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MICHAEL LOWY

B
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possibile dire qualcosa di nuovo
su Kafka? È la scommessa di
questo libro, che ci guida nel labirinto
kafkiano individuando un filo rosso
che collega la rivolta contro il padre,
la religione della libertà, d'ispirazione
ebraica eterodossa, e la protesta,
d'ispirazione libertaria, contro il
potere micidiale degli apparati
burocratici. Questo filo rosso è la
passione antiautoritaria che attraversa
tanto la vita quanto l’opera di Kafka e
che conferisce a entrambe una
coerenza straordinaria, nonostante la
tragica incompiutezza dell’una e
dell’altra. Chiaramente non si tratta di
una coerenza teorica - benché
un’attenta lettura della biografia di
Kafka evidenzi i suoi contatti con
l’anarchismo praghese - ma di una
sensibilità, di un atteggiamento
esistenziale che attraversa la sua opera
narrativa in un movimento di
crescente universalizzazione e
astrazione del potere. Per parafrasare
Walter Benjamin, le opere di Kafka
passano in contropelo l’immagine
troppo rassicurante del potere della
Legge e dello Stato moderno. Ed è
proprio questo desiderio di libertà,
questa insubordinazione verso
qualunque autorità, che ci fanno
cogliere la dimensione sovversiva
della sua opera, che pone Kafka tra i
maggiori ispiratori dell’immaginario
libertario del Novecento.

€ 13,00

In copertina: particolare da Ritratto di Kafka


nel 1924, xilografia di Sergio Birga (2003)
zw

MICHAEL LÖWY
nato in Brasile nel 1938, vive e
lavora a Parigi, dov’è direttore di
ricerca presso il cnrs. Ha scritto
una ventina di libri, tra i quali
sono usciti in italiano: Dialettica e
rivoluzione (Jaca Book 1974),
Redenzione e utopia (Bollati
Boringhieri 1992), La stella del
mattino (Massari 2001), Sognatore
d’incendio (Bollati Boringhieri
2004).

zs

MICHAEL LÖWY

KAFKA
SOGNATORE RIBELLE

elèuthera
Titolo originale: Franz Kafka rêveur insoumis
Traduzione dal francese di Guido Lagomarsino
© 2004 Éditions Stock
© 2007 Elèuthera
con la collaborazione dell’Agenzia Servizi Editoriali, Milano

Progetto grafico di Ferro Piludu

Ouvrage publié avec le concours du Ministère français chargé


de la Culture - Centre National du livre
Quest’opera è stata pubblicata con il contributo
del Ministère français de la Culture - Centre National du livre

il nostro sito è www.eleuthera.it


e-mail: info@eleuthera.it
INDICE

INTRODUZIONE
Catene di carta protocollo 7

I. «Non dimenticare Kropotkin!», Kafka e il socialismo libertario 15


II. Tirannie: dall’autocrazia paterna agli apparati impersonali 43
III. Il processo, da Mendel Beiliss, il paria ebreo, a Joseph K.,
la vittima universale 67
IV. La religione della libertà e la parabola Dinnanzi alla Legge 83
V. Il Castello, dispotismo burocratico e servitù volontaria 101
VI. Digressione aneddotica: Kafka era realista? 121
VII. Una situazione kafkiana 129
INTRODUZIONE

CATENE DI CARTA PROTOCOLLO

È possibile dire qualcosa di nuovo su Kafka? È la scommessa di


questo libro. Mi sembra, infatti, che sia arrivato il momento di os­
servare la sua opera con uno sguardo diverso per dare conto della
sua affascinante forza ribelle.
Nel celebre saggio su Kafka, Walter Benjamin lanciava un am­
monimento (purtroppo poco ascoltato): «All’interno dei suoi scritti
si deve avanzare a tastoni, con prudenza, con circospezione, con
diffidenza»1. Le osservazioni che seguono devono essere conside­
rate un cauto brancolamento, un’ipotesi di lavoro da verificare, un
possibile punto di partenza per future ricerche.
I saggi su di lui, una massa di documenti che aumenta in conti­
nuazione, con il tempo hanno preso la forma e le caratteristiche di
una torre di Babele, per la confusione delle lingue come per la na­
tura interminabile dell’impresa. E un caso che le letture più inte­
ressanti di Kafka siano state proposte da donne? In ogni caso,
posso solo rendere omaggio ad autrici come Hannah Arendt,
Marthe Robert, Rosemarie Ferenczi e Marina Cavarocchi-Arbib, i
cui studi si distinguono nettamente dalla massa un po’ grigia e in­
distinta di buona parte della «letteratura secondaria». Non sempre
concordo con le loro analisi, ma ho ampiamente utilizzato alcuni
loro contributi per sviluppare, in una direzione diversa, le mie per­
sonali riflessioni.
Si può suddividere la maggior parte delle opere sullo scrittore
praghese in sei grandi categorie:

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1. Le interpretazioni strettamente letterarie, che si limitano inten­
zionalmente al testo, ignorando il «contesto»2.
2. Le letture biografiche, psicologiche e psicoanalitiche.
3. Le letture teologiche, metafisiche e religiose.
4. Le letture dalla prospettiva dell’identità ebraica.
5. Le letture socio-politiche.
6. Le letture postmoderne, che portano in generale alla conclu­
sione che il significato degli scritti di Kafka è «inspiegabile».

Queste interpretazioni non sono tutte dello stesso interesse:


certe contengono intuizioni importanti, ma molte tentano di ridurre
l’opera letteraria a un modello prestabilito, interpretando situazioni
e personaggi come simboli o allegorie di un messaggio. Peraltro, a
questa produzione pletorica di letteratura secondaria, ha finito per
aggiungersi negli ultimi anni un nuovo ramo in piena espansione,
quello dello studio delle diverse interpretazioni dell’opera del no­
stro3. A quando una letteratura quaternaria?
In un altro passo noto del suo saggio, Benjamin osserva che ci
sono due modi per fraintendere immancabilmente Kafka: l’ap­
proccio naturale e quello sovrannaturale. In altre parole, le letture
psicoanalitiche e le interpretazioni teologiche. Questa osservazione
mi sembra profondamente giusta. Quelle due dimensioni non man­
cano certamente nell’opera, ma sono aufgehoben, nel senso dia­
lettico del termine: negate-conservate-superate. La dimensione edi­
pica (il violento conflitto con il padre) è per esempio ben presente
negli scritti di Kafka, ma tutta la sua arte consiste appunto nel su­
perare l’aspetto psicologico in un universo immaginario nel quale
si pone la questione dell’autorità in generale. Lo stesso si può dire
per il giudaismo: la condizione ebraica è un punto di partenza es­
senziale, che però non è meno «negato-conservato» in una proble­
matica universale. Come osserva Marthe Robert, la condizione
degli ebrei praghesi, rinchiusi in «un ghetto dalle mura invisibili»,
nell’opera di Kafka (soprattutto nei tre romanzi postumi) diventa
«lo schema di una condizione infinitamente più generale»4. Quanto
al momento teologico, è senz’altro presente, ma in modo indiretto
e «negativo», come cercherò di dimostrare.
Rimane l’interpretazione esclusivamente letteraria. Non c’è dub­
bio che Kafka vivesse solo per la letteratura, che fosse la sua os­
sessione, la sua ragion d’essere, l’unica ancora di salvezza. Era la

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sua risposta a un mondo decaduto. Molti interpreti, partendo da
questa constatazione, che salta agli occhi leggendo i Diari e le Let­
tere, sono caduti in trappola e hanno visto nella letteratura l’og­
getto, il contenuto, la trama dei suoi scritti, trasformati così in una
specie di allegoria elaborata dell’opera letteraria in sé, in un gioco
di specchi che si riflettono a vicenda all’infinito. Ma questa dedu­
zione è illusoria. Anche Musil era ossessionato dalla sua opera, ma
questa non ha per oggetto la letteratura e la Cacania non è un’alle­
goria dei suoi scritti. Ciò che è in gioco, nei romanzi di Kafka, non
c la scrittura in quanto tale, ma il rapporto tra l’individuo e il mondo.
( erto, questo o quel racconto possono avere come oggetto la stessa
letteratura; è il caso, con molta probabilità, della figura di «Odra-
dek» nella famosa parabola La preoccupazione del padre di fami­
glia, secondo la brillante interpretazione di Marthe Robert in Solo
come Kafka5. Sarebbe, però, inutile cercare di applicare questa gri­
glia di lettura ai suoi romanzi e all’insieme dei suoi scritti.
Se si considerano le dimensioni smisurate della letteratura se­
condaria sull’opera di Kafka, perché aggiungere un altro mattone
a tale piramide ermeneutica? Il mio contributo si colloca più sul
versante della «socio-politica», ma tenta anche di articolare gli altri
livelli, grazie a un filo rosso che porta a collegare la rivolta contro
il padre, la religione della libertà (d’ispirazione ebraica eterodossa)
e la protesta (d’ispirazione libertaria6) contro il potere micidiale
degli apparati burocratici: l'antiautoritarismo. Nel suo articolo del
1929 sul surrealismo, Benjamin scriveva: «Dai tempi di Bakunin,
l’Europa manca di una idea radicale della libertà. I surrealisti ce
l'hanno». Questa frase si applica rigorosamente a Franz Kafka.
lo cercherò di seguire quel filo rosso in ordine cronologico, par­
tendo da alcuni dati biografici spesso trascurati, soprattutto riguardo
ai rapporti di Kafka con gli ambienti anarchici praghesi, per ana­
lizzare in seguito i tre grandi romanzi incompiuti e qualcuno dei
racconti più importanti. Utilizzerò anche frammenti, parabole, ele­
menti delle Lettere e dei Diari per fare luce sui grandi testi letterari,
senza comunque prendere in esame la totalità dell’opera. Per que­
sto non ho cercato d’interpretare i primi scritti (quelli anteriori al
1912), né gli ultimi, Giuseppina la cantante o il popolo dei topi, In­
dagini di un cane eccetera. Non sono in grado di affermare se que­
sti testi, come un certo numero di parabole, aforismi e frammenti
vari, confermi o no la mia tesi.

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Non credo di peccare di presunzione quando affermo la novità di
questa interpretazione di Kafka, che si fa guidare da quel «filo
d’Arianna» del labirinto kafkiano che è il desiderio di libertà. In
ogni caso non ho trovato niente d’analogo nella letteratura secon­
daria. Ho solo incontrato, in certe interpretazioni, tracce, frammenti,
intuizioni, qualche passo, che io cito (talora, lo confesso, estrapo­
landolo dal contesto) per sostenere la mia argomentazione. Ma non
ho trovato da nessuna parte un’analisi sistematica dell'opera da una
prospettiva della passione antiautoritaria che l’attraversa come cor­
rente elettrica. Grazie a questa griglia di lettura, i pezzi del puzzle
sembrano trovare la propria collocazione e i principali scritti di
Kafka appaiono sotto il segno di una enorme coerenza. Chiara­
mente non una coerenza teorica, ma di sensibilità.
Questa interpretazione non ha pertanto nessuna ambizione di
essere esaustiva. È un test, un tentativo di mettere in evidenza la di­
mensione straordinariamente critica e sovversiva dell’opera kaf­
kiana, che tanto spesso è rimasta in ombra.
Non si tratta affatto di un’interpretazione asettica, anzi, non man­
cherà di suscitare controversie, discostandosi notevolmente dal ca­
none abituale della critica letteraria sul nostro autore. Il mio tenta­
tivo è profondamente segnato dall’impronta di Walter Benjamin,
non solo dal suo saggio su Kafka del 1934, ma anche e soprattutto
dalle sue diciannove tesi Sul concetto di storia del 1940. In quest’ul­
timo scritto, ecco l’esortazione che rivolge allo storico: «In ogni
epoca bisogna cercare di strappare nuovamente la tradizione dalle
mani del conformismo, che vuole impadronirsi di lei» (Tesi vi).
Questo libro vuole essere un piccolo contributo in tale direzione.
La lettura «politica» che propongo qui, evidentemente, è solo
parziale; l’universo di Kafka è troppo ricco, complesso e mul­
tiforme per poterlo ridurre a una formula univoca. Quale che sia la
pertinenza di un’interpretazione, la sua opera conserva tutto il suo
inquietante mistero e la singolare consistenza onirica, come una
specie di «sogno a occhi aperti» ispirato dalla logica del meravi­
glioso1. Per parafrasare André Breton, la poesia contiene sempre
«un inscindibile nucleo notturno»...
Il termine «politica», d’altra parte, risulta alquanto inappro­
priato. L’interesse di Kafka è lontano le mille miglia da ciò che
normalmente si designa con quella parola, i partiti, le elezioni, le
istituzioni, i regimi costituzionali e così via. Forse sarebbe più

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adatto un termine come «critica». La dimensione critica è spesso
messa in ombra da un certo tipo d’interpretazione accademica. E
tuttavia probabile che sia quello più profondamente avvertito dai
milioni di lettori moderni, per i quali il nome di Kafka è diventato
sinonimo d’inquietudine davanti al sistema burocratico.
Per definire la potenza oppressiva di questo sistema, Kafka ha
inventato un’immagine stupefacente: «Le catene dell’umanità tor­
turata sono di carta protocollo»8. Il termine tedesco, Kanzleipa-
piere, non è facile da tradurre; «scartoffie», la traduzione adottata
da qualcuno, è debole. Meglio sarebbe allora «carta ministeriale».
Kanzlei in genere si traduce «ufficio», ma la traduzione non dà la
ricchezza del senso originale del termine, che deriva dal latino me­
dioevale, cancelleria, un luogo circondato da griglie e barriere, i
■ cancelli» entro i quali si preparano i documenti ufficiali. E una pa­
rola che esce spesso dalla penna di Kafka, nel Processo e nel Ca­
stello, per rendere conto dei luoghi in cui siedono le istanze, luoghi
sempre circondati da altissimi cancelli, visibili e invisibili, che ten­
gono a distanza i comuni mortali. I Kanzleipapiere sono evidente­
mente documenti scritti e stampati: moduli ufficiali, schede di po­
lizia, carte d’identità, atti d’accusa o sentenze di tribunali. La
scrittura è dunque il mezzo con cui le istanze dirigenti esercitano il
proprio potere. Kafka reagisce utilizzando lo stesso mezzo, ma ro­
vesciando completamente la procedura: una scrittura della libertà,
letteraria o poetica, che sovverte le pretese dei potenti.
L’immagine delle «catene di carta» sembra peraltro avere un du­
plice significato: essa allude sia al carattere oppressivo del sistema
burocratico, che assoggetta gli individui con i suoi documenti uffi­
ciali, sia il carattere precario di tali catene, che si potrebbero strap­
pare facilmente, se solo gli umani volessero liberarsene...
Kafka è stato spesso accusato (da György Lukâcs, Günther An­
ders e altri) di predicare, con il suo pessimismo radicale, il fatali­
smo e la rassegnazione. Ma in una lettera al suo amico Oscar Pol­
iak, del 27 gennaio 1904, egli spiegava così la sua concezione del
ruolo della letteratura: un libro non presenta alcun interesse, scri­
veva, se non è «un pugno in faccia che ci risveglia [...], una scure
che spezza il mare di ghiaccio dentro di noi»9. Non sembra proprio
un invito alla rassegnazione...

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Post scriptum

Il ramo paterno della mia famiglia, i Löwy, era originario della


Boemia, proprio come il ramo materno della famiglia di Kafka
(sua madre si chiamava Julia Löwy). Il cognome era molto diffuso
nei territori dell’Impero austro-ungarico e, per quanto ne so, non
esiste nessun legame di parentela tra le due famiglie. Se non quello,
in gran parte mitico, di appartenenza alla tribù dei Leviti, grandi
scribi e incisori di pergamene davanti all’Eterno...
Io ho sentito parlare di Kafka per la prima volta quando ero stu­
dente di liceo in Brasile, ascoltando una conferenza di Mauricio
Tragtenberg sulla «burocrazia nel Castello di Kafka». Mauricio era
un giovane intellettuale ebreo brasiliano, autodidatta (ma più tardi
avrebbe fatto una carriera universitaria), di orientamento marxista-
libertario. Non mi ricordo più i dettagli di quella conferenza, ma a
grandi linee sosteneva che il romanzo era una delle analisi critiche
più interessanti del significato dei poteri burocratici nelle società
moderne. Il mio libro deve molto a quell’intervento lontano ma in­
dimenticabile di quel mio amico scomparso, Mauricio.
Di tutti coloro che facevano parte della cerchia praghese degli
amici di Kafka, l’unico che ho avuto occasione di conoscere di
persona è Samuel Hugo Bergmann, suo compagno di scuola e
primo testimone del suo impegno socialista. Io facevo parte di un
gruppo di studenti di lingua ebraica che egli ricevette, un sabato
pomeriggio del 1963, nella sua casa a Gerusalemme. Ci fece par­
tecipi di alcune riflessioni sulla vita moderna, prendendo spunto da
una scena di vita quotidiana alla quale aveva assistito: due inna­
morati in un parco, tutti presi ad ascoltare... una radiolina a tran­
sistor che trasmetteva qualcosa. La nostra società, osservò Berg­
mann, sta perdendo la capacità di dialogo e di ascolto reciproco:
siamo davanti a una crisi della comunicazione umana, a un declino
dello scambio diretto tra persone a vantaggio di apparecchi sper­
sonalizzati. Fu una lezione indimenticabile di Kulturkritik della ci­
viltà moderna, secondo la migliore tradizione del romanticismo
ebreo tedesco della Mitteleuropa.
L’origine della mia ricerca su Kafka risale a un saggio scritto
negli anni Sessanta, che ha una storia alquanto curiosa. Fu pubbli­
cato con il titolo Kafka e l’anarchismo, in lingua ebraica, nel nu­
mero di aprile 1967 della rivista «Beayot Beinleumiot» (Problemi

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intemazionali) di Tel Aviv. Qualche mese dopo fu tradotto in yid­
dish e uscì sulla «Freie Arbeiter Stimme» (Libera voce dei lavora­
tori) di New York, una rivista americana socialista libertaria. Seguì
poi una traduzione in spagnolo sul periodico anarchico argentino
«Tierra y Libertad» e un’altra, più tarda (1972), in inglese, in forma
di opuscolo, attribuita a un certo «Mijal Levy» (forse una traslitte­
razione argentina dall’yiddish). Io ero del tutto all’oscuro di queste
traduzioni... Nel 1981, però, pubblicai una versione riveduta e cor­
retta in francese, con lo stesso titolo, in un volume collettaneo10 di
studi in onore di Lucien Goldmann. Questo primo saggio deve
molto alla biografia del giovane Kafka di Klaus Wagenbach, ma
già azzarda un’interpretazione dell’opera.
Ho riaffrontato il tema nel 1988, nel mio libro Redenzione e uto­
pia11, dove, in un capitolo intitolato «Kafka: teologia negativa e
utopia negativa», riprendevo e ampliavo le tematiche di quel primo
saggio. Ho avuto occasione di discutere quella versione con il com­
pianto Gershom Scholem, che era interessato alla problematica,
senza per questo condividere la mia analisi. Ho continuato a lavo­
rare su Kafka nel corso degli anni Novanta. Versioni più brevi di al­
cuni capitoli del presente volume sono uscite nelle riviste «Archives
de sciences sociales des religions» (cnrs, Parigi), «L’Homme et la
Société» (Parigi), «Diogènes» (Unesco, Parigi), «Réfractions» (Pa-
rigi-Lione), «Analogon» (Praga), «Salamandra» (Madrid).
Se ho deciso di riprendere la ricerca, è perché sono convinto
che Franz Kafka sia più che mai attuale, più che mai leggibile nelle
nostre ansie, in questo inizio del xxi secolo, che abbia in sé quella
che Benjamin chiamava la Jetztzeit, la «contemporaneità». Oggi
ancora più che all’epoca in cui viveva Kafka, quel sognatore ri­
belle, «le catene dell’umanità sono di carta protocollo».

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Note all’Introduzione

1. Walter BENJAMIN, Kafka per il decimo anniversario della sua morte, in An­
gelus Novus, traduzione di Renato Solmi, Einaudi, Torino 1962.
2. È il caso, soprattutto, di certe correnti del New Criticism negli Stati Uniti,
che vedono in Kafka e Joyce (ai quali si aggiungono talora Musil o T.S. Eliot, e ad­
dirittura Ezra Pound) i fondatori di una estetica «modernista». L'accostamento è
piuttosto artificiale.
3. Un esempio recente, d'altronde abbastanza riuscito, che si autodefinisce «ter­
ziario», è il saggio di Franz R. KEMPF, Everyone’s Darling: Kafka and the Critics
of His Short Fiction, Camden House, Columbia 1994.
4. Marthe ROBERT, Introduzione a Franz KAFKA, Journal, Grasset, Paris
1954, pp. xiv-xv.
5. Marthe ROBERT, Seul comme Franz Kafka, Calmann-Lévy, Paris 1979;
trad, it.: Solo come Kafka, traduzione di Marina Beer. Editori Riuniti. Roma 1993.
6. Il termine «libertario» definisce una corrente del socialismo rivoluzionario
che comprende l’anarchismo, l'anarco-sindacalismo e altre tendenze sociali an­
tiautoritarie (comprese alcune marxiste eterodosse). Questo termine talora, ma non
qui, indica anche un movimento della destra neoliberale (soprattutto negli Stati
Uniti) che si propone di ridurre o addirittura eliminare lo Stato a vantaggio del mer­
cato e della libera concorrenza capitalista...
7. L’espressione «logica del meraviglioso» (Logik im Wunderbaren) compare
nella recensione della Metamorfosi del critico Oskar Walzel apparsa sul quotidiano
«Berliner Tagblatt» del 6 luglio 1916. Cfr. Oskar WALZEL, Logik im Wunderba­
ren, in Jurgen BORN et ai, KAFKA-Symposium, Verlag Klaus Wagenbach, Berlin
1965, p. 140.
8. Gustav JANOUCH. Gespräche mit Kafka, Erweiterte Ausgabe, Fischer Ver­
lag, Frankfurt am Main 1968, p. 165; trad, it.: Conversazioni con Kafka, traduzione
di Maria Grazia Galli, Guanda, Parma 2005, p. 140. La versione italiana dice: «Le
catene dell’umanità sofferente sono fatte di carta da ufficio».
9. Franz KAFKA, Briefe 1902-1924, Fischer Verlag, Frankfurt am Main 1975,
pp. 27-28.
10. Essais sur les formes et leurs significations, Médiations, Paris 1981.
11. Michael LÖWY, Rédemption et Utopie. Le judaisme libertaire en Europe
centrale, puf, Paris 1988; trad, it.: Redenzione e utopia. Figure della cultura ebraica
mitteleuropea, Bollati Boringhieri, Torino 1992.

14
I
«NON DIMENTICARE KROPOTKIN!»,
KAFKA E IL SOCIALISMO LIBERTARIO

È evidente che non si può ridurre l’opera di Kafka a una dottrina


politica, quale che sia. Kafka non presenta discorsi, ma crea per­
sonaggi e situazioni, esprime nelle sue pagine sentimenti, atteg­
giamenti, una Stimmung. Il mondo simbolico della letteratura non
è riducibile a quello discorsivo delle ideologie, l’opera letteraria
non è un sistema concettuale astratto, sulla falsariga delle dottrine
filosofiche e politiche, ma è creazione di un universo immaginario
concreto, fatto di personaggi e di cose1.
Questo, però, non c’impedisce di ricercare i passaggi, i punti di
collegamento, i legami sotterranei tra il suo spirito antiautoritario,
i sentimenti libertari, le simpatie socialiste, da un lato, e i suoi
scritti principali dall’altro. Sono vie privilegiate per accedere a
quello che potemmo chiamare il suo paesaggio interiore.

Le inclinazioni socialiste di Kafka si erano manifestate assai

15
presto: secondo il suo amico d’infanzia e compagno di liceo Hugo
Bergmann, il giovane Kafka, per manifestare le proprie opinioni,
portava un nastrino rosso all’occhiello della giacca. L’amicizia tra
i due s’era un po’ raffreddata nell’ultimo anno di scuola (1900-
1901) perché «il suo socialismo e il mio sionismo erano troppo
forti»2. Quel dissidio non impedì a entrambi di reagire nello stesso
modo davanti al nazionalismo tedesco. Quando, a un incontro
dell’Unione degli studenti tedeschi di Praga, cui appartenevano
tutti e due, fu intonato il rituale Wacht am Rhein, i due amici ri­
masero seduti e per conseguenza furono messi immediatamente
alla porta3...
Di quale socialismo si tratta? Non esistono testimonianze che at­
testino rapporti del giovane Kafka con la socialdemocrazia ceca o
austriaca. Come non ce ne sono, d’altronde, su eventuali rapporti
con il partito comunista della nuova Repubblica cecoslovacca negli
anni del primo dopoguerra, anche se uno dei fondatori di quel par­
tito, Stanislav K. Neumann, conosceva lo scrittore e aveva pubbli­
cato Il fuochista su una rivista letteraria ceca nel 1920. In ogni
caso, l’adesione al socialismo di Kafka, di cui parla Bergmann, è di
molto anteriore all’ottobre 1917.
E vero che Kafka aveva manifestato un interesse per la rivolu­
zione russa: in una lettera del settembre 1920 a Milena, fa riferi­
mento a un articolo sul bolscevismo che aveva prodotto una forte
impressione, come rileva, nel «mio corpo, i miei nervi, il mio san­
gue». Secondo i curatori della nuova edizione tedesca delle lettere
a Milena, si trattava di un articolo di Bertrand Russell, intitolato
Sulla Russia bolscevica, apparso sul «Prager Tagblatt» del 25 ago­
sto 1920. Ma Kafka aggiunge questa frase, che mi sembra molto
importante: «A dire il vero, non l’ho preso esattamente così com’è,
ma ho cominciato a fame una trasposizione per la mia orchestra».
Questa osservazione si applica in modo generalizzato a tutte le
cose che lo hanno «influenzato»: non si tratta mai di una ricezione
passiva, ma di una rielaborazione selettiva, di una singolare «messa
in musica»4. Vediamo qual è il contenuto dell’articolo di Bertrand
Russell, per meglio capire la presa di posizione di Kafka. Quel
testo, il primo di una serie di cinque pubblicati sul periodico lon­
dinese «The Nation» nel luglio e agosto 1920, tenta di tratteggiare
un giudizio equilibrato del potere sovietico, mettendo in luce tanto
la dedizione alla causa dei bolscevichi (che Russell paragona ai

16
puritani di Cromwell per la loro «combinazione di democrazia e
lede religiosa [e] l’inflessibile obiettivo politico e morale»), quanto
le loro tendenze dittatoriali e la loro intolleranza. Nella lettera a
Milena Kafka spiega che ha eliminato la fine dell’articolo, perché
contiene critiche che non gli sembrano giustificate. Quali? Russell
criticava, nell’ultimo paragrafo di quell’articolo, quelle che egli
definiva le tendenze imperialiste dei bolscevichi nella riconquista
ilella Russia asiatica, e prevedeva che in breve tempo il loro potere
sarebbe stato simile a quello «di qualunque altro governo asiatico».
Questa osservazione era parsa fuori argomento a Kafka: sono ac­
cuse «che non sono al loro posto nell’insieme»5.
Il suo punto di vista è chiarito in un’altra lettera a Milena, suc­
cessiva di qualche settimana: «Io non so se hai capito la mia osser­
vazione sul bolscevismo. Ciò che gli viene rimproverato dall’au­
tore, giustifica ai miei occhi i più alti elogi possibili qui sulla terra
(höchste auf Erden mögliche Lob)»6. A quale critica di Russell fa
riferimento? Non a quella del paragrafo eliminato, perché Milena
non poteva conoscerlo, ma a un’argomentazione più generale di
quell’articolo. Il filosofo inglese trovava molte cose da rimprove­
rare ai comunisti russi, ma quella che gli sembrava più pericolosa
era l'idea di estendere la rivoluzione su scala mondiale, il loro in­
ternazionalismo fanatico: «Il vero comunista è completamente in­
ternazionale. Lenin, per esempio, [...] non è più attento agli inte­
ressi della Russia che a quelli di altri paesi; la Russia è, in questo
momento, la protagonista di una rivoluzione sociale e, in quanto
tale, ha un valore per il mondo, ma Lenin sarebbe pronto a sacrifi­
care la Russia piuttosto che la rivoluzione, se dovesse presentarsi
questa scelta alternativa»7. In altri termini, quello che a Kafka sem­
bra degno di lode nei rivoluzionari russi è appunto ciò che Russell
contesta loro, ovvero un impegno radicalmente internazionalista.
Vedremo come quella sensibilità da «socialista cosmopolita» di
Kafka sia confermata da certe testimonianze8.
Gustav Janouch gli attribuisce questo commento, in una con­
versazione del 1920: «In Russia stanno tentando di costruire un
mondo perfettamente giusto. È una vicenda religiosa». Kafka vede
nel bolscevismo una specie di religione; e il blocco economico e gli
interventi contro la Russia gli sembra che annuncino «grandi e ter­
ribili guerre di religione che infurieranno sul mondo»9. Queste frasi
attestano un interesse (critico) per l’esperienza sovietica, ma allo

17
stato attuale della documentazione nulla fa pensare a un rapporto
qualunque tra lo scrittore e il movimento comunista. Nessun testi­
mone l’ha mai incontrato a una riunione di comunisti cechi e nei
suoi scritti personali (lettere e diari) non si fa cenno ad autori rap­
presentativi di questa corrente politica10.
Invece molte testimonianze di contemporanei parlano della sim­
patia che egli nutriva per i socialisti libertari cechi e della sua par­
tecipazione ad alcune loro iniziative. Dunque, bisogna orientare in
questa direzione le ricerche, se si vuole sapere quale sia il sociali­
smo «troppo forte» (come dice Bergmann) del giovane Kafka.
All’inizio degli anni Trenta, mentre faceva ricerche per la stesura
del suo romanzo Stefan Rott (1931), Max Brod aveva raccolto al­
cune indicazioni da uno dei fondatori del movimento anarchico
ceco, Michal Kacha. Esse riguardano la presenza di Kafka alle riu­
nioni del Mladych (Club dei Giovani), organizzazione liber­
taria, antimilitarista e anticlericale frequentata da molti scrittori
cechi, come Stanislas K. Neumann, Michal Mares, Jaroslav Hašek,
Frana Srâmek. Brod inserì queste informazioni, che gli erano state
«confermate da un’altra fonte» (purtroppo non indicata), nel suo
romanzo e scrisse che Kafka «assisteva spesso, in silenzio, alle riu­
nioni del Club. Kacha lo trovava simpatico e lo chiamava ‘Klidas’,
che potremmo tradurre ‘il taciturno’ o, più precisamente, secondo
il dialetto ceco, ‘colosso di silenzio’». Max Brod non ha mai messo
in dubbio l’autenticità di quella testimonianza, che citerà ancora
nella sua biografia di Kafka1 *.
La seconda testimonianza è quella dello scrittore anarchico Mi­
chal Mares, che aveva conosciuto Kafka incontrandolo per strada
(erano vicini di casa). Di questo documento esistono due versioni un
po’ differenti: la prima è apparsa nel 1946 in una rivista ceca, senza
attirare l’attenzione; la seconda, più dettagliata e probabilmente più
precisa, è stata pubblicata in allegato al pregevole libro di Klaus
Wagenbach sul giovane Kafka (uscito in Germania nel 1958), che
è la prima opera che mette in luce i rapporti dello scrittore con gli
ambienti libertari praghesi12. Secondo Mares, Kafka aveva parteci­
pato, dietro suo invito, a una manifestazione contro l’esecuzione di
Francisco Ferrer, l’educatore libertario spagnolo, nell’ottobre del
1909. Durante gli anni 1910-12 avrebbe preso parte ad alcune con­
ferenze anarchiche sull’amore libero, sulla Comune di Parigi, per la
pace e contro l’esecuzione del militante parigino Liabeuf, organiz­

18
zate dal Club dei Giovani, dal circolo Vilem Körber (anticlericale e
antimilitarista) e dal movimento anarchico. In occasione di queste
riunioni avrebbe incontrato un ex compagno di studi, Rudolf II-
lowy, oltre a vari scrittori e poeti, come Stanislas K. Neumann,
I rana Sramek, Karel Toman o Jaroslav Hašek. E una volta avrebbe
addirittura pagato cinque corone di cauzione per far liberare il suo
amico dalla prigione. Mares sottolinea, come Kacha, il silenzio di
Kafka: «Per quanto ne so, Kafka non faceva parte di nessuna di
quelle organizzazioni anarchiche, ma aveva per esse una forte sim­
patia, da uomo sensibile e aperto ai problemi sociali. Però, nono­
stante l’interesse che nutriva per quelle riunioni (vista la sua assi­
duità), non interveniva mai nelle discussioni». Lo stesso interesse si
sarebbe manifestato anche nelle sue letture: Parole di un ribelle di
Kropotkin (il libro gli era stato regalato dallo stesso Mares), gli
scritti dei fratelli Reclus, di Bakunin e di Jean Grave13.
Esiste un’altra versione dei ricordi di Mares, inedita, che non si
differenzia molto dalle due precedenti, salvo per qualche dettaglio,
ma in cui si trova la seguente osservazione: «Mi ricordo della col­
lera di Kafka contro i giovani americani quando venne a sapere
che la redattrice di ‘Mother Earth’, Emma Goldman, questa donna
generosa e coraggiosa, era stata spogliata in pubblico e cosparsa di
catrame e di piume»14. Con ogni evidenza Mares ha sovrapposto
due fatti diversi: il primo, del 1909, riguarda le molestie organiz­
zate da un gruppo di giovani studenti ai danni di Emma Goldman,
in occasione di una conferenza da lei tenuta all’università di Ann
Arbor nel Michigan (dove essa riuscì comunque a parlare); il se­
condo, del 1911, riguarda il sequestro a San Diego di un amico di
Emma, Ben Breitman, da parte di una banda di vigilantes, che
l'aveva effettivamente malmenato, spogliato e coperto di catrame
e piume. L'interesse di Kafka per Emma Goldman si spiega non
solo con il fatto che in quel periodo si stava documentando
sull’America, per scrivere il suo primo romanzo, ma anche per la
simpatia e l’attrazione che nutriva per le donne coraggiose e indo­
mite, che non avevano paura di affrontare qualsiasi ostacolo. Nella
corrispondenza e negli scritti del nostro, incontreremo spesso ac­
cenni a queste figure femminili ribelli, il cui archetipo era senza
ombra di dubbio la sorella Ottla, che Franz ammirava per come
sapeva opporsi all’autorità paterna.
11 terzo documento è costituito dalle Conversazioni con Kafka di

19
Gustav Janouch, pubblicate in una prima edizione nel 1951 e in
una seconda, notevolmente ampliata, nel 1968. Questa testimo­
nianza, che si riferisce a uno scambio di corrispondenza con lo
scrittore praghese nel corso degli ultimi anni della sua vita (a par­
tire dal 1920), fa ritenere che Kafka avesse conservato una certa
simpatia per i libertari. Non solo definisce gli anarchici cechi per­
sone «molto gentili e molto divertenti [...] così gentili e amabili
che non si può credere a tutto quello che dicono», ma le idee poli­
tiche e sociali che egli esprime nel corso delle discussioni restano
fortemente segnate dalla corrente libertaria15. Così, la sua visione
del capitalismo come sistema gerarchizzato di dominio è vicina a
quella anarchica, per l’insistenza sul carattere autoritario del si­
stema16. Questa sua visione è esplicitata durante una discussione
con Janouch riguardo a una caricatura di George Grosz che rap­
presenta il capitale come un grassone seduto sui soldi dei poveri.
Secondo Kafka, l’immagine «è insieme giusta e sbagliata. Giusta
solo in un senso. [...] Il grassone con il cappello a cilindro vive
alle spalle dei poveri che opprime, è giusto. Ma è completamente
sbagliato che quel ciccione sia il capitalismo. Egli domina i poveri
nel contesto di un dato sistema, ma non è lui il sistema. Non ne è
nemmeno il padrone. Anzi, anche lui ne porta le catene, che non
sono rappresentate nel disegno. [...] Il capitalismo è un sistema di
dipendenze che procedono [...] dall’alto al basso e dal basso
all’alto. Tutto è dipendente, tutto è concatenato. Il capitalismo è
una condizione del mondo e dell’anima»17.
Parimenti, il suo atteggiamento scettico rispetto al movimento
operaio organizzato sembra ispirato dalla diffidenza libertaria nei
confronti dei partiti e delle istituzioni politiche: dietro agli operai
che sfilano in una manifestazione di strada, «ci sono già i segretari,
i burocrati, i politici di professione, tutti i sultani moderni ai quali
essi stanno preparando la strada... La rivoluzione evapora e resta
soltanto il vaso di una nuova burocrazia. Le catene deH’umanità
torturata sono di carta da ufficio»18. Quale rivoluzione aveva in
mente quando pronunciava queste parole? Quella d’Ottobre del
1917 o quelle della Germania e dell’Austria del 1918-19? È im­
possibile dirlo. In ogni caso, l’ultima frase, quella sulle catene di
carta, non riguarda solo il destino tragico delle rivoluzioni, ma il fe­
nomeno burocratico in ogni sua manifestazione.
Nella seconda edizione delle Conversazioni, che dovrebbe ri-

20
portare la versione completa degli appunti, smarrita nel dopoguerra
e ritrovata molto più tardi, Janouch cita questo scambio di battute
con Kafka: «‘Ha studiato la vita di Ravachol?’. ‘Sì e non solo
quella di Ravachol, ma anche la vita degli altri anarchici. Ho ap­
profondito la biografia e le idee di Godwin, Proudhon, Stirner,
Bakunin, Kropotkin, Tucker e Tolstoj, ho visitato diversi circoli e
raduni, ho investito nella faccenda molto tempo e denaro. Nel 1910
partecipai alle sedute degli anarchici cechi a Karolinental, nella
trattoria Ai due cannoni, dove si riuniva il gruppo anarchico Club
dei Giovani [...]. Qualche volta Max Brod mi ha accompagnato a
queste riunioni, che in fondo però non gli piacevano affatto. [...]
Per me invece tutto ciò era una cosa molto seria. Ero sulle tracce di
Ravachol. Più tardi queste tracce mi condussero a Erich Mühsam,
a Arthur Holitscher, all’anarchico viennese Rudolf Grossmann
|...]. Tutti costoro cercavano di realizzare la felicità umana senza il
ricorso alla grazia. Li capivo. Tuttavia [...] non potei continuare a
marciare a lungo al loro fianco»19. Tutti i critici concordano, però,
sul fatto che questa seconda versione sia meno credibile rispetto
alla prima, soprattutto per la sua origine poco chiara (appunti per­
duti e ritrovati). Per giunta, in questo passo c’è un errore palese:
Max Brod, per sua stessa ammissione, non aveva mai accompa­
gnato l’amico alle riunioni anarchiche, non solo, ma ignorava del
lutto la sua partecipazione alle attività dei libertari praghesi20.
Secondo queste diverse testimonianze, Kafka avrebbe smesso di
partecipare alle riunioni anarchiche dopo il 1912. Per quale ra­
gione? Gustav Janouch, in un libro su «Kafka e il suo mondo» pub­
blicato nel 1965, se la prende con la tesi «totalmente falsa» se­
condo la quale «l’interesse di Kafka per gli anarchici si sarebbe
spento sotto l’influenza dei processi intentati nel 1910 e 1911 con­
no gli antimilitaristi cechi». Una tesi del genere, continua, può es­
sere proposta solo da persone che non hanno mai capito o cono­
sciuto la personalità di Kafka e il «suo impegno integrale per
l'essere umano». Secondo lui, lo scrittore aveva smesso di fre­
quentare quelle riunioni solo a causa del potere dittatoriale che
esercitava allora sugli ambienti libertari un certo Vohryzek, che in
seguito (dopo l’apertura degli archivi imperiali nel 1918) si era
scoperto essere un infiltrato della polizia. Aggiunge poi che, anche
se era rimasto deluso dal dilettantismo degli anarchici praghesi,
Isalka non aveva tagliato del tutto i ponti con molti membri di quei

21
circoli, perché «ne ammirava la lotta, anche con mezzi del tutto
insufficienti, per dare un senso alla vita»21. Come per i testi di Ja-
nouch citati in precedenza, è difficile separare nettamente i ricordi
autentici dalle aggiunte posteriori.
A queste tre testimonianze note, se ne può aggiungere una
quarta, a quanto pare ignorata da tutti i biografi e critici. Si tratta di
un articolo di Leopold B. Kreitner (1892-1969), uscito con il titolo
Ritratto di Kafka da giovane, su una piccola rivista nordamericana.
Secondo Kreitner (ex studente del liceo dove aveva studiato Kafka,
che lo aveva incontrato spesso negli anni 1912-1914), lo scrittore
praghese «negli ultimi anni dell’università e in quelli decisivi che
seguirono si era rivolto, sul piano politico e filosofico, verso una
sorta di cosmopolitismo socialista e aveva respinto qualsiasi forma
di nazionalismo». Kreitner ricorda di avere appreso da Jaroslav
Hašek e da Karel Toman (un poeta anarchico) che Kafka «parteci­
pava spesso» agli incontri del Club dei Giovani, un gruppo di poeti
e scrittori cechi che si trovavano nel piccolo albergo U Brejsku,
«dove si svolgevano discussioni animate di letteratura, arte, filoso­
fia, e si esprimevano opinioni in gran parte anarchizzanti»22.
Si tratta di quattro testimonianze (alle quali si dovrebbe ag­
giungere quella anonima che confermava a Brod le affermazioni di
Kacha) che descrivono con maggiori o minori particolari i legami
di Kafka con gli ambienti socialisti libertari praghesi23.

