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ITALO SVEVO 1

Roberto Bazlen è un autore molto importante, non ha fatto altro che scrivere note a piè di pagina, tutti i libri
della casa editrice Adelfi sono commentati da Bazlen. Egli ha un intuito straordinario e una capacità di
capire le penne che circolavano in Europa; scrive vite messe in corrispondenza, presentava Svevo a Montale
ma non solo, attraverso Trieste (città dei margini) con Bazlen che girava tra bancarelle e librerie. L'Adelfi
vuole onorarlo dedicandogli gli 'Scritti', 800 pagine di preziose note.
Trieste è la città di carta, la più cartacea del mondo, secondo Franco Renda, filosofo, la soglia e la figura
della modernità. Una città come Trieste innanzitutto fisicamente è tutta rocciosa e sulla costa, alle spalle non
c'è nulla e poi è la parte più marginale di Italia e dell'Impero Austro-Ungarico, è stata per molto tempo nella
cultura letteraria Europea e poi è diventata Italiana.
Italo Svevo non si chiamava così, il suo vero nome ha una pronuncia tutta tedesca. Trieste ebbe
un'anticipazione di quello che accadrà in Italia. Contini dice che i triestini furono psicanalisti prima della
psicoanalisi, c'era una nevrosi Triestina, erano tutti nevrotici. Ma era una nevrosi anticipata perchè non era
ancora il momento della psicoanalisi. L'aspetto di essere città di mare rende chi vive in quelle città molto
adatti a saper leggere la cultura Triestina, Svevo dice che i poeti Triestini scrivono in Italiano, il Triestino è
trilingue, scrivono l'italiano se vogliono fare letteratura, conoscono il tedesco scrivendo teorie psicanalitiche
in questa lingua e parlano la lingua viva (del parlato) ovvero il dialetto Triestino. Questo comporta che 50
anni prima a Trieste arriva la psicoanalisi rispetto a ogni altra parte di Italia. Nel 1945 sul Politecnico di
Vittorini c'era un trafiletto minimo che sosteneva che la psicoanalisi fosse una tendenza passeggera ma la
Coscienza di Zeno è costruita sulla coscienza psicoanalitica.
In tutta Trieste uno solo credeva alla non capacità di guarigione della psicoanalisi e questo era Svevo,
credeva in una verità tanto più scientifica. Il cognato nevrotico andò a Vienna a curarsi con Freud, per
salutarlo e poi a Vienna si suicida, ciò comportò la diffidenza di Svevo verso tale metodo.
Ma la cultura di Svevo e la sua scrittura è dedicata a Freud, l'ultimo capitolo si chiama “psicoanalisi” perché
egli si serve di questa per un metodo di scrittura non per la verità scientifica della psicanalisi.
Troviamo dappertutto questa frase: “gli serviva come metodo di analisi della realtà e del proprio io come
metodo di conoscenza”. Ma questa frase non è propriamente vera. L'ultima parola che scrive nei suoi vari
appunti, il suo testamento è: “conta solo il modo”.
Allora se dobbiamo introdurre la scrittura di Svevo usiamo la definizione di chi ha studiato Svevo e di chi
era stato incaricato di fare tutti i Meridiani di Svevo. Questo è un professore universitario il cui nome è
Lavagetto che quando ha capito di non farcela si è fatto aiutare dai propri alunni. (L’introduzione ai
Meridiani è stata pubblicata insieme ai Pleiade, dunque ciò faceva capire che questa edizione era veramente
costosa.) Svevo interessa scrivere nel modo in cui si scrive. Aveva iniziato con questa passione presto e
aveva passato tra i rifiuti delle case editrici e fallimenti editoriali di romanzi pubblicati a sue spese. Eravamo
nel passaggio fra 800 e 900, sono libri che escono alla fine dell'800 ma le parole che Svevo usa sono parole
chiave.
L'inettitudine è cruciale per capire i personaggi sveviani che sono degli non-adattati, sono coloro che non
rispettano le fasi evolutive di Darwin con l'evoluzionismo e la lotta alla sopravvivenza. Svevo parla degli
inetti. C'è la straordinaria figura del vecchio nella scrittura dello Svevo, dirà che Zeno è il più vecchio dei
suoi protagonisti.
Un fallimento raggelante, non c'era possibilità di appello che il mondo letterario fosse aperto al futuro, e nel
1902 scrive uno dei suoi frammenti:” ho lasciato del tutto quella pratica ridicola e dannosa della letteratura”.
