Sei sulla pagina 1di 200

HÉLÈNE CIXOUS

TRE PASSI
SULLA SCALA
DELLA SCRITTURA
'Ihiduzione e cura di Silvana Carotenuto
Postfazione di Nadia Setti

BULZONI EDITORE

ROMA
Titolo originale:
Tbree sfeps on thè fadder o f wntwg, Columbia Universin' Press, New York 1993-

Ί1 Π Τ ΪI DIRITTI RISERVATI
Ê vietata la traduzione, la memorizzazione elettronica.
In riproduzione totale o parziale, con qualsiasi mezzo,
compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico.
Ì.‘illeato sarà penalmente perseguibile a norma deirart. 171
della Legge n. 633 del 22/04/1941

ISBN 88*8319-756*9
€> 2002 by Bulzoni Editore
00185 Roma, via dei Liburni, 14
http:/Avw\v.bulzoni.it
e-mail: bulzoni@bulzoni.it
Dedico questo libro a Marguerite Saudré, che
ba incarnato per così tanti anni la memoria
vivente e sempre presente dei miei seminari.

Hélène Ci.xous
INDICE

S ilv a n a C a r o t e n u t o , “ Le passioni secondo... H.C.” .....................p. 11

La Scuola elei M o rti............................................................ . ... *· 27

La Scuola dei Sogni .................................................................»

La Scuola deile Radici..................... .........................................- 137

N adia S e tti, "L e s ì rade m aestre della seni tura” 187

B ib lio g ra fìa ........................................................................................ .. ·· 199


S il v a n a C a r o t e n u t o

“LE PASSIONI SECONDO... H.C.”

Non posso fare a m eno di tradurre ciò che amo,


ed insieme ie contraddizioni, le controresistenze,
> che sono ai cuore dell’amore...'

Come introdurre la traduzione italiana di un testo di Hélène


Cixous, scritto in francese ed in inglese, pubblicato solo in inglese? Im­
possibile vertigine dell’inchiostro del traduttore, o forse solo la trascri­
zione di alcune delle passioni (gli umori e ciò che creano, < fenomeni
che appaiono prima nel corpo, e che arrivano dalie innumerevoli turbo­
lenze dell’anima - in altre parole: ciò che procura sofferenza e gioia; le
due si toccano, sono sempre in scambio, in contatto abissale) che mi
hanno sospinta...

1 Da anglista, mi farò sostenere m queste note iniziali, dalle riflessioni di G.C


Spivak, traduttrice in inglese di De la Grammatoiogie (1967; O f Gramma(oiogyr 1976;
dì Jacques Derrida e, più recentemente, di Mahaweta Devi, scrittrice bengali a me mol*
to cara. È di queste due espenenze di traduzioni di cui Spivak parla in "Translation as
Culture”, Pamllax - Translatai s Ink, H, january-march 2000 (riîevante al mio discor­
so, la rivista, a cura del Centre for Cultural Studies deil'Umversiiv of Leeds, dedica il suo
mimerò sette a Transiatmg "Algenti”, pubblicando testi dì Hélène Cixous, Róda Bensa-
maia, Jacques Derrida, Jacques Ranciere, John Mowitt, Anne E, Berger, Emily Apter, As­
sia Djcbar, Nabile Fares, Hafìd Gafaïti, Couze Venn, Françoise Verges, Assedine
Haddour, Tom Conley, Wìnnie Wbodhull, Patrice Bougon, Rebecca DeRoo, David Maccy,
NanorWood e Ronmc Scharfman).
12 Silvana Carotenuto

... Io, già sottoposta nel corpo d'infante alla violenza della transco-
dificazione culturale; io, nel mio script corporeo dove la lingua del den­
tro, per pormi sulla soglia di una soggettività “responsabile"., si era già
do vu la fare lingua dei fuori (per poi tradursi ancora in coscienza inter­
na); io, già incessantemente in-ressuta di narrative e di rappresentazioni
appartenenti ad un sistema di segni codificabili, ora, nella scelta adulta
di una traduzione volontaria, consapevole e responsabile, mi trovavo a
voler-dover ripagare la lingua del dentro, la lingua madre, dalla colpa di
usarla come una lingua tra le altrei Io, s/oggetto in "separazione”, senti­
vo adesso di dover-voler riparare la lingua madre, ripagarla del dono
della vita? Debito o desiderio impossibile. O soltanto aporeuco? Sì, ri­
cordavo che, tra separazione e riparazione, esisteva uno spazio altro, ri-
scrizione del “tra” «...separazione/non separazione, |...| taglio/non ta­
glio {...| il taglio che non si oppone più al non taglio, tra il “separare” e
il "riparare” separazione e riparazione, separazione come riparazio­
ne. (...| tra separazione e riparazione, l'in-betiveen tra Separazione e Ri­
parazione. Ognuna delle due parole, Riparazione e Separazione, rima­
ne tutta sola. Ognuna da sola è una frase, ma quella frase è una doman*
da (Riparazione? Separazione?). Ognuna sta nella sua solitudine - e, tra
le due, c’è il tra. |...| tutte e due, “riparazione” e “separazione”, Cuna e
l’altra, la riparazione che non si separa dalla separazione, cioè dalla se­
parazione irreparabile» (Derrida, 1994, 122-123). Frattura, infinita sepa­
razione o interrotta distanza, differenza stessa? Nell'intimo temevo la re^
gressione ad un grido infantile, ancona pieno del vuoto della bocca pri­
vala del seno materno (Abrahm-Torok, 1972)*; già, però, seguivo un so­
gno: ‘«L'ideale, il sogno, sarebbe di arrivare ad una lingua che guarisce
mentre separa. Si potrebbe immaginare un linguaggio cosi trasparente,
sufficientemente flessibile, fedele, da permettere la riparazione e non
soltanto la separazione? Sto cercando di scrivere in questa direzione-
(Cixous, m Conley, 1991, 146).

