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ITALO SVEVO (1861-1928)

Per comprendere le ragioni dello pseudonimo di Aron Hector Schmitz, a indicare il suo essere “ponte” tra la
cultura italiana e quella tedesca e che sembra voler affratellare la razza italiana e germanica (nasce da una
famiglia di origine ebraica benestante proveniente dalla Germania, il padre è Franz Schmitz, agiato
commerciante di vetrami, la madre, italiana, è Allegra Moravia), bisogna conoscere la funzione che da due
secoli ha Trieste, crogiolo di culture (italiana, tedesca, slava e ebraica).
Preminente è il ruolo della sua origine triestina, dove Ettore nasce nel 1861 da genitori ebrei “assimilati” alla
società, soprattutto per la fortunata attività di commercio di vetrami del padre (si ricordi che dopo il 1781
con la Patente di tolleranza di Giuseppe II Asburgo, editto con cui si concedeva libertà di culto e agli ebrei il
libero esercizio delle attività, i territori austriaci erano meta di forte migrazione ebraica). Inoltre Trieste era
porto franco dal 1719 e sbocco significativo per l’impero austro ungarico, per cui c’era un significativo
sviluppo commerciale ed economico; la borghesia era la classe egemone, tra cui spiccava proprio la
componente ebraica.
Educato in collegio in Baviera per perfezionare il tedesco, torna nel 1878 e frequenta gli studi tecnici, ma
non è nato per il commercio e non gli piace. Il tracollo finanziario del padre lo porta nel 1880 a lavorare
come corrispondente per la filiale della Unionbank di Vienna a Trieste, ma l’impiego è insoddisfacente,
mortificante e le sue serate sono spesso trascorse nello studio, nella scrittura dei primi articoli e nella lettura
dei classici (è autodidatta: legge i romanzi europei, i francesi - tra cui Zola, che lo influenza per le accurate
descrizioni d’interni, e Flaubert per il concetto di bovarismo, caratteristica di tutti i suoi protagonisti
romanzeschi che sono sognatori e vivono di stereotipi presi dai libri - ; i romanzieri russi, gli umoristi
inglesi). Questo contrasto tra vita piatta e slancio creativo dello scrittore è tipico anche dei suoi personaggi,
non solo della sua vita.
Segnato dall’assenza di tradizione letteraria triestina, il suo primo romanzo Una vita 1892 appare – a sue
spese -quando Svevo è già noto al pubblico come critico sui giornali, ma non incontra alcun successo: Svevo
pensa di lasciare l’attività letteraria, tanto più che dopo le nozze del 1896 con la cugina Livia Veneziani (lo
“costringerà” anche a battezzarsi dato che lui non era credente; il suo è un ebraismo biografico e culturale!)
assume un ruolo di responsabilità, divenendo un vero uomo d’affari, nella fabbrica di vernici sottomarine del
suocero e perciò ha poco tempo per la scrittura (anche se contiua a pubblicare brevi racconti).
Nel 1898 esce Senilità, un altro insuccesso, ma per non compromettere il lavoro in azienda lascia del tutto i
sogni di scrittore.
Ora accade che, per necessità legate al suo lavoro – la vendita delle vernici sul mercato britannico e i
numerosi viaggi a Londra tra il 1902 e il 1912 – Svevo debba migliorare il suo inglese. E va alla Berlitz,
all’età di 46 anni. È qui che accade un fatto particolare – un «evento di destino» –, l’incontro con una
persona che inciderà profondamente nella vita dell’autore. Proprio in quell’anno, infatti, teneva lezioni di
inglese presso la Berlitz School di Trieste un altro grande autore della letteratura europea: James Joyce. È lui
l’insegnante di inglese di Svevo tra il 1906 e il 1097. Ecco come riporta la vicenda la figlia dello scrittore, Letizia
Svevo: «Un grande amico di papà fu James Joyce. Mio padre, che si recava spesso a Londra per curare da vicino gli interessi della
filiale inglese della ditta Veneziani, decise di studiare bene l’inglese e di prendere una serie di lezioni da Joyce, allora
giovanissimo professore alla Berlitz School di Trieste. Joyce cominciò a venire in villa Veneziani e a dar lezioni a mio padre e a
mia madre. Durante una delle prime lezioni disse loro che era uno scrittore, che aveva pubblicato una raccolta di poesie… che
aveva composto un romanzo… e i racconti Dubliners. I miei genitori ne furono subito entusiasti... Allora papà timidamente gli
disse: “Sa, anch’io ho scritto; ma ho scritto due libri che non sono stati riconosciuti da nessuno”. Così ebbe inizio l’amicizia tra
Joyce e mio padre»1.
Tra una lezione e l’altra parlano molto di letteratura, si leggono a vicenda i loro scritti, tanto che Joyce
apprezzerà molto le opere di Svevo e si farà promotore in Europa anche de La coscienza di Zeno.
1
Joyce, che ha allora solo ventiquattro anni (è 21 anni più giovane di Svevo), nel corso di quelle lezioni dà a Svevo un primo
compito di inglese: chiede al suo allievo di descriverlo. Scrive Hector Schmitz: «Io so che la vita non è stata per lui una madre
amorevole. Avrebbe potuto essere peggiore e ciò nonostante il signor James Joyce avrebbe conservato la sua aria di persona che
considera le cose come punti che rompono la luce per divertirlo. Porta gli occhiali e li adopera davvero senza interruzione dalla
mattina presto fino alla sera tarda, quando si sveglia. Può darsi che riesca a vedere meno di quanto lasci supporre il suo aspetto,
ma appare come un essere che si muove per poter vedere». Rimaniamo ammirati dalla genialità di Svevo, dalla sua finezza nel
cogliere gli aspetti della personalità profonda. Livia Veneziani racconta nelle sue memorie che «fra il maestro, oltremodo
irregolare, ma d'altissimo ingegno (conosceva diciotto lingue tra antiche e moderne), e lo scolaro d'eccezione, le lezioni si
svolgevano con un andamento fuori dal comune. Si parlava di letteratura e si sfioravano mille argomenti». Deluso dal fallimento
dei suoi primi due romanzi, Svevo viene invece rincuorato ed elogiato da Joyce: «Ma lo sa che Lei è uno scrittore negletto? Ci
sono dei brani in Senilità che neppure Anatole France sarebbe stato in grado di scrivere meglio». È quindi Joyce a incoraggiare
Svevo a scrivere un nuovo romanzo.
Un’altra proficua esperienza è la psicanalisi: nel 1911 legge Freud a causa di una malattia psichica del
cognato Bruno che era in cura proprio dal medico austriaco; nel 1918 traduce dal tedesco “l’opera del
sogno”; incontrerà anche il medico Wilhelm Stekel. L’insuccesso della cura di Bruno, giudicato inguaribile
da Freud, convincono Svevo della inefficacia terapeutica della psicanalisi, utile però per i romanzieri.
Allo scoppio della Prima guerra mondiale Joyce deve allontanarsi da Trieste. Vi tornerà nel 1919, per poi
stabilirsi a Parigi. Ed è proprio nel 1919 che Svevo inizia a scrivere La coscienza di Zeno. Il libro viene
pubblicato nel 1923, ma ancora una volta l’indifferenza dei lettori e il silenzio della critica affliggono e
deprimono Svevo. Joyce, che è rimasto in contatto con l’amico, si fa inviare il libro e promette il suo
interessamento. Ne parla con T.S. Eliot, lo propone ad alcuni critici parigini, Crémieux e Larbaud, e
finalmente il successo arride all’opera. In Italia è Eugenio Montale, in anticipo su tutti, a celebrare il suo
talento (scoppio del “caso Svevo” nel 1926).
«Ricordo la sua felicità – racconta la figlia dello scrittore – Joyce aveva parlato del libro ad Eliot. Più di trent’anni (1892-1925) di
attività letteraria svolta nel silenzio. Non manifestava la propria disperazione; alla mamma, semmai. Ma aveva deciso di non
scrivere più. Anche perché riteneva di rubare del tempo all’industria, ai soci, alla sua stessa famiglia... Aveva 64 anni quando la
critica si è accorta di lui. È morto a 67 anni. La sua gloria (appena tre anni in vita) la doveva a Joyce. Ci mostrava trionfante la
lettera di Larbaud che iniziava così: “Egregio signore e maestro”. Ci diceva: “Ma fioi, ma cossa che me nassi nela mia tarda età!”
(“ma figlioli, cosa mi sta succedendo nella mia tarda età!”). In Trieste dei miei ricordi di Stuparich, si parla della sua gioia. Si
vedevano al Caffè Garibaldi: Stuparich, Svevo, Saba». Rincuorato, Svevo scriverà diverse novelle e lascerà un
romanzo incompiuto. Muore il 13 settembre 1928 a causa di un incidente d’auto.

