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LA VITA
Aron Hector Schmitz – in arte Italo Svevo – nacque il 19 dicembre 1861 a Trieste da un’agiata famiglia
borghese. Il padre era un commerciante in vetrami, figlio di un funzionario imperiale austriaco di origine
ebraica; la madre era anch’essa di origine ebraica. Gli studi del ragazzo furono indirizzati dal padre verso la
carriera commerciale e, nel 1873, fu mandato in un collegio in Germania dove ebbe modo di imparare il
tedesco. Contemporaneamente iniziò ad appassionarsi alle letture di scrittori tedeschi, Goethe, Schiller,
Heine, Jean Paul, dimostrando in tal modo il suo fondamentale interesse letterario. Nel 1878, all’età di
diciassette anni, tornò a Trieste dove si iscrisse all’Istituto Superiore per il Commercio “Pasquale
Revoltella”, frequentandolo per due anni. Ma la sua aspirazione era diventare uno scrittore: cominciò
quindi a comporre testi drammatici e, a partire dal 1880, collaborò con il giornale triestino
“L’Indipendente”, di orientamento liberal-nazionale e irredentista. Nel 1880, in seguito ad un investimento
industriale sbagliato, il padre andò in bancarotta: Svevo conobbe così l’esperienza della declassazione,
passando dall’agio borghese ad una condizione di ristrettezza. Fu costretto a cercar lavoro e si impiegò
presso la filiale triestina della Banca Union di Vienna, presso cui rimase per diciannove lunghissimi anni. Il
lavoro impiegatizio era per lui arido e opprimente, per tale motivo cercava costantemente di evadere dalla
realtà attraverso la letteratura. Frattanto si dedicò alle prime prove narrative, scrivendo alcune novelle e
progettando il suo primo romanzo, Una vita, che pubblicherà nel 1892 sotto lo pseudonimo di Italo Svevo.
Nel 1895 morì la madre, alla quale lo scrittore era estremamente legato. Al suo capezzale, incontrò la
cugina e se ne innamoro. Le nozze furono poi celebrate nel 1896; il matrimonio segnò una svolta
fondamentale nella vita di svevo: in primo luogo, l’”inetto” trovava finalmente un terreno solido su cui
poggiare e poteva arrivare a coincidere con quella figura che gli era parsa irraggiungibile. Ma mutava anche
radicalmente la condizione sociale dello scrittore, il suo fu un salto di classe sociale: Svevo si trovò
proiettato nel mondo dell’alta borghesia ma, soprattutto, da intellettuale si trasformo in dirigente
d’industria. I suoi orizzonti si allargarono dimensioni internazionali, perché per lavoro dovete compiere
numerosi viaggi in Francia e in Inghilterra. Venne così a contatto con un mondo tutto diverso da quello
eminentemente intellettuale in cui era vissuto sino allora: un solido mondo borghese, in cui ciò che contava
erano gli affari e il profitto. Ma Svevo ancora non è soddisfatto, questo non è il suo mondo: lui vuole
scrivere. Ma una volta divenuto anch’egli uomo d’affari e dirigente industriale, si vide costretto a lasciare
l’attività letteraria - a questa decisione contribuì probabilmente anche l’insuccesso del secondo romanzo,
Senilità, pubblicato nel 1898 -. In una pagina del suo diario, scritta nel 1902 leggiamo: “io, a quest’ora e
definita definitivamente, ho eliminato dalla mia vita quella ridicola e dannosa cosa che si chiama
letteratura”. Il senso di colpa dell’intellettuale, che si sente superfluo e parassitario nell’età del trionfo
industriale, è un dato di corrente in questa epoca: ma Svevo compì davvero il passo decisivo, lasciando la
letteratura e passando decisivamente nel campo attraverso avverso, quello dell’industria.
In realtà il proposito di abbandonare la scrittura non fu da lui osservato con rigore. Gli interessi culturali in
generale non erano dunque spenti nel cuore del manager Ettore Smiths, ma erano semplicemente in stato
di latenza, in attesa di un’occasione che permettesse loro di riaffiorare.
Negli anni tra l’ingresso in attività industriale e lo scoppio la prima guerra mondiale si verificarono anche
due eventi capitali per la formazione intellettuale di Svevo. Il primo fu l’incontro con James Joyce: egli
sottopose a Svevo le sue poesie e sui racconti di gente di Dublino, Svevo fece legger all’amico i due romanzi
pubblicati, ottenendo giudizi lusinghieri e l’incoraggiamento a proseguire l’attività letteraria. L’altro evento
fondamentale fu l’incontro con la psicoanalisi, che avviene verso il 1910: il cognato aveva sostenuto una
terapia a Vienna con Freud, e questo fu il tramite attraverso cui Svevo venne a conoscenza delle teorie
psicoanalitiche, che erano in consonanza con le sue esigenze.