' Nicolas Abraham - Maria Tbrokt “Inirojecter-inœrporer: deuil ou mélancolie”,


Nouvelle Revue de P^chaualyse, 6, 1972.
"IjC passioni .secondo... H.C" 13

“Se-reparazioneY'séparéumon” - era possibile? possibile che avessi


deciso di tradurre il testo di un'autnce che non rimandava alla violenta
separazione del processo di acculili razione senza donarmi, allo siesso
tempo, t tram - trasparenza, agilità, fedeltà - di una possibile, necessaria
scrittura riparatrice? Scendevo nei meandri di un’iniziazione altra, un rito
di passaggio (il passaggio ritornerà m seguito) a partire da un’origine “ro­
vinosa" che riportava si indietro all'interdetto ma, insieme, ai suoi tram
più vitali: la ribellione (il rifiuto di ogni fissazione - démoì'salion - sei-
flessiiess) e l’accoglienza (di altri, delle lingue e delle voci d'alt ri, la plu­
ralità delle lingue) λ La posizione era quella di “una zona di non apparte­
nenza" che si faceva spazio per una scrittura informata, sempre e già, dal­
ia scrittura altrui - tra le due, la fluidità, lo scivolamento della lingua lun­
go la frase, lo scivolamento verso altre parole, l’inseguimento delle asso­
nanze. Dinanzi a me, non esisteva più la soggettività responsabile del-
t’auiore, non più la parata di personaggi fìnzionali discreti, ma una prati­
ca di frequentazione dei territori (autonali) dell'inconscio e del corpo,
con l‘apparizione di ligure oniriche, linee algebriche o geometriche, al di
là di ogni geometria, punti, motivi che scrivevano lettere di vettori, (In-
ues, forze desideranti, forze libidinali, insiemi di elementarua....
Lettere singolari e plurali; maiuscole e minuscole, grandi e banali *
- erano queste a costituire la lingua trasparente, dinamica, fedele, non
Legge inflessibile ma flessione tonale, con cui tra/senvere una stona che
riuscisse a meditare, profetizzare, riprendere, spiegare la complessità

* Jacques Derrida (1990, 68-69) afferma: “Cesi cornine une ruine qui ne vieni p
après l'oeuvre mais reste predirne, dès t'ongm ey par l'avènement ei la structure de
l’oeuvre. A l’origine il y cui fa ruine. A Cangine arrive la ruine, elle est ce qui lui arrive
d’abord, à l'angine. Sans promesse de re-scauranon". Sulla “passione per la traduzione”,
vedi Jacques Derrida, L'oreille de l ’autre, Vlb Editeur, Montreal 1982, clìtsstons San/
le nom. Kbara, Galilée, Paiis 1993.
‘ Le "lettere" potrebbero essere anche "note0 «do- pazzia, abisso; ë la noia du
nell’orecchio di Schumnnn” (On ne part pas, on ne revient pas) i re- ricordo dalla per­
dita, il risveglio/ mi- dal centro, sempre già iniziato/ fa* le voci delle ninfe, il nuuvo an­
no.... le ninfe parlano in fa, i moni sono perdonati e ci perdonano, la scrittura sorge
(.Beetboren à jamais) / sol: dove l'anima fa terra nella lingua: "il sol / dell'ani ma che è
la lingua”/la: dono, differenza/ti: ΓίηΠηκο:...» (Cixous, 199-i).
Silvana Carotenuto

clell’uinverso “in processo-in direzione” di H.C., forse infine offrendosi


ni passaggio, al trans della translation, nelle forme di un corpo già e
sempre poliglotta, un “terzo corpo” che io potessi, a partire dalla mia
propria alterna, offrire senza violenza ai test della realtà, dove ogni lin­
gua diviene garanzia dett'altro, l’appropriazione della singolarità dell'i­
dioma dell’altro per mezzo di una approssimazione coscienziosa?
Brevemente, velocemente, come il sogno che la informava, cercavo
forse di lasciar intravedere una possibile iniziazione di H.C., articolandola
nella finzionalità della danza (il movimento, la grazia, ia traversata aerea
dei continenti di un alfabeto-arcobaleno immaginifico) delle lettere crea­
tive, per poi sostare sulla stona - effetti apparenti d’una istanza esplicati­
va - del processo scritturale, per concludere (?) infine sui resoconto (im­
possibile) deliesperienza di questo mio (indicibile) incontro.