Sceglie questi aggettivi e stava prefigurando quella che sarebbe stata l'apertura dopo la frattura nel
modernismo (passaggio alla dimensione completamente nuova dell'io e della realtà dove non esiste spazio e
tempo ma esiste la scrittura). Condannando la scrittura Svevo parla di un progetto di scrittura completamente
diverso. Non smette di scrivere in realtà, non produce letteratura ma la radice della letteratura ovvero la
scrittura la continua ad alimentare. Mazzacurati dice 'Intorno a Svevo una vegetazione di foresta, tante
piccole pagine non completate ma fondamentali'. Svevo usa un verbo preciso per dire questa parabola:
scribacchiare. Tale termine lo vediamo anche in un'opera di Pirandello. Con le macerie della Prima guerra
mondiale alle spalle, nel 1919 una notte, nel cuore della notte, Svevo scrisse, qualcosa si spezzò e la penna
trascese. Nella penna compare la figura di Zeno, all'improvviso. allora sulle letterature troviamo scritto che
dopo un lungo silenzio dovuto al rifiuto dei romanzi, inspiegabilmente Svevo crea tale capolavoro ma non è
vero. Non è inspiegabilmente ma all'improvviso un personaggio incarna su una pagina tutto ciò che
scribacchiando aveva sedimentato.
Augusta diceva a Zeno 'beato te che ridi a quest'ora della notte'. Capiamo cosa vuol dire lo stile di uno
scrittore. I personaggi Svevo li aveva, l'inetto, il senile ma era il modo che doveva trovare ovvero la
costruzione di quest'anti-romanzo. Questa costruzione del romanzo che poi esplode è il vero romanzo.
Quello che viene chiamato anti-romanzo nel corso del 900 è quello che veramente voleva essere il romanzo
quando nacque in Inghilterra nel 700.
(Svevo incomincia a pensare ad un romanzo che possiamo definire 'degenerato' perchè la degenerazione è
una categoria estetica importantissima, c'è un libro di Max Nordau che si chiama ‘Degenerazione’ dove parla
del pericolo di contagio dei degenerati che rischiano di diffondere il loro andare contro corrente rispetto al
moto evolutivo, i degenerati si muovono all'incontrario, fanno pratiche che dovrebbero essere superate per
l'evoluzione umana, fanno da ostacolo alle sorti progressive. Inceppano il meccanismo evolutivo dell'uomo,
tanto è vero che Nordau dice che quella della letteratura è la degenerazione che contagia di più perché è
seducente; dunque, dobbiamo fare attenzione ai letterati e fa un elenco di pagine di degenerati e cita per
mille pagine, riempie il libro di Wilde, Nietzsche, e finisce per riempire il libro di grandi modelli del 900.
Sono più le citazioni dei degenerati che quelli dedicati alla terapia. Su mille pagine 900 sono dedicate ai
degenerati e 500 alla terapia. Nordau si è ammalato anch'esso a furia di trattare di degenerati tanto che
questo libro ha un effetto imprevisto: parla di tutti gli autori come D'annunzio, Pirandello, Tozzi. Questi
autori sono dei veri e propri modelli e la figura del degenerato finisce per prefigurare i romanzi del 900.
Giacomo De Benedetti, il critico che ha cambiato il modo di fare con il suo romanzo del 900, parla
dell'invasione dei brutti, le pagine del 900 sono pieni di personaggi brutti come anche quelli Pirandelliani).
Non sappiamo com'è fatto Zeno, non è mai descritto e allora Svevo pensava proprio a questo tipo di
letteratura, Schopenhauer e Nietzsche sono fondamentali ma anche l'orientalismo di Firenze e la psicoanalisi
che circolava in quel periodo. Incomincia con la penna trascesa attorno la figura di Zeno a costruire
quest'opera romanzesca che è una delle prove più alte dell'800 Europeo.
Poi c'era stata la metamorfosi di Kafka che aveva dimostrato quali altezze poteva raggiungere una prosa che
non aveva nessuna parola letteraria.
Un romanzo di quella portata che ha effetto sull'Ulisse di Joyce (grande classico della letteratura europea del
500), importante è anche l'uomo senza qualità. Joyce era andato ad insegnare Inglese a Svevo che aveva
bisogno di rendere proficua la sua scelta sociale. Aveva sposato la figlia dell'imprenditore che aveva
scoperto una vernice che non arrugginiva; quindi, Svevo aveva bisogno di andare a Londra per affari e aveva
scarsa conoscenza dell’inglese. Trovò in Joyce un valido insegnante. Joyce legge le pagine di Svevo e
capisce che sono notevoli. Dice che Svevo deve coltivare e deve provare ancora a pubblicare.
Degli studi dunque vedono nell'Ulisse tracce della lettura della coscienza di Zeno, anche se in Italia solo un
acutissimo lettore che aveva fatto studi particolari capì quanto era importante la Coscienza) , Eugenio
Montale : “Ossi di seppia” è del 1925 e lui nel ‘25 scrive un articolo dove scrive: “abbiamo un romanzo
bellissimo di Svevo”. Scrive questo articolo su una rivista chiamata 'Esame'.