Poiché la fabbrica di vernici del suocero fu requisita per ordine dell’autorità austriache, Svevo si trovò
libero da ogni incombenza pratica e poté riprendere la sua attività intellettuale. Nel 1919 pose mano a
suo terzo romanzo, La coscienza di Zeno, che venne pubblicato nel 1923. Come già avvenuto per i romanzi
precedenti, ancora una volta l’opera suscitò molte dissonanze. Svevo mandò quindi il romanzo all’amico
Joyce a Parigi che, riconosciutene immediatamente lo straordinario valore, si adoperò per imporlo
all’attenzione degli intellettuali francesi: arrivò quindi a conquistare larga fama in Francia e su scala
europea. Solo in Italia rimase intorno a lui un’atmosfera di diffidenza e di sostanziale disinteresse.
L’11 settembre 1923, ebbe un incidente d’auto a Motta di Livenza, presso Treviso, e due giorni dopo morì,
in conseguenza delle ferite riportate.
La cultura di svevo
I maestri di pensiero: Schopenhauer, Nietzsche, Darwin
Alla base dell’opera letteraria di Svevo vi è una robusta cultura filosofica, arricchita da aperture verso le
scienze. Il pensatore che ebbe un peso determinante nella sua formazione, sin dagli anni giovanili, fu
Schopenhauer, il filosofo che opponeva un pensiero a sfondo irrazionalistico al sistema hegeliano e che
affermava un pessimismo radicale, indicando come unica via di salvezza dal dolore la contemplazione e la
rinuncia alla volontà di vivere.
Più tardi Svevo conobbe anche Nietzsche, e lo lesse direttamente nei testi originali, non attraverso le
deformazioni estetizzanti e superomistiche di stampo dannunziano. Da lui poté trarre l’idea del soggetto
non come salda e coerente unità, ma come pluralità di stati in fluido divenire.
L’altro grande punto di riferimento per Svevo fu un pensatore e scienziato, Charles Darwin, l’autore della
teoria evoluzionistica, fondata sulle nozioni di «selezione naturale» e di «lotta per la vita».
Bisogna tuttavia tener presente che Svevo tendeva ad utilizzarli in modo critico, come strumenti conoscitivi
che fornissero risposte alle sue personali esigenze. E difatti, nei suoi romanzi e nei suoi racconti, Svevo mira
sempre a smascherare gli autoinganni dei suoi personaggi, a smontare gli alibi che essi si costruiscono per
occultare ai propri stessi occhi le vere, inaccettabili motivazioni dei propri atti, per tacitare i sensi di colpa e
sentirsi “innocenti”.
Allo stesso modo, per influenza del determinismo positivistico darwiniano, Svevo fu indotto a presentare il
comportamento dei suoi eroi come prodotto di leggi naturali immodificabili, non dipendenti dalla volontà;
però, nel concreto della rappresentazione, seppe anche cogliere come quei comportamenti avessero le loro
radici nei rapporti sociali. In tal modo arrivava a mettere in luce la responsabilità individuale dell’agire, e
poteva approdare, nei confronti della coscienza borghese moderna, ad un atteggiamento acutamente
critico.
I maestri letterari
Sul piano letterario gli autori che ebbero più peso nella formazione di Svevo, furono i grandi romanzieri
realisti francesi dell’Ottocento, Balzac, Stendhal, Flaubert. Dal Flaubert di Madame Bovary, in particolare,
egli sembra aver preso la maniera impietosa di rappresentare la miseria della coscienza piccolo borghese.
Infatti il “bovarismo” è un tratto caratterizzante gli eroi dei suoi due primi romanzi: in primo luogo essi
sono degli impenitenti sognatori, che evadono dal grigiore della loro vita quotidiana costruendosi con
l’immaginazione una fittizia realtà alternativa, più piena e gratificante; in secondo luogo filtrano tutta la loro
esperienza attraverso stereotipi ricavati dai libri, sino a restarne vittime.