Algeri ance

...je-jifS-jef’a n g e O ratìg e -o ra n je -g io ia -o ra n g io ia -o r-a fi-fjo rs -e n -o ra n ire

Un ncordo materno stabiliva l’interdetto cultural-linguistico per ec­


cellenza: nelI’AJgena di Vichv, mai pronunciare la parola juif\ ingenua­
mente, d ò che poteva essere pronunciato era solo la ietterà J. «J divenne
la mia prima lettera favoriti - con grande energia io dicevo Je» (Cixous,
1999). lo, chi? Il nome propno era un nome impossibile, sconosciuto,
senza origini, non francese, né ebreo, forse arabo - ma da antenati spa­
gnoli, come divenire o smettere d’essere berberi? Allora forse cambiare
questo nome nel tedesco-ebreo Jonas 0ardin-jeu:/òi/;:s; de /Vw-Joyce-
Jérusalem...) oppure accettare il destino? Il destino era, ad esempio, quel­
lo di una consapevolezza bambina che già profetizzava la città natale Ora­
no come terra da cui partire, andare via:je-aile Fio che ha ali per fuggire...
verso l'Inghilterra, passando per la Francia, in compagnia delle proprie
lingue - arabo, ebreo, tedesco, francese. Cixous non abbandonava alcuna
lingua madre-padre, ma viaggiava lungo “le mie lingue”
"Le passioni secondo... U.C." 15

In sintonia con ia stona, nel 1954, j e e l’Algeria andarono verso il


mare: Cixous si trasferisce a Parigi, senza mai lasciare l’Algeria (che non
fu mai sua), senza mai arrivare in Francia *. Nel “tra" si apriva allora per
lei una “zona senza appartenenza” , dove né la strada né l'io ma la ch a n ­
c e di una genealogia e di una storia la destinavano alla continua
pa sscm ce-p a ssin g. Cosi, nello star passando, l'abitazione dell'identità
poetica ia accoglie6, immergendola nei libri che parlano "in nome no­
stro" - in nome dell'umanità7.

Sans Shakespeare, sans Homère,


sans: la Bible, Kleist, Kafka,
Dostoevskij, je η aurais jamais pu vivre, ...sans
O.M.AACL.FC.M.T.N.SJ.D. -
je n’aurais jamais pu vivre
H. Cixous

Vivre l'Otwige: Claricelispector. Clar. Ricelis. Celis. Lisp. Clasp. Clarisp. Clarilisp.
- Clar - Spec - Tor - Lis- Icelis - fsp - Lance - Ricepector - ciarispector - claror
- listor - rire - clanre - respect - rispect - clanspect - Ice - Cianci - O Clarice

DalPangolo dei “Due Mondi”. Cixous veniva al mondo delle Belles


Lettres*, e qui assisteva alla venuta del mondo dei suoi parenti elettivi, le

s Vedi anche la bellissima “Lettera a Zohra Drif", Leggendaria, 1*1, aprile 1999.
* Vedi il mio “Una auto-biografìa m-directa: RootpnJils. Memoty and Life Wrìfin
di Hélène Cbious’\ in Angiolina Arru, Laura di Michele, Maria Stella (a cura di), Pro-
prietaiie, Liguon, Napoli 2001.
; 'Interview with Hélène Cixous”, in “Cixous Dossier” ed. trans. Cathenne Λ.
Franke, Qui Ritte: A jou rna l o f Litermy Studics 3, n. i, sprmg 1989,178. Importante e di­
stinguere l’umano di cui parla Cixous dnll'umanesimo: l’umanitâ di Cixous e la progres­
sione della capacità di leggere il mondo, di giocar con esso, d’essere più fedeli a ciò di cui
siamo fatti e vefso.ciò che possiamo creare - un “umano migliore”. Un esempio è il cuo­
re, comune ai due sessi, ai sesso umano, l’amore per tiitYelè specie, ed anche l’apertura
ad un insieme che vale il viaggio, lo spiazzamento di tutte le idee stabilite.
8 Nel 1962-63, Cixous ottiene un assistenza all’Università di Bordeaux, poi si sp
sta per una permanenza a Buffalo, a Yale, U.S.A.; in Francia, incontra Lacan con cui con­
divide la passione per Joyce; nel 1965, diviene Mnùre-Assisi ante alla Sorbonne. Nel
1967, Je viene chiesto dal Ministero deJl'Educazione eli costruire rUniversità sperimen­
tale di Paris S, Vincennes - Saint-Denis, e soprattutto d’approntare l’organizzazione del
primo donorato interdisciplinare di Women’s Studies in Europa: DEA m Etudes
Ιό Silvana Carotenuto