Formazione culturale europea:


-Schopenhauer (carattere inconsistente del nostro agire; c’è in noi una cieca volontà irrazionale senza scopo
che ci fa agire; l’uomo perciò si autoinganna e si illude di avere una libertà di scelta… Se si rende conto
dell’inganno, egli può sottrarvisi scegliendo la noluntas, la contemplazione estetica, il distacco ascetico.
L’inetto è simile al contemplatore, che sollevando il velo della realtà scopre la cieca volontà a cui vuole
sottrarsi, distinguendosi dai cosiddetti lottatori che eseguono meccanicamente la Volontà e si integrano nel
mondo da essa dominato.
Se nei suoi romanzi Svevo mira sempre a smascherare gli autoinganni dei suoi personaggi e a smontare gli
alibi psicologici che essi si costruiscono, dipende certo dalla forte influenza del filosofo).
-Nietzsche (l’uomo è una pluralità di stati in fluido divenire).
-Darwin (violenta e selettiva lotta per la vita, che coincide in Svevo con la lotta per il successo individuale;
Svevo conferisce identità al più debole e rende il “non adatto” protagonista dei romanzi).
-Marx (condanna la civiltà industriale e le sue “malattie” o alienazioni e “ordigni… i conflitti degli eroi di
Svevo sono quelli del borghese in un certo e determinato periodo della storia sociale).
-Freud (la psicanalisi non serve per guarire, ma come strumento per conoscere e narrare. Verso Freud lo
spingeva l'interesse per le tortuosità e le ambivalenze della psiche profonda, che già aveva esplorato prima
della nascita delle teorie psicoanalitiche. Ma Svevo non apprezzò la psicoanalisi come terapia, che
pretendeva di portare alla salute il malato di nevrosi, bensì come puro strumento conoscitivo, capace di
indagare più a fondo la realtà psichica, e, di conseguenza come strumento narrativo. L'autore riconosce
infatti nell'ammalato pulsioni vitali che verrebbero spente dalla terapia).

E' possibile ricostruire la cultura di Svevo attraverso l'epistolario, il Profilo autobiografico, scritto negli ultimi anni di vita, e
articoli e saggi composti in tre periodi: il primo, fino al 1899, coincide con la collaborazione all'Indipendente e a altre riviste; il
secondo è il periodo del silenzio letterario, fra il 1899 e il 1918, nel quale Svevo di dedicò alla stesura, incompleta, di alcuni saggi;
e infine l'ultimo, fase della collaborazione con la Nazione, e dei saggi scritti negli ultimi dieci anni di vita.
Attraverso le sue opere, e in particolare attraverso l'apologo politico La tribù, o i saggi L'uomo e la teoria darwiniana e La
corruzione dell'anima, la cultura di Svevo rivela un apparente aspetto contraddittorio: infatti egli da un lato fu studioso del
positivismo, di Darwin e del marxismo; dall'altro di Schopenhauer e di Nietzsche.
Subì inoltre, soprattutto negli ultimi anni, l'influenza di Freud, il quale era portatore sia di elementi positivisti, quale la necessità di
ricondurre lo studio a chiarezza scientifica, che antipositivisti, come l'evidenziamento dei limiti della ragione rispetto al potere
dell'inconscio. In realtà lo scrittore assunse gli elementi critici e gli strumenti di diversi pensatori, e non il loro pensiero
complessivo. Infatti Svevo condivise con Darwin, con il positivismo in genere e con Freud la propensione all'utilizzo di metodi
scientifici di conoscenza e il rifiuto di una visione metafisica, spiritualistica, senza però accettare la fiducia darwiniana nel
progresso e la presunzione del positivismo di fare della scienza una base oggettiva e indiscutibile del sapere.
Nel racconto La tribù, uscito nel 1897 sulla rivista teorica del socialismo italiano Critica sociale, in cui viene rifiutato il percorso
graduale attraverso cui l'umanità potrà giungere al socialismo, e viene proposto di cominciare dalla fine, saltando le tappe
intermedie, lo scrittore palesa di non aver accettato il marxismo come soluzione sociale, ma solo come strumento e come
prospettiva critica di giudizio sulla civiltà europea e sui suoi meccanismi economici e sociali.
Stessa selezione aveva compiuto anche nei confronti del pensiero di Schopenhauer, dal quale imparò a osservare i caratteri della
volontà umana, a verificare come ideali e programmi siano determinati non da motivazioni razionali, ma da diversi orientamenti
della volontà, i quali spingono poi gli uomini fino a ingannare se stessi e a rimanere prigionieri delle proprie illusioni: se nei suoi
romanzi Svevo mira sempre a smascherare gli autoinganni dei suoi personaggi e a smontare gli alibi psicologici che essi si
costruiscono, dipende certo dalla forte influenza del filosofo.
Problematico fu il rapporto con la psicoanalisi, che pure ebbe un ruolo così importante nella sua riflessione e nella sua scrittura
letteraria: verso Freud lo spingeva l'interesse per le tortuosità e le ambivalenze della psiche profonda, che già aveva esplorato
prima della nascita delle teorie psicoanalitiche in Una vita e in Senilità. Ma Svevo non apprezzò la psicoanalisi come terapia, che
pretendeva di portare alla salute il malato di nevrosi, bensì come puro strumento conoscitivo, capace di indagare più a fondo la
realtà psichica, e, di conseguenza come strumento narrativo. L'autore riconosce infatti nell'ammalato pulsioni vitali che
verrebbero spente dalla terapia.
Nella lettera a Valerio Jahvier, letterato italiano che risiedeva a Parigi, con il quale aveva intrapreso una corrispondenza epistolare,
Svevo discute di psicoanalisi e esprime i suoi pareri: Egregio Signore, non vorrei poi averle dato un consiglio che potrebbe
attenuare la speranza ch'Ella ripone nella cura che vuole imprendere. Dio me ne guardi. Certo è ch'io non posso mentire e debbo
confermarle che in un caso trattato dal Freud in persona non si ebbe alcun risultato. Per esattezza debbo aggiungere che il Freud
stesso, dopo anni di cure implicanti gravi spese, congedò il paziente dichiarandolo inguaribile. (...)Perché non prova la cura
dell'autosuggestione con qualche dottore della scuola di Nancy? Ella probabilmente l'avrà conosciuta per ridere. Io non ne rido.
E provarla non costerebbe che la perdita di pochi giorni. Letterariamente Freud è certo più interessante. Magari avessi fatto io
una cura con lui. Il mio romanzo sarebbe risultato più intero. E perché voler curare la nostra malattia? Davvero dobbiamo
togliere all'umanità quello che essa ha di meglio? Io credo sicuramente che il vero successo che mi ha dato la pace è consistito in
questa convinzione. Noi siamo una vivente protesta contro la ridicola concezione del superuomo come ci è stata gabellata
(soprattutto a noi italiani). (...)Ma intanto - con qualche dolore - spesso ci viene di ridere dei sani. Il primo che seppe di noi è
anteriore al Nietzsche: Schopenhauer, e considerò il contemplatore come un prodotto della natura, finito quanto il lottatore. Non
c'è cura che valga. Se c'è differenza allora la cosa è differente: Ma se questa può scomparire per un successo (p. e. la scoperta
d'esser l'uomo più umano che sia stato creato) allora si tratta proprio di quel cigno della novella di Andersen che si credeva
un'anitra male riuscita perché era stato covato da un'anitra. Che guarigione quando arrivò fra i cigni! Mi perdoni questa sfuriata
in atteggiamento da superuomo. Ho paura di essere veramente guastato (guarito?) dal successo. Ma provi l'autosuggestione. Non
bisogna riderne perché è tanto semplice. Semplice è anche la guarigione cui ella ha da arrivare. Non Le cambieranno l'intimo
Suo «io». E non disperi perciò. Io dispererei se vi riuscissero.
Anche sul piano del gusto letterario e delle scelte di poetica Svevo muove da maestri diversi: da un lato i realisti e i naturalisti
(Balzac, Flaubert e Zola); dall'altro invece Bourget, creatore del romanzo psicologico e Dostoevskij, che aveva scandagliato le
piaghe più riposte della psiche umana.
Nell'ambito della letteratura italiana l'opera di Svevo segna proprio il trapasso dal verismo a una nuova visione e descrizione del
reale, più analitica e introversa, svincolata da certe cristallizzazioni tradizionalmente presenti nella narrativa, quali il personaggio,
le ordinate categorie temporali, l'univocità degli eventi: si tratta naturalmente di un'acquisizione progressiva, poco visibile nel suo
primo libro, nettissima nella Coscienza di Zeno.
I dati realistici - la raffigurazione dei vari ceti (borghesi o popolari che siano), la rappresentazione dell'ambiente, le descrizioni
degli accadimenti - vanno incontro, nelle pagine di Svevo, a una crescente interiorizzazione, vengono cioè usati sempre più come
specchi per chiarire i complessi e contraddittori moti della coscienza. Al centro delle storie l'autore pone sempre un solo
personaggio, al quale gli altri fan da coro, per lo più antagonista: un individuo abulico e infelice, incapace di affrontare la realtà e
che a essa costantemente soccombe, ma che nello stesso tempo tenta di nascondere a se stesso la propria inettitudine, sognando
evasioni, cercando diversivi, giustificazioni e compromessi.
Nell'analizzare questi processi, l'inconscio, le sue canalizzazioni e le sue mascherature, Svevo smonta l’io del protagonista,
rivelando ironicamente, e talora comicamente, le non semplici stratificazioni della psiche, tutta la sua instabilità, in cui passato e
presente, ricordi e desideri si intrecciano reciprocamente. Ma questa indagine è anche carica di un affetto dolente, quasi che
l'autore volesse salvare dall'estrema umiliazione della condanna il suo eroe negativo, che è in fondo il risvolto irredimibile di noi
stessi, e la cui malattia è da assimilare alla crisi di un'intera società. Portatore di innovazioni straordinarie, Svevo non ottenne
grande successo, se non alla fine degli anni Sessanta, quando entrò a far parte dei classici della letteratura italiana: causa di questo
tardivo successo fu certamente la cultura mitteleuropea, più viennese che italiana, che fece sì che egli non avesse mai alcun
rapporto con la cultura letteraria fiorentina, allora egemone a livello nazionale. Inoltre in Italia la psicoanalisi penetrò solo negli
anni Sessanta; e la mancata conoscenza del pensiero di Freud era certamente un ostacolo alla comprensione della grandiosità della
Coscienza di Zeno.
In secondo luogo, Svevo è totalmente estraneo all'idea di arte propria dei letterati e critici italiani: la sua visione di scrittura come
igiene appariva incomprensibile ai suoi contemporanei. Inoltre, anche la sintassi semplice e talora vicino al parlato, non coincideva
con i canoni armoniosi e lirici del tempo.
Riportiamo un passo da un articolo del 1926, scritto da Eugenio Montale, grande sostenitore del poeta: Presentazione di Italo
Svevo.
Nasce così il romanzo moderno secondo la via additata a noi dai grandi modelli stranieri: il romanzo da accettarsi non per
questo o per quel frammento, ma da accogliersi come organismo, in funzione di vita e di umanità; il libro fatto di parole dette da
uomo a uomo e nelle quali la nostra vita di tutti i giorni possa riconoscersi con immediata rispondenza (...) La coscienza di Zeno
è l'apporto della nostra letteratura a quel gruppo di libri ostentatamente internazionali che cantano l'ateismo sorridente e
disperato del novissimo Ulisse: l'uomo europeo. Non è, si noti, che sian qui visioni cosmopolitiche, anime d'eccezioni od altrettali
risorse; ma queste borghesi figure di Svevo sono ben cariche di storia inconfessata, eredi di mali e di grandezze millenarie, scarti
ed outcasts di una civiltà che si esaurisce in se stessa e s'ignora. Più che l'eterna miseria inerente all'universalità degli uomini,
l'"imbecillità" dei personaggi di Svevo è dunque un carattere proprio dei protagonisti di cotesta nostra epoca turbinosa (...) A
confutare frattanto, ogni critica eccessiva, potremmo chiedere a questi scontenti in quale altro libro nostro sia contenuta una
rappresentazione altrettanto profonda della media borghesia italiana di questi ultimi anni. L'osservazione ci sembra decisiva.