Questa interpretazione, questa critica dialogica l'ha creata Giacomo de Benedetti. Nel 1965 Battaglia scrisse
' Mitografia del personaggio', qui c'è in embrione tutto ciò che poi la Baldi-Giusso e le varie edizioni che
hanno attuato. Battaglia era il maestro di Mazzacurati, faceva filologia romanza, Mazzacurati non era suo
allievo ma dopo le sue lezioni decise di entrare nella scuola di Battaglia. Questi hanno creato una svolta nel
sistema internazionale della letteratura italiana, un nuovo modo di vedere.
Partiamo dall'idea della degenerazione e dai figli che non sono più come i padri vorrebbero, questa è una
condizione che è nata dal modernismo, ovvero quella che il figlio è anti-genere. Fino al modernismo il figlio
raccoglieva l'eredità anche per trasmissione di sangue e evolvendosi portava avanti l'accumulo di tradizioni;
invece, con Kafka noi abbiamo per la prima volta un figlio che vede il padre deluso, minaccioso,
mortificante, enorme, immenso.
“Quando andavamo a mare e ci spogliavamo, come facevi a non vedere la mia mortificazione, il tuo corpo
enorme e perfetto e il mio gracile, che cercava di nascondersi” , questa è una citazione di Kafka in 'una
Lettera al padre', dove capiamo benissimo il succo del discorso che stiamo affrontando.” La lettera al padre
“di Kafka è un pezzo della letteratura fondamentale ma inconsegnato, non arrivò mai al padre. In questa
lettera al padre, Kafka, parla dell'impossibilità di un figlio di seguire i dettami materni, ma se questa lettera è
così citata nel 900 e perchè è letta come una metafora, troveremo in quasi tutti i testi un rapporto conflittuale
col padre (anche per Saba), non c'è un figlio che non sia un degenere rispetto al padre perchè questo
rappresenta la degenerazione del romanzo settecentesco rispetto a quello ottocentesco, dopo la rottura del
modernismo non si può scrivere seguendo il filo del racconto, non c'è un ordine cronologico, il filo è perduto
e allora nasce il romanzo scompaginato (l'antiromanzo).
Il figlio che prende un percorso diverso rispetto al padre è la figura del romanzo del 900, per questo “la
lettera al padre” è così citata.
Pare che Svevo abbia letto tardivamente queste lettere, dopo aver letto la coscienza di Zeno esiste solo il
tempo misto, non esiste né un prima né un dopo.
Dalla lettera di Kafka:

Carissimo padre, di recente mi hai domandato perché mai sostengo di avere paura di te. Come al solito, non
ho saputo risponderti niente, in parte proprio per la paura che ho di te, in parte perché questa paura si fonda
su una quantità tale di dettagli che parlando non saprei coordinarli neppure passabilmente. E se anche tento
di risponderti per iscritto, il mio tentativo sarà necessariamente assai incompleto, sia perché anche nello
scrivere mi sono d'ostacolo la paura che ho di te e le sue conseguenze, sia perché la vastità del materiale
supera di gran lunga la mia memoria e il mio intelletto. Per te la cosa è sempre stata molto semplice, almeno
nella misura in cui ne hai parlato davanti a me e, indiscriminatamente, davanti a molti altri. Ti pareva che
stesse più o meno così: tu hai lavorato sodo per tutta una vita, hai sacrificato ogni cosa per i tuoi figli,
soprattutto per me; di conseguenza io ho fatto la bella vita, ho avuto la massima libertà di studiare quello che
volevo, non ho dovuto preoccuparmi né di procurarmi il cibo né di qualsiasi altra cosa; tu non pretendevi per
questo la mia gratitudine, la conosci, "la gratitudine dei figli", ma almeno un po' di gentilezza, qualche
accenno di compassione, e invece io mi sono sempre rifugiato davanti a te, in camera mia, tra i miei libri, coi
miei amici stravaganti, nelle mie idee eccentriche; non ti ho mai parlato apertamente, non mi sono mai
messo accanto a te nel tempio né ti sono mai venuto a trovare a Franzensbad; inoltre non ho mai avuto il
senso della famiglia, non mi sono mai occupato del negozio e delle altre cose tue, la fabbrica l'ho addossata
a te e poi ti ho abbandonato, ho dato man forte a Ottla' nella sua testardaggine, e mentre per te non muovo un
dito (non ti prendo nemmeno i biglietti per il teatro), per gli amici faccio tutto.

Nella lettera la mano alzata è fondamentale perchè la vediamo anche nella Coscienza di Zeno e tale mano è
immagine della supremazia e la sovranità del padre.