È probabile che qualcuna di queste testimonianze contenga ine­


sattezze e deformazioni della realtà. Lo stesso Klaus Wagenbach
ammette, riguardo a Mares, che «certi dettagli sono forse sbagliati»
o, quanto meno, «esagerati». Secondo Max Brod, Mares, come
tanti altri testimoni che hanno conosciuto Kafka di persona, «tende
a esagerare», soprattutto per quanto riguarda i propri rapporti di
amicizia con lo scrittore. Quanto a Janouch, se la prima versione
dei suoi ricordi dà un'impressione «di autenticità e di credibilità»,
perché ha in sé i segni distintivi del modo di parlare di Kafka, la se­
conda gli sembra molto meno attendibile24. Ma una cosa è consta­
tare le contraddizioni e le esagerazioni di quei documenti, e
un’altra respingerli in blocco, definendo una «pura leggenda» le
informazioni sui rapporti tra Kafka e gli anarchici cechi. Eppure è
questo l’atteggiamento di alcuni specialisti, come Eduard Gold-
stücker, Hartmut Binder, Ritchie Robertson e Ernst Pawel; il primo

22
( un critico letterario comunista ceco e gli altri tre sono autori di
biografie kafkiane di innegabile valore. Il tentativo di costoro di
eliminare l’episodio anarchico dalla vita di Kafka merita di essere
discusso nei dettagli in quanto ha ovvie implicazioni politiche.
Secondo Eduard Goldstiicker, di cui è noto l’impegno teso a
riabilitare» Kafka in Cecoslovacchia nel corso degli anni Sessanta,
I ricordi di Mares rieditati da Wagenbach «appartengono al regno
della fiction». Il suo argomento centrale è questo: non è concepibile
che rivoluzionari anarco-comunisti abbiano accolto alle proprie riu­
nioni «un uomo che non conoscevano» e che, per giunta, rimaneva
sempre in silenzio. Ora, Goldstiicker sembra non ricordare che
Kafka non era «uno sconosciuto», ma anzi era personalmente noto
a due dei principali organizzatori di quelle riunioni: Michal Kacha
e Michal Mares (oltre ad altri partecipanti come Rudolf lllowy, suo
ex compagno di liceo). Tuttavia Goldstiicker, in qualche modo con-
II addicendosi, finisce per ammettere la partecipazione di Kafka a
iniziative anarchiche e sostiene semplicemente che tale partecipa­
zione non si sia protratta per vari anni, come sosteneva Mares, ma
si sarebbe limitata a «qualche riunione». Ora, Mares stesso cita solo
cinque riunioni e non si vede per quale ragione Goldstiicker re­
spinga in modo così categorico la sua testimonianza25.
Hartmut Binder, autore di una biografia kafkiana molto detta­
gliata e dotta, è colui che sviluppa con maggior decisione la tesi se­
condo la quale i legami tra Kafka e gli ambienti anarchici praghesi
sarebbero una «leggenda» che appartiene al «mondo della fanta­
sia». Wagenbach è accusato di avere utilizzato certe fonti (Kacha,
Mares e Janouch) «gradite alla sua ideologia», ma che «sono prive
di credibilità e sono perfino falsificazioni intenzionali»26.
Un ragionamento del genere non spiega come mai le tre testi­
monianze accusate di essere «poco affidabili» concordino nell’af-
lermare 1’esistenza di rapporti tra Kafka e i libertari, né perché non
si trovino invece testimonianze «false» sulla partecipazione ripe-
iuta di Kafka a riunioni sioniste, comuniste o socialdemocratiche.
In effetti, non è facile spiegare come mai le «falsificazioni» pun­
tino tutte in quella precisa direzione (salvo immaginarsi una co­
spirazione anarchica). Tanto più che, alle tre testimonianze note,
oggetto delle critiche, bisogna aggiungere la quarta, quella di Leo­
pold Kreitner, che sembra ignorata da Binder (e dagli altri critici).
Ma esaminiamo più da vicino le argomentazioni di Binder, la

23
cui ostilità nei confronti di Wagenbach non è aliena da motivazioni
«ideologiche». Secondo lui, «il semplice fatto che Brod sia venuto
a sapere di queste ipotetiche attività solo parecchi anni dopo la
morte di Kafka, da parte di Michal Kacha, già appartenente a quel
movimento anarchico, [...] è una prova contro la credibilità di que­
sta informazione. Infatti è quasi impossibile immaginarsi che Brod,
che all’epoca era andato due volte in vacanza con Kafka e che lo in­
contrava tutti i giorni, [...] abbia ignorato l’interesse del suo mi­
gliore amico per il movimento anarchico». Sia pure, ma se è dav­
vero «quasi impossibile immaginarsi» (osserviamo comunque che
quel «quasi» lascia un margine al dubbio), come si spiega allora
che il principale interessato, cioè Max Brod, considerasse la stessa
informazione perfettamente credibile, visto che l'ha inserita tanto
nel suo romanzo Stefan Rott quanto nella biografia dell’amico? Un
altro argomento avanzato da Binder non è affatto più convincente:
«Ascoltare in una birreria piena di fumo discussioni politiche di un
gruppo che agiva fuori della legalità [...] è una situazione inimma­
ginabile per la personalità di Kafka». Eppure quella situazione non
sembrava affatto strana agli occhi di Max Brod, che pure qualcosa
doveva sapere della personalità del suo amico... In realtà nulla,
nell’opera di Kafka, fa pensare che egli avesse un rispetto quasi re­
ligioso per la legalità27! Nel tentativo di sbarazzarsi una volta per
tutte della testimonianza di Michal Mares, Binder si richiama insi­
stentemente a una lettera di Kafka a Milena, dove si parla di Mares
come di una «conoscenza occasionale». Binder fa questo ragiona­
mento: «Kafka sottolinea esplicitamente che la sua relazione con
Mares era solamente quella di una Gassenbekantschaft (letteral­
mente una conoscenza ‘di strada’). Questo è l’indizio più chiaro del
fatto che Kafka non abbia mai partecipato a una riunione anar­
chica»28. Il minimo che si possa dire è che tra la premessa e la con­
clusione il rapporto non è proprio evidente! Tutto quello che si può
dedurre dalla lettera di Kafka a Milena è che Mares, nella testimo­
nianza del 1946, ha probabilmente esagerato nel descrivere il pro­
prio rapporto di amicizia con lo scrittore, ma non c’è nessuna con­
traddizione tra i loro rapporti episodici e la partecipazione di Kafka
alle riunioni anarchiche cui era presente, tra gli altri, anche il gio­
vane Mares. Anche se le loro relazioni erano limitate a incontri per
la strada (la casa di Kafka era vicina al luogo di lavoro di Mares),
ciò non avrebbe affatto impedito a Mares di consegnare volantini o

24
invili alle riunioni e alle manifestazioni, di notarne la presenza a
certe iniziative e nemmeno di regalargli una copia del libro di Kro-
|H)tkin. Nella lettera a Milena citata, Kafka si lamenta del compor­
tamento irritante di Mares, ma nello stesso tempo accenna all’anto­
logia di poesie che quest’ultimo gli aveva dato, Policejni stara
( Pattuglie di polizia), definendola «eccellente»29.
Mares dispone di una prova materiale dei suoi rapporti con
Kafka: una cartolina speditagli dallo scrittore datata 9 dicembre
1910. Egli sostiene (ma è un’asserzione che è impossibile verifi­
care) di avere ricevuto dal suo amico numerose lettere che sono
andate perse in occasione delle numerose perquisizioni effettuate a
casa sua in quel periodo. Binder prende atto di quel documento
ina, basandosi sul fatto che la cartolina era indirizzata a «Josef
Mares» (e non Michal), pensa di poterne ricavare un’altra prova
delle «falsificazioni» del teste: sarebbe del tutto inverosimile che,
un anno dopo avere fatto la conoscenza di Mares e partecipato ac­
canto a lui a diverse serate del Klub Mladych, Kafka «non cono­
scesse nemmeno il suo nome». È un ragionamento che non regge,
(ter una ragione semplicissima: secondo i curatori tedeschi della
corrispondenza tra Kafka e Milena, il vero nome di Mares non era
Michal ma... Josef30.
Veniamo alle testimonianze di Janouch. Binder respinge, come
pura invenzione, la versione del 1968 delle sue memorie, ma il ri­
ferimento agli anarchici del 1951 gli sembra che possa «fondarsi su
un ricordo autentico». Si affretta tuttavia a minimizzarlo, asso­
ciandolo al passo citato della lettera a Milena che presenta il poeta
Michal Mares come una «conoscenza occasionale». Nella conver­
sazione riportata da Janouch, però, non si tratta di una persona in­
contrata per la strada, ma di «anarchici», al plurale, «gentili e ama­
bili», il che fa pensare che Mares non sia l’unico militante
libertario incontrato da Kafka31.
In senso generale, la discussione condotta da Binder su questo
argomento dà l’impressione penosa di un attacco deliberato e si­
stematico per cancellare dall’immagine di Kafka la macchia nera
che sarebbe (da un punto di vista politico conservatore) la sua par­
tecipazione alle riunioni organizzate dai libertari praghesi.
Qualche anno dopo, in una biografia peraltro del tutto degna
(l'interesse, Ernst Pawel sostiene apparentemente le stesse tesi di
Binder: si tratta di «togliere di mezzo uno dei più grandi miti» le-

25
gati alla persona di Kafka, ovvero «la leggenda di un Kafka cospi­
ratore all’interno del gruppo anarchico ceco del Klub Mladych».
Tale leggenda sarebbe dovuta «ai fertili ricordi dell’ex anarchico
Michal Mares che, nelle sue memorie un po’ fantasiose pubblicate
nel 1946, descrive Kafka come un amico e un compagno che pren­
deva parte alle riunioni e alle manifestazioni anarchiche». La sto­
ria di Mares, «sulla quale in seguito avrebbe ricamato Gustav Ja-
nouch, si ritrova in diverse biografie di Kafka, che ce lo presentano
come un giovane cospiratore e come un compagno di strada del
movimento di liberazione ceco. La vicenda, però, è completamente
smentita da tutto quello che si sa della sua vita, delle sue amicizie
e del suo carattere. Già poco credibile come cospiratore, come
avrebbe potuto e addirittura voluto dissimulare il proprio impegno
agli amici più intimi che vedeva tutti i giorni?»32.
La «leggenda» è tanto più facile da smentire in quanto non cor­
risponde a nessuna delle fonti in questione: né Kacha (non citato da
Pawel) né Mares né Janouch (tanto meno Wagenbach) hanno mai
sostenuto che Kafka fosse un «cospiratore all'interno di un gruppo
anarchico». Mares sottolinea esplicitamente che Kafka non era
membro di nessuna organizzazione. Inoltre non si tratta di «cospi­
razione», ma di partecipazione a riunioni che, nella maggior parte
dei casi, erano aperte al pubblico. Quanto alla «dissimulazione agli
amici intimi» (cioè a Max Brod), ho già dimostrato l’inconsistenza
di questa osservazione.
Ernst Pawel fornisce un argomento in più a sostegno della pro­
pria tesi: è «inconcepibile» che «qualcuno che aveva quasi un ruolo
di funzionario» sia sfuggito all’attenzione delle spie della polizia.
I fascicoli della polizia praghese «non contengono la minima allu­
sione alla persona di Kafka»33. L’osservazione è interessante, ma
l’assenza di un nome negli archivi della polizia non è mai stata di
per sé una prova sufficiente di una non partecipazione. D’altronde,
è poco probabile che la polizia disponesse del nome di tutti coloro
che assistevano a riunioni pubbliche organizzate dai vari circoli li­
bertari: era interessata ai «sobillatori», ai dirigenti delle associa­
zioni, più che a coloro che ascoltavano in silenzio...
Pawel, però, si differenzia da Binder in quanto è disposto a ri­
conoscere la validità dei fatti suggeriti da quelle testimonianze, in
una versione edulcorata: «La verità è più prosaica. Kafka cono­
sceva effettivamente Mares [...] e indubbiamente è possibile che

26
ubbia assistito a riunioni o a manifestazioni pubbliche, in quanto
osservatore interessato. Le sue simpatie socialiste sono attestate
■ lu Bergmann e da Brod. [...] Negli anni che seguirono, sembra
> he si sia anche interessato alle teorie anarchiche e non violente di
Kropotkin e di Aleksandr Herzen»34. Non siamo poi tanto distanti
• Lille conclusioni di Wagenbach...
lìsaminiamo ora il punto di vista di Ritchie Robertson, autore di
mi notevole saggio sulla vita e l’opera dello scrittore praghese. A
suo giudizio, le informazioni fornite da Kacha e da Mares devono
essere «trattate con scetticismo». I principali argomenti che ad­
duce al riguardo sono presi a prestito da Goldstücker e da Binder:
> oine mai un gruppo che si riunisce in segreto avrebbe accettato al
suo interno un ospite silenzioso, «il quale, per quel poco che si sa­
peva, avrebbe potuto essere benissimo una spia»? Come sarebbe
.iato possibile che Brod ignorasse completamente la partecipa-
zione del suo amico a quelle riunioni? Che valore attribuire alla
lesiimonianza di Mares, considerando che era soltanto una Gassen-
bckanntschaft di Kafka? Insomma, «per tutte queste ragioni la pre­
senza di Kafka a incontri anarchici sembra proprio solo una leg-
penda». Inutile ritornare su queste obiezioni, delle quali ho già
dimostrato la scarsa consistenza.
La novità interessante nel libro di Robertson è il tentativo di pro­
porre un’interpretazione alternativa delle idee politiche di Kafka:
hi ni socialiste né anarchiche, bensì romantiche, tali idee derivereb­

bero da un anticapitalismo romantico che, secondo lui, non sarebbe


ne di sinistra né di destra35. Ora, se l’anticapitalismo romantico è
mia matrice comune a certe forme di pensiero conservatrici e ad
allie rivoluzionarie, e in questo senso supera effettivamente la di-
• isione tradizionale tra sinistra e destra, resta comunque il fatto che
pii stessi autori romantici si collocano in uno dei due poh di questa
divisione del mondo: il romanticismo reazionario o quello rivolu­
zionario36.
In effetti l’anarchismo, il socialismo libertario, l’anarco-sinda-
• alismo sono esempi paradigmatici di un «anticapitalismo roman-
neo di sinistra». Pertanto, definire romantico il pensiero di Kafka
misa che mi pare del tutto legittima) non esclude affatto che possa
essere «di sinistra» e ispirato da un socialismo romantico di ten-
• lenza libertaria. Come in tutti i romantici, la sua critica della civiltà
moderna è tinta di nostalgia per il passato, rappresentato ai suoi

27
occhi dalla cultura yiddish delle comunità ebraiche dell’Europa
orientale. Con loro condivide la diffidenza verso l’ideologia del
progresso e verso l’idea rassicurante secondo la quale la storia della
civiltà moderna sarebbe quella di un cammino ininterrotto e irre­
versibile verso un mondo più illuminato, più libero e più prospero.
In un suo aforisma Kafka formula questo giudizio lapidario: «Cre­
dere al progresso non vuole dire che un progresso ci sia già stato.
Questo non sarebbe credere (Glauben)». Tale opinione non lo
porta, però, a esprimere idee passatiste come fanno i romantici rea­
zionari; ne trae anzi, in un altro aforisma, conclusioni rivoluziona­
rie: «I movimenti spirituali rivoluzionari, che azzerano tutto ciò
che li ha preceduti, hanno ragione, perché ancora non è successo
niente»37.

L’ipotesi di un interesse di Kafka per le idee anarchiche, sug­


gerita dalle quattro testimonianze citate, è tanto più credibile in
quanto è confermata da numerosi riferimenti nelle pagine intime da
lui scritte. Per esempio, in una lettera a Max Brod del novembre
1917 manifesta il proprio entusiasmo per un progetto di rivista
(«Fogli di lotta contro la volontà di potenza») proposta dall’anar­
chico freudiano Otto Gross38. E, soprattutto, nei suoi diari si trova
questo imperativo categorico: «Non dimenticare Kropotkin!»39.
Certo, non è possibile dire a che cosa si riferisse con quell’escla­
mazione, ma si può almeno tentare di scoprire a quale opera di Kro­
potkin facesse riferimento. Si tratta, con molta probabilità (così ri­
tiene il curatore dell’edizione francese dei Diari) delle Memorie di
un rivoluzionario (1887) nell’edizione tedesca, che secondo Brod
era uno dei libri preferiti di Kafka. Perché s’interessava tanto alla
vita di quel principe russo che aveva sposato la causa rivoluziona­
ria ed era diventato anarco-comunista? Oltre alle peripezie avvin­
centi di un’esistenza nomade e cosmopolita, alle lotte, alla prigionia
e alle evasioni di un pensatore libertario che sognava «la soppres­
sione di tutti i governi», al coraggio e alla determinazione di un
uomo che aveva saputo rompere i legami con la sua classe per ùnire
la propria sorte a quella degli oppressi, che cosa aveva potuto at­
trarlo tanto di quelle memorie? Voglio azzardare un’ipotesi, alla
luce di quanto sappiamo degli interessi personali di Kafka: uno dei
temi forti del libro di Kropotkin è quello della lotta dei figli contro
il «dispotismo dei padri», gran sostenitori del servaggio. Il giovane

28
principe aveva dovuto subire di persona l’autoritarismo paterno, la
sua simpatia andava ai domestici e ai servitori soggetti alla brutalità
e ai capricci del capofamiglia. Per questo aveva preso (per parafra­
sare una formula che Kafka adotta nella Lettera al padre) «le parti
ilei servi», giurando solennemente: «Io non sarò mai come lui!»40.
Secondo Kropotkin, è la rivolta dei giovani delle classi agiate
contro «la schiavitù domestica», fatta di dispotismo paterno e di
una «sottomissione ipocrita da parte delle mogli, dei figli e delle fi­
glie», che li spinge a criticare lo stato di cose esistente e a diventare
••nichilisti», ovvero nemici giurati dell’autocrazia zarista e del ser­
vaggio. In quasi tutte le famiglie ricche, scrive sempre Kropotkin,
era in corso una lotta accanita «tra i padri e i figli e le figlie, che di-
I elidevano il proprio diritto di disporre della propria esistenza se­
guendo il proprio ideale»41. A me pare che sia questa connessione
intima tra la ribellione contro il «giogo domestico» e la rivolta con­
tro lo Stato l’aspetto che poteva interessare lo scrittore praghese,
pai che i particolari del conflitto tra federalisti e centralisti in seno
alla Prima Intemazionale o delle pratiche sindacali degli orologiai
del Jura42.
Lo stesso leitmotiv si ritrova in un altro dei libri preferiti di
kalka, secondo Brod: si tratta di Passato e presente, le monumen­
tali memorie di Aleksandr Herzen, più volte citato nei Diari. Si
può considerare questo grande pensatore russo dell’Ottocento un
\in ialista semi-anarchico (come lo definisce Isaiah Berlin), vicino
a Proudhon, soprattutto in gioventù, e a Bakunin, al quale dedica,
nelle sue memorie, un capitolo pieno di ammirazione43. Anche in
questo caso colpisce l’importanza dello scontro con la tirannia pa­
lei na nella vocazione del ribelle. I passi relativi nelle memorie di
II erzen richiamano, quasi parola per parola, certi paragrafi della
I ettera al padre: «Derisione, sarcasmo e un profondo disprezzo,
II eddo e caustico: ecco le armi che mio padre utilizzava come un
• illista, utilizzandole contro di noi [i suoi figli] e contro i servitori
I. . |. Io ero un estraneo per mio padre e mi sono unito alle came-
11ère e ai servitori, conducendo una piccola guerra contro di lui».
Pur non essendo un anarchico a rigor di termini, Herzen si chie­
deva se «la coscienza razionale e l'indipendenza morale sono com­
patibili con la vita in uno Stato»44.
Un altro autore libertario che aveva attirato l’attenzione di
kalka era il socialista ebreo tedesco Arthur Holitscher (1869-

29
1941 ), la cui opera Amerika heute und morgen ( 1912) fu una delle
fonti principali del romanzo America. Holitscher descriveva in
quel libro le proprie impressioni di un viaggio nell’America del
Nord e non nascondeva la propria simpatia per gli anarco-sinda-
calisti dell’Industriai Workers of the World (iww), per William
Haywood ed Emma Goldman, mettendo a confronto la loro com­
battività e il loro radicalismo con l’incoerenza del «socialismo ac­
cademico» dei dirigenti socialdemocratici, persi nei meandri della
«macchina dei compromessi» (Kompromissmühle') parlamentare45.
Holitscher avrebbe pubblicato la sua autobiografia nel 1924, con il
titolo Lebensgeschichte eines Rebellen (Storia della vita di un ri­
belle), che Kafka leggerà nel marzo di quell’anno, come attesta la
sua corrispondenza. In quell’opera Holitscher racconta della pro­
pria ribellione contro i genitori borghesi (che erano contrari alla
sua attività letteraria), la sua attrazione prima per il socialismo e poi
per l’anarchismo (Ravachol, Reclus, Grave, Kropotkin)46.
Certo, l’attenzione di Kafka non era rivolta soltanto verso le au­
tobiografie di autori libertari. S’interessava anche ad altri percorsi,
soprattutto alle memorie di donne socialiste che avevano votato la
propria esistenza alla lotta per l’emancipazione femminile, come
Lily Braun (sulla quale ritornerò) e Malwida von Meysenbug.
Quest’ultima, democratica rivoluzionaria vicina al socialismo,
amica di Garibaldi e di Mazzini, governante dei figli di Herzen,
combattente del 1848, esule a Londra, aveva fatto fin da giovane la
scelta di «liberarsi dall’autorità della famiglia» per seguire le pro­
prie «convinzioni personali» e battersi per i diritti delle donne47.
Concludiamo questa breve rassegna delle letture libertarie di
Kafka con un autore citato due volte nei Diari, il poeta e scrittore
ceco Frana Sràmek, direttamente impegnato nell’attività dei cir­
coli anarchici praghesi48. Nella biblioteca di Kafka si trova una
copia di Flammen (Fiamme), una raccolta di racconti di Sràmek
d’ispirazione libertaria e antimilitarista, tradotti dal ceco al tedesco
dal suo amico Otto Pick, con un’introduzione di Hermann Bahr,
che presenta l’autore come un seguace del sindacalismo rivoluzio­
nario e discepolo di Georges Sorel49.
Senza «dimenticare Kropotkin», dal 1913 Kafka non partecipa
più alle attività degli anarchici praghesi, pur conservano una sim­
patia nei loro confronti (almeno così suggeriscono le note di Ja-
nouch). La sua attenzione si rivolge sempre di più verso l’ebraismo

30
e (in una certa misura) verso il sionismo. Uno degli elementi che lo
■illira in quella direzione è rappresentato dalle esperienze sociali
delle collettività rurali fondate in Palestina dai pionieri ebrei (ha-
lulzim): i kibbutzim. Secondo Dora Dymant, citata da Felix Welt-
sch, «ogni volta che ne aveva l’occasione, interrogava le persone
che incontrava riguardo alla Palestina. Era particolarmente inte­
ressato al movimento dei pionieri, YHalutz». Janouch mette in
bocca a Kafka la seguente ammissione: «Sogno di partire per la
Palestina come bracciante agricolo o come artigiano»50. Tale inte-
u'sse non è per forza in contraddizione con le precedenti affinità, in
quanto, dall’inizio del secolo fino alla metà degli anni Venti,
quando diventeranno più influenti le concezioni marxiste, una gran
parte del movimento dei kibbutzim era ispirata dalle idee libertarie
ili Kropotkin, di Gustav Landauer e di Martin Buber. Secondo lo
storico libertario Jean-Marc Izrine, «dall’inizio del Novecento le
lesi umaniste e la dottrina anarco-comunista di Pëtr Kropotkin af­
fascinarono i pionieri del movimento dei kibbutzim. I primi kvutzot
le misero in pratica. [...] Quella corrente di tendenza antiautorita­
ria che faceva riferimento a Bakunin e a Kropotkin influenzò la
strutturaautogestionaria dei kibbutzim»5''.
Tale interesse per il kibbutz dimostra come, nonostante il pro­
prio feroce individualismo, Kafka non fosse poi del tutto ostile alle
esperienze collettiviste. Ciò vale anche per un curioso documento
dal titolo La comunità dei lavoratori non possidenti (1918) che
sembra molto vicino al modello delle comuni ebraiche in Pale-
siina, per il suo collettivismo ascetico («pane, acqua, datteri»), la
gestione attraverso un «consiglio dei lavoratori» e l’assenza totale
di qualsiasi proprietà privata. Numerosi commentatori hanno no-
lalo la presenza, in questo progetto, dell’ideale del «lavoratore agri-
I hIo ebreo» sviluppato dalla rivista degli amici sionisti di Kafka,
Selbstwehr», come quella del collettivismo antiproprietario degli
.marchici, da Tolstoj a Kropotkin. Hartmut Binder attira Tatten­
zione sull’affinità tra il progetto utopico di Kafka e le idee del di­
ligente sionista A.D. Gordon, sostenitore della redenzione degli
ebrei attraverso il lavoro manuale. Secondo alcune testimonianze
i date da Binder, sembrerebbe anche che Kafka abbia incontrato
< ìordon in occasione del congresso del movimento sionista socia­
lista Hapoel Hatzair, tenutosi a Praga nel 1920 (anche Martin
Buber aveva partecipato a quel congresso, nel corso del quale

31
aveva pronunciato un commovente discorso in ricordo di Gustav
Landauer, assassinato l’anno precedente). A me, però, sembra che
Binder sia in errore quando tenta di negare ancora una volta qual­
siasi dimensione socialista al progetto di Kafka, presentandolo uni­
camente come espressione di una «mutazione professionale d’ispi­
razione nazional-ebraica». Ricordiamo comunque che la parola
«ebreo» non compare in quel documento, che propone la costitu­
zione di una collettività di lavoratori senza identità nazionale o re­
ligiosa. In realtà, quel progetto di «comunità operaia non possi­
dente» ha una portata universale che oltrepassa il contesto ebraico
che l’ha probabilmente ispirato, e che ha affascinato anche André
Breton, il quale, in un discorso del 1948 al Rassemblement démo­
cratique révolutionnaire (rdr), lo presentò come un esempio da
seguire nel campo delle attività intellettuali52. Ciò detto, non si
tratta del progetto utopico di una nuova società (lo Stato e il capi­
tale continuano a essere presenti), ma di un’esperienza sociale col­
lettivista nel quadro della società esistente.

Nella ricerca degli indizi che attestino l’interesse di Kafka per le


idee libertarie non è affatto mia intenzione voler dimostrare una
pretesa «influenza» degli anarchici praghesi (o di Kropotkin) sui
suoi scritti. Anzi, è lui che ha scelto, sulla base delle sue esperienze
e della sua sensibilità antiautoritaria, di frequentare per qualche
anno quegli ambienti (e di leggere certi testi). In realtà nulla sa­
rebbe più sbagliato del credere che egli abbia voluto trasporre le
proprie simpatie libertarie nelle opere letterarie. Se tra le prime e le
seconde esiste una specie di «aria di famiglia», è perché entrambe
rimandano a qualcosa di fondamentale, a un atteggiamento esisten­
ziale, un Sitz im Lebenpm tratto essenziale del suo carattere. Un
tratto che egli stesso definisce così, non senza una inflessibile du­
rezza, una sincerità impietosa, in una lettera alla fidanzata Felice
Bauer del 19ottobre 1916: «Io che quasi sempre non riesco a essere
indipendente, ho una sete infinita di autonomia, d’indipendenza, di
libertà in tutti i sensi [...]. Qualsiasi vincolo che non è creato da me
stesso, foss’anche contro parti del mio io, è senza valore, m’impe­
disce di avanzare, lo odio o sono molto vicino a detestarlo»53.
Una sete infinita di libertà in tutti i sensi: non si potrebbe defi­
nire meglio il filo rosso che attraversa tanto la vita quanto l’opera
di Kafka, soprattutto quella che si apre nel 1912 e che conferisce a

32
entrambe una coerenza straordinaria, nonostante la tragica incom­
piutezza dell’una come dell’altra.
Quell’ ethos libertario si esprime nelle diverse situazioni che
sono al centro dei suoi principali testi letterari, ma prima di tutto
nel modo radicalmente critico con cui è ritratto il volto ossessivo e
angosciante della non-libertà: l'autorità. Come ha benissimo detto
Breton a proposito di Kafka, «nessun’altra opera è tanto risoluta­
mente schierata contro l’accettazione di un principio supremo
esterno a chi pensa»54.
L’utopia libertaria, però, non compare mai in quanto tale nei
suoi romanzi e racconti: esiste solo in negativo, come critica di un
mondo completamente privo di libertà, soggetto alla logica assurda
c arbitraria di un «apparato» onnipotente. Come ha osservato Franz
Baumer, «la volontà di libertà che motiva i personaggi di Kafka è
il tratto rivoluzionario del suo pensiero e della sua opera; si tratta
sempre di una libertà assoluta»55. Una volta di più non si tratta di
una qualsiasi dottrina politica, ma di uno stato d’animo, di una sen­
sibilità critica, le cui armi principali sono l’ironia, lo humour, quel­
lo humour nero che secondo André Breton è «una rivolta superiore
dello spirito»56.
Un’interpretazione del genere, non c’è dubbio, è in flagrante
contraddizione con le numerose letture metafisiche che propon­
gono come oggetto dei romanzi di Kafka la rassegnazione davanti
alla «condizione umana», in ciò che essa ha di più atemporale.
Theodor Adorno, con una formula che coglie perfettamente nel
segno, aveva già voluto regolare i conti con gli argomenti di quel
genere: «Il tono della sua opera è quello dell’estrema sinistra; ri­
ducendolo all’eterno umano lo si tradisce subito nel modo più
conformista»57. Questa osservazione polemica merita un com­
mento. Adomo non parla di un messaggio, di una dottrina o di una
lesi, ma di un tono, nel senso musicale del termine. È poco proba­
bile che Adomo sia stato a conoscenza delle testimonianze sulle
simpatie libertarie di Kafka. Arriva dunque a questa conclusione
attraverso una lettura immanente dei testi letterari. La sua affer­
mazione sul tono di «estrema sinistra» (un termine che Adomo uti­
lizza molto di rado) dell’opera comporta diverse implicazioni. In
primo luogo, ciò significa che la problematica dell’opera non è
metafisica ma storica: la società (borghese) moderna; poi, che que­
sta società (o civiltà) è presentata da Kafka in modo radicalmente

33
critico, come «infernale»; infine, che tale critica radicale si colloca
nella prospettiva dell’abolizione dell’ordine sociale esistente e
della sua sostituzione con un’umanità libera («redenzione»58).
Insomma, anche astraendo dai contatti di Kafka con gli ambienti
anarchici praghesi, è perfettamente possibile cogliere la dimensione
sovversiva e libertaria della sua opera, grazie a una lettura attenta e
sensibile dei testi. I documenti biografici non fanno che confermare
ciò che emerge dall’analisi «interna» degli scritti letterari59.

Note al capitolo

1. Lucien GOLDMANN, Matérialisme dialectique et histoire de la littérature,


in Recherches dialectiques, Gallimard, Paris 1959, pp. 45-64.
2. Hugo BERGMANN, Erinnerungen an Franz Kafka, in Franz Kafka Exhibi­
tion (catalogue), The Jewish National and University Library, Jerusalem, p. 8. Nella
sua notevole biografia del giovane Kafka, Klaus Wagenbach rileva, a proposito
degli anni del liceo, che «l’atto più deliberatamente indipendente e il più gravido di
conseguenze per la sua vita futura, è indubbiamente la sua brusca adesione al so­
cialismo, a sedici anni. [...] Il socialismo (un elemento piuttosto trascurato fino a
oggi dai suoi biografi) avrebbe avuto un ruolo di primaria importanza nella sua
vita». Klaus WAGENBACH, Franz Kafka. Années de jeunesse (1883-1912), Mer­
cure de France, Paris 1967, pp. 57-58; trad, it: Franz Kafka 1883-1912: biografia
della giovinezza, Einaudi, Torino 1972.
3. Testimonianza di Hugo Bergmann, raccolta da Klaus WAGENBACH, op.
eit., pp. 57-58. Come vedremo più avanti, altri testimoni (Leopold Kreitner) parlano
del «socialismo cosmopolita» e antinazionalista del giovane Kafka.
4. Vedi Franz KAFKA, Briefe an Milena, a cura di Jürgen Born e Michael Mül­
ler, Fischer Verlag, Frankfurt am Main 1983, nota dei curatori a p. 348; trad, it.: Let­
tere a Milena, Mondadori, Milano 1999.
5. Ibid., p. 12.
6. Ibid., p. 229, nell’edizione tedesca a p. 257.
7. Bertrand RUSSELL, Impressions of Bolshevik Russia, «The Nation», Lon­
don, 27 (10, 17, 24, July 31 and August 7). L’articolo citato è alle pp. 460-462, i
successivi alle pp. 493-494, 520-521,547-548, 576-577.
8. Dopo la morte di Lenin la questione sarà al centro del conflitto decisivo, in
seno al partito bolscevico, tra i fautori dell’internazionalismo rivoluzionario

34
I I mckij e l’opposizione di sinistra) e quelli del «socialismo in un solo paese» (Sta­
lin c i suoi partigiani). Nel suo libro sulla politica in Kafka, Dušan Glisovič tenta di
.piegare» questi commenti di Kafka sulla rivoluzione russa come un tentativo di
"Iure colpo su Milena», che era comunista, dimostrandosi favorevole alle opinioni
.li lei. Si tratterebbe di una «strumentalizzazione delle opinioni politiche ai servizio
della relazione sentimentale» (Dušan GLISOV1C, Politik im Werk Kafkas, Francke
\ erlag, Tübingen 1996, pp. 30-31). Temo di non poter prendere sul serio questa
ipotesi... Milena a quell’epoca non era ancora comunista, ma soprattutto Kafka,
. he io sappia, non ha mai adattato le proprie opinioni, politiche e non, al gusto dei
Mini interlocutori!
9. Gustav JANOUCH, op. cit., p. 139.
10. A differenza della rivoluzione russa, i movimenti rivoluzionari dell’Europa
. entrale (a Berlino, Vienna. Budapest) non hanno provocato commenti da parte di
knlka. L’unica eccezione riguarda l’effimera repubblica dei consigli di Monaco
ilei 1919, i cui principali dirigenti (socialisti, comunisti e anarchici) erano ebrei.
Nella sua corrispondenza Kafka si dice turbato per l'esecuzione del comunista
I ugen Levine e per l’uccisione dell'anarchico Gustav Landauer; tuttavia sembra ri­
tenere il ruolo centrale degli ebrei in quel movimento uno sbaglio che rischia di
I h nvocare un’ondata antisemita in Germania, benché nutra solo disprezzo per gli uf-
I h inli austriaci reazionari incontrati durante un pranzo nella sua pensione di Me-
I .mo, che «non perdonano niente agli ebrei comunisti e socialisti: li annegano nella
minestra e li fanno a pezzi con l’arrosto». Vedi Briefe 1902-1924, cit., pp. 274-
275.
11. Max BROD, Franz Kafka. Eine Biographie. Erinnerungen und Dokumente,
I ischer Verlag, Frankfurt am Main 1954; trad, it.: Kafka (una biografia}, tradu­
zione e note di Ervino Pocar, introduzione di Roberto Fertonani, Mondadori, Mi-
Inno 1988.
12. Michal MARES, Setkani s Franzem Kafkou, «Literami Noviny», 15, 1946,
p 85; Come ho conosciuto Franz Kafka, in appendice a Klaus WAGENBACH,
up. cit.
13. Michal MARES, Come ho conosciuto Franz. Kafka, cit.
14. Michal MARES, Franz Kafka, documento inedito in lingua ceca, senza
il.ila, ma posteriore a quello del 1946, cui fa riferimento. Ringrazio Vaclav Tomek,
. I. Il' Accademia delle Scienze della Repubblica Ceca e grande specialista della sto-
I in del movimento anarchico ceco, per avermi messo a disposizione questo docu­
mento.
15. Gustav JANOUCH, op. cit., p. 103.
16. Si veda a questo proposito il commento del filosofo brasiliano Leandro Kon-
iler nella sua opera Kafka, vida e obra, Paz e Terra, Säo Paulo 1979, p. 36.

35
17. Ibid., p. 202. Mi sembra che Kafka si riferisca a due diverse caricature di
Grosz, pubblicate nello stesso periodo: una rappresenta il capitalismo seduto su un
mucchio di banconote, mentre nell’altra, dal titolo Dipendenza voluta dal Signore,
tiene legata una folla di persone attaccate a fili come marionette.
18. Gustav JANOUCH, Kafka m’a dit, Calmann-Lévy, Paris 1952.
19. Gustav JANOUCH, Conversazioni con Kafka, cit., pp. 105-106.
20. Tanto Max Brod quanto Felix Weltsch e Dora Dymant, la compagna dello
scrittore negli ultimi anni di vita, erano convinti dell’autenticità del testo di Janouch
nella sua prima versione, pubblicata nel 1952. Per quanto mi risulta, la critica più si­
stematica alla credibilità del testo di Janouch è stata formulata da Eduard Gold-
stiicker, in un testo uscito nel 1980. Goldstiicker rileva a ragione Terrore a proposito
della visita ai circoli anarchici in compagnia di Brod. Si tratta chiaramente di una
cantonata di Janouch (gli sarebbe bastato rileggere la biografia di Kafka scritta da
Brod per rendersi conto dell’errore), ma Goldstiicker, che ha qualche conto da re­
golare con lui, ne parla come di una «menzogna» e una «falsificazione». La maggior
parte delle sue osservazioni riguarda errori di datazione, di supposti incontri di Ja­
nouch con Kafka a Praga in un periodo in cui lo scrittore si trovava a Merano. Sono
osservazioni pertinenti e non si può non concordare con Goldstiicker sul fatto che il
libro di Janouch contenga numerose inesattezze, soprattutto nella seconda versione.
Di qui a concludere, come Goldstiicker fa all’inizio del suo articolo, che le Conver­
sazioni con Kafka siano, in entrambe le versioni, «testi apocrifi», c’è una bella di­
stanza. Egli pretende, riguardo alle frasi riferite da Janouch, che «chiunque si faccia
convincere che Kafka avrebbe potuto esprimersi in quel modo, non lo conosceva af­
fatto». Un’affermazione curiosa, se si considerano le categoriche dichiarazioni di au­
tenticità da parte di Brod, della Dymant e di Weltsch che, a differenza di Gold­
stiicker, lo avevano conosciuto bene... Vedi Eduard GOLDSTÜCKER, Kafkas
Eckermann? 7,u Gustav Janouchs «Gespräche mit Kafka», in Claude David (a cura
di), Franz Kafka. Themen und Probleme, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen
1980, pp. 238-252. Per una refutazione convincente delle argomentazioni di Gold­
stiicker, rimando al saggio di Whayioung YU-OH, Über die Echtheitsfrage der
«Gespräche mit Kafka» von Gustav Janouch, in Franz Kafkas Selbstbewusstsein,
Francke Verlag, Tübingen 1994, pp. 224-231.
21. Gustav JANOUCH, Kafka und seine Welt, Hans Deutsch Verlag, Wien
1965, pp. 102-104. Secondo Janouch, per la stessa ragione si erano allontanati da
quei circoli anche Stanislas K. Neumann e Jaroslav Hašek.
22. Leopold KREITNER, Kafka as a Young Man, «Connecticut Review», n. 2,
1970, pp. 28-32. Oltre ai due nomi citati, Kreitner ricorda Frana Srâmek e Stanislas
K. Neumann come partecipanti alle riunioni del Club.
23. Mi è impossibile, nell’ambito di questo saggio, analizzare più a fondo le at-

36
Ilvità, l’ideologia e l’evoluzione delle varie componenti del movimento anarchico
I eco. Per questo rimando al magistrale studio di Vaclav TOMEK, Cesky Anarchi­
smus. A jeho publicistika 1880-1925, Filosofia, Praha 2002 (con abstracts in tede­
sco e in inglese); ne esiste una versione più breve in tedesco: Vàclav TOMEK,
I iilk! Öffne deine Augen! Skizzen zum tschechischen Anarchismus von den Anfän­
gen bis 1925, Verlag Monte Verità, Wien 1995.
24. Vedi Klaus WAGENBACH, op. cit., p. 213, e Franz Kafka, in Selbstzeu-
gnisse ( 1964), p. 70; Max BROD. Streitbares Leben 1884-1968, F.A. Herbig, Mu­
nich 1969, p. 170 (trad, it.: Vita battagliera: autobiografia, traduzione di Italo Ali-
i hicro Chiusano, Il Saggiatore, Milano 1967) e Über Franz Kafka, Fischer
Itili herei, Frankfurt am Main, p. 190.
25. Eduard GOLDSTÜCKER, Über Franz Kafka aus der Prager Perspektive
I 96J, in GOLDSTÜCKER, KAUTMAN, REIMANN (a cura di), Franz Kafka aus
l’ruger Sicht, Praha 1965.
26. Hartmut BINDER, Kafka-Handbuch, Band i, Der Mensch und seine Zeit,
Allred Kroner, Stuttgart 1979, pp. 361-362.
27. Ibid., pp. 362-363.
28. Hartmut BINDER, op. cit., p. 364. Vedi Franz KAFKA, Lettres à Milena,
i il . p. 270.