L’opera di Svevo si pone come determinante superamento dell’esperienza verista e delle categorie narrative
ottocentesche: protagonista è ora la coscienza interiore dell’io narrante.
Una vita: è il ritratto di un irresoluto “umile impiegatuccio” che tenta di uscire invano dalla sua condizione
di impotente frustrazione. Il romanzo fu rifiutato con il titolo di Un inetto nel 1889, per cui esce a spese di
Svevo nel 1892, anche se un critico lo accusò di aver copiato il titolo da un’opera di Maupassant (che Svevo
dichiarò di non conoscere). Questo titolo generico sta ad indicare una vita come ce ne sono tante, soggetta
alle vicende di natura, ma l’articolo “una” è da intendersi più come un numerale, una vita, sottratta alle leggi
di natura, non adatta, (inetta appunto) allo struggle for life.
Certa è l’influenza del Naturalismo (il tema è quello della scalata sociale come ne Il rosso e il nero e nei
romanzi di formazione; il narratore è impersonale, ma con focalizzazione interna e interventi vari nel testo;
numerose le descrizioni triestine e di interni; interessante il ritratto delle classi sociali). Viene però
privilegiato l’aspetto psicologico dei personaggi, in particolare del protagonista!
Alfonso Nitti, giovane intellettuale con aspirazioni letterarie, lascia il piccolo paese di provincia, dove vive con la madre, e si
trasferisce a Trieste, trovando un avvilente impiego come bancario, senza però stabilire contatti umani e vedendo le sue ambizioni
economiche e letterarie frustrate. Un giorno viene invitato a casa del banchiere Maller, il proprietario, e qui conosce Macario, un
giovane sicuro di sé con cui Alfonso fa amicizia, e Annetta, figlia di Maller, anch'ella interessata di letteratura. L’attività letteraria
di Alfonso suscita l’interesse di Annetta Maller, che volendo scrivere un romanzo gli chiede di collaborare con lei. Durante uno
dei loro incontri, Alfonso seduce la ragazza e solo dopo averla compromessa si rende conto di non amarla. Dato il suo carattere
debole e vile, non le resta accanto ad affrontare il padre di lei, ma chiede una licenza per tornare al suo paese, dove assiste la
madre, già ammalata, fino alla sua morte. Al ritorno a Trieste, Annetta, che sembra averlo dimenticato, si è fidanzata con il ricco
Macario, mentre sul lavoro Alfonso è osteggiato ed emarginato, dato l’oltraggio alla figlia del padrone. Alfonso, che si sente ferito
e cerca in tutti i modi di ritornare alla situazione precedente, le chiede un appuntamento, a cui però si presenta il fratello di lei, che
lo sfida a duello. Per evitare lo scontro, Alfonso sceglie di suicidarsi col gas e di porre così fine alla sua vita di disadattato.

Alfonso Nitti è un giovane, alto, robusto, sano, dal fisico atletico, impiegato nella banca Maller dove svolge
un modesto compito di copista. Qui egli patisce una condizione di totale estraneità dagli altri, sente
confusamente di essere superiore, ma di una superiorità che lo avvia solo alla sofferenza. Inoltre egli
definisce il suo stato come “di noia” in cui le cose gli appaiono “monotone e grigie”. Lo stato di estraneità di
Alfonso dal mondo borghese è dovuto anche alla provenienza dalla campagna e dalla sua propensione allo
scrivere, sigillo della debolezza e inettitudine che lo affliggono. L’incontro con Annetta, donna che aderisce
appieno all’idea di etica del successo, ed il tentativo di seduzione da parte di Alfonso gli fanno rivestire il
ruolo di arrampicatore sociale: scoprendosi inadeguato, Alfonso rinuncia, tenta il ritorno in campagna e poi
il suicidio.

Tematiche:
-difficoltà di inserimento nel mondo
-presunzione culturale che lo isola
-subalternità sociale a casa Maller
-prevalenza della non-cultura, ma dell’essere invece brillanti, vincenti, dominatori
-l’amore per Annetta è disinteressato o è un mezzo per lui di promozione sociale?
-Macario è l’antagonista, nipote del proprietario della banca, futuro sposo di Annetta, il borghese vincente
anche in amore e spregiudicato, che segue la dottrina darwiniana della lotta per la vita: guai a chi non ha
artigli atti ad afferrare la preda, in natura infatti c’è chi è nato per dominare e chi per essere vinto. Le
divisioni sociali hanno dunque la loro legittimazione su questa base di maggiore o minore grado di capacità
alla preda
-Annetta è la donna bella, superficiale, da educare, contrapposta a Lucia, pacata e timida, figlia degli
affittuari di Alfonso.
Alfonso è l’archetipo dei prossimi protagonisti di Svevo, segnati dall’incapacità di vivere, dall’inettitudine;
egli non sa chi sia, cosa voglia, che ruolo abbia. E’ sconfitto su tutti i fronti: in amore, nel lavoro dove viene
declassato, nella sua vocazione letteraria e di intellettuale che non viene riconosciuta, nella vita perché si
suiciderà. Chiara è l’ispirazione a Darwin e Schopenhauer: se la realtà è una spietata lotta per la vita in cui i
negati all’azione sono destinati a essere sopraffatti, Alfonso è proprio questo, è costituzionalmente votato al
fallimento. La volontà dell’uomo non è razionale, ma è espressione di una volontà suprema e cieca e
irrazionale che domina l’universo. Se l’uomo si rende conto di ciò, può sottrarsi e scegliere la via della
“volontà”, della contemplazione estetica: l’inetto è proprio il contemplatore, non lotta per sé e per il suo
successo, per cui è sconfitto, è inadatto alla vita, il suo avversario sarà vincente e ben integrato nella società
a differenza sua. L’inetto è proprio Alfonso.

Senilità: è l’incapacità di vivere, è l’atteggiamento senile verso la vita di Emilio Brentani.


