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© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano

Prima edizione nella collana “I Narratori” aprile 2012

ISBN edizione cartacea: 9788807019036


Il torto del soldato
A Paola
retrovia di questa storia
Introduzione

“Come certo saprà, i diritti editoriali dello scrittore Israel Yehoshua Singer, fratello
maggiore del premio Nobel Isaac Bashevis Singer, scadranno nel 2014. La nostra
casa editrice intende avviare una pubblicazione selezionata delle opere in yiddish
di questo autore sconosciuto ai lettori italiani. Vorremmo pertanto affidarle l’incarico
di scegliere nella vasta produzione di racconti quelli a suo giudizio più interessanti.
Le affideremmo la traduzione e la cura delle opere scelte. Sappiamo che lei è un
lettore appassionato di letteratura yiddish. Siamo al corrente della sua traduzione
dell’ultimo capitolo del romanzo Di Familie Mushkat, di Isaac Bashevis Singer. Se
volesse accettare la nostra proposta le invieremo le fotocopie in yiddish dei racconti
di Israel Yehoshua Singer...”
Poche persone potrebbero ricevere questa lettera, tra queste io. Ho imparato la
lingua yiddish, parlata da undici milioni di ebrei dell’Europa orientale e ammutolita
dalla loro distruzione. Ha un impianto grammaticale tedesco, è scritta in caratteri
ebraici, si legge da destra a sinistra.
Mi procurai una grammatica e un paio di vocabolari in inglese. Delle lingue che ho
avvicinato è quella che ho imparato a leggere più in fretta. E mi sono trovato a
sfogliare una letteratura quasi sconosciuta, pochissimo tradotta.
Lo yiddish assomiglia al mio napoletano, entrambe lingue di molta folla in spazi
stretti. Sono perciò veloci, di parole tronche, adatte a farsi largo tra le grida. Hanno
la stessa quantità di mendicanti e di superstizioni. Sono competenti in miserie,
emigrazioni e teatri. Usano proverbi simili e irridenti: “È buono impararsi barbiere
sulla faccia degli altri”.
Del progresso dicono: “Pure un calcio nel sedere è un passo avanti”.
Ho tradotto l’ultimo capitolo del romanzo Di Familie Mushkat (sì, con la u) perché
non c’è nell’edizione in italiano. Fu pubblicato in yiddish a puntate sul giornale
“Vorwerts”, a New York. Ho tradotto l’ultimo capitolo che esiste solo nell’edizione in
originale. All’epoca, negli anni cinquanta, su richiesta degli editori esteri l’autore
scelse di alleggerire l’edizione ufficiale in inglese, da lui controllata. La famiglia
Moshkat ha così due finali, uno per il lettore in yiddish e uno per tutti gli altri. È
interessante che siano opposti. Li riassumo: è il settembre del 1939, a Varsavia. Da
pochi giorni è iniziata la Seconda guerra mondiale con l’invasione tedesca della
Polonia. L’esercito nazista non è ancora entrato in città e bombarda con l’aviazione
specialmente i quartieri abitati da ebrei. Il protagonista incontra per le vie deserte
un conoscente, un anziano signore che si aggira sgomento in cerca inutilmente di
un medico per sua moglie. Nel breve colloquio l’anziano dice per congedo: “Presto
verrà il messia”. Alla domanda meravigliata di che cosa intenda, risponde: “La
morte è il messia. Questa è la verità pura”.
Termina così il romanzo nell’edizione inglese. Il messia, capolinea della storia del
mondo per ebrei e cristiani, qui è semplicemente la morte, senza riscatto e senza
redenzione. È il più spietato finale dei libri che ho letto. La bestemmia suona ancora
più forte perché messa in bocca a un uomo mite.
Nell’edizione originale in yiddish c’è un altro lungo capitolo dedicato allo
svolgimento del Capodanno ebraico in Varsavia, sotto i bombardamenti. La festa si
celebra appunto in settembre. Il rito viene rispettato con maggiore scrupolo e
fervore dalla comunità assediata. Al termine di questa parte il capitolo si conclude
con un gruppo di giovani ebrei che marciano nei boschi verso est, diretti in Russia,
in fuga da Varsavia. L’autore nelle ultime righe interviene direttamente e scrive
rivolgendosi a loro: “Dalla vostra parte sta la vittoria finale. Per voi verrà il messia”.
Per i lettori in yiddish esiste questo finale aperto, in fuga di speranza e profezia.
Aspetta ancora di essere conosciuto. Nell’altra versione Singer lascia apposta per i
lettori non ebrei un finale desolato. Di Familie Mushkat è opera scritta subito dopo
la guerra e la distruzione degli ebrei d’Europa, ai quali apparteneva. Singer volle
lasciare in bocca alle lingue del mondo il sale amaro della versione corta.
Queste notizie servono di premessa e spiegano perché un’estate recente, in
montagna per le mie scalate, avevo con me un bel pacco di fotocopie stampate coi
caratteri ebraici dello yiddish. Avevo accettato la proposta dell’editore e stavo a
buon punto. Tra quelle carte avevo già scelto un racconto perfetto, una storia
ambientata tra il 1919 e il 1920. Si leggono le disavventure ferroviarie di un giovane
ebreo polacco in mezzo alla Rivoluzione russa. Possono stare a fianco della più
riuscita opera letteraria ambientata in quegli anni della rivoluzione: L’armata a
cavallo di Isaac Babel’. Lo scrittore ebreo di Odessa partecipò con altro nome alle
battaglie dei cosacchi schierati con i bolscevichi. Scrisse di quella esperienza le
migliori pagine che conosco del 1900 russo.
Uno che passa il suo giorno a frugare rocce a quattro zampe ha un mucchio di
tempo per contarsi storie. Fa bene a sera mettersi a sedere e farsene raccontare
da qualche libro di buona fattura. Mi tengo compagnia con la scrittura che faccio,
ma spalanco gli occhi e ritorno a una stanza di Montedidio, quando mi metto a
leggere.
Isaac Babel’ mi rimette puntualmente su una vecchia poltrona verde, con le molle
sconnesse. Mi ci rannicchio in mezzo e con gli occhi vado dietro al pifferaio. Lo
hanno fucilato a Mosca il 27 gennaio del 1940, senza luogo di sepoltura. Aveva
quarantacinque anni, quello che ha scritto a me basta per stimarlo il migliore tra i
russi del 1900. Non sento la mancanza di quello che non ha potuto scrivere. Mi
pesa invece la disperazione di un uomo che aveva un pozzo d’inchiostro da
intingere e gli fu sigillato con un pezzo di piombo nel cervello.
Non vado sulle tombe degli scrittori amati, ma batto il pugno sul tavolo del mio
secolo che ha tolto a un passante una sosta davanti alla pietra di Isaac Babel’.
La sera, dopo la scalata e la doccia, vado in una locanda a rimettere energie,
tenendomi compagnia coi fogli di un altro alfabeto.
L’yiddish è stato il mio puntiglio. Ho voluto impararlo dopo il ritorno dalle
celebrazioni per i cinquant’anni dell’insurrezione del ghetto di Varsavia: aprile 1943,
aprile 1993. A quarantatré anni presi ferie dal lavoro del cantiere e andai a
Varsavia.
Dalle letture fatte da ragazzo e rimaste inculcate in qualche mappa sottopelle,
conoscevo la planimetria del ghetto in cui i tedeschi ammassarono più di
quattrocentomila vite. Wohnung bezirk, “distretto abitativo”, chiamavano così il
recinto di corpi messi al macero. Chiamavano Aussiedlung, “trasferimento”, l’invio
nei treni blindati ai campi di annientamento. Spacciavano vocabolario falso a
copertura. I poteri lo fanno e spetta agli scrittori restituire il nome delle cose.
Dell’infanzia ricordo libri e nessun giocattolo. C’erano di sicuro, ma si sono persi.
Soldatini, trenini, bestie, case: i giochi sono miniature del mondo, utili a un bambino
per sentirsi gigante. Aiutano a crescere sopportando l’inferiorità.
Ho giocato poco, preferendo leggere. Dentro i libri non era possibile immaginarsi
grandi. Le storie erano immense, la mia lettura piccola in confronto. Molte cose
neanche le capivo. I libri mi ribadivano la mia taglia minuscola. Ma qualcosa
all’interno s’ingrandiva. Il medico diceva ch’era il fegato, che allora si curava con
l’olio di merluzzo.
A me sembrava invece che aumentasse la capacità d’aria dei polmoni. La lettura di
Stevenson mi ha gonfiato di aria di oceano. La poesia napoletana mi scioglieva la
lingua. London mi ha insegnato la neve. Le storie delle stragi della guerra mi
facevano rimbombare la vena della fronte.
Nella mia prima età di coscienza indipendente, stabilii per mio eroe Marek
Edelman, uno dei comandanti dell’insurrezione. Prima ancora di conoscere il nome
Che Guevara, ho saputo di lui. Dopo la guerra Edelman è diventato medico di
cardiologia. Ha voluto salvare più cuori che poteva. Lui è il mio eroe perfetto.
Guevara, nobile altrettanto, ha fatto il viaggio opposto, da medico a combattente di
rivoluzione.
Da Varsavia non riuscii a raggiungere Treblinka, dove finivano i convogli caricati
nella piazza di raccolta del ghetto, la Umschlagplatz. Entrai invece in Auschwitz
(Oshviescim in yiddish) e in Birkenau/Brzezinska, il più vasto luogo di sterminio.
Entrai dalla grande porta che si apriva ai treni. Girai nelle baracche aperte in cui
restava l’umido di terra e di terrore. Mi sedetti su una delle panche di legno che a
castello ospitavano i corpi sfiniti da lavoro e fame. Chiusi gli occhi, mi addormentai
per un minuto, perché non so pregare.
Era uno dei posti del 1900 in cui l’irreparabile era stato immenso. Nessuna giustizia
successiva, nessuna sconfitta dei responsabili poteva pareggiare la dannazione
consumata. Esiste un margine del crimine oltre il quale la giustizia è meno di carta
igienica.
Non ricordo la presenza di altri visitatori. Se c’erano li evitai. La pianura dell’Alta
Slesia era immobile, l’aria smossa appena da farfalle nere. Era una terra
sordomuta. Camminavo passando dal reticolato degli zingari a quello delle donne,
racimolando in testa le storie individuali che avevo letto e lì trovavano l’esatta
coincidenza.
“Dài la bambina a mamma!” La frase gridata da un’ebrea ungherese nell’estate del
’44 aveva salvato sua sorella che, scesa dal convoglio blindato, si avviava alla
selezione in fondo al binario con la figlia in braccio. La sorella, rinchiusa da mesi
nella sezione donne da dove si vedevano arrivare i vagoni, sapeva che a testa di
treno gli anziani e i bambini andavano subito nella fila diretta ai cameroni del gas.
Nel silenzio spezzato da ordini e latrati di cani, la voce della donna raggiunse la
sorella che obbedì meccanicamente. Consegnò la bambina alla madre e così
superò la selezione, lei sola. Sopravvissero, lei e sua sorella. Non conosco un grido
più spietato e santo.
Scesi i gradini larghi che portavano ai cameroni delle finte docce, fatti esplodere
insieme ai forni crematori dai tedeschi in ritirata. Poterli risalire: mi prese la vertigine
e dovetti sedermi a metà delle scale. Sui tondini di ferro sporgenti dal calcestruzzo
esploso, i posteri venuti in visita avevano lasciato bigliettini. Restai fino all’orario di
chiusura.
Prima di uscire compii un furto sacrilego. Tra i binari dismessi che finivano dentro il
campo, mi chinai e raccolsi il bullone di una traversina, storto e ribattuto. Ora sta
sul tavolo davanti alla finestra che si affaccia sull’ombra degli alberi piantati da me
negli anni. Li pianto perché uno che fa lo scrittore deve restituire al mondo un po’
del legno abbattuto per stampare i suoi libri.
Quel bullone ripete la forma di una lettera ebraica, la iod, iniziale del nome
impronunciabile della divinità. La prima lettera del tetragramma che alcuni leggono
iahwè altri iehova, ma che in ebraico vuole restare indicibile, ha trovato per me del
1900 la forma di un bullone conficcato in una traversina di Birkenau/Brzezinska,
estratto e abbandonato all’usura della ruggine. Gliel’ho tolta.