guide spirituali, “quegli esseri forti perché favolosi e esemplari, leggenda­


ri”· inizialmente, Bataille, Blanchot, Beckett, così Beethoven9... Con loro,
viveva il “Commciamenio" della sua scrittura ( Dedans) 1Ι!, ma anche co­
minciava a domandarsi sulla De-possessione (la cancellazione di sé e l’ac­
coglienza dcH’altm/a: certo D(ostoevskij), ma anche il segreto delie lingue
che crediamo di possedere, e che in realtà et abirano). Era il periodo m cui,
in Francia, nasceva il pensiero della Decostruzione: con Derrida, Cixous
parlava d^silio-Epifania-Enigma (la tesi di dottorato su Joyce) n; con De-
leuze evocava la "filosofitura” e la 'letterasofia" l-\ lei, nel frattempo, pensa­
va alla d.s.} la dea (déesse) - “visibile invisibile, appena intravista e subito al­
trove” ü - che avrebbe recitato la Differenza Sessuale come un’inscrizione
di forze libidinaii che dovevano affrontare innanzitutto queÌF"odore di mi­
soginia” che la scrittrice aveva avvertito per la prima volta una volta arriva­
ta nella capitale, ma che soprattutto volevano godere, nella differenza, del
dire (Jottn-oinr) della scrittura - è di questo periodo lo straordinario ri­
tratto di Dora come risposta (dar; d'ecut) all'interpretazione di Freud del-

Féminmes (il corso saia abolito nel 1980, quindi trasformato in Centre de Recherches
en Etudes Féminines).
*' A partire dal 196-i, l’anglista Cixous pubblica su William Gokiing, Ezra Pound,
Saul Bellow. Kipling, Swift, Iris Murdoch, Muriel Spark, tvy Coinpton Burneu, Lewis
Caroli, Burges, Chrisrhine Brooke-Rose, Beckeit, Henry jnmes, Poe, Patrick White. Il ri­
ferimento al musicista é nell’opera successiva Beethoven à jamais^ des femmes, 1999.
10 In cuiesio periodo, scrive Le Prénom de Dieu, Grasset, 1967; Dedans, Gras
1969; le troisième corps, Grasset 1969; J-es commentements%Grasset, 1969; Un vrai ja r ­
din, L’Herne 1971, Neutre, Grasset, 1972, Tombe, lxj Seuil 1973; Portrait du Soleil, De*
noël 1973; Révolutions pour plus d'un Faust, Seuil, 1975; Souffles, des femmes, 1976.
" Vedi nota 13 al terzo capitolo del presente volume. La relazione Clxous-Derrida,
per il tramite di Joyce, si matcri lizzò nella connine partecipazione al convegno “Pour
James Joyce”, organizzato da The British Councìl, dal Centro Pompidou e daü’Amba*
sciata d’Irlanda, a dirigi il 15 novembre 1982.
u I L Cixous - G. Deleuze, "Littérasophie et Philosofiture", Emission Dialogues,
η.30, France Culture, 13 nov, 1973. L’anno prima, Deleuze le aveva dedicato “Hélène
Cixous ou l’écriture strabocco pique", le Monde, 11 aug. 1972, 27, indicando l'insor­
genza di una nuova forma di lettura: l’opera della scrittrice andava letta velocemente,
poi riletta per permettere che le associazioni si combinassero a fare eco.
,3Setti (2000,101; ma già in 1992,9). Le considerazione sulla D.S., già pensate in La
jeune née (con Catherine Clément, Collection 10/18, 1977) e in Unire Técnture (des fem­
mes, 1986), saranno pubblicate tempo dopo in Lectures de la Différence Sexuelle (1994).
"Le passioni secondo... U.C.” 17

l’isteria, rivendicata qui come una scrittura del corpo-che-scnve, e sa-che·


scrive H Quest'opera segnava un'iniziale passione per il teatro che Cixous
voleva condividere con Foucault, con cui peraltro parteggiava già l’impe­
gno con il GIP15: ma che anche la convinceva ulteriormente a voler dirige­
re la pubblicazione delle sue scritture presso L’Editions des Femmes di An­
toinette F o u q u e E ra l'insorgenza del fuoco - quello che arde, uccidendo
Bachmann - ed anche della fiaba: la tubercolosi di Bernhard, la rivoluzio­
ne dì Faust, la porta dì Kafka... Nel frattempo, leggeva Genet, forse sospin­
ta magicamente dal magnifico Glas di Derrida...
Erano anni in cui, velocemente, straordinariamente, Cixous riflette
va sulla scrittura, identificandola sempre più con la lettera I I - l’iniziale
del suo nome, la forma dì due entità d ie si incontravano a fare sponda
tra due sponde, il ricordo dì una respirazione poi diventata muta, il sen­
so visivo, cosi sempre caro a Cixous, di una “scala”. H. Su questa scala era
possibile far cadere Humpty Dumptv nei suoi movimenti irrequieti, op­
pure inscrivere libri di critica, a volte tra “K incomprensibili", altre volte
al seguito delle marionette, piene di grazia, di Kleist17 Soprattutto sulla
scala era permesso vivere la più grande delle Passioni: La passione se­
condo G.H. (“Genere Fiumano?”, si chiede Setti, 2000, 99) nelIVxwtf dei-
rincontro inaudito, ingenerante, irraggiarne con Clarice Lispector,H. Sul-