Il primo abbozzo è del 1892-94 col titolo Il carnevale di Emilio finito nel 1897 e pubblicato nel 1898.
L’impiegato Emilio, 35 anni, scapolo, precocemente invecchiato, conduce una modesta e scialba esistenza in un appartamento
condiviso con la sorella Amalia, la quale, non avendo molti rapporti con il mondo esterno, si limita principalmente ad accudirlo.
Un giorno Emilio decide di vivere un’avventura amorosa, simile a quelle dell’amico scultore Stefano Balli, molto fortunato con le
donne. Per evitare un rapporto serio ed impegnativo, Emilio inizia una relazione con una bella ragazza del popolo, Angiolina,
convinto di dominarla per la sua superiore età e cultura. In realtà accade l’opposto: se ne innamora, e ciò lo porta a trascurare la
sorella e l'amico Balli, mentre Angiolina – scaltra, insincera ed opportunista – lo tradisce con vari uomini, tra cui anche il Balli.
Stefano, dal canto suo, comincia a frequentare casa Brentani con maggiore assiduità. Per ironia del destino Amalia finisce per
innamorarsene. Il suo fascino maschile fa quindi colpo su entrambe le protagoniste femminili. Emilio, geloso della sorella,
allontana Stefano per non illudere la sorella, e la delusa Amalia comincia a stordirsi con l'alcool, finché non si ammala di
polmonite e muore. Dopo la morte della sorella, Emilio smette di frequentare Angiolina, pur amandola, e si allontana da Stefano
Balli. Viene poi a sapere che Angiolina è fuggita con il cassiere di una banca a Vienna. Il romanzo si conclude con un'immagine
significativa: anni dopo, nei suoi ricordi, Emilio unisce le due opposte figure di Amalia e Angiolina, donne idealizzate secondo i
propri desideri e fuse in una singola persona, con l'aspetto dell'amata e il carattere della sorella.

Emilio, trentacinquenne, è l’autore di un romanzo che tutti hanno ormai dimenticato; è rassegnato ad una
vita grigia, ordinaria accanto alla sorella non giovane, non bella ma di buon cuore, finchè nella sua vita non
appare Angiolina. Lei è bella, vivace, volgare; Emilio cerca di conferirle moralità ma senza successo,
coinvolgendo anche l’amico scultore Balli, di cui si innamorano sia la sorella sia Angiolina. Amalia, non
ricambiata, si avvelena e muore; Angiolina si concede a Balli ed Emilio resta solo, sconfitto dalla vita e si
appresta a una lunga monotona senilità.
Anche l’indole di Emilio Brentani, diviso tra un impieguccio per una società di assicurazioni e le ambizioni
letterarie, rinvia a una componente autobiografica. Il narratore offre subito un ritratto poco lusinghiero di
Emilio, egoista, inerte alla vita, insoddisfatto, debole, con una “reputazione” da letterato che lo porta a
credersi un genio non capito. Egli proietta su di sé e sugli altri immagini non corrispondenti alla realtà, si
trasfigura e li trasfigura secondo i propri desideri, autoassolvendosi (sono gli autoinganni per proteggersi
dalla vita).
Per esempio ciò accade nel rapporto con Angiolina: lei è libera, è il simbolo della salute, del piacere, della
vita, che Emilio idealizza come donna angelo, per esserle precettore, per emanciparla (lui in realtà ha paura
del sesso e cerca di nascondere questa difficoltà nel rapporto con lei, cela la sua immaturità recitando un
ruolo paterno, non da uomo virile come voleva la società), mentre in realtà lei non ne ha bisogno e persino lo
seduce (è la donna vampiro; è anche il trionfo della volontà sulla ragione).
Chi capisce bene Angiolina è Stefano Balli, lo scultore amico di Emilio, vincente e sicuro di sé, piccolo
superuomo che nasconde le sue debolezze.
Diversa da Angiolina è Amalia, pallida sorella di Emilio che soffre per amore di Stefano, sola, alcolizzata,
gelosa di tutto ciò che allontana da lei il fratello Emilio.
Emilio sceglie di sottrarsi alle sue responsabilità, scegliendo per sé la condizione di vecchiaia psicologica
(sceglie di reprimere le pulsioni vitali per un gretto conformismo; è un inetto di natura “storica”)!
In questo romanzo il narratore è più ambiguo, la focalizzazione è interna e prevale il discorso indiretto
libero; domina la falsa coscienza di Emilio, che si autoinganna, ha un punto di vista inattendibile - rivelato
dai commenti del narratore che giudica con ironia - e dal linguaggio di Emilio, stereotipato e
melodrammatico (questa è una critica di Svevo a Emilio: l'inettitudine di Brentani è infatti spietatamente
messa a nudo dal narratore, che considera il protagonista come persona in un certo senso malata e, infine,
anche senile. Il lettore viene coinvolto in questa complicità con il narratore, e riconosce subito i limiti e
l'inadeguatezza di Emilio).
Senilità/malattia contrapposta a gioventù/salute (a quest’ultima tendono i personaggi, aspirano ad essa come
a uno stato d’essere, a una forza per affrontare il mondo, è la salute!).

La coscienza di Zeno: il termine coscienza (conscience) è ambiguo, significa consapevolezza


(consciousness), parte morale di sé o rettitudine? Forse vuole indicare ciò che Zeno sa di sé + la sua
consapevolezza bugiarda + la sua coscienza morale.
L’opera viene pubblicata nel 1923, dopo che Svevo si è esercitato in una pratica di psicanalisi su di sé senza
medico – cosa che contrasta l’idea di Freud (vedi nota 2) – da cui scaturisce il romanzo (si ricordi la malattia
del genero e la scarsa considerazione che Svevo ha della terapia, più utile per i romanzi che per i malati).
Finalmente Svevo lascia la narrazione in terza persona e si sposta sul protagonista e la sua coscienza,
evidenziando le contraddizioni tra conscio e inconscio, nonché lo sdoppiamento tra io narrante (Zeno che
racconta al presente tra il 1914 e il 24 marzo1916) e l’io narrato (le vicende della vita di Zeno che vanno dal
1857 al 1916; Zeno ha 57 anni, tanti quanti ne ha Svevo quando scrive il romanzo). Svevo quindi penalizza
la linearità cronologica, esalta invece la percezione personale dei fatti.
Non è un un’opera sulla psicanalisi, ma sulla malattia…
Zeno, il protagonista dell'opera, proviene da una famiglia ricca e vive nell'ozio ed in un rapporto conflittuale con il padre, che si
rifletterà su tutta la sua vita. Nell'amore, nei rapporti coi familiari e gli amici, nel lavoro, egli prova un costante senso di
inadeguatezza e di "inettitudine", che interpreta come sintomi di una malattia. In realtà solo più tardi scoprirà che è la società ad
essere malata e non lui. All'inizio del 1914 Zeno Cosini si fa visitare dallo psicanalista "dottor S.", il quale, prima di
intraprendere la cura, invita il paziente a raccontare la sua vita a partire dalla nascita fino a quell'anno. Pertanto fra il gennaio e
l'aprile del 1914 Zeno scrive le sue "confessioni", nelle quali hanno particolare risalto alcuni periodi compresi fra il 1890, anno
della morte del padre, e l'estate del 1897, anno in cui egli si reca in una clinica per smettere di fumare, e consegna il manoscritto
(cioè i capitoli 2-7) al dottore. Nel novembre dello stesso anno Zeno incomincia la cura che si protrae, senza alcun risultato, fino
all'aprile del 1915. Nel maggio Zeno decide di interrompere la terapia, scegliendo di farsi curare dal dottor Paoli, e descrive in
forma di diario la sua vita fino al marzo 1916. In seguito fa avere anche questo secondo manoscritto al "dottor S." il quale lo
pubblica per vendetta.