In ebraico non esistono maiuscole, neanche per il nome sacro del tetragramma,
ripetuto seimilaseicentotrentanove volte nell’Antico Testamento. La sua maiuscola
segreta sta nella proibizione di pronunciarlo. Il tetragramma si può scrivere ma non
dire, la bocca non è degna. Quel nome della divinità deve restare dentro
l’imballaggio del silenzio.
Nudi: nei cameroni dell’asfissia o davanti alle fosse comuni prima di essere fucilati,
dovevano spogliarsi.
Esiste da noi il ridicolo reato di oltraggio al pudore. Ma lì, contro quei corpi senza
difesa e nudi, l’oltraggio al loro pudore mi metteva in faccia il rosso di uno schiaffo.
Mio padre non l’ho mai visto nudo.
A Varsavia camminai nel ghetto. Dopo l’insurrezione i tedeschi lo smantellarono
fino al grado zero, spianandolo a campo di macerie. I polacchi dopo la guerra
ricostruirono meticolosamente il quartiere secondo la stessa planimetria. Hanno
ribadito i nomi delle piazze, delle strade, però senza ebrei. Non ne abitavano più
sulla via Zamenhof, il creatore della lingua esperanto, da dove entrarono i carri
armati tedeschi il giorno di aprile della Pasqua ebraica del ’43 per schiacciare la
resistenza. Ricevettero risposta armata. “Die juden haben waffen”, gli ebrei hanno
armi. “Die juden schissen”, gli ebrei sparano. Lo sapevano dal gennaio, quando
furono attaccati e respinti. Da quel giorno fino all’aprile non osarono entrare nel
ghetto.
Quelli che fecero la rivolta erano un resto di assortiti dalla selezione del caso. Non
tutti erano giovani, non tutti avevano buttato alle ortiche l’antica fiducia nella divinità
del Sinai. Nel ghetto non crescevano ortiche, non facevano in tempo, per la fame si
cuoceva qualunque erba spuntasse.
Uno degli ultimi rabbi rimasti fornì piena licenza alla rivolta armata. In una riunione
clandestina, il 14 gennaio 1943, disse: “In passato nelle persecuzioni religiose ci fu
chiesto dalla Halakhà (legge) di rinunciare alla vita in nome dell’osservanza anche
della più piccola prescrizione. Nel presente, di fronte al più grande nemico, senza
limiti e senza precedenti nel suo programma di totale annientamento, la Halakhà
richiede che noi si combatta e si resista fino all’ultimo con determinazione senza
pari a nessun’altra e con valore per la santificazione del Nome Divino”. Si chiamava
Menahem Zemba e aveva sessant’anni.
In quei giorni l’ambiente cattolico di Varsavia offrì una via di salvezza agli ultimi tre
rabbi del ghetto. Menahem Zemba rifiutò e decretò illecita la fuga. Affrontò il
martirio, che alla lettera è testimonianza. Si tolse dal numero delle vittime e salì il
gradino superiore del testimone che si alza in piedi e va da volontario a prestare
giuramento alla sbarra. Non sugli eroi ma sui testimoni si fonda l’onore di un
popolo.
Forse non c’entra questo dettaglio dentro il resoconto di uno che fa lo scrittore e
perciò si permette qualche licenza in margine agli avvenimenti. Lo aggiungo qui
perché senza il nome di Menahem Zemba l’insurrezione del ghetto di Varsavia non
può reclamare il diritto di fare, insieme alla propria, anche la tutt’altra volontà.
Gli insorti del ghetto di Varsavia spararono per un mese prima di essere vinti.
Mi aggiravo per le vie del ghetto, rifatto tale e quale e senza ebrei. Passai per via
Mila dove si svolse il kesl, il calderone, nei giorni di settembre del ’42, con le
migliaia di rastrellati passati per setaccio.
Passai per via Krochmalna, dove abitavano i Singer, e per via Sliska, dove c’era
l’orfanotrofio diretto da Janus Kortzhak, che s’incamminò coi suoi centonovantadue
bambini allineati verso i vagoni aperti della Umschlagplatz.
Se riferiti a persone, i numeri vanno scritti per me in lettere. Le cifre vanno bene per
ogni contabilità, tranne che per le vite umane. Per loro ci vogliono le lettere:
centonovantadue bambini. Con quella schiera disciplinata e muta Kortzhak entrò
nudo nei tre recinti concentrici del campo di Treblinka fino agli stanzoni dell’asfissia.
L’yiddish è stato il mio puntiglio d’ira e di risposta. Non è morta una lingua se anche
uno solo al mondo la muove tra il palato e i denti, la legge, la borbotta,
l’accompagna su uno strumento a corda.
Ho tradotto dall’yiddish Il canto del popolo ebreo messo a morte, di Itzak
Katzenelson. Fu scritto e nascosto tra le radici di un albero nel campo di
concentramento di Vittel, nome famoso in Francia per la sua acqua imbottigliata.
Katzenelson versò il suo Canto, nel vetro di quelle bottiglie, più di ottocento versi.
Si trovava a Vittel perché i combattenti del ghetto di Varsavia lo avevano fatto
uscire con dei documenti falsi che durarono poco. In Francia fu arrestato di nuovo.
Gli insorti del ghetto cercavano di mettere in salvo i poeti, gli scrittori. Così fanno gli
alberi circondati dalle fiamme: scaraventano lontano i loro semi. I poeti, gli scrittori
erano i semi della loro pianta e avrebbero innalzato a canto la testimonianza.
Al processo di Norimberga contro i dirigenti nazisti per crimini di guerra, si alzò la
voce e la deposizione di un poeta ebreo di Vilna, Avram Sutzkever, combattente
nella resistenza. Scrisse i suoi versi in yiddish, testimoniò in russo. Nell’aula di
Norimberga non fu pronunciata una sillaba in yiddish.
Dopo la guerra una donna, una ex prigioniera, scava e recupera nel campo di Vittel
i versi imbottigliati da Katzenelson. Anche ai libri capitano vite perseguitate, in
prigionia, in clandestinità.
Ho tradotto quei versi perché sono il vertice letterario sulla distruzione degli ebrei
d’Europa.
A luglio mi trasferisco nelle Dolomiti. Scalo montagne, dico sì e no una manciata di
buongiorno, scrivo se ho di che. Resta per me festiva la scrittura, non obbligatoria.
Il corpo se ne va sulle pareti spostando i quattro punti di contatto e passa sulla
pagina aperta della roccia. La chiamo così perché sta a perta e vuota, ma il corpo
non ci scrive sopra, né lascia traccia sulla superficie attraversata.
Scalare è il più lento spostamento del corpo umano. Il peso su ogni appiglio è
sillaba pensata, guadagnando centimetri.
La buccia della pietra cambia secondo il vento, la temperatura. Cambia quando la
nuvola s’accovaccia sopra la montagna e si sbriciola in un pulviscolo di gocce.
Cambia al rumore del tuono che avvisa da lontano e si avvicina.
Ripeto a volte linee già scalate, le ricalco sapendo dov’è più agile il passaggio,
dove è più serrata la sequenza di movimenti. Le mani aprono il percorso,
assaggiano la tenuta dell’appiglio, chiamano il corpo a seguirlo.
Alla fine di un giorno in parete mi guardo le mani che mi hanno guidato. Penso che
sono sorde, mute, cieche eppure vanno innanzi. A loro basta il tatto, il più diffuso
sistema di comunicazione del corpo.
Alla base di una parete che viene giù a piombo, non si vede dove finisce. Lo
sguardo è sbarrato verso l’alto da sporgenze.
Alla base di una parete dritta a piombo non mi succede lo sgomento di quando,
ragazzino, mi trovai sulla barca da pesca alla base delle pareti cupe del grande
transatlantico. S’infilò gigantesco nel canale tra le isole di Procida e Ischia dove con
altre barche si stava all’ancora con le lenze innescate, nella prima luce del giorno.
Lo vedemmo spuntare da dietro l’isolotto di Vivara e subito cominciò la corsa a
tirare su ancore e lenze per potersi mettere di prua in vista delle ondate. Potevano
rovesciarci. A quel tempo i pescatori non sapevano nuotare. Nella concitazione del
da farsi, guardai tardi la nave, la prua che s’innalzava al cielo, colossale e nera, a
spartire le acque come fa l’aratro con lo scasso profondo. La sua profondità
sommersa spostava una montagna d’acqua.
Passò a cinquanta metri circa e ci trovammo sotto le sue murate dritte a piombo. Lì,
e non alla base di una parete di montagna, mi prese lo sgomento dell’inferiorità.
Sotto una roccia che si solleva dritta a perdita di occhio so che posso salirla, a
lentezza di mollusco. Sotto la grande nave che rompeva il mare, ero una formica a
galleggio su una paglia.
Vennero le ondate a file serrate, alla carica. Le barchette s’impennarono di prua, in
verticale, ricaddero con la poppa in su, salto su salto. Fu un rodeo di uomini che
cercavano di non farsi disarcionare dalla barca diventata cavallo scalmanato.
Dall’alto degli spalti del transatlantico qualcuno salutava per deridere.
Per mia fissazione vedo scrittura intorno. Riconosco lettere di alfabeti nelle radici
delle conifere che sporgono dal suolo e ormeggiano l’albero nel pugno della terra.
La specie umana sapeva riconoscerle. Oggi imparo grammatiche, alfabeti, ma
attraverso il bosco senza saperlo leggere.
Sulle facce delle persone invece non vedo scrittura. Ammiro chi la scorge nell’iride,
nell’unghia, dentro il palmo. Mi distraggo fissando la svariata baraonda delle
fattezze del mio genere umano. Mi capita di guardare una faccia intensamente, la
vedo reagire con fastidio. Si accorge che non la so leggere, che la osservo
angolando un poco il collo come fanno i cani.
Non sono fisionomista, vado male con le rassomiglianze. Diverso mi succede coi
sassi: mi ricordano in miniatura le montagne. L’ultimo trovato ha la sagoma del
Cervino, vedo la via che porta in cima dal versante italiano, riconosco la parete
nord, la pista solitaria che percorse Bonatti. Credo di essere un fisionomista di
montagne.
Una sera di luglio entrai nella locanda all’ora che si vede l’ultimo sole sbattere sulla
parete ovest della Cima Scotoni. C’era clientela scarsa, la padrona mi riconobbe.
A un tavolo d’angolo tra due finestre sedeva una donna sulla quarantina. Era
accogliente per un arco di schiena che spingeva innanzi il suo corpo verso il tavolo.
Sulla faccia s’era strofinato felicemente il vento. Un po’di rughe minime ai lati degli
occhi ne indicavano i punti di passaggio. Le labbra erano un poco aperte per
assaggiare l’aria. Mi guardò e le partì un sorriso, un colpo di corrente che apre una
finestra. Non sono abituato alla cortesia di una persona sconosciuta, risposi con un
po’ di labbra stese, a bocca chiusa.
Se fossi un giostraio e lei una bambina salita per un giro sopra un cavallo a
dondolo, gliene offrirei uno gratis per il suo sorriso. Ci stava questa formula
improvvisa a commento del mio magro sorriso di ritorno.
Tra i due tavoli andai a quello accanto al suo per un motivo diverso da quello ovvio.
Non volevo offenderla scegliendo l’altro. Mi sedetti, posai sulla tovaglia di carta le
fotocopie dei racconti in yiddish, indicai le pietanze che avevo letto su una lavagna
alla donna che mi apparecchiava il posto. “La solita birra?” chiese e accennai sì
con la testa. Dopo un giorno di silenzio la voce resta volentieri dietro il sipario.
Cominciai a leggere i caratteri di quell’alfabeto che non lascia in pace le mie labbra.
Mentre lo leggo devo pure accennare le sue sillabe in bocca. L’yiddish è stato
rinchiuso, soffocato: ha bisogno di aria. Le sue lettere si rianimano sotto gli occhi e
vogliono sgranchirsi sulle labbra. Vogliono libertà. Le associo a un’abitudine di mio
padre e mia madre. La domenica a Napoli andavano al mercato con il loro nipotino.