Flaubertiano appare anche l’atteggiamento di irrisione fredda e corrosiva nei confronti di quei due
personaggi. Oggetto di tale irrisione sono componenti che lo scrittore, lucidamente, sa essere anche
proprie della sua personalità: l’“inettitudine”, la tendenza al sogno, gli alibi costruiti a tacitare i sensi di
colpa, ma persino le stesse ascendenze culturali, il pessimismo schopenhaueriano, il determinismo
darwiniano, l’utopia socialista.
Un’importanza fondamentale per Svevo ha anche la conoscenza dei romanzieri naturalisti, di Zola in
particolare. Il modello zoliano si scorge soprattutto nel primo romanzo, nella ricostruzione minuziosa
dell’ambiente della banca. Ma non bisogna dimenticare l’influsso di Paul Bourget, il romanziere che si era
posto come capofila del nuovo romanzo “psicologico”, quello che si dedicava tutto ad analizzare i processi
interiori più impercettibili e labirintici.
Tra i romanzieri russi Svevo subì il fascino di Turgheniev, che nella sua opera presenta
una galleria di personaggi “inetti”, sognatori e inconcludenti, affanni agli “inetti” sveviani.
Ma un’influenza determinante ebbe sicuramente Dostoevskij, lo scrittore che si addentra nelle zone
segrete della psiche, a cogliere gli impulsi più ambigui e inconfessabili.
Negli anni della maturità, anche grazie al rapporto con Joyce, Svevo venne a conoscere i grandi umoristi
inglesi, Swift, Sterne, Dickens, Thackeray, e questo incontro ebbe riflessi nell’elaborazione dell’«arioso
umorismo» della Coscienza di Zeno, un dato nuovo nell’ultimo Svevo, quasi assente nelle prime prove
narrative.
L’amicizia con Joyce fu certo importante per Svevo: lo scrittore irlandese, con i suoi giudizi positivi su Una
vita e Senilità, contribuì sicuramente a rafforzare nello scrittore triestino, che aveva deciso di abbandonare
la letteratura, la fiducia nelle proprie forze intellettuali, nonché nella validità delle opere già scritte. Tuttavia
non si può dire che nella narrativa dello Svevo maturo, posteriore all’incontro con Joyce, si riscontrino
precise influenze joyciane.
La lingua
Per lungo tempo la critica ha sostenuto che Svevo “scrive male”. Effettivamente la sua prosa è lontana dal
“bello scrivere” della tradizione letteraria italiana, caratterizzato da un lessico prezioso,
dall’ornamentazione retorica, dalla ricerca di armonie musicali. Occorre tener presente che la lingua
quotidianamente parlata dallo scrittore non era l’italiano ma il dialetto triestino, e per bocca del suo
personaggio Zeno egli confessa la difficoltà, per chi è abituato a usare quel linguaggio, nel trovare i vocaboli
italiani appropriati. Non solo, ma Svevo conosceva perfettamente il tedesco e tracce di costrutti della
lingua tedesca si riconoscono nella sua scrittura.
Ciò tuttavia non autorizza affatto a concludere che Svevo scriva male: la sua prosa in realtà è efficacissima
nel rendere le tortuosità labirintiche della psiche, in cui si addentra la sua ricerca. Non solo, ma occorre
tener conto di un fatto fondamentale: la scrittura sveviana sistematicamente tende a riprodurre il modo di
esprimersi dei personaggi, specie nelle zone in cui vengono resi i loro discorsi interiori.
Per questo il preteso “scriver male” di Svevo è in realtà una ricerca stilistica estremamente sofisticata, e
soprattutto perfettamente aderente all’oggetto della narrazione.
I modelli letterari
Nel suo impianto, Una vita rivela legami con i modelli più illustri del romanzo moderno: da un lato il
romanzo della “scalata sociale”, in cui un giovane provinciale ambizioso si propone di conquistare il
successo nella società cittadina, anche se Alfonso si limita a sognare il successo, senza mai muovere un dito
per conquistarlo, anzi fuggendo dinanzi alle occasioni che gli si presentano; dall’altro lato il romanzo “di
formazione”, che segue il processo attraverso cui un giovane si forma alla vita.
È ravvisabile anche l’influsso di Zola e della scuola naturalista, nella volontà di ricostruire un determinato
quadro sociale. Questo interesse sociale e documentario costituisce solo la cornice del romanzo, ed è un
residuo di modelli narrativi che Svevo sta già superando: al centro della narrazione si colloca l’analisi della
coscienza del protagonista.