Prefazione
È questo uno dei più importanti capitoli, dato che rappresenta una ben inventata finzione letteraria. Si tratta di poche righe
firmate dal dottor S., il quale espone l'origine del libro ed afferma di averlo pubblicato per vendicarsi di Zeno, che era in origine
paziente del dottore stesso. Le cure cominciavano a dare i loro frutti (esse iniziavano con la stesura delle memorie di Zeno, le
quali non sono altro che i capitoli successivi del libro). Dato che Zeno ha interrotto la terapia, il dottore è profondamente ferito
nel suo orgoglio professionale e decide così di vendicarsi del paziente. È chiaro che questa finzione letteraria è anche una
polemica contro la psicanalisi, una forma di terapia che iniziava proprio in quegli anni velocemente ad affermarsi, soprattutto
nell'Impero Austro-Ungarico, di cui Trieste faceva parte. L'iniziale S pare essere la prima lettera del nome del padre della
psicanalisi, Sigmund Freud, anch'egli un austriaco viennese, ma potrebbe anche riferirsi all'autore o ad altri.
Il romanzo si apre con la prefazione del dottor S. (Sigmund Freud? Weiss? Stekel? L’Es freudiano? Costui
ricopre anche il ruolo di lettore implicito di Zeno, dato che è il committente, il lettore interno e il prefatore
del testo! E’ l’unica voce non filtrata da Zeno che scrive al tempo presente “Io sono…”, un presente però
diverso da quello usato poi da Zeno) che dice di voler pubblicare per vendetta le memorie del suo paziente
(c’è quindi antagonismo e sfiducia reciproca), sottrattosi alla terapia2 (memorie che Zeno aveva dovuto
scrivere come preparazione alla terapia del dottore; Zeno è un commerciante che non ha mai voluto scrivere
e ora è costretto; Alfonso ed Emilio erano impiegati che invece volevano essere letterati). Intervenendo in un
2
Nel 1918 Svevo traduce il testo di Freud Sul sogno. Sappiamo poi che Svevo era amico del noto psichiatra triestino Eugenio
Tanzi, che spesso esortava i suoi malati a scrivere le proprie autobiografie… Anche lo psicologo Francesco De Sarlo sosteneva la
necessità dell’autobiografia terapeutica tramite un “metodo storico” che valutasse tutti gli elementi tratti dalle confessioni e dalle
autobiografie (cfr. “Il dottore al quale ne parlai mi disse d’iniziare il mio lavoro con un’analisi storica della mia propensione al
fumo”). Lo psicologo Ossip-Lourié poi sosteneva che il genere autobiografico potesse costituire una sorta di terapia per il
grafomane patologico: anche Zeno ha un continuo e incoercibile impulso a scrivere senza scopo (scrive le date con cui segna il
proposito di smettere di fumare dappertutto, pareti, libri, vocabolari, quadri, ghiaia; scrive bigliettini, poesiole, favole, lettere
“Credo le avessi scritte solo per mettere in carta i miei pensieri”; “scriverla era un grande conforto per me, era lo sfogo di cui
abbisognavo”). Da ciò si capisce che il particolare impianto testuale scelto da Svevo deriva principalmente da un metodo
psicoterapeutico di cui costituisce una esplicita parodia letteraria!
La terapia di Zeno non è però esclusivamente freudiana (Svevo la conosce già prima del 1911) , ma ricalca il “metodo misto” di
Charles Baudouin che univa “l’autosuggestione” del suo maestro Emile Coué (fondatore della “Nouvelle école de Nancy” il cui
metodo prevedeva che il paziente, da solo, rilassato, ripetesse ritmicamente frasi tipo “non sto male” per registrarle nell’inconscio)
alla psicanalisi di Freud (il raccoglimento del paziente farebbe affiorare l’inconscio per così poi facilitare l’autosuggestione):
Zeno, rifiutandola, preferirà il metodo della “persuasion” di Paul Dubois (che si rivolgeva solo alla forza del pensiero e alla
volontà del soggetto, non più al subcosciente: “sapevo che la mia salute non poteva essere altro che la mia convinzione”; “la
malattia è una convinzione ed io nacqui con quella convinzione”).
Sembra che Svevo stesso si fosse recato a Nancy per curare disturbi nervosi, mentre il cognato Bruno ne avrebbe rifiutato la cura,
preferendo Freud.
Ricordiamo alcuni passi: Zeno, ossessionato dall’amore per Ada, si autosuggestiona (“dissi più volte a me stesso: io amo Augusta,
io non amo Ada”); Zeno, per suggestione riflessa, imita per qualche tempo la camminata dell’amico Tullio claudicante per
reumatismi.
Elementi invece tipicamente psicanalitici e freudiani sono nel sogno alla fine del romanzo inventato per il dottor S.; il vizio
segreto del fumo è un sostituto simbolico dell’attività sessuale; il rapporto con il padre rivela sfumature edipiche e di castrazione;
gli inconsci sentimenti di ostilità di Guido per Zeno…
tempo in cui la terapia si è già conclusa, il dottore dice che è tutto un cumulo di verità e bugie. Quindi la
“malafede” di Zeno, la sua cattiva coscienza porta subito il lettore ad essere diffidente nei suoi confronti,
cosa che cresce poi nel preambolo (il tempo diventa quello presente della scrittura) in cui Zeno dice di aver
scritto solo dopo aver letto un trattato di psicanalisi – cosa che contravviene la terapia -. Per Zeno la cura è
solo una prova dell’essere malato! Fino ad ora ha solo confutato il dottore e la terapia!
Ci viene così mostrato uno Zeno indocile nel ruolo di medico di se stesso (ironia, comicità assurda) 3,
inattendibile, che cerca di giustificare e mostrarsi innocente da ogni colpa con il padre, con la moglie, con
l’amante, con Guido, mentre in realtà traspaiono i suoi reali impulsi, i suoi lapsus, le sue ostilità.
Non sono bugie intenzionali, però, ma autoinganni inconsapevoli con cui Zeno cerca di tacitare la sua
coscienza.
Preambolo
Zeno racconta i suoi primi, apparentemente inutili, tentativi di ricordare la sua infanzia.
L’opera è divisa poi in altri sei capitoli, che sono una sorta di episodi soggettivi dalla scansione temporale
stravolta.
Il fumo
Il protagonista parla della sua malattia del fumo, narrando fatti che coprono tutta la sua vita. Oltre all'inettitudine, il suo grande
problema è il vizio del fumo, del quale non riesce a liberarsi. Il protagonista infatti già nell'adolescenza aveva iniziato a fumare a
causa del rapporto conflittuale con il padre. A quest'ultimo rubava inizialmente soldi per comprare le sigarette e in seguito, dopo
essere stato scoperto, raccoglieva i sigari fumati a metà sparsi per casa. Nonostante più volte si sia riproposto di smettere, non vi
riesce e per questo si sente frustrato. I tentativi si moltiplicano, e anche gli sforzi, ma il problema non viene risolto.
Ogni volta che prova a smettere di fumare, Zeno decide di fumare un'«ultima sigaretta» (U.S.) e di annotare la data di questa;
dopo numerosi fallimenti Zeno si rende conto che fumare "ultime sigarette" è per lui un'esperienza piacevolissima, in quanto
quelle assumono ogni volta un sapore diverso, causato dalla coscienza che dopo quella non potrà fumarne più. Zeno, inoltre,
indica il vizio del fumo come causa dei cambiamenti repentini di facoltà universitaria (passa infinite volte da chimica a
giurisprudenza).
Il fumo è il primo tema trattato dal protagonista, e la scelta è indotta dal dottore che lo invita "a iniziare il suo lavoro con
un'analisi storica della sua propensione al fumo": scopriamo così che Zeno ha iniziato a fumare con un sigaro lasciato in giro
per casa dal padre. Ma l'aspetto che subito viene evidenziato da egli stesso è che appena creatosi il vizio, Zeno tenta, invano, di
liberarsene: ogni occasione, come una bella giornata, la fine dell'anno, il piacevole accostamento delle cifre di una data,
coincide con la scritta U.S.- ultima sigaretta. Zeno si rivolge a facoltosi medici, riempie libri e addirittura pareti con la sigla
U.S., ma non riesce a smettere: il tentativo dura moltissimi anni, e non si realizza mai, neanche dopo essersi recato in una clinica
specialistica, pur di scappare dalla quale corrompe l'infermiera. Il continuo rimandare un evento è tipico del nevrotico, che così,
in questo caso, può gustare sempre di più l'ultima sigaretta.
Il fumo (Zeno ricorda i buoni propositi dell’ultima sigaretta formulati però in malafede e mai attuati
(autoinganni, rimandi per fumare senza sensi di colpa) ricorda il difficile rapporto col padre che ha capito la
sua inettitudine (complesso di Edipo); il fumo è l’emblema della volontà debole, degli impegni disattesi,
delle difficoltà nel gestire le pulsioni –inconscio-, del desiderio di rubare la virilità paterna come rubava le
sigarette e rappresenta il vizio per cui Zeno più prova colpa. La colpa e il rimorso, anche verso il padre poco
amato (non c’è immagine paterna positiva e solida), si aggravano poi nel capitolo successivo con la morte
dello stesso e con l’episodio dello schiaffo involontario che suo padre gli dà proprio sul letto di morte, tanto
che Zeno porterà sempre dentro sé l’ambiguità di quel gesto senza poterne avere spiegazione, cercandosi un
alibi per liberarsi dall’inconscio desiderio di volere davvero il padre morto.

La morte di mio padre


Zeno rievoca il rapporto conflittuale con suo padre, con particolare importanza data ai suoi ultimi giorni di vita. La relazione è
stata deviata dall'incomprensione e dai silenzi; il padre non ha alcuna stima del figlio, tanto che, per sfiducia, affida l'azienda
commerciale di famiglia ad un amministratore esterno, l'Olivi. A sua volta il figlio, che si ritiene superiore per intelletto e
cultura, non stima il padre e sfugge ai suoi tentativi di parlare di argomenti profondi. Il più grande dei malintesi è l'ultimo, che
avviene in punto di morte: quando il figlio è al suo capezzale, il padre (ormai incosciente) lo colpisce con la mano e Zeno non
riuscirà mai a capire il significato di quel gesto: quello schiaffo gli fu assestato allo scopo di punirlo o fu soltanto una reazione
inconscia del padre ammalato? L'interrogativo produrrà un dubbio che accompagnerà il protagonista fino all'ultimo dei suoi
giorni. Alla fine Zeno preferisce ricordare il padre come era sempre stato: "io divenuto il più debole e lui il più forte".
Il secondo tema trattato dal protagonista è anch'esso legato al vizio del fumo: infatti Zeno cerca di spegnere l'ultima sigaretta
anche il giorno della morte del padre. Il rapporto con il padre è il primo di una lunga serie di rapporti ambigui: tra padre e figlio
vi è una forte ostilità, Zeno gioca continuamente a provocare il padre, il quale da parte sua non cerca di comprendere il figlio,