29. Franz KAFKA, Lettres à Milena, cit., p. 270. Secondo Binder, «se Mares gli
m esse davvero regalato Parole di un ribelle di Kropotkin, non si sarebbe trovata nei
///ari di Kafka questa frase: ‘Non dimenticare Kropotkin!’» (Ibid., p. 364). Anche
ni questo caso non è facile vedere il rapporto tra il fatto citato e la strana conclusione
ili Hinder... L’unico aspetto della testimonianza di Mares che sembra poco com­
patibile (ancora) con la lettera di Kafka a Milena, è l’episodio della cauzione che
kiilka avrebbe pagato per la sua liberazione.
30. Michal MARES, in Klaus WAGENBACH, op. cit., p. 254; Hartmut BIN-
I il R, op. cit., pp. 363-364: Franz KAFKA, Briefe an Milena, cit., nota dei curatori,
I». 336.
31. Hartmut BINDER, op. cit., p. 365.
32. Ernst PAWEL, Franz Kafka Koszmar rozumu, Twói Styl, Varsavia 2003;
induzione francese: Franz Kafka ou le cauchemar de la raison, Seuil, Paris 1988,
p. 162.
33. Ibid., p. 162.
34. Ibid., pp. 162-163. In un altro capitolo, Pawel definisce Kafka in un modo
■ he mi pare precisissimo: «Un anarchico metafisico minimamente portato per la po­
llili, a dei partiti». Quanto ai ricordi di Janouch, Pawel li considera «plausibili», ma
ila prendere con «cautela» (p. 80).
35. Ritchie ROBERTSON, Kafka, Judaism, Politics and Literature, Clarendon

37
Press, Oxford 1985, pp. 140-141: «Se si conduce una ricerca sulle inclinazioni po­
litiche di Kafka, non si può che sbagliare se si ragiona nei termini della solita anti­
tesi tra destra e sinistra. Il contesto più appropriato sarebbe quello dell’ideologia che
Michael Löwy ha definito ‘anticapitalismo romantico’ [...]. L’anticapitalismo ro­
mantico (per adottare il termine di Löwy, anche se sarebbe più esatto parlare di
anti-industrialismo) ha diverse versioni [...], ma come ideologia generale trascende
l’opposizione tra destra e sinistra». Robertson si riferisce qui a un primo tentativo
di rendere conto del «romanticismo anticapitalista» in un libro su Lukàcs.
36. Ho cercato di analizzare il romanticismo nel mio libro Pour une sociologie
des intellectuels révolutionnaires. L'évolution politique de Lukàcs, 1909-J929, PUF,
Paris 1976 (citato da Richardson nella traduzione inglese pubblicata a Londra nel
1979) e, più recentemente, con il mio amico Robert SAYRE, in Révolte et mélan­
colie. Le romantisme à contre-courant de la modernité, Payot, Paris 1992.
37. Franz KAFKA, Hinterlassene Schriften und Fragmente, t.. 2., Fischer Ver­
lag, Frankfurt am Main 1992, pp. 114-123. È interessante notare come Arendt para­
goni il rifiuto kafkiano dell’inevitabilità del progresso all’associazione tra progresso
e catastrofe nella famosa Tesi ix, Sul concetto di storia, di Benjamin. Vedi Hannah
ARENDT, Franz Kafka: A revaluation, «Partisan Review», 1944, n. 4, p. 417.
38. Franz KAFKA, Briefe 1902-1924, cit., p. 196. In un altro capitolo parlerò
più estesamente di Otto Gross. Kafka conosceva anche i testi letterari del pensatore
anarchico Gustav Landauer, che sono citati nella corrispondenza con Milena (Let­
tres à Milena, cit., pp. 133 e 202)
39. Franz KAFKA, Journal, cit., p. 292. Nel caso in cui qualcuno sospetti che
io stia proiettando le mie simpatie politiche attribuendole a Kafka, tengo a precisare
che io ho più affinità con le idee di Karl Marx che con quelle di Pëtr Kropotkin...
Semplicemente, mi devo attenere ai fatti: Kafka non ha mai menzionato Marx, né
nei diari né nella sua corrispondenza.
40. Pëtr KROPOTKIN, Mémoires d’un révolutionnaire, Scala, Paris 1989, p.
52; trad, it.: Memorie di un rivoluzionario, Feltrinelli, Milano 1976.
4L Ibid., pp. 305-309.
42. Mares sostiene di avere regalato a Kafka Parole di un ribelle (1885), altro
celebre testo di Kropotkin. Questo libro non figura in nessuno dei repertori noti
della biblioteca di Kafka. Non è escluso che l’abbia letto, nonostante il suo scarso
interesse per i saggi dottrinari, a differenza delle biografie militanti. In ogni caso,
certi temi del libro hanno alcune innegabili affinità con i suoi scritti, in particolare
quando Kropotkin denuncia l’oppressione degli individui da parte «dell'immenso
apparato della Legge e dell’Autorità», con i suoi giudici, i suoi carcerieri e i suoi
boia, e «della macchina del governo, incaricata di mantenere l’ordine esistente», che
«a ogni giro dei suoi ingranaggi fracassati [...] s’inceppa e si arresta» (Pëtr KRO-

38
I't > l'KIN, Paroles d’un révolté, Tops/H.Trinquier, Antony 2002, pp. 177,197-198;
h,ul. it.: Parole di un ribelle, Anarchismo, Catania 1978).
43. Isaiah BERLIN, «Introduction», My Past and Thoughts. The Memoirs of
Alexander Herzen, A. Knopf, New York 1973, pp. xxv-xxxvi. Secondo Berlin, il
li ma principale dell’opera è «l’oppressione dell’individuo, l’umiliazione e la de-
l'iudazione degli esseri umani da parte della tirannide personale e politica». Herzen
detestava, peraltro, «tutto ciò che era accentrato, burocratico, gerarchico» (Ibid., p.
XXIV e p. xxxm).
44. Ibid., p. 69 e p. 50. La prima menzione delle memorie di Herzen compare nei
Diari di Kafka il 23 dicembre 1914.
45. Arthur HOLITSCHER, Amerika heute und morgen, Fischer Verlag, Frank-
lurt am Main 1912, pp. 376-381.
46. Arthur HOLITSCHER, Lebensgeschichte eines Rebellen. Meine Erinne-
nmgen, Fischer Verlag, Frankfurt am Main 1924. Vedi Franz KAFKA, Briefe
1902-1924, cit., p. 478. Nella biblioteca di Kafka o citati nella sua corrispondenza
a trovano altre pubblicazioni d’ispirazione libertaria: le memorie di Tolstoj, due
libri di poesia di Michal Mares, la rivista «Wohlstand für alle», diretta dall’anar-
I Ideo viennese Rudolf Grossmann.
47. Malwida von MEYSENBUG, Memoiren eines Idealisten, Schuster & Loef­
fler. Berlin 1904, vol. 1, P- 185. È Michal Mares che cita questo libro tra le letture
<li Kafka. Per una rassegna delle letture politiche di Kafka, vedi Dušan GLISO-
VIC, op. cit., pp. 20-27.
48. Franz KAFKA, Tagebücher, Fisher Verlag, Frankfurt am Main 1992, pp.
915-923.
49. Frana SRÂMEK, Flammen, Emst Rowohlt Verlag, Leipzig 1913. In uno dei
i acconti una giovane coraggiosa paragona i soldati agli alberi ai quali, in primavera,
impedisce la fioritura, strappando i fiori e spezzando i rami. Rifiutandosi di pie-
! .usi agli ordini, essa finirà vittima della violenza tirannica che aveva denunciato
(pp. 67-69).
50. Vedi Felix WELTSCH, The Rise and Fall ofthe Jewish-German Symbiosis:
Ihr case ofFranz Kafka, «Leo Baeck Institute Yearbook», London, vol. I, 1956, p.
.'75; e Gustav JANOUCH, Conversazioni con Kafka, cit., p. 17. Secondo Klaus
Wagenbach, Kafka era attratto dal socialismo austero delle colonie ebraiche, basate
su un modello di vita semplice e naturale. In un racconto dal titolo Kafka en Pale-
\line, Alain Brossât immagina, con finezza e umorismo, quello che avrebbe potuto
essere nel 1924 il soggiorno di Kafka da bracciante agricolo in un kibbutz deìVHa-
shomer Hatzair (Alain BROSSAT, Tête de loir. Kafka en Palestine, Cent Pages,
Grenoble 1988, pp. 79-112).
51. Jean-Marc IZRINE, Libertaires en Israel, «Débattre», primavera 2003, pp.

39
9-10. Secondo lo storico Yaacov Oved, il movimento Hapoel Hatzair (Il Giovane
Lavoratore), vicino ai kibbutzim, all’inizio degli anni Venti era interessato al pen­
siero libertario: la rivista del gruppo, «Ma’abarot», pubblicò in ebraico un articolo
di Kropotkin intitolato // comunista anarchico (n. 3, 1921) e un saggio sulla sua dot­
trina scritto dal principale ideologo del gruppo, Haim Arlozorov. L’altro movi­
mento legato alle esperienze collettiviste agricole della Palestina, Hashomer Hat-
zair (La Giovane Guardia), era anch’esso vicino alle idee di Landauer e di
Kropotkin. Vedi Yaacov OVED, L’anarchismo nel movimento dei Kibbutz, in
Amedeo BERTOLO (a cura di). L’anarchico e l'ebreo. Storia di un incontro,
Elèuthera, Milano 2001, pp. 202-207.
52. Franz KAFKA, Préparatifs de noce à la campagne, Gallimard, Paris 1957,
pp. 111-112; vedi Hartmut BINDER, op. cit., pp. 506-507, e André BRETON, Ce
grain de merveilleux dans l’aventure, in Œuvres complètes, Gallimard, Paris 1999,
vol. ni, p. 984. Si veda anche Joseph VOGL, Ort der Gewalt. Kafkas literarische
Ethik, Wilhelm Fink Verlag, Münich 1990, pp. 198-200, e Dušan GLISOVIČ, op.
cit., pp. 37-43. Glisovič, dopo avere messo in luce quanto della proposta di Kafka
è dovuto all’anarchismo tolstoiano, la percepisce come una sorta di anticipazione
dei «futuri kibbutzim». In realtà all’epoca i kibbutzim esistevano già da una decina
d’anni e Kafka ne era senza dubbio a conoscenza.
53. Franz KAFKA, Lettres à Felice, in Œuvres complètes, Gallimard, Paris
1989, t. IV, p. 790; trad, it.: Lettere a Felice, Mondadori, Milano 1982.
54. André BRETON, Anthologie de l’humour noir, Éditions du Sagittaire, Paris
1950, p. 264; trad, it.: Antologia dello humor nero, Einaudi, Torino 1996.
55. Franz KAFKA, Sieben Prosastücke, Ausgewählt und interpretiert von
Franz Baumer, Kösel Verlag, Münich 1965, p. 92. Si veda anche il commento il­
luminante di Bill Dodd: «Gli scritti di Kafka non sono espressioni irriflesse di di­
sorientamento e di disperazione, ma critiche finemente formulate al potere, pre­
senti in modo discreto ma provocatorio, che offrono al lettore l’opportunità di un
orientamento valutativo. Il carattere non costrittivo (unobstrusiveness) del metodo
kafkiano non deve renderci ciechi nei confronti della sua volontà di provoca­
zione». Bill DODD, The Case for a Political Reading, in Julian PREECE, The
Cambridge Companion to Kafka, Cambridge University Press, Cambridge 2002,
p. 136.
56. André BRETON, Paratonnerre, introduzione alla Anthologie de l’humour
noir, cit., p. 11.
57. Theodor W. ADORNO, Prismen, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1955, p.
232; trad, it.: Prismi, Einaudi, Torino 1982.
58. Prendo i termini «infernale» e «redenzione» dall’articolo di Adomo su Kafka.
59. Rosemarie FERENCZI, nel suo pregevole Franz Kafka, subjectivité, hi-

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Moire et structures, Klincksieck, Paris 1975, si serve anche lei dell’aggettivo
■■estrema» per definire l’utopia dell’autore del Processo'. «Kafka rivendica un
inondo totalmente giusto, nel nome di tutti coloro che subiscono l’ingiustizia; dice
di no al mondo così come lo descrive. Non c’è dubbio che considerasse con scetti­
cismo la realizzazione di quell’estrema rivendicazione, ma l’avanza comunque,
come fine cui bisogna mirare» (p. 206).

41
II
TIRANNIE: DALL'AUTOCRAZIA PATERNA
AGLI APPARATI IMPERSONALI

Kafka non è un anarchico, ma l'antiautoritarismo, di origine ro­


mantica e libertaria, attraversa tutto il corpo della sua opera narra-
liva in un movimento di crescente universalizzazione e astrazione
ilei potere', dall'autorità patema e personale verso quella ammini­
strativa e anonima. Come osserva benissimo Canetti, «tra tutti i
poeti, Kafka è il maggiore esperto del potere. L’ha vissuto e con­
figurato in tutti i suoi aspetti»1.
Ma di quale potere si tratta? In un passo illuminante, Adorno
sottolinea come l’opera letteraria di Kafka sia «in gran parte la rea­
zione a un potere senza limiti». E aggiunge: «Quel potere di pa-
triarchi invasati, Benjamin lo chiama parassitario: esso si nutre
della vita che schiaccia sotto i suoi piedi»2. La prima osservazione
si applica effettivamente alla maggior parte dei testi di Kafka: una
reazione critica, ironica e insieme trepidante contro le molteplici
manifestazioni di un potere dispotico e illimitato. La seconda ri­

43
guarda essenzialmente La condanna, La metamorfosi e, in parte,
America, i cui eroi sono vittime di «patriarchi invasati». Non è un
caso che Kafka avesse pensato di pubblicare insieme i due racconti
con il primo capitolo del romanzo («Il fuochista») con il titolo co­
mune Ifigli {Die Söhne').
Il primo di quei patriarchi è ovviamente suo padre, Hermann
Kafka. In quell’impressionante documento (una delle chiavi es­
senziali per comprendere la personalità dello scrittore) che è la Let­
tera al padre (1919), Franz si duole del «carattere dispotico» di
Hermann, paragonato più volte a un «tiranno» e a un «autocrate»,
del «terribile processo che incombe tra te e noi e nel quale tu pre­
tendi sempre di essere il giudice». E definisce la propria situazione
di bambino come quella di uno «schiavo, sottoposto a leggi con­
cepite solo per me», davanti a un mondo «infinitamente lontano dal
mio in cui vivevi tu, occupato a dirigerlo, a impartire gli ordini e ad
arrabbiarti se non venivano eseguiti»3. Il «carattere autoritario»
(herrische Temperament) del padre si traduce nel ricorso a ogni
mezzo (insulti, minaccia, sarcasmo oltraggioso) «per esercitare il
suo dominio più severamente» e ottenere dal figlio, con la paura, la
totale sottomissione alla propria volontà. Quel dominio è letteral­
mente senza limiti; in un’immagine sorprendente, Kafka dilata lo
spazio e il corpo del potere patriarcale: «Mi capita d’immaginare la
carta della terra completamente aperta e di vederti steso trasver­
salmente su tutta la sua superficie. E ho l’impressione che a me si
adattino per vivere solo le contrade che tu non copri o quelle che
non sono alla tua portata. Data la rappresentazione che ho della
tua grandezza, quelle contrade non sono né numerose né molto
consolanti...». In effetti, Franz riesce a trovare un rifugio il più
possibile lontano dall’impero paterno nel paese delle lettere4.
La stessa problematica si ripresenta in modo quasi ossessivo
nei Diari, dove Franz, in un appunto del 1911, arriva a parlare del
proprio «odio» nei confronti di Hermann, che non solo lo som­
mergeva in continuazione di rimproveri, ma insultava i suoi amici
Max Brod, trattato da «matto» (meschuggener), e Isaac Löwy, pa­
ragonato a un cane che porta le pulci in casa... Lo scontro con
l’autorità paterna sarà una dimensione costante della sua identità,
come attesta questa nota tardiva, del 1921, che sembra condensare,
in una sintesi sorprendente, il «campo di battaglia» familiare dello
scrittore: «Di recente mi sono immaginato di essere stato vinto da

44
mio padre fin da bambino e che l’orgoglio mi ha impedito di ab­
bandonare il campo di battaglia in tutti questi anni, benché fossi
continuamente sconfitto»5.
Il conflitto non è unicamente psicologico ed edipico, ma s’in­
serisce in un contesto storico più ampio-, da una parte la cultura
politica dell’Impero austro-ungarico (la Cacania così ben descritta
da Musil), che sembra fondere in un unico autoritarismo patema-
lista tutti i detentori di un potere, dal Kaiser in persona fino al sin­
golo pater familias, passando dai capi di gabinetto, dai prefetti e
dagli altri dirigenti; sul fronte opposto un’intera generazione di
giovani intellettuali ebrei nati alla fine dell'Ottocento, attratti da
una visione romantica del mondo, che aspirano intensamente a una
vita dedicata all’arte, alla cultura o alla rivoluzione, rompe così ra­
dicalmente con la generazione dei genitori borghesi, commercianti,
industriali o banchieri, liberali moderati e tedeschi assimilati. In
Franz, poi, il conflitto è esacerbato dall'autoritarismo di Hermann,
dalla sua ostilità verso le attività letterarie del figlio6. Per quest’ ul­
ti mo c’è una relazione evidente tra il «potere senza limiti» del
padre, l’autorità dispotica del «patriarca furioso» (per usare le pa­
role di Adorno) e la tirannia come sistema politico. Egli constata,
d’altronde, sempre nella Lettera al padre, che entrambi fanno ri­
ferimento a una stessa logica; «Tu prendi ai miei occhi il carattere
enigmatico che hanno i tiranni il cui diritto non si basa sulla rifles­
sione, ma sulla loro persona». E aggiunge, commentando il modo
brutale, ingiusto e arbitrario con cui il padre tratta i propri dipen­
denti: «A me resero il negozio insopportabile, mi ricordavano
troppo il mio rapporto con te [...]. Perciò io stavo necessariamente
dalla parte del personale.. .»7.
Qui stanno le radici intime, profonde, personali, della sua incli­
nazione per i socialisti libertari praghesi, la sensibilità antiautori­
taria dei suoi romanzi e racconti. Il suo dichiararsi «dalla parte del
personale» non è un’affermazione gratuita. Come ha osservato
bene Elias Canetti, «Kafka si è messo fin dall’inizio dalla parte
degli umili |...], prova avversione per tutto ciò che s’innalza sul
piedistallo della potenza...»8. La sua simpatia verso i lavoratori è
attestata in diversi passi dei Diari, soprattutto nella descrizione che
la delle condizioni di lavoro nella fabbrica di amianto di proprietà
della famiglia. Lavorano in uno stato di «sporcizia insopportabile»,
abbrutiti dal «frastuono incessante delle trasmissioni e quello iso-

45
lato delle macchine», «sottoposti al più risibile dei poteri», non
sono trattati come «esseri umani [...] nessuno li saluta, nessuno si
scusa quando li urta»9.
Sono numerosi i testi e gli schizzi letterari che descrivono il
comportamento sprezzante, altezzoso e brutale di «chi sta in alto».
C’è, per esempio, il racconto su Bauz (inserito nei Diari), il diret­
tore della compagnia assicurativa II Progresso che chiarisce quanto
segue a un umile disoccupato venuto a chiedere un posto di fatto­
rino: «Qui le suppliche non servono a niente. Non sono autoriz­
zato a distribuire favori. [...] Se ne vada e non stia più a seccarmi»,
una frase accompagnata da un pugno sulla scrivania, mentre
l’uomo viene trascinato fuori dell’ufficio10. O, ancora, il breve
testo Le nuove lampade, dove i funzionari dell’amministrazione
trattano con sprezzante ironia la richiesta perfettamente legittima di
nuove lampade di sicurezza presentata da una delegazione di mi­
natori: «Vaglielo a dire ai tuoi laggiù in fondo: noi c’impegneremo
finché non avremo trasformato la vostra galleria in un salotto e,
soprattutto, finché non ci creperete dentro in scarpe di vernice! Os­
sequi...». Anche nel suo lavoro all’ufficio di assicurazioni, consi­
derato strettamente professionale e neutro, Kafka si permetteva di
tanto in tanto di lasciar trasparire le proprie preferenze. Come in
quel rapporto sugli incidenti di lavoro nell’edilizia civile, nel quale
lamenta «l’assenza della voce della classe operaia (Arbeiter­
schaft)» nel dibattito sulle misure di sicurezza, lacuna che attri­
buisce «a una insufficiente organizzazione dei lavoratori», soprat­
tutto nelle piccole imprese, un’osservazione che parrebbe più
appropriata alla penna di un sindacalista che non a quella del vice-
segretario dell’Ufficio delle Assicurazioni del Regno di Boemia1 *.
Torniamo ancora una volta alla Lettera al padre. Proprio ba­
sandosi su questo documento si può capire la simpatia di Kafka
per altri giovani vittime dell’autoritarismo paterno, come l’anar­
chico freudiano Otto Gross. Nel 1913 costui era stato internato, su
disposizione di suo padre, in un ospedale psichiatrico e sarebbe
stato liberato solo grazie a una campagna di stampa condotta da
scrittori espressionisti. Richiamandosi a Nietzsche, a Freud e a
Max Stirner, Gross attaccava nei suoi scritti la volontà di potenza,
il potere patriarcale e il principio di autorità, nella famiglia come
nella società. Kafka alla facoltà di legge era stato uno studente del
padre di Otto, Hans Gross, autore di un Manuale per giudici istrut­

to
lori, funzionari di polizia e gendarmi nonché fanatico sostenitore
ilella deportazione degli individui «degenerati», come gli «infin­
gardi, gli eterni scontenti, i sovversivi»... Franz conosce il figlio in
occasione di un viaggio in treno nel luglio 1917; poco dopo, nel
corso di un incontro a Praga, Otto Gross propone a Werfel e a
Kafka la pubblicazione di una rivista dal titolo «Blätter zur
Bekämpfung des Machtwillens» (Fogli di lotta alla volontà di po­
tenza). In una lettera a Brod del novembre dello stesso anno, Kafka
manifestava un forte interesse per quel progetto12. E evidente che
( iross rappresentava, ai suoi occhi, la convergenza tra la rivolta
contro la tirannia patema e la resistenza (anarchica) a qualsiasi au­
torità istituzionale.
Lo scrittore svizzero Max Pulver, che conobbe Kafka nel 1917,
olire un’avvincente testimonianza che mette in luce l'intimo con­
nubio di questi due aspetti nel carattere e nella personalità del suo
interlocutore: «Nel processo che egli intentava al mondo aveva
coinvolto non solo suo padre, ma tutti gli altri padri alla stessa stre­
gua e tutte le figure dell’autorità [...]. Si sprigionava uno strano
prestigio dal suo atteggiamento d’insubordinazione, dal suo gusto
per la segretezza, dal suo disprezzo per qualunque forma di auto­
rità: il prestigio dell’intransigenza, sempre dotato di una grande
forza di seduzione»13. Insubordinazione, intransigenza, rifiuto
dell’autorità paterna e di qualsiasi altra forma di autorità: si vede
tratteggiato, in tutto il suo rigore e in tutta la sua forza, lo stato
d'animo in cui Kafka redigeva una parte importante dei suoi scritti.
Prendiamo La condanna (1912). In questo breve racconto che
lappresenta una svolta nella sua produzione letteraria e il punto di
avvio nella redazione delle sue opere maggiori, Kafka rappresenta
soltanto l’autorità paterna. Un giovane commerciante, Georg Ben-
demann, va a trovare il vecchio padre e costui, con pretesti ingan­
nevoli (una presunta mancanza di attenzione nei confronti di un
amico partito per la Russia), lo condanna a morte per annegamento.
Questo racconto di un’estrema crudeltà è uno dei rari testi in cui il
protagonista si assoggetta completamene e senza resistere al ver­
detto autoritario (gettandosi nel fiume)14. Si potrebbe riassumere in
questo modo la straordinaria tensione che attraversa la storia: alla
tirannia patema è impossibile sottrarsi, ma ubbidire ciecamente ai
suoi ordini è una forma di suicidio...
L’interpretazione predominante di questo racconto propende

47
per la colpevolezza del figlio, perché è egoista, perché tende a tra­
scurare i genitori. La logica di una lettura del genere, che si ritro­
verà anche nella letteratura secondaria sul Processo, è implaca­
bile: il padre lo accusa, il figlio accetta la condanna ed esegue la
sentenza, e pertanto deve essere colpevole di qualche cosa... Ma
questo significa solo sfiorare l’essenziale: l’ingiustizia brutale e
del tutto arbitraria del «patriarca furioso»15. Walter Benjamin com­
mentando questo testo osserva che il padre «condanna il figlio a
morte per immersione. 11 padre è colui che punisce. È attirato dalla
colpa come i funzionari della Giustizia. È assai significativo che,
per Kafka, il mondo dei funzionari sia tutt’uno con quello dei
padri»16. Milan Kundera avanza una tesi analoga nel confronto tra
La condanna e II processo'. «La somiglianza tra le due accuse, tra
la colpevolizzazione e l’esecuzione della pena nell’un caso e
nell’altro rivela la continuità che collega l’intimo ‘totalitarismo’
familiare a quello delle grandi visioni di Kafka»17. Tale continuità
è essenziale per comprendere l’atmosfera dei grandi romanzi, ma
non c’è dubbio che questi ultimi contengano un elemento di novità
rispetto alla Condanna', il carattere sempre più anonimo, gerar-
chizzato, opaco e distante del potere. Chi giudica, chi punisce e
uccide, non è più il padre, ma un apparato amministrativo.
Non è superfluo sottolineare ancora come Kafka, in questo rac­
conto come negli scritti che l’hanno seguito, non abbia voluto tra­
smettere nessun «messaggio». Egli scriveva seguendo la propria
ispirazione, senza un fine prestabilito, ed era incapace, una volta
terminata l’opera, di attribuirle una «spiegazione» qualsiasi. Una
lettera a Felice, del giugno 1913, è del tutto esplicita a questo ri­
guardo: «Trovi un significato qualsiasi alla Condanna, voglio dire
un significato diretto, coerente, facile da seguire? Io no e, del resto,
non ci vedo niente che io sia in grado di spiegare»18. Certo, c’è
tanta ironia e autoironia in questa affermazione, ma non per questo
è meno significativa, non solo per questo racconto, ma probabil­
mente per tutta la sua opera. Il che non rende illeciti i tentativi di
spiegazione, ma questi non riguardano una qualche intenzione a
priori dello scrittore.
Anche La metamorfosi (1912) è un racconto sul potere mortale
del padre. Gregor Samsa, trasformatosi a sua insaputa in un gi­
gantesco insetto (Ungeziefer), rischia «a ogni attimo [...] di rice­
vere un colpo mortale sul capo o sul dorso dal bastone in mano al

48
padre». Lo salva soltanto, dalla furia del patriarca, la madre che si
precipita su quest’ultimo e lo implora di risparmiare la vita a Gre­
gor. Ferito, stordito, maledetto e abbandonato da tutti, si lascia mo­
rire: delle sue «esequie» s’incarica la donna di servizio, con una
scopa: «Be’, insomma, non si preoccupi più di come sbarazzarsi di
quella roba (Zeug) là. È tutto sistemato». Per capire questa celebre
e terrificante favola sul «totalitarismo familiare» non è superfluo ri­
cordare che Kafka, nella Lettera al padre, si lamenta di essere da
lui considerato come «un parassita» e «un insetto» (Ungezie­
fer)19... Certo, questa dimensione (senza dubbio importante) non
svuota affatto di «senso» il racconto, che mantiene il suo mistero e,
come ogni opera di poesia, rimane inesplicabile. D’altra parte, pro­
prio per questo racconto fu utilizzata per la prima volta, da Oskar
Walzel nel 1916, l’espressione «logica del meraviglioso».
Amerika, o Der Verschollene (Lo scomparso), del 1913-14, rap­
presenta, nell’ottica delle forme di autorità, un’opera di transizione.
I personaggi dominanti sono figure paterne (il padre di Karl Ros-
smann e lo zio Jakob) ma anche declassati (Delamarche) e alti di­
rigenti (il direttore e il portiere capo dell’hotel Occidental). Tutti si
dimostrano insopportabilmente autoritari, con tratti che si ritro­
veranno nei racconti e nei romanzi degli anni successivi: atteggia­
menti arbitrari, privi di qualsiasi giustificazione (morale, razionale,
umana); pretese smisurate e assurde verso i protagonisti vittime;
ingiustizia (la colpevolezza è considerata, a torto, evidente, ovvia,
smaccata, indubitabile); pene totalmente sproporzionate rispetto
alle «mancanze» (inesistenti o insignificanti).
Chi ubbidisce a tutto senza resistere finisce per diventare «un
cane»: quando si è trattati sempre da cani, dice l’irlandese Robin­
son, «si finisce per credere di esserlo veramente». Il giovane Karl
Rossmann è invece convinto che questo valga solo per «chi lo per­
mette» in qualsiasi circostanza; lui ubbidisce soltanto al verdetto
dei personaggi patemi (padre e zio) e si sforza di resistere a tutti gli
altri, anche fisicamente. I più odiosi sono, senza confronto, i capi
ilella gerarchia amministrativa dell’hotel Occidental, personifica­
zione del principio di autorità. Il maitre d’hotel respinge le propo­
ste concilianti della capocuoca ed esclama: «Si tratta della mia au­
torità, è in gioco qualcosa d’importante: un ragazzo d’ascensore
come questo finirebbe per corrompermi tutta la compagnia»20.
L’autorità burocratica, che finisce per schiacciare il piccolo

49
Karl, posto al livello più basso della «enorme scala gerarchica dei
servitori», conserva tuttavia una dimensione di tirannia personale,
combina la freddezza della burocrazia con un crudele dispotismo
individuale ai limiti del sadismo, soprattutto nel portiere capo, che
prova un piacere sinistro nel brutalizzare il giovane Rossmann.
Il simbolo di questo autoritarismo che si compiace della pena
emerge fin dalle prime pagine del libro: con un'ironica deforma­
zione, Kafka presenta la statua della Libertà, all'ingresso del porto
di New York, mentre brandisce, al posto della tradizionale torcia,
una spada21... In un mondo senza giustizia e senza libertà regnano
indiscussi la nuda forza e il potere arbitrario. La simpatia del pro­
tagonista va alle vittime sofferenti di quella società, come il fuo­
chista del primo capitolo, «un pover’uomo maltrattato dai supe­
riori», o la madre di Teresa, spinta al suicidio dalla fame e dalla
miseria. Karl trova amici e alleati dalla parte dei poveri: la stessa
Teresa, lo studente lavoratore, gli abitanti del quartiere popolare
che si rifiutano di consegnarlo alla polizia, perché, scrive Kafka,
«gli operai non stanno dalla parte dell’autorità»22.
Un indizio ci dice fino a che punto certi burocrati in America
conservino ancora una certa parentela con l’autorità personale pa­
terna: in uno degli uffici dell'albergo si vedono i portieri che fanno
cadere per terra oggetti raccolti e radunati dai fattorini esausti. Ora,
nella Lettera al padre, Kafka descrive in questo modo il compor­
tamento del genitore verso i suoi dipendenti: «Con uno spintone
scaraventavi giù dallo scrittoio merci che non volevi fossero scam­
biate con altre [...] e il commesso doveva raccattarle»23.
Amerika (Der Verschollene) è senza dubbio il romanzo di Kafka
che presenta le maggiori affinità con la critica marxista della società
industriale capitalista. Lo è in modo particolarmente manifesto
nella descrizione dell’attività dello zio e dell’hotel Occidental come
imprese private che sfruttano senza pietà i propri dipendenti. La ri­
vista letteraria comunista «Kmen», infatti, non si sbagliava quando
ne aveva pubblicato, nella traduzione in ceco di Milena Jesenska, il
primo capitolo («Il fuochista»), Kafka non aveva letto Marx, ma
conosceva opere socialiste più o meno ispirate al marxismo. Tra le
sue letture di quegli anni si trovano testi, come quelli di Arthur Ho-
litscher o l’autobiografia di Lily Braun, che contengono elementi di
critica marxista dello sfruttamento e dell’alienazione dei lavora­
tori; lo stesso vale per alcuni articoli pubblicati sulla «Neue Rund-

50
schau», un periodico al quale il nostro era abbonato negli anni
1909-1913, di autori come Eduard Bernstein o Kurt Eisner24.
A me, però, sembra che la critica tratteggiata in questo libro
della società americana e, in particolare, del potere esercitato sugli
umani dagli apparati tecnici moderni sia soprattutto ispirata dalla
protesta romantica contro la Zivilisation borghese, come la espri­
mevano i suoi amici del circolo culturale sionista Bar Kochba, in
particolare nel loro testo collettaneo pubblicato nel 1913, Vom Ju­
dentum, una copia del quale si trova nella biblioteca di Kafka25. Lo
attestano le descrizioni inquietanti del lavoro meccanizzato pre­
diti nel romanzo. I dipendenti dello Zio, titolare di una gigantesca
impresa commerciale, passano le giornate ognuno chiuso nella pro­
pria cabina telefonica, indifferenti a tutto, con la testa serrata in un
nastro d’acciaio; solo le dita si muovono, in modo meccanico, sus­
sultano «con una regolarità (gleichmässig) e una rapidità disu­
mane». Alla stessa stregua, i ragazzi dell’ascensore dell'hotel Oc-
I idental fanno un lavoro estenuante e monotono (einförmig),
passano il tempo a schiacciare bottoni e ignorano ogni aspetto del
funzionamento delle macchine. Negli uffici e nelle strade dilaga un
rumore assordante di suonerie e di clacson, una baraonda frene­
tica che «non sembrava prodotta da esseri umani, ma da un ele­
mento ignoto»26.
Gli esempi potrebbero essere infiniti: tutta l’atmosfera del libro
II vela l’inquietudine e l’angoscia dell’essere umano smarrito in un
mondo spietato, in una civiltà tecnica che gli sfugge. Wilhelm Em-
I ich ha osservato acutamente come quest’opera sia «una critica tra
le più lucide che la letteratura moderna abbia conosciuto della so-
I letà industriale. L’occulto meccanismo economico e psicologico
di questa società, i suoi effetti diabolici sono messi in luce senza
concessioni». Si tratta di un mondo dominato dal ritorno mono­
tono dell’identico, per mezzo della temporalità puramente quanti­
tativa dell’orologio27. Così, l’America del romanzo è percepita
come una Zivilisation senza Kultur. Sembra che lo spirito e l’arte
non vi svolgano più nessuna funzione, l’unico libro menzionato è
un manuale di corrispondenza commerciale28... E noto come una
delle fonti principali del romanzo sia il libro dell'ebreo socialista
Arthur Holitscher, Amerika heute und morgen, pubblicato nel
1912, dove si trova una descrizione dettagliata dell’«inferno» che
mppresenta la civiltà americana moderna e una critica corrosiva

51
del taylorismo: «La specializzazione del lavoro, frutto della pro­
duzione di massa, riduce sempre più l’operaio a livello di una com­
ponente inerte della macchina, di un ingranaggio o di una leva che
funzionano con precisione e in modo automatico»29.
L’aspetto autoritario della civiltà americana, tuttavia, emerge
più nettamente dalle pagine di America che non da quelle di Holit-
scher; è proprio Kafka che riesce a mettere in luce l’onnipresenza
del dominio nei rapporti sociali. La differenza è particolarmente
netta nella lettura del capitolo del libro di Holitscher intitolato
«Hôtel Athenäum, Chautauqua». Vi si parla di un ragazzo addetto
all’ascensore di un grande albergo moderno, peraltro uno studente
di liceo (esattamente come Karl Rossmann all’hotel Occidental).
Ma questo non è affatto oppresso da un’impietosa gerarchia buro­
cratica come l’eroe di Kafka, bensì discute di grammatica latina
con un ricco cliente. Holitscher ne deduce che le differenze di
classe sono meno accentuate in America che in Europa30...
Non c’è dubbio che la diffidenza di Kafka nei confronti della
tecnologia moderna derivi dalla sua esperienza di impiegato
dell’Arbeiter-Unfall-Versicherungs-Anstalt für das Königreich
Böhmen: nel numero crescente di incidenti sul lavoro (documen­
tato in dettaglio dai grafici e dalle illustrazioni delle sue relazioni
professionali) egli vedeva l’oscuro rovescio della medaglia dell’era
trionfante del progresso tecnico31. Come ha compreso benissimo
Max Brod, la sua esperienza «professionale» lo spinge ancora una
volta a mettersi «dalla parte dei lavoratori» (per riprendere
un’espressione della Lettera al padre), in questo caso delle vittime
di incidenti sul lavoro: «Si sentiva violentemente scosso nei senti­
menti di solidarietà sociale quando vedeva le mutilazioni che gli
operai avevano subito a causa di carenze nei dispositivi di sicu­
rezza». Per illustrare quell’atteggiamento, cita una frase di Kafka
che sembra ispirata ai metodi libertari di azione diretta: «Come
sono umili quegli uomini... Vengono a pregarci. Invece di pren­
dere d’assalto gli uffici e devastarli, vengono a implorarci qualche
favore»32.
Le lettere di Kafka in questo periodo rivelano anch’esse il sen­
timento d’angoscia verso la meccanizzazione del mondo: in una
lettera a Felice del gennaio 1913, cita il dittafono come esempio
delle macchine che esercitano «sui lavoratori una costrizione più
forte e più crudele (grausamen) di quella esercitata da un essere

52
umano. [...] Davanti al dittafono l’impiegato è svilito, ridotto allo
stato dell’operaio di fabbrica, che mette il proprio cervello al ser­
vizio del ronzio della macchina»33. Qualche anno dopo, conver­
sando con Janouch, dà libero sfogo alla sua ostilità verso il taylo­
rismo, con un linguaggio dalle risonanze bibliche: «Con un delitto
come questo si arriva ad asservire gli altri per mezzo della malva­
gità. È naturale. La parte più sfuggente e quindi meno esplorabile
dell’intera creazione, il tempo, viene imprigionata in una rete di
impuri interessi economici. In questo modo non solo la creazione,
ma soprattutto l’uomo, che ne è l’elemento costitutivo, viene mac­
chiato e umiliato. Una vita all’insegna del taylorismo è una male­
dizione tremenda da cui, al posto della ricchezza e del guadagno
desiderati, possono derivare solo fame e miseria»34.
Tale ostilità morale e religiosa vero il «progresso» industriale
capitalista, quell’inquietudine tipicamente romantica davanti all'in­
cubo di una vita umana meccanizzata, in Kafka si accompagnano
a una nostalgia della comunità tradizionale, della Gemeinschaft or­
ganica, che lo attira verso la cultura yiddish (e la lingua yiddish)
degli ebrei dell’Europa orientale, verso i progetti di vita rurale in
Palestina, come pure verso il sionismo romantico e intellettuale
dei suoi amici praghesi (sia pure in un modo più ambiguo). Anche
la comunità contadina ceca, che viveva in pace e in armonia con la
natura, suscitava in lui ammirazione e meraviglia: «Impressione
generale che fanno i contadini: sono nobili che hanno trovato rifu­
gio nelle attività agricole e hanno organizzato il proprio lavoro con
tanta saggezza e tanta umiltà da inserirlo senza difficoltà nella to­
talità delle cose e da proteggersi da qualsiasi tempesta e sbatti­
mento fino al giorno felice del loro trapasso. Autentici cittadini
della terra»35. Colpisce un confronto tra questo quadro idilliaco e
pacifico e la descrizione della malsana frenesia del porto di New
York nel primo capitolo di America: «Un movimento senza fine,
un’irrequietudine trasmessa dall’inquieto elemento agli uomini in­
difesi e alle loro opere»36.