Questo è l'anti-romanzo novecentesco, questa inclinazione particolare dello stile del 900 è uguale a quella
del Don Chisciotte, che è il primo personaggio del romanzo proprio perché la sua commistione umoristica di
comico e tragico e il suo essere ridicolo esprime una sorta di sublimità. Questi gesti ridicoli esprimono il
sublime. La letteratura fa danni, è inclinata, contamina tutti intorno, fa danni. C'era la radice di Chisciotte e
il potere di contagio, c'erano poeti come Kafka, degenerati. Per quanto riguarda Chisciotte non si tratta solo
di mulino a vento, dobbiamo dare ragione al protagonista, i mulini a vento sono mostri contro i quali lui
deve combattere, mostri che contribuiscono a renderlo ridicolo, ma sono mostri verso i quali lui ha
combattuto e ha resistito e poi risale e al tramonto, si allontana, è fondamentale Sancio anche nell'opera Don
Chisciotte. Sancio descrive Chisciotte come un 'Cavaliere invincibile' perchè invincibile non è colui che
vince sempre ma colui che ogni volta che cade si rialza come dice anche Erri De Luca.
Questo procedere leggermente inclinato da un lato è tipico degli invincibili, è il modo di andare avanti
ammaccandosi perchè l'urto con la realtà c'è. Pascal diceva: “sono maturato come accade con certi frutti a
furia di ammaccature”. Questa andatura leggermente inclinata da un lato è esattamente lo stile di Italo Svevo
che si riconoscerà sempre.
Il capolavoro di Svevo non è la coscienza di Zeno ma è il cosiddetto quarto romanzo o continuazione, per
quest'opera era stato scelto il titolo 'Il Vecchione' ed è quando dopo l'esplosione finale dell'ultima pagine
della coscienza di Zeno sembrava tutto finito ma a 70 anni, biologicamente vecchio, Zeno riprende la penna
e dice” rileggendo le pagine di diario impolverate ho capito che l'unica vita che può dirsi vita è quella su
carta e quando tutti capiranno questo, tutti scriveranno e non fa niente che gli altri non capiranno ma la mia
vita sarà letteraturizzata ”.
Infatti le cose più belle che scrive Svevo sono nelle pagine delle continuazioni.
Nel canone dell'angelus novus questi sono i canoni e l'opera fondamentale, ma l'angelus novus indugia.
Quando Kafka chiude la lettera che mai spedirà dice esattamente quello che abbiamo fatto noi nella scelta di
iscriverci a lettere:

Talvolta immagino di poter aprire davanti a me la carta terrestre e di stendertici sopra Mi pare allora che per
la mia vita si possano prendere in considerazione solo quei territori che né copri col tuo corpo né sono
comunque alla tua portata. E data l'idea che mi son fatto della tua grandezza, questi territori non sono molti
né molto confortanti, e il matrimonio in particolare non ne fa parte. Già questo paragone dimostra che io non
voglio assolutamente dire che è stato il tuo esempio ad allontanarmi dal matrimonio, più o meno come col
negozio. E proprio il contrario, nonostante ogni remota analogia. Nel vostro matrimonio avevo davanti a me
un matrimonio sotto molti aspetti esemplare, esemplare nella fedeltà, nell'aiuto reciproco, nel numero dei
figli; e anche quando i figli sono cresciuti e hanno turbato sempre più la pace familiare, il matrimonio in
quanto tale non ne è stato sfiorato. Proprio da questo esempio, forse, deriva l'alto concetto che ho di esso; il
fatto però che il mio desiderio di contrarre matrimonio sia stato impotente aveva altri motivi. Essi vanno
rinvenuti nel tuo rapporto con i figli, di cui tratta tutta la lettera. C'è chi pensa che la paura del matrimonio
talvolta derivi dal fatto che in realtà si teme che i figli un giorno ci restituiranno quel che abbiamo fatto ai
nostri genitori. Nel mio caso, mi pare, questo non ha grande importanza, perché il mio senso di colpa deriva
proprio da te ed è anche troppo intriso della sua singolarità; anzi questo senso di singolarità fa parte della sua
essenza straziante, e una sua ripetizione è impensabile. Purtuttavia devo dire che un figlio così muto, ottuso,
secco e decadente mi sarebbe insopportabile; sicuramente, se non ci fossero altre possibilità, lo fuggirei ed
emigrerei, come in un primo momento volevi fare tu per via del mio matrimonio. E comunque possibile che
la mia incapacità di sposarmi sia influenzata anche da questo. Molto più importante a questo riguardo è però
la paura per me stesso. Questa affermazione va intesa così: ho già accennato che con lo scrivere e con tutto
quello a esso collegato ho compiuto piccoli tentativi di indipendenza, tentativi di fuga dal successo minimo,
non mi porteranno molto avanti, molte cose me lo confermano. Tuttavia è mio dovere, o forse questa è
proprio l'essenza della mia vita, vegliare su di essi, per non lasciare che si avvicinino loro pericoli da cui
debba difendermi o anche solo la possibilità di tali pericoli. Il matrimonio è la possibilità di un tale pericolo,
e al contempo anche la possibilità del massimo avanzamento, ma mi basta che sia la possibilità di un
pericolo. Che farei mai se poi fosse davvero un pericolo! Come potrei continuare a vivere nel matrimonio,
nella sensazione forse indimostrabile ma altrettanto inconfutabile di questo pericolo! Di fronte a questo
posso certo vacillare, ma l'esito finale è sicuro, debbo rinunziare. Il paragone dell'`uovo oggi e della gallina
domani non è molto calzante. Oggi non avrei niente e domani tutto, eppure--a decidere sono i rapporti di
forza e le esigenze della vita--debbo scegliere il niente. Allo stesso modo ho dovuto decidere quando ho