3
Zeno ci appare come un uomo malato, fumatore, debole e suggestionabile – ad esempio zoppica dopo aver visto l’amico Tullio
zoppo veramente – per cui va in analisi e si confessa per iscritto. E’ dispettoso, dissimulatore, un “abulico malato immaginario”
(Montale) in cui il Super io fa emergere i sensi di colpa e i rimorsi, l’Es/l’inconscio fa emergere le malattie psicosomatiche, i
sogni, i lapsus, gli errori, l’essere zoppo.
anzi lo disprezza per il suo carattere troppo ironico. Il protagonista amplifica gli aspetti non apprezzati dal padre al punto dal
volerlo convincere di essere pazzo. La situazione ha una svolta solo il giorno in cui il padre, per un edema polmonare, è costretto
a letto, e Zeno si dedica a lui giorno e notte: una sera, nel tentativo di impedirgli di alzarsi dal letto, il figlio lo trattiene, ma il
padre in un ultimo impeto di forza, rizzatosi nel letto, alza la mano verso Zeno per colpirlo... e muore. Il protagonista vede nel
gesto una punizione, ultima ed eterna, del padre: e questo crea in lui un forte senso di colpa per avere desiderato la morte del
padre. Ma soprattutto rivela la probabile origine della sua malattia: aveva amato troppo suo madre e avrebbe voluto uccidere il
padre, e l'origine volontaria o meno del gesto del padre non può comunque attenuare il suo senso di colpa.
“La morte di mio padre” (1890) è il ritratto del pater familias pietoso e virtuoso che Zeno corrode con
ironia.

La storia del mio matrimonio


Zeno narra, utilizzando molto la sua ironia, gli avvenimenti precedenti e posteriori al grande evento. Così come alcune mattine il
protagonista racconta di svegliarsi con l'intento di smettere di fumare, una mattina decide di cercar moglie, ma prima ancora di
conoscere la futura sposa, egli sceglie il suocero: Giovanni Malfenti, con il quale Zeno ha stretto rapporti di lavoro e per il quale
nutre profonda stima, al punto che lo vedrà come una figura paterna dopo la morte del padre ; è da lui ammirato per l'abilità
negli affari, per la forza di carattere, per la grandiosa capacità di attirare l'attenzione. Zeno appena entra nella casa dell'amico
osserva le sue quattro figlie per scegliere l'eletta: tutte e quattro hanno il nome che inizia per A, ma ognuna ha una marcata
caratteristica. Ada, la più grande e la più bella, Augusta, la strabica, Alberta, lo spirito libero, che sogna di esser poetessa, e
infine la piccola, di soli otto anni, Anna. La scelta di Zeno cade su Ada, la sorella maggiore. Da quel momento il protagonista
inizia a frequentare assiduamente casa Malfenti, facendo ogni cosa per conquistare l'amata. Torna a suonare il violino, racconta
aneddoti, leggende e fatti mai avvenuti, cerca dunque di attirare in ogni modo l'attenzione della fanciulla, ma più si prodiga e più
lei si allontana, e al contrario si avvicina la strabica Augusta. Costretto anche dall'arrivo di altro un corteggiatore ufficiale, Zeno
dichiara il suo amore a Ada: l'evento è raccontato con ironia dal protagonista, che così riesce a ridere di una situazione
tragicomica. Ma Zeno viene rifiutato, perché ella lo considera troppo diverso da lei e incapace di cambiare. Anche dopo il
rifiuto, Zeno sarà sempre attratto dalla sua bellezza esteriore ed interiore. Tuttavia, ormai deciso a chiedere in sposa una delle
sorelle Malfenti, ripiega, preso da un vero e proprio raptus di follia, sulla sorella Alberta, che però vuol rimaner sola per poter
divenire scrittrice, e infine, essendo Anna troppo piccola, finisce per sposare la brutta Augusta, la seconda delle sorelle Malfenti,
ovvero la donna che meno gli piaceva. Augusta si rivela essere la donna perfetta per lui, e Zeno impensabilmente se ne
innamora. Augusta costituisce nel romanzo una figura femminile dolce, tenera, che si prodiga per il proprio marito: è la figura
materna che Zeno cercava.
(...)Cominciò con una scoperta che mi stupì: io amavo Augusta com'essa amava me. (...) Ogni mattina ritrovavo in lei lo stesso
commosso affetto e in me la stessa riconoscenza che, se non era amore, vi somigliava molto. Chi avrebbe potuto prevederlo
quando avevo zoppicato da Ada ad Alberta per arrivare ad Augusta? Scoprivo di essere stato non un bestione cieco diretto da
altri, ma un uomo abilissimo.
“Storia del mio matrimonio” (1891); Malfenti, borghese abile, sicuro, pieno di certezze, incarna la nuova
figura paterna, abile nel commercio – antagonista dell’inetto Zeno; vorrebbe sposare la figlia Ada, ma per
vari rifiuti si ritrova Augusta, la più brutta delle figlie, in realtà scelta inconsciamente da Zeno, perfetta per
lui (umiliato per le tre proposte di nozze rifiutate, poi somatizzerà un dolore all’anca: compiacenza somatica
– Freud). Notare che le sue nozze sono decise da “altri”, dal suo inconscio, dalla sua impulsività e non da
lui. Notare la lettera A di Augusta e la Z di Zeno: tutte le donne dei romanzi iniziano con A, le amanti invece
sono Carla e Carmen che è l’amante di Guido.

La moglie e l’amante
Il conflittuale rapporto dell'autore con la sfera femminile – la sua patologia è stata bollata dallo psicologo come sindrome
Edipica – è evidenziato anche dalla ricerca dell'amante: Zeno accenna a tale esperienza come un rimedio per sfuggire al «tedio
della vita coniugale» e avere una rivalsa su Guido. Quella con Carla Gerco è un'«avventura insignificante»; lei è solo una
«povera fanciulla», «bellissima», che inizialmente suscita un istinto di protezione. Tuttavia quella che in principio appariva come
una relazione basata sul semplice desiderio fisico si trasforma successivamente in una vera e propria passione. Anche Carla
subisce dei cambiamenti: dapprima insicura, diventa una donna energica e dignitosa che finisce coll'abbandonare il suo amante
a favore di un maestro di canto, che Zeno stesso le aveva presentato. Zeno non smetterà mai di amare la moglie Augusta che ha
per lui un atteggiamento materno, comunicandogli sicurezza mentre, verso la conclusione del suo rapporto con Carla, maturerà
per quest'ultima uno strano sentimento che si avvicina all'odio. Un amico di Zeno, Copler, anch'esso malato, ma di una malattia,
com'egli stesso si vanta, dai sintomi chiari e non immaginaria come quella di Zeno, sollecita il protagonista ad aiutare
economicamente la ragazza. Alla sua morte i due trasformano il rapporto beneficante-beneficata in un rapporto assai più intimo.
La storia prosegue nel tempo, sebbene Zeno, consapevole che tale rapporto è in contrasto con la sanità di cui è immagine la
moglie Augusta, tenga sempre in tasca un assegno con cui vorrebbe liquidare l'amante. L'avvenimento però viene sempre
rimandato, così come per tutta la vita egli rimanda l'ultima sigaretta. Il suo inconscio che precedentemente lo aveva portato ad
Augusta, lo induce a abbandonare l'amante. Ma questo è da lui provocato quasi inconsapevolmente e/o volontariamente (!):
Carla aveva una splendida voce e Zeno pagava per lei un maestro anziano e dai metodi antiquati; un giorno decide di licenziarlo
e al suo posto arriva un giovane maestro di talento che valorizza finalmente le capacità canore della fanciulla. Carla nel
frattempo, messa sempre da Zeno in competizione con la perfetta borghesia di Augusta, chiede all'amato di poterla vedere: Zeno
fa in modo che si imbatta nella bella Ada e non nella brutta Augusta. Ma questa scelta si rivela controproducente: Carla vede la
tristezza di Ada, che aveva da poco scoperto che Guido la tradiva, e, sentendosi in colpa, abbandona Zeno per sposare il giovane
maestro di canto.
“La moglie e l’amante” (Augusta come il padre è piena di certezze e di salute, è l’antitesi di Zeno,
nevrotico, diverso, non integrato pur desiderandolo. Anche Augusta va istruita, cosa a cui lei si sottrae
diventando a sua volta educatrice di Zeno alla salute. Carla, l’amante povera e protetta da Zeno, è invece
spesso considerata responsabile del tradimento da Zeno, cosa che serve a lui per crearsi un alibi con la sua
coscienza e riuscire così ad accettare il suo tradimento nei confronti della moglie, ma più va da Carla più
ama Augusta).

