Sei sulla pagina 1di 2

ERNESTO SABATO, Sopra eroi e tombe, Torino, Einaudi, 2009 (ed. or. 1961), trad.

dallo
spagnolo (Argentina) di Jaime Riera Rehren, pp. XV-579, € 26.

1. “Sebbene abbia un solo dorso, un libro possiede cento volti”: è una frase che Julio Cortàzar
attribuisce a Nâser-e Khosrow, “nato in Persia nel XI secolo” ed è un buon viatico per avvicinare
Sopra eroi e tombe, il secondo e più grande romanzo di Ernesto Sàbato, ora riproposto da Einaudi
con una densa prefazione di Ernesto Franco e in una nuova traduzione (la precedente, di Fausta
Leoni, era passata da Feltrinelli -1965 e 1975- ad Editori Riuniti -1987 e 1997). In Prima della fine
(Einaudi, 2000), che intrecciava i fili dell’autobiografia a quelli di una senile e un poco generica
complainte sui destini del pianeta e della civiltà, Sàbato avvertiva all’inizio il lettore: “Dio, se
esiste, dev’essere mascherato”, a significare che l’incandescente materia dei suoi romanzi non era
passibile di un’esegesi biografica, che la vera vita abitava tra le pieghe delle finzioni e delle parole e
non tra quelle dell’esistenza. Ben più crudele è la teodicea che leggiamo nel Rapporto sui ciechi
terzo terribile capitolo di Sopra eroi e tombe: “Dio è un povero diavolo, alle prese con un problema
troppo complicato per le sue forze. Lotta con la materia come un artista con la propria opera.
Qualche volta, in qualche momento, riesce ad essere Goya, ma generalmente e un disastro”. Ecco,
Sopra eroi e tombe, che assume di volta in volta le sembianze di storia d’amore e di conte
philosophique, di poema in prosa e di romanzo di costume, di narrazione epica e di pamphlet
letterario, non è che la cronaca di uno dei disastri di Dio, e delle vittime e dei reduci.
2. Che sia un disastro ci viene detto sin dalla primissima pagina, nella tragica conclusione che
aggredisce il lettore ad apertura di libro: la protagonista femminile, l’evanescente oscura e splendida
Alejandra, si è suicidata ardendosi viva dopo aver ucciso il padre Fernando Vidal Olmos con
quattro colpi di pistola. Tra gli effetti personali di Fernando viene scoperto un manoscritto intitolato
Rapporto sui ciechi, da cui “è possibile ricavare ipotesi che getterebbero una luce particolare sul
delitto e che, caduta l’ipotesi di un gesto di follia, favorirebbero un’ipotesi ancora più truce”. Nei
primi due capitoli si snoda la storia dell’amore tormentato, inafferrabile e dissestato, tra Alejandra e
l’attonito ma risoluto Martìn: come la Nadja di André Breton (amico di Sàbato, che fu tra i
surrealisti parigini negli anni ’30) la ragazza è sensibile e magnetica, l’antenna di un sismografo che
misura terremoti psichici di inaudita violenza. Martiìn e Alejandra sono i giovani che in Prima
della fine Sàbato definirà “eredi di un abisso”: la similitudine si fa reale quando conosciamo i
genitori dei ragazzi, la “madrefogna” di Martìn e la galleria di freaks dell’anima che condivide con
Alejandra le stanze dell’enorme, antico Belvedere, dove un secolo di storia argentina, di eroismi e
di massacri scricchiola tra le pareti in attesa del fuoco. Insieme e intorno a loro vive una pletora di
personaggi che paiono abitanti di una Babele immaginaria, dove la torre è crollata ma ancora si
parla la lingua franca dei muratori superstiti: un impasto di toni e cadenze che deve aver fatto
disperare il traduttore, tra violinisti e camionisti, politica e campionati di calcio, pettegolezzi teatrali
e discussioni letterarie. Vi compare anche Jorge Luis Borges in persona, amato e detestato da
Sàbato: se nelle pagine autobiografiche e in quelle saggistiche lo scrittore non perderà occasione di
accarezzare in contropelo i metafisici arabeschi dell’autore di Finzioni, in Sopra eroi e tombe ce ne
restituisce un icastico ritratto difficile da dimenticare: “Il viso pareva fosse stato disegnato e poi
mezzo cancellato con una gomma. Balbettava”. Quella Babele è ovviamente Buenos Aires, ma è
soprattutto una metropoli del sogno e della memoria. Fa sorridere dunque la premura dell’editore,
