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5^ lezione 20-10-2021

Esiste una possibilità oltre la secrezione (lasciare una traccia che proviene dall’umor
tetro, la malinconia, la matrice della depressione), cioè lo stesso corpo, se
schiacciato, diventa una traccia.
Primo popolo alla base della grande rivoluzione monoteistica dell’umanità: il popolo
ebraico. I maestri del sospetto, Marx, Freud, ma anche Saba, Levi, sono tutti ebrei,
figurazioni emblematiche dell’umanità scartata. Moni Ovadia, che da poco si è tirato
fuori dalla comunità ebraica milanese a causa dell’odio verso gli stranieri, ha scritto
un libro chiamato “un ebreo contro”, in cui ha collegato lo yiddish alla lingua
napoletana. Yiddish è la lingua ebraica parlata dagli ebrei tedeschi di Germania. Per
spiegare il suono della lingua ebraica si dice sia “un tedesco con un’inclinazione
comica, parodiata”; con la morte di 6 milioni di ebrei dai campi di concentramento,
questa lingua è morta. Esistono degli artisti che hanno imparato apposta lo yiddish
per renderlo vocale, ad esempio Erri De Luca e lo stesso Moni Ovadia, trovando
molti collegamenti con la lingua sbrigativa, tendente all’intraducibile sfottó
napoletano. In Italia la legge ebraica fu introdotta nel 1938, macchia della nostra
costituzione.
Moni Ovadia unisce la dominante della tradizione ebraica all’orda dei brutti (alla
“corte dei miracoli”, li come definisce Debenedetti) per spiegare come mai si sia
dimesso dalla comunità ebraica milanese, è lo “splendore paradossale” a
caratterizzare l’ebraismo. La fondazione dell’universalismo e dell’umanesimo
monoteista, attraverso un particolarismo geniale che si esprime in un’elezione dal
basso, è tutta ebraica; il concetto di popolo eletto è uno dei più equivocati e
fraintesi di tutta la storia. Il rabbino Potok nel suo “storia degli ebrei” descrive gli
“ebrei eletti” come “massa terrorizzata, piagnucolosa; sbandati, briganti, vagabondi,
ruffiani, contrabbandieri, sovversivi”, ma soprattutto gli ebrei erano schiavi e tutti
stranieri, la schiuma della terra. Il divino che incontrano si dichiara “Dio dello
schiavo e dello straniero” e legittimandosi dal basso non può essere che Dio della
fratellanza e dell’ uguaglianza universale. Il comandamento più ripetuto della Torah
(testo sacro che gli ebrei deportati ad Auschwitz avevano imparato a memoria, e che
recitavano durante il Sabbath per restare comunità dentro l’orrore) sarà “amerai lo
straniero”. Il mucchio selvaggio segue un profeta balbuziente, un vecchio di 80 anni
che ha fatto per 60 anni il pastore; il 20% degli ebrei intraprese il progetto, mentre la
maggioranza preferì la dura ma rassicurante certezza della schiavitù all’aspra e
difficile vertigine della libertà, che è uno sbaraglio, si fonda sulla paura dell’ignoto. La
schiuma della terra, la massa di scartati e brutti è anche una minoranza, però come
diceva Nietzsche gli scarti regressivi spostano la storia, sono loro la matrice
fondativa.
Dio deve dire all'umanità che lui è uno solo (nell’Antico Testamento le tre grandi
religioni monoteistiche, Islam, cristianesimo ed ebraismo costituiscono un tutt’uno):
guarda giù sulla Terra e vede due fratelli, uno si chiama Aronne, è un oratore,
incanta tutti, l’altro invece è più debole ed è per di più balbuziente, Mosè. Dio sceglie
Mosè: la forma imprevista, come dice Telmo Pievani, l’uomo nasce incompleto,
viene partorito con mancanze; balbuzie, balbettare, è un suono ricorrente nei
romanzi del ‘900. Kafka balbetta, Zeno idem, in una poesia di Montale balbuzie fa
rima con astuzie; si parla di un balbettio costante per indicare il concerto della
parola dell’uomo novecentesco.