Poco dopo la stesura di America, Kafka scrisse il racconto Nella


colonia penale che, tra tutti i suoi scritti, è quello in cui l’autorità
si presenta con il suo volto più micidiale e più iniquo. E anche una
delle sue opere più impressionanti per la violenza cupa e repressa
delle sue pagine: essa provoca più di altre quello sconvolgimento

53
del rapporto contemplativo tra lettore e testo che rappresenta, se­
condo Adorno, un punto di convergenza fondamentale tra Kafka e
il surrealismo: «La narrazione piomba addosso al lettore come la
locomotiva addosso al pubblico nelle nuove tecniche dei film a tre
dimensioni»37.
Uno dei migliori commenti a questo testo fondamentale resta
la recensione pubblicata da Kurt Tucholsky sulla «Weltbühne» del
13 giugno 1920 per la prima edizione del racconto; questo capola­
voro, scrive Tucholsky, si presenta in forma di sogno, ma non c’è
nulla di vago: è un sogno «impietosamente duro, crudelmente og­
gettivo e di una chiarezza cristallina» che ha come tema centrale
l’asservimento al potere. «E un potere che qui non ha limiti (Und
diese Macht hat hier keine Schranken)»™.
Nel racconto si ritrovano le figure del potere tradizionale e per­
sonale (di origine patriarcale) con i due comandanti, quello vec­
chio e quello nuovo. La funzione svolta da questi due personaggi,
però, è relativamente limitata e l’espressione dell'autorità si spo­
sta verso il meccanismo impersonale del congegno destinato a
mettere a morte. Lo strano funzionamento di quello strumento pu­
ramente immaginario, completamente inventato dallo scrittore,
contribuisce grandemente al fascino di questo scritto in quanto
creazione letteraria.
Non è possibile leggere questa storia tenebrosa dopo il 1945
senza pensare alle «fabbriche della morte» del nazismo, allo ster­
minio di milioni di ebrei e di zingari attuato con mezzi tecnici so­
fisticati. Vari pensatori, da Adorno a George Steiner, hanno avan­
zato l’ipotesi, alla luce dell’esperienza della Shoah, che questo
fosse lo scritto più profetico di Kafka. Più di recente Enzo Tra­
verso ha osservato: «Nella colonia penale sembrava annunciare i
massacri anonimi del xx secolo, nei quali l'uccisione di massa di­
venta un’operazione tecnica sempre più sottratta all’intervento di­
retto degli uomini. [...] L’erpice immaginato da Kafka, che inci­
deva sulla pelle della vittima la sentenza capitale, ricorda in modo
impressionante il tatuaggio degli Häftlinge ad Auschwitz, quel nu­
mero indelebile che, come dice Primo Levi, faceva sentire Ta pro­
pria condanna scritta sulla carne’»39. C’è indubbiamente un che di
profetico in quelle pagine. Tuttavia, per comprendere un testo così
sorprendente, è necessario chiedersi quali fossero i modelli e le
motivazioni che lo avevano ispirato a suo tempo. A me pare che si

54
tratti di tre forme di dominio strettamente collegate tra loro: la
prima è quella coloniale, la seconda quella militare e la terza (la più
indiretta) quella burocratica.
Kafka si riferisce in primo luogo a una realtà molto precisa della
sua epoca, il colonialismo, e più esattamente il colonialismo fran­
cese. .. Gli ufficiali e i comandanti della Colonia sono francesi; gli
umili soldati, gli scaricatori, le vittime condannate a morte sono
«indigeni» che non capiscono nemmeno una parola di francese. Il
nome di quella località «tropicale» non è indicato. Si potrebbe im­
maginare che si tratti dell'isola del Diavolo, dove era stato confi­
nato il capitano Dreyfus dopo la condanna, ma laggiù non c’era
popolazione indigena40. Oppure si può pensare alla Nuova Cale­
donia, quella «colonia penale» francese abitata da melanesiani,
dov’erano stati deportati i prigionieri comunardi, ma Kafka non
parla di prigionieri deportati, politici o no41. In realtà l’isola del
racconto fa più pensare a una colonia normale che a una «penale».
Perché, allora, Kafka nel titolo la chiama così, se non c’è nem­
meno un prigioniero deportato? Il termine tedesco Strafkolonie
suggerisce una possibile risposta, perché mette l’accento sulla pu­
nizione (Strafe): si tratterebbe di una colonia in cui la vita sociale
e politica ruota intorno all’apparato punitivo. Comunque sia, i per­
sonaggi sono quelli di un qualsiasi regime coloniale: una élite
bianca e una massa indigena. Un’ambientazione del genere spiega
la straordinaria violenza del dominio, che qui è molto più diretto e
brutale rispetto a quello di America o, più tardi, del Castello e del
Processo. Ora, una visione tanto critica del potere coloniale era
rara se non inesistente nella letteratura dell’epoca42.
Il racconto presenta tre espressioni distinte del colonialismo. In
primo luogo, quella di un'estrema crudeltà, personificata dall’ex
comandante e dall’ufficiale. Il loro discorso ha certo un’intona­
zione religiosa, ma si tratta di una parodia di religione che serve da
giustificazione trascendentale a una truce oppressione43. Viene poi
la posizione più «umanitaria» del nuovo comandante, che medita
di abolire lo strumento di tortura ma, intanto, lo lascia sempre in
funzione, anche se con maggiore discrezione rispetto a prima. Tale
forma più «morbida» di dominio trova il proprio rito umanitario
nella distribuzione di dolciumi, da parte della moglie del coman­
dante e delle altre dame della élite coloniale, ai condannati a morte,
poco prima che siano giustiziati... Infine c’e quella più illuminata

55
del viaggiatore, un europeo disgustato dai metodi barbari della co­
lonia, che però non fa nulla per impedire la messa a morte dell’in­
digeno condannato e che prende posizione contro quel sistema di
tortura solo dopo una lunga esitazione e in modo rigorosamente
privato, con «qualche parola in confidenza» all’ufficiale. È pur
vero che quella discreta opposizione ha comunque un effetto deci­
sivo, perché l’ufficiale, scoraggiato, prende il posto del condan­
nato e si fa giustiziare. L’esploratore finisce per darsi alla fuga a
bordo della prima nave che salpa dalla colonia (di sicuro per l’Eu­
ropa), non senza avere impedito con la forza ai due indigeni (il sol­
dato e il prigioniero) di imbarcarsi con lui44.
I colonizzati appaiono più vittime del dominio che soggetti au­
tonomi. Il che, d’altronde, corrispondeva alla realtà in un’epoca in
cui la contestazione nelle colonie era assai rara. E quindi interes­
sante notare come il soldato condannato, prima di sottomettersi
«come un cane», abbia un moto legittimo di ribellione e strappi
dalle mani dell’ufficiale la frusta che lo colpisce. E anche come,
dopo la morte dell’ufficiale che li ha rallegrati, in una sorta di ri­
vincita sociale, il soldato e il prigioniero ritrovino una certa com­
plicità e tentino di fuggire insieme dalla colonia.
Oltre al colonialismo, il racconto mette anche in discussione, e
in modo non meno critico, V istituzione militare. Kafka racconta
infatti la mostruosa vendetta dell’autorità militare oltraggiata. Il
povero soldato è condannato a morte per «indisciplina e compor­
tamento offensivo verso un superiore». Qual è il suo «reato»? Non
essere riuscito a svolgere un compito esagerato e ridicolo e, dopo
essere stato colpito al volto dal frustino del capitano, avere osato ri­
bellarsi all’autorità con un grido di protesta. Senza nessuna possi­
bilità di difendersi, in base alla dottrina giuridica degli ufficiali che
afferma che «la colpevolezza è sempre certa», l’uomo è condannato
a essere giustiziato da una macchina di tortura che scrive lenta­
mente sul suo corpo (con aghi che lo perforano): «Onora i tuoi su­
periori»45.
L’ostilità dell’autore verso l’autoritarismo militare e il turba­
mento che questo gli ispira si manifestano in modo toccante in que­
sto racconto. Come abbiamo visto, tra il 1909 e il 1912 Kafka era
vicino agli ambienti anarchici e antimilitaristi praghesi. La sua af­
finità con le loro idee è attestata da un passo dei Diari, in occa­
sione di un viaggio in Svizzera nel 1911 : «Impressione storica che

56
dà un esercito straniero. È un’impressione che non esiste quando si
tratta del proprio esercito. Argomento per l’antimilitarismo»46. Il
ragionamento è un po’ forzato, ma la conclusione non lascia dubbi:
dalle impressioni di viaggio Kafka trae spunto per argomenti a fa­
vore della battaglia antimilitarista47.
Gli stessi sentimenti antimilitaristi si ritrovano in alcuni fram­
menti letterari, per esempio in questo breve aneddoto: «Arrivarono
due soldati e mi afferrarono. Io mi difesi, ma mi tenevano salda­
mente. Mi condussero davanti al loro comandante, un ufficiale.
Com’era rutilante la sua divisa! Io dissi: ‘Che volete da me? Io
sono un civile’. L’ufficiale sorrise e replicò: ‘Sei un civile, ma que­
sto non c’impedirà di prenderti. L’esercito ha potere su tutto’ (Das
Militär hat Gewalt über alles)»4*. In queste poche righe si trovano
condensati, da un lato, l’atteggiamento ribelle del narratore («io»),
che tenta vanamente di difendere la propria libertà, il suo sguardo
ironico sull’uniforme multicolore dell’ufficiale, il suo rifiuto di ri­
conoscere l’autorità dei militari sulla sua persona e il rapporto di­
seguale tra loro e lui, espresso dall’uso del voi da parte sua, men­
tre l'ufficiale usa sprezzantemente il tu; dall’altro lato, quello dei
militari, c’è invece l’affermazione gravida di minacce di aspirare
all’amministrazione totale - per non dire totalitaria - da parte
dell’esercito. Sarebbe difficile riuscire a esprimere in modo più
conciso, vivo e denso la diffidenza verso la «cosa» militare.
Ma torniamo a Nella colonia penale-, il personaggio centrale di
questo inquietante racconto non è l’ufficiale (che fa di volta in volta
le funzioni di giudice, di boia e di tecnico), né il viaggiatore, che os­
serva gli eventi con un occhio critico, né il prigioniero, e neppure,
come si pensa spesso, il comandante. E la macchina, il dispositivo.
Tutta la narrazione ruota intorno a quel meccanismo mortale,
alla sua origine, al suo funzionamento in certo senso automatizzato
(non è necessario «azionarlo manualmente», perché «il dispositivo
funziona completamente da solo»), al suo significato. 1 protagoni­
sti del dramma svolgono il proprio ruolo in funzione di questo asse
centrale. Il dispositivo, il cui movimento è «calcolato con estrema
precisione», appare sempre di più, nel corso delle spiegazioni
dell’ufficiale, come fine a se stesso. Non è lì per giustiziare l’uomo:
è piuttosto l’uomo che è lì per giustificare il dispositivo, per fornire
un corpo sul quale questo possa scrivere il proprio capolavoro arti­
stico, la sua iscrizione sanguinante, «circondata da innumerevoli

57
svolazzi»49. Si ritrova qui, ma con una forza infinitamente supe­
riore, la critica d’ispirazione romantica già accennata in America
del potere sinistro delle macchine moderne. L’ufficiale stesso è solo
un servitore della macchina e alla fine si sacrifica a quell’insaziabile
Moloch. L’autorità appare così nella sua immagine più alienata, più
reificata, in quanto oggetto meccanico. Questo oggetto asservisce
gli uomini che lo hanno prodotto, li domina e li distrugge.
Quale «macchina» specifica, sacrificatrice di vite umane, aveva
in mente Kafka? Il racconto Nella colonia penale è stata scritto
nell’ottobre 1914, tre mesi dopo lo scoppio della prima guerra mon­
diale. .. La guerra sarebbe dunque per lui un meccanismo inumano
e mortale, una sorta di cieco ingranaggio reificato50 che sfugge al
controllo di chiunque. Ma l’immagine della guerra come «disposi­
tivo» ha anche un altro significato, più diretto: si tratta di un im­
menso scontro tra macchine che uccidono. In un testo scritto nel
1916, un pubblico appello per la costruzione di un ospedale desti­
nato alla cura delle malattie nervose nelle vittime della guerra,
Kafka è esplicito: «La guerra mondiale, che ha concentrato in sé
tutta la miseria umana, è anche, più di qualsiasi precedente con­
flitto, una guerra di nervi... Proprio come negli ultimi decenni di
pace lo sfruttamento intensivo delle macchine metteva in pericolo
i nervi di chi se ne occupava, li sconvolgeva e li faceva ammalare,
il ruolo enormemente cresciuto delle macchine nelle azioni belliche
oggi provoca i più gravi pericoli e le peggiori sofferenze per i nervi
dei combattenti»51.
Nel collegamento tra l'ex comandante, l’ufficiale e la macchina,
Kafka coglie con lucidità impressionante una caratteristica essen­
ziale della prima guerra mondiale: il nodo inestricabile, l’intima
fusione tra l’autoritarismo più arcaico, retrogrado, passatista, pa­
triarcale, pseudo-religioso e brutale, e la tecnologia più sofisticata,
moderna, esatta, calcolata, «razionale». Il tutto al servizio di un
obiettivo concreto e preciso: lo sterminio di esseri umani. Ciò che
lo scrittore qui intuisce ed esprime non è forse uno dei possibili
sviluppi della civiltà occidentale moderna e della sua razionalità
strumentale? Uno sviluppo che nel corso del secolo avrebbe fatto
mostra di un immenso potenziale di barbarie.
Si può anche considerare che il dispositivo del racconto rappre­
senti lo Stato burocratico moderno in quanto tale, e non solo nelle
sue espressioni colonialiste e militariste. Certo, la burocrazia in

58
quanto tale non è una macchina di sterminio, ma Kafka non aveva
esitato, discorrendo con Janouch, a paragonarla a un boia: «Oggi il
mestiere di boia è un impiego come un altro: rispettabile e ben pa­
gato. Perché dunque dietro a ogni rispettabile funzionario non si
dovrebbe nascondere un boia? [I funzionari] trasformano gli uo­
mini vivi e mutevoli in corpi morti, li riducono a numeri incapaci
di qualsiasi mutamento, buoni solo per l’archivio»52.
La critica dello Stato come sistema inumano e meccanico è tra­
dizionale nel romanticismo e risale alle prime espressioni di quella
corrente di pensiero. In un testo del 1797, il giovane Schelling già
proclamava: «Ogni Stato tratta inevitabilmente gli esseri umani li­
beri come un sistema di ingranaggi meccanici (mechanische Rä­
derwerk')»53. Il pensiero anarchico moderno (Kropotkin!) è l’erede
ili quella critica romantica, ma se ne ritrovano gli echi fin nelle
opere di certa sociologia tedesca, per esempio in Alfred Weber. È
possibile che Kafka sia venuto a conoscenza dell’articolo di
quest’ultimo sull’«impiegato», apparso nel 1910 sulla «Neue Rund­
schau» alla quale era abbonato; in quello scritto si definiva la buro­
crazia «un gigantesco apparecchio (Apparat)», un «meccanismo
morto» che esercita il proprio dominio su tutta la nostra esistenza54.
Ritornerò sull’argomento.
Non mancano certo i saggi politici o sociologici di critica al co­
lonialismo, al militarismo e alla burocrazia. Il contributo di Kafka,
con mezzi letterari, è la creazione di un singolare universo imma­
ginario che non riflette la realtà, ma la colloca sotto una luce nuova,
ili una forza incomparabile.
Come si spiega il passaggio dai racconti che descrivono il «po­
tere illimitato» dei patriarchi al racconto Nella colonia penale, che
rappresenta un potere senza limiti come un meccanismo imperso­
nale? Non c’è dubbio che in questo processo di spersonalizzazione
e di oggettivazione dell’autorità entrino in gioco vari elementi, ma
a me non sembra casuale che la svolta decisiva sia avvenuta all’ini­
zio del conflitto mondiale, una manifestazione formidabile degli
apparati statali e della loro logica assassina.
Nelle opere successive, Il processo e II Castello, al centro tro­
viamo l’autorità impersonale e gerarchica dell’apparato statale
(giuridico o amministrativo). In questo nuovo approccio, il con­
flitto con la tirannia patema non è dimenticato, ma aufgehoben-,
ri mosso-conservato-superato.

59
Tra i primi che hanno posto al centro della riflessione sull’opera
kafkiana il tema del dominio ci sono i marxisti critici, come Walter
Benjamin, Bertolt Brecht, Theodor Adorno, Ernst Fischer o Karel
Kosfk. Forse perché questo tema non era necessariamente incom­
patibile con il marxismo, o piuttosto con certe letture eterodosse
del pensiero marxiano... Per Benjamin, la forza critica di Kafka
nasce dal fatto che egli scrive dal punto di vista del «cittadino mo­
derno, che si sa preda di un apparato burocratico impenetrabile, il
cui funzionamento è controllato da istanze che restano indefinite
anche per i suoi stessi organi esecutivi e, a maggior ragione, per co­
loro che ne sono manipolati». Napoleone aveva sostituito la politica
al destino; in Kafka diventa destino l’organizzazione, così come si
manifesta nelle «vaste gerarchie burocratiche del Processo e del
Castello» o negli «inestricabili progetti di costruzione» della Mu­
raglia cinese. Anche Karel Kosfk percepisce l’universo kafkiano
come «un labirinto spaventevole e assurdo», nel quale gli esseri
umani sono «presi nella rete della macchina burocratica, degli ap­
parati, delle creazioni reificate». Infine, Adorno indica quale tema
essenziale delle opere del praghese la razionalità del dominio {herr­
schaftlichen Rationalität), basata sulla cieca violenza che si ripro­
duce anch’essa all’infinito e la cui espressione più moderna è il con­
trollo burocratico55.

Note al capitolo

1. Elias CANETTI, Der Andere Prozess. Kafkas Briefe an Felice, Carl Hanser
Verlag, Münich 1969, p. 86. Vedi anche pp. 93-94: «Poiché teme il potere (Macht) in
tutte le sue forme, poiché la tendenza autentica della sua vita consiste nel sottrarsene,
lo sente, lo riconosce, lo nomina, lo configura (gestaltet) dove altri lo accettano come
un fatto scontato». In una sintesi pregevole, Claude David scrive così, in chiusura
alla sua prefazione dell’edizione francese di Kafka nella «Plèiade»: «Se nel pensiero
di Kafka c’è un’idea essenziale, è quella del potere; il mondo si organizza secondo
rapporti di potere; si erige tutta una gerarchia che va fino al lontano imperatore della
Cina, fino al truce proprietario del Castello. Il potere più vicino, però, il più noto [...]
è quello del padre, il primo livello di quella società di potenti». Claude DAVID, La
Fortune de Kafka, in Franz KAFKA, Œuvres complètes, cit., pp. xvi-xvu.

60
2. Theodor W. ADORNO, Prismen, cit., p. 226. Adorno si riferisce probabil­
mente a un passo dell'articolo di Walter Benjamin su Kafka: «Nelle strane famiglie
di Kafka, il padre si nutre del figlio, standogli addosso come un enorme parassita».
3. Franz KAFKA, Lettera al padre, Newton Compton, Roma 2006. p. 51. È
difficile, leggendo queste frasi, non pensare ai romanzi incompiuti, al Processo e al
Castello...
4 . Ibid., p. 67.
5. Franz KAFKA, Journal, cit., pp. 113, 120, 525.
6. Uno dei momenti parossistici del conflitto si verificò nel 1912, quando Her­
mann volle costringere Franz a occuparsi, per qualche settimana, dell'azienda di
famiglia. Una nota dell'otto marzo sui Diari mette in luce la disperazione del figlio,
che pensa quasi di buttarsi dalla finestra (Journal, cit., p. 219).
7. Franz KAFKA, Lettera al padre, cit., p. 52.
8. Elias CANETTI, Der Andere Prozess. Kafkas Briefe an Felice, cit., pp. 89-
90. Secondo Rosemarie Ferenczi, la breve frase sul partito dei dipendenti «deve
essere presa alla lettera, come una professione di fede dello scrittore e l’enunciato
di un principio di fondo, un punto centrale, fisso e incrollabile del suo pensiero»
(Rosemarie FERENCZI, op. cit., p. 22).
9. Franz KAFKA, Journal, cit., p. 219.
10. Ibid., p. 382.
11. Franz KAFKA, «Hochlöblicher Verwaltungsausschuss!», Amtliche Schrif­
ten, a cura di Klaus Hermsdorf, Luchterhand, Frankfurt am Main 1991, p. 119.
12. Franz KAFKA, Correspondance, cit., p. 236: «Se c’è una rivista che mi è
parsa interessante da tanto tempo [...] è quella del dottor Gross». Si veda anche
Giuliano BAIONI, Kafka. Letteratura ed ebraismo, Einaudi, Torino 1979, pp. 203-
205. Su Otto Gross si veda Arthur M1TZMAN, Anarchism, Expressionism and
Psychoanalysis, «New German Critique», n. 1, inverno 1977; su Hans Gross vedi
Klaus WAGENBACH, in Franz KAFKA. In der Strafkolonie, Eine Geschichte aus
dem Jahre 1914. Mit Quellen, Chronik und Anmerkungen, Verlag Klaus Wagen­
bach, Berlin 1996, pp. 70-71.
13. Max PULVER, Promenade mit Franz Kafka, in Hans-Gerd Koch (a cura
di), Als Kafka mir entgegenkam... Erinnerungen an Franz Kafka, Klaus Wagenbach
Verlag, Berlin 2000.
14. Franz KAFKA, La condanna, in Tutti i romanzi e i racconti, Newton Comp­
ton, Roma 1991, p. 505.
15. Si veda per esempio Karlheinz FINGERHUT, Die Phase der Durchbruchs,
in Helmut BINDER, Kafka-Handbuch, cit., pp. 280-282. Con un ragionamento
analogo, certi commentatori credono di percepire alcune analogie tra La condanna
e una rappresentazione di repertorio del teatro yiddish vista da Kafka, Got, Mensch

61
un Tayvl (Dio, l’essere umano e il demonio) di Jakob GORDIN (vedi Evelyn TOR-
TON BECK, Kafka and the Yiddish Theater, Madison 1971, cap. 5, e Ritchie RO­
BERTSON, op. cit., p. 35). lo sono invece più colpito dalle dissimiglianze tra le due
opere: in Gordin il protagonista, Hershele, ha commesso numerose infamie; accu­
sato dall’amico Khatskel e mandato da lui in rovina, è preso dai rimorsi e s’im­
picca. Nella Condanna, invece, Georg è del tutto innocente, le accuse del padre
non hanno alcuna consistenza e il verdetto paterno appare solo una mostruosa in­
giustizia.
16. Walter BENJAMIN, Franz Kafka ( 1934), in Poesie et Revolution, cit., p. 66.
17. Milan KUNDERA, Quelque part là-derrière, «Le Débat», n. 8, giugno
1981, p. 58.
18. Franz KAFKA, Lettres à Felice, cit., p. 402. Nella stessa lettera aggiunge:
«Ho voluto descrivere una guerra [...] ma poi tutto ha preso una svolta diversa
sotto la mia mano».
19. Franz KAFKA, La metamorfosi, in Tutti i romanzi e i racconti, cit., p. 532
e p. 551. Si veda anche la Lettera al padre, cit., p. 87.
20. Franz KAFKA, America, in Tutti i romanzi e i racconti, cit., pp. 21-171.
21. Ibid., p. 21. La statua della Libertà era stata inaugurata poco tempo dopo
l’esecuzione degli anarchici di Chicago nel 1886. Commentando quella coinci­
denza, Kropotkin denunciava la retorica di quello spettacolare monumento che era
da lui definito «la statua della Dea dell’Assassinio». Non si può sapere se Kafka
fosse al conente di quella immagine dell’anarchico russo.
22. Ibid, p. 141. La figura materna della capocuoca è un’eccezione.
23. Franz KAFKA, Lettera al padre, cit., p. 63.
24. Vedi l’opera di Uwe JAHNKE, Die Erfahrung von Entfremdung. Sozialge­
schichtliche Studien zum Werk Franz Kafkas, Akademischer Verlag, Stuttgart 1988,
che fornisce informazioni interessanti ma esagera un poco riguardo all’influenza su
Kafka di questi scritti di taglio marxista.
25. Sulle affinità di Katka con il romanticismo anticapitalista del Bar Kochba,
rimando all’eccellente analisi fatta da Ritchie ROBERTSON, op. cit., pp. 143-155.
26. Franz KAFKA, America, cit., p. 88 e p. 92.
27. Wilhelm EMRICH, Franz Kafka, Athenäum Verlag, Frankfurt am Main
1961, pp. 227-228.
28. Klaus HERMSDORF, Kafka. Weltbild und Roman, Rutten & Loening, Ber­
lin 1961, p. 52. Secondo Dušan GLISOVIČ, il ritratto «grottesco» del capitalismo
nordamericano nel romanzo è una prova della «posizione filosocialista» di Kafka.
Vedi Dušan GL1SOVIČ, op. cit., p. 143.
29. Arthur HOLITSCHER, Amerika heute und morgen, cit., p. 316. Se la prende

62
anche con il frastuono metallico delle fabbriche di Chicago, un rumore «freddo e
sconsolato com’è tutto questo mondo moderno, con la sua civiltà, il nemico più
aspro (grimmigster') della specie umana» (p. 321 ).
30. Ibid., pp. 102-103.
31. Klaus HERMSDORF, Arbeit und Amt als Erfahrung und Gestaltung, in
Franz KAFKA, «Hochlöblicher Verwaltungsausschuss!». Amtliche Schriften, cit.,
p. 33.
32. Max BROD, Franz Kafka, cit., pp. 132-133.
33. Franz KAFKA, Lettres à Felice, cit.. rv, p. 221. Sembra che Kafka associ in
modo stretto il capitalismo e la catastrofe di un mondo completamente meccaniz­
zalo. Secondo Janouch. ecco che cosa avrebbe detto nel corso di una conversa­
zione: «Le fabbriche non sono che organi per la moltiplicazione dei profitti. Noi
tutti ricopriamo solo un ruolo secondario. Quello che conta è il denaro e la mac­
china. L’individuo è soltanto un apparecchio antiquato di moltiplicazione del capi­
tale, un residuo della storia che, essendo inadeguato dal punto di vista scientifico,
verrà presto sostituito senza difficoltà da automi pensanti» (Gustav JANOUCH,
Conversazioni con Kafka, cit., pp. 121-122).
34. Gustav JANOUCH, Conversazioni con Kafka, cit., p. 135.
35. Franz KAFKA, Diari, cit., nota del 1917, citata da Klaus WAGENBACH,
Kafka par lui-même, Seuil. Paris 1969, p. 145.
36. Franz KAFKA, America, cit., p. 38.
37. Theodor W. ADORNO, Prismen, cit., p. 304.
38. Kurt TUCHOLSKY, In der Strafkolonie, in Gesammelte Werke, Band 1,
Reinbeck 1960, pp. 664-665. In polemica con Tucholsky, Dušan Glisovič ritiene
che in questo racconto il tema non sia affatto quello del potere: secondo luil’ufficiale
sarebbe soltanto una rappresentazione di... Kafka in persona e la punta d’acciaio che
gli attraversa la testa alla fine della vicenda sarebbe la penna con la quale egli scrive
le proprie opere! Ho qualche difficoltà a prendere sul serio questa interpretazione
bizzarra e apolitica, paradossalmente proposta in un libro che s'intitola La politica
nell'opera di Kafka (Dušan GLISOVIČ, Politik im Werk Kafkas, cit., pp. 95-104).
39. Enzo TRAVERSO, L’Histoire déchirée. Essai sur Auschwitz et les intel­
lectuels, Cerf, Paris 1997, pp. 52-53; trad A.: Auschwitz e gli intellettuali - La Shoah
nella cultura del dopoguerra, il Mulino, Bologna 2004.
40. Sander Gilman traccia interessanti paralleli tra la situazione di Dreyfus
sull'isola del Diavolo (soprattutto per il letto al quale era stato legato con anelli e ca­
tene) e alcuni temi del racconto di Kafka, ma in ultima analisi resta il fatto che la vit­
tima nel racconto non è un ufficiale ebreo francese, ma un anonimo indigeno, e
questo rende la dimostrazione poco convincente. Vedi Sander GILMAN. Franz
Kafka. The Jewish Patient, Routledge, London 1995, pp. 69-87.

63
41. Esiste un’eccellente ricerca sulle possibili fonti di Kafka nella letteratura
contemporanea (soprattutto tedesca) relativa ai bagni penali: Walter MULLER-
SEIDEL, Die Deportation des Menschen, Metzler, Stuttgart 1986, ma l’autore non
discute il fatto che nel racconto non si trovino personaggi deportati.
42. Vedi Eduard SAID, Culture and Imperialism, Vintage, London 1994. Per
una presentazione sistematica delle opere e dei fatti che avrebbero potuto ispirare il
racconto di Kafka, rimando al pregevole lavoro di Klaus Wagenbach, in Franz
KAFKA, In der Strafkolonie. Eine Geschichte aus dem Jahre 1914, Mit Quellen,
Chronik und Anmerkungen, cit. Secondo un commentatore. Paul Peters, il titolo
del racconto fa pensare che il colonialismo sia di per sé un sistema fondato sulla re­
pressione e la punizione dei popoli colonizzati (Paul PETERS, Witness to the Exe­
cution: Kafka and Colonialism, «Monatshefte», vol. 93, n. 4, 2001, p. 402).
43. Rimando alle convincenti argomentazioni di Roy Pascal, che fanno da con­
trappunto alle letture «religiose» e apologetiche del racconto e celebrano la «re­
denzione» del condannato attraverso la morte sotto tortura... Vedi Roy PASCAL,
Kafka 's Narrators, A study ofhis stories and sketches, Cambridge University Press,
Cambridge 1982, pp. 78-80. Vedi anche Herbert KRAFT, Mondheimat, Kafka,
Verlag Neske, Pfullingen 1983, pp. 109-113, e Paul PETERS, art. cit., p. 422. che
dimostra l’assurdità delle interpretazioni che fanno un parallelo tra l’ex coman­
dante e Mosè (Ingeborg Henel) o Jahvè (Erwin R. Steinberg), come se la legge
ebraica non fosse proprio fondata sulla negazione categorica di qualsiasi sacrificio
umano.
44. Leggendo le righe che chiudono il racconto non si può non pensare alla po­
litica degli ultimi decenni delle ex potenze coloniali europee che ha puntato a im­
pedire con ogni mezzo possibile alla gente delle ex colonie di raggiungere il conti­
nente europeo...
45. Franz KAFKA, Nella colonia penale, cit., pp. 555-556.
46. Franz KAFKA, Journal, cit., p. 580.
47. Un commento ricordato da Janouch conferma il sentimento antimilitarista di
Kafka: il sistema militare fa sì che gli uomini «non sono più individui liberi, ma ele­
menti legati a un gruppo: si muovono eseguendo comandi che in fondo sono loro
estranei». Non c’è più bisogno di dare una qualsiasi spiegazione, basta il comando
e il soldato marcia come una marionetta (eine Puppe), con gran soddisfazione dei
suoi comandanti. Kafka cita come esempio il fascismo italiano! Cfr. Gustav JA­
NOUCH, Conversazioni con Kafka, cit., p. 151.
48. Franz KAFKA, Preparativi di nozze in campagna, in Tutti i romanzi e rac­
conti, cit., pp. 655-669. La traduzione è stata leggermente modificata, si veda l’ori­
ginale Hochzeitvorbereitungen aufdem Lande, Fischer Verlag, Frankfurt am Main
1976, p. 172. Questo testo non è datato, ma si trova accanto a un altro che reca la

64
data del 20 agosto 1916: si può dunque supporre che sia stato scritto durante la
guerra. È vero che Kafka a un certo punto aveva pensato di arruolarsi nell’esercito,
ina si trattava da parte sua più di un tentativo disperato di fuga da una situazione per­
sonale inestricabile (il fidanzamento con Felice Bauer) che non di adesione all’ini­
ziativa militare.
49. Franz KAFKA, Nella colonia penale, cit., pp. 554 e 558.
50. Uno dei temi di riflessione degli anarchici praghesi era appunto la reifica­
zione dell’individuo da parte del sistema militare: «Il militarismo è una delle più
grandi violenze che lo Stato infligge alla libertà degli individui [...]. Il soldato è un
individuo, un uomo che è costretto, in certe situazioni, a comportarsi come un og­
getto». Si tratta di un articolo pubblicato nel 1905 dall’anarchico ceco Frana Srà-
mek, citato in Vaclav TOMEK, op. cit., p. 27.
51. Franz KAFKA, Lettres à Felice, cit., p. 764.
52. Gustav JANOUCH, Conversazioni con Kafka, cit., p. 23.
53. Manfred FRANK, G. KURZ (a cura di), Materialien zu Schellings philo­
sophischen Anfängen, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1975, p. 110.
54. Astride Lange-Kirchheim ha avuto il merito di attirare l’attenzione sull’af-
lìnità tra l’articolo di Alfred Weber e il racconto di Kafka. Tuttavia, il suo tentativo
di trovare analogie sistematiche tra i due testi, frase per frase e parola per parola (la­
sciando così intendere che il racconto sia interamente costruito sulla base del testo
sociologico), a me sembra forzato e, in ultima analisi, poco convincente. La studiosa
finisce per cadere in evidenti assurdità, come quando mette in parallelo gli strati su­
periori e inferiori della burocrazia, di cui parla Weber, con le strutture superiori e in­
feriori della macchina mortale descritta da Kafka... Vedi Astride LANGE-KIR­
CHHEIM, Alfred Weber und Franz Kafka, in Eberhard DEMM (a cura di), Alfred
Weber als Politiker und Gelehrter, Franz Steiner Verlag, Stuttgart 1986, pp. 113-
149.
55. Karel KOSÎK, Hasek et Kafka ou le monde du grotesque, «Lettre interna­
tionale», n. 1,1964, p. 66; Theodor W. ADORNO, Prismen, cit., p. 320. Infine, per­
fino un autore «ufficiale» della rdt come Klaus Hermsdorf (che accusa l’autore del
Il processo di «soggettivismo piccolo-borghese») ammette che nessun altro scrittore
ha saputo percepire come Kafka che la burocrazia, in quanto sistema impersonale
che si autonomizza e si trasforma in un apparato alienato, un fine in sé, era la grande
potenza dell’epoca e una minaccia mortale per l’umanità. Vedi Klaus HERM­
SDORF, Kafka. Weltbild und Roman, cit., p. 85.

