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I disegni di Kafka, a cura di Andreas Kilcher, Milano, Adelphi, 2022, pp.

367, € 48,00

«Carissimo Max, la mia ultima preghiera: tutto quello che si trova nel mio lascito (dunque nelle
librerie, nell’armadio della biancheria, nella scrivania a casa e in ufficio, o dovunque qualcosa
dovesse essere stato portato via e che ti capiti a tiro), diari, manoscritti, lettere, di altri e mie, disegni
ecc., bruciarlo interamente e senza leggerlo, come anche tutti gli scritti e i disegni che tu, o altri a
cui tu dovessi chiederlo a nome mio, possedete. Chi non voglia consegnarti delle lettere, dovrebbe
almeno impegnarsi a bruciarle di persona.»
È inevitabile, maneggiando e sfogliando questo sontuoso volume adelphiano, tornare con la mente
alla prima delle due lettere nelle quali Franz Kafka, pochissimi anni prima della morte, decideva la
sorte dei suoi scritti: a parte una manciata di racconti già pubblicati (e neppure tutti), il resto era
destinato alle fiamme o all’oblio. Entrambe le lettere erano destinate a Max Brod, l’amico fraterno e
più tardi infedele esecutore letterario e biografo/agiografo. Se Brod avesse rispettato le volontà di
Kafka, probabilmente l’aggettivo «kafkiano», del quale si è fatto e si fa comunemente uso e abuso,
non esisterebbe neppure: niente Processo, niente Castello, né aforismi, diari e quant’altro; ed anche,
va da sé ma Kafka ci tiene a specificarlo a chiare lettere, niente disegni: nemmeno questo libro
esisterebbe.
Il testo di Andreas Kilcher che apre il volume, Il lascito e la sua storia, ripercorre con
dovizia di particolari tutte le vicissitudini legali e conservative dei disegni, evidenziando anche il
motivo di maggior interesse di questo libro: per la prima volta, infatti, è stato possibile riprodurre
nella sua interezza il corpus dell’opera grafica kafkiana a noi noto (ma si suppone che molti altri
disegni siano effettivamente andati distrutti): fino al 2019, tale corpus ammontava ad appena
quarantun disegni, pubblicati da Brod con il contagocce in questa o quella delle sue opere su Kafka
(alcuni, come gli stilizzati omini neri, sono noti da tempo, riprodotti infinite volte e utilizzati anche
per le copertine dello scrittore praghese, al punto da diventare quasi una sorta di “logo” kafkiano).
In questo volume invece ne troviamo circa centocinquanta, schedati e commentati nel Catalogo
ragionato delle opere redatto da Pawel Schmidt, che chiude il libro. A corredo delle riproduzioni e
del catalogo stanno poi un denso e dotto saggio, ancora di Kilcher, intitolato Disegnare e scrivere in
Kafka, e Gli uomini storti, una breve nota, aforistica e intensa, di Roberto Calasso, forse una delle
sue ultime pagine destinate alla pubblicazione.
Ovviamente, però il piatto forte, quello che giustifica e dà lustro al libro, sono i disegni stessi, che,
per il critico come per il lettore, costituiscono un vero e proprio hic Rhodus, hic salta!. Che posto
occupano nel panorama della cultura artistica dei primi decenni del Novecento? E in che rapporto
stanno con l’altro, ben più importante, lascito di Kafka, quello dei suoi scritti, pubblici e privati,
editi in vita e postumi?
I curatori suddividono i disegni in cinque sezioni, in base ai supporti e al carattere originario: quelli
su fogli sciolti; quelli del famoso Quaderno di disegni (è da lì che provengono i più noti, ma qui il
quaderno viene riprodotto nella sua integrità – se di integrità si può parlare, per quelle pagine
intaccate dalla muffa e devastate dai ritagli di Brod); i disegni dei diari di viaggio; quelli contenuti
nelle lettere; quelli nei diari e nei taccuini di appunti; infine, una selezione di “motivi e ornamenti”
che punteggiano certe pagine manoscritte. L’impaginazione magniloquente, con ampi margini
bianchi che incorniciano e museificano (talvolta verrebbe da dire “mummificano”, soprattutto per i