Tra le merci esposte c’erano anche dei passeri in gabbia. Loro ne compravano uno
in un foglio di giornale e a casa sul terrazzo lo liberavano. Il nipotino presiedeva e
applaudiva: “a libbità”. L’yiddish esce dalle mie labbra a frullo d’ali di quel passero
riaffidato all’aria.
La donna al tavolo vicino ricevette due birre. Meglio così, pensai, il suo era un
sorriso senza conseguenze. Fu raggiunta da un uomo alto, anziano, circa il doppio
dei suoi anni. Alzai gli occhi dal foglio per curiosità. Non ho una faccia accogliente,
mi capita di mostrare una tensione fissa, rimasta lì, scordata dopo qualche pensiero
spaesato. L’uomo mi guardò al volo e si distolse brusco. Bevvero dalle loro birre, lei
lo aveva aspettato. Parlavano tedesco, accento austriaco, erano padre e figlia.
Arrivarono le due frittelle che avevo chiesto, imbottite a ricotta e spinaci, in ladino si
chiamano turtles.
L’odore mi svegliò il naso, mio santo protettore dei ricordi. Le pizzelle fritte di
mamma, le chiamava in dialetto “pasta crisciuta”. Friggeva per l’ospite in arrivo
mozzarella in carrozza, baccalà, fiori di zucchine: era infallibile.
Un agosto di molti anni fa, c’eravamo ancora tutti e in affitto dentro un paio di
stanze nel Tirolo, riuscì a trovare melanzane pure lì, per una parmigiana alpina.
Non ho provato a ripetere le sue fritture. Mancano alla mia tavola perché non va
disturbato il naso che le ha impresse a spugna dentro le mucose in festa. Si
dovevano mangiare bollenti e con le dita.
Cominciai a mordere la prima frittella tenendola tra pollice e medio, mentre reggevo
il foglio con l’altra mano.
Leggevo i fogli e incontrai di nuovo la parola ebraica èmet, “verità”, con la quale
Singer conclude la versione corta e amara di Di Familie Mushkat. “La morte è il
messia, questa è la pura verità.”
Personalmente non riconosco niente di puro nella verità. La vedo nel crollo di una
negazione, nell’entrata delle truppe sovietiche nel campo di strage di Treblinka.
Non è una scoperta, ma la scoperchiatura dell’infamia. La vedo nella
decomposizione di una menzogna, fertile per questo. La vedo nella muffa che
insegnò la penicillina a Fleming.
In ebraico èmet è femminile, ma in yiddish diventa maschile, perdendo in
consistenza. In ebraico è assoluta, in yiddish è relativa. Perciò l’anziano che
pronuncia la battuta, dice: “pura verità”. La deve rafforzare con un aggettivo. In
ebraico sta da sola e basta. Esistono parole che esigono il femminile, verità è una
di queste.
Dietro a questa specie di pensieri me ne resto imbambolato mentre ci almanacco
intorno. Èmet è la parola scritta sulla fronte del Golem, l’uomo di argilla che con
quella formula si trasforma in automa vivente. La leggenda ebraica di Praga ispirò
poi la figura di Frankenstein.
Assorto nella distrazione, la parola èmet mi salì alle labbra e uscì di bocca. Come
succede al sonno, arriva un suono che interrompe e sveglia. Mi ripresi,
ritrovandomi con la frittella ancora tra le dita e i fogli nella mano opposta.
All’altro tavolo iniziava una turbolenza.
Lui si era irrigidito, me ne accorsi senza bisogno di voltarmi. Possibile che non
gradissero la mia condotta al tavolo, ma quella era una locanda con tovaglie di
carta, non un ristorante per infiocchettati. Dopo qualche frase ancora più silenziata
la voce compressa dell’uomo chiese il conto: “Erzahlen”, pagare, e si alzò con lo
scatto di un’età passata.
La padrona si avvicinò al loro tavolo, lui era già in piedi. Estrasse brusco il denaro e
rovesciò sul tavolo il resto di birra nel boccale. All’urto mi girai, l’uomo mi guardò
fisso, pure la figlia imbarazzata per l’incidente. Ricambiai: e va bene, guardiamoci
un po’. Si alzò anche lei. Nel suo movimento in su mi accorsi che era snella, alta
anche lei e segreta.
Il mare di una baia sottovento è ancora mosso ma pure trattenuto, senza creste
bianche. Sta nella corrente ma dietro un riparo. È il mare che desidera il pescatore
dopo le ore della notte al largo, fiaccato dalle onde. La intravidi così mentre girava
a fianco del mio tavolo, l’ombra del suo passaggio sopra il foglio. Le andai dietro
con gli occhi fino all’uscita. Salirono su una bella macchina bianca, lui alla guida.
Partirono in direzione del passo di montagna, il motore spinto a pieno regime.
Sfogava sul pedale il disturbo che gli avevo provocato.
Finii la cena e un buon mucchio di fogli letti e di parole sottolineate da cercare nel
vocabolario.
Dopo tante lettere ebraiche, le vedo anche fuori dalle pagine. Al tavolo vicino
lasciato in fretta dai due sconosciuti, era rimasta sulla tovaglia di carta una macchia
a forma di alef. Non era un principio di alfabeto ma una lettera caduta, pensai prima
che la padrona accartocciasse tutto sparecchiando.
Pagai un prezzo modesto e uscii all’aperto dell’ultima luce.
Le montagne intorno si erano accostate. Il sole radente le perquisiva entrando nelle
linee verticali, scendendo alla loro altezza. Veniva voglia di trovarmi lassù dove
avveniva lo struscio tra le rocce e la luce. In quell’ora succede un’intimità fisica tra
la materia e l’aria. Il sole si spalma a burro, si strofina addosso.
Ci sono stato molte volte là sopra, sulla via di discesa da una scalata lunga. Però
pensavo ai passi affaticati, tenevo a bada il vuoto che lusinga e attira il corpo che
vuole scendere a valle. Sono stato di passaggio su quella superficie, sotto quell’ora
ultima di luce col pensiero di togliermi alla svelta.
Dal basso invece, da lontano, veniva voglia di trovarmi sdraiato su una cengia
lassù e fare parte del regno minerale. Feci una passeggiata per smaltire il desiderio
sballato di un’ora di sazietà.
I fogli con i caratteri ebraici, tenuti tra il gomito e le costole, facevano la giusta
supplenza del braccio di una donna che non c’era. Andavo accompagnato da loro,
mi davano il calore di un fianco. I piedi nei sandali gustavano il fresco, le mani
riposavano in tasca.
Pensavo al sorriso che mi aveva accolto. Non guardo le donne accompagnate. Lei,
l’avevo guardata. Mi ricordava un’attrice straniera che avevo ammirato da giovane.
Aveva un naso forte speziato di lentiggini, un organo del Sud.
Cercavo il suo nome tra i sassi del torrente in secca, che risalivo piano. I sandali
frusciavano sui ciottoli, suggerendo la lettera esse. Il suo nome doveva contenerne.
Più tardi in auto salii verso il passo. Meno di dieci chilometri e la strada era
bloccata. Automobili in fila a motore spento, persone scese e affacciate. Andai
pur’io a vedere: una carcassa bianca fumava in fondo alla scarpata. Non volli
sapere se era quella del tavolo vicino. Girai l’auto e andai per un’altra strada.
Il torto del soldato

Mi sono decisa a scrivere questa mia vicenda a beneficio di chi potrà capirla meglio
di me. Spero in un lettore che un giorno me la spieghi. Chi è parte di una storia, ci
sta impigliato dentro. Ha bisogno di una mano che da fuori gliela sbroglia.
Mi impegno a essere precisa, premessa necessaria a chi vuol farsi leggere. Non
chiedo la fiducia di essere creduta, mi è più utile essere seguita. So da lettrice che
quando resta sospesa la mia incredulità, quello è l’effetto migliore su di me di una
scrittura.
Scrivere per me è calzare scarpe con i tacchi a spillo. Vado piano, ondeggio e mi
stanco presto. So che m’interromperò spesso.
Per la gran parte della sua vita mio padre si è guardato le spalle. Pure quando non
c’erano più processi per crimini di guerra, ha continuato a muoversi da ricercato.
Dopo la sconfitta della Germania si fermò in Italia per due anni. Non mi ha
raccontato nessun dettaglio della sua vita di fuggitivo. Da parte mia ho escluso di
chiedere.
Passare da vincitore a vinto, da invasore a invaso, è stata l’esperienza della sua
generazione. Raccontava di rado particolari insignificanti che sostituivano, per me
che l’ascoltavo, tutto il resto della reticenza. Per esempio nel Gadertal (Val Badia)
era salito nel ’46 sulla prima seggiovia costruita in Italia. A Ischia nel ’47 aveva
assistito a una scazzottata tra un marinaio americano e un pescatore. A Napoli era
salito sul vulcano che fumava ancora.
S’imbarcò per l’Argentina e si stabilì nel Sud. Ha vissuto in Patagonia, al confine col
Cile, sotto le Ande basse che ripetevano paesaggi a lui familiari, case di pietra e
legno. Aveva un cane, un San Bernardo di nome Barry. Dopo di quello non ne ha
più voluti.
La cittadina, cresciuta lungo un lago, era giovane, meno di cinquant’anni, tedeschi
e italiani se la dividevano senza mischiarsi. Nel dopoguerra è stata il deposito dei
tedeschi sfuggiti alla disfatta, finché non è diventata per turisti, con le piste da sci.
L’America del Sud era distratta e accogliente. Laggiù la guerra e l’Europa erano
meno di un ronzio.
Dopo il rapimento di Eichmann, mio padre decise di rientrare in Europa. Nato a
Vienna, tornò lì con altro nome e altri lineamenti. Ci si nasconde meglio dalle
proprie parti, è risaputo.
Di quegli anni nel Sud restò nei suoi ricordi qualche frase per me incomprensibile: il
disgusto per il tramonto marcio di Buenos Aires, il sole in decomposizione che
infettava il cielo. Erano frasi da ospite ingrato. Ribatteva: “Non sono stato un ospite
del Sud, ma un soldato vinto e inseguito. Il mio torto è stato di essere sconfitto.
Questa è la pura verità”. Non gli rispondevo, neanche con un commento.
A Vienna conobbe mia madre, nacqui da loro nel ’67. Lei è più giovane di lui di
venti anni.
Per la durata dell’infanzia e dell’adolescenza mi hanno fatto credere che lui era mio
nonno e mio padre un poco di buono sparito senza traccia. Così voleva lui. Gli
serviva la copertura di una famiglia triste.
Quando di notte mi svegliavo sola, senza mamma, lei mi spiegava che era andata
a tenere compagnia al nonno che non riusciva a dormire. Neanch’io riuscivo, la sua
insonnia però aveva per mia madre la precedenza. Il sonno degli uomini valeva più
di quello delle donne. Mia madre gli sacrificava il suo, così diceva, perché lui era il
sostegno di famiglia.
Ho saputo poi che lui dormiva senza il minimo disturbo. Nel sonno si torna animali,
senza pensiero di passato, di coscienza e colpa.
Detestava la forfora e si spazzolava a lungo i capelli nel lavandino lasciandola
cadere a neve. Poi passava un pettine fitto finché non era soddisfatto del
rastrellamento. Faceva spesso il gesto con la mano di scuotersela dalle spalle. Il
cielo stellato era per lui un cranio nero ricoperto di forfora. Nelle notti d’estate ne
vedeva cadere i granelli a terra. Avrebbe voluto scuoterla e farla precipitare tutta.
Ho avuto un’educazione cattolica da mia madre. Ho frequentato il catechismo e ho
letto con gusto di curiosa le avventure della storia sacra, da Eva e Adamo in poi. Ho
amato il Cantico dove si dichiara l’amore terrestre senza mai nominare il cielo. Ho
letto con fastidio i capitoli furibondi dell’Apocalisse. Non mi spaventa Dio, per mia
insufficienza di immaginazione. Ci ho pensato bene e questa è la parola precisa.