65
Ill

IL PROCESSO,
DA MENDEL BEILISS, IL PARIA EBREO,
A JOSEPH K., LA VITTIMA UNIVERSALE

Nel suo notevole saggio sulla «tradizione nascosta», pubblicato


nel 1944 dalla rivista «Jewish Social Studies», Hannah Arendt pre­
senta Kafka come uno degli esempi più rimarchevoli (con Heine,
Chaplin e Bernard Lazare) della sensibilità del paria-ribelle nella
storia della moderna cultura ebraica. Una sensibilità che, sulla base
dell’esperienza di esclusione e di oppressione, mette in discussione
i fondamenti della società politica esistente.
Secondo Arendt, l’opera che esprime nel modo più pregnante
l’atteggiamento di paria-ribelle è Jl Castello, «l’unico romanzo nel
quale Kafka discute la questione ebraica, l’unico il cui protagoni­
sta è chiaramente un ebreo». Certo, K. non ha nessun tratto tipica­
mente ebraico, ma si trova immerso in situazioni e incertezze «spe­
cifiche della vita ebraica»1. K. è un «uomo di buona volontà» che
chiede solo il rispetto dei propri diritti e che vorrebbe semplice­
mente diventare un abitante del villaggio come gli altri. Ma si di­

67
stingile da questi, che si comportano come vittime passive di una
fatalità, per la volontà di determinare il proprio destino2.
La lettura di Arendt è interessante, ma eccessivamente centrata
sul tema dell’ebraismo: nel romanzo non c’è niente a indicare che
«le situazioni e le incertezze» di K. siano specificamente ebraiche,
anzi, esse valgono per qualsiasi straniero o immigrato. Più discu­
tibile ancora è il tentativo di Arendt di tradurre in termini sionisti
la filosofia politica del romanzo: Kafka sarebbe un sionista che
vorrebbe eliminare la situazione «abnorme» degli ebrei, simboliz­
zata dal personaggio di K. Il minimo che si possa dire è che un’in­
terpretazione del genere è completamente arbitraria e che non cor­
risponde in nulla alla trama del romanzo, per non parlare della
profonda ambiguità di Kafka nei riguardi del sionismo, espressa in
sintesi nella famosa nota del 1918 sui suoi diari in ottavo: «Non
sono stato condotto nella vita dalla mano del cristianesimo, peral­
tro già pesantemente in declino, come Kierkegaard, né ho potuto
ancora afferrare, come i sionisti, l’ultimo lembo del mantello di
preghiere ebraico che già volava via. Io sono fine e principio»3.
Certo, nel corso degli ultimi anni di vita, egli manifesterà un reale
interesse per certi aspetti del progetto sionista: si metterà addirit­
tura a studiare la lingua ebraica e accarezzerà il sogno di un viag­
gio in Palestina4. Ma non c’è niente che indichi un reale impegno
nel movimento, a differenza del suo amico Brod.
Solo pochi mesi dopo, Hannah Arendt pubblica sulla «Partisan
Review» (all’epoca rivista della sinistra antistalinista) un nuovo
saggio su Kafka che riprende i temi centrali del testo precedente,
ma stavolta con una chiave di lettura decisamente universalista: K.,
il protagonista del Castello, è un forestiero, un immigrato che si
batte per il riconoscimento dei propri diritti5. Tale interpretazione
è indubbiamente più vicina allo spirito e alla lettera del romanzo,
ma è scomparsa l’intuizione ricca e avvincente sul ruolo del senti­
mento ebraico del paria-ribelle. In altre parole, alla lettura arend-
tiana di Kafka, pur illuminante e innovativa in tanti sensi, manca la
mediazione tra il momento ebraico e il momento universale.
Stranamente nel saggio sulla rivista «Jewish Social Studies»,
che insiste tanto sul «giudaismo» di K., non si fa nemmeno un ac­
cenno al Processo. Eppure in questo romanzo si trovano «situa­
zioni e incertezze» tipicamente ebraiche come se non più che nel
Castello. Il silenzio di Hannah Arendt sulla dimensione ebraica

68
del Processo è tanto più sorprendente in quanto si tratta dell’unico
romanzo di cui Kafka aveva pubblicato un frammento (la parabola
Dinnanzi alla Legge) su una rivista ebraica, anzi sionista, «Selb­
stwehr» (Autodifesa), curata dai suoi amici ebrei di Praga. Nel se­
condo articolo su Kafka, quello sulla «Partisan Review», Arendt
discute a lungo del Processo, come del Castello, da una prospettiva
rigorosamente universalista. Ritornerò più avanti su questa ana­
lisi, che contiene alcuni elementi di grande interesse, dove però, di
nuovo, è del tutto assente qualsiasi riferimento ai paria ebrei.
Il mio tentativo, qui, è semplicemente quello di riprendere il filo
del ragionamento di Arendt là dove si è interrotto. In altri termini,
vorrei esaminare //processo sulla scorta di un’ipotesi (che mi sem­
bra profondamente corretta) di un sentimento di paria-ribelle in
Kafka, e individuare le mediazioni tra la dimensione ebraica (im­
plicita) del romanzo e il suo contenuto autenticamente universalista.
L’ipotesi di Arendt permette di evitare la trappola delle letture
conformiste del Processo. Per me queste sono di due tipi6 e occu­
pano uno spazio considerevole nella letteratura secondaria. In
primo luogo ci sono quelle che vedono nel misterioso Tribunale
che condanna Joseph K. un’istituzione divina, alle cui decisioni ci
si deve sottomettere con rassegnazione. L’esempio più noto è
quello di Max Brod, eccellente amico e biografo, ma mediocre in­
terprete dell’opera: per lui l’eroe-vittima del romanzo sarebbe una
specie di moderno Giobbe, duramente colpito dalla giustizia di­
vina. Nel suo secondo saggio su Kafka, Hannah Arendt ha sotto­
posto a una critica spietata le esegesi di questa sorta; senza citare
nessun autore, se la prende con un generico personaggio che
chiama «il lettore degli anni Venti»; «Il male del mondo, in cui
sono presi e invischiati gli eroi di Kafka è proprio la sua deifica­
zione, la presunzione di rappresentare una necessità divina. Kafka
si pone l’obiettivo di distruggere quel mondo, esagerando i con­
torni della sua orrenda struttura [...]. Ma il lettore degli anni Venti
I...] non voleva sentir ragione. Le sue interpretazioni di Kafka ri­
guardano più lui che Kafka; nella sua ingenua ammirazione per un
mondo che Kafka nella sua estrema chiaroveggenza aveva rappre­
sentato intollerabilmente crudele, il lettore rivelava la propria com­
patibilità con ‘l’ordine mondiale’, dimostrava quanto le cosiddette
élite, le sedicenti avanguardie, fossero vicine a tale ordine»7.
Un’altra serie di interpretazioni accetta la tesi della colpevo-

69
lezza di Joseph K. e quindi la legittimità della sua condanna. Così
Erich Heller (alcune analisi del quale sono assolutamente degne
d’interesse), dopo una discussione dettagliata della parabola Din­
nanzi alla Legge, arriva a concludere: «C’è una certezza che non
viene incrinata nella parabola come nel romanzo nel suo insieme:
la Legge esiste e Joseph K. deve averla offesa terribilmente, perché
finisce giustiziato con un coltello da macellaio a doppio taglio (sì,
a doppio taglio) che gli penetra nel cuore e lo trafigge per due
volte»8. Questa conclusione, applicata agli eventi del XX secolo,
porterebbe a sostenere che se certi individui (o vari milioni di in­
dividui) sono giustiziati dalle autorità, ciò è avvenuto senza dubbio
perché avevano offeso terribilmente la Legge... In realtà nel ro­
manzo non c’è niente che faccia pensare che il povero Joseph K.
abbia «offeso terribilmente la Legge» (quale?) e ancor meno che si
fosse meritato la pena di morte!
Certo, ammettono altri lettori più attenti, nel romanzo niente in­
dica la colpa del protagonista, ma nei capitoli che Kafka non ha
avuto il tempo di scrivere si trova di sicuro «la spiegazione della
colpa di Joseph K. o almeno delle ragioni del processo»9.
Non si può speculare all’infinito sul romanzo che Kafka avrebbe
scritto (o avrebbe dovuto scrivere), ma nel manoscritto come ci è
arrivato, una delle idee-forza del testo è proprio l’assenza di qual­
siasi «spiegazione delle ragioni del processo», con l’ostinato rifiuto
di fornirne una da parte di tutte le autorità coinvolte (poliziotti, ma­
gistrati, tribunali).
Tutti i tentativi degli interpreti per addossare la colpa a Joseph
K. s’incagliano inevitabilmente sulla prima frase del romanzo, che
dice molto semplicemente: «Qualcuno doveva aver diffamato Jo­
seph K. perché, senza che avesse fatto nulla di male, una mattina
venne arrestato»10. È importante osservare come questa frase non
sia affatto presentata come l’opinione soggettiva del protagonista
(come avviene in numerosi passi del romanzo in cui egli proclama
la propria innocenza), ma come un dato oggettivo, un dato di fatto
come quello della frase successiva: «La cuoca della signora Gru-
bach, la sua padrona di casa, [ ...] quella volta non venne»11.
Tutti i diversi tipi di esegesi sono accomunati dal fatto che fini­
scono per neutralizzare o cancellare la formidabile dimensione cri­
tica del romanzo, il cui tema centrale - come ha ben compreso la
Arendt - è «il funzionamento di una subdola macchina burocratica

70
nei cui ingranaggi è rimasto preso senza colpa il protagonista»12.
Descrivendone il funzionamento, Kafka si è evidentemente ispirato
al suo lavoro di legale e burocrate, impiegato presso Y Arbeiter-
Unfall-Versicherungs-Anstaltfür das Königreich Böhmen. Come
avevano già notato Max Brod e, dopo di lui, molti altri esegeti, il
funzionamento delle istanze opache e assurde della burocrazia nel
Processo deve molto a quelle esperienze quotidiane, certo non os­
servate dal punto di vista degli alti gradi gerarchici dell’istituzione,
ma da quello degli umili operai vittime di incidenti sul lavoro,
spersi nel labirinto amministrativo, ai quali andava la simpatia di
Kafka.
La trama del romanzo, tuttavia, si pone molto oltre questo primo
livello relativamente anodino: basti pensare alla conclusione per
rendersi conto che la posta in gioco è ben più drammatica. Non si
tratta soltanto dell’opacità burocratica, ma della natura inumana e
micidiale degli apparati istituzionali della giustizia e dello Stato.
Non si può non essere colpiti dal carattere profetico del ro­
manzo, che sembra prefigurare, con la sua invenzione visionaria, la
giustizia degli Stati totalitari. Bertolt Brecht è stato fra i primi a
osservarlo, già nel 1937: «Le democrazie borghesi albergavano
nel proprio intimo più profondo la dittatura fascista e Kafka dipin­
geva con una grandiosa inventiva quelli che sarebbero stati i campi
di concentramento, l’assenza di qualunque garanzia di legge, l’as­
soluta autonomia dell’apparato statale»13. Lo stesso ragionamento
non vale anche, mutatis mutandis, per l’URSS staliniano? Una volta
ancora a dirlo è Brecht, che pure è un leale compagno di strada del
movimento comunista filosovietico, in una conversazione con
Walter Benjamin a proposito di Kafka nel 1934, cioè poco prima
ilei processi di Mosca: «Kafka ha un unico problema, quello
dell’organizzazione. È l’angoscia verso lo Stato formicaio che lo
colpisce, il modo in cui gli esseri umani finiscono per alienarsi da
soli, attraverso le forme della vita in comune. Ed egli ha previsto
certi meccanismi di tale alienazione, per esempio i metodi della
GPU». E Brecht aggiunge: «Si vede con la Gestapo ciò che può di­
ventare la Ceka»14.
Una lettura del genere è un chiaro omaggio alla chiaroveggenza
dello scrittore praghese, che seppe cogliere tendenze presenti come
sinistre potenzialità negli Stati europei «costituzionali» all'inizio
del XX secolo. Essa, tuttavia, non fa molta luce sulle motivazioni e

71
sulle fonti d'ispirazione. Inoltre, quei riferimenti a posteriori agli
Stati che farebbero «eccezione» rischiano di lasciare in ombra una
delle idee forza del romanzo: l’eccezione, ovvero lo Stato che con
il suo apparato schiaccia e annienta l’individuo a spregio dei suoi
diritti, è la regola (io parafraso qui una formula di Walter Benjamin
nelle tesi Sul concetto di storia). In altre parole, Il processo si
schiera contro la natura alienata e oppressiva dello Stato moderno,
anche quando si autodefinisce «Stato di diritto». Per questo, fin
nelle prime pagine del romanzo, si dice chiaramente: «Eppure K.
viveva in uno Stato di diritto, dappertutto regnava la pace, tutte le
leggi erano in vigore: chi osava aggredirlo in casa sua?»15. Come
i suoi amici anarchici di Praga, sembra proprio che Kafka consi­
derasse qualsiasi forma di Stato esistente una gerarchia autoritaria
fondata sull’illusione e sulla menzogna.
Non in un immaginario avvenire, bensì nei fatti storici a lui con­
temporanei bisogna cercare la fonte d’ispirazione della trama del
Processo^. Tra quei fatti, i grandi processi antisemiti della sua
epoca erano un esempio flagrante dell’ingiustizia di Stato. I più
noti furono il processo Tisza (Ungheria, 1882), il processo Dreyfus
(Francia, 1894-1899), il processo Hilsner (Cecoslovacchia, 1899-
1913) e il processo Beiliss (Russia, 1912-1913). Nonostante le di­
versità tra le forme di Stato (assolutistico, monarchico costituzio­
nale, repubblicano), il sistema giudiziario aveva condannato, in
certi casi con la pena di morte, vittime innocenti la cui unica colpa
era di essere ebrei.
L’affare Tisza, un processo per omicidio rituale contro quindici
membri della piccola comunità ebraica di un villaggio dell’Unghe­
ria settentrionale, nel 1882-1883, non poteva avere toccato diretta-
mente Kakfa, che era nato nel 1883. Si trova, tuttavia, in una lettera
dell’ottobre 1916 a Felice Bauer, un commovente riferimento a
un'opera teatrale dello scrittore ebreo tedesco Arnold Zweig, Ri­
tualmord in Ungarn (Omicidio rituale in Ungheria), rappresentata
nel 1914 e dedicata a quella vicenda: «Ho letto di recente una tra­
gedia di Zweig, Ritualmord in Ungarn [...]. Le scene terrestri sono
dotate di una vita convincente, che indubbiamente deriva per lo più
dagli atti impressionanti del processo. Come che sia, è appena pos­
sibile analizzarlo nei particolari, essendo legato al processo e re­
stando nel suo cerchio magico. Adesso io vedo le cose con tutt’altro
occhio rispetto a prima. A un certo punto sono stato costretto a in­

72
terrompere la lettura, mi sono seduto sul divano e sono scoppiato in
singhiozzi. Erano anni che non versavo una lacrima»17.
Invece ignoriamo ciò che pensava del processo Dreyfus, rara­
mente citato nei suoi scritti e solo di sfuggita, come in una lettera
del 1922 a Max Brod18, anche se si può ritenere quasi con certezza
che, come tutti i cittadini europei (ed ebrei) della sua generazione,
gli erano noti i principali elementi di quella vicenda traumatica
Quanto al processo Hilsner, nonostante fosse molto giovane
all’epoca (nel 1899 aveva sedici anni), non gli erano sfuggiti gli
aspetti inquietanti del caso. Il giovane ebreo ceco Leopold Hilsner,
condannato a morte per un «omicidio rituale» nonostante l’assoluta
assenza di prove, ebbe salva la vita solo grazie a una campagna
condotta dal dirigente politico democratico Tomaš Masaryik (fu­
turo presidente della repubblica cecoslovacca). In seguito a una re­
visione del processo, la sua pena fu commutata all’ergastolo. Nel
corso di un colloquio riferito da Gustav Janouch, Kafka indica in
quell’episodio il punto di partenza, in particolare nel corso di di­
scussioni con l’amico e compagno di liceo Hugo Bergmann, della
propria presa di coscienza della condizione dell’ebreo: «Un indi­
viduo disprezzato, ritenuto dal mondo circostante un forestiero a
mala pena tollerato»19. Un paria, in poche parole...
Le testimonianze di Janouch vanno sempre prese con cautela,
ma nella corrispondenza di Kafka con Milena troviamo un riferi­
mento diretto al caso Hilsner, come esempio paradigmatico dell’ir­
razionalità dei pregiudizi antisemiti: «Non riesco a immaginarmi
come i popoli [...] abbiano fatto ad arrivare all’idea dell’omicidio
rituale»; in una specie di rappresentazione fantasmagorica «si vede
‘Hilsner’ che commette pian piano il misfatto». Nella stessa corri­
spondenza si trovano anche molti altri accenni all’antisemitismo,
secondo il quale gli ebrei «fanno la figura di negri» e rappresentano
una categoria di appestati20.
Infine, è probabile che l’abbia scosso ancora di più il processo al
calzolaio ebreo Mendel Beiliss (Kiev, 1913), anch’egli incriminato
per un «omicidio rituale». Il giornale «Selbstwehr», al quale era ab­
bonato, era mobilitato per la vicenda, che evidenziava in modo in­
quietante la condizione di paria degli ebrei nellTmpero zarista, la
loro assenza di diritti, l’emarginazione sociale, la persecuzione da
parte dello Stato. Ed è noto che tra le carte che Kafka aveva bruciato
poco prima di morire si trovava un racconto su Mendel Beiliss21.

73
Che i processi antisemiti, soprattutto quest’ultimo, siano serviti
da fonti d'ispirazione del Processo resta solo un’ipotesi, che però,
è tanto più plausibile in quanto, dal 1911, dopo il suo incontro con
il teatro yiddish e l’inizio della sua amicizia con l’attore Itzhak
Löwy, Kafka è preso da un crescente interesse per il giudaismo.
Tale interesse si traduce, fra l’altro, nell’invio dei propri scritti a pe­
riodici ebraici, come «Selbstwehr» (la rivista dei sionisti praghesi)
o «Der Jude», la rivista di Martin Buber.
Quei processi, tuttavia, l’avevano colpito non solo in quanto
ebreo, ma come spirito universale che scopriva nell’esperienza
ebraica la quintessenza della condizione umana dell’epoca mo­
derna. Nel Processo il protagonista, Joseph K., non ha una nazio­
nalità o una fede definite: la scelta stessa di una semplice iniziale al
posto del cognome rafforza il carattere universale del personaggio,
che è il rappresentante per eccellenza delle vittime della macchina
giudiziaria dello Stato22.
Eleni Varikas, esaminando di recente il concetto di paria in Han­
nah Arendt, ne ha messo in evidenza la portata critica e la dimen­
sione paradigmatica che acquisisce l’esperienza di emarginazione
dei paria. «Prodotto e sintomo di una concezione politica che, se­
guendo la tradizione occidentale dominante, trattava solo in modo
accessorio la pluralità umana (Hannah Arendt)23, il paria evidenzia
non solo le disfunzioni e le derive, ma anche la natura e i limiti
della democrazia storica, ovvero dello Stato democratico»24. Cioè,
quello «Stato di diritto» {Rechtsstaat) che irrompe la mattina pre­
sto a casa di innocenti cittadini per arrestarli, come nel primo para­
grafo del Processo.
Nella reinterpretazione universalista dei processi antisemiti, la
simpatia di Kafka per le idee libertarie svolge indubbiamente una
funzione non trascurabile. La questione della «ingiustizia di Stato»
occupa un posto importante nella cultura libertaria, che il 1° mag­
gio commemora tutti gli anni i «martiri di Chicago», i dirigenti
anarco-sindacalisti giustiziati nel 1886 con una falsa accusa. Nel
1909 un’altra vicenda aveva provocato indignazione negli am­
bienti anarchici e progressisti di tutto il mondo: la condanna a
morte e l’esecuzione di Francisco Ferrer, l’eminente pedagogo li­
bertario, fondatore della Scuola Moderna, accusato a torto di avere
fomentato la rivolta anarco-sindacalista di Barcellona. Secondo la
testimonianza di Michal Mares, Kafka avrebbe preso parte a Praga

74
a una manifestazione di protesta contro l’esecuzione di Ferrer da
parte della monarchia spagnola.
Di nuovo, i romanzi di Kafka non sono portatori di nessun
«messaggio» politico o dottrinario, ma esprimono un certo spirito
antiautoritario, una distanza critica e ironica nei confronti delle ge­
rarchie dei poteri burocratici e giudiziari. Un esempio lampante di
tale ironia si trova nel frammento del cosiddetto «Sostituto» (nei
quaderni postumi), dove Kafka si diverte a mettere in scena il ra­
gionamento servile, limitato e autoritario di un procuratore davanti
a un uomo accusato di «lesa maestà»: «Credeva che se tutti aves­
sero collaborato con il re e con il governo con calma e fiducia, sa­
rebbe stato possibile superare qualsiasi difficoltà [...]; più si aveva
fiducia, più si doveva piegare la schiena, ma in virtù di principi
naturali, senza bassezza. Era la gente della genia dell’accusato che
faceva da ostacolo a quello stato di cose auspicabile, gente uscita
da chissà quali bassifondi, che con le sue grida scompaginava la
massa compatta delle brave persone»25.
Come si presenta la gerarchia giudiziaria nel Processo! So­
stanzialmente dal punto di vista soggettivo della vittima, cioè di
Joseph K., con l’aggiunta di qualche informazione fornita da per­
sonaggi che si vantano di essere vicini al tribunale (il pittore, l’av­
vocato). Le spiegazioni contorte, fornite da costoro, del funziona­
mento del sistema evidenziano lo sguardo ironico che l’autore
rivolge alla logica perversa della burocrazia tribunalizia.
Joseph K. un bel mattino è arrestato, apparentemente vittima di
una calunnia. Si potrebbe interpretare questa affermazione come
un richiamo indiretto ai processi antisemiti, ma nel romanzo non si
affronta la problematica della calunnia. A K.si rifiutano di fornire
qualsiasi spiegazione di un tale intervento, che non comporta un'in­
carcerazione, ma si traduce in una specie di minaccia sospesa sul
suo capo, mentre gli si permette di occuparsi delle proprie fac­
cende. È giudicato da un tribunale che gli vieta ogni accesso ai ma­
gistrati e che non riconosce la difesa, ma la tollera appena. Quel
tribunale, la cui gerarchia si estende all’infinito (unendlich) e il cui
comportamento è inesplicabile e imprevedibile, si considera infal­
libile e si mantiene del tutto irraggiungibile agli imputati: l’attività
l imane segreta e lo stesso atto d’accusa è inaccessibile, oltre che
agli avvocati ed evidentemente al pubblico in generale, soprattutto
al principale interessato. Quest'ultimo è dunque impossibilitato a

75
difendersi, ignorando di che cosa sia accusato... Dopo una proce­
dura del tutto priva di trasparenza, il tribunale invia una coppia di
carnefici a giustiziare lo sventurato Joseph K. Il carattere autentico
di questa giustizia è ironicamente colto nell’allegoria proposta dal
quadro del pittore del tribunale, Titorelli, in cui la dea della Giusti­
zia è rappresentata con i tratti di una dea della Vittoria o piuttosto,
quando l’artista aggiunge luce al quadro, di una dea della Caccia.
La legge è in pratica assente dal «processo». E qualcosa
d’ignoto, d’inconoscibile, addirittura d’inesistente. La sua assenza
è compensata dalla presenza (anzi dall’onnipresenza) di una po­
tente organizzazione legale che dispone del potere di vita e di morte
sugli individui. In uno dei momenti più forti del romanzo, Joseph K.
denuncia con passione: «Un’organizzazione che non solo dà lavoro
a guardie corruttibili, a stupidi ispettori e a giudici istruttori che nel
migliore dei casi sono mediocri, ma che deve anche mantenere una
magistratura di alto e di altissimo grado, con numeroso e inevitabile
seguito di scrivani, gendarmi e altri aiuti, forse persino di carnefici,
non esito a pronunciarne la parola. E qual è il senso di questa grande
organizzazione, signori miei? Consiste nel fare arrestare degli in­
nocenti e nell’avviare contro di loro un procedimento insen­
sato. . ,»26. Se pensiamo alla drammatica conclusione del romanzo,
quell’accenno al boia è significativo: esso dimostra la preveggenza
del protagonista, nonostante la pericolosa sottovalutazione del tri­
bunale; d’altra parte Joseph K., nel corso del suo colloquio con Ti­
torelli, riassume così la propria opinione sprezzante sull’istituzione
giudiziaria: «Un solo boia potrebbe prendere il posto di tutto il tri­
bunale»27. Joseph K. conduce la propria battaglia contro il tribu­
nale da solo (questa forse è una delle cause della sua sconfitta), ma
è consapevole di non essere l’unica vittima di tale «giustizia»: essa
si comporta nello stesso modo «nei confronti di una moltitudine di
persone». Quando si reca in tribunale, incontra altri inquisiti, umi­
liati, spauriti, che si comportano come mendicanti28.
Questa descrizione del funzionamento della giustizia è «reali­
sta»? A me sembra che la domanda sia mal posta. Hannah Arendt
parla, nel passo prima citato, delle «esagerazioni» di Kafka, ma
potremmo chiederci se la realtà del xx secolo non abbia superato,
e di un bel pezzo, le più cupe immagini del romanzo. Realista o no,
Kafka è riuscito a rendere conto come nessuno prima di lui (e pro­
babilmente dopo di lui) del funzionamento della macchina giudi­

76
ziaria dello Stato moderno dal punto di vista delle vittime di
quest’ultimo. Lo fa senza nessuna enfasi, con essenzialità e rigore,
in uno stile che si caratterizza per serietà e sobrietà, qualità che
rendono queste pagine ancora più impressionanti. L’universalità
del romanzo, la forte carica soggettiva, con lo sguardo di chi fini­
sce tra le ruote del carro trionfale della «giustizia», hanno contri­
buito a fare del Processo una delle opere letterarie che più hanno
colpito F immaginario del Novecento.
Come resistere all’ingranaggio mortale della giustizia di Stato?
Per gli amici sionisti di Kafka, i paria ebrei dovevano organizzarsi
per l’autodifesa (Selbstwehr), e questo sarebbe stato il primo passo
verso una dignità ritrovata. Per i suoi amici anarchici praghesi,
l’unica difesa possibile era l’azione diretta degli oppressi contro
le forze dell’oppressione. E probabile che Kafka simpatizzasse con
queste posizioni, ma quella che mostra nel Processo è una pro­
spettiva meno ottimista e più «realista», è la sconfitta e la rasse­
gnazione della vittima. La prima reazione di Joseph K. è di resi­
stenza, di ribellione (individuale): denuncia, protesta, manifesta
con sarcasmo e ironia il proprio disprezzo verso l’istituzione che
dovrebbe giudicarlo. Tende anche a sottovalutare il pericolo. I per­
sonaggi ai quali chiede aiuto gli consigliano di sottomettersi. «Non
ci si può difendere da questo tribunale, bisogna confessare. Alla
prima occasione, dunque, renda la sua confessione», gli spiega
Leni, la cameriera dell’avvocato, il quale gli fa semplicemente que­
sta raccomandazione: «Mai attirare l’attenzione! Starsene tran­
quilli, anche se si va contro la ragione!»29. Joseph K. respinge quei
consigli «amichevoli», nutre soltanto disprezzo per chi si dimostra
sottomesso e servile, ne definisce «canino» il carattere.
In molti romanzi di Kafka il cane è la figura allegorica della
servitù volontaria, del comportamento di coloro che si prostrano ai
piedi dei superiori gerarchici e ubbidiscono ciecamente alla voce
del padrone. Nel processo, l’avvocato Huld «si umilia come un
cane davanti al Tribunale». Al grado gerarchico inferiore, il com­
merciante Block si mette in ginocchio davanti a Huld e si com­
porta in modo abietto e servile: «Non era più un cliente, era il cane
dell’avvocato. Se gli fosse stato ordinato di saltare sul letto come
un cane e di abbaiare, lo avrebbe fatto con gioia»30. In quest’ultimo
capitolo del romanzo il comportamento di Joseph K. cambia radi­
calmente. Dopo un breve e velleitario tentativo di resistenza («non

77
mi spingerò più oltre»), e in seguito a una misteriosa e lontana ap­
parizione della vicina, la signorina Biirstner, arriva a concludere
«l'inutilità» di qualsiasi resistenza e si comporta verso i carnefici
con disponibilità (Entgegenkommen) e in perfetta sintonia (vollem
Einverständnis) con gli obiettivi di costoro. Non è soltanto rasse­
gnato al proprio destino, ma sembra che voglia collaborare attiva­
mente alla punizione. Solo perché gli mancano le forze non com­
pie di persona quello che considera il proprio «dovere»: prendere
l’arma nelle sue mani e giustiziarsi da solo. Nel momento in cui i
carnefici gli affondano il coltello nel cuore, però, riesce ancora a
sussurrare, prima di esalare l’ultimo respiro: «Come un cane». E
l’ultima frase del romanzo è un commento: «Era come se la ver­
gogna gli dovesse sopravvivere»31. Quale vergogna? Senza dubbio
quella di morire «come un cane», in modo sottomesso, in uno stato
di servitù volontaria (nel senso che dà a questo termine Étienne de
La Boétie).
Come si spiega questo diverso atteggiamento di Joseph K.? Inu­
tile speculare sui capitoli non scritti. La conclusione del romanzo
non fornisce molti chiarimenti. S’intende soltanto uno strano mo­
nologo interiore del personaggio, che non ci aiuta affatto a capire:
«Devo ora mostrare che neanche quest’anno di processo mi po­
teva illuminare? Devo andarmene come un uomo privo di com­
prendonio?»32. Hannah Arendt, nell’articolo della «Partisan Re­
view», propone una spiegazione basata sul senso di colpa
interiorizzato da Joseph K.: «Nel Processo, la sublimazione non è
ottenuta con la forza, ma dal crescente senso di colpa che è susci­
tato in K. dall’accusa vuota e infondata [...]. Il funzionamento
della subdola macchina burocratica nella quale è finito innocente-
mente K. si accompagna a un’evoluzione interiore che è attivata
dal senso di colpa [...]. L’evoluzione interiore del protagonista e il
funzionamento della macchina s’incontrano finalmente nell’ultima
scena, quella dell’esecuzione, dove K. accetta, senza resistere e
senza nemmeno obiettare, di essere portato via e ammazzato»33.
L’ipotesi è interessante e plausibile. L’unico problema è che
non c’è niente che indichi, in questo impressionante capitolo con­
clusivo (di appena sei o sette pagine, scritte all’inizio della stesura
del romanzo), che Joseph K. si ritenga colpevole. La questione
della colpa non è mai sollevata in queste pagine dense ed enigma­
tiche. Sappiamo soltanto che, dopo avere adattato il proprio passo

78
a quello dei carnefici, K. ritiene proprio «dovere» sacrificarsi. Dob­
biamo vedere qui un riferimento criptico alla servitù volontaria dei
soldati che nell’agosto 1914 marciavano al passo verso il fronte,
con gioia ed entusiasmo, impazienti di sacrificare la vita per la pa­
tria? Limitiamoci a ricordare che Franz Kafka (che nel 1909-1912
aveva partecipato a pubbliche riunioni del circolo antimilitarista
Vilem Körber), comincia la stesura del Processo nell’agosto 1914,
solo pochi giorni dopo l’inizio della prima guerra mondiale... In
quella data fatidica (6 agosto 1914), aveva annotato nei Diari: «Sfi­
lata patriottica. [...] Vi assisto con il mio sguardo cattivo. Queste
sfilate sono uno dei fenomeni più ripugnanti che accompagnano in
modo accessorio la guerra»34.
Comunque la si voglia mettere, la conclusione del romanzo è
«pessimista» e, nello stesso tempo, decisamente anticonformista.
Essa esprime il sentimento del paria ribelle presente in Kafka, che
in queste pagine manifesta compassione per la vittima insieme a
una critica della sua sottomissione volontaria. La si può leggere
come un appello alla resistenza35...

Note al capitolo

1. Hannah ARENDT, The Jew as Pariah. Jewish Identity and Politics in the
Modem Age, Grove Press, New York 1984, p. 84. Una traduzione italiana si può
trovare in Antisemitismo e identità ebraica. Scritti 1941-1945, Comunità. Torino
2002.
2. Ibid., p. 87.
3. Franz KAFKA, Diari, cit., p. 751. Secondo Robertson, se è vero che Kafka
simpatizzava per il sionismo negli ultimi sette o otto anni della sua vita, «il suo at­
teggiamento era ben più complesso, riservato e individuale rispetto a quello che gli
attribuiscono Brod e Weltsch» (Ritchie ROBERTSON, op. cit., p. 13). Per chiarire
questa complessità, ricordiamo che. secondo Hartmut Binder, Kafka si sarebbe ac­
costato di più al sionismo tra il 1915 e il 1918, mentre «non è possibile definire sio­
nista l’atteggiamento di Kafka negli ultimi anni di vita, nel senso generalmente in­
teso del termine»; si tratterebbe piuttosto di un sentimento avverso all’assimilazione
della diaspora nazionale ebraica (Hartmut BINDER, op. cit., pp. 572-573). Scott
Spector, per parte sua, ritiene che perfino parlare della «simpatia» di Kafka per il

79
sionismo sia problematico; il suo rapporto con la Palestina è più una «costruzione
letteraria» che non un impegno politico (Scott SPECTOR. Prague Territories. Na­
tional Conflicts and Cultural Innovation in Franz Kafka’s Fin de siècle. University
of California Press, Berkeley 2000, p. 143). Questa nota è già troppo lunga: una di­
scussione dettagliata del rapporto tra Kafka e il sionismo va oltre i limiti di questo
saggio...
4. Questo interesse è documentato da diversi passi del suo carteggio curato da
Max BROD, Briefe 1902-1924, cit. La sua preoccupazione per l’antisemitismo a
Praga e il suo desiderio di «andarsene» sono espressi anche nelle Lettres à Milena,
cit., pp. 46, 142,255,280-281
5. Hannah ARENDT, Franz Kafka, in Sechs Essays, Lambert Schneider, Hei­
delberg 1948, pp. 130-145. Si tratta di una versione tedesca, ampliata e riveduta
dall’autrice, del saggio pubblicato quattro ani prima sulla «Partisan Review».
6. Esiste una terza scuola interpretativa, secondo la quale II processo sarebbe in
realtà un romanzo autobiografico in cui i temi politici svolgono un ruolo margi­
nale o secondario. È senz’altro vero che il romanzo è stato scritto nel momento
della rottura del fidanzamento dell’autore con Felice Bauer, le cui iniziali, F.B.,
compaiono nel libro per indicare il personaggio di Fräulein Biirstner. È anche vero
che Kafka aveva definito nei Diari rincontro con Felice e la famiglia di lei all’hotel
Askanier Hof di Berlino «il tribunale in albergo». Di qui a fare del romanzo una
specie di allegoria del senso di colpa di Kafka per il fidanzamento finito male, c’è
ancora un passo, che molti fanno disinvoltamente. Ci si dimentica che, nel romanzo,
rincontro di K. con F.B. (un lungo colloquio e un bacio rubato) è successivo all’ar­
resto e all’incriminazione. Dušan Glisovič, spingendo fino alle estreme conse­
guenze un'interpretazione del genere, considera il coltello che uccide K. un simbolo
della penna dello scrittore, quella penna che gli impedisce per due volte di sposare
Felice Bauer (Dušan GLISOVIC, op. cit., pp. 151-152). Ancora una volta, si ignora
il testo così com’è scritto, e si attribuiscono significati «simbolici» o allegorici ai di­
versi episodi del romanzo...
7. Hannah ARENDT, Franz Kafka, cit., p. 130.
8. Erich HELLER, Franz Kafka, Princeton University Press, Princeton 1982,
pp. 79-80.
9. Casten SCHLINGMANN, Franz Kafka, Reclam, Stuttgart 1995, p. 44.
10. Franz KAFKA, // processo, in Tutti i romanzi e i racconti, cit., p. 179.
11. Ibid. Joseph K., proclamando per tutto il romanzo la propria innocenza, non
mente, ma esprime un’intima convinzione. Per questa ragione, nel momento in cui
i poliziotti gli comunicano l’arresto, crede che si tratti di uno scherzo organizzato
dai suoi colleghi d’ufficio... È la reazione di una persona che ha la coscienza tran­
quilla! Certo, nei Diari Kafka definisce «colpevole» Joseph K., al contrario di Karl

80
Rossmann, l'innocente, anche se tutti e due sono «puniti con la morte» (Journal, cit.
p. 445). Resta l’interrogativo: colpevole agli occhi di chi? Dell’autore del romanzo
o dello strano tribunale che l’ha condannato senza dargli la possibilità di difen­
dersi? La seconda risposta corrisponde alla lettera e allo spirito del libro.
12. Hannah ARENDT, Franz Kafka, cit., p. 128.
13. Bertolt BRECHT, Sur la littérature tchécoslovaque moderne (1937), in Le
Siècle de Kafka, Centre Georges Pompidu, Paris 1984, p. 162. In un saggio pub­
blicato nel 1974, J.P. Stem traccia un parallelo interessante (ma un po’ forzato) tra
H processo di Kafka e la legislazione nazista o la pratica dei tribunali del Terzo
Reich (J.P. STERN, The Law of the Trial, in Franz KUNA, On Kafka: Semi Cen­
tenary Prospection, Harper & Row, New York 1976).
14. Citato da Walter BENJAMIN, Essais sur Brecht, Maspero, Paris 1969, p.
132. Secondo Brecht, «il punto di vista di Kafka [è] quello dell’uomo finito sotto gli
ingranaggi» del potere.
15. Franz KAFKA, Il processo, in Tutti i romanzi e i racconti, cit., p. 180.
16. Faccio ricorso alle ricerche di Rosemarie FERENCZ1, op. cit. Si veda a p.
62: «Kafka non voleva essere il profeta di future catastrofi, ma si sforzava di decifrare
gli aspetti del disagio dei suoi tempi. Se le sue descrizioni paiono profetiche in certi
casi, è perché le epoche successive costituiscono il seguito logico di quella di Kafka».
17. Franz KAFKA, Lettres à Felice, cit., tv, p. 799. Si veda anche il capitolo in­
titolato «Kafka ha pianto» (Kafka wept) in Sander GILMAN, op. cit.
18. Franz KAFKA, Briefe 1902-1924, cit., p. 402. Sander Gilman ritiene che
«l’affaire Dreyfus abbia assillato Kafka per tutta la sua vita adulta» e che sia servito
da modello per II processo, ma non fornisce un solo indizio documentario che giu­
stifichi tale affermazione. Vedi Sander GILMAN, op. cit.
19. Gustav JANOUCH, Kafka und seine Welt, cit., p. 55. Sul caso Hilsner e
l'incidenza che ebbe sull’opinione pubblica, vedi Rosemarie FERENCZI, op. cit.,
pp. 46-58.
20. Franz KAFKA, Lettres à Milena, cit., pp. 66, 164, 255.
21. Max Brod, Franz Kafka, cit., p. 248. Brod cita la testimonianza di Dora Dy-
mant, l’ultima compagna di Kafka: «Tra le carte bruciate, secondo Dora, c’era un
suo racconto che aveva come argomento il processo per omicidio rituale contro
Beiliss a Kiev». Si veda sul tema Arnold J. BAND, Kafka and the Beiliss Affair,
«Comparative Literature», voi. 32, n. 2, primavera 1980.
22. Secondo Rosemarie Ferenczi (op. cit., p. 61), il caso Hilsner, manipolato
dallo Stato, aveva fatto capire a Kafka, al di là dei limiti della realtà ebraica, fino a
che punto poteva arrivare «l’arbitrio di un potere senza scrupoli». Vedi anche p.
205: «Il processo è una requisitoria contro la storia della sua epoca, che ha reso
possibili casi come quello di Hilsner».

81
23. Hannah ARENDT, Karl JASPERS, Correspondance 1926-1969, Payot,
Paris 1985, Lettera del 5 marzo 1951, p. 244.
24. Eleni VARIKAS, Le fardeau de notre temps. Parias et critique de la mo­
dernité politique chez Arendt, in Marie Claire CALOZ-TSCHOPP, Hannah Arendt,
les sans-Etat et le «droit d'avoir des droits», l’Harmattan, Paris 1998, p. 73.
25. Franz KAFKA, Preparativi di nozze in campagna, cit., pp. 655-669.
26. Franz KAFKA, Il processo, cit., p. 201.
27. Ibid., p. 255.
28. Ibid., pp. 199,211.
29. Ibid., pp. 232, 239.
30. Ibid., p. 274.
31. Ibid., pp. 290-292.
32. Ibid., p. 291.
33. Hannah ARENDT, Franz Kafka, cit., p. 4.
34. Franz KAFKA, Journal, cit., p. 385.
35. Pochi mesi dopo avere scritto questa conclusione, mi è capitato sott’occhio
un bel testo del grande scrittore anticonformista austriaco Peter Handke: «Negli
scritti dei popoli, non esiste, fin dalle origini, nessun altro testo che sappia essere
così d’aiuto all’oppresso affinché resista, nella dignità e nell'indignazione, a un or­
dine del mondo che si è rivelato essere il nemico mortale, quanto il romanzo II pro­
cesso, nel quale Joseph K., l’eroe, mentre viene trascinato al mattatoio affretta egli
stesso la propria fine». Peter HANDKE, Rede zur Verleihung des Franz Kafka
Preises, «Die Presse» (Wien), 12 ottobre 1979.

82
IV

LA RELIGIONE DELLA LIBERTÀ


E LA PARABOLA DINNANZI ALLA LEGGE

Kafka era credente? In una lettera a Grete Bloch del giugno


1914, si definisce un asociale, escluso dalla comunità per il suo
giudaismo «non sionista (il sionismo lo ammiro e lo detesto) e non
credente»1. Se si esaminano le note e gli aforismi, si ha l’impres­
sione che oscilli continuamente tra il dubbio e la fede. Ora afferma
la propria fiducia in «qualcosa d’indistruttibile» nell’uomo, per il
quale una delle possibilità di espressione è «la credenza in un Dio
personale»; ora, nel paragrafo successivo, dichiara seccamente: «Il
cielo è muto, fa eco solo al silenzio». Questo duplice atteggia­
mento, sottile spartiacque tra speranza e disperazione, si esprime
talora in un unico capoverso, come in questa enigmatica parabola
della luce: «Visti con l’occhio torbido che è il nostro in questo
mondo, noi siamo nella situazione di viaggiatori su di un treno
fermo in una lunga galleria per un incidente, in un punto in cui non
si vede più la luce dell’ingresso del tunnel e dove la luce all’uscita

83
è talmente minuscola che lo sguardo deve continuamente cercarla
e continuamente la perde di vista, cosicché fine e inizio non sono
nemmeno certi»2.
E tuttavia indubbio che nei grandi romanzi incompiuti di Kafka
sia presente una strana atmosfera di religiosità. È in relazione al
messianismo ebraico? Come si caratterizza questa spiritualità mi­
steriosa. diffusa, ambivalente? Se si lascia da parte la controversa
questione delle fonti (Kierkegaard, la gnosi, la cabala, la Bibbia e
il chassidismo), qual è la struttura significativa di tale visione reli­
giosa? Si tratta di un messianismo positivo, carico di speranza e di
fede, come sembra credere Max Brod? Malgrado il suo tentativo di
costruire a qualsiasi costo un’immagine positiva dell’amico, egli
stesso è costretto ad ammettere che i grandi romanzi e le tracce di
racconti di Kafka sono dominati dalla negatività. Brod tenta co­
munque di liquidarla attribuendola al «suo genio affabulatore» e
alla sua «immaginazione terrificante»3.
La dimensione messianica degli scritti di Kafka si trova al cen­
tro della corrispondenza tra Gershom Sholem e Walter Benjamin
degli anni 1934 e 1935. Commentando quello scambio di lettere,
più tardi Sholem scriverà, in un saggio sulfamico: «Benjamin sco­
pre nel mondo di Kafka l’inversione negativa (negative Umschlag)
delle categorie ebraiche. Niente dottrina positiva: resta soltanto [... |
una promessa strettamente utopica, che sarebbe impossibile for­
mulare. .. Benjamin sapeva che in Kafka si ritrova la teologia ne­
gativa di un giudaismo che ha smarrito il senso positivo della Ri­
velazione, ma che non ne ha perso l’intensità»4.
A me pare che il concetto di teologia negativa sia effettivamente
l’unico capace di rendere conto in modo adeguato del tipo parti­
colarissimo di problematica religiosa presente nei romanzi di
Kafka. La redenzione messianica - e anche, come abbiamo visto,
l’utopia libertaria - vi appaiono solo come vuoti, tracciati in fili­
grana dal profilo oscuro del mondo presente. In altre parole, le pa­
gine di Kafka descrivono un mondo in preda all’assurdo, all’in­
giustizia autoritaria e alla menzogna, un mondo senza libertà nel
quale la redenzione messianica si manifesta solo in negativo, at­
traverso la sua totale assenza. Come ha ben osservato Adorno, in
Kafka «le ferite che la società infligge al corpo (einbrennf) dell’in­
dividuo sono da questi lette come le cifre della menzogna sociale,
come negativo della verità»5. Non solo manca qualsiasi messaggio

84
positivo, ma la promessa messianica dell’avvenire è presente solo
implicitamente, nel modo (forse religioso) di concepire e respin­
gere il mondo contemporaneo, in quanto infernale. Perciò la «teo­
logia» di Kafka, se si può utilizzare questo termine, è negativa in
un senso preciso: il suo oggetto è la non presenza di Dio nel mondo
e la non redenzione degli uomini. Questo contropiede, questo Ge­
genstück negativo, si manifesta tanto nei romanzi quanto nei para­
dossi che compongono gli aforismi.
Alla teologia negativa, al messianismo negativo di Kafka corri­
sponde, sul terreno politico, una specie di utopia negativa. Tra le
due esiste un’analogia strutturale sorprendente: in entrambi i casi il
rovescio positivo del mondo così com’è (utopia libertaria o reden­
zione messianica) manca del tutto e proprio quest’assenza definisce
decaduta o priva di senso 1’esistenza umana. All’assenza di reden­
zione, indice religioso di un’epoca dannata, corrisponde l’assenza di
libertà nell’universo soffocante dell’arbitrio burocratico. La sotter­
ranea affinità elettiva tra le due configurazioni «negative» sfocia
qui in una convergenza intima che dà forma alla struttura significa­
tiva dei romanzi: l’annientamento dell’individuo («come un cane»)
o la somma negazione della libertà sono appunto indici della non re­
denzione del mondo, proprio come l’inverso della libertà (religiosa)
illimitata dell’individuo annuncerebbe l’avvento del Messia.
L’affinità elettiva tra teologia negativa e utopia negativa costi­
tuisce probabilmente una delle componenti essenziali di quell’enig-
matica e originale caratteristica spirituale degli scritti di Kafka6.