u Portrait de Dora (des femmes, 1975) fu programmalo per un anno al Théâtre


d'Orsay, con fa direzione di Simone fieniliussa.
n Groupe information Prison. Cixous e Foucault scrissero insieme l'arucoln "A
propos de Marguerite Dumas”, Cahiers Renaud-Barmule, S9. 1975.
u' Fondatrice del Mouvement de Libération des Femmes. Con lei ed altri intellet­
tuali, Cixous sostiene fortemente l'iniziativa della regista Anane Mnouchkine dell'Aida
(Association internationale pour la Défense des Artistes),
17Un K. Incompréhensible; Piene Goldman, Christian Bourgois, Pans; e, soprai-
tutto, lo straordinario “Grâce and innocence: Heinnch Von KJeist”, in Hélène Cixous.
Readings. The Poettcs o f Blanchot,Joyce, Kafka, Kleist, Lispector, and Tsvetayeva (éd.,
trans., imroduced by Verena Andermatt Con lev), Minnesota Press, Minneapolis 199 J.
L’incontro produrrà Vivre l'orange (des femmes, 1979), ma anche L'heure de
Clartce Lispector (des femmes, 1986). In inglese, alcune sue lezioni dedicate a Lispector
saranno raccolte m Hèléne Cixous - Reading with Clance Lispector (ed., trans, e intrn-
duced by Verena Andermatt Conley; London, Harvester 1990). La produzione in questo
periodo sarà sotto la risonanza della La (Gallimard, 1976), llla (des femmes, 1980),
Limonade font était si injhn (des femmes, 1982), Le livre de Promethea {Gallimard,
18 Silvana Carotenuto

ia scala, facendo solo sorgere il tratto cieirunione, era possibile ancor più
salire al cielo e veder cadere la Manna (come trascrivere quello che que­
sta ietterà mediana, stessa e altra, riesce a tracciare nel cielo cixousiano?
Dedicato ai poeta Mandel’stam e all’uomo Mandela, Manne aitx Man-
detstams aux Mandelas scrive incessantemente le risonanze germoglia­
te dall’incedere poetico-politico dei due nomi: nei primo, si ritrovano ie
parole francesi per mandorla e amante amande amante ma anche il te­
desco per mandorla e per gemma Mandel e Stamm - che, come in in­
glese, indica anche l’origine, la "tribu", Amande poi ricorda Amandla,
parola Xhosa che indica il potere, che Mandela avrebbe gridato alle sue
folle; in eSvSa c'c l’essere lì, Vêtre-là, le mandé-là, ma ancora una voltai la
mandorla o mandolinelt>, insieme al poema di Celan dedicato alla "Man­
dorla" in più, se i plurali indicano costitutivamente anche Nadezda
Mandel’stam e Wìnnie Mandela, in inglese, “Manna" suona come ia ver­
sione femminile di uomo: man\ ancora, si potrebbe evocare Mosè, il
bambino nel cesto, se m francese "manne” è la cesta di vimini, il baule
per viaggiare; e. forse da qui, già partire a pensare al Messia?JI)· Sulla sca­
la era possibile guardare la “Notte miracolosa” 22; sulla scala, ancora, si
realizzava il più grande Passaggio {pas-sage: il passo, la negazionet un " ‘al­
tra” saggezza: pas sage) 2\ fatto di rimbalzi e riprese, rovesciamenti e ri-

1983), ia bataille d'Arcacbon (Lavai, Quebec, 1986), ed anche il recente Le jo u r où je


n 'eutil pas tei (Galilcc, 2000).
*· Λ Mandela, Cixous aveva già dedicato "La Séparation du gâteau”, m Jacques
Derrida et al.. Pour Nelson Mandela, Gallimard, 1986.
* “Mandorla” “In der Mandel - was steiu m der Mande!?/ Das Nichts./ Es ste
das Nichts in der MandcL Da steht es und steht.// Im Nichts - wer steht da? Der Kônig./
Da steht der Kiinig, der KònigV Da steht er und steht.//Judeniocke, wirst nicht grau-//
Und dein Aug - wohm steht dein Auge? Dein Aug steht der Mande! entgegen./ Dein
Aug, dem Nichts stehts entgegen./ Es steht zuni Kònig./ So steht es und steht.//
Menschenlocke, wirst nicht grau./I.ecre Mandel, konigsbau" (Celan, 1998, 414).
11 più recenie Messie (des femmes* 1996),
"La nuit miraculeuse” é la sceneggiatura televisiva di un film dì Ariane Mnou-
chkinc, commissionato daH‘Assemblea Nazionale Francese per il bicentenario della Di­
chiarazione dei diri tu umani. Il film fu programmato su Fr3, La Sept, nel dicembre 1989.
” Tra la più granile delle Passioni (Clarice Lispector) ed il più grande dei Passag­
gi (dai romanzo al teatro), ia "P“ dona spazio anche a Partie (des femmes, 1976). In ter­
mini cli “passage", in un intervista, Cixous ha affermato che ciò che conta è lo spiazza-
"Le passioni secondo... H.C.’ 19

composizioni, dal seni (seno, ventre, cuore - Cordelia - centro, ma an­


che sam/sang/sfgnej ai cfas Semt l'essere incarnato 2*\ la passione di
Cixous adesso passava a Shakespeare» alla Tragedia («Vìvo il tragico, mi vi­
vo come tragica, sono interamente occupata dalla questione del tragico»..
Cixous, 2000, 109), al nome William25

Umhewifich; ursache
Voile notre Voile Bianche fBlack Sail White Sai/: un'opera bilingue...
\X'iih ou l'art de Vinnocence ...