Manco di quel formato dell’immaginazione che può mettere a fuoco l’infinito.
Dell’infanzia viennese ho ricordi metallici: le ruote di ferro del tram sui binari che mi
portavano a scuola, la campana della chiesa vicina al nostro appartamento, che
martellava il tempo.
A quell’epoca pensavo che le ore erano chiodi, alcuni facili da battere, altri invece
avevano bisogno di diversi colpi, fino a dodici. Abitavamo un ultimo piano, nella
buona stagione dalla finestra aperta entravano i fischi elettrici delle rondini. E poi
c’era la sveglia di mio padre che ci metteva un’ora intera per indossare bene la
divisa di postino, lustrata da berretto a scarpe.
Ha fatto il portalettere fino alla pensione. Abitavamo in un quartiere popolare ma
avevamo denaro. Non so da dove, mia madre era povera, orfana di guerra. Ho
goduto regolarmente di belle vacanze, d’estate a Ischia, d’inverno nel Tirolo del
Sud, tra le Dolomiti.
A Ischia da bambina imparai a nuotare da un ragazzo sordomuto, figlio di
pescatore. Mi insegnò a galleggiare. Mi teneva la mano sinistra sotto la testa, l’altra
sotto il dorso. Il contatto delle sue dita mi toglieva il peso. Imparavo a stare distesa
in sospensione.
Dicono: fare il morto, ma per me quello era sdraiarmi sopra il mare. Si deve
rinunciare a ogni movimento, anche il respiro deve alzare poco il petto. Imparai da
lui il nuoto a dorso che fa guardare il cielo in mezzo alle bracciate.
M’insegnò a mangiare i ricci crudi, quelli che hanno le punte rosso cupo. Li apriva
con un temperino tenendoli nel palmo della mano. Non capivo perché non si
pungesse. I ricci hanno all’interno una piccola riserva d’acqua dolce che mi
dissetava.
Dalla punta del temperino faceva colare sulle mie dita la polpa aranciata delle uova
del riccio. La inghiottivo strusciandola prima tra palato e lingua. Da vita a vita:
offerta da lui era un dono e non una rapina.
Aveva accettato il silenzio e non si sforzava di emettere un suono. Stava
perfettamente zitto, bocca chiusa pure nei sorrisi. Era un silenzio aperto, di chi
ascolta. Invece era ostile quello dei miei genitori quando mi volevano rimproverare.
Per castigo tacevano e m’imponevano lo stesso. Dal sordomuto imparavo il silenzio
opposto, dei sorrisi.
Mi piacevano le strillate delle madri del Sud ai loro figli, pure nelle collere avevano
una melodia. E i pianti dei bambini erano chiasso che voleva essere sentito. Da noi
la consegna del mutismo era una volontaria sordità.
Il ragazzo non rinunciava a dire e a ricevere: affidava lo scambio al tatto. Il suo
tocco discreto mi sfiorava e là dove scendeva apriva i pori e avveniva uno scambio
di corrente tra me e lui. Le sue dita erano lucciole nel buio, dove toccavano pure
illuminavano.
Per lui il vento era un sistema di comunicazione, si bagnava il corpo per sentirlo
meglio. È conosciuto il metodo di inumidirsi il dito per sentire da dove soffia, lui si
spruzzava il mare sulla pelle per raccogliere le notizie in corsa dentro l’aria.
Sull’isola ho saputo per la prima volta che il vento non viaggia come un fiume a
corrente continua, ma come il mare che si muove a onde. Il vento di quel Sud ha
respiri, singhiozzi, starnuti. Riempie le camicie, sbatte le lenzuola e mangia le
bandiere.
Al Sud offrono al vento i panni per fargli compagnia, le vele gli scroccano un
passaggio. Il ragazzo sordomuto ascoltava il vento con i pori.
Ischia era un posto per tedeschi, gli isolani lo parlavano con accento pesante,
calpestato. Mio padre diceva che il tedesco non poteva scendere più in basso di
così. Per me invece era buffo in bocca a loro, lo vedevo uscire dai loro denti
accompagnato da piccoli sputi di sforzo. Era da ascoltare a distanza.
In cambio del nuoto lo parlavo al ragazzo: mi guardava le labbra da dove uscivano
più consonanti che vocali. Era curioso della nostra lingua che apre poco la bocca.
Gli piaceva la w che esce increspando il labbro inferiore e striscia sotto gli incisivi.
Mi chiedeva l’alfabeto e quando arrivavo alla w sorrideva. Chiedo scusa per la
digressione.
Da qualche anno andiamo nel Tirolo del Sud anche in estate. Mio padre non
sopporta più i posti in cui si parla male o niente in tedesco.
A forza di guardarsi le spalle aveva occhi pure dietro la nuca. Annotava le targhe
delle automobili del vicinato. Fotografava il passaggio degli estranei. A casa ci sono
cassetti di taccuini fitti di numeri e date, oltre a un archivio di passanti.
Mia madre ci lasciò, stanca di non avere un pubblico marito e di una finzione senza
fine. In quella occasione venni a sapere di mio padre. Accadde in un giorno, in
poche ore. Tornai dall’università, mia madre aveva due valigie nell’ingresso. Mi
spiegò la nostra vita in mezz’ora. Un altro uomo l’aspettava al portone. Seppi che
aveva anche un altro cognome e se lo riprendeva.
Accolsi il precipizio di notizie con la calma improvvisa che succede con l’inevitabile.
Mi lasciò il suo indirizzo, potevo raggiungerla quando volevo. Dissi di no subito e
non l’ho più vista, né ricevuto notizie.
In un solo giorno trovavo un padre e perdevo mia madre. Non avevano chiesto il
mio parere. Chiudevano la loro recita dopo vent’anni di repliche, come una
compagnia teatrale. Era l’irreparabile per il quale erano pronti da tempo. Dovevo
esserlo subito.
Portai giù le sue valigie, risalii in casa e seppi chi ero: la figlia di un criminale di
guerra. Questo mi spettava di essere. Potevo disertare, lasciare alla sua malora
l’uomo che credevo un nonno. Non l’ho fatto. Volevo sapere da lui, ascoltare la sua
conferma e pronunciare per la prima volta il nome papà. Mi stava goffo in bocca e
mi allenai a dirlo prima del suo arrivo.
Venne dopo il lavoro, vide la stanza vuota e non si tolse la divisa di postino. Ci sono
uomini che hanno bisogno dell’uniforme addosso più dell’alcol in corpo. Lo
aspettavo a sedere in cucina. Dissi: “Papà?”. Rispose: “Sì”. Venne a sedersi di
fronte e ci guardammo. “Confermo quello che ha detto tua madre.”
Aspettò da me una reazione. Non ne avevo. Restammo seduti di fronte finché iniziò
a imbrunire. Gli fissavo la faccia senza scendere giù fino alle mani. Le mani di mio
padre: non le ho più toccate da quella sera.
Restammo di fronte: un postino in divisa e una figlia di venti anni che per la prima
volta aveva un padre, uno ricercato per crimini di guerra. Quali e quanti: ho voluto
ignorare. Non credo alla utilità dei dettagli. Servono in un processo, ma a una figlia
no: la circostanza orribile diventa un’attenuante perché restringe il crimine a degli
episodi. Senza particolari invece il crimine rimane sconfinato.
“Sono un soldato vinto. Il mio reato è questo, pura verità.” Fece il gesto di scuotersi
la forfora dalle spalle. “Il torto del soldato è la sconfitta. La vittoria giustifica tutto. Gli
Alleati hanno commesso contro la Germania crimini di guerra assolti dal trionfo.”
Comunque definisse il suo servizio in guerra, comunque lo riducesse agli effetti di
una sconfitta, per me restava certa e senza appello la sua colpa. Gli ho opposto la
mia volontà di non volere alcuna spiegazione.
Se le cose stanno come dice lui, il torto del soldato è l’obbedienza.
Credo mi abbia frainteso per il resto della vita insieme. La mia cura per lui aveva
bisogno del malinteso. Svelarlo ci avrebbe scagliato uno contro l’altra. Mia madre fu
sua complice, oltre che compagna. Lo amò sapendo chi era, accettando clausole e
conseguenze. Io ho accettato il posto di figlia senza patto di complicità. Se lo ha
creduto un fatto e un punto fermo, è appunto il malinteso che ci ha permesso di
vivere insieme.
Quando in cucina non gli vidi più gli occhi per il buio, mi alzai, accesi la luce e gli
chiesi cosa voleva per cena. Rispose e andò a togliersi la divisa.
Dopo la partenza di mia madre lasciammo le stanze del quartiere popolare.
Andammo in un alloggio nei pressi del centro, nel raggio del suo servizio di recapiti.
Abitavamo abbastanza vicini al Centro Wiesenthal, il persecutore di nazisti. Il posto
si trovava in un’isola pedonale. C’era un solo negozio, di uno di loro che vendeva
roba usata. Ci andavo a comprare le palle colorate per l’abete di Natale.
Il suo servizio di postino comportava spesso di bussare alla porta di quegli uffici.
Eseguiva in silenzio, non faceva sentire la sua voce. Nelle loro azioni i militari
imponevano ai prigionieri gli occhi a terra, era proibito guardare in faccia il soldato
tedesco. La voce però dovevano sentirla. Potevano ricordarla. Si sa di casi in cui è
successo il riconoscimento attraverso la voce. L’udito più della vista è inesorabile in
certezza. Mio padre usava la precauzione di parlare a voce spenta, senza timbro,
nei posti pubblici.
Si è sentito braccato per tutta la vita, non dalle autorità austriache, ma da loro. Li
chiamo così per rispetto. Credo che la mia bocca non sia autorizzata a chiamarli col
loro nome di popolo.
Dentro gli uffici del Centro Wiesenthal c’era il suo cognome indelebile per loro e
sconosciuto a me. Lui andava a consegnare, e a consegnarsi, quasi tutti i giorni. I
tribunali col tempo avevano smesso di procedere contro i crimini di guerra, loro no.
La loro caccia continuava a oltranza.
Pochi giorni prima del suo pensionamento gli capitò di salire per l’ultima volta i
gradini del Centro Wiesenthal. L’impensabile accadde al termine del suo servizio.
Un uomo anziano, uno di loro, con un libro in mano gli chiese il favore di portarlo
agli uffici. Non ce la faceva a salire le scale. Lo ringraziò e gli disse: “È tutto qui il
segreto del nostro popolo”. Era un libro di kabbalà ebraica. Mio padre eseguì la
consegna. Prese però appunto del titolo e mi mandò all’acquisto. Cominciò così un
suo interesse per quella materia fatta di lettere e di numeri. Prima fu una curiosità,
poi uno studio, infine salì al grado di ossessione.
Mi spediva a cercare volumi su volumi. Mi impratichii anch’io di autori antichi dai
nomi astrusi: Eleazaro di Worms, Abramo Abulafia, Mosè Cordovero. Si convinse
che l’ebraismo stava arroccato dentro il labirinto della kabbalà. Ci voleva un Teseo
che andasse fino al centro della tana. Secondo lui in quei libri si trovava il rifugio del
Minotauro. L’ebraismo per lui era una tenia la cui testa era rimasta al sicuro nelle
viscere del mondo grazie alla kabbalà. Non la Bibbia, non il Talmud, false piste che
servivano a confondere.
Voleva spiegarsi il fallimento del nazismo: si era applicato a distruggere un popolo,
si era accanito sui corpi, invece di concentrarsi sul centro del bersaglio.
Per la storia ufficiale l’antisemitismo è un’aberrazione. Per i tedeschi del 1900 è
stata l’ossessione, la dannazione principale. Avevano dichiarato che quelli erano
sottouomini: perché allora annientarli? Era vero il contrario, il nazismo li
considerava molto più importanti e pericolosi di quanto predicava ufficialmente.
Himmler dopo l’insurrezione del ghetto di Varsavia ordinò la demolizione e lo
spianamento dell’area intera. In pieno sforzo bellico, mentre sul fronte russo le sorti
si stavano rovesciando, dopo Stalingrado, il nazismo sprecava una enorme
quantità di risorse e di energie per un vano effetto simbolico. L’antisemitismo è
stato la dannazione dei tedeschi.
