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ARTHUR CRAVAN, Grande trampoliere smarrito, a cura di Edgardo Franzosini,

trad. dal francese di Maurizia Balmelli e Nicola Muschitiello, Milano, Adelphi, 2018,
pp. 195, euro 13.00

In Italia oggi il nome di Jack Johnson dirà qualcosa ai lettori di Joe Lansdale (è tra i
protagonisti di L’anno dell’uragano, Torino, Einaudi, 2004) e ai fans del Miles Davis
elettrico (che nel 1971 gli dedicò l’incendiario Tribute to Jack Johnson). All’inizio
del secolo scorso, invece, Johnson, il primo pugile nero ad alzare il titolo di campione
mondiale dei pesi massimi, calamitava la penna, tra gli altri, di uno stizzito e
ammirato Jack London (che avrebbe voluto vedere la forza, l’astuzia e la souplesse di
Johnson in un pugile bianco); e anche calamitava le attenzioni del governo degli Stati
Uniti, che mal sopportava i suoi matrimoni con donne bianche, la sua condotta
eccentrica e il suo sfacciato protagonismo mediatico. Per evitare la galera Jack
Johnson fu costretto ad emigrare, in Canada e poi in Europa; durante questo esilio, a
Barcellona, il 23 aprile 1916, incontrò sul ring Arthur Cravan.
Il campione del mondo probabilmente non lo sapeva, ma quel giorno era
impegnato, come certi maestri di scacchi, in un match simultaneo. Arthur Cravan,
infatti, come l’amato Walt Withman, era vasto e conteneva moltitudini. Nei suoi
cento chili, distribuiti su circa due metri di altezza, abitavano contemporaneamente il
nipote di Oscar Wilde e il poeta dai capelli più corti del mondo, il pittore Edouard
Archinard e l’aforista Maria Lowitska, il W. Cooper che forniva certi Documenti
inediti su Oscar Wilde e il sedicente critico Robert Miradique; anche vi abitava, ma
Cravan non ci teneva troppo a farlo sapere in giro, Fabian Avenarius Lloyd, che poi
era il suo vero nome, l’unico infido appiglio per gli artigli del meschino Demone
dell’Anagrafe; il quale, infatti, ne registrò data e luogo di nascita (Losanna, 1887), ma
non riuscì mai a fare altrettanto con quelli di morte: faute de mieux, ciò che più
assomiglia ad un certificato ufficiale sono le parole che nel 1946 Marcel Duchamp
siglò di fronte ad un notaio, e che suonano: “Lo conoscevo bene, e soltanto la morte
può essere la causa della sua scomparsa”.
La fatica di seguire tutti i fili biografici, letterari, politici, artistici e sportivi che
danno forma all’intricata ragnatela al cui centro sta Arthur Cravan è ampiamente
ricompensata dall’assortimento e dalla qualità della compagnia che si incontra
nell’impresa: abbiamo citato Jack Johnson, Oscar Wilde (che davvero fu cognato del
padre) e Marcel Duchamp, ma dovremo aggiungere Guillaume Apollinaire, il poeta
Blaise Cendrars (che ne fu biografo generoso quanto inattendibile), Francis Picabia,
Robert Delaunay, il grande e sottovalutato Félix Féneon, Lev Trockij, e poi Mina
Loy, André Breton, Guy Debord, e tanti altri ancora senza contare i pugili
professionisti e dilettanti e gli atleti e i collezionisti e i mecenati.
Più agevole, invece, ripercorrerne le tracce esclusivamente letterarie: se
l’edizione pressoché definitiva dei suoi scritti editi e di buona parte degli inediti è
quella messa insieme da Jean-Pierre Begot (Arthur Cravan, Oeuvres, Paris, Gérard
Lebovici, 1987, poi IVREA, 1992) in Italia questa curata da Franzosini è, mi pare, la
terza antologia cravaniana. La prima, a cura di Ottavio Fatica, raccoglieva, insieme ai
suoi scritti, quelli di Jacques Vaché e di Jacques Rigaut, che da sempre gli tengono
compagnia nel Pantheon surrealista (Tre suicidi contro la società: A. Cravan, J.
Rigaut, J. Vaché, Roma, Arcana, 1980; sia detto en passant che qualificare Cravan
come suicida è per lo meno arbitrario); la seconda, curata da Gianluca Reddavide
(Arthur Cravan, Poeta e pugile, Roma, le nubi edizioni, 2005) traduceva quasi
integralmente Maintenant, la rivista scritta diretta e venduta da Cravan e dai suoi
eteronimi. Questa Grande trampoliere smarrito presenta invece una selezione di
prose (tradotte da Maurizia Balmelli, che appare a suo agio anche sullo
sdrucciolevole terreno della “prosopoesia” Poeta e pugile, tra rudezze scatologiche e
accensioni liriche) e di poesie (tradotte, anche in rima, da Nicola Muschitiello,
purtroppo senza il testo originale a fronte), insieme ad un apparato iconografico
interamente prosopografico (una scelta discutibile, come vedremo), per chiudersi poi
con L’importanza di non chiamarsi Fabian Avenarius Lloyd, un racconto-saggio
dello stesso Franzosini, grande cacciatore e collezionista di outsiders, che plana
divertito e garbato sulla confusione di dati biografici e leggendari di cui si diceva
prima, aggiungendo il lievito della fiction ad un montaggio di fonti sapiente e
disinvolto (in qualche caso troppo disinvolto: nel catalogo degli eteronomi cravaniani
spunta un “E. Lajeunesse”, che era invece il dimenticato Ernest La Jeunesse,
romanziere e chroniqueur letterario e mondano della belle époque, amico di Oscar
