie mani, né con
quelle che si regalo a Dio con tanta dabbenaggine... e non sarà lui a rinverdirle la memoria mutilata...dopo
tutto si tratta di un segreto di famiglia, un segreto che neanche la signora madre conosceva... un affare fra
uomini, un delitto forse, ma ormai espiato, sepolto... a che serve infierire?."

L'abate Carlo, inseguendo i pensieri più reconditi si è dimenticato della sorella che ormai si è allontanata, è
quasi arrivata al cancello del giardino e da dietro sembra che pianga, ma perchè dovrebbe piangere? le ha
forse scritto qualcosa? come se avesse sentito i suoi pensieri, la babbasuna, chissà che dietro quella sordità
non ci sia un udito più fino, un orecchio diabolico capace di svelare i segreti della mente..."Ora la
raggiungerò", si dice, "la prenderò per le spalle e la stringerò al petto, le darò un bacio sulla guancia, lo farò,
cadesse il cielo..."

"Marianna!" grida avviandosi dietro alla sorella. Ma lei non può sentirlo. E mentre lui si tira su dalla
poltroncina in cui era sprofondato lei ha già varcato il cancello, è salita sulla lettiga d'affitto e sta discendendo
lungo la scarpata che porta a Palermo.

Marianna scopre la verità dal silenzio del fratello, c'è una grande metafora, l'eroina del suo romanzo, è il
simbolo di tutte le donne vittime di violenza, private della possibilità di comunicare, in modo tragico se la
violenza finisce anche con la morte. Nello scegliere il personaggio di Marianna, Dacia vuole dirci
esattamente che lei è sordomuta ma non lo è dalla nscita, perchè è vittima di violenza, la funzione della
letteratura è quella di ridare voce a chi la vocrìe non c'è l'ha perchè gli è stata tolta.

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