che al romanzo premette una mappa dei quartieri in cui le vicende si svolgono: come l’isola del
baleniere Queequeg in Moby Dick, la Buenos Aires di Sàbato “non era segnata su nessuna carta: i
luoghi veri non lo sono mai”.
3. Come il luogo, anche il tempo del romanzo trascolora subito in una dimensione interiore: tutto è
narrato a giochi fatti, quando consummatum est, ma allo stesso tempo è presente nel ricordo e nel
racconto di Bruno, letterato amico dei due giovani e del padre di lei nonché trasparente alter ego di
Sàbato. Ad amplificare questa sensazione di caleidoscopio, in cui ogni personaggio e ogni gesto e
parola hanno un senso solo nel gioco di rifrazioni e distorsioni che fanno eco e modulano la materia
del romanzo, Sopra eroi e tombe contiene, distillato e rischiarato in una tenebrosa luce di
complotto, il primo romanzo di Sàbato, Il tunnel (Einaudi 2001, ed. or. 1948), e sarà a sua volta
contenuto nel terzo capitolo della trilogia, il meno riuscito L’angelo dell’abisso (Rizzoli 1977, ed.
or. 1974), dove alcuni degli eroi sopravvissuti alle tombe ritorneranno per confrontarsi con
l’Apocalisse e con lo stesso Sàbato, che da narratore si sdoppia in personaggio.
4. A questo gioco di rimandi, cornici e specchi deformanti sfugge il Rapporto sui ciechi, che sta
“come un monolito” al centro del romanzo. Nella sua compattezza agghiacciante, il Rapporto è la
mappa dettagliata di una strada per l’inferno lastricata di pessime intenzioni: lo smascheramento del
complotto ordito dai Ciechi per governare il mondo “mediante gli incubi e le allucinazioni, le pesti
e le streghe, gli indovini e gli uccelli, le serpi e, in generale, tutti i mostri delle tenebre e delle
caverne”. La scrittura si fa affilata e tagliente, la voce di Fernando Vidal Olmos riempie di sé la
pagina incendiando e riducendo in cenere la polifonia e le tessiture policrome del romanzo, l’ironia
si fa ghigno spietato, l’elegia diviene invettiva. Ernesto Franco, nella prefazione, lo avvicina
fascinosamente, a “un pianeta Kafka compreso in un universo Dostoevskij”, ma altre e più atroci
letture vengono alla mente. E’ come se Céline dirigesse uno spartito di Lovecraft, come se, ben
oltre il termine della notte, il contemptor mundi di Bagatelle per un massacro guardasse in faccia i
responsabili della vacherie cosmica ed eterna, e scoprisse che i loro lineamenti sono quelli di una
razza preumana, progenie di Chtulhu esiliata nei sotterranei e tra le ombre di Buenos Aires. Molti
sono i ricordi céliniani, come il protagonista che, legge soltanto più “la pubblicità e la cronaca nera”
(mentre per Céline era “la pubblicità e i necrologi...sai quel che la gente vuole e sai che sono
morti...Basta!”) Céliniano è anche lo humour del Rapporto, uno humour che solo per difetto
possiamo definire nerissimo; e degna del Céline “chroniqueur des Grands-Guignols” è la terribile
traversata della Legione Lavalle, impegnata a scortare in Bolivia il corpo in putrefazione del
generale che l’ha guidata. Molte sono poi le citazioni, quasi palmari, da Lovecraft, ma anche dal
Poe del Gordon Pym, dall’ Arthur Machen de Il gran dio Pan (secondo il quale, come per Sàbato, “i
gerarchi dell’inferno passano inosservati tra di noi”), dal William Hope Hodgson de La casa
sull’abisso. Quanto peso quella letteratura visionaria e fantastica abbia avuto nella cultura argentina
può confermarlo la Vita di Edgar Allan Poe di Cortàzar (Le Lettere 2004), ma anche il racconto di
Borges There are more things (in Il libro di sabbia, Rizzoli 1975), dedicato alla memoria di
Lovecraft. Ci si potrebbe arrischiare a pensare che il complotto ultraumano sia divenuto una sorta di
Genius loci, se l’incantato flâneur del mondo intero Bruce Chatwin incontrerà In Patagonia
(Adelphi 1982) la temibile Brujeria, evidente emanazione della setta dei ciechi che finirà col
perdere Fernando Vidal Olmos e forse il mondo intero. Il Creatore, sembra dirci lo gnostico Sàbato,
è un Re Atroce: e non solo per le istanze dell’anagramma.

Potrebbero piacerti anche