Pochi testi condensano con tanta intensità questa spiritualità li­


bertaria quanto la parabola Vor dem Gesetz (Dinnanzi alla Legge).
Si tratta di uno dei testi più famosi di Kafka e uno dei pochi che ha
pubblicato da vivo. Quel passo del Processo era anche uno degli
scritti che preferiva e che amava leggere agli amici e alla fidan­
zata Felice7. Nei Diari lo definisce una «leggenda» e nel romanzo
semplicemente una «storia». Ma è forse più appropriato il termine
parabola (Gleichniss) che usa spesso per parlare di questo genere
di testi brevi e con una forte carica paradossale, sparsi come tante
gemme scintillanti nei suoi quaderni di appunti e nei Diari.
Non è un caso che questo scritto (uno dei due capitoli del Pro­
cesso pubblicati quando l’autore era ancora vivo) sia stato inviato
da Kafka alla rivista del circolo Bar Kochba di Praga, «Selb-

85
stwehr», che lo pubblicò nel 1915: anche se non condivideva ne­
cessariamente la dottrina sionista di quel periodico, Kafka non era
indifferente al suo ideale di autoemancipazione.
Questo testo polisemico ed enigmatico sembra concentrare, in
pochi capoversi, la quintessenza della spiritualità kafkiana, e getta
una luce potente non solo sul romanzo, ma sull’insieme dell’opera
dello scrittore. Si tratta di un testo paradossale, insieme tenero e
crudele, semplice e terribilmente complesso, trasparente e opaco,
luminoso e oscuro. Vi si esprime l’arte di Kafka con tutta la sua
forza e non sorprende che da quasi un secolo continui a interro­
gare generazioni di lettori e di critici.
È noto il tenore della parabola, che un sacerdote racconta in oc­
casione di una visita di Joseph K. nel duomo. Un campagnolo
chiede di avere accesso alla Legge, ma il guardiano della porta della
Legge gli spiega di non poterlo autorizzare a entrare. È solo il
primo dei guardiani: gli altri, che si trovano all’interno, sono molto
più potenti. L’uomo spera invano di avere l'autorizzazione. Seduto
su uno sgabello, aspetta anni e anni e invecchia sul posto. Nel mo­
mento in cui sta per morire, pone un’ultima domanda: «Com’è pos­
sibile che in tutti questi anni nessuno all’infuori di me abbia chie­
sto di entrare?». Il guardiano gli grida la risposta in un orecchio:
«Nessun altro poteva entrare da qui, questo ingresso era destinato
solo a te. Adesso me ne vado e lo chiudo»8.
Dato il suo carattere di documento «canonico», quasi biblico, la
leggenda è aperta alle interpretazioni, ai tentativi di decifrazione, a
spiegazioni e controspiegazioni, a deliri ermeneutici, a disputatio-
nes e a dibattiti. Lo stesso Kafka si dedica volentieri a questo eser­
cizio, nel Processo, facendo seguire alla parabola una lunga di­
scussione teologica ed ermeneutica sul significato del racconto tra
Joseph K. e il sacerdote, la quale, però, non approda a nessuna con­
clusione e lascia in sospeso tutti gli interrogativi. Mentre Joseph K.
non può fare a meno di pensare che l’uomo sia stato ingannato dal
guardiano, il sacerdote gli risponde con l’argomento classico dei
preti: «Mettere in dubbio la dignità [del guardiano] vuol dire met­
tere in dubbio la Legge». L’autorità del guardiano è superiore alla
verità: «Non si deve prendere tutto per vero, lo si deve ritenere
solo necessario». Questo ragionamento apologetico è istintiva­
mente respinto da Joseph K., che lo definisce, con una formula di
grande forza, il segno di un universale fallimento: «Opinione triste

86
[...]. La menzogna elevata a regola universale (die Lüge wird zur
Weltordnung gemacht)»9.
Che cosa significa questa parabola? Certi lettori, disperando di
chiarirne il senso, non nascondono la propria perplessità. Nessuno
ha manifestato questo senso d’impotenza con tanto talento e grazia
quanto Jacques Derrida, in una brillante conferenza del 1982 inti­
tolata Préjugés. Dopo avere fatto inutilmente ricorso a Kant, a
Freud e a Heidegger, il filosofo confessa: «Ho azzardato chiose,
ho moltiplicato le interpretazioni, ho posto e scartato interrogativi,
ho abbandonato le decifrazioni in corso [e alla fine ho lasciato] in­
tatti gli enigmi». Tra le piste rimaste imbattute, almeno due mi sem­
brano interessanti. Ecco la prima: «Per la sua situazione, il campa­
gnolo non conosce la legge, che è sempre legge della città, dei
centri urbani e degli edifici, delle costruzioni protette, delle infer­
riate e dei limiti, degli spazi chiusi da porte»10. Le barriere e le in­
ferriate (cancelli in latino, da cui il termine tedesco Kanzlei, can­
celleria) sono quindi prive di un significato religioso e demistificate
in quanto ostacoli edificati da esseri umani.
La seconda pista si riferisce anch’essa al comportamento del
campagnolo: «L’uomo dispone della libertà naturale o fisica di pe­
netrare in un luogo, se non proprio nella legge. Egli deve pertanto,
e bisogna proprio constatarlo, impedire a se stesso di entrare». La
legge «lascia che l’uomo si autodetermini ‘liberamente’, anche se
tale libertà si annulla in quanto autointerdizione di entrare nella
legge». Mi pare che qui Derrida tocchi l’aspetto essenziale della
leggenda, ma se ne allontana subito, per dichiarare (ma è davvero
una conclusione?) «l’illeggibilità del testo, se con questo si intende
l’impossibilità in cui ci troviamo di accederne al senso, al conte­
nuto magari inconsistente che custodisce gelosamente». In altre
parole: «Noi siamo davanti a questo testo che, non dicendo niente
di chiaro, non presentando nessun contenuto identificabile al di là
del racconto in sé, se non un rinvio interminabile fino alla morte,
rimane rigorosamente intangibile. Intangibile: con ciò intendo
inaccessibile al contatto, imprendibile e alla fine sfuggente, in­
comprensibile» 11.
La maggior parte degli esegeti non si accontenta di un simile
protocollo di opacità e tenta, a onta di tutto e con maggiore o mi­
nore fortuna, di trovare il tasso di verità della parabola. Certe inter­
pretazioni mi sembrano rivelare un equivoco: molto semplicemente

87
sfiorano l’essenziale senza toccarlo. È soprattutto il caso di Max
Brod, che paragona la parabola, nella lettera e nello spirito, al libro
di Giobbe: «La volontà di Dio riveste ai nostri occhi un aspetto il­
logico o, meglio, grottescamente opposto alla nostra logica umana
[...]. Nel libro di Giobbe, Dio si abbandona ad atti che all’uomo
appaiono assurdi e ingiusti. Ma questo è solo ciò che appare agli
occhi umani e l’ultima conclusione, in Giobbe come in Kafka, è
che il metro di cui si serve l’uomo non è lo stesso con cui si misura
nel mondo dell’Assoluto»12. Il guaio di questa interpretazione piut­
tosto ingenua (che per Brod si applica non solo alla parabola, ma ai
due grandi romanzi, // processo e II Castello) è che negli scritti di
Kafka non c’è niente che indichi questa «ultima conclusione».
Lo stesso scetticismo vale per la lettura di Hartmut Binder che,
dopo duecento pagine di eruditissima esegesi, arriva a concludere
che la parabola è una specie di allegoria che rappresenta il vicolo
cieco, il double bind, di certi rapporti umani (Beziehungsfallen),
come quelli di Kafka con i suoi genitori o con la fidanzata Felice13.
Infine Giuliano Baioni, il cui libro è pieno di intuizioni interes­
santi, prende una strada sbagliata e scrive che la funzione della pa­
rabola nel romanzo è «eminentemente estetica»: essa rappresenta
«la perfezione degli attributi formali», o ancora «la necessità della
forma davanti all’arbitrarietà del caos»14. In interpretazioni come
queste, ciò che scompare è la dimensione critica, politico-religiosa
e profondamente sovversiva del testo.
Non è possibile capire questa pagina se non la si colloca in un
contesto più ampio: la spiritualità di Kafka, le sue convinzioni
etico-sociali e, in particolare, l’antiautoritarismo (d’ispirazione li­
bertaria). Come potrebbe tradursi sul terreno religioso questo an­
tiautoritarismo, che è un atteggiamento esistenziale, Sitz im Leben,
più che una scelta politica? Esso prende la forma di un rifiuto da­
vanti a qualsiasi potere che pretende di rappresentare la divinità e
di imporre a suo nome dogmi, dottrine e interdizioni. Ciò che
viene messo in discussione non è tanto l’autorità divina (ammesso
che esista), quanto quella delle istituzioni religiose, del clero e di
altri guardiani della Legge. La religione di Kafka, per quanto sia
possibile utilizzare questa espressione, sarebbe una specie di re/z-
gione della libertà (come la definisce il suo amico Felix Weltsch),
nel senso più forte e assoluto del termine, ispirata all’ebraismo
eterodosso.

88
Le fonti di questa spiritualità non vanno ricercate in remote e
misteriose dottrine esoteriche, come la gnosi o la cabala, spesso
citate dagli studiosi, quanto negli scritti di alcuni dei suoi più vicini
amici praghesi, Hugo Bergmann e Felix Weltsch.
Bergmann, amico d’infanzia e compagno di liceo di Kafka, pub­
blica nel 1913, nella raccolta praghese Vom Judentum (nota a
Kafka, dato che figura nella sua biblioteca), un saggio intitolato
Kiddush Hashem (La santificazione del nome). Secondo Berg­
mann ciò che distingue nell’ebraismo l’essere umano dal mondo
degli oggetti è appunto la libertà, la libera decisione, la capacità di
affrancarsi dalla rete dei condizionamenti, di rifiutare le costri­
zioni. Per la concezione ebraica, l’essere umano è insieme crea­
tura e creatore. È solo creatura quando è costretto da una forza
esterna a essere muto come una cosa; è creatore quando, scio­
gliendosi dalla catena delle necessità esteriori, si eleva liberamente
all’azione etica. «In quanto essere morale, l’umano è creatore di se
stesso {Selbstschöpfer), come c’insegna esplicitamente il Talmud
(Sanhedrin 99b). Ed ecco, nelle parole di Zohar (I, 9b, 10°), il
compito dell’essere umano: non essere più una cisterna, un sem­
plice recipiente di un’acqua estranea, ma diventare una sorgente
che fa sgorgare la propria acqua»15.
L’atteggiamento di Kafka verso Hugo Bergmann non è privo
di ambiguità: ci si mescolano amicizia, rispetto e una distanza cri­
tica. Un appunto interessante nei Diari, del 17 dicembre 1916, si ri­
ferisce a una conferenza dell’amico sul tema Mosè e il presente.
Molto probabilmente si tratta di un testo che sarà pubblicato più
tardi con un titolo leggermente diverso: Pesach e gli uomini del
nostro tempo. Bergmann vi rende omaggio a Mosè, che ha dato
agli ebrei «il vangelo della libertà e dell’azione», per meglio criti­
care gli ebrei contemporanei, «schiavi dei condizionamenti, dei
compromessi, della non verità». La conclusione è posta in forma
interrogativa: «Saremo capaci di liberarci dalle catene della nostra
epoca?»16. Prima di tutto Kafka loda l’amico, affermando la «forte
impressione» che le sue parole gli hanno provocato. Subito dopo,
però, se ne dissocia: «In ogni caso, io non ho niente a che vedere
con questo». Si riferisce al sionismo che ha ispirato tutta la confe­
renza o alla critica degli ebrei contemporanei? Impossibile a
dirsi... La frase successiva, poi, sembra suggerire di nuovo un at­
teggiamento favorevole: «Tra la libertà e la schiavitù è appunto

89
dove si incrociano le vie autentiche e terribili, senza guida per il
percorso che segue e mentre il sentiero già percorso improvvisa­
mente svanisce»17. A me pare che questo commento di Kafka non
sia tanto una sintesi della conferenza di Bergmann quanto una sua
elaborazione personale dei temi lì trattati. In ogni caso, è inconte­
stabilmente relativo a quella «religione della libertà» che i due
amici in certa misura condividono18.
Quanto a Felix Weltsch, uno degli amici più stretti di Kafka
dopo il 1912, nel suo libro Gnade und Freiheit (Grazia e Libertà),
pubblicato nel 1920, si trova la celebrazione del giudaismo come
«religione della libertà» che consente la possibilità metafisica, «ma­
gica» addirittura, dell’intervento della libera volontà nel mondo.
Secondo Felix Weltsch nella tradizione ebraica si trova anche una
«religione della grazia», ma quella che predomina nella cabala
come nel chassidismo è la «religione della libertà», che ha le sue
propaggini nella filosofia tedesca (Schelling, Fichte) e nell’ebrai­
smo contemporaneo (Buber). Mentre la fede nella grazia porta al
quietismo, quella nella libertà spinge all’attivismo e all’etica della
libera azione, che la valorizza in quanto tale, indipendentemente
dal fatto che riesca o fallisca. In una lettera all’amico, Kafka mani­
festa il massimo interesse per questo libro e, in particolare, per il ca­
pitolo intitolato «Schöpferische Freiheit als religiöses Prinzip» (La
libertà creatrice come principio religioso)19. La simpatia per il vo­
lontarismo di Felix Weltsch traspare anche in certi passi dei Diari,
come in quello del 16 dicembre 1916, nel quale rende omaggio alla
fiducia in se stesso dell’amico e ne riassume così la filosofia: «Bi­
sogna volere l’impossibile»20.
E scontato osservare come Kafka non fosse necessariamente
d’accordo con tutte le idee dei suoi amici e che non si potrebbe
spiegare la sua personale spiritualità con una qualsivoglia «in­
fluenza». Ciò non toglie che esista, nelle opere di Hugo Bergmann
e di Felix Weltsch da una parte e certi testi di respiro religioso di
Kafka dall’altra, una certa affinità, una certa «aria di famiglia».
Il caso di Max Brod è diverso, perché questi è molto più esi­
tante ed eclettico. Dapprima sostenitore di un rigido determinismo
schopenhauriano, si schiera poi, sotto l’influenza congiunta di
Bergmann e Weltsch, per la religione della libertà, la cui espres­
sione letteraria più riuscita è il suo romanzo del 1915 Tycho Brahes
e il suo cammino a Dio, un’opera di taglio autobiografico che ce­

90
lebra la libera capacità di decisione dell’essere umano. Il libro esce
con una dedica dell’autore a Kafka. Qualche anno dopo, però, in
seguito a una crisi personale, Brod prende le distanze da quella
concezione attivista della religione, fondata sull’idea che Dio
stesso dipende dall'agire umano, e con Heidentum, Christentum,
Judentum ( 1920) si fa apostolo di una teologia della grazia divina,
(Gnade) e dell’impotenza umana. Se Kafka ammira la prima opera
dell'amico, nutre invece riserve sulla seconda. In una lettera a Brod
del 7 agosto 1920, ne critica la presentazione del paganesimo, che
gli sembra ingiusta: l’universo religioso dei Greci «era meno
profondo della Legge ebraica, ma forse più democratico (non
c’erano capi né fondatori di religioni), forse più libero anche (ma
non so perché).. ,»21. In questo passo a me sembra importante non
tanto l’elogio (un po’ provocatorio) del paganesimo greco quanto
l’immagine idealizzata di una religione libera e «democratica»,
senza capi né autorità.
Il rapporto di Kafka con la letteratura è anch’esso pervaso da
questo «vangelo della libertà». Il contrasto tra la vita professionale
e familiare e la creazione letteraria, quella lacerazione continua
che si ritrova come un lancinante lamento in tutti i Diari, è spesso
presentato come un antagonismo tra schiavitù e libertà: «Lo so,
che se voglio passare dalle sofferenze limitate della creazione let­
teraria (che è mantenuta in schiavitù, non foss’altro per il resto
della mia vita) alla massima libertà che è forse lì ad attendermi,
non ho il diritto di cedere»22.
La religione della libertà kafkiana, la critica dell’autorità reli­
giosa, trovano la loro espressione più pura nella sconvolgente pa­
rabola Dinnanzi alla Legge. Tra le varie scuole interpretative che
questo testo misterioso e affascinante ha fatto nascere nel corso
del secolo, a me sembra la più pertinente quella che vede nel guar­
diano delle Leggi il rappresentante non dell'imperscrutabile giu­
stizia divina, davanti alla quale il campagnolo, come Giobbe, si
troverebbe disarmato, quanto di quella Weltordnung fondata sulla
menzogna di cui parla Joseph K. Il primo interprete che legge il
testo in questo modo è proprio l’amico di sempre, Felix Weltsch,
il quale, fedele alla sua filosofia della libertà, in un articolo pub­
blicato nel 1917 sottolinea: il campagnolo fallisce perché non ha
voluto seguire la strada verso la Legge, varcando la porta senza
autorizzazione23.

91
In altre parole, il campagnolo si è fatto intimidire: non è la forza
che gli impedisce di entrare, ma la paura, la mancanza di fiducia in
se stesso, la falsa obbedienza all’autorità, la sottomissione pas­
siva24. E perduto «perché non osa mettere la propria legge perso­
nale al di sopra dei tabù collettivi, la cui tirannia è rappresentata dal
guardiano»25. Da un certo punto di vista, il guardiano delle porte è
una potentissima immagine paterna, che impedisce al figlio l’ac­
cesso a una vita indipendente. La ragione profonda per la quale
l’uomo non varca la barriera verso la Legge e verso la vita è la
paura, l’esitazione, la mancanza di ardimento. Il timore, VAngst di
colui che implora il diritto di entrare, è appunto ciò che dà al guar­
diano la forza di sbarrargli la strada26. Questa interpretazione, mi
pare, è la sola coerente con la sensibilità antiautoritaria che illu­
mina, per dir così, dall’interno tutta l’opera di Kafka.
Per lo stile e lo spirito, Dinnanzi alla Legge è stato spesso para­
gonato ai testi talmudici, ai midrashim (esegesi), agli haggadoth
(narrazioni) o ancora ai racconti chassidici. Numerosi interpreti
hanno insistito sulla somiglianza con una delle leggende chassidi-
che di Nachman di Bratzlev, riportata da Martin Buber in Die Ge­
schichte des Rabbi Nachman (1906), intitolata «Il rabbino e il suo
unico figlio». È la storia di un rabbino il cui figlio, un giovane
straordinariamente dotato, desidera ardentemente recarsi da uno
zaddik21 che abita a qualche giornata di viaggio dal loro villaggio.
Il padre, nemico giurato del chassidismo, si oppone a quel viaggio
e tenta d’impedire che il figlio lo compia con ogni sorta di ragio­
namenti e di ostacoli. Alla fine, disperato per non riuscire a realiz­
zare quel desiderio, il figlio muore ed è il padre, pieno di rimorsi e
di tristezza, che compie il viaggio verso il grande zaddik2*. Certo,
si può supporre che Kafka, come la maggior parte degli intellettuali
ebrei di cultura tedesca della sua generazione, avesse letto il libro
di Buber, ma mi pare impossibile trovare la pur minima analogia
tra questa leggenda e la parabola di Dinnanzi alla Legge, tranne un
aspetto formale e molto generico: quello di ostacoli che impedi­
scono a un individuo di raggiungere un obiettivo fino alla morte29.
È impossibile non essere colpiti, invece, dalla sorprendente ana­
logia (messa in luce di recente da un ricercatore tedesco) tra la leg­
genda kafkiana e una narrazione del Midrash, Pesikta Rabbati*
sull’ascesa di Mosè al cielo, durante il periodo trascorso sul monte
Sinai. Arrivato alle porte del cielo, Mosè si vede la strada sbarrata

92
da un angelo guardiano, Kemuel, che gli vieta l’accesso alla dimora
dell'Altissimo. Senza esitare, il profeta lo abbatte e prosegue il cam­
mino verso il cielo. Poco dopo si trova davanti a un secondo angelo
guardiano e poi a un terzo, entrambi molto più forti del primo: il se­
condo è seicento volte più grande del primo, ma non osa avvici­
narsi al terzo, perché il fuoco di quest’ultimo lo brucerebbe. Questo
particolare ricorda quasi alla lettera l’affermazione del guardiano
nel testo di Kafka: «Sala dopo sala ci sono custodi uno più potente
dell’altro. Già solo la vista del terzo non la posso sostenere». Nel
Midrash, Mosè è finalmente ammesso davanti all’Onnipotente, che
lo aiuta a oltrepassare i pericolosi angeli guardiani30. L’interessante,
se si confrontano i due racconti, è per un verso la somiglianza
(anche se non esiste nessuna prova che Kafka conoscesse il Mi­
drash) e per l’altro la diversità: a differenza del campagnolo, il pro­
feta non si lascia scoraggiare dal guardiano della soglia e, con un
atto coraggioso, si apre la strada verso la Legge.
Kafka non ha mai nascosto la propria ammirazione per i perso­
naggi che hanno il coraggio di seguire la propria strada, superando
tutti i divieti imposti dalle convenzioni. In una lettera a E. Minze
del novembre 1920, si trova un passo che sembra un commento
alla leggenda del 1915: lo scrittore raccomanda all’amica la let­
tura delle Memorie di una socialista di Lily Braun, una donna am­
mirevole che «ha sofferto molto per la morale della sua classe (una
morale che è in ogni senso ipocrita, pur se al di là comincia F oscu­
rità della coscienza), ma ha seguito la sua strada lottando come un
angelo guerriero»31. Mentre il campagnolo si era piegato all’or­
dine ipocrita del mondo, intimidito dalla minaccia dei terribili an­
geli guardiani della Legge, la donna socialista rifiuta la morale
menzognera della sua classe (la borghesia) e osa avanzare «lot­
tando come un angelo guerriero».
Nel 1914-1915, mentre lavorava alla stesura del Processo (e
quindi alla parabola Dinnanzi alla Legge), Kafka scopre il libro di
Lily Braun; ne manda una copia alla fidanzata Felice Bauer
(nell’aprile 1915) e, un po’ più tardi, ne offre copie a vari amici:
«Le Memorie, d’altra parte, le ho date di recente a Max [Brod] e tra
poco le regalerò a Ottla, le offro a destra e a manca. Per quanto ne
so, rappresentano l’incoraggiamento a noi più vicino nel tempo e
più concreto, in quanto vivo»32. Come mai tanto entusiasmo? Da
molti punti di vista le idee di questa donna socialista sono vicine

93
alla «religione della libertà» dello scrittore praghese: «Ho costruito
piano piano, mettendo insieme laboriosamente pietra su pietra, la
Chiesa della mia religione. Un senso di felicità mi ha invaso
quando ho visto che la mia opera s’era compiuta e ho preso la
ferma decisione di non accettare che mi fosse imposta una qua­
lunque professione di fede che non fosse proprio la mia»33.
Lily Braun, seguendo i precetti di Shelley («Non avere paura!
Porta la guerra al dominio e alla menzogna!») e di Nietzsche («Ub­
bidisci a te stesso!»), condanna «la sottomissione, l’umiliazione, il
cedimento al destino e la disobbedienza a se stessi per ubbidire ai
superiori». Infine contrappone la «volontà d’azione» dell’essere li­
bero al «sentimento rassegnato d’impotenza»34. Sia chiaro, non in­
tendo affatto suggerire un’influenza di queste Memorie su Kafka.
Più semplicemente, il suo interesse dichiarato e sostenuto per quel
libro dimostra una simpatia e una complicità con i sentimenti
espressi da questa donna dallo spirito libero e indomabile. Una sim­
patia che getta una luce imprevista sul testo della parabola del 1915.
Il dilemma paura/ribellione davanti ai guardiani della Legge si
ripresenta in un’altra parabola Sul problema delle leggi, dove si
parla di un popolo dominato da un piccolo gruppo di nobili che
detiene i segreti delle leggi e si proclama al di sopra di esse. La
conclusione è insieme paradossale e ironica: «Un partito che oltre
alla fede nelle leggi rigettasse anche la nobiltà, subito avrebbe die­
tro di sé tutto il popolo, ma un tale partito non può sorgere, perché
nessuno osa rigettare la nobiltà»35.
Sarebbe interessante tracciare un parallelo tra il campagnolo e
Joseph K., il protagonista del Processo. Quest’ultimo non è pas­
sivo come il primo, ma in due momenti decisivi della storia si la­
scia anch’egli intimidire. Una prima volta all’inizio del romanzo,
quando intuisce, nel momento in cui vengono ad arrestarlo, che
«la soluzione più semplice» sarebbe quella di prendersi gioco delle
guardie, aprire «la porta della camera accanto o addirittura la porta
dell’anticamera» e accedere in tal modo alla libertà. Preoccupato
per la reazione degli ispettori, finisce per rassegnarsi, optando «per
la soluzione più sicura, qual era quella a cui doveva portare il corso
naturale delle cose»36. Ora, noi sappiamo qual è il frutto del «corso
naturale delle cose»: l’esecuzione di Joseph K. alla fine del suo
vagare tra i meandri della procedura giudiziaria. E il secondo mo­
mento di rassegnazione e l’ultimo: come abbiamo visto, invece di

94
resistere ai suoi carnefici, si presta con disponibilità alla loro in­
fame bisogna e finisce per crepare «come un cane». Il campagnolo
della leggenda non è descritto esplicitamente come un cane, ma
quell’immagine è suggerita con forza da suo comportamento de­
gradante: non parla più ma grugnisce, non si rivolge più al guar­
diano, ma alle pulci del suo colletto di pelliccia.
Il guardiano delle porte della Legge, come i giudici del Pro­
cesso, i funzionari del Castello o i comandanti di Nella colonia pe­
nale, non sono affatto rappresentanti, agli occhi di Kafka, della di­
vinità (o i suoi servitori, angeli, messaggeri). Sono invece i
rappresentanti del mondo della non libertà, della non redenzione,
l’universo soffocante da cui Dio si è ritirato. Davanti alla loro au­
torità arbitraria, meschina e ingiusta, la sola via di salvezza sarebbe
quella che indica la propria legge individuale, il rifiuto di sotto­
mettersi, superando le barriere interdette. Solo così è possibile
avere accesso alla Legge divina, la cui luce è nascosta dalla porta.
Nei Diari, vari passi indicano come per Kafka il superamento di
una soglia o l’atto di «forzare una porta» siano allegorie dell’au-
toaffermazione dell’individuo e della sua libertà. Secondo un fram­
mento di racconto del 1911, «varcare serenamente la soglia» è una
specie d’imperativo categorico: «Solo così si agisce come si deve
davanti a se stessi e davanti a tutti». In un altro passo, nel quale lo
scrittore parla in prima persona (6 novembre 1913), oltrepassare
«tutte le porte» è sinonimo di coraggio e di fiducia in se stesso:
«da dove mi viene questa improvvisa certezza? Spero che duri!
Spero così di entrare e uscire da tutte le porte, da essere umano
che si mantiene quasi eretto». Infine, in un appunto del 1915, l’at­
teggiamento passivo, «restare tranquillamente sdraiato», è con­
trapposto a quello attivo, «forzare la porta del mondo»37.
Per Kafka l’avvento del Messia sembra direttamente legato a
questa concezione individualista della fede, alla «religione della li­
bertà». In uno strano aforisma (del 30 novembre 1917) scrive: «Il
Messia arriverà nel momento in cui nella fede sarà possibile l'in­
dividualismo più smodato (der zügelloseste Individualismus des
Glaubens), quando non ci sarà più nessuno che distrugga questa
possibilità e nessuno che tolleri tale distruzione, ovvero quando si
apriranno le tombe». Questo sorprendente anarchismo religioso,
per riprendere un concetto caro a Gershom Sholem, è presente
anche in un’altra notazione messianica (4 dicembre 1917): «Il Mes­

95
sia verrà solo quando non sarà più necessario, verrà solo il giorno
dopo il suo arrivo, non all’ultimo, ma all’ultimissimo giorno»38.
Se si mettono in relazione i due aforismi, è possibile avanzare la
seguente ipotesi: per Kafka la redenzione messianica sarà opera
degli stessi esseri umani, quando, seguendo la propria legge in­
terna, faranno crollare le costrizioni e le autorità esterne; l’avvento
del Messia sarà solo la sanzione religiosa di una redenzione umana,
o almeno questa sarà la preparazione, la precondizione dell’era
messianica, di libertà assoluta. Questa concezione, chiaramente
assai distante da quella dell’ortodossia ebraica, ha forti affinità con
quelle di Buber, di Benjamin e di Rosenzweig sulla dialettica tra
emancipazione umana e redenzione messianica.
Secondo Martin Buber, per esempio, «il teologumeno ebreo cen­
trale, non formulato, non dogmatico, ma che fa da sfondo e da ele­
mento di coesione di ogni dottrina e profezia, è la convinzione che
l’azione umana partecipi all’opera di redenzione del mondo». Alle
generazioni umane è stata concessa «una forza cooperatrice», una
forza messianica (messianische Kraft) capace di agire39. Anche
Franz Rosenzweig, nel suo libro L’Etoile de la rédemption, insiste
sul fatto che le «grandi opere di liberazione» dell’uomo, ispirate
dal desiderio di libertà, di uguaglianza e di fraternità, rappresen­
tano la «condizione necessaria» per l’avvento del regno di Dio40.
Per comprendere la spiritualità di Kafka così come si esprime in
modo paradossale ma lampante nella parabola Dinnanzi alla
Legge, la si dovrebbe anche collocare nel contesto generale della
«crisi della tradizione» del giudaismo mitteleuropeo. Più che di
secolarizzazione in senso stretto, si dovrebbe parlare, credo, d’in­
teriorizzazione etica della religione, Come sottolinea Max Weber
nel suo studio sulle forme di rifiuto religioso del mondo, «quanto
più la religione è sistematizzata e interiorizzata nel senso di una
‘etica della convinzione’, tanto più è profonda la tensione che essa
sviluppa con le realtà del mondo». Invece, finché la religione ri­
mane rituale e legalista, la tensione si manifesta poco41.
In Kafka, come in altri intellettuali ebrei dell'Europa centrale
che hanno preso le distanze dal rito e dalla Legge, ma restano sem­
pre immersi nella cultura religiosa ebraica, il rifiuto del mondo in
nome di una «etica della convinzione», qui la libertà assoluta, è la
forma che prende una sensibilità religiosa interiorizzata.

96
Note al capitolo

1. Franz KAFKA, Œuvres complètes, cit. IV, p. 636. Si veda anche la lettera a
Felice del 16 settembre 1916: «Non mi verrebbe nemmeno in mente di andare al
tempio. Non potrei oggi come non lo potevo da bambino: mi ricordo che da piccolo
ero veramente preso da una noia spaventosa per l'assurdità delle ore trascorse al
tempio», Ibid, p. 755.
2. Franz KAFKA, Preparativi di nozze in campagna, cit., pp. 69, 83.
3. Max BROD, Verzweiflung und Erlösung im Werk Franz Kafkas (1959), in
Über Franz Kafka, Fischer Verlag, Frankfurt am Main 1966, p. 213. Secondo Brod,
la fede di Kafka nella promessa divina e la redenzione non è presente nei romanzi
e si manifesta soprattutto negli aforismi, ma l’analisi che ne fa è tutt’altro che con­
vincente.
4. Si veda il testo tedesco in Gershom SHOLEM, Walter Benjamin und sein
Engel, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1983, pp. 32-33. Commentando la tesi di
Sholem, Stéphane Mosès osserva acutamente: «Se questa interpretazione può essere
ancora definita teologica, lo è solo nel senso di una teologia fondamentalmente ne­
gativa, per la quale tutto ciò che possiamo affermare di Dio è il fatto stesso della sua
assenza». Cfr. Stéphane MOSES, L’Ange de l'Histoire. Benjamin, Sholem, Seuil,
Paris 1992, p. 208.
5. Theodor W. ADORNO, Prismen, cit., p. 312.
6. Ho cercato di analizzare questa «affinità elettiva» nel capitolo dedicato a
Kafka del mio libro Redenzione e utopia, cit.
7. Klaus WAGENBACH, Kafka in Selbstzeugnisse und Bilddokumenten,
Rowohlt, Hamburg 1964, p. 98.
8. Franz KAFKA, Dinnanzi alla Legge, in Tutti i romanzi e racconti, cit., p.
576. Il testo è ripreso integralmente nel Processo, cit. p. 285.
9. Ibid., pp. 287-288. Cfr. Franz KAFKA, Der Prozess. Fischer Verlag, Frank­
furt am Main 1985, p. 188.
10. Jacques DERRIDA, Préjugés, in La Faculté de juger. Minuit, Paris 1985, p.
113.
U.Ibid., p. 128.
12. Max BROD, Franz Kafka. Eine Biographie, cit.
13. Hartmut BINDER, «Vordem Gesetz». Einführung in Kafkas Welt, Metzler,
Stuttgart/Weimar 1993, pp. 222-224, p. 246.
14. Giuliano BAIONI, op. cit.
15. Hugo BERGMANN, Die Heiligung des Namens (Kiddush Hashem), Vom
Judentum. Ein Sammelbuch, Verein Jüdischer Hochschüler Bar Kochba, Praha

97
1913, pp. 40-41. Vedi sull’argomento l’eccellente saggio di Marina CAVAROC-
CHI, La certezza che toglie la speranza. Contributo per l’approfondimento
dell'aspetto ebraico in Kafka, Giuntina, Firenze 1988, pp. 89-91.
16. Hugo BERGMANN, Pessach und die Menschen unserer Zeit, in Jawne und
Jerusalem, Jüdischer Verlag, Berlin 1919, pp. 78-79.
17. Franz KAFKA, Diari, cit., p. 313.
18. Rosemarie Ferenczi, commentando questa frase di Kafka, scrive: «Da que­
sto punto preciso, da questo crocevia della libertà e della schiavitù, è da qui che egli
osserva il mondo e lo descrive con la sua opera». Cfr. Rosemarie FERENCZI, op.
cit., p. 48.
19. Felix WELTSCH, Gnade und Freiheit, Praha 1920, pp. 37,73; Marina CA-
VAROCCH1, op. cit., pp. 92-99. Questi temi erano presenti nelle conversazioni e
nella corrispondenza tra Kafka e Weltsch molto prima della pubblicazione del libro.
Kafka, ricevendo il manoscritto dell’opera nel 1919, aveva trasmesso all’amico un
elenco di correzioni e commenti. Vedi Hartmut BINDER. Ein ungedrucktes Sch­
reiben Franz Kafkas an Felix Weltsch, «Jahrbuch der deutschen Schillergesell­
schaft», 20, 1976, pp. 109-130. In una lettera a Felix Weltsch (primavera 1920),
Kafka ammetteva che quel libro aveva avuto «molta importanza» per lui; cfr. Franz
KAFKA, Correspondance 1902-1924, cit., p. 314.
20. Franz KAFKA, Journal, cit., p. 313.
21. Franz KAFKA. Briefe 1902-1924, cit., pp. 156, 331.
22. Franz KAFKA, Journal, cit., p. 399.
23. Felix WELTSCH, Freiheit und Schuld in Franz Kufkas Roman «Der Pro­
zess», «Jüdischer Almanach aus dem Jahr 5687», 1926-1927, pp. 115-121.
24. Walter H. SOKEL, Franz Kafka. Tragik und Ironie, Albert Langen, Münich
1964, p. 215; Ernst FISCHER, Kafka Conference, in Kenneth HUGHES (a cura di),
Franz Kafka, an Anthology ofMarxist Criticism, University Press of New England,
London 1981, p. 91.
25. Marthe ROBERT, Seul comme Franz Kafka, cit., p. 162. Vedi anche Inge-
borg HENEL, The Legend of the Doorkeeper and its Significancefor Kafka ’s Trial,
in James ROLLESTON (a cura di), Twentieth Century Interpretations of «The
Trial», Prentice Hall, Englewood Cliffs 1976, pp. 41,48.
26. Jürgen BORN, Jenseits der Gleichnisse. Kafka und sein Werk, Verlag Peter
Lang, Bern 1986, pp. 177-180. Una lettura interessante che va nello stesso senso è
quella proposta da Konder: il peccato dell'uomo fu l’obbedienza, l’inverso di quello
attribuito dalla Bibbia ad Adamo. La parabola kafkiana ci insegna che «per arrivare
alla vera giustizia [...] occorre affrontare vigorosamente e risolutamente le contraf­
fazioni della giustizia che autorità illegittime tentano d’imporci». La leggenda con­
tiene pertanto un «appello ad agire». Cfr. Leandro KONDER, op. cit., p. 144.

98
27. Letteralmente «un giusto», tra i chassidici un capo carismatico.
28. Martin BUBER, Die Chassidischen Bücher, Schocken Verlag, Berlin 1927,
pp. 40-47.
29. Vedi Moshé SHALEV, C’est du suicide de ne pas aller à la synagogue (tra­
dotto dall’ebraico), «Haaretz», 15 ottobre 1997, supplemento letterario «Tarbut V
Sifrut», pp. 3-4.
30. Ulf ABRAHAM, Mose «Vor dem Gesetz»: Eine unbekannte Vorlage zu
Kafkas «Türhüterlegende», «Deutsche Vierteljahresschrift für Literaturwissen­
schaft und Geistesgeschichte», 57,1983, pp. 636-641. Altri ricercatori avevano già
osservato che racconti e leggende talmudiche, che Kafka aveva appreso dal suo
amico Yitzhak Löwy, avevano senza dubbio avuto una profonda influenza sulla
struttura di opere come II processo e, in particolare, la parabola Dinnanzi alla
Legge. Cfr. Walter SOKEL, Franz Kafka as a Jew, «Leo Baeck Institute Year­
book», 18, 1973, p. 238; ma non s’erano ancora trovate fonti precise a supporto di
questa tesi.
31. Franz KAFKA, Briefe 1902-1924, cit., p. 334.
32. Franz KAFKA, Lettera a Felice dell’ 11 settembre 1916, in Lettres à Felice, cit.
IV, p. 750. Si veda anche la lettera del 6 maggio 1915: «L’esistenza di questa persona
[Lily Braun] è davvero degna di essere vissuta insieme a lei. Come è disposta al sa­
crificio e come sa sacrificarsi! Positivamente, un suicidio e una resurrezione da viva».
33. Lily BRAUN, Memoiren einer Sozialistin (1909), Verlag J.H.W. Dietz,
Berlin 1985, pp. 82-83.
34. Ibid., pp. 82, 85, 136, 756, 806-807.
35. Franz KAFKA, La Muraille de Chine et autres récits, Gallimard, Paris
1950, pp. 113-115.
36. Franz KAFKA, Il processo, cit., p. 182.
37. Franz KAFKA, Journal, cit. pp. 35, 296, 423. È vero che questi passi non
mancano di ambiguità e possono essere interpretati in modi diversi. Per esempio,
quello del 1913 conclude con una formula dubitativa: «Non so se è questo che vo­
glio».
38. Cfr. Franz KAFKA, Hochzeitsvorbereitungen auf dem Lande und andere
Prosa aus dem Nachlass, Fischer Verlag, Frankfurt am Main 1966, pp. 88-90.
39. Martin BUBER, Judaïsme, Verdier, Lagrasse 1982, p. 29, e Die Chassidi­
schen Bücher, cit. pp. xxiu-xxvn.
40. Franz ROSENZWEIG, L’Étoile de la rédemption (1921), Seuil, Paris 1992,
p. 4L
4L Max WEBER, Economie et société, Plon, Paris 1971, p. 585; trad, it.: Eco­
nomia e società. La città, Donzelli, Roma 2003.