I had a wound thac was üke a T,


But now ’tis macie an H.
W Shakespeare

A Teatro26; la "H” diviene la ferita, quella che Cixous ha sempre


amato, la “poetic jouissance”, l'alterazione che lascia corporalmente una
traccia, il materiale di carne dove le cose accadono: "Antonio e Cleopa­
tra” - la coppia dei segreto («In due si può tutto, questo è il segreto>\

mento, la disseminazione, la ciecosiruzione di tutto ciò che è un ostacolo alla scrii tura:
il se, il pensiero organizzato, l’istanza critica, quella conscia; vanno, invece, recuperati i
momenti dì prossimità al corpo. Ciò non implica l'annullamento della saggezza, ma in­
vece, come afferma MacGillivrav 1994, xviii: *La saggezza oggi può essere trovala altro­
ve dai testi seminali delle tradition! filosofiche della modernità. In saggezza può essere
cercata nelle politiche e nella poesia delle relazioni, strane e a volte dai tram d'incubo,
dell'individuo con la storia».
24Vedi la bellissima interpretazione della 'V "moltiplicatrice, dividente, differen­
ziale, seriale, spettrale" - del francese corps nei uioio Le troisième corps a cura dì Calle-
Gruber (2000).
Vedi ie pagine dedicate a Shakespeare m II (eatm del cuore, 1992. il mio Ellis­
si di setiso. L'aifm corpo dalla tragedia shakespeareema, Bulzoni, Roma 1990, ha trat­
to immenso giovamento dalla lettura appassionata di queste pagine, a lungo le uniche
nelle pubblicazioni italiane su Cixous.
i6 II teatro la vede impegnata con “La pupille·' (1972), “La prise de fècole d
Madhubai" (198-i); “L'histone terrible mais inachevée de Norodom Sihanouk, roi du
Cambodge" (di iniiusso shakespeareano, 1985), "Théâtre”, l'epica TIndiade, ou L’Inde
de leur rêves, et quelques écrits sur le théâtreM(1987), "On ne part pas, on ne revient
pas”(1991), la traduzione da Eschilo di "Les Euménidcs”(1992), “L’Histoire (quon ne
connaîtra jamais)” (1994). “La ville parjure ou le réveil des Erinves r(1994), "Tambours
sur la Digue” (1999).
20 Silvana Carotenuro

Cixous, 1991, 202); “Cleopatra" - il corpo nella gallerai di figure clxou-


sjane(Antigone-CIorinda-Demetra-Elettra-Giocasta-Gradiva-Olimpia-
Osins-Pantesilea-Prometea...); “William" - Cixou.s dice che in ogni nome
è inscritto il segreto dei proprio destino: Wsll-I-am /I ani will: essere il
“voler” della “testimonianza” per il "futuro” ’7. In inglese will (come ben
sa Adnenne Ridi, che spesso, nel mondo anglosassone, nsuona insieme
a Cixous)2Htraduce, ai semplice scandire del proprio colpo, i sensi di de­
siderio, la volontà testimoniale ed il futuro del verbo. Voler testimoniare
il desiderio per Pa-venire: lo si può fare discendendo nelle profondità
della perdita, nelPaltro mondo delle proprie profondità, nei reami infe­
riori del fuon-dai-mondo...

A; lettera eli Chiasmo, come in Cixous


y:
Z: lettera reversibile eli intensità e luce...

Effetti di stona

Nel 1990, Hélène Cixous è invitata a infine , per tre giorni di le­
zioni, a raccontare una stona: ia stona dei suoi Tre Passi sulla Scala
della Scrittura. Il desidero è quello di testimoniare - con/dividere, far
passare, partager - un 'esperienza di scrittura-lettura. un apprender/
insegnare ad abitare diversamente il libro ed il mondo. Il prim o pas­
so è verso i morti, verso la scena primitiva che, pur dinanzi a noi,

27 Ovviamente, Cixoux non è inconsapevole: in O n ne part pas, on ne revient


pas” (iles femmes, - prima lettura il 2-i novemebre 1991 a (la Métaphore), diretto da
Damiel Mesgtiich e André Guittier, 83), il nome nomma il figlio, con sindrome down, di
Lucie; la madre io chiama William e poi commenta: "mio figlio dénommé. Né umano né
non umano”
u Rimando al mio ‘A “wilMo-poetrY” in thè Crossing of lime and space: An Atlas
o/tha Diffidili World by Adnenne ltich", Anglistica xvoi. 2, 1998. La mutazione della ric­
chezza semantica dell’inglese “will” nsuona particolarmente nelle ‘Annotazioni finali"
della raccolta di poesie: "it will not be simple, it will not be long/ it will take little lime,
it will take all your thought/ it will take your heart, it will take all your breaih,/ it will be
short, it will not be simple...*' (Rich, 1991, 57).
“Le passioni secondo... U.C.” 21