Radere al suolo il ghetto di Varsavia è stato l’atto più superficiale dell’ossessione
nazista. Consideravano quel popolo un bubbone sulla faccia della terra e si
compiacevano di chiamare rein, “puro”, il suolo dopo la loro cancellazione dal
mondo. Himmler volle una superficie raschiata e cosparsa di calce là dove aveva
concentrato il maggior numero di loro. Fu il delirio di un igienista.
Mio padre cominciò con la kabbalà a persuadersi dell’errore di una persecuzione
superficiale.
Il nazismo si era impegnato a fondo per distruggere degli innocui. Evito la parola
innocenti, nozione indimostrabile per il genere umano. I bambini? Non sono
innocui, tormentano gli animali e imitano gli adulti. Innocui sono i vecchi, tranne
quelli insediati ai vertici di stato. Chiedo scusa della digressione.
Mio padre subì il contagio dei calcoli della kabbalà dove lettere e numeri si
scambiano le parti e alludono così a pronostici. In Abulafia trovò che la
permutazione delle lettere ebraiche dentro una stessa parola produceva profezia.
Nel libro di Cordovero, Il giardino dei melograni, si perse nei trentadue portici in cui
era suddiviso. Là dove si descrivevano i rapporti tra lettere e numeri, usciva sfinito
come un segugio frastornato da un miscuglio di tracce.
Nella kabbalà tutto era già scritto e predisposto a compiersi. Negli ultimi dieci anni
si accanì nella ricerca. Mi spiegava senza successo, per mia diffidenza, il valore
numerico delle lettere ebraiche. Ogni parola era perciò anche un’addizione delle
singole componenti. Diventava così sorella di significato con altre parole che
avevano la stessa somma. Una rima numerica le associava. Queste combinazioni
contenevano pozzi di segreti. Non era occultismo, era scienza, chiamata
ghematrià, notarikòn.
Non so se ci era arrivato da solo o se l’aveva trovato scritto da qualche parte:
hashoà, il nome ebraico della distruzione, aveva lo stesso valore numerico di
haàretz hatovà, la terra santa. La coincidenza secondo lui rivelava che nella
kabbalà era spiegato tutto già in anticipo. L’uguaglianza dei due valori numerici
metteva in relazione la nascita dello stato d’Israele e la distruzione degli ebrei. A
contrappeso di quella, stava già scritta la nascita di una nazione tutta loro in terra
santa. La patria della Bibbia, haàretz hatovà, veniva restituita loro in seguito alla
distruzione, hashoà.
Credeva dimostrata la sua ossessione: la kabbalà era il nocciolo ignorato dal
nazismo. Me lo ripeteva spesso con il tono di voce concitato che si permetteva solo
con me. Mi piaceva che alla sua età avesse trovato una materia di interesse
abbastanza innocua, ma restavo inerte di fronte alle sue spiegazioni.
S’irritava del mio scetticismo: “Per te qualunque coincidenza è un caso, perché non
vuoi vedere né conoscere. Eppure è tutto scritto in quelle somme uguali”. Non lo
compiacevo, restavo incredula.
Essere braccati costringe all’osservazione morbosa di segnali, di qualunque indizio
utile alla difesa. Lui era allenato a cercare coincidenze e a cavarne precauzioni. Io
non ho dovuto sviluppare attenzione per i dettagli. Ammetto di essere distratta, un
privilegio che lui non si permetteva.
Ma pure se le cose fossero scritte chiare e non criptate, a che serviva saperlo?
“Serve a proteggersi, a impostare una contromossa. Serve a non farsi
sorprendere.”
Al contrario di me, detestava ogni forma di sorpresa. Voleva sapere in anticipo il
regalo di Natale, l’unico che accettava. Compleanni non ne festeggiava, sapendo
entrambi che la data sul documento era inventata. Quella vera non l’ho conosciuta.
Incuriosita dal suo studio ho voluto dare una scorsa all’alfabeto ebraico. Non sono
arrivata a leggere una parola: andare sul rigo da destra a sinistra mi dava
maldimare. Lo stesso mi succede in Inghilterra dove si guida in modo inverso al
nostro.
Mi sono fermata alla prima lettera. L’alef è disegnata con eleganza di simbolo. Ci
vedo la figura stilizzata di una mossa del rock’n’roll e pure l’ondeggiare di
un’odalisca che fa partire le sue movenze dal centro del ventre.
Non ho proseguito: la successiva lettera, la bet, mi è sembrata un ferro da stiro, un
arnese da lavoro. L’alef è invece spalancata all’aria, l’inizio di un gioco subito finito.
Mi faceva intuire il fascino che attraeva i kabbalisti. Se una sola lettera smuoveva in
me immagini vaganti, in loro l’alfabeto intero doveva sfavillare di piste.
Dopo la scomparsa di mia madre, per pagarmi l’università mi sono procurata un
lavoro. Ho risposto a un’inserzione, cercavano modelle per l’Accademia di Belle
Arti. Le mie proporzioni furono giudicate adatte e iniziai un periodo di prova. Non mi
dava imbarazzo denudarmi e farmi guardare. A differenza dalle spogliarelliste da
me si pretendeva l’immobilità. Mi svestivo in un camerino e mi presentavo in
accappatoio. È un gran vantaggio, perché spogliarsi davanti a uomini vestiti è
umiliante.
La parte più difficile sta nel mantenere a lungo la posa richiesta. Quelle prima di me
smettevano o fallivano per questo. Gli occhi fissati addosso a un corpo nudo gli
caricano un peso.
Per riuscire mi isolavo in qualche pensiero: ero a Ischia, bambina, galleggiavo
stesa, sorretta appena dalle dita del ragazzo sordomuto. Oppure ero una pietra, il
corpo si bloccava nella forma rigida per imitazione e questo mi dava sollievo. Con
un altro pensiero diventavo una bestia nello zoo. I visitatori speravano in un mio
movimento, ma io opponevo loro la resistenza della mia clausura.
Ero adatta al mestiere di statua. Le mie forme dichiarate perfette, un po’ lo sono
ancora. Obbediscono a un ordine che ignoro.
Gli studenti mi chiedevano poi un appuntamento che negavo consentendomi la
piccola perfidia di rispondere di no con la mano. Mi avevano visto nuda, ma non
conoscevano la mia voce. Mi conservavo qualcosa di coperto.
Ebbi qualche richiesta di sfilare su una passerella. Rifiutai, la posa immobile mi
rassicurava, mentre le movenze studiate e seducenti da esibire mi avrebbero
venduto il corpo con più collaborazione da parte mia. Rifiutai anche di posare per
fotografie. La mia nudità doveva restare zitta e chiusa in una stanza
dell’Accademia.
Non ho voluto guardare l’effetto delle mie ore di posa, il mio corpo disegnato da
loro. Ho avuto timore e disgusto di vederlo trasfigurato come nelle opere di Egon
Schiele, ripiegato in una delle sue contorsioni. Immaginavo il singhiozzo della sua
modella ragazzina, Wally Neuzil, di trovarsi appassita nello sguardo osceno del
pittore. Non quell’uomo che t’immagina svestita per la strada, fa pornografia, ma
quello che ti spia già guasta.
Schiele aveva studiato nelle stesse stanze di quell’Accademia. Poteva esserci un
altro che corrompeva il fresco di una pelle di ragazza. Non ho voluto saperlo,
guardando i loro lavori. Schiele mi ha raschiato la vanità. Mi è stato benefico
rendendomi allergica.
Prima di lui un altro pittore, Dante Gabriel Rossetti, un inglese, dipinse morta la sua
modella, Lizzy Siddal, ma lasciandole illesa la bellezza. Meglio il suo effetto, di
quello di Schiele.
Lo sguardo ti accarezza o ti corrode. La mia pelle nelle ore di posa avvertiva il
solletico e l’ustione.
Ho amato invece la pittura del nostro Rudolf Wacker, che studiò a Vienna e nel ’14
partì soldato per il fronte orientale. Tornò nel ’20, dopo cinque anni di prigionia in
Siberia, terminata con la Rivoluzione russa. Ho fatto su di lui la mia tesi di laurea, il
capitolo più riuscito è sulla presenza delle bambole, sue divinità femminili.
Morì di crepacuore nel ’39 dopo una serie di perquisizioni della Gestapo. Ho amato
anche la sua vita: quando coincide con un’opera d’arte, fa il nodo perfetto.
Alla fine del periodo di prova fui assunta e mi decisi a dirlo a mio padre. Il suo
sguardo su di me diventò neutro, come certi saponi sulla pelle.
Neutro alla lettera vuol dire né l’uno né l’altro, effetto di due negazioni. La lingua
tedesca lo prevede, il neutro è una sua risorsa, presa dalle lingue latine che l’hanno
abbandonato.
Lo sguardo di mio padre su di me fu quello di chi infila un paio di guanti prima di
toccare. Reagì come uno che si sveglia da un’anestesia, con domande buffe.
Chiese se qualcuno mi ordinava di spogliarmi, se mi toglievo prima le scarpe o se
cominciavo dall’alto, se mi spogliavo davanti a tutti o in disparte, se stavo nuda
davanti a una fila allineata. Fu sollevato dalla risposta che stavo in mezzo a un
cerchio.
Mentre chiedeva, stava pensando altro, nascondeva forse l’imbarazzo. Non mi
chiese quanto guadagnavo.
Negli ultimi tempi si era imbattuto in un’altra coincidenza di valori numerici della
kabbalà. La parola ebraica ketz, “termine, estremità”, aveva lo stesso valore
numerico, 190, del verbo vendicare. Si affacciava così secondo lui una profezia che
lo riguardava. Il termine della sua vita avrebbe avuto la forma di una vendetta. Non
provai a distoglierlo, ci si può affezionare a un terrore.
Gli avevo già sentito dire: “Non mi prenderanno vivo. Ne hanno catturati mille di noi,
ma non farò la fine di una foglia d’autunno che si arrende”. Non temeva la prigione,
la vecchiaia è già una forma di reclusione. Respingeva invece l’idea del processo.
Si considerava un soldato e non poteva farsi giudicare da un tribunale civile.
“Un soldato risponde di se stesso solo agli ordini. Riceverli è il suo compito e il suo
onore.”
“Un ordine non va solo eseguito, va creato dal niente. Spesso è sommario e spetta
al soldato inventare i mezzi per eseguirlo.”
“Non mi discolpo dicendo di essermi trovato costretto a eseguire degli ordini. Li ho
sentiti, i miei superiori in Tribunale, dichiararsi sotto befehlnotstand, in stato di
costrizione, in seguito a un ordine. Noi quegli ordini li abbiamo smontati e rimontati
come si fa con le armi. Li abbiamo oliati e lubrificati perché non si inceppassero. Li
abbiamo eseguiti con l’efficienza dell’entusiasmo. La nostra colpa è più
imperdonabile: è la sconfitta.”
Ripeteva le sue frasi militari per escludermi. “Passi sotto la nostra bandiera e
neanche la guardi. Per un soldato quella è la radice e non sta in terra sotto i piedi,
ma sventola in aria.”
Non gli rispondevo, per me la bandiera è una foglia di stoffa e i colori della nostra
sono quelli di un cartello stradale. Nata dopo la loro guerra ho un rigetto per le
fanfare e i vessilli.
Non potevo comprendere il peso di alcune parole per lui decisive, non potevo
sentire il peso dell’uniforme. Sapevo quello opposto, della nudità.
Anziché patria e bandiera, amo Vienna, le sue bancarelle fumanti di patate e carne
da gustare in piedi anche d’inverno, coi morsi che riscaldano la bocca. Amo la mia
città sdegnosa che non si lascia sfiorare dal galante Danubio, fiume delle corti di
mezz’Europa e fiume degli zingari, accampati sulle sue rive dalla Foresta Nera al
Mare Nero.
La mia Vienna si scosta dal suo letto e non lo vede neanche dalla cima della Ruota
del Prater. Si sciacqua appena in uno dei canali. In nessun altro posto d’Europa il
Danubio, fiume dai cinque nomi, è così sminuito. Il risarcimento musicale di Johann
Strauss, che lo vede blu e lo celebra in valzer, è un’elemosina data sulla porta.