scelto la professione. Il più importante ostacolo al matrimonio è comunque l'inestirpabile convinzione che
per mantenere o comunque guidare una famiglia siano necessarie tutte quelle caratteristiche che ho
riconosciuto in te, tutte insieme, nel bene e nel male, a costituire un tutto organico come nella tua persona, e
quindi forza e disprezzo degli altri, salute e una certa smodatezza, loquacità e insufficienza, autostima e
insoddisfazione del prossimo, senso di superiorità e tirannia, conoscenza degli uomini e sfiducia nei più, e
anche pregi senza contropartita alcuna come laboriosità, resistenza, presenza di spirito, animo intrepido. Di
tutto ciò io in confronto non avevo niente o soltanto pochissimo, e con ciò io osavo sposarmi pur vedendo
che persino tu nel matrimonio dovevi lottare strenuamente e, coi tuoi figli, arrivavi a fallire? Naturalmente
questa domanda non me la ponevo espressamente, né vi rispondevo espressamente; altrimenti della cosa si
sarebbe impossessato il corso abituale dei pensieri, e mi avrebbe mostrato uomini molto diversi da te (per
nominarne uno molto vicino e assai diverso da te: lo zio Richard) che tuttavia si sono sposati e quanto meno
non sono crollati sotto il peso del matrimonio, il che è già molto e a me sarebbe bastato abbondantemente.
Ma questa domanda io non me la sono posta: l'ho vissuta, sin dall'infanzia. Io non mi sono messo seriamente
alla prova rispetto al matrimonio, ma rispetto a ogni piccolezza; rispetto a ogni piccolezza mi hai convinto,
con il tuo esempio e la tua educazione, come ho cercato di descriverli, della mia incapacità, e quel che era
vero per ogni piccolezza e ti dava ragione, doveva naturalmente essere enormemente vero per quanto c'era di
più grande, ovvero il matrimonio. Fino ai tentativi di matrimonio io sono infatti cresciuto come un uomo
d'affari che si trascini giorno dopo giorno, per quanto sia preda di preoccupazioni e di cattivi presagi, senza
mettere ordine nei suoi libri contabili. Ha alcune piccole entrate che, in virtù della loro rarità, continua ad
accarezzare e a esagerare nella sua immaginazione, e per il resto solo perdite quotidiane. Registra tutto senza
tentare mai un bilancio. Arriva però l'obbligo di un bilancio, ovvero il tentativo di matrimonio. E con le
grosse somme che sono in gioco, è come se non ci fosse mai stata neppure la più piccola entrata, ma un
unico grande debito (nota: Schuld, debito, ma anche colpa, la grande ossessione di Franz (N. d. T.). E adesso
sposati, senza impazzire! Così termina la mia vita con te, fino a oggi, e queste sono le prospettive per il
futuro che essa reca in sé. Se tenti una valutazione dei motivi da me addotti per spiegare la paura che ho di
te, potresti rispondere: "Tu affermi che per me sarebbe facile spiegare il mio rapporto con te facendo ricorso
unicamente alla tua colpa, ma io credo che la tua spiegazione, nonostante i tuoi sforzi apparenti, non ti sia
comunque più gravosa, solo molto più redditizia. In primo luogo anche tu declini ogni colpa e
responsabilità, e in questo senso il nostro procedimento è analogo. Mentre però io attribuisco apertamente
tutta la colpa a te, cosa che del resto penso, tu invece vuoi essere "superassennato" e "supertenero", e
dichiarare anche me esente da ogni colpa Naturalmente quest'ultimo passaggio ti riesce solo in apparenza
(né vuoi di più), e tra le righe emerge, nonostante tutti i tuoi "discorsi" su essenza e natura e contrasto e
inermità, che in realtà io sono stato l'aggressore, mentre tu hai fatto tutto quel che hai fatto solo per
autodifesa. Adesso avresti già ottenuto abbastanza con la tua insincerità, perché hai dimostrato tre cose:
primo, che sei innocente; secondo, che io sono colpevole; terzo, che per tua magnanimità sei disposto non
solo a perdonarmi, ma anche, più o meno, a dimostrare e a voler credere che anche io, per quanto contro
ogni verità, sono innocente. A te questo potrebbe anche già bastare, ma ancora non ti basta. Infatti ti sei
messo in testa di voler vivere soltanto di me. Ammetto che tra noi c'è un conflitto continuo, ma ci sono due
tipi di conflitto. Quello cavalleresco, in cui si misurano le forze di due nemici autonomi, in cui ciascuno
rimane da sé, perde per sé, vince per sé. E quello del parassita, che non solo punge, ma per rimanere in vita
succhia anche il sangue dell'avversario. Questo è il soldato mercenario, e questo sei tu. Sei incapace di
vivere; e per poterti installare comodamente nella inita, senza preoccupazioni e senza muoverti rimproveri,
dimostri che io ti ho tolto ogni capacità di vivere e me la sono infilata in tasca. Che te ne importa ormai se
sei incapace di vivere, tanto la responsabilità è mia, tu ti stiracchi tranquillamente e ti fai trascinare da me
attraverso la vita, fisicamente e mentalmente. Un esempio: quando di recente volevi sposarti, allo stesso
tempo, e in questa lettera lo ammetti, non ti volevi sposare, volevi però, per non affaticarti, che ti aiutassi a
non sposarti, proibendoti questo matrimonio a causa della "vergogna" che quest'unione avrebbe arrecato al
mio nome. A me però non è neppure passato per la testa. In primo luogo non volevo "essere d'ostacolo" alla
tua felicità, come sempre del resto; e in secondo luogo non vorrei mai dover sentire un simile rimprovero da
mio figlio. Ma è servito a qualcosa che io abbia superato me stesso non opponendomi al tuo matrimonio?