Wilde ed autore di una dozzina libri, oltre che di un rebus sul proprio nome
ammirato, descritto e risolto da Guillaume Apollinaire: “R n’est là, genèse”).
La quasi totalità dei testi pubblicati in vita da Cravan apparve sulle pagine di
Maintenant, che durò per cinque numeri dal 1912 al 1915. La pluralità di firme in
calce agli articoli non deve ingannare: si tratta sempre dello stesso Cravan, che non
pago di figurare come direttore, adottava, di volta in volta, un’identità diversa; si
occupava anche della distribuzione e della vendita della rivista, portando in giro le
copie su un carretto da ortolano. Sin dall’intestazione, Maintenant si presenta come
una “rivista letteraria”, e in effetti i primi tre numeri ruotano intorno a Wilde e ad
André Gide, e, in filigrana, ai Souvenirs del secondo che riguardano il primo. E’
memorabile soprattutto l’incontro con Gide, dal quale Cravan ha intenzione di farsi
mantenere, convincendo il futuro autore dei Sotterranei del Vaticano a “vendere la
sua solida fattoria in Normandia per soddisfare i miei infimi capricci di figlio della
modernità”; ma non è da meno la reinvenzione di un Oscar Wilde vecchio,
appesantito e redivivo che una notte va a trovare il velleitario e indolente nipote, il
quale cade in deliquio, anche se in un modo tutto suo: “Lo adoravo perché sembrava
un bestione: me lo figuravo che cacava con la semplicità di un ippopotamo, ed ero
entusiasta del candore e della giustezza di questa immagine”. Su Maintenant
compaiono anche numerose poesie, pubblicità scritte dallo stesso Cravan, e, nel
numero 4, una spettacolare cronaca del Salon des Indépendents, dove l’esteta Cravan
indossa i guantoni da pugile e recensisce l’esposizione animato dal “profondo
disgusto per la pittura che mi porterò appresso all’uscita della mostra - un sentimento
che non si può mai coltivare abbastanza”. Dalla critica militante si passa
immediatamente all’invettiva (“K. Malevic, un bluff… Credo anche che Gleizes non
abbia alcun talento…”; per Marie Laurencin “ci vorrebbe qualcuno che le alzasse le
sottane e le desse una bella… dove dico io”); con questo tono vengono passate in
rassegna decine di pittori, ma del resto, “Dio santo! Per la strada ben presto non
vedremo altro che artisti, e trovare un uomo sarà un’impresa quasi impossibile”.
Dettaglio importante e rivelatore della coincidentia oppositorum che fu l’opera di
Cravan, lui stesso, con lo pseudonimo di Eduard Archinard, dipinse ed espose
dozzine di tele all’insegna di un fauvismo disfatto e distratto, dove si intravedono
fantasmi di Montmartre e dell’amico Van Dongen. Nessuna di queste compare
nell’apparato iconografico del volume, al pari dei molti tributi che artisti come
Picabia, il citato van Dongen o Gino Severini pagarono all’amico pugile e poeta. I
quadri di Archinard sono, diciamolo pure, piuttosto brutti; ma del resto, tra gli
aforismi della sedicente Maria Lewitska che chiudono l’ultimo numero di
Maintenant, leggiamo che “Gli imbecilli vedono il bello soltanto nelle cose belle”.
Nei Souvenirs Gide raccontava che Oscar Wilde gli confessò una volta: “il mio
genio l’ho impiegato nella vita: nelle mie opere ho messo soltanto il mio talento”.
Sono parole che calzano a pennello anche per Arthur Cravan, e la lettura delle pagine
di Franzosini dà conto dei mille aneddoti, e delle altrettante parabole, leggende e
bugie, contemporanee e postume, che sono di fatto il vero lascito di Cravan: dalla
miseria americana alla traversata transatlantica in compagnia di Trockij, da una
partita a scacchi con Duchamp più cruenta del match con Jack Johnson ai mille
travestimenti che mascherano la sua identità di renitente alla leva, dalle mises
chiassose e improbabili della belle époque alle pillole di mitologia pugilistica che
dispensava ai giovani allievi messicani della Escuela de Cultura Fisica.
“Vorrei essere a Vienna e a Calcutta / prendere tutti i treni e tutte le navi”, recitavano
alcuni suoi versi pubblicati postumi. Per primo, il nipote di Oscar Wilde, che
assomiglia più di ogni altra cosa ad un personaggio di Alfred Jarry, ha messo in atto
quel radicale superamento dell’arte che fu poi il sogno di Dada, dei surrealisti e di
molte delle avanguardie, e che ancora nel 1978 faceva dire a Guy Debord, quando
nello spietato e bellissimo In girum imus nocte et consumimur igni rievocava il
circolo degli enfants perdus tra i quali aveva mosso i primi passi di lettrista eretico:
“se qualcuno riscuoteva le loro simpatie era Arthur Cravan, disertore di diciassette
nazioni.” La lunga e incantata diserzione di Fabian Avenarius Lloyd si chiude,
patafisicamente, nel nulla: le sue tracce si perdono nel 1918, in quello stesso Messico
che quattro anni prima aveva misteriosamente inghiottito Ambrose Bierce. Di tanto in
tanto, come questo bel libro dimostra, qualcuno avvista ancora, in distanza, Arthur
Cravan, ma per farlo non serve un cannocchiale: lo si vede molto meglio con un
caleidoscopio.

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