continuamente neghiamo e dimentichiamo per paura. Ma la morta­


lità, l'iscrizione dell'essere mortale nel mondo, la consapevolezza del­
ta umana mortalità, l'impossibilità di morire per Taltroia, insieme ai
desiderio di morire per avvicinare le regioni estreme, necessarie, fon­
damentali della vita, sono un passo centrale alla pratica della scrit­
tura. È infatti proprio attraverso la..psu:dit£i^· dbeotriifeoìercbe amia:
■ino - che soAgeJet scrittura, come a campensare^on uno zampillo vi­
tate. la scomparsa di chi né è la fonte. Questa scritturajieiie le tracce
della sua relazione con la morte: moménto estremo, in cut è possibile
avvicinarsi~aV'propno. desiderio xlL morte,- àlVodia; la"violenza, lei
guerra-tn noi!tra noi. E da qui^ dalla relazione stessal e allora per-
messojHiïaædere-il-soTgere^dell'igiioto, Cixous dice che, per fare ciò,
bisogna abbandonare il conosciuto, il realismo convenuto, fuggire,
realizzare l'Uscita - tagliare ilega W Lcol noto, estrantarsi e, forse, in
compagnia dLMn pareiile-librQjnaÿjeltato. C l i ï ^ con
^ui-poter affrontare il peggio in noi , accettare la verità, sconfessare le
h.ugie necessarie.al vivere quotidianot denudarsi, confessareJ!Xncoìu
fe s s a b iJ ^ lj^ ^ n itm )-e portarsi sulla soglia estrema deirindicibile v
^.adesempìQtJ'indicibileslfd-cavpQjieUa àìfféi^nzcrsessVtiàl^scipendò di
rinìLscipiirp>} elijion conoscere, sapendo di dover negare (pas^i tutte le
identificazioni,
Con l'aiuto detsogni-jLmisteropu<xess£re. avvicinato: il segreto
-dei-viso di'dìo, cheaUrqj.lQli^è che il nostro viso nudo, denudato, la
_ visione di ciò £he stai)φ. I sognila aiutano à sopporta re cji fasta visto-
. rie perché, più fo rti di nof^tTizaiapuitano con velocità, senza transi­
zione* ìràmixiTTolpt^persi, mescolati, delimitatr) d f significanti, , o di
^condensazioni d^ffetti; nella foresta-profondità di noi stessi. È qui
l'intimo di uno stato di creazione, dove poter dar nascita, allattare,
fa r crescere il sublime, il conosciuto che è insieme spaventoso, quei
misteri rimossi o tesori nascosti che, portati alla superficie, aprono
qualcosa - forse, la percezione del supernaturale nel naturale, il di­
vino all'umano. I,sogni'sono-preziosir'capaci' d it rifinite forme, _di. spo:
statuenti vertiginosi —dal'grande al piccolo - ci vengono da altri, so-
Ίϊ(Γfoliti ^tuesai tri bili per la scrittura:., se solosapessuno, rispettarii,.
22 Silvana Caroteni!io

non interpretarli ma fa rci guidare da loro, scrivere sotto toro dettatu­


ra, ristabilire la loro forza, sempre, sempre di più, nella realtà!
Eppure, /?? realtà, a sono sempre meno sogni, <? co;? /o/o we/7o
poesta. meno uccelli, meno angeli, meno donne - forse perché io Leg­
ge ha paura di ciò che rappresentano: l'immondo, il fu ori dai mondo,
/<? radici, / domini mfenon: l'inferno, l'abisso, le profondità del cuo­
re, il fango, l'abominevole: ebrei, donne, negri, uccelli, poeti - coloro
i quali passano le frontiere (ira i sessi, tra le specie, tra l'alto ed il bas­
so) da un reame alValtro, verso fa natura - parola dai triste destino,
ma che, invece, nella scrittura, crea le metamorfosi, la trance, ia tra­
sformazionet il passaggio dal minerale al vegetate; le avventure del
verso, della rima, il dimenticato dei dimenticati, la materia, il lato
i atomico in noi, il processo genetico e gli atomi linguistici. Cixous si
chiede: di che natura siamo, di che sesso siamo? che rapporto abbia­
mo con Vanimale, che relazione c ’è tra una donna e un topo , tra un
uomo ed un cane?, come a sottolineare la difficoltà della definizione
sessuale, ed insieme la fluidità dei testo, fa continuità dei femminile,
la materia stessa (intelligente, viva e potente) a liprova di ongini con­
crete (pur se i viaggi per giungerle sono spirituali) e a reintegrazione
del terreno. della terra, della composizione della terra nel corpo, nel·
l'immaginazione, nel pensiero dei femminile (senza eccesso, senza
esaltazione). Gambe, braccia, fiamme ; uccelli, il rotondo e Vampio,
piante carnivore, animali , luce, sesso - visioni, visioni cieche - sensa­
zioni. sfere, prospettive. esperienze - organiche. carnati - scene leg­
gendarie, esseri dal sesso mitico, cristallizzazione nella lingua degli
stati più primitivi della form a e dei volume, compiessi, di consangui­
ni tà variabile (sesso),.. Insomma, per raggiugnere le radici - gli effetti
inconsci dei propri nom i Vintervenlo della lingua nella carne della
immaginazione ~ bisogna andare verso l'origine in verificabile, passa­
re attraverso io stadio animale ; lo stadio vegetale, fin o alla radice,
l'ordine minerale che non accettiamo a causa della paura della de­
composizione "... E allora tutto finisce coi fio rii Non segni di morte ma
di vita, capaci di portarci al cuore della materia - la morte come ini­
zio, qualche cosa d'altro che inizia, dentro e non dentro, in una refa-
"Le passioni secondo... U.C.'" 23

zio ne naturale, semplice, ma dì complessa continuità tra il maschile


ed il femminile , tra il soggetto e l'oggetto, tra il vivo e il morto, tra il
sogno e la realtà... tra noi e g li altri...