L’impostazione narrativa
È importante notare anche i procedimenti narrativi attraverso i quali viene raccontata la vicenda. La
narrazione è condotta da una voce “fuori campo”, che si riferisce ai personaggi con la terza persona. Il
narratore è più vicino al n, secondo il modulo proposto da Madame Bovary di Flaubert. Sempre in
obbedienza a questo modulo, predomina nel romanzo la focalizzazione interna al protagonista: il punto di
vista da cui sistematicamente sono presentati gli eventi narrati è collocato nella sua coscienza; tutto passa
attraverso il filtro della sua soggettività; il lettore vede le cose come le vede Alfonso, e di regola sa solo ciò
di cui egli è a conoscenza. Rispetto al romanzo psicologico quale si era affermato in Francia con Bourget ed
in Italia con Il piacere di d’Annunzio, il primo romanzo sveviano presenta una sua peculiarità.
Non si ha solo la minuziosa, capillare analisi dei moti interiori del personaggio, nella quale però il processo
psicologico conserva una logica chiara e coerente, lineare da seguire: in Una vita la coscienza diviene un
labirinto di tortuosità inestricabili, in cui si intrecciano sogni, momenti di lucidità, autoinganni,
contraddizioni, impulsi privi di ogni comprensibile motivazione. Spesso i legami logici delle riflessioni di
Alfonso su se stesso sono così intricati da lasciare smarriti. Non assistiamo all’esplorazione soltanto di una
coscienza, ma della pluralità di piani contraddittori di una psiche, che danno l’impressione di moltiplicarsi
e di intrecciarsi all’infinito. In questo vi è già la percezione di quanto la coscienza soggiaccia agli impulsi di
una zona più remota e segreta: l’inconscio. Di frequente si introduce nel narrato la voce del narratore, che
interviene nei punti chiave, a giudicare un’azione, a correggere un’affermazione, a smentire
un’interpretazione, a smascherare autoinganni e alibi costruiti dall’eroe. La prospettiva del narratore è
dotata di una consapevolezza più lucida, superiore a quella del personaggio. Il romanzo si regge tutto su
questa opposizione di due punti di vista antagonistici, che rivela l’atteggiamento critico dell’autore verso il
suo personaggio.
L'"inetto" e il superuomo
Emilio maschera ai propri occhi la sua immaturità psicologica nel rapporto con la donna costruendosi
fittiziamente quell’immagine virile che non sa incarnare nella realtà, e si compiace di recitare un ruolo
“paterno” nei confronti di Angiolina, immaginandola ingenua, debole e sprovveduta e proponendosi di
«educarla», di insegnarle la «conoscenza della vita». In realtà l’immaturità infantile messa in luce nel
rapporto con Angiolina denuncia come Emilio non riesca più a coincidere con una certa immagine virile,
quella dell’uomo forte, sicuro, capace di dominare la realtà. È il modello di uomo proposto dalla società
borghese ottocentesca nella fase della sua pienezza: l’“individuo” borghese, libero, energico, attivo, capace
di crearsi il suo mondo con la sua iniziativa e la sua volontà, entro la sua sfera d’azione, costituita dalla
famiglia e dal lavoro produttivo.
Quella figura era entrata in crisi in quell’età di intense trasformazioni. Emilio incarna esemplarmente questa
crisi: in lui l’impotenza sociale del piccolo borghese declassato, frustrato da una condizione alienante e
spersonalizzata, si traduce in impotenza psicologica ad affrontare la realtà esterna al nido domestico.
Per questo Emilio si appoggia all’amico Balli. In realtà anche Balli, dietro l’apparenza della forza, cela
un’intima debolezza. I due personaggi incarnano due risposte diverse ma complementari alla stessa crisi
dell’individuo: Emilio rappresenta il chiudersi vittimistico nella sconfitta e nell’impotenza, Balli rappresenta
il tentativo di rovesciare velleitariamente l’impotenza in onnipotenza, mascherando la debolezza con
l’ostentazione della forza dominatrice.
Il ritratto psicoanalitico ante litteram dell’immaturità di Emilio non è dunque la semplice diagnosi clinica di
un caso di patologia individuale, ma indagine su un tipo sociale inserito in precise coordinate storiche.
Anche se ha al centro il rapporto sentimentale di un uomo e di una donna, solo in superficie Senilità è il
racconto di un’ossessione amorosa. In realtà, attraverso di essa, Svevo riesce a ritrarre con mirabile
acutezza la struttura psicologica di un tipo sociale rappresentativo, l’intellettuale piccolo borghese di un
periodo di crisi.