99
V
IL CASTELLO,
DISPOTISMO BUROCRATICO
E SERVITÙ VOLONTARIA

Das Schloss, come tutti i romanzi incompiuti di Kafka, è un do­


cumento letterario strano ed enigmatico, che lascia perplessi e
ispira interpretazioni diverse, contraddittorie e dissonanti. Come
// processo, è stato oggetto di una pletora di letture religiose e teo­
logiche: la più influente lettura «positiva» della dimensione reli­
giosa del romanzo è quella di Max Brod.
Nella sua famosa prefazione alla prima edizione del Castello
(1934), non esita a scrivere: «Questo ‘Castello’ dove Kafka non ot­
tiene il diritto di entrare e al quale non riesce nemmeno ad avvici­
narsi in modo adeguato e appunto la ‘Grazia’ in senso teologico, il
governo di Dio che dirige i destini umani (il ‘Villaggio’)... Il pro­
cesso e II castello ci presentano dunque le due forme (Grazia e
Giustizia) nelle quali, secondo la cabala, la Divinità si offre a noi.
Perfino gli episodi del romanzo che ci presentano i personaggi po­
tenti del romanzo sotto una luce formidabilmente sordida (si pensi

101
alla lettera oscena di Sortini ad Amalia) sono interpretati da Brod
come una dimostrazione del fatto che le categorie della morale e
quelle della religione non coincidono»1. Inutile insistere sulla gros­
solana inadeguatezza di una simile griglia interpretativa, che già
Walter Benjamin aveva definito insostenibile e che è sempre più
respinta dai critici.
Lungi dal presentarsi come simbolo della Grecia, nell’interpre­
tazione di Brod, il Castello sembra invece rimandare a una logica
infernale. Erich Heller osserva giustamente che in Kafka si ritro­
vano insieme un sogno di libertà assoluta e la conoscenza della
terribile servitù: da tale contraddizione insolubile nasce il «con­
vincimento della dannazione», che è «tutto ciò che rimane della
fede». Heller, però, sbaglia a credere che sia possibile scorgere
nell’opera del praghese un manicheismo gnostico, al punto che il
Castello del romanzo sarebbe una specie di «guarnigione pesante­
mente fortificata di una compagnia di demoni gnostici»2.
Non c’è niente che indichi che Kafka sia stato un adepto delle
dottrine gnostiche e le interpretazioni di questo genere (come
quelle che fanno riferimento alla cabala), implicano una lettura al­
legorica, mistica ed esoterica alquanto distante dal testo e senza
rapporto con le conoscenze o con gli interessi dell’autore (come li
si conoscono dalla sua corrispondenza, dai Diari eccetera). La re­
ligiosità di Kafka non si manifesta tanto con un sistema elaborato
e occulto di figure simboliche, quanto in una certa Stimmung,
un’atmosfera spirituale, un sentimento del mondo e della condi­
zione umana moderna.
Come scrive con grande acutezza Günther Anders, «Kafka non
è né un manipolatore di allegorie né un simbolista». Tuttavia, nem­
meno Anders resiste alla tentazione di un'interpretazione gnostica
dell’opera, in particolare del Castello. La sua lettura, che coniuga
la più straordinaria perspicacia a colossali equivoci, si sforza d’in­
terpretare le idee religiose dell’autore in questo modo: «In realtà,
quella che risuscita in Kafka è un’idea marcionita, secondo la
quale il Dio creatore è un ‘demiurgo’, perciò ‘crudele’, un parallelo
tanto più sorprendente rispetto a quello di Marcione: questo Dio
creatore (opposto al Dio dell’amore) è nello stesso tempo il Dio
della ‘Legge’, dell’Antico Testamento. In Kafka, così, l’istanza di­
vina, la Legge e la ‘crudeltà’ si confondono»3. Una volta di più,
niente nel romanzo indica che la «crudeltà» dei funzionari del Ca­

102
stello abbia a che vedere con una «istanza divina» o con la Legge
dell’Antico Testamento. Per non parlare del fatto che non sembra
proprio che le dottrine marcionite facciano parte né poco né punto
degli interessi spirituali di Kafka.
Anche Martin Buber parla di «demoni gnostici», ma è più vi­
cino all’universo religioso del Castello quando lo definisce un
mondo infernale, che patisce la mancata redenzione (unerlöstheit
der Welt)4. In effetti sembra che Kafka condivida la convinzione di
Strindberg (che si ritrova anche in Benjamin), secondo la quale
«l’inferno è questa vita». In uno degli aforismi di Ziirau scrive:
«Rispetto a ciò che esiste qui, non c’è niente di più diabolico»5. E
proprio questo sguardo desolato sul mondo che ci rimanda all’aspi­
razione messianica. Nessuno meglio di Adorno ha saputo cogliere
questa dialettica paradossale: per lui nel Castello (e nel Processo)
la nostra esistenza è presentata come «l’inferno dal punto di vista
della redenzione»; essa è illuminata da una luce che «fa apparire le
crepe del mondo in un rosseggiare infernale»6.
In questo mondo decaduto, qualunque tentativo isolato (come
quello di K.) di opporre la verità alla menzogna è votato al falli­
mento. Secondo Kafka, «in un mondo di menzogna, la menzogna
non è eliminata nemmeno dal suo contrario, lo è soltanto da un
mondo di verità»7; in altre parole, con l’abolizione del mondo esi­
stente e con la sua sostituzione con uno nuovo. Ciò detto, nem­
meno la metafora dell’inferno riesce davvero a rendere conto della
Stimmung del romanzo: il clima del Castello non ha niente di una
discesa patetica nel quinto girone, è piuttosto lineare e ironica. Le
sarebbe applicabile la formula di Lukàcs nella Teoria de! romanzo:
«L’ironia dello scrittore è la mistica negativa delle epoche senza
Dio».

Come si sa, l’architettura del romanzo si struttura intorno a tre


figure essenziali: il Castello, il villaggio e l'agrimensore K. Co­
minciamo dal primo, questo mitico castello che si rivela, visto da
vicino, «una misera cittadina, un insieme di casupole con la sola
particolarità di essere costruite tutte in pietra»8. Davanti alla marea
di interpretazioni teologiche, simboliche e allegoriche, si dovrebbe
forse avere un po' più di prudenza: e se il Castello non fosse il sim­
bolo di qualche cosa d’altro, ma fosse semplicemente un castello,
cioè la sede di un potere terrestre e umano9? In una lettura del ge­

103
nere, il «Castello» rappresenterebbe il potere, l’autorità, lo Stato,
davanti al popolo, simboleggiato dal «villaggio». Un potere di­
stante e arbitrario, che governa il villaggio attraverso una schiera di
burocrati il cui comportamento è rozzo, inspiegabile e rigorosa­
mente privo di senso. L’edificio stesso, sede del vertice dell’appa­
rato amministrativo, è inaccessibile e impenetrabile, come indica
l’etimologia del termine tedesco Schloss, «chiusura».
Tale potere non è affatto, come spesso si pensa, quello di un di­
spotismo arcaico, sulla fattispecie della monarchia austro-ungarica.
A Kafka non interessa la figura tradizionale e personale dell’auto­
rità: il conte Westwest è un personaggio trascurabile nel romanzo.
Quelli che lo scrittore (come gli anarchici) mette in discussione
sono piuttosto i fondamenti dispotici dello Stato moderno, con il
suo apparato burocratico, gerarchico e spersonalizzato, autoritario
e alienato. E lo fa con la sua arma preferita: l’ironia. O, per essere
più precisi, lo humour nero, nel senso in cui lo intendevano i sur­
realisti, che è una delle dimensioni essenziali di quest’opera in­
compiuta.
Come funziona il sistema amministrativo del potere? Si tratta di
una struttura che si dichiara perfetta e infallibile: «La nostra orga­
nizzazione è impeccabile (lückenlos)», afferma il funzionario Bür­
gel. Non meno perfetta è la sua irrazionalità... Nel quinto capitolo,
Kafka disegna una parodia tragicomica dell’universo burocratico e
di quella confusione «ufficiale» che K. definisce «un ridicolo im­
broglio» (lächerliche Gewirre), ma un imbroglio che decide
dell’esistenza delle persone. La logica interna, circolare e vuota di
questo sistema è messa in luce da una frase del sindaco: «Solo un fo­
restiero poteva fare una simile domanda. Se ci sono servizi di con­
trollo? Tutto è servizio di controllo. Certamente non sono fatti per
scoprire errori nel senso grossolano del termine, perché errori non se
ne commettono e, anche se per una volta accade, come nel suo caso,
chi può dire alla fine che sia un errore?»10. Il sindaco sostiene quindi
che l'insieme della macchina burocratica sia composto esclusiva-
mente da servizi di controllo, che si controllano a vicenda. Ag­
giunge immediatamente, però, che non c’è niente da controllare,
perché non ci sono errori veri e propri. Ogni frase nega la prece­
dente e il risultato finale è l’insensatezza «amministrativa». L’oc­
chio dell’autore, ironico e lucido, è quello di un osservatore che co­
nosce bene il discorso burocratico e lo «decostruisce» senza pietà.

104
Intanto, sullo sfondo, c’è qualcosa che spinge, che si estende
senza limiti e sommerge tutto: la carta protocollo, Kanzleipapiere,
quella di cui sono fatte, secondo Kafka, le catene di un’umanità
torturata. Un mare di carte copre la sala del municipio. Una mon­
tagna di carte si accumula nell’ufficio di Sordini. Una carta (il fa­
scicolo che riguarda K.) fa più volte un viaggio di andata e ritorno
tra gli uffici A e B, che si rimbalzano la palla, e finisce per perdersi
nei meandri cartacei del Castello. Parrebbe un’efficacissima cari­
catura della «distinzione delle sfere di competenza» vantata da
Max Weber.
A che cosa servono le innumerevoli schede, i fascicoli accu­
mulati alfinfinito, i protocolli che traboccano dagli armadi? Come
ammette Momus, che pretende imperiosamente dall’agrimensore
informazioni da inserire in un formulario, Klamm non legge mai
nessun protocollo! Questi Kanzleipapiere non sono più mezzi, ma
fini in sé: lo scopo del formulario, in ultima analisi, è il formulario
stesso11...
Il punto culminante dell’alienazione burocratica è raggiunto
quando il sindaco descrive l’apparato ufficiale come una macchina
che funziona da sola, un automa che fa a meno dell’intervento
umano: «E come se l’apparato amministrativo non potesse più sop­
portare la tensione, l’eccitazione subita per lunghi anni per colpa di
quella questione, e da sé, senza l’aiuto di funzionari, abbia preso la
decisione»12.
Kafka descrive una specie di perpetuimi mobile burocratico, un
apparato amministrativo che si autonomizza e gira a vuoto intorno
a se stesso13. Rappresenta così (anche qui con sottile umorismo) il
sistema burocratico come un mondo reificato, nel quale i rapporti
tra individui diventano una cosa, un oggetto indipendente, un cieco
ingranaggio. Siamo nel pieno della modernità, in quello che essa ha
di più impersonale e meccanico14. Se si confronta la rappresenta­
zione del sistema burocratico nel Castello con quella dei sociologi
dell’epoca, come Max e Alfred Weber, si possono osservare al­
cune analogie, ma soprattutto notevoli scostamenti. Vari com­
mentatori hanno notato l’esistenza di punti in comune tra la buro­
crazia del castello kafkiano e quella descritta da Max Weber (un
autore che sicuramente Kafka non aveva mai letto): gerarchia fun­
zionale, rigorosa distribuzione delle sfere di competenza, registri
sistematici, regolamentazione accurata. Tuttavia, come ammette

105
José Maria Gonzales Garcia, autore dello studio più approfondito
sulle «affinità elettive» tra Weber e Kafka, le differenze sono più
importanti delle somiglianze, a cominciare dal fatto che il primo
aveva, a differenza del secondo, una posizione nazional-imperiali-
sta ed era sostenitore di uno Stato forte {Machtstaat) in Germania.
Era anche convinto della razionalità e della efficacia del sistema
burocratico, anche se in certi suoi interventi più personali si dimo­
stra preoccupato per la minaccia che rappresenta la burocratizza­
zione totale del mondo15. Tra gli scritti di Max Weber più vicini
alla sensibilità antiburocratica di Kafka si possono citare gli inter­
venti fatti nel 1909 a Vienna durante i lavori dell’Associazione per
la politica sociale: «Questa passione per la burocrazia è sufficiente
per farci cadere nella disperazione [...]. La grande questione non è
di sapere come promuovere e stimolare questa evoluzione, ma
come opporsi a quel meccanicismo per salvare una particella della
libera umanità da questa frammentazione spirituale, da questo do­
minio supremo del modo di vita burocratico»16.
Diversa è la questione con Alfred Weber (il fratello minore di
Max), anche perché Kafka lo conosceva personalmente: il profes­
sore tedesco aveva presieduto la commissione del suo dottorato in
diritto all’università di Praga nel 1906. Non è escluso che Kafka
abbia letto l'articolo intitolato L’impiegato, pubblicato dal socio­
logo nel 1910 sul periodico «Neue Rundschau» (al quale Kafka era
abbonato). In effetti esistono consonanze tra questo articolo e gli
scritti di Kafka. Per esempio quando Alfred Weber si dichiara
preoccupato per «l'era burocratica in arrivo» e critica la burocrazia
in quanto «gigantesco apparato che s’innalza nella nostra esistenza,
[...] meccanismo morto» monotono e molesto che annulla l’indi­
pendenza degli individui, che ha un bisogno illimitato di autorità e
che è oggetto di una vera e propria idolatria {Götzendienst vor dem
Beamtentum)^. Quest’ultima osservazione fa subito venire in
mente un personaggio come Klamm, l’alto funzionario del Ca­
stello, verso il quale certi abitanti del villaggio tributano un culto
quasi religioso. Tuttavia, anche in questo caso si resta colpiti dalle
differenze: mentre Alfred Weber è preoccupato soprattutto per la
sorte degli strati medio-alti della società, condannati al mestiere di
funzionario, Kafka s’interessa agli esclusi e agli emarginati, strito­
lati dalla gigantesca macchina amministrativa. Il procedimento di
Kafka è molto più originale e caratteristico: il suo modo di perce­

106
pire il funzionamento dell’apparato è molto più vicino a quello
della gente semplice smarrita nei meandri della burocrazia che alle
dotte analisi dei sociologi, anche di quelli critici.
Agli occhi di K. il Castello è tanto inaccessibile quanto lo è per
Joseph K. il tribunale del Processo. Per l’agrimensore, come per la
maggioranza degli abitanti del villaggio, i funzionari sono distanti
e intoccabili, si comportano in modo freddo e impersonale. Bürgel
dichiara che «i segretari non hanno alcun riguardo» per il pubblico,
attenendosi esclusivamente alla «rigida osservanza e scrupolosa
applicazione del servizio»18. Gli unici rapporti «umani» che in­
trattengono con la gente del luogo sono rapporti sessuali, nel senso
più crudo del termine, che essi impongono alle donne del popolo.
Questo elemento, che ricorda l'antico jus primae noctis dei signori,
è uno dei rari aspetti premoderni del romanzo. A meno che Kafka
non abbia voluto suggerire che lo sfruttamento sessuale delle
donne sia perfettamente compatibile con la gerarchia amministra­
tiva più razionale e moderna... In ogni caso, nel Castello egli trac­
cia un quadro di dominio maschile brutale e oppressivo sulle
donne, con pochi equivalenti nella letteratura dell’epoca. Quando
scrive che «Klamm domina le donne come un comandante mili­
tare», che dispone a suo piacere del loro corpo, sembra suggerire
un parallelo tra questo sistema patriarcale e l’autorità burocratica o
coloniale, perché lo stesso termine (Kommandant) è utilizzato per
indicare il potere superiore nella Strafkolonie^.
In apparenza queste pratiche sono in contraddizione con la sper­
sonalizzazione delle funzioni amministrative. In realtà i rapporti
dei funzionari con le donne non sono rapporti personali in senso
stretto: esse sono trattate come figure intercambiabili, semplici og­
getti di consumo sessuale. Tra Klamm e Gardenia, la locandiera,
non c’è amore o un legame personale di qualsiasi natura: dopo
averla fatta venire per tre volte nel suo letto, il funzionario non la
chiama più e se ne dimentica definitivamente. Nei discorsi di certi
burocrati, il sesso compare come un elemento che può favorire o
turbare il buon funzionamento della macchina amministrativa.
Così Sortini si irrita perché la vista di Amalia lo ha eccitato e ciò gli
impedisce di concentrarsi sul lavoro. Per questo le ordina di pre­
sentarsi alla locanda, in fretta, perché da coscienzioso amministra­
tore dispone soltanto di una mezz’ora per soddisfare i propri biso­
gni sessuali. Analogamente, non è Klamm che reclama il ritorno

107
della sua ex amante Frieda al proprio fianco, ma il di lui segretario,
Erlanger, attento a evitare tutto ciò che potrebbe distrarre l’alto
funzionario dal suo lavoro: «Il più piccolo spostamento su una scri­
vania, la scomparsa di una macchia che c’è stata fino ad allora,
tutto può essere di disturbo; e altrettanto una nuova cameriera».
Ridotta alla poco invidiabile condizione di una macchia sulla scri­
vania che non va eliminata, «Frieda deve ritornare subito alla me­
scita». A K„ il suo nuovo amante, Erlanger ordina di sottomettersi
alle esigenze oggettive del lavoro amministrativo: «Lei vive con
Frieda, come mi hanno detto, dunque disponga subito perché ri­
torni. Non si può tenere conto dei sentimenti personali, è naturale,
perciò non insisterò oltre sulla questione»20.
A differenza del Processo, nel Castello non compare nessun
boia o carnefice, nessuno viene messo a morte. Ciò nondimeno, il
Castello esercita un dominio assoluto sulla popolazione del villag­
gio, alla quale incute timore e impone obbedienza. La saggezza po­
polare sembra esprimersi in un’osservazione della padrona dell'al­
bergo a proposito di Momus, il segretario di Klamm: «È uno
strumento sul quale è posta la mano di Klamm, e guai a chi non gli
obbedisce»21. E i guai ricadono su Amalia, perché la giovane ha
commesso un errore irreparabile: ha sfidato l’autorità respingendo
le avances del funzionario Sortini. Come pena per quel reato di
lesa maestà, Amalia e tutta la sua famiglia sono messe al bando,
non solo dal Castello, ma da tutta la popolazione del villaggio, che
le evita come fossero paria o appestati. I parenti cercano invano di
ottenere il perdono delle autorità, ma nulla piega la decisione del
Castello: non servono le suppliche, le umiliazioni, le prove di sot­
tomissione, le autoflagellazioni (Olga, la sorella, si concede ai ser­
vitori dei funzionari nelle scuderie). La risposta dei burocrati a
quelle richieste disperate di perdono è, peraltro, un perfetto esem­
pio di logica amministrativa: non c’era niente da perdonare perché,
per il momento, «non era arrivata nessuna denuncia [...], quanto
meno non risultava dai verbali, almeno non in quelli aperti alla con­
sultazione degli avvocati. Per quello che si poteva constatare, nes­
sun provvedimento era in corso [.. ,]»22.
Adorno ha analizzato quelli che definisce gli «aspetti sordidi»
nei romanzi di Kafka e osserva, con una di quelle frasi taglienti di
cui aveva il segreto, che si tratta delle «tracce di sporcizia che le
dita del potere lasciano sull’edizione di lusso del libro della vita»23.

108
I sette capitoli su Amalia e la sua famiglia sono tra i più strazianti
del romanzo. Fa impressione il servilismo della famiglia «male­
detta», ma è ancora peggio quello degli altri abitanti del villaggio,
che esclude quegli sventurati come fossero lebbrosi e li tratta come
se non fossero più esseri umani24, senza neppure che il Castello
debba emettere un’ordinanza o un decreto. E un atteggiamento che
dimostra la più perfetta ignominia. Ci troviamo davanti a un esem­
pio lampante di servitù volontaria, nel forte senso politico che in­
tendeva La Boétie25. Elias Canetti osserva con molta ragione che
il tema del romanzo è «l’umiliazione imposta dal potere {Herr­
schaft)» e aggiunge questo commento: «Non è mai stato scritto un
attacco più chiaro contro la sottomissione a chi sta in alto»26.
Il tema della servitù volontaria compare in molti altri testi di
Kafka. Per esempio, in questo breve racconto pubblicato da Brod:
«Ci si vergogna a dire con quali mezzi il colonnello imperiale go­
verna la nostra cittadina di montagna. Se lo volessimo, il manipolo
di soldati sarebbe rapidamente disarmato e i rinforzi (supponendo
che riuscisse a chiamarli, ma come potrebbe?) ci metterebbero
giorni, se non settimane, ad arrivare. Egli dipende così in tutto e per
tutto dalla nostra soggezione. [...] Come mai, allora, tolleriamo il
suo governo aborrito? Non c’è dubbio, soltanto a causa del suo
sguardo»27. Come La Boétie, Kafka insiste sul fatto che la sotto-
missione è l'unico fondamento del potere di «uno» contro «tutti»,
una soggezione che provoca, in questo frammento come nella
chiusa del Processo, un sentimento di vergogna.
Quel colonnello, o un suo equivalente, lo ritroviamo nel rac­
conto Il rifiuto'. «Alcuni soldati vigilavano su tutto, stando in se­
micerchio intorno a lui. Per la verità un solo soldato sarebbe ba­
stato per tutto, tanto grande è la nostra paura nei loro confronti».
L'ufficiale risponde sempre alle umili richieste del popolo, rispet­
tosamente presentate da una delegazione, facendo dire a un fun­
zionario subalterno: «La richiesta è respinta. Allontanatevi». Ciò
che distingue comunque questa storia da altre analoghe è la pre­
senza notevole di germi di resistenza: «In ogni caso, per quanto
possano essere sufficienti le mie osservazioni, c’è una certa classe
di età che non è contenta, sono all’incirca i giovani tra i diciassette
e i vent’anni. Dunque giovani cittadini che neppure alla lontana
possono presentire la portata del pensiero più insignificante, figu­
riamoci uno rivoluzionario. E proprio lì, fra loro, che s’insinua il

109
malcontento»28. In questi due testi si ha a che fare con un potere di
tipo tirannico, personale e di natura premoderna, fondato sulla tra­
dizione. Nel Castello, invece, come abbiamo visto si tratta di un
potere burocratico, moderno, impersonale, «amministrativo». Ma
il comportamento sottomesso di chi sta «in basso» è del tutto simile
in entrambi i casi.
L’agrimensore K., quando parla dell’atteggiamento della gente
del villaggio, critica decisamente quell’autoasservimento: «Il ri­
spetto dell’autorità è innato in voi, per tutta la vita vi viene infuso
di continuo nei modi più vari e da tutte le parti, e voi stessi vi aiu­
tate come potete»29. Chi è allora K., il candidato agrimensore che
arriva una sera al villaggio e si permette di discutere il comporta­
mento troppo servile degli abitanti? La migliore descrizione ce la
offre la proprietaria della locanda, che non nutre una grande sim­
patia per lui: «Lei non è del Castello né del villaggio; lei non è
niente. Purtroppo, però, lei è anche qualcosa, un forestiero, uno di
troppo e sempre tra i piedi che procura un mucchio di seccature»30.
E l’Ebreo, lo straniero per eccellenza, l'eterno disturbatore, sempre
«di troppo»? Così lo interpreta Hannah Arendt. Senza negare che la
condizione ebraica abbia potuto ispirare la creazione di questo per­
sonaggio, è evidente che si tratta di una figura universale', lo stra­
niero, l’immigrato, chi non ha appartenenza, non è di un luogo pre­
ciso, VAussenseiter, l’outsider, al margine delle istituzioni e delle
strutture sociali prestabilite. Zygmunt Bauman, parlando di Kafka,
da lui definito «il più lucido degli stranieri universali», vede nello
straniero, solo e unico eroe dei romanzi del praghese, l'archetipo
dell'universalità proprio in ragione dello sradicamento, dell’as­
senza di un focolare, di un luogo «naturale»31.
L'agrimensore, però, non è uno straniero qualunque: è chi osa
esprimere critiche e pretende con somma insolenza di avere dei
diritti... Insomma, è chi rifiuta la servitù volontaria. Da quando
arriva al villaggio non ha esitazioni a sfidare l'autorità, e manda a
spasso il giovane e arrogante funzionario Schwarzer, quando costui
dichiara: «Esigo rispetto dinnanzi alle autorità del Conte!». In una
conversazione con la padrona della locanda, formula in poche pa­
role il proprio atteggiamento esistenziale: «Io tengo alla mia li­
bertà». Certo, questa frase è volta a spiegare come mai non vuole
abitare al Castello, ma ha una portata ben più generale: si può dire
che definisce alla perfezione il comportamento del personaggio.

110
Sappiamo che non è un contestatore: chiede solo che gli siano ri­
conosciute le sue funzioni di agrimensore. Ma non ha affatto l’at­
teggiamento timoroso e sottomesso della gente del villaggio. Ecco,
per esempio, come spiega all’oste il suo comportamento verso i
potenti: «Io non sono timido e so dire ciò che penso anche a un
Conte, ma con i signori è molto meglio risolvere le questioni in
modo amichevole»32. Dalle autorità del Castello vuole quella che
è l’esigenza universale di tutti gli esclusi e di tutti i paria delle so­
cietà moderne: «Non voglio regali (Gnadengeschenke) dal Ca­
stello, ma che mi venga resa giustizia (mein Recht)»33. Ed è ap­
punto questa che gli viene rifiutata, in nome di un interminabile
elenco di ragioni «amministrative» che provocano la sua indigna­
zione: «La mia esistenza è minacciata da una scandalosa burocra­
zia (Schmachvolle amtliche Wirtschaft)»34.
K. non ha nessuna vocazione a farsi carico della causa della
gente del villaggio o provocare un’azione collettiva: «Non biso­
gnava accoglierlo come un uomo che portasse la felicità; [...] era
chiamato a compiti ai quali, così costretto, non avrebbe mai po­
tuto dedicarsi; anche con la migliore volontà del mondo non
avrebbe potuto accettare quel ruolo»35. Il suo atteggiamento è in­
sieme difensivo e combattivo, ma strettamente individuale: «Si
fanno spaventosamente gioco di me, e forse anche della legge. Per
quanto mi riguarda, io saprei difendermi»36. Purtroppo, come si
vedrà più avanti, l’individuo è impotente davanti agli apparati bu­
rocratici opachi e onnipotenti.
L’agrimensore considera il rapporto con tali apparati «una
lotta», un combattimento difficile nel corso del quale è costretto ad
ammettere che «il rapporto di forza tra lui e le autorità» è «spro­
porzionato». Il suo atteggiamento di sfida verso i rappresentanti
del Castello stupisce e sconvolge la gente del villaggio, che tenta di
prodigargli consigli di prudenza e di sottomissione. L’ostessa si
lagna del fatto che non arriverà a niente «dicendo sempre di no, fa­
cendo sempre di testa sua (aufseinen Kopf) e non ascoltando i con­
sigli che [gli] vengono dati con le migliori intenzioni». Il sindaco
teme che K. prenda «un’iniziativa personale (auf eigene Faust)
sconsiderata», se la decisione sulla sua pratica dovesse tardare
troppo37. Le espressioni auf seinen Kopfe auf eigene Faust carat­
terizzano appunto quello spirito individualista, indipendente e di
opposizione del personaggio38.

Ili
Non sorprende, pertanto, che egli reagisca indignato quando
viene a sapere del «segreto di Amalia» e delle ragioni dell’ostraci­
smo di cui è vittima. Sua sorella Olga racconta i fatti con una spe­
cie di triste rassegnazione, come una fatalità della «sorte». «Ma
quale sorte [...]», sbotta K., «non si poteva mica accusare o addi­
rittura punire Amalia per il comportamento delittuoso di Sortirli!».
Alle sue proteste Olga risponde con parole disincantate: «Tu ri­
tieni che sia una cosa ingiusta e mostruosa, ma nel villaggio sei
solo tu a pensarla così»39. Non si potrebbe meglio mettere in ri­
lievo l’abisso che separa il giudizio autonomo dell’agrimensore
(una persona che ragiona con la propria testa - auf seinen Kopf)
dalla sottomissione generale. In un altro passo espunto, Olga ma­
nifesta la propria ammirazione per K., quell’individuo venuto da
fuori che non condivide le paure dei locali: «Sei sorprendente [...]:
domini le cose con uno sguardo [...]; di sicuro è perché vieni da un
paese straniero. Noi, invece, la gente di qui, con tutte quelle tristi
esperienze e quei continui spaventi, siamo senza difesa davanti alla
paura. Basta un legno che scricchioli per spaventarci [...]. Che for­
tuna per noi che tu sia venuto!»40.
Davanti al Castello e ai suoi funzionari K. si trova in una situa­
zione simile a quella del campagnolo di fronte al guardiano delle
porte della Legge della parabola inserita nel Processo. Se ne ri­
trova l’eco in un passo rivelatore: «K. aveva parlato [...] come se
fosse stato davanti alla porta di Klamm intento a discutere con il
guardiano». A differenza del personaggio della parabola, però,
l’agrimensore non teme di trasgredire i divieti e superare gli osta­
coli. Nel Castello, egli spiega a Olga, «vi sono delle porte che con­
ducono altrove, barriere che si possono attraversare con un po’ di
fortuna»41. E così che, nell’ultima scena del romanzo incompiuto,
egli entra senza autorizzazione nel corridoio dei funzionari e crea
un grave scompiglio al servizio: «Né la proprietaria né l’ostessa
riuscivano a capire come avesse osato compiere una cosa si­
mile»42. Da questo punto di vista, K. è l’antitesi del «campagnolo»
che aspetta invano, tutta la vita, paziente e sottomesso, che gli sia
concesso di accedere all’interno delle porte della Legge... Invece
nel Castello si trovano personaggi che hanno una sorprendente so­
miglianza con l'antieroe della leggenda: è il caso, per esempio,
dell’individuo descritto da Olga che tenta di farsi ammettere al ser­
vizio del Castello: «Dopo molti anni, quando forse è vecchio, viene

112
a sapere del rifiuto, che tutto è perduto e la sua vita è stata vana»43.
Come mai le autorità non puniscono l’agrimensore? Esse si ac­
contentano di giocare con lui al gatto col topo, fino a quando non
muoia di «sfinimento»: questa sarebbe la probabile conclusione del
romanzo secondo una conversazione con Kafka riportata da Max
Brod. È una questione che nel testo non è affrontata direttamente.
Si può supporre che i poteri del Castello considerino quella fronda
individuale imbelle e inoffensiva, incapace di esercitare un’in­
fluenza sulla popolazione sottomessa e obbediente del villaggio.
Secondo Marthe Robert, l'agrimensore K. rappresenta una tappa
successiva (rispetto a Joseph K.) nel «lento cammino dell’eroe
verso la riconquista del proprio Io sulla tirannia dell’ ‘amministra­
tivo’»: egli muore sfinito ma, almeno, ha «smontato pezzo per
pezzo, simbolo dopo simbolo, un segno dopo l’altro, l’edificio on­
nipotente che resta in piedi solo grazie all’arbitrio dei suoi padroni,
debitamente assecondati dalla pigrizia spirituale e dalla credulità
degli individui accecati»44. L’agrimensore è lo straniero che si
trova in una situazione di esteriorità rispetto alla relazione di do­
minio-subordinazione del Castello con il villaggio. In quanto tale,
egli è capace di stupore (nel senso del thaumazein greco, il senti­
mento che dà origine a tutte le conoscenze filosofiche) davanti
all’assurdità burocratica personificata dai funzionari del Castello.
Come si spiega questa «tappa»? Come mai il tema della resi­
stenza al potere prende un rilievo ben maggiore nel Castello, ri­
spetto al Processo, la cui drammatica conclusione sembrava con­
fermare la rassegnazione fatalistica delle vittime? Una possibile
spiegazione rimanderebbe allo scarto tra le due congiunture storiche
relative alla stesura dei due romanzi: nel 1914-1915, i primi anni di
guerra, il conformismo domina largamente le coscienze europee,
mentre nel 1918-1922 si assiste alla più dirompente ondata insur­
rezionale del XX secolo, soprattutto nell’Europa centrale (in Ger­
mania e nell’ex Impero austro-ungarico). Certo, il Castello non ha
affatto per oggetto la rivoluzione o le ribellioni collettive, ma il tema
dalla rivolta individuale è una dimensione essenziale del romanzo.
Lo straniero sarebbe allora l’unico che non si piega davanti ai
potenti? Così la pensano vari commentatori, compresi alcuni tra i
più lucidi, come Hannah Arendt: «Per la sua insistenza sui diritti
dell'uomo, lo straniero si rivela l’unico che abbia ancora idea di
che cosa sia una semplice vita umana nel mondo»45. Ora, una let-

113
tura attenta del romanzo mette in luce come nel Castello l’agri­
mensore K. non sia l’unica voce critica, di protesta o di ribellione.
La servetta Pepi, per esempio, che da qualche giorno ha sostituito
Frieda alFAlbergo dei Signori, si confida con K. rivelandogli il
proprifisogno più caro, un vero sogno di rivolta anarchica: «Chi
avesse la forza di dare fuoco a tutto l'Albergo dei Signori, di farlo
bruciare completamente, senza lasciar traccia, di bruciarlo come
carta nella stufa, sarebbe oggi l’eletto di Pepi»46. Questa frase ne
riecheggia una pronunciata dallo stesso Kafka e riportata da Max
Brod, nella quale dichiarava la sua sorpresa per il fatto che i lavo­
ratori alle prese con le manovre dell'ufficio delle assicurazioni so­
ciali non prendessero d’assalto la compagnia saccheggiando ogni
cosa....
C’è un altro personaggio che non si piega, che non si limita a so­
gnare come Pepi, un personaggio la cui rivolta è ben più dramma­
tica di quella dell’agrimensore K. e che, a differenza degli altri abi­
tanti del villaggio, «ignora la paura» e si dimostra capace di «atti
eroici» contro le autorità. È Amalia, una donna del popolo il cui
sguardo triste, fiero e sincero, come le parole, manifesta uno spirito
elevato che colpisce K. Nel capitolo 17 se ne conosce «il segreto»:
quando riceve da Sortini, un funzionario arrogante e rozzo, un mes­
saggio estremamente volgare e addirittura rivoltante (in sintesi,
osceno), che le intima di recarsi da lui all’Albergo dei Signori, non
esita a strapparlo e a gettarne i pezzetti sul viso del messaggero in­
viato dall’uomo del Castello. È un atto in apparenza insignificante,
ma in realtà di un coraggio senza precedenti: respinge l’ignobile
Sortini «senza dubbio più violentemente di quanto un funzionario
sia mai stato respinto». Se il tentativo del funzionario è fallito, os­
serva K„ è perché ha trovato in Amalia «un’avversaria più forte di
lui», in senso morale e spirituale, ovviamente. Tanto basta per at­
tirare su di lei e sulla sua famiglia la maledizione di chi sta in alto,
condannandole a un’esclusione definitiva e irrevocabile47.
Amalia è uno dei rari personaggi dei romanzi di Kafka che in­
carna in modo irriducibile il rifiuto dell’obbedienza, la rivolta, in
sintesi la dignità umana, e la paga a caro prezzo. Essa dimostra che
nel villaggio, in seno al «popolo» (e non solamente in luoghi stra­
nieri), si possono trovare risorse di coraggio, di orgoglio e di resi­
stenza. Certo è un personaggio di eccezione, che si stacca netta­
mente dalla massa gregaria dei suoi compaesani, ma comunque

114
esiste. È un caso che si tratti di una donna48? Ci si può chiedere se
il modello per questa figura letteraria non sia la sorella prediletta di
Franz, Ottla, che nella Lettera al padre egli definisce dotata della
«caparbietà, sensibilità, senso di giustizia, inquietudine tipiche dei
Löwy» e che ammira per «quel plus di sicurezza, fiducia, salute e
spensieratezza che ha rispetto a me»49.
Curiosamente, la maggior parte dei commentatori, con gli occhi
inchiodati sul personaggio dell’agrimensore, hanno trascurato
quello di Amalia, che pure è una delle figure femminili più com­
moventi dell’opera di Kafka. Una figura che esprime in modo
esemplare l’individualismo libertario dello scrittore.

Note al capitolo

1. Max BROD, Postfazione alla prima edizione, in Franz KAFKA, Il Castello,


cit. Alcuni commentatori, prendendo atto del comportamento degli alti funzionari
del Castello, delle bugie, degli inganni, della loro lussuria, ma volendo nonostante
tutto trovarvi un significato religioso, finiscono per paragonarli agli ... dèi greci. È
la tesi sorprendente di Pietro Citati, secondo il quale i funzionari sarebbero divinità
di una religione pagana politeista che, come gli dèi greci «si calano talora tra gli uo­
mini [...] attratti da un corpo femminile» (Pietro CITATI, Kafka, Gallimard, Paris
1991. pp. 302-314; ediz. it.: Kafka, Rizzoli, Milano 1987). Trasformare Kafka in un
pagano ellenizzante non è molto credibile, ma è questa la conclusione logica di
qualsiasi tentativo di vedere nei Signori del Castello dèi o messaggeri divini... E
vero che K. in sogno si rappresenta il funzionario Biirgel come un dio greco, ma si
tratta di uno spettacolo «comico» nel quale il signor segretario appare nudo e si
trova in difficoltà lottando con K. (Franz KAFKA, H Castello, in Tutti i romanzi e
i racconti, cit., p. 447). Dunque, i riferimenti pagani nel Castello sono sempre nel
registro comico.
2. Erich HELLER, Franz Kafka, cit., p. 105.
3. Günther ANDERS, Kafka. Pour et contre, Circe, Paris 1990. pp. 124-125.
Secondo Anders, davanti a questa potenza iniqua, i personaggi di Kafka finiscono
per piegarsi. 11 comportamento dell’agrimensore K. (il protagonista del romanzo)
consiste, sempre secondo Anders, nel «conformarsi a tutte le prescrizioni, inte­
riorizzandole», e perfino giustificare le esigenze «immorali dei detentori del po­
tere». Per questo Kafka sarebbe un «moralista del conformismo» e il suo messag-

115
gio politico sarebbe semplicemente questo: «Farsi schiacciare». Anders attribuisce
a K. un comportamento servile che non corrisponde affatto a ciò che si legge nel
romanzo. Come vedremo più avanti, ciò che succede è più o meno il contrario.
4. Martin BUBER. Zwei Glaubweisen, in Werke, Band I, Lambert Schneider,
Heidelberg 1962. p. 778. Anche Hans Joachim Schoeps definisce la religione di
Kafka una teologia dell’assenza di salvezza (Heillosigkeit) e aggiunge questa os­
servazione: «Solo la teologia ebraica conosce il fenomeno di un’autentica storia di
non salvezza ( Unheilsgeschichte) nella quale la storia della salvezza si trasforma nel
suo esatto contrario». Cfr. Hans Joachim SCHOEPS, Theologische Motive in der
Dichtung Franz Kafkas, «Neue Rundschau», 1951, p. 21.
5. Franz KAFKA, Préparatifs de noce à la campagne, cit., p. 49.
6. Theodor W. ADORNO, Prismen, cit., pp. 239-40. Il primo autore che parla di
«inferno» e di «violenza infernale» a proposito di Kafka (proprio in una recensione
del Processo, pubblicata nel 1925) è il suo amico Ernst Weiss (Franz Kafka, Kritik
und Rezeption 1924-1938, Fischer Verlag, Frankfurt am Main 1983, pp. 95-96).
7. Franz KAFKA, Préparatifs de noce à la campagne, cit., p. 97.
8. Franz KAFKA, Il Castello, in Tutti i romanzi e i racconti, cit., p. 304.
9. E la tesi sostenuta da Alfred Döblin, Die Romane von Franz Kafka, «Die Li­
terarische Welt», 4 marzo 1927.
10. Franz KAFKA, Il Castello, in Tutti i romanzi e i racconti, cit., p. 336.
11. Come ha giustamente osservato un lettore attento di Kafka, «lo scopo del
protocollo è il protocollo, lo scopo dell'ordine è l'ordine, lo scopo dell’ammini­
strazione è l’amministrazione e così via in un infinito circolare. Tutto sbocca su se
stesso e il tempo si congela nella ripetizione». Karin KELLER, Gesellschaft im
mythischen Bann. Studien zum Roman «Das Schloss» und anderen Werken Franz
Kafkas, Wiesbaden 1977, p. 62.
12. Franz KAFKA, Il Castello, in Tutti i romanzi e i racconti, cit., p. 338.
13. Rimando alle interessanti analisi di Axel DORNEMANN, Im Labyrinth
der Bürokratie. Tolstojs «Auferstehung und Kafkas Schloss», Carl Winter Univer­
sitätsverlag, Heidelberg 1984, p. 109.
14. L’umorismo di Kafka, come ha ben osservato Leandro Konder, si manife­
sta nella demistificazione dei discorsi «razionali» con i quali si tentano di giustifi­
care comportamenti irrazionali. Cfr. Leandro KONDER, op. cit., p. 122.
15. Vedi José Maria GONZALES GARCIA, La maquina burocratica. Afini-
dades electivas entre Max Weber y Kafka, Visor, Madrid 1989, pp. 42-43 e 161-
167. Vedi anche, sullo stesso argomento, le osservazioni illuminanti di Enzo TRA­
VERSO, op. cit., pp. 45-57.
16. Max WEBER, Gesammelte Aufsätze zur Soziologie und Sozialpolitik, JCB
Mohr, Tübingen 1924, p. 412.