Assolutamente no. La mia avversione per quelle nozze non le avrebbe impedite; anzi, ti avrebbe
ulteriormente spinto a sposare quella ragazza, perché così il "tentativo" di fuga, per esprimermi con le tue
parole, sarebbe divenuto perfetto. E il mio consenso alle nozze non ha impedito i tuoi rimproveri, perché sei
in grado di dimostrare che in ogni caso la colpa delle tue mancate nozze è proprio mia. In fondo però, qui e
in ogni altra circostanza, non hai dimostrato altro se non che tutti i miei rimproveri erano giustificati e che
tra loro ne mancava uno solo, particolarmente giustificato, ovvero l'accusa di insincerità, di servilismo, di
parassitismo Se non vado errato, anche in questa lettera continui a fare il parassita nei miei confronti". A
tutto ciò rispondo che questa impostazione, la quale in parte potrebbe essere rivoltata anche contro di te, non
deriva da te, ma da me. La tua sfiducia negli altri infatti non è pari alla mia sfiducia in me stesso, a cui tu mi
hai educato. Non posso negare che questa impostazione, la quale di per sé apporta qualche contributo nuovo
anche alla caratterizzazione del nostro rapporto, sia in certo qual modo giustificata. Naturalmente nella realtà
le cose non possono essere calzanti come gli esempi della mia lettera, la vita è più che un gioco di pazienza;
ma con la correzione che deriva da questa impostazione, correzione che né posso né voglio sviluppare
ancora nei dettagli, si è secondo me raggiunto un qualcosa di così vicino alla verità che un pochettino può
tranquillizzarci entrambi e renderci più facile il vivere e il morire.

E immagina di aprire la carta terrestre (geografica) e di distendere il padre sopra. Lui scrive e cresce nello
spazio nuovo che il padre aveva lasciato. Lo fa in maniera autonoma e indipendente. E' andato contro-
corrente. Correnti ostinate come dice Fabrizio De Andrè (che ormai è definito poeta). Degenerando lasciamo
la coda che è una coda bellissima e continuiamo ad andare verso la direzione che abbiamo scelto e allora
dobbiamo essere orgogliosi perchè nel mondo ci muoveremo con l'inclinazione di Chisciotte e abbiamo un
Sancio alle nostre spalle che se ne accorgerà, non lo vediamo.
Zeno non era amato dal padre anzi il padre era quasi disgustato da questo figlio dedito alle lettere,
circondato di libri e che non portava avanti l'azienda paterna.
Nell'ultima pagina che scrive frettolosamente Verga nel Mastro Don Gesualdo creando un vero e proprio
capolavoro parla di questo dover mandare avanti l'economia paterna. Il padre di Zeno si ammala e sta
morendo e dovrebbe lasciare l'eredita al figlio (nel capitolo intitolato” la morte di mio padre”), in questo
capitolo lui dice che non avrà più la possibilità di essere felice, la morte del padre determina
un'ammaccatura.
Tutto si ribalta continuamente: verità e menzogna, salute e malattia. Dobbiamo sempre chiederci qual è la
verità. La scena cruciale che campeggia in questo capitolo è il gesto che fa il padre prima di morire, non si
sa quale sia quel gesto perchè l'unica cosa che conta è l'effetto che ha nella vita di Zeno. Non indaghiamo
sulla causa del gesto ma solo l'effetto che quel gesto ha sulla vita di Zeno. La scena della morte del padre è
fondamentale, il capitolo che leggiamo è il capitolo della notte in cui il figlio lascerà il padre e seguirà un
altro tipo di letteratura.