L'impostazione narrativa
Verso il suo eroe Svevo ha quindi un atteggiamento decisamente critico. Esso si manifesta in piena
evidenza attraverso i procedimenti impiegati per costruire il discorso narrativo. Anche Senilità, come Una
vita, è un romanzo focalizzato quasi totalmente sul protagonista. I fatti sono filtrati sistematicamente
attraverso la sua coscienza e sono presentati come li vede lui. Ma poiché Emilio è portatore di una
falsa coscienza e si costruisce continuamente maschere, alibi, autoinganni, la sua prospettiva è
deformante, il suo punto di vista è inattendibile.
Questa inattendibilità viene denunciata da Svevo fondamentalmente attraverso tre procedimenti narrativi.
In primo luogo la voce del narratore interviene, nei punti essenziali, con commenti e giudizi, spesso secchi
e taglienti, a smentire e a correggere la prospettiva del protagonista, a smascherare i suoi autoinganni.
Nel romanzo si presentano così sistematicamente due prospettive, quella di Emilio, che mente a sé stesso,
e quella del narratore, che è dotato di una lucidità infinitamente superiore a quella del personaggio e
dall’alto di essa lo può giudicare implacabilmente, quasi crudelmente.
Altre volte invece i giudizi sono affidati a minime sfumature ironiche, ad intrusioni appena percettibili della
voce narrante, che si colgono nell’uso di un aggettivo, di un avverbio. Questi interventi espliciti del
narratore sono il procedimento più appariscente che tradisce l’atteggiamento critico di Svevo verso il suo
personaggio “inetto”. Ma spesso, dinanzi alle menzogne e agli alibi più vistosi di Emilio, il narratore tace,
non interviene direttamente a smentire, a chiarire, a correggere, per denunciare la falsa prospettiva del
personaggio: basta il contrasto che si viene a creare tra le mistificazioni di quest’ultimo e la realtà oggettiva.
Emilio non è smentito esplicitamente però appare egualmente avvolto da un alone di caustica ironia.
Poiché tale ironia scaturisce dall’oggettività stessa del montaggio narrativo, può essere definita ironia
oggettiva o implicita. Essa, nella sua fredda impassibilità, può raggiungere effetti ancora più corrosivi degli
interventi espliciti del narratore.
Il terzo procedimento usato da Svevo per denunciare le mistificazioni del personaggio è la semplice
registrazione del suo linguaggio, sia nelle battute del discorso diretto, sia nel discorso indiretto libero. Il
linguaggio di Emilio appare stereotipato come le idee che veicola, zeppo di espressioni enfatiche,
melodrammatiche, ad effetto e al tempo stesso banali, che talora sembrano prese di peso dalla letteratura
romanzesca di second’ordine. Bisogna stare attenti a non attribuire allo scrittore stesso uno stile del
genere. In questi casi Svevo mima con perfida abilità il linguaggio caratteristico del suo personaggio, che è
lo specchio più diretto della sua cultura, della sua ideologia e della sua psicologia. Così la riproduzione
impassibile del suo stile diviene un efficace strumento per denunciare l’angustia dei suoi schemi mentali
e dei suoi orizzonti culturali. Questi procedimenti sono la più chiara testimonianza dell’atteggiamento
implacabilmente critico di Svevo nei confronti del suo eroe. Si tratta in prima istanza del giudizio su
un’immaturità psicologica, ma la prospettiva dell’«inetto» nel romanzo è anche portatrice di una precisa
cultura, socialmente connotata. Quindi, attraverso quello che può sembrare un puro romanzo psicologico
Svevo fornisce in realtà l’anatomia critica lucidissima di tutta una mentalità e di tutta una cultura in un dato
momento storico, dei suoi stereotipi concettuali, letterari, linguistici.
Le vicende
Il protagonista-narratore è una figura di “inetto” che Svevo stesso, nel Profilo autobiografico, definisce un
«fratello» di Emilio e Alfonso.
Negli anni giovanili conduce una vita oziosa e scioperata, passando da una facoltà universitaria all’altra,
senza mai giungere ad una laurea e senza dedicarsi ad alcuna attività seria. Il padre, facoltoso
commerciante, non ha la minima stima per il figlio, e nel testamento lo consegna in tutela al fidato
amministratore Olivi, sancendo così la sua irrimediabile immaturità e la sua irresponsabilità infantile. I
rapporti col padre sono improntati alla più classica ambivalenza: pur amandolo sinceramente, Zeno, non fa
che procurargli amarezze e delusioni, rivelando così inconsci impulsi ostili ed aggressivi. Il vizio del fumo, a
cui Zeno collega intollerabili sensi di colpa, ha nel suo fondo inconscio proprio l’ostilità contro il padre, il
desiderio di sottrargli le sue prerogative virili e di farle proprie. Quando già è sul letto di morte, il padre
lascia cadere un poderoso schiaffo sul viso del figlio che lo assiste, e Zeno resta nel dubbio angoscioso se il
gesto sia il prodotto dell’incoscienza dell’agonia o scaturisca da una deliberata intenzione punitiva, e cerca
quindi disperatamente di costruirsi alibi e giustificazioni per pacificare la propria coscienza, per dimostrare
a sé stesso di essere privo di ogni colpa nei confronti del padre e della sua morte.