116
17. Alfred WEBER, Der Beamte, «Neue Rundschau», ottobre 1910, pp. 1321-
1322, 1329, 1333. È interessante notare che per Alfred Weber gli ebrei si sottrag­
gono a questo asservimento in quanto respinti ed esclusi dall'apparato burocratico,
che li obbliga a condurre un’esistenza individuale soggettivamente più ricca. Viene
in mente l'agrimensore K. Astride Lange-Kircheim ha suggerito l'esistenza di con­
vergenze tra l’articolo del sociologo e certi temi del Castello. Vedi Astride
LANGE-KIRCHEIM, art. cit.
18. Franz KAFKA, Il Castello, in Tutti i romanzi e i racconti, cit., p. 445.
19. Ibid., p. 410. Cfr. Das Schloss, a cura di Malcolm Paisley, Fischer Verlag,
Frankfurt am Main 1994, p. 240: «Klamm ist doch wie ein Kommandant über die
Frauen».
20. Ibid., p. 451.
21. Ibid., p. 364.
22. /«</., p. 418.
23. Theodor W. ADORNO, Prismen, cit., p. 226. L’episodio di Amalia sarebbe
un tema appassionante per un’analisi femminista. Un testo che si presenta come
«un approccio femminista al Castello» esiste, ma è molto deludente: secondo l'au­
trice, il personaggio di Sortini non è affatto quello di uno scellerato, ma semplice-
mente di un uomo «di mezza età, incapace di scrivere di lettere, innamorato di una
ragazza», «un seduttore che invita Amalia nel suo castello»; sarebbe addirittura
«uno degli autoritratti più curiosi ma anche più tristi di Kafka» (sic). Cfr. Elisabeth
BOAS, Feminist Approaches: The Castle, in Kafka, Gender, Class and Race in the
Letters and Fictions, Clarendon Press, Oxford 1996, pp. 251 e 261. Inutile ogni
commento.
24. Franz KAFKA, Il Castello, in Tutti i romanzi e i racconti, cit., pp. 417-418.
25. Il socialista libertario Gustav Landauer aveva tradotto in tedesco De la ser­
vitude volontaire di Étienne de La Boétie per poi pubblicarlo nella sua rivista «Der
Sozialist» nel 1910e 1911. Non ci sono prove del fatto che Kafka conoscesse quel
testo, ma non è impossibile che fosse noto agli anarchici praghesi da lui frequentati.
26. Elias CANETTI, op. cit., p. 89.
27. Franz KAFKA. Beim Bau der chinesischen Mauer, a cura di Max Brod e
Hans Joachim Schoeps, Berlin 1948, p. 270.
28. Franz KAFKA, La Muraille de Chine et autres récits, cit., pp. 110-113. Se­
condo Janouch, per Kafka la servitù volontaria era una caratteristica generale delle
società moderne: ai nostri giorni, osservava, «si marcia lungo le strade delle città
ben protetti in mezzo al gregge per recarsi tutti insieme al lavoro, al truogolo, nei
luoghi di divertimento. È una vita con limiti ben definiti, esattamente come in uf­
ficio. Non ci sono più miracoli, ma solo istruzioni per l’uso, formulari e disposi­
zioni. Si temono la libertà e la responsabilità e quindi si preferisce soffocare die­

117
tro le sbarre che ci si è costruiti da sé». Cfr. Gustav JANOUCH, Conversazioni con
Kafka, cit., p. 27.
29. Franz KAFKA, Il Castello, in Tutti i romanzi e i racconti, cit., p. 403.0 an­
cora: «Ma se non accadeva nulla e non aspettavate un vero castigo, di che cosa
avevate paura? [...] Siete proprio dei tipi strani!» (/hit/, p. 416). Eppure K. non ha
niente di rivoluzionario e si affretta ad aggiungere: «In fondo non ho nulla da obiet­
tare. Se un'amministrazione è buona, perché non rispettarla?» (Ibid. p. 403). Anche
se il periodo ipotetico lascia adito al dubbio: è davvero «buona» l’amministrazione
del Castello?
30.lbid.,p. 327.
31. Zygmunt BAUMAN, Strangers. The Social Construction of Universality
and Particularity, «Telos», n. 78, inverno 1988-1989, pp. 31-32. Nella seconda
versione del suo saggio, destinata alla «Partisan Review», Hannah Arendt scriveva:
«La caratteristica decisiva di K. nel Castello consiste nel fatto che a lui interessano
soltanto gli universali, le cose alle quali hanno un diritto naturale tutti gli esseri
umani». Cfr. Hannah ARENDT. Kafka: A revaluation, «Partisan Review», n. 4,
1944, p. 415.
32. Franz KAFKA. // Castello, in Tutti i romanzi e i racconti, cit., p. 303.
33. Ibid., p. 341.
34. Ibid.,p. 354.
35. Si tratta di un passo espunto da Kafka e riportato da Max Brod nella post­
fazione all’edizione del Castello del 1946.
36. Franz KAFKA. Il Castello, in Tutti i romanzi e i racconti, cit.
37. Ibid., pp. 327, 348.
38. Come ha ben osservato la Arendt, «scopre che il mondo e la società normali
sono in realtà anormali, che i giudizi che tutti accettano come sani sono in pratica
completamente insani e che le azioni che si conformano alle regole di tale gioco
sono rovinose». Cfr Hannah ARENDT, Franz Kafka, cit., p. 113.
39. Franz KAFKA, Il Castello, in Tutti i romanzi e i racconti, cit., p. 409.
40. Anche questo passo è citato da Max Brod nella postfazione all’edizione del
Castello del 1946. Abbiamo citato prima la risposta negativa di K. alla tesi secondo
la quale il suo arrivo avrebbe portato «fortuna».
41. Franz KAFKA, Il Castello, in Tutti i romanzi e i racconti, cit., p. 403.
42. Ibid., p. 473.
43. Ibid., p. 424.
44. Marthe ROBERT, Seul comme Franz Kafka, cit., pp. 230-231.
45. Hannah ARENDT, Franz Kafka, cit., p. 105.
46. Franz KAFKA, // Castello, in Tutti i romanzi e i racconti, cit., p. 461.
47. Ibid., pp. 405-413. Ben diverso è il comportamento del fratello minore di

118
Amalia, Barnabas, che tenta disperatamente di farsi ammettere al servizio del Ca­
stello; quando si trova «lassù», «smarrisce tutto il coraggio che aveva da ragazzo»
e «trema di paura» davanti ai funzionari.
48. Si vede fino a che punto si sbagliava lo specialista e filologo Bert Nagel
quando scriveva; «In Kafka le donne non solo sono sempre figure marginali o ad­
dirittura semplici comparse, ma sono presentate come esseri di un rango morale
inferiore. Si arriva al punto che nell’insieme della sua opera non si trova pratica-
mente nessun personaggio femminile simpatico e nemmeno nessuna donna onesta».
Vedi Bert NAGEL, Kafka und die Weltliteratur, Winkler Verlag, Munich 1983, p.
237. C’è da chiedersi se questo commentatore abbia letto davvero 11 Castello... La
simpatia di Kafka per le donne coraggiose, anticonformiste e pronte a rompere con
le convenzioni per seguire i dettami della propria coscienza trova fra l’altro con­
ferma nell’ammirazione che nutriva per la socialista e femminista Lily Braun, le cui
Memorie autobiografiche aveva regalato a più persone. Lo stesso vale per l’attra­
zione che provava per Milena Jesenka, della quale esaltava l’audacia di spirito nella
lettera del 13 giugno 1920: «Il tuo coraggio è una marcia in avanti, quindi una ri­
duzione dell’oppressione, quindi una crescita del coraggio». Cfr. Franz Kafka, Let­
tres à Milena, cit., p. 59.
49. Franz KAFKA, Lettera la padre, cit., pp. 57-58.

119
VI

DIGRESSIONE ANEDDOTICA:
KAFKA ERA REALISTA?

Né Adorno né Karel Kosik (e ancor meno André Breton!) si


sono posti domande sul realismo di Kafka. E un tema che non ha
attirato l’attenzione dei marxisti critici. Invece, nel movimento
comunista post-staliniano il dibattito si è concentrato su questo
grave interrogativo: l'autore del Processo era o no uno scrittore
realista?
Lukacs si è distinto per averlo negato nel modo più categorico.
Certo non si tratta del Lukacs filosofo rivoluzionario di Storia e
coscienza di classe (1923), ma di quello tardo, alquanto marchiato
dallo stalinismo. In uno dei suoi libri peggiori, Il significato at­
tuale del realismo critico (scritto nel 1955), il pensatore ungherese
fa un confronto tra Kafka e Thomas Mann, per concludere che il
primo ha un carattere sostanzialmente non realista e, pertanto,
senza nessun interesse per una cultura di sinistra. Il punto di par­
tenza del suo ragionamento è insieme incredibilmente angusto e

121
del tutto arbitrario: Lukacs considera il Movimento per la Pace,
all’epoca patrocinato dall’uRSS, il riferimento essenziale per giu­
dicare tutta la letteratura del Novecento. Divide quindi gli intellet­
tuali e gli scrittori «borghesi» in due categorie: quelli che parteci­
pano al Movimento per la Pace e quelli il cui «rifiuto di partecipare
a quell’impegno, con la convinzione che la guerra sia inevitabile
[...] rivela una visione fatalista del mondo». Dopo di che, con una
disinvoltura straordinaria, deduce una «convergenza di due paia
di elementi contrastanti, da una parte il realismo o l’antirealismo
(avanguardismo, decadenza) e dall’altra un impegno per la pace o
la guerra»! Kafka diventa, in questo piccolo capolavoro di casi­
stica staliniana, il simbolo e l’espressione più perfetta dell’«avan­
guardismo decadente» che si «rifiuta di lottare per la pace»... Per
il Lukacs del 1955, la scelta tra Thomas Mann e Kafka equivale a
quella tra «la salute o la malattia sociale» (sic), o ancora tra una
«decadenza artisticamente interessante» e «un realismo critico vero
come la vita»1. Questa opinione, a quanto pare, era condivisa dalla
burocrazia stalinista ceca, per la quale il nome di Kafka era un
tabù, e che recalcitrava a pubblicare questo scrittore per niente or­
todosso2.
Nel suo esame delle opere di Kafka, Lukacs vi vede soltanto il
prodotto di una visione del mondo puramente soggettivista, per la
quale «la realtà si dissipa tra i vani fumi di un'astrazione senza con­
tenuto, poiché è determinata solo dal nulla», e i cui dettagli concreti
sono «semplici cifre che rimandano a un irraggiungibile aldilà».
Per esempio, «il Dio di Kafka, i giudici supremi del Processo, la
vera amministrazione nel Castello, rappresentano la trascendenza
delle allegorie kafkiane: il nulla». In breve, per Kafka «il mondo [è]
concepito come l’allegoria di un Nulla trascendente»3.
La critica di Lukacs è il risultato di uno stupefacente abbaglio:
egli non capisce che quell’assenza di contenuto, quell’«irraggiun­
gibile aldilà», quella trascendenza non rimandano a un «nulla»,
ma proprio alla struttura stessa della reificazione, come egli stesso
l’aveva magistralmente studiata in Storia e coscienza di classe, e
più concretamente all’impersonalità astratta, vuota, elusiva e tra­
scendente della macchina burocratica alienata e reificata. L’opera
letteraria che Lukacs definisce «antirealista» ha contribuito, forse
più di qualsiasi altra del Novecento, a una conoscenza critica della
realtà politica del mondo moderno4.

122
Sembra però che il filosofo marxista abbia poi avuto un ripen­
samento. Ecco una storia curiosa che ha raccontato ai suoi studenti
ungheresi: nel 1956, dopo l’invasione sovietica e la caduta della re­
pubblica dei consigli operai presieduta da Imre Nagy, quest’ultimo
e i suoi principali ministri (fra i quali Lukacs, ex ministro della
Cultura) furono internati in un castello-fortilizio in una località
della Romania, in attesa di essere giudicati. Non avendo accesso
all’atto d’accusa, non sapevano di quale reato fossero ritenuti re­
sponsabili e si trovavano nell’impossibilità di difendersi. Non sa­
pevano nemmeno di quale natura sarebbe stato il tribunale che
avrebbe dovuto giudicarli. Magistrati ungheresi? La nuova dire­
zione del partito? Il Politiburo sovietico? O semplicemente una
commissione mista della polizia politica ungherese e di quella
russa? Qualche mese dopo qualcuno uscì da quel luogo per essere
giustiziato (come Imre Nagy), mentre altri, come Lukacs, furono
scarcerati con il beneficio del dubbio. Pare che un giorno, nel corso
di quella lunga ed estenuante attesa, il filosofo, mentre passeggiava
nel cortile, si fosse rivolto alla moglie per confidarle: «Kafka war
doch ein Realist (Allora Kafka era un realista)»5.
Comunque sia, resta il fatto che negli anni seguenti (forse pro­
prio sotto l’impatto dei fatti d’Ungheria) Lukacs avrebbe radical­
mente rivisto il proprio giudizio su Kalka: in un saggio del 1965
egli abbozza un’analisi (che non sviluppa) che si colloca esatta­
mente agli antipodi di quella del 1955: «Kafkaf...] mette in scena
un’intera epoca di disumanità [...]. Per questo il suo universo [... |
acquista una caratteristica toccante e profonda, in contraddizione
con gli scrittori che, in quello sfondo storico, scorgono diretta-
mente la generalità nuda e astratta [... | dell’esistenza umana e fi­
niscono infallibilmente in un vuoto assoluto, nel nulla»6.
Le posizioni di Lukacs del 1955 erano tutt’altro che unanime­
mente condivise dagli intellettuali del movimento comunista, come
dimostra la conferenza su Kafka promossa nel 1963 da Eduard
Goldstücker a Liblice, in Cecoslovacchia, con la partecipazione di
Ernst Fischer, Anna Seghers, Klaus Hermsdorf, Roger Garaudy e
altri specialisti cechi, sovietici, polacchi, ungheresi jugoslavi e te­
desco-orientali7.
L’intervento senz’altro più interessante fu quello dell’eminente
filosofo e storico austriaco Ernst Fischer. Ribattendo all’argomen­
tazione di Lukacs, egli osservava: «La poesia è spesso in anticipo

123
sulla prosa... Molto di quello che si critica a Kafka è invece un
elemento della sua forza poetica. I Buddenbrook non è penetrato
così a fondo nell’oscurità del mondo tardo-capitalista quanto un
romanzo a frammenti come 11 processo. Thomas Mann descrive
retrospettivamente l’evoluzione della borghesia [...], Kafka guarda
in avanti e scopre nel particolare d’oggi l'inferno di domani».
Fischer affronta la discussione sul realismo ribaltando il con­
cetto di «realtà», ridotto dai dogmatici al mondo esteriore: «Le di­
verse maniere in cui il mondo esterno diventa un’esperienza sog­
gettiva non sono un aspetto importante della realtà? La realtà si
limita forse a quello che fa la gente? Non comprende anche quello
che sogna, sospetta o avverte come ancora non esistente, o esistente
solo in modo invisibile?». Poi ribatte a chi se la prende con il «ne­
gativismo» di Kafka, affermando senza esitazione: «Lo scrittore
non è tenuto a proporre soluzioni. I suoi punti di domanda sono
spesso più ricchi di contenuto dei punti esclamativi troppo frequenti
e stampati in caratteri troppo grossi»8.
I partecipanti alla conferenza di Liblice si aggregano intorno a
due poli: a un estremo quello che prende le difese dello scrittore,
energicamente rappresentato da Ernst Fischer, ma anche da nume­
rosi studiosi cechi (oltre a Eduard Goldstiicker, Jiri Hajek e Alexey
Kusak, che si rifanno entrambi a Karel Kosfk), dal polacco Roman
Karst e da pochi altri; all’altro estremo quello che critica Kafka in
quanto «soggettivista», rappresentato soprattutto dai sovietici e dai
tedeschi dell’est Klaus Hermsdorf (pur autore di un libro interes­
sante su Kafka), Helmut Richter ed Ernst Schumacher. Alle rac­
comandazioni di prudenza di questi eminenti specialisti, replica
con ironia Roman Karst: «In molti ci hanno esortato a leggere
Kafka con assennatezza, ma come diavolo si fa a leggere assenna­
tamente un poeta?».
La posta in gioco è ben al di là della discussione letteraria. Per
i comunisti «rinnovatori», l’opera di Kafka non è solo una critica
radicale della negatività del mondo capitalista, ma anche, a pre­
scindere dalla data di morte dello scrittore, una critica dei crimini
dello stalinismo. Ancora una volta è Fischer che mette i puntini
sulle i: i carnefici che bussano alla porta di Joseph K. per portarlo
al luogo dell’esecuzione hanno conosciuto un grande futuro nel
corso del secolo. «Kafka non viveva più quando quegli uomini,
come cavalieri dell’Apocalisse, si aggiravano in ogni parte del

124
mondo, purtroppo non solo del mondo capitalista». Altri interventi
lo asseconderanno, soprattutto da parte dei cechi. Così Jiri Hajek:
«L’opera di Kafka condanna tutto ciò che è in contraddizione con
la missione storica umanista del socialismo, tutto ciò che la defor­
mazione staliniana ha prodotto nel nostro sistema con tutte le con­
seguenze che sopravvivono ancora tra noi.. ,»9.
La diffidenza dei difensori del sistema non era ingiustificata: la
conferenza di Liblice del 1963 è stata, per opinione generale, uno
dei punti di partenza importanti del cambio di clima culturale e po­
litico che produrrà, qualche anno dopo, la Primavera di Praga
(1968). Così Kafka ha contribuito non solo a comprendere e inter­
pretare la realtà, ma anche, in un momento cruciale della storia
moderna del suo paese, a trasformarla...

Ritorniamo alla questione del «realismo». Come osservava sar­


casticamente Ernst Fischer nel corso della conferenza del 1963,
«Dio ha creato le cose e il Diavolo le categorie. Solo il mediocre
corrisponde alle categorie, l’anomalo le fa a pezzi»10. I testi di
Kafka, scrittore anomalo per eccellenza, fanno a pezzi il canone
classico della letteratura realista, non foss’altro per la strana atmo­
sfera onirica. Ciò non significa che non siano in rapporto con la
realtà: tra le sfere del sogno e della veglia sembra stabilirsi quella
specie di sistema di vasi comunicanti di cui parlano i surrealisti. O
meglio, si direbbe che Kafka cancelli silenziosamente, discreta­
mente, impercettibilmente, la linea di demarcazione tra il sogno e
la realtà. Così è nel sorprendente frammento in cui narra l’avven­
tura di un personaggio che sogna di «un antico cavaliere errante»
che affonda la spada nella sua spina dorsale. Al risveglio scopre
che nella sua schiena è effettivamente penetrata «una grande e an­
tica spada da cavaliere». Si salverà solo grazie agli amici che, in
piedi su una sedia, la estrarranno lentamente, un millimetro dopo
l’altro11. Evidentemente il sogno in Kafka non è come quello dei
surrealisti e si apparenta più spesso all'incubo.
In effetti alcuni scritti, i racconti e le parabole più dei romanzi,
non sono tanto in relazione con il realismo quanto con quello che
si potrebbe definire un irrealismo critico. Lo si ritrova anche nei
romanzi noir, nei racconti fantastici, nelle utopie letterarie o nel
surrealismo. Si tratta della creazione di un universo immaginario,
governato dalla sola logica del meraviglioso, che non aspira af­

125
fatto a riprodurre o a rappresentare la realtà, ma che ne reca in sé
una critica radicale, feroce o ironica a seconda dei casi.
«Realista» o no, l’opera di Kafka, grazie al suo atteggiamento di
scarto costante rispetto alle istituzioni sociali, è uno degli esempi
più impressionanti della forza di illuminazione profana (l’espres­
sione è di Walter Benjamin) della letteratura. Per questo André
Breton lo considerava, molto semplicemente, «il più grande veg­
gente del secolo», nel senso poetico del termine che i surrealisti
avevano ereditato da Rimbaud: colui che è capace di «sondare l’in­
visibile e intendere l’inaudito»12.
Qualcuno prende sul serio il realismo di Kafka e sembra consi­
derarlo una specie di sociologo che si esprime in forma letteraria.
Così, secondo Axel Domemann, la burocrazia nel romanzo sarebbe
«una versione poetica ed estremizzata del modello weberiano»13.
Certi politologi tedeschi arrivano a citare i suoi romanzi nelle bi­
bliografie scientifiche sulla burocrazia, accanto agli scritti di Max
Weber e di altri sociologi, senza alcuna distinzione14. Più sfumato,
ma altrettanto problematico, è l’approccio del sociologo Lewis
Coser, che pubblica brani del Castello nella sua raccolta di testi in­
titolata Sociology through Literature (La sociologia attraverso la
letteratura). Nella presentazione del capitolo sulla burocrazia, che
comprende anche brani di Balzac, di Dickens e di altri romanzieri,
Coser osserva: «Nel mettere in evidenza la patologia del compor­
tamento burocratico, Kafka voleva rappresentare in modo emble­
matico l’incubo di un mondo interamente razionalizzato. La sua
opera si può leggere a diversi livelli: il nostro interesse, qui, va alla
sua lucida comprensione degli aspetti disfunzionali della burocra­
zia, ovvero, per parafrasare Robert K. Merton, del fatto che regole
originariamente concepite come mezzi possano diventare, se vi si
aderisce rigidamente, fini in sé, per cui un valore strumentale si tra­
sforma in uno terminale»15. L’osservazione è interessante, ma i
concetti sociologici («patologia», «disfunzionalità») sfiorano ap­
pena il fatto che l’ironia di Kafka ha per bersaglio le procedure
«normali» e «funzionali» degli apparati burocratici.
Kafka rimane intraducibile in termini sociologici e politologici.
Marthe Robert insiste su questo punto, e a ragione: se si tratta
l’opera del praghese «come una specie di scienza, di religione o di
filosofia applicata, si fa gravemente offesa alla creazione poetica,
che è tradita appena la si traduce, essendo irriducibile a ogni altra

126
forma di espressione»16. In altri termini, la letteratura, come la poe­
sia, con i propri mezzi espressivi è capace di «sondare l’invisibile»
e di allargare così la nostra conoscenza del mondo e degli esseri
umani.
Se la scienza sociale formula concetti, leggi, analisi, l’opera let­
teraria fa vivere individui, personaggi, situazioni. Se la prima si
lascia guidare dalla logica della razionalità scientifica, la seconda
segue quella della fantasia e per questa via produce un «effetto di
conoscenza» insostituibile, mettendo in luce, per così dire, dall’in-
temo i profili e le forme della realtà sociale. L’apporto specifico
dell’opera letteraria si colloca al livello della singolarità concreta.
Se è in grado di arricchire notevolmente la nostra percezione della
realtà sociale, è perché getta una luce diversa rispetto ai concetti
scientifici, destinati, anche nella sociologia cosiddetta generale, a
una certa esteriorità. La luce interna, l’approccio soggettivo, fanno
della letteratura un mezzo di conoscenza infinitamente prezioso e
di una profondità assoluta, che non può essere sostituito da nes­
suna opera scientifica per quanto elevata sia.

Note al capitolo

1. György LUKÂCS, Signification présent du réalisme critique, Gallimard,


Paris 1960: trad, it.: Il significato attuale del realismo critico, Einaudi, Torino 1957.
L’assimilazione di Thomas Mann alla «salute» è tanto più ridicola in quanto la ma­
lattia occupa un posto centrale in alcuni dei maggiori romanzi dello scrittore tede­
sco (Morte a Venezia, La Montagna incantata. Doktor Faustus).
2. Non senza qualche ragione, come vedremo in seguito. La storia di come gli
ambienti staliniani abbiano recepito Kafka, dall'inchiesta del 1945 della rivista
«Action», vicina al PC francese, partita intorno alla domanda «Bisogna bruciare
Kafka?», fino ai tentativi più o meno bene intenzionati di «riabilitazione» da parte
di Roger Garaudy e di altri, negli anni Sessanta, meriterebbe un capitolo a parte, ma
ci allontanerebbe troppo dal tema di questo libro.
3. György LUKÄCS, op. cit„ pp. 20-21, 157, 168.
4. Una interessante critica marxista (lukacsiana) delle analisi di Lukacs su Kafka
si trova in Carlos Nelson COUTINHO. Kafka: presupostos historicos e reposiçâo
estética, «Temas de Cencias Humanas» n. 2, Sào Paulo 1977.

127
5. Ho sentito questo aneddoto conversando a Budapest con Agner Heller e Fe­
renc Feher. E ricordato in un libro del saggista tedesco Fritz RADDAZ, Lukàcs,
Rohwolt, Hamburg 1972, p. 116.
6. György LUKÄCS, Vorwort, in Werke, 6, Luchterhand, Berlin 1965, p. 9.
Tra gli studiosi che riconoscono il realismo di Kafka, si distinge Wilhelm Enterich
per il posto originale che attribuisce allo scrittore praghese: «Kafka è l'unico scrit­
tore del nostro secolo che abbia riconosciuto, in modo critico, le leggi immanenti
della nostra realtà sociale [...]. Per questo è lo scrittore più realista della nostra
epoca. Per questo è anche il poeta più enigmatico [...] per chiunque accetti, senza
spirito critico, queste leggi immanenti». Cfr. Wilhelm EMERICH, Geist und Wi­
dergeist. Studien, Athenäu, Frankfurt am Main 1965, pp. 300-301.
7. Franz Kafka aus Prager Aussicht, Praha 1965. Per un dibattito sulla portata
politica di questo evento, vedi l'interessante saggio, pubblicato originariamente su
una rivista trotzkista, di Alain BROSSAT, Kafka miroir de Khrouchtchev, in Un
communisme insupportable, THarmattan, Paris 1992.
8. Ernst FISCHER, Kafka Conference, in Kenneth HUGHES, op. cit., pp. 77,.
85, 93.
9. Ibid., e Jiri HAJEK, Kafka and the Socialist World, in Kenneth HUGES, op.
cit., pp. 85, 122.
10. Ernst FISCHER, op. cit., p. 77.
11. Franz KAFKA, Journal, cit., pp. 421-422.
12. Vedi André BRETON, Ce grain de merveilleux dans l’aventure, cit., p. 984.
La citazione di Rimbaud è tratta dalla lettera a Paul Demeny del 5 maggio 1871
(una delle celebri Lettres du Voyant). Gustav Janouch attribuisce a Kafka il se­
guente commento su Rimbaud, assai sorprendente per l’affinità con le riflessioni
surrealiste sull'arte magica: «[Va] oltre la parola, trasformando le vocali in colori.
Con questo incantesimo di suoni e colori (Laut-und Farbenzauber) si avvicina alle
pratiche magiche tipiche delle religioni delle popolazioni primitive». Gustav JA­
NOUCH, Conversazioni con Kafka, cit., p. 215. L’ammirazione di Breton per
Kafka non significa, ovviamente, che il primo considerasse «surrealista» l’opera del
secondo.
13. Axel DORNEMANN, op. cit., p. 204.
14. Si tratta di Gerd-Klaus Keltenbrunner e di Friedhar Hegner. citati da Axel
DORNEMANN, op. cit., p. 36.
15. Lewis COSER, Sociology through Literature. An Introductory Reader,
Prentice Hall, Englewood Cliffs 1965, p. 177.
16. Marthe ROBERT, L’Ancien et le Nouveau, de Don Quichotte à Kafka,
Payot, Paris 1967, p. 195; trad, it.: L’antico e il nuovo, Rizzoli, Milano 1969.

128
VII

UNA SITUAZIONE KAFKIANA

La forza di «illuminazione profana» dell’opera di Kafka è in­


dubbiamente una delle ragioni del suo straordinario impatto sulla
cultura del Novecento. Come osservava George Steiner, con il suo
solito acume, in un commento al Processo (ma che vale anche per
altri scritti di Kafka): «Questo breve romanzo ha acquistato una
statura che non ha niente in comune con quella di un classico della
letteratura. Nel corso del secolo ci si è riconosciuti in esso, per tanti
è stato un riferimento spontaneo. Sono moltissimi coloro che non
l'hanno letto, che magari non ne hanno nemmeno visto una ver­
sione teatrale, cinematografica o televisiva, ma che ne conoscono le
grandi linee e le situazioni. [... ] Kafka è diventato un aggettivo. In
più di cento lingue l’epiteto ‘kafkiano’ si applica ad immagini cen­
trali, alle costanti di disumanità e di assurdità dei nostri tempi»1.
Taluni personaggi dei romanzi sono entrati nel linguaggio quo­
tidiano sono forma di aggettivi: un individuo alle prese con i mulini

129
a vento è «donchisciottesco», un altro in preda al dubbio è «amle­
tico». Più raramente si richiama il nome di un autore: «dantesco»,
per una scena infernale, «orwelliano» per un linguaggio che ma­
schera la verità. Questo è avvenuto anche per Franz Kafka: dopo la
seconda guerra mondiale, nella maggior parte delle lingue si è af­
fermato un nuovo aggettivo ispirato alle sue opere: kafkaïen in fran­
cese, kafkaesk in tedesco, kafkaesque in inglese, kafkiano in porto­
ghese e italiano. Pare che Malcolm Lowry sia stato il primo a
parlare, nel 1936, di una «perfect Kafka situation», ma l’aggettivo
compare solo nel 1947, sulla rivista «New Yorker», che parla di
«un incubo kafkiano di vicoli ciechi» (a kafkaesque nightmare of
blind alleys)2.
Non è facile definire questo termine che è entrato nei dizionari
e nelle enciclopedie: si riferisce a una «atmosfera oppressiva» (Ro­
bert), a un «mondo da incubo» nel quale «sinistre forze impersonali
controllano le vicende umane» (Twentieth Century Words, Oxford
1999), a una situazione «misteriosa, inquietante (unheimlich) e mi­
nacciosa» (Duden), a «un’organizzazione assurda e schizofrenica­
mente razionale, con tortuose procedure totalitarie e burocratiche»,
in forma labirintica, dove «l’individuo è sconcertato e smarrito»
(Penguin Encyclopedia, 2003)3. La maggior parte dei dizionari
mette l’accento sull’aspetto sinistro, trascurando la dimensione iro­
nica, che pure è essenziale nell’impiego comune dell’aggettivo. In
realtà la situazione kafkiana descrive una gamma di esperienze che
va dalla grottesca assurdità nel funzionamento quotidiano delle isti­
tuzioni burocratiche alle manifestazioni più micidiali del potere
«amministrativo». La diffusione massiccia di questa espressione
nel linguaggio corrente conferma che la maggior parte dei lettori di
Kafka non si è sbagliata e ha intuitivamente colto la portata m«z-
versale e critica della sua opera: la protesta contro V incubo buro­
cratico, la sovversione attraverso lo humour nero, nel senso defi­
nito da André Breton, una suprema rivolta dello spirito4.
Non è un caso che l’aggettivo sia entrato nel linguaggio cor­
rente: esso designa un aspetto della realtà che le scienze sociali
tendono a ignorare e per il quale non dispongono di alcun concetto
pertinente: l’oppressione e l’assurdità della reificazione burocratica
così come sono vissute dalla gente comune. In effetti la sociologia
e le scienze giuridiche si sono generalmente limitate a esaminare la
macchina burocratica e legale «dall’interno» o in relazione alle

130
élite (dello Stato, del capitale), soffermandosi sul suo carattere
«funzionale» o «disfunzionale», sulla «razionalità strumentale»,
eccetera5.
Come rileva con acume l’ex surrealista Michel Carrouges, «Kaf­
ka abbandona il punto di vista corporativo degli uomini di legge, di
quelle persone colte e istruite che pensano di conoscere il perché
delle cose di legge. Egli le considera invece (e considera costoro)
dal punto di vista della massa degli umili assoggettati, che subi­
scono senza comprendere. Ma essendo Kafka, eleva quell’igno­
ranza ordinariamente ingenua all’altezza di una somma ironia, che
trabocca di sofferenza e di humour, di mistero e di lucidità. Sma­
schera tutto ciò che vi è di umana ignoranza nel sapere giuridico e
mette in luce il sapere umano presente nell’ignoranza degli umili»6.
Il giudizio vale non solo per le istituzioni giuridiche, ma per l’in­
sieme delle macchine gerarchiche e burocratiche che, nell’universo
kafkiano, s’impossessano della «massa degli umili».
Una delle migliori discussioni sul significato del termine
«kafkiano» si trova in un saggio pubblicato nel 1986 dallo scrittore
ceco Milan Kundera. Secondo lui, questo termine definisce situa­
zioni «che nessun’altra parola permette di cogliere e per le quali
non offrono una chiave né la sociologia né la psicologia». Le sue
caratteristiche principali sarebbero:

1. Un mondo che è solo un’unica e immensa istituzione labirintica,


alla quale gli individui non possono sottrarsi e che non possono
capire.
2. In questo mondo kafkiano, il fascicolo burocratico rappresenta
la vera realtà, mentre 1’esistenza fìsica dell’essere umano è solo
un riflesso del suo dossier personale.
3. Siccome l’accusato non sa di che cosa lo si accusi, si mette in
moto un meccanismo di «autocolpevolizzazione»7.

Certo Kundera è incline, e si capisce perché, a interpretare que­


sto universo kafkiano alla luce della propria esperienza della bu­
rocrazia stalinista ceca. Ciò nondimeno afferma che «la cosiddetta
società democratica conosce anch’essa il processo che spersona­
lizza e burocratizza; tutto il pianeta è diventato la scena di quel
processo»8. Aggiungerei che si tratta di un processo già in atto
all’epoca di Kafka. L’unico appunto che muoverei a Kundera ri­

131
guarda la sua tendenza a fare della realtà kafkiana un aspetto della
«condizione umana», «una possibilità elementare dell’uomo e del
suo mondo [...] che lo accompagna quasi in eterno»9. Adorno
aveva giù replicato ad argomentazioni di questo tenore, che non
trovano fondamento testuale nei romanzi e che rischiano di annul­
lare la straordinaria forza critica e sovversiva dei suoi scritti.

In conclusione, Kafka è molto più di uno scrittore «realista»,


nel senso comune del termine. Quella che fa vedere nelle sue opere
non è solo la realtà «obiettiva», ma qualche cosa di più importante:
una esperienza soggettiva, quella degli individui di fronte agli ap­
parati. I suoi romanzi sono scritti dal punto di vista dei vinti, di chi
finisce frantumato nell’ingranaggio «razionale e impersonale»
della macchina burocratica. Per parafrasare Walter Benjamin, le
opere di Kafka passano in contropelo l’immagine troppo rassicu­
rante del potere della legge e dello Stato moderno.
La forza dell’aggettivo kafkiano è tale che ha irrimediabilmente
contaminato il concetto stesso di burocrazia agli occhi dei comuni
mortali. Ecco che cosa osserva, a malincuore, un Dizionario
dell’Organizzazione, pubblicato in Germania nel 1969: «La parola
‘burocrazia’ provoca un leggero malessere alla maggioranza delle
persone. Il concetto reca in sé troppe associazioni kafkiane, di opa­
cità e di inquietante estraneità (unheimlichkeif).. ,»10.
Mentre Max Weber, il più acuto sociologo della burocrazia, la
definisce il sistema più razionale di gestione, l’espressione su­
prema della razionalità nell’esercizio del potere, Kafka mostra
come quella razionalità mutilata e strumentale conduca alla più as­
soluta irrazionalità. L’universo kafkiano svelato nei suoi romanzi
presenta la stessa dialettica della ragione della quale Adorno e
Horkheimer hanno fatto l’analisi critica, cioè la trasformazione,
nella moderna civiltà occidentale, della ragione nel suo contrario.

132
Note al capitolo

1. George STEINER, De la Bible à Kafka, Bayard, Paris 2002, p. 49.


2. John AYTO, Twenty Century Words, Oxford University Press, Oxford 1999.
Tra «kafkiano» e «orwelliano» esistono notevoli affinità, nella misura in cui en­
trambi si riferiscono a fenomeni di potere.
3. Nella prefazione all’edizione di Katka della «Plèiade», Claude David propone
una bellissima definizione dell’aggettivo: «È entrato nel linguaggio per designare
quelle amministrazioni che, a forza di organizzarsi, girano a vuoto, a forza di ra­
zionalizzarsi, finiscono nell’assurdo». E aggiunge questa osservazione: «Quella
burocrazia stupida e crudele non è forse l’immagine dello Stato contemporaneo?».
Cfr. Claude DAVID, La fortune de Kafka, in Franz KAFKA, Œuvres complètes,
Gallimard, «La Plèiade», Paris 1976, p. xi.
4. Nel momento in cui scrivo queste righe (settembre 2003), vengo a sapere che
una coppia di ebrei naturalizzati francesi (alla fine della seconda guerra mondiale),
Ora e Zelik Adler, originari rispettivamente di Berlino e di Varsavia, incontrano dif­
ficoltà insormontabili nel tentativo di rinnovare le loro carte d’identità. L’ammini­
strazione esige non solo i loro certificati di nascita, ma anche quelli dei loro... geni­
tori. Commenta Ora Adler: «È kafkiano...» («Politis», n. 776,17 settembre 2003, p.
21).
5. Vedi il commento di Herbert Mill sul Castello: «Scritto dal punto di vista
dell’outsider e della vittima di un’organizzazione, Il Castello è in sostanza uno
straordinario studio psicologico di un individuo davanti a una spietata (relentless)
burocrazia, apparentemente capricciosa e probabilmente pericolosa. L’esperienza
della vittima, grazie alla magia dell’arte di Kafka, assume caratteristiche oniriche o,
per meglio dire, da incubo. Sono queste caratteristiche che [... ] definiscono in tutta
la sua nudità e il suo terrore ciò che l’individuo ‘non iniziato’ prova quando ha a che
fare con un’organizzazione. [...] La tappa finale di questo incomprensibile terrore
viene raggiunta quando un ‘insider’ spiega alla vittima che ciò che essa considera
una ‘ridicola confusione’ è la materializzazione della razionalità. Anche se questa
esperienza delle vittime di Kafka è insolita ed estrema, il lettore rimane con la con­
vinzione incrollabile che l’autore non ha perso il contatto con la realtà di un’espe­
rienza da ‘outsider’ davanti alla burocrazia, ma che anzi ha rappresentato con arte
consumata un problema molto concreto e molto serio della vita moderna». Dwight
WALDO, The Novelist on Organization and Administration: An Inquiry into the
Relationship Between Two Worlds, Institute of Governmental Studies, Berkeley
1968, pp. 114-115.
6. Michel CARROUGES, Dans le rire et les larmes de la vie, «Cahiers de la

133
Compagnie Madeleine Renaud/Jean-Louis Barrault», ottobre 1957, Julliard, p.
19.
7. Milan KUNDERA, Quelque part là-derrière, in L’Art du roman, Galli­
mard, Paris 1986, pp. 127-130; trad, it.: L’arte del romanzo, Adelphi, Milano
1988.
8. Ibid., p. 134. Kundera sottolinea a ragione che l'universo kafkiano non è
quello del totalitarismo, perché nei suoi romanzi non ci sono il partito, l’ideologia
e il suo lessico, la politica o la polizia.
9. Ibid., p. 133.
10. Bernd JANOWSKY, Bürokratie, in E. GROCHIA (a cura di), Handwör­
terbuch der Organisation, Stuttgart 1969, p. 324.

134
Finito di stampare nel mese di febbraio 2007
presso Grafiche Speed, Peschiera Borromeo, su carta Bollani
per conto di Elèuthera, via Rovetta 27, Milano

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