Storia di un'associazione commerciale


Nel capitolo è di fondamentale importanza Guido Speier, marito di Ada, titolare dell'azienda cui si è associato Zeno e
commerciante velleitario, distratto, fantasioso, del tutto privo di senso pratico e realistico. Incapace di gestire il proprio
patrimonio, Zeno viene pregato da Guido di aiutarlo, e lui accetta, per "bontà", come dice a se stesso, ma in realtà per un oscuro
desiderio di rivalsa, di superiorità nei confronti del fortunato rivale in amore che, nel frattempo, ha sposato Ada. Anche Guido,
peraltro, è un inetto, e incomincia, per inesperienza, a sperperare il suo patrimonio, mentre Zeno ha la soddisfazione di essere
incaricato da Ada di aiutare e proteggere il marito. Questi, dopo un'ennesima perdita (ha fatto affari conclusisi con un forte
passivo e nel tentativo di colmare il deficit ha giocato in Borsa perdendo ulteriormente e provocando un grave disastro
finanziario) simula un tentativo di suicidio, per impietosire i parenti e ottenere altro denaro dalla dote della moglie. Più tardi,
ritenterà il colpo astuto, ma, per un banale gioco della sorte, si ucciderà davvero per l'ingestione di una forte dose di "veronal" e,
soprattutto, per l'avversità del destino.
Proprio in tale circostanza viene a colmarsi quell'abisso, all'inizio evidentissimo e a poco a poco sempre meno avvertibile, fra
l'uomo che sa vivere e quello che non sa vivere, ovvero tra Guido e Zeno: poiché sarà appunto Zeno, nonostante le sue continue
inibizioni e perplessità, la sua abulia e la sua inettitudine, che riuscirà, con l'imprevisto aiuto della fortuna, ovvero l'improvviso
rialzo dei titoli di Borsa, a salvare la ditta dal fallimento e ad aiutare la famiglia del cognato.
Zeno però, impegnato a salvarne per quanto è possibile il patrimonio, non riesce a giungere in tempo al suo funerale (ed in
seguito sbaglia persino corteo funebre), è accusato da Ada, divenuta nel frattempo brutta e non più desiderabile per una malattia,
di avere in tal modo espresso la sua gelosia, il suo malanimo verso il marito. Il famoso triangolo matrimoniale termina con tre
sconfitte irreparabili, ma anche con l'autoinganno dei tre protagonisti, incapaci di distinguere fra sogno e realtà.
Il fatto che Zeno si rechi per distrazione al funerale di un estraneo, si spiega psicanaliticamente, come sostengono Ada e il "dottor
S.", con il fatto che il Cosini, al di sotto dell'affetto obbligato per il cognato, celava un inconscio sentimento di rancore e, anzi, di
odio verso la persona che gli aveva sottratto Ada, da lui amata, ed era riuscito a sposarla rendendola ben presto infelice per i
suoi tradimenti. In ogni caso, poiché non avviene per un suo particolare merito, questo non coincide con un superamento della
malattia, per quanto Zeno si ritenga guarito dalla sua malattia, e si senta d'un tratto forte, sano e venga a preferire una malattia
fisica e organica a una psichica.
“Storia di un’associazione commerciale” (1892-95); Zeno aspira alla salute entrando nel mondo normale
borghese in società con il cognato Guido Speier – bello, sicuro, disinvolto - che ha sposato Ada, ora malata e
imbruttita per un morbo alla tiroide, e di cui Guido si lamenta con Zeno: che rivalsa sull’antico rivale! Guido
inoltre subisce vari fallimenti, tra cui una relazione amorosa che viene scoperta, un fallimento in Borsa, un
simulato suicidio che però avviene davvero!!! E’un astuto imbecille! Zeno crede di essere addolorato e
sconvolto, ma arriva in ritardo al funerale sbagliato! Lapsus freudiano! Si scopre l’ambiguo rapporto che
Zeno aveva con lui, amicizia e odio).

Psicoanalisi
Il capitolo precedente aveva concluso il racconto imposto dal medico a Zeno. Ma ora questi lo riprende, per ribellarsi al medico
(“sto peggio di prima”), che non l'ha guarito, come crede. Zeno tiene un diario che scrive per sé, non tanto per il dottor S., e
forse mente di meno (scrive “sinceramente”, ma poi dice contraddicendosi che la prova che non ha avuto quella malattia è che
non ne è guarito!), che poi invia al dottor S. per fargli capire come la pensa. Il diario si compone di tre parti distinte,
contrassegnate dalle date di tre giorni distinti negli anni di guerra 1915-1916.
Zeno inizia esponendo in modo ironico la teoria edipica freudiana applicata dal dottore ai comportamenti di Zeno stesso: il fumo
era una forma di competizione con il padre; Malfenti è un nuovo padre da odiare, sposandone anche una figlia e tradendola; il
lapsus del funerale mancato nascondeva odio per Guido… Ma ora Zeno decide di troncare con il dottore e con la sua psicanalisi.
La seconda parte racconta del soggiorno sul Carso: Zeno ora afferma di essere guarito – non grazie al dottore che gli ha
permesso di fumare – ma proprio perché ha smesso questo vizio! Zeno ha bisogno di proibizioni per avere il piacere di
infrangerle! Teme poi che guarendo, guarirà anche dall’amore per le donne (visto che la sua vita malata ne era sempre piena);
ma approcciando una giovane adolescente figlia del colono, si “rassicura” di essere ancora “malato”!
Altre pagine del diario parlano della guerra, per concludere che da quasi un anno Zeno è a Trieste, separato a causa della
guerra dalla famiglia e dall’Olivi che dovrebbe amministrare il suo patrimonio: senza Olivi può comperare ed è il commercio,
dice, che lo guarisce.
Nella riflessione conclusiva Zeno si considera completamente guarito, grazie alla scoperta che la "vita attuale è inquinata alle
radici" e rendersene conto è segno di salute e non di malattia: l'euforia di Zeno è sopraffatta dalla convinzione obbiettiva che la
vita è malattia, che la realtà è "inquinata alle radici", che può avvenire anche di peggio di quello che è avvenuto, che qualunque
sforzo di darci la salute è vano, che gli ordigni hanno violentato e distrutto la natura e le sue leggi e che solamente facendo
esplodere il mondo è forse possibile ipotizzare, in un futuro, l'avvento di un mondo nuovo, migliore e sano:
(…) La vita attuale è inquinata alle radici […]. Qualunque sforzo di darci la salute è vano. Questa non può appartenere che alla
bestia che conosce un solo progresso, quello del proprio organismo […]. Ma l’occhialuto uomo, invece, inventa gli ordigni fuori
del suo corpo e se c’è stata salute e nobiltà in chi li inventò, quasi sempre manca a chi li usa. Gli ordigni si comperano, si
vendono e si rubano e l’uomo diventa sempre più furbo e più debole. Anzi si capisce che la sua furbizia cresce in proporzione alla
sua debolezza. I primi suoi ordigni parevano prolungazioni del suo braccio e non potevano essere efficaci che la forza dello
stesso, ma oramai, l’ordigno non ha più alcuna relazione con l’arto. Ed è l’ordigno che crea la malattia con l’abbandono della
legge che fu su tutta la terra la creatrice. La legge del più forte sparì e perdemmo la selezione naturale. Altro che psico – analisi
ci vorrebbe: sotto la legge del possessore del maggior numero di ordigni prospereranno malattie ed ammalati. Forse traverso
una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto
come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli
esplosivi attualmente esistenti saranno considerati innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma
degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto
potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei
cieli priva di parassiti e di malattie.
Il romanzo si conclude con il capitolo “Psico-analisi”: dopo il quinto capitolo si ha uno scarto temporale,
Zeno ha ormai 57 anni, ha praticato la psicanalisi dal dottor S. e ora la vuole lasciare, anche per screditare il
dottore con il suo racconto menzognero e inaffidabile. Allo scoppio della guerra alcuni soldati impediscono
a Zeno di tornare a casa, per cui lo mandano in maniche di camicia a Gorizia e poi Trieste. Poi però lo
ritroviamo più ricco, in salute: le sue speculazioni commerciali hanno trasformato l’inetto in un uomo
d’affari. Zeno si proclama guarito, ma così non è e l’ambiguità resta nell’ultima pagina in cui scopriamo che
la vita è inquinata alle radici.