Lettera al padre di Kafka


Fu scritta nel 1919: stessa data in cui Svevo riprende la scrittura. Due mani
prendono la penna, quella di Svevo, che continua a scribacchiare e da questo nasce
Zeno Cosini; a Praga un ragazzo, Franz Kafka, decide di scrivere nello stesso
momento la lettera al padre, padre del quale ha costantemente paura e verso il
quale si sente costantemente in colpa: almeno per iscritto, prova a mettere ordine e
a raggiungerlo; piega la lettera e non la darà mai al padre. Sarà infatti la madre, che
compare con una piccola notazione marginale ma con un nome che sarà cruciale
(Mamelot, baby talk, la voce materna) a consegnarla al padre, perché il figlio non
ebbe la forza di farlo. Il conflitto padre-figlio percorre tutta la narrativa
novecentesca: la coscienza di Zeno parte dalla morte del padre e dal gesto della
mano inconsulto, di cui non sapremo mai se è uno schiaffo o meno, prefigurato già
ne la lettera al padre; lo troviamo in uno, nessuno e centomila, le mani paterne di
usuraio; dietro il conflitto si prefigura metaforicamente la degenerazione del romanzo
novecentesco rispetto al romanzo ben scritto dell’800. “Romanzo ben scritto” viene
da un critico americano di nome Beach, dove tutto è lineare, progressivo e segue un
ordine logico e cronologico. Nel ‘900 non si può più scrivere in questo modo, alla fine
c’è sempre un figlio degenere, rispetto ai programmi materni, che si circonda di
carta.
Quadro di Schiele: dimensione epidermica e legnosa della consistenza materica del
dolore; la figurazione è molto simile sia alla lettera che al rapporto di Zeno con suo
padre. Le mani del figlio sono in posizione protettiva fetale e genitale; le mani
sono quelle dello schiacciamento che produce la traccia di scrittura.
Nelle prime righe della lettera abbiamo la forma della scrittura novecentesca: una
quantità smisurata di dettagli, si è persa la totalità che è finita nel frammento,
l’impossibilità dell’opera di essere completa, di arrivare alla fine.
Da un lato abbiamo la logica borghese del guadagno, dall’altro lato quello che
Schopenhauer considera contrapposta alla parte di umanità attiva, cioè
contemplativi (quelli che studiano).
I libri sono materiale isolante, anche dal punto di vista acustico attutiscono i rumori.
Lo scrittore nasce perché prova dolore nel vedere la mortificazione e l’umiliazione
(sono i miti): non avendo la forza di difendersi, scrivono per riparare i torti.
Viene citato un attore yiddish (ebraico) chiamato Löwy: cognome materno che in
Italia diventa Levi; faceva parte dell’orda dei brutti, era amico di Kafka.
Kafka trasforma Gregor Samsa in scarafaggio per salvare l’esistenza di questa
vittima innocente dal giudizio crudele del padre.
Primo Levi, nella premessa che scrive agli studenti a scuola per spiegare cosa vuol
dire quel numero che ha a causa del suo essere ebreo, usa queste due parole:
dolore e vergogna, matrice di se questo è un uomo.
La mano alzata paterna che incombe era stata descritta dall'antropologo Gottschall
(che collegava le storie alla mano).
“Parlata incespicante e balbuziente”: incontriamo la prima balbuzie del ‘900, Kafka
era balbuziente, alle sue spalle vediamo una filigrana comporsi con l’immagine di
Mosè, e da allora quella è la voce rivelatrice.
Franz guarda la sua mano: c’è un momento in cui parole e mano sono collegate, vi è
un legame (che gli scienziati hanno scoperto essere perfettamente corrispondenti
alle sinapsi del cervello), la penna va allo stesso tempo della mente. Qualcosa però
si incrina, nel ‘900 uno scrittore comincia a pensare a quello che sta facendo, per cui
si crea una crepa nella narrazione (come faceva Sterne nella dimensione
metanarrativa).
Kafka fa entrare nella lettera un qualcosa di imprevisto, l’eccezione alla regola, un
momento in cui riesce a toccare il padre e per questo scrive: attraverso la scrittura
tratteniamo chi non c’è più o diamo a chi abbiamo amato una seconda possibilità di
raggiungerli; il figlio raggiunge il padre e si commuove.
Le parole del padre erano incombenti, dolorose e vergognose. Dentro il sonno i
genitori sono più buoni.
Uno scrittore, un ragazzo tormentato dal padre, da un angolo della stanza si sporge
e vede di spalle, in silenzio, un tremore del padre, riconosce i sussulti del pianto, ma
il padre si nasconde, non lo dice: lo scrittore rende eterno il sussulto del corpo
paterno, e lo fa appoggiare alla cosa che ha più cara nella vita, la sua libreria.
L’amore dentro il silenzio del padre, la mano del padre che saluta sporgendosi e la
mano di un figlio che la tocca proprio perché sta scrivendo, la incarta e l’accarezza:
“si piange anche quando si scrive”.
“Sono un verme ai tuoi occhi, e mi hai calpestato però io ho continuato ad andare,
deviato, scrivendo cose per te assurde e la traccia che lascio è proprio quella mia
ferita, quel pezzo di coda calpestato che inclina la mia penna” (come tutte quelle
novecentesche).
“Adesso sei libero”: la libertà è vertigine, sbaraglio, ma è un’illusione perché non era
ancora libero; “scrivevo di te”=> non ero libero perché tu eri l’oggetto opprimente, il
liquido nero che gonfia il corpo di Gregor Samsa, “enorme insetto immondo”; “eri
sempre tu”=> “non sono libero se sei tu il male che descrivo”.
Indicazione formale della scrittura del ‘900: l’antiromanzo, si dice addio al romanzo
ben scritto dell’800 e volutamente la tira per le lunghe, le continuazioni.
Ipocondria: è Zeno Cosini che si ammala di tutto, altro elemento costante dei
personaggi novecenteschi, si sentono addosso tutto il male del mondo.
Tenta di sposarsi ma anche questo fa parte della dimensione borghese paterna, non
riesce a liberarsi da questo peso.
Le mani degli scrittori del ‘900 sono controcorrenti, sembrano di cellulosa, sono mani
che cercano di recuperare quella felicità che avevano perduto per sempre,
quell’interezza, quel contatto reale e che devono crescere nell’unico spazio lasciato
libero dai genitori opprimenti, dove non arriva la mano giudicante del padre.
Kafka per chiudere la sua lettera usa un'immagine che è epica, immensa, sembra
una visione alla Borges: quella di un padre che occupa tutto il mondo come su una
carta geografica, l’enorme corpo di un gigante sdraiato e il figlio che ha l’unica
possibilità di sopravvivere unendo mani e storie, raccontando e lasciando la traccia
di quel verme schiacciato sulla carta scrivendo letteratura.
“I libri sono il mio materiale isolante”: isolarsi consente di salvarsi.
La parola solitudine nasconde dentro quella della libertà e del suo sbaraglio: una
donna sola è in realtà una donna libera, è elemento antropologico pericoloso per le
civiltà, la figura delle streghe secondo Ginzburg nasce così; dentro il materiale
isolante si fanno degli incontri meravigliosi.

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