Mio padre conobbe il mistero di una lettera ebraica che messa davanti a un verbo
al futuro, lo trasforma in tempo passato. Pare che tale dote non esista in
nessun’altra grammatica del mondo. L’ebraico antico tratta il tempo come il ferro da
calza col gomitolo di lana. La sua lettera vav ne uncina un capo e lo riporta indietro.
La riesco a vedere, la lettera vav, in azione, perché lavoro a maglia dovunque mi
trovo. Faccio guanti in lana cotta e calzini a maglia rasata, mi piace il paio, ma
uguali non mi vengono.
Il corpo, pure lui, è così, ha il paio di braccia e gambe che non sono identiche.
Sono simmetriche, stanno bene insieme, ma non sono a specchio. Durante una
lezione all’Accademia di Belle Arti uno studente di scultura, Lois, un ladino che
veniva da un villaggio del Tirolo del Sud, osservò con il suo buffo accento di vallata
che la bellezza stava nella leggera differenza delle mie parti doppie, anche nel
profilo. “Il bello consiste in variazioni?” concluse. “Come negli strabici,” rispose il
professore, disturbato dalla domanda. Gli studenti risero.
Per me l’osservazione era giusta e la risata era l’applauso che accompagna la
verità quando si affaccia per la prima volta. La bellezza inventa varianti, non si
ripete a specchio. Chiedo scusa della digressione.
A proposito del mistero della vav, mio padre decise che proprio questo era
accaduto al nazismo, la maledizione di una lettera ebraica aveva rovesciato il futuro
del Terzo Reich in tempo scaduto.
Con la kabbalà ebraica pretendeva di risolvere l’indagine sul fallimento del
nazismo. Non ammetteva la semplice sconfitta militare. Si erano mobilitate forze in
profondità che avevano sovvertito le sorti.
La kabbalà era un sistema di avvistamento del futuro attraverso l’antica scienza
che assegna numeri alle lettere. Le coincidenze permettevano di scorgere l’arrivo
degli avvenimenti, meglio delle torri saracene sulle coste italiane.
La kabbalà fabbricava profezie, opponeva alle distruzioni le formule di scampo. Le
dieci sfere dei mondi superiori erano muraglie di una roccaforte. Mio padre
pretendeva di penetrarla. Ma lo Zohàr, libro detto dell’illuminazione, lo abbagliava.
Ogni riga aveva bisogno di una guida, lui da solo ci affondava dentro.
Falliva come aveva fallito il nazismo, per presunzione di superiorità. Intuivo che ci
voleva invece la premessa contraria, un estremismo di devozione verso quel
sistema di collegamento tra cielo e terra.
Mi rendo conto che il mio puntiglio di essere precisa qui stenta. Non so fare di
meglio con una materia sgusciante come la pallina di mercurio uscita dalla rottura
del termometro.
Per curiosità sfogliai anch’io quelle antiche pagine. Zohàr vuol dire illuminazione:
senza arrivare a tanto, trovai qualche scintilla. Uno dei nomi della divinità in ebraico
vuol dire: “Ciò che basta”. Mi è sembrato un titolo umile e affettuoso. Non sono di
nessuna fede, ma potersi rivolgere a Ciò che basta dev’essere una buona risorsa.
Più oltre nel libro lessi di sei asini guidati da uno che li stimolava: erano i sei giorni
della settimana pungolati dal sabato. Dello Zohàr mi rimasero briciole in mano, però
calde.
Kabbalà viene da un verbo che significa ricevere. Non è permesso né possibile
prendersela da sé, da autodidatta. Mio padre non doveva frequentare maestri di
quella disciplina, iscriversi a un corso. Qualcuno poteva riconoscerlo, anche dalla
voce. Non rispondeva perciò al telefono.
La voce umana lascia nell’udito impronte più decise di quelle digitali. Le circostanze
speciali aumentano poi la capacità di riconoscerla. La voce dei carcerieri si conficca
in alta fedeltà nell’insonnia dei prigionieri.
È un senso prodigioso, l’udito, riceve attraverso i muri, il buio, alle spalle. In
confronto alla vista è un radar vicino a un paio di occhiali. Perciò il silenzio rende
segreta una persona, più che se invisibile. Chiedo scusa della digressione.
Mio padre volle convincersi di avere ricevuto la consegna. Quella recapitata da
postino al Centro Wiesenthal l’ultimo giorno del suo servizio era invalida perché
apparteneva al compito e alla divisa.
La consegna gli accadde sulla nave diretta in Argentina. In una brutta notte di
tempesta sull’Atlantico un uomo anziano sulla sedia a rotelle gli chiese di buttare
alle onde un rotolo di pergamena. Nel delirio del pericolo quell’uomo attribuiva la
tempesta all’oggetto che aveva trafugato. Succedono in mare durante le tempeste i
più strani pensieri, la rincorsa alle colpe, agli scongiuri.
Mio padre non voleva cedere al gesto di superstizione. L’uomo insisteva e gli
chiese almeno di prenderlo, ne facesse poi quello che voleva. Mio padre, coinvolto
dall’agitazione di dentro e di fuori, accettò. L’uomo gli disse: “Adesso è suo. Ricordi:
io gliel’ho consegnato e lei lo ha preso”. Ricevutolo in braccio, mio padre ebbe
l’impulso di liberarsene. Uscì all’aperto nella baraonda di fulmini e ondate,
barcollando, reggendosi a una scialuppa scagliò il rotolo contro la tempesta. Lo
vide slegarsi e svolazzare. Quella notte di forze scatenate aveva scosso nervi e
convinzioni.
Le tempeste passano e pure quella smise. Nei giorni seguenti il mare calmo
ridusse a ricordo di sbronza le scosse subite e le perdite di equilibrio. Mio padre
dimenticò l’episodio. Gli ritornò quando cercava nel passato un atto di consegna. E
ricordò l’anziano paralitico, il rotolo e la tempesta sull’oceano. Volle convincersi che
lì era avvenuta una trasmissione.
Uno che ha fatto il portalettere per trent’anni, s’intende di consegne che si
trasformano in avvenimenti per il destinatario. Lui aveva ricevuto quella notte la
kabbalà in un rotolo. Poteva introdursi perché gli era accaduto il verbo ricevere,
indispensabile per l’ingresso.
Qualche volta gli ho chiesto se il lancio era servito a placare la tempesta. Mi
sapeva incredula ai segni, non mi rispondeva sospettando l’insolenza di una presa
in giro da parte mia. Non me lo sono mai permesso. Un uomo tragico è
invulnerabile all’ironia.
Continuò a infervorarsi di kabbalà. La studiava per contromossa di braccato,
credendo così di prendere alle spalle i suoi cacciatori. Perciò l’appartamento vicino
al Centro Wiesenthal: a chi lo andava inseguendo per il mondo sarebbe bastato
riconoscerlo sull’uscio sotto la divisa di postino.
Questo non cambiava la sua condizione di iscritto a una lista maledetta. “Prima o
poi mi raggiungeranno, la mia sconfitta è certa.” Gliel’ho sentito dire senza
sconforto. Gli credevo, ogni giorno poteva succedere e allora avrei saputo ogni
dettaglio, pure il nome che aveva gettato insieme all’uniforme.
Ma a che poteva servire pensarci prima? Se succedeva mi sapevo pronta.
All’inevitabile lui reagiva impegnandosi ogni giorno a rimandarlo.
Litigi tra noi non ne sono successi. Sapevamo tacere prima di avvicinarci all’urto.
Argomento di vive discussioni erano le mie idee sull’arte. L’artista dev’essere umile
di fronte alla realtà per la responsabilità di rappresentarla, anche se sfigurata.
L’artista è un supplente della realtà. Per mio padre invece è sempre stato un
servitore a casa del potere.
Amo il cinema americano, lui lo detestava. Ammirava invece quello russo, in bianco
e nero, gli immensi campi lunghi dove migliaia di comparse rappresentavano
storiche battaglie. I nazisti hanno dovuto imparare a rispettare i russi, sanno di
avere perso la guerra con loro, meno e dopo con gli americani.
Niente di strano che due viennesi bisticcino sull’arte, ci riteniamo autorizzati da una
eredità di cittadini. Strano invece un criminale di guerra, con idee incallite sull’arte
degenerata, che d’improvviso tira su aria nel naso e smette di contraddire sua figlia.
Per lui Bach, Shakespeare, Mozart, Velázquez erano cortigiani dotati e asserviti
senza scrupoli ai loro signori. Ma a fronte della loro ammissione a corti e privilegi,
doveva esistere secondo lui una schiera di altri che avevano servito l’arte senza
tornaconto. Erano rimasti senza nome e fama, però affrancati dalla servitù. Troppo
facile, replicavo offesa, inventare artisti sconosciuti, fantasmi mai vissuti.
Gli rimproveravo di non aver voluto leggere la mia tesi, di avere ignorato apposta
un grande austriaco, che era stato anche un buon soldato nella Prima guerra
mondiale. Di colpo si zittiva. La rinuncia intellettuale alla disputa è ammirevole, ma
non in lui. Non sbuffava, soffiava aria nel naso per tacere e quella era la mossa
della sua ritirata. Faceva il soldato vinto, il cui torto è la sconfitta avvenuta prima,
una volta per tutte. Arretrava perché non poteva permettersi l’urto con sua figlia. Ci
sarebbe stato, potevo rompere con lui su un argomento futile, lo ammetto, ma
delicato per me fino all’insulto.
Si arroccava dentro la sua storia maledetta sapendo che lì dentro non l’avrei
seguito.
Nell’ultimo anno continuava a ripetermi i particolari del rapimento di Eichmann. Suo
figlio maggiore si era innamorato di una ragazza. Era ebrea, ma questo neanche lei
lo sapeva. Il cognome, Hermann, non era ebraico. Viveva con suo padre, che era
stato sei mesi prigioniero a Dachau e poi era riuscito a raggiungere l’Argentina
durante la guerra. Si era stabilito nello stesso quartiere di Buenos Aires dove poi si
trasferì Eichmann con la famiglia, sotto il falso nome di un altoatesino.
La via era ben scelta, calle Garibaldi, poche case isolate, facile il controllo di
presenze estranee. Il padre della ragazza non le aveva raccontato la sua storia, era
anche lui un uomo in fuga. I due giovani si frequentavano nelle rispettive case.
Capitava che il ragazzo pronunciasse violenti discorsi antisemiti, che la ragazza
ascoltava e senza darci peso riferiva. Una volta per entusiasmo il figlio di Eichmann
le rivelò il suo vero cognome. La ragazza lo raccontò a suo padre, che avvisò il
servizio segreto di Israele.
Le due famiglie che abitavano vicine, l’intreccio amoroso che diventa trappola, Eich-
mann che non si accorge di ricevere in casa un’ebrea: questi segni mi dicevano
niente? “Sembrano gli ingredienti di un romanzo,” rispondevo.
“E invece è opera prescritta dalla kabbalà. Il ragazzo fiducioso manifesta il suo
sano odio, il suo amore per la ragazza si rovescia in agguato e lei lo tradisce,
subdola come il serpente.”
Mi ripeteva i suoi calcoli. “Amore, ahavà, ha lo stesso valore numerico di Uno,
ehàd, uno dei nomi della loro divinità. Perché l’amore è un trucco del loro
monoteismo. Il serpente, nàhash, ha lo stesso valore numerico di messia, mashìah,
il loro becchino della storia, che deve venire a seppellirla.” Per lui l’evidenza era:
“Eichmann, che ne aveva caricati a milioni nei vagoni merci, doveva essersi
accecato per non vedere che in casa sua si era infilato il loro messia serpente,
travestito da amore. Questa è la pura verità”.
A questa sua espressione mi tappavo la bocca per reazione. Il puro, la purezza:
sono stati la divinità nazista, il loro traguardo della perfezione. La razza, lo spazio
dovevano essere bonificati dal contagio di comunità inferiori. Così la purezza ha
scavato le fosse comuni e intasato i forni crematori. L’aggettivo “puro” in bocca a
mio padre mi faceva uscire dalla stanza.