Analizziamo la funzione dei personaggi minori nei confronti del protagonista: viene a mancare, rispetto ai
due precedenti romanzi, la figura dell'antagonista. Si potrebbe supporre che all'inizio del romanzo
l'antagonista di Zeno fosse, per esempio il galante dottor Muli, libero di abbandonare la clinica a suo piacere
e magari di accompagnare a casa e di corteggiare Augusta; o il padre, che Zeno ritiene una sorta di rivale o
una persona con cui competere; o Giovanni Malfenti, il futuro suocero, al quale l'abulico Zeno cerca di
assomigliare e che considera un secondo padre; e, soprattutto, Guido Speier, giovane avvenente, spiritoso,
dinamico, allegro, intraprendente e fortunato conquistatore di donne, in primo luogo Ada, amata da Zeno.
Ma a poco a poco ci si rende conto che le cose non stanno in questi termini e che, a parte il fatto che il dottor
Muli non si interessa ad Augusta e che Malfenti e suo padre muoiono, nel supposto antagonismo tra Guido e
Zeno il vero, definitivo vincitore non è il primo, tradito dalla sua superficialità, dal suo egoismo e
dall'esagerata stima in se stesso, bensì proprio Zeno, che, con l'aiuto del medesimo destino che aveva
decretato la morte del cognato, riesce a sanare in parte i fallimentari bilanci dell'azienda.
Analogamente non Ada Malfenti, la cui bellezza è guastata senza rimedio dal morbo di Basedow, e neppure
la bella Carla, desiderosa di affermarsi nel canto con l'aiuto non proprio disinteressato di Zeno, né la vistosa
e seducente Carmen, amante di Guido, ma la saggia e positiva Augusta è il nuovo tipo di donna proposto -
polemicamente e ironicamente - da Svevo. Augusta, ossia la donna comune, così come uomo comune è
Zeno: antieroina, come antieroe è lui; e tuttavia modello di saggezza e di sollecitudine nello sbrigare le
faccende domestiche e nell'allevare i figli, esempio di assennatezza e di attaccamento alla famiglia, tanto da
suscitare, per le sue doti di buona moglie e di madre tenera e affettuosa, la reticente o esplicita ammirazione
di Zeno. E poi Augusta "col suo occhio sbilenco e la sua figura da balia" è la "salute personificata", ma è
anche portatrice della concezione borghese della vita, che in apparenza Zeno rispetta e persino invidia, ma
che non pensa assolutamente di poter condividere e che non fa a meno di incrinare con la sua incessante
ironia. Da un simile punto di vista la condanna della società borghese risulta inequivocabile. I tragici risvolti
della vita della bella Ada e la salute della strabica Augusta, che vive felice nella sua realtà in apparenza
serena, documentano l'ironia dell'autore e soprattutto l'ideologia fondamentale del romanzo, che mira a
affrontare il grande problema della vita, con riferimento particolare a un ben concreto e definito periodo
storico.

Usando un “tempo misto”, l’io narrante organizza il suo racconto per blocchi tematici, infrangendo la
linearità cronologica tipica delle autobiografie, con numerose sovrapposizioni temporali (è una sorta di
diario-racconto dall’impianto autodiegetico), seguendo la sua memoria avanti e indietro nel tempo. Anche la
velocità del racconto subisce spesso variazioni radicali. Zeno dà già in questo modo un giudizio alla sua vita,
assegnando particolare rilevanza a certi episodi: se le passioni di Zeno sono la sua malattia, la cura consiste
nel ricordarle – dice Freud -, per cui il recupero della memoria con la scrittura è già una terapia. Ma proprio
per questo la narrazione si complica: l’io che narra, distante nel tempo dall’io che ha vissuto quelle passioni
e vicende, proietta la consapevolezza che ha ora nel presente sul suo passato… il problema che l’io presente
è mutevole, è in terapia, è contraddittorio, non è sempre veritiero.

Due concetti fondanti il romanzo sono quelli contraddittori di salute e malattia: Zeno è un inetto, per lui le
cose accadono per caso, senza legami di causa-effetto, e dalla sua ottica di “straniero del mondo”4 la vita non
è bella o brutta, ma originale e imprevedibile. Sa vivere con ironia, convinto che ciò che la coscienza
borghese identifica con la “salute” altro non è che rimozione della “malattia”.
Zeno, estraneo e “malato” (“la malattia è una convinzione e io nacqui con quella convinzione”), nevrotico al
punto da simulare sintomi di una reale malattia fisica, autoconvintosi che la causa sia il fumo, si oppone ai
“sani” (ad Augusta per esempio o al padre, a Malfenti, a Guido), che non sanno nulla di sé, sono sicuri di sé
e delle proprie convinzioni, incrollabili nelle loro certezze, che non si guardano mai allo specchio, altrimenti
si vedrebbero in realtà malati… Per cui la salute è uno stato di inconsapevolezza!
Chi invece è consapevole della propria condizione e non ritiene tutto indiscutibile, tutto certo e sicuro, non si
trova a suo agio nel mondo perché non è considerato sano dagli altri (pur in realtà essendolo e Zeno si ritiene
tale). “La salute ha bisogno di una cura per guarire”: c’è una contraddizione! I sani – dice Zeno – in realtà
sono malati e viceversa! Quindi lasciare la terapia del dottore è per Zeno un modo di guarire dalla cura.
Ma si noti che spesso Zeno non critica deliberatamente i sani, anzi vorrebbe essere in salute come loro,
integrarsi, essere un buon padre, riuscire negli affari, ma pur senza volerlo non ci riesce mai.

Nelle ultime pagine il concetto di malattia diventa universale! Zeno, giocando sui contrari, si dice guarito
mentre infuria la guerra, che è una malattia. C’è quindi una sorta di rivincita dell’inetto, dell’uomo senza
qualità (Musil), perché ora Zeno sta bene grazie ai guadagni derivati dalla sua attività commerciale, ha vinto
la sua inerzia di fronte alla guerra, ha comprato merci per poi rivenderle (la sua condizione di “incompiuto”,
di inetto si rivela la più adatta per sopravvivere alla guerra, per adattarsi appunto, a differenza degli altri
uomini.Ora Zeno è come i “sani”, un cinico profittatore di guerra, integrato nella società, il commercio lo ha
guarito. Ma è davvero guarito o si è solo assimilato alla “salute” del mondo che è inquinata? Il commercio è
farmaco o veleno come diceva Platone nel Fedro?).
Alla fine c’è l’evocazione di una catastrofe, con la terra che diverrà come una nebulosa…la guerra e questa
catastrofe sono presentate come il solo modo per tornare alla salute (allora non è vero che Zeno è guarito!);
la salute sarà però un mondo che non esiste più. “La vita è come una malattia, è sempre mortale”.
Zeno pare autoconvincersi di essere guarito, di essere in salute, ma il lettore dubita perché avviene
parallelamente alla crisi della civiltà e alla scoperta che tutto è malato, che tutti sono malati, tranne forse
l’inetto.La malattia quindi è interiore, è l’accidia, che può essere sconfitta dall’autoanalisi, dalla propria
coscienza; la malattia si identifica con una coscienza sofferente e con la società malata essa stessa. La vera
salute, quella anche di una società giusta, è un’utopia. Solo i malati, in sintonia con la vita, possono avere
chiarezza, coscienza dell’assurdo della vita, la coscienza è salvezza dal naufragio della vita! Zeno è un falso
inetto! È incline alla rimozione dei conflitti per quieto vivere, per autoassoluzione morale, per ipocrisia
sociale, per cattiva coscienza…l’inettitudine e l’inattività sono un trucco con cui Zeno si spaccia per vittima
per, in realtà, rivalersi poi delle delusioni e sconfitte: ha una buona rendita, un matrimonio sereno, assiste
alla sconfitta di Guido.
Ma è davvero inerte Zeno? In realtà fa dei movimenti “minimi”: non corregge gli errori di Guido, rivela ad
Augusta le sue infedeltà, non avvisa nessuno del tentativo di suicidio di Guido, promette ad Ada di seguire
Guido e non lo fa, offre al cognato dopo il fallimento così tanto denaro da umiliarlo con vincoli di
riconoscenza… l’inconscia rivalsa si compie, il rivale muore, Ada che lo ha fatto soffrire ora soffre a sua
volta.
La coscienza quindi è scomoda, è più facile adeguarsi alla vita, trarne profitto, passare nella categoria dei
“lottatori” e non stare tra i “contemplatori”, ma anche questa sembra un’illusione per Zeno, vista
l’esplosione finale… L’inettitudine non è solo inferiorità, ma condizione aperta, disponibilità!
Da questo si vede quindi l’influsso di Darwin su Svevo, in particolare in un suo saggio incompiuto L’uomo
e la teoria darwiniana, in cui Svevo distingue chi è incapace di evolversi e chi è in divenire e per cui
passibile di evoluzione: sono i forti-sani e gli inetti-malati. I primi sono apparentemente soddisfatti, ben
inseriti nella società (ma in realtà sono falsi sani, sono conformisti e ottusi); invece sono proprio i secondi ad
avere un ruolo positivo nell’evoluzione, perché non cristallizzati. Zeno per la sua duttilità e per la sua
4
Zeno richiama l’aggettivo greco xènos che significa straniero; Cosini richiama “piccola cosa”, lui si sente una piccola cosa
rispetto ai lottatori della vita che vede, come il padre, il suocero, Guido.
mancanza di certezze vede l’inconsistenza delle convinzioni dei sani. L’inettitudine non è un elemento
negativo, ma un ambiguo privilegio… una condizione aperta e disponibile allo sviluppo.

Evoluzione dei personaggi di Svevo: Alfonso ed Emilio sono raccontati in terza persona per smascherare la
loro inattendibilità, le loro contraddizioni e la scelta di “senilità”; Zeno è raccontato in prima persona per
rendere impossibile capire quali sono le bugie, anche il dottore crea ambiguità, per cui non c’è un narratore
autorevole ed esterno ad aiutare il lettore. Il disagio creato dal romanzo vuole essere un modello di
conoscenza.

Linguaggio e stile: “strano”, ai limiti della correttezza grammaticale, causa la contaminazione italo-tedesca e
del dialetto triestino; prevale lo stile nominale; maggior attenzione al significato che alla forma.

Alfonso Macario Annetta Lucia


Nitti
Emilio Stefano Angiolina Amalia
Brentani Balli
Zeno Guido Ada Augusta
Cosini Speier

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