Privato della figura paterna, l’inetto Zeno va subito in cerca di una figura sostitutiva, e la trova in Giovanni
Malfenti, uomo d’affari che incarna l’immagine tipica del borghese. Malfenti è il modello di uomo con cui
l’inetto Zeno non riesce più a coincidere, come non vi riuscivano i suoi predecessori, Alfonso ed Emilio, e
rappresenta perciò nel sistema dei personaggi l’Antagonista. Zeno decide di sposare una delle sue figlie, si
direbbe solo per “adottarlo” come padre. Si innamora della più bella ma con il suo comportamento goffo e
stravagante sembra far di tutto per alienarsi i sentimenti della ragazza.
Respinto da lei, rivolge la domanda di matrimonio alla sorella minore, e, al rifiuto anche di questa, fa la sua
proposta alla sorella più brutta. In realtà ella era la moglie che Zeno aveva scelto inconsciamente: si rivela
infatti la donna di cui egli ha bisogno, sollecita e amorevole come una madre, capace di creargli intorno un
clima di dolcezza affettuosa e di sicurezza. Augusta, come il padre, ha un limitato ma solido sistema di
certezze, che ne fanno un perfetto campione di “sanità” borghese. È l’antitesi di Zeno, che è invece
irrimediabilmente “diverso”, incapace nel suo intimo di integrarsi veramente in quel sistema di vita e di
concezioni, anche se vi aspira con tutte le sue forze, in un disperato desiderio di normalità e “salute”. Zeno
è “malato”: la sua malattia è la nevrosi, che simula tutti i sintomi della malattia organica. Egli proietta nella
malattia la propria inettitudine, ed attribuisce la colpa dei propri malanni al fumo: la sua esistenza è
pertanto costellata da tentativi di liberarsi dal vizio, nella convinzione che solo così potrà avviarsi verso la
“salute”, ma questi tentativi finiscono sistematicamente nel nulla. Alla moglie Zeno affianca la giovane
amante Carla, una ragazza povera che egli finge di proteggere in modo paterno. Il rapporto però è reso
difficile ed infinitamente ambiguo dai sensi di colpa di Zeno verso la moglie, sinché Carla non lo abbandona
per un uomo più giovane.
Zeno aspira ad entrare nella normalità borghese non solo divenendo buon padre di famiglia, ma anche
accorto uomo d’affari. Si propone perciò come collaboratore esterno dell’associazione commerciale
fondata dal cognato Guido. Questi è un bell’uomo, disinvolto, sicuro di sé, fornito delle doti più versatili; è
insomma l’antitesi di Zeno, ed incarna perciò il ruolo del Rivale. Anche verso di lui Zeno nutre fortissime
ambivalenze. L’amicizia e l’affetto fraterno ostentati nei suoi confronti mascherano un odio profondo, che
si tradisce clamorosamente ai funerali di Guido, Zeno sbaglia corteo funebre.
Zeno, ormai anziano, decide di intraprendere la cura psicoanalitica, e qui ha inizio la stesura di quel
memoriale che costituisce il corpo più cospicuo del romanzo. Zeno però si ribella alla diagnosi dello
psicoanalista, che individua in lui il classico complesso edipico. Lo scoppio della guerra favorisce alcune sue
speculazioni commerciali, che trasformano paradossalmente l’inetto Zeno in un abile uomo d’affari. Zeno si
proclama così perfettamente guarito. Noi sappiamo bene che non è vero e che queste resistenze sono un
sintomo tipico della malattia. Ma Zeno ha buon gioco, nelle pagine finali, a sottolineare il confine incerto tra
malattia e salute nelle condizioni attuali, in cui la vita è «inquinata alle radici». Il romanzo termina così in
chiave apocalittica, con una riflessione di Zeno sull’uomo costruttore di ordigni, che finiranno per portare
ad una catastrofe cosmica.