La kabbalà su di lui aveva agito in profondità. Vedeva corrispondenze e risaliva a
spiegazioni che a me sembravano giochi enigmistici.
Poteva convincermi il rapporto tra la parola Amore e la parola Uno. L’amore
desidera una persona sola. Ma non potevo credere a un legame logico, sancito
dalla kabbalà stessa, tra messia e serpente. Mi dimostrava che non era scienza ma
congettura.
Di quella storia mi riguardava la ragazza. Pure lei aveva dovuto sapere la verità in
un’ora simile alla mia. Aveva dovuto accettarla per essere figlia, imparando a
fingere.
Dopo il rapimento aveva dovuto cambiare nome e continente per essere al riparo
da ritorsioni naziste. Anche a lei era toccato il falso di un’altra identità, che le
assegnava un compleanno inventato. Già solo per questo, essere figlia era pesato
a lei più che a me. Chissà se aveva trovato qualcuno in qualche mare che glielo
aveva tolto, il peso.
In quell’ultimo anno era arrivato a stabilire che al nazismo era mancato lo
spionaggio dell’anima ebraica. Avevano fallito preferendo la strage all’indagine. Lui
la praticava a tempo scaduto. Alle riunioni degli ex postini non andava più. Si era
stancato delle loro cerimonie, delle nostalgie a vuoto. E loro diffidavano dei suoi
studi che lo avevano contagiato di ebraismo.
Del resto si può dire che è andata proprio così: la consuetudine di salire e scendere
quelle scale, portare loro la posta, farsi firmare ricevute, aveva operato su di lui un
lento contagio, però intellettuale. La kabbalà è stata per lui una malattia contratta
sul lavoro.
Infine si era messo allo studio della leggenda del Golem di Praga, la statua sulla cui
fronte la parola èmet, verità, infondeva la vita. Invece la caduta della prima lettera,
una alef, gliela toglieva perché senza di quella vuole dire: “È morto”. Opera di un
rabbino, il Golem era per lui l’incarnazione del popolo ebraico, automa della divinità
che lo aveva creato dall’argilla. “Bastava distruggere tutte le lettere alef, questa è la
pura verità.”
Non ho condiviso la sua ricerca sulle ragioni della sconfitta e sul passato. Provo
fastidio per la storia. Quanto è accaduto prima della mia nascita non mi riguarda e
non mi interessa. È stata un casellario giudiziario, la storia, una sequenza di
crimini. L’ho studiata a scuola con irritazione. Che c’era da imparare da quel
groviglio di cose accadute a casaccio, che quando erano in corso dimostravano di
essere stupide, violente? La storia è un catasto di fallimenti. Ognuno ne cava una
sua versione inservibile.
Non ho voluto risalire a prima della mia nascita. Non sento affinità con altri figli di
criminali di guerra. Ognuno si è arrangiato secondo la ruggine che si è trovato nel
sangue. Ho avuto in sorte di non trascinarmi dietro un nome maledetto, come la
catena di fantasma. Ho avuto un nome finto che per me è stato vero. L’ho spacciato
per mio sapendo che era la moneta di un falsario.
Cerco di tenere a bada i miei sentimenti per isolare il mio resoconto dal loro
contagio. Qui non deve entrarci il mio sollievo per quel nome fasullo che mi
proteggeva dall’identità di mio padre. Se lo catturavano, quel giorno sarei stata
costretta a riceverlo. Quel suo nome segreto sarebbe stato un marchio sulla pelle,
un marchio in fronte.
Ho ricevuto un padre in eredità dal tempo precedente. L’ho ricevuto all’età in cui
una donna è pronta per ricevere un figlio. Il nome che gli dissi quella sera in cucina,
papà, stabiliva un contratto. Accettavo di essere sua figlia. Anch’io ho ricevuto una
consegna in un giorno che fu per me di tempesta. Comportava il rischio di dover
portare un giorno il suo vero nome.
Credo di essere stata una buona figlia. Mi sono presa cura di un vecchio padre. Ho
rispettato la sua vita nascosta, non l’ho disturbata con nozze. Non sono stata una
suora, non ho praticato la castità. Ho cercato negli uomini le mani che da bambina
mi toglievano peso mettendomi su un letto di acqua e dita. Nessuno mi ha
esaudito. Penetravano a spinte, mi affondavano sotto di loro e io nuotavo a dorso
con la zavorra del loro corpo addosso.
Agli uomini piace far sentire il peso. Non sanno vedere una donna. Sono fermi alla
prima impressione, all’errore di Adàm davanti a Eva che dice di lei: “È osso delle
mie ossa e carne della mia carne”. È naturalmente l’opposto, gli uomini sono carne
e ossa delle donne, ma con più peso e ingombro.
Ho escluso di ricevere un seme per non rischiare un figlio coi geni di mio padre. Per
esserne certa mi sono fatta sterilizzare. No, non gliel’ho detto. Chiedo scusa della
digressione. Spero che serva a spiegare cosa è successo una sera dello scorso
luglio in una locanda del Gadertal.
Eravamo andati a bere una birra, mio padre e io, in una locanda a fianco della
strada principale. Quel giorno avevamo camminato attraverso i boschi e avevamo
trovato fragole in una radura e lamponi in una scarpata. È festa trovare cibo fresco
in dono. È il gratis per il quale non mi sono data pena di seminare né di allevare. È
la libertà di affidarsi al nutrimento di fortuna, senza garanzia di trovarlo. La nostra
specie imparò a raccogliere prima che a seminare.
Mio padre accusava di romanticismo il mio entusiasmo. La natura per lui era una
forza da mettere al lavoro, non divinità da venerare. Non la veneravo però
l’accoglievo a bocca aperta. La buccia rosa dei lamponi, quella di ferita delle fragole
si disfaceva tra palato e lingua senza uso di denti, come l’ostia. Era una felicità
selvatica, non romantica.
Erano gli ultimi giorni di vacanza, le prendiamo a luglio, nella prima metà. Mentre
aspettavo le birre e mio padre era in bagno, entrò un uomo adulto di età incerta,
alto, scarnito, silenzioso. Mi salì il sangue in faccia. Quell’uomo era il seguito
immaginato tante volte del ragazzo sordomuto che m’insegnò a galleggiare senza
peso e poi a nuotare. Come per i frutti raccolti nel bosco, una contrazione allo
stomaco, di tenerezza e di gratitudine, mi fece aprire la bocca in un sorriso.
Ho saputo subito che non poteva essere lui, eppure era lui per la giusta variante
dovuta al tempo e alla distanza. Incontrarlo in montagna aumentava la sorpresa.
Amo meravigliarmi, mette sulla lingua un gusto di vaniglia. Mi sorrise in cambio e
pure quella forma a labbra chiuse corrispondeva alla mia pretesa di riconoscerlo.
Stavo per chiedergli se era di Ischia, quando si rivolse alla padrona del locale
indicando una pietanza del giorno scritta sulla lavagna. Lei chiese se voleva la
solita birra, accennò di sì con la testa. Non era per forza sordomuto, poteva essere
uno di poche parole al giorno, oltre che un cliente abituale che ordinava le stesse
cose. Però portava nelle mosse il silenzio di uno che non sente e perciò evita di
produrre un rumore che non può ricevere.
Mi intimidii e mi tenni in bocca la domanda ridicola. L’uomo venne a sedersi al
tavolo vicino. Non ero attratta da lui ma ritrovavo l’emozione fisica della bambina
sfiorata sulla schiena dalle dita del ragazzo sordomuto, sceso da qualche altare di
paese a togliermi il peso dal corpo steso a foglia sopra il mare: erano tornate quelle
dita, stavano di fianco, scurite dal sole, spessite di nodi, come gli occhi del legno.
Reggevano dei fogli e intanto reggevano me, la mia attenzione intera.
Mi ritornò sulla lingua la piccola polpa dei ricci femmina e negli occhi la punta del
suo temperino. Bastano un paio di sensi a spostarmi il corpo nell’immensità
dell’infanzia. Mi rimisi a dire a fior di labbra l’alfabeto tedesco. Mi fermai sulla w,
forse la dissi più forte. L’uomo si voltò verso di me e mi guardò come un paesaggio,
senza messa a fuoco. Poi chiuse le labbra un po’ aperte e tornò alla lettura.
Quando si volse ai fogli provai la commozione di volerlo toccare. Stavo per rifare la
domanda repressa: “Lei è di Ischia?”, quando arrivarono al tavolo le due birre.
Dietro di loro mi raggiunse mio padre. L’uomo alzò la testa dai fogli, guardò sopra
gli occhiali e i due si incrociarono attenti. Mio padre si seccò di avere ceduto alla
curiosità di guardare in faccia qualcuno. Era meglio evitare e si distolse con un
piccolo scatto di fastidio. Si sedette appoggiandosi al tavolo, stanco della giornata,
soffiando un sospiro. Mi accorsi ch’era invecchiato. A volte succede di colpo.
Mi trovai staccata da lui come succedeva a Ischia da bambina. Mi allontanavo dai
miei, intenti a ragionare di loro con altri connazionali, coetanei di mio padre. Erano
mutilati, reumatici, sfregiati da cicatrici, Ischia d’estate diventava uno stabilimento
termale per ex soldati tedeschi. Mio padre spiccava tra loro perché illeso. Li
lasciavo dopo cena per raggiungere il buio dove la sabbia è allisciata dall’onda.
Il mare notturno aveva le sue luci sparse, lampade a gas per attirare i calamari e i
totani. Tra quelle c’era pure la barca del ragazzo sordomuto. Con la sua lanterna
frugava il buio di sotto come io frugavo quello in cielo. Mi dispiaceva che non
poteva sentire lo scivolo dell’onda sulla spiaggia, che riempie le orecchie e poi le
svuota. Sono la parte del corpo più simile alle conchiglie.
Chissà se il ragazzo dentro i sogni sentiva le voci, i rumori. Chiedo scusa della
digressione.
Il tempo dentro la locanda s’ingrandì mischiando i minuti presenti con le estati
d’infanzia. Al tavolo e a fianco avevo le sole presenze maschili che hanno avuto
importanza per me. Bevvi un sorso di birra e mi girò la testa.
Nessun ragazzo, uomo, mi aveva raggiunto la superficie dove stanno i miei palpiti.
Mi avevano affondato il loro corpo dentro le viscere, mi avevano scavato con gli
abbracci. Ma la mia vita stava sulla pelle, il mio senso maestro era il tatto, che ha
sede ovunque tra la testa e i piedi. Lui, il ragazzo, era arrivato a me viaggiando
sulla punta delle dita e con quelle mi aveva insegnato l’equilibrio, non sulla terra o
in aria, ma sul letto del mare.
“La sua sinistra sotto la mia testa”: la frase del Cantico era successa a me che
galleggiavo. Mi aveva toccato facendo affiorare i miei sensi di bambina.
Quando ho trovato in un libro del nostro viennese Hofmannsthal che la profondità si
nasconde alla superficie, mi è venuto dal passato il sorriso del ragazzo sordomuto.
Anche lui concentrava la profondità dell’esperienza nella superficie. La sua pelle
non era il rivestimento da villeggiatura che si tingeva al sole per bellezza e sbiadiva
d’inverno sotto i panni, ma il suo sistema di collegamento. Parlava con il mondo dai
suoi pori. La sua peluria bionda era in contatto con le notizie dell’aria, pollini, insetti,
frequenze. Su di lui si posavano api, viaggiavano formiche, lui lasciava stare.
Si bagnava la faccia con l’acqua di mare per mettersi in ascolto.
Una volta mi fece sedere di colpo sulla riva e mise le mie mani a palme in giù sopra
la sabbia. Sentii vibrare il suolo e la terra mi scrollò le braccia: ai miei occhi
impauriti lui sorrise e mise il dito indice davanti alla bocca. Trasformò lo spavento
per il terremoto, mai conosciuto prima, nell’esperienza di un massaggio.
L’uomo al tavolo di fianco si passò la mano sulla faccia a strofinarsela. Rividi a
secco il gesto del ragazzo sordomuto che se la bagnava per sentire. Quelle sue
dita ora stavano vicine da poterle toccare con l’allungo del braccio. Erano brune e
ossute altrettanto, esperte di buona presa. Stringevo le mie intorno al boccale e la
testa girava in una giostra d’infanzia.