Dalla lettura del primo capitolo de la ‘Coscienza di Zeno’ nel quale racconta l'ultima notte del genitore, ha
paura, una paura Kafkiana che il padre sia di nuovo lucido, e però quella notte il padre stava troppo sveglio,
il figlio provava un rancore che inquinava quel momento. Il genitore era fortissimo e non moriva. Svevo era
calvo ed era fissato con i capelli e dunque nel capitolo dice che il padre nonostante stesse morendo è pieno
di capelli.
Svevo è fissato anche con una figura femminile infatti l'autoritratto di svevo senza capelli e storpio è
AUGUSTA e nessuno se ne mai accorto, nessuno si accorge che svevo si descrive nell'immagine di Augusta.
Egli s’era seduto sulla poltrona accanto alla finestra e guardava traverso i vetri, nella notte chiara, il
cielo tutto stellato. La sua respirazione era sempre affannosa, ma non sembrava ch’egli ne soffrisse assorto
com’era a guardare in alto. Forse a causa della respirazione, pareva che la sua testa facesse dei cenni di
consenso .Pensai con spavento: «Ecco ch’egli si dedica ai problemi che sempre evitò». Cercai di scoprire il
punto esatto del cielo ch’egli fissava. Egli guardava, sempre eretto sul busto, con lo sforzo di chi spia
traverso un pertugio situato troppo in alto. Mi parve guardasse le Pleiadi. Forse in tutta la sua vita egli non
aveva guardato sì a lungo tanto lontano.
Parla del cielo stellato in questi versi, del cosmo, il padre ha l'universo davanti.
Qui Zeno è feroce col padre e dice che non aveva guardato mai niente oltre il suo naso e ora vuole fare il
cosmologico.
Improvvisamente si volse a me, sempre restando eretto sul busto:— Guarda! Guarda! — mi disse con un
aspetto severo di ammonizione. Tornò subito a fissare il cielo e indi si volse di nuovo a me:— Hai visto?
Hai visto? Tentò di ritornare alle stelle, ma non potè: si abbandonò esausto sullo schienale della poltrona e
quando io gli domandai che cosa avesse voluto mostrarmi, egli non m’intese nè ricordò di aver visto e di
aver voluto ch’io vedessi. La parola che aveva tanto cercata per consegnarmela, gli era sfuggita per sempre.
La notte fu lunga ma, debbo confessarlo, non specialmente affaticante per me e per l’infermiere. Lasciavamo
fare all’ammalato quello che voleva, ed egli camminava per la stanza nel suo strano costume, inconsapevole
del tutto di attendere la morte. Una volta tentò di uscire sul corridoio ove faceva tanto freddo. Io glielo
impedii ed egli m’obbedì subito.

Vediamo come il movimento che c'è in questi versi procederanno per tutto il romanzo, resta l'urto con la vita
che farà dire a Svevo che l'unica vita vera è quella letteraturizzata.

Fu allora che avvenne la scena terribile che non dimenticherò mai e che gettò lontano lontano la sua ombra,
che offuscò ogni mio coraggio, ogni mia gioia. Per dimenticare il dolore, fu d’uopo2 che ogni mio
sentimento fosse affievolito dagli anni. L’infermiere mi disse: – Come sarebbe bene se riuscissimo di tenerlo
a letto. Il dottore vi dà tanta importanza! Fino a quel momento io ero rimasto adagiato sul sofà. Mi levai e
andai al letto ove, in quel momento, ansante più che mai, l’ammalato s’era coricato. Ero deciso: avrei
costretto mio padre di restare almeno per mezz’ora nel riposo voluto dal medico. Non era questo il mio
dovere? Subito mio padre tentò di ribaltarsi verso la sponda del letto per sottrarsi alla mia pressione e
levarsi. Con mano vigorosa poggiata sulla sua spalla, gliel’impedii mentre a voce alta e imperiosa gli
comandavo di non muoversi. Per un istante, terrorizzato, egli obbedì. Poi esclamò: – Muoio! E si rizzò. A
mia volta, subito spaventato dal suo grido, rallentai la pressione della mia mano. Perciò egli poté sedere sulla
sponda del letto proprio di faccia a me. Io penso che allora la sua ira fu aumentata al trovarsi – sebbene per
un momento solo – impedito nei movimenti e gli parve certo ch’io gli togliessi anche l’aria di cui aveva
tanto bisogno, come gli toglievo la luce stando in piedi contro di lui seduto. Con un sforzo supremo arrivò a
mettersi in piedi, alzò la mano alto alto, come se avesse saputo ch’egli non poteva comunicarle altra forza
che quella del suo peso e la lasciò cadere sulla mia guancia. Poi scivolò sul letto e di là sul pavimento.