pezzi più piccoli e malconci) disegni spesso immediati e abbozzati rapidamente, sembra in qualche
misura un monumento al maniacale collezionismo di Max Brod, che addirittura ritagliava le
dispense universitarie per conservare i marginalia tracciati da Kafka durante le ore di lezione o di
studio, e che a suo arbitrio sottoponeva allo stesso trattamento anche il quaderno di disegni; metà
del loro fascino però nasce proprio dalla materialità dei supporti cartacei più diversi, che le
riproduzioni, quasi sempre a grandezza naturale, consentono di apprezzare appieno: biglietti da
visita, cartoline illustrate, pagine lacerate, fogli di appunti, carta da lettere coperta di scrittura fitta:
su queste carte fioriscono le capricciose invenzioni di Kafka, a grafite o a china, che possono
sembrare primi pensieri in attesa di una composizione più accurata e rifinita (e ogni tanto lo sono: le
parti inedite del quaderno di disegni dànno conto del rovello compositivo che sta dietro ai citati
omini neri); oppure sono incantati svolazzi d’inchiostro nerissimo, perfetti nella loro precaria
impalpabilità. Vale la pena di notare una predilezione per le caricature, che avvicina Kafka ad un
altro campione dell’intransigenza esistenziale, lo scrittore e poeta (anche lui postumo) Carlo
Michelstaedter, la cui Opera grafica e pittorica, pubblicata da Sergio Campailla nel 1975, ha
consentito di scoprire un’inaspettata leggerezza caustica e una mano felice e competente.
Nell’agitato clima primonovecentesco erano del resto piuttosto comuni questi sconfinamenti tra le
diverse arti: per restare nell’area mitteleuropea, pensiamo che Arnold Schönberg dipingeva; il
polacco Bruno Schulz aveva iniziato la sua carriera come incisore; il sommo Alfred Kubin, che
conobbe personalmente e frequentò Kafka, anche se dal punto di vista figurativo non appare un
modello influente, scriveva e illustrava il capolavoro allucinatorio L’altra parte.
Per Kafka, invece, la pratica del disegno non trovò mai, al di fuori delle cerchie di amici e
corrispondenti, riscontri pubblici o editoriali, nonostante le convinzioni e i tentativi in tal senso di
Brod, che per tre volte cercò di imporre l’amico come illustratore o copertinista di un proprio libro,
ma senza successo.
Al netto delle sovrainterpretazioni che fanno capolino in alcuni punti del lungo e informato saggio
di Kilcher, la grafica di Kafka appare comunque ben inserita in quel clima che da Praga si apriva ai
fermenti delle avanguardie europee: troviamo, nella sua cultura visiva, echi di “espressionismo” in
senso lato (vengono alla mente Grosz, Munch, Klee…), forse di cubismo o perlomeno delle
ricerche post-Cézanniane (il joueur de cartes del disegno 25, che potrebbe sfiorare anche anche la
moda figurativa delle maschere africane)…
E insomma, quanto sono kafkiani i disegni di Kafka? Chi si aspettasse un equivalente visivo del
Processo o della Metamorfosi resterebbe deluso; siamo piuttosto vicini all’atmosfera di
concitazione febbrile e visionaria dei primi racconti, sia dal punto di vista del ductus grafico sia da
quello dei motivi e dei temi: i molti cavalli disegnati tra il 1901 e 1907 sono parenti di quelli che
compaiono praticamente in ogni racconto di Un medico di campagna; insetti che possano fare
compagnia a Gregor Samsa non se ne trovano, ma un roditore gigantesco e deforme (usato come
cavalcatura!) ci porta dalle parti della Tana o di Giuseppina, la cantante del popolo dei topi; e la
scena di supplizio con il complicato strumento di tortura fa ovviamente pensare a Nella colonia
penale. Ma di suggestioni del genere ce ne possono essere tante altre: uno dei meriti –non l’ultimo–
di questo libro è appunto quello di mettere in moto una fantasmagorica giostra di pareidolie
kafkiane.

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