Alla festa del santo patrono dell’isola montavano una piattaforma di cavalli a
dondolo. Ci salivo, lui stava in un punto della piazza con la camicia bianca e il
basco sulla testa. Ogni giro guardavo il suo punto e lui mi accompagnava con la
spinta degli occhi sulla schiena. Era un miscuglio d’innocenza pura e nozze
celebrate. L’odore delle mandorle tostate dalle bancarelle era incenso di chiesa.
Mio padre e mia madre da qualche parte bevevano birra con altri tedeschi.
Non so se quel ragazzo provò attrazione per una bambina di dieci anni, certo non si
permise di manifestarla. Al tavolo della locanda spettava allora a me, donna che già
sfiorisce mentre è ancora intatta, ricambiare in ritardo quel miscuglio di desiderio e
grazia.
L’uomo intanto beveva anche lui birra, mentre leggeva i fogli stretti in mano. L’ora
che ci riuniva, pure ci separava. Il pensiero e l’impulso di trovarmi lì senza mio
padre mi salì nel fiato con la spinta di un’onda sulla spiaggia e si ritirò con il
secondo tempo del respiro.
Era la libertà provata sopra l’isola, lontana dai miei due che fingevano di essere
padre e figlia. Su uno scoglio aspettavo i ricci che il ragazzo portava svuotandomeli
in mano. Il Sud per me è stato un cibo crudo leccato sul palmo salato della mia
mano. E il Nord una bambina che ringrazia in tedesco un ragazzo che non può
sentirla, però legge il grazie sulla bocca di lei e lo riceve come un bacio salito fino
agli occhi.
La notte di ferragosto si organizzava un picnic sulla spiaggia. Mi allontanai dai
fuochi che salivano in alto con le voci. Ero una bambina felice di procurarsi spazio.
Sopra di me la Via Lattea spartiva il cielo in due. L’immensità era una grande pelle
picchiettata di animale e io ci rotolavo sopra insieme a tutta la terra. Per il contatto
mi fremevano di solletico i piedi scalzi.
In quell’età cercavo nel cielo notturno la costellazione che ripeteva uguale un mio
gioco di nei sulla pelle del braccio. La trovai nel Cigno, che spezza la Via Lattea.
Era il segno che provenivo da lì.
Avessi avuto un telescopio sarei stata più felice? No, una migliore definizione
dell’universo non mi avrebbe ingrandito lo stupore. Però facevo come gli astronomi
che lasciano alle spalle festa e fuochi per incamminarsi nel buio. Erano saliti sui
tetti o su qualche cocuzzolo per isolarsi meglio. Questi pensieri li raggiungo adesso
che mi spiego le poche stravaganze di me bambina, assorta in fantasie meticolose.
Sdraiata sulla sabbia, faccia all’aria, ruotavo su me stessa spingendomi coi piedi e
il cielo girava con me. Sentivo il suo contatto sulle parti scoperte, una carezza
fresca con il dorso di mano.
Puntai una luce piccola dentro la croce del Cigno, mentre la sceglievo fui scelta.
Succede in un respiro. Desiderai di essere raggiunta e fui esaudita subito.
I miei si erano accorti dell’assenza e si fecero aiutare per cercarmi. Mi raggiunse il
ragazzo sordomuto che si era bagnato la faccia per sapere dov’ero. Venne e mi
portò indietro. Il rientro tra i fuochi e le braci mi cancellò il solletico del cielo dalla
pelle. Come al solito i miei non mi dissero niente inaugurando uno dei loro silenzi di
castigo.
Mia madre volle dare una mancia al ragazzo che invece di prenderla tirò indietro la
mano e scappò. Gli chiesi perché non aveva accettato quei soldi, mi rispose coi
gesti buffi di chi sta per scottarsi. Non aveva toccato mai del denaro e aveva più di
venti anni. Non era andato a scuola e non sapeva numeri né lettere. La kabbalà
con lui non avrebbe funzionato.
Oggi d’estate sotto un cielo notturno mi piace stare sdraiata a braccia aperte e
nuda. Si allargano i pori e assorbono l’aria caduta dall’alto. Chiedo scusa per la
digressione.
Mio padre guardava verso l’uomo non direttamente, si era spostato sulla sedia per
controllarlo senza darlo a vedere. Ero abituata alle sue precauzioni. Da un paio di
tavoli nella stanza veniva un brusio misto di italiano e tedesco. Noi stavamo zitti.
Arrivarono due frittelle al tavolo dell’uomo, ne prese una tra le dita senza smettere
di leggere. La mordeva piano e sul dorso della sua mano i tendini salivano e
scendevano.
Il corpo gioca o fa un altro lavoro mentre la testa se ne sta occupata. Era così nelle
ore che posavo davanti agli studenti. Sottopelle un muscolo fremeva solitario, un
tendine faceva contrazioni involontarie, una vena batteva in superficie. Osservavo
le mosse del mio corpo racchiuso nella posa. Come riuscivo così a lungo, mi chiese
una volta un professore. Per la ragione opposta alla vostra: voi siete qui per
studiarmi, io per ignorare la vostra presenza. “Lei dovrebbe tenere a freno la sua
verità,” mi disse, un poco risentito. “La devo esibire per lavoro,” mi uscì di risposta.
Mio padre intanto si era irrigidito. Guardava l’uomo con la birra incollata alla bocca.
Cercai di distrarlo, so che è meglio scuoterlo dal pensiero fisso che lo sta
inchiodando. Accennai alla giornata riuscita, al laghetto dove mi ero bagnata i piedi.
Una folla di pesciolini era venuta a curiosare intorno e uno si era spinto a togliermi
una pellicina. Inutilmente: guardava l’uomo che continuava a leggere.
A voce minima, quella delle nostre conversazioni in pubblico, disse: “Mi hanno
trovato. Sono arrivati qui”.
Ero pronta per la notizia sospesa su di noi, ma non in quel posto, lì non ero pronta.
Non vedevo niente capace di spiegare il suo allarme. Guardai veloce in giro per la
stanza, poi stupita tornai su di lui.
“Sono fogli in yiddish,” mi disse e mi voltai di nuovo verso la mano che li reggeva.
Era un pugno magro che aspettava di essere aperto da un’altra mano.
“È uno di loro, mandato qui a farmelo sapere.” Si fosse messo a ballare nella sala,
mi sarei stupita di meno. La voce di mio padre era calma, non mi stava chiedendo
una conferma. In quella stanza era tornato solo, un uomo persuaso di essere
circondato. In quel momento non ero con lui. Il mio ragazzo sordomuto, diventato
un uomo senza età, non poteva essere lì per quello. Che importanza aveva la
manciata di fogli sfusi, in caratteri ebraici?
Mio padre guardò fuori dalla finestra alle mie spalle. Poi aggiunse: “Fogli spalancati
e bene in vista: fosse stato un libro non l’avrei notato. E poi mentre li legge muove
le labbra per farsi notare di più”.
Ma perché avrebbero avvisato, rinunciando all’effetto sorpresa? Non riuscii a
chiederglielo. L’uomo del tavolo a fianco disse qualcosa a bassa voce, non più di
una parola, restando concentrato sui fogli.
“Pagare”, la voce di mio padre uscì netta, senza protezione di sordina. Non ricordo
di averla sentita limpida e scandita in un posto pubblico. Mi accorsi di tremare.
Stavamo per andare e per la prima volta in tutta la mia vita ebbi il pensiero di
lasciarlo.
Venne la padrona al tavolo, lui pagò il conto e per la fretta non ritirò il resto, lui che
non lasciava mance. Urtò il boccale e rovesciò la birra. L’uomo del tavolo vicino si
voltò verso noi due in piedi. Prima fissò mio padre, poi me. Tra i due passaggi
chiuse gli occhi. Ci separava, lo capisco adesso, ma non ero pronta.
Ci avviammo all’uscita, seguii mio padre passando davanti al tavolo dell’uomo.
Aveva abbassato i fogli, sentii i suoi occhi spingermi alla schiena come alla giostra
dei cavalli a dondolo. Addio ragazzo sordomuto che toglievi il peso al corpo ancora
chiuso di una bambina.
Mio padre era già in auto, fece una veloce manovra a marcia indietro e ripartì,
caricandomi al volo. Se esitavo sarebbe andato senza di me. Se in quel momento
esisteva la scelta di non salire, non me ne sono accorta.
“Èmet, ha detto èmet, verità, dev’essere il nome in codice dell’operazione. Doveva
avere una trasmittente. La birra l’ho rovesciata apposta. Volevo vedere la reazione
degli altri nel locale.” Non chiesi perché, non c’era altro da aggiungere alla sua
decisione.
Correvamo, non nella direzione dell’albergo. Andavamo in salita verso un passo di
montagna, verso il confine austriaco, distante circa un’ora, anche meno a tenere
quella velocità. Che io fossi con lui in quel momento gli era indifferente, non aveva
niente da dirmi, ero lì con lui e basta, come sempre.
Non c’entravo con la sua vita di nascosto, l’avevo solo accudita. Quell’ora di cattura
immaginata a lungo, arrivava inattesa e non ci univa. Volevo credere che si stava
sbagliando, che quella fuga era una delle sue precauzioni, frutto di un indizio
scarso d’importanza.
Un’automobile doveva essersi avvicinata dietro, malgrado la nostra velocità. Non
mi voltai, ma lui guardava lo specchietto continuamente. La strada saliva a curve e
tornanti, nessuna possibilità di essere superati, anche se a quell’ora il traffico non
c’era. Le gomme facevano chiasso di attrito a ogni sterzata.
C’era un resto di luce diurna, terminale, che arrossa e dà risalto all’ossido di ferro di
quelle montagne e affiora come il sangue alla faccia. Volevo distrarmi con la loro
bellezza immobile, mentre mi saliva la tensione per la velocità, che detesto. Cercai
di essere come loro in superficie. Cercai la posa di modella ferma, senza riuscirci
perché non ero nuda.
Apparve un rettilineo lungo, mio padre spinse i giri del motore fino allo spasimo,
fissando lo specchietto. Guardai il contachilometri, dissi: “Centonovanta”. Mentre lo
dicevo mi accorsi di annunciarlo: il valore numerico in ebraico di termine e
vendetta.
“Lo so,” rispose e intanto l’automobile sfondava la recinzione e saltava sui pascoli
di sotto.
Mentre volavo mi trovai senza peso. Le dita di un ragazzo sordomuto reggevano il
mio corpo di bambina. Nell’impulso di lasciarmi andare sopra le sue dita, sciolsi la
cintura di sicurezza. Al primo urto schizzai fuori sui prati, prima che l’automobile con
mio padre finisse sulle rocce.
La lunga cura in ospedale mi ha dato il tempo di assestarmi. Il volo nel vuoto mi ha
sciolto dal contratto di figlia. Quando mi scucirono gli ultimi punti delle operazioni,
fui slegata da lui.
Non aveva messo in conto di portarmi nell’ultimo passaggio della sua fuga lunga
più di mezzo secolo. Non fece come i Goebbels che uccisero prima i loro figli e poi
se stessi nel rifugio blindato della Cancelleria a Berlino. Non volevano lasciare
nessun resto ai vincitori.
Mio padre, devo credere, mi ha portato con sé perché ero con lui in quel momento.
Non ha premeditato di morire insieme. Ma non spettava a me quel salto nel suo
vuoto.
Non ce l’ho con lui. Do colpa al malinteso che non ho voluto chiarire. Figlia di un
criminale di guerra, volevo essere un effetto senza causa.
La vera identità di mio padre è rimasta ignota. Sulla pietra c’è il nome fasullo che
sta anche nei miei documenti. Sto facendo le pratiche per cambiarlo con quello di
mia madre. Posso buttare via la moneta falsa.
Mi resta da sapere se qualcuno inseguiva su quella strada e se l’uomo della
locanda era uno di loro.
L’estate prossima a luglio ci torno e siedo allo stesso tavolo alle sette di sera.
Bevo una birra e aspetto.

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