Morto! Non lo sapevo morto, ma mi si contrasse il cuore dal dolore della punizione ch’egli, moribondo,
aveva voluto darmi. Con l’aiuto di Carlo lo sollevai e lo riposi in letto. Piangendo, proprio come un bambino
punito, gli gridai nell’orecchio: – Non è colpa mia! Fu quel maledetto dottore che voleva obbligarti di star
sdraiato! Era una bugia. Poi, ancora come un bambino, aggiunsi la promessa di non farlo più: – Ti lascerò
muovere come vorrai. L’infermiere disse: – È morto. Dovettero allontanarmi a viva forza da quella stanza.
Egli era morto ed io non potevo più provargli la mia innocenza! Nella solitudine tentai di riavermi.
Ragionavo: era escluso che mio padre, ch’era sempre fuori di sensi, avesse potuto risolvere di punirmi e di
dirigere la sua mano con tanta esattezza da colpire la mia guancia. Come sarebbe stato possibile di avere la
certezza che il mio ragionamento era giusto? Pensai persino di dirigermi a Coprosich. Egli, quale medico,
avrebbe potuto dirmi qualche cosa sulle capacità di risolvere e agire di un moribondo. Potevo anche essere
stato vittima di un atto provocato da un tentativo di facilitarsi la respirazione! Ma col dottore Coprosich non
parlai. Era impossibile di andare a rivelare a lui come mio padre si fosse congedato da me. A lui, che
m’aveva già accusato di aver mancato di affetto per mio padre4 ! Fu un ulteriore grave colpo per me quando
sentii che Carlo, l’infermiere, in cucina, di sera, raccontava a Maria: – Il padre alzò alto alto la mano e con
l’ultimo suo atto picchiò il figliuolo. – Egli lo sapeva e perciò Coprosich l’avrebbe risaputo. Quando mi
recai nella stanza mortuaria, trovai che avevano vestito il cadavere. L’infermiere doveva anche avergli
ravviata la bella, bianca chioma. La morte aveva già irrigidito quel corpo che giaceva superbo e minaccioso.
Le sue mani grandi, potenti, ben formate, erano livide, ma giacevano con tanta naturalezza che parevano
pronte ad afferrare e punire. Non volli, non seppi più rivederlo. Poi, al funerale, riuscii a ricordare mio padre
debole e buono come l’avevo sempre conosciuto dopo la mia infanzia e mi convinsi che quello schiaffo che
m’era stato inflitto da lui moribondo, non era stato da lui voluto. Divenni buono, buono e il ricordo di mio
padre s’accompagnò a me, divenendo sempre più dolce. Fu come un sogno delizioso: eravamo ormai
perfettamente d’accordo, io divenuto il più debole e lui il più forte. Ritornai e per molto tempo rimasi nella
religione della mia infanzia. Immaginavo che mio padre mi sentisse e potessi dirgli che la colpa non era stata
mia, ma del dottore. La bugia non aveva importanza perché egli oramai intendeva tutto ed io pure. E per
parecchio tempo i colloqui con mio padre continuarono dolci e celati come un amore illecito, perché io
dinanzi a tutti continuai a ridere di ogni pratica religiosa, mentre è vero – e qui voglio confessarlo – che io a
qualcuno giornalmente e ferventemente raccomandai l’anima di mio padre. È proprio la religione vera quella
che non occorre professare ad alta voce per averne il conforto di cui qualche volta – raramente – non si può
fare a meno.

Il dottore aveva dato il comando che il padre doveva stare a letto, qui si invertono i rapporti tra padre e
figlio, il padre infatti voleva alzarsi ma Zeno lo costringe con la forza a stendersi. qui i rapporti padre-figlio
vediamo che si invertono solamente perchè il padre in quanto morente era meno forte rispetto al figlio,
nonostante ciò però il padre ubbidì al figlio e esclamò di star morendo.
Siamo qui in concomitanza del gesto finale del padre che alza la mano e la lascia cadere sulla guancia del
figlio, poi scivola sul letto e muore. Questo gesto per tutta la vita Zeno lo percepì come uno schiaffo,
l'ultimo gesto paterno è uno schiaffo. Nell'unico momento in cui il figlio doveva essere più forte del padre, il
padre si solleva e con la mano alta gli da uno schiaffo, dunque neanche nel momento in cui il padre sta
morendo il figlio riesce ad essere più forte di lui. Voleva anche giustificarsi nei confronti del padre, ma
nonostante tutto il padre muore prima e lui non riesce a farlo dunque vivrà per sempre con il suo senso di
colpa. Il padre muore, le persone dunque calmano Zeno e lo portano a vedere il padre nella camera
mortuaria. Lui nota le mani del padre che erano ben potenti e formate, ma che erano livide e parevano pronte
ad afferrare. Zeno da lì non volle più rivederlo. Incomincia con le mani del padre gigantesche perchè la
mano è la parte più nuda del corpo dopo il volto ed è anche la prima cosa che vede chi impugna la penna e
decide di continuare scribacchiare, la mano aggrappata alla penna è il più bello di tutta la coscienza di Zeno.
E' l'unico spazio nuovo della letteratura dove Zeno poteva crescere oltre il gran corpo minaccioso del padre.

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