Il "Terzo corpo "

Perché bisogna fasciarsi incontrare,


cioè incrociarsi, meticciarsi, mescolarsi,
intessersi d’altro,
perché cresca un corpo poliglotta creatore di linguaggi
M. Calle-Gruber

Vorrei dedicare questa traduzione a mia madre Luisa - senza iei


non ci sarebbe stata scrittura - e alla mia maestra Lidia - è lei che ha ini­
ziato ia mia passione per H.C., tramite La passione secondo G.M. di
Clarice Lispector, un dono -g ift, a g ivin gfor reading (donner à lire)
che improvvisamente mi spalancò un universo passionale - doloroso da
leggere, una gioia da leggere - il cui segreto mi portò a H.C. La passione
diventò meno libresca in un inverno parigino dove assistetti, estasiata,
ad un suo seminario. I sabato di quegli incontri dettavano il tempo delia
mia attesa e passione. Ricordo un istante di una lettura complessa dove
H .C si fermò e disse: “so che voi avete questa esperienza” Ed io avevo
quella esperienza... Moiu anni dopo, la passione si concentrò m una ma*
gica settimana a Censy-La Salle29 Qui, in un panorama nordico, un im­
possibile astro (quello che tocca la terra lì dove la terra e il cielo vengo­
no insieme, Parco elettrico deirossimoro, o forse solo la foto di un so­
gno, capace del bagliore di un fulmine)30 illuminò il cielo notturno a se-

29 “Hélène Cixous: Croisées d'une oeuvre”. Giugno 1998. Vedi gli atti del collo*
quio: Hélène Cixous croisées d'une œuvre (a cura di Mireille Gl Ile-Gruber), Galilée,
Parrè, 1999.
3n"La lumière femmine, ne vient pas d'en-haut, ne tombe pas, ne frappe pas, ne
traverse pas. Elle irradie, cest une montée, lente, douce, di ilicile, asbolument inarretable,
douloureuse, e qui gagne, qui imprègne les terres, qui filtre, qui sourd, qui enfin déchire,
humecte, écarte les é p a is s e u r s , ics volumes...Cet te lumière ne plante pas, elle fraie. Et je
Silvana Carotenuto

gnarc un panorama di senso che era solo una promessa. C'è promessa:
essa si è materializzata in questo lavoro di traduzione, sostenuto clall’a-
morevole collaborazione di Nadia Sem e dall’amicizia di Monica Fiorini -
esse hanno sottolineato il senso di questo volume che non esiste in fran­
cese. Per quanto mi riguarda, io ho solo tenuto il filo (cominuo-discon-
tinuo, conosciuto-sconosciuto) della promessa secondo fasi diverse: un
testo pubblicalo solo in inglese, ma già in traduzione, perché basato su
un manoscritto francese che è a sua volta già a tratti scritto ui inglese
dalla stessa H.C. Il tesro inglese portava le tracce di questo tessuto com­
posito - la mia prima passione realizzava un versione letterale, che sem­
brava arida, come se si fosse avverato il temuto “addomesncamemo’VÌeg-
gibilità della lingua inglese - dove era la poesia densa psichica della scnt-
* tura di H.C.? '1 Perche queste frasi brevi, tagliate, inscritte in un modo
che solo la lingua inglese può fare? Avevo desiderio del testo francese;
Nadia lo ha procuralo, ed il percorso si è arricchito: un secondo corpo,
questa volta ibrido, punteggiato da interrogativi, decisione da prendere,
frasi da portare in porto (eppure sempre senza ormeggi). Infine cosa re­
stava? Restava la mia fedeltà alla lingua della mia propria alierità: l’ingle­
se. Ci ritornavo allora - ed il miracolo accadde. L'italiano, passando nel*
le trame reali del francese, rincontrava l’inglese, si rincuorava adesso del·
la sua lucidità, vicino al senso deliberato - conscio, pedagogico, didatti­
co - della passione iniziale delle Wellek Lectures52. Il miracolo sorto i
miei occhi nasceva alla scrittura, all'inchiostro del traduttore. Io stessa

vois qu'à cene lumière, clic regarde de tout près, et clic aperçoit les nervures de la
matière. Dont il n'a que faire. Son lever: ce n’est pas une érection. Mais diffusion. Pas le
irait. Le vaisseau. Qu’elle écrive?’ (Cixous, ù i jet ma née 1975, 163)
11 Π un umore assunto da Bettsy Wing (1991) nella sua "scelta immaginaria*’ di
traduzione. Vedi anche Nicole Ward Jouve, "Ίο fiv/to steak no more? Translatmg French
t'eminisms imo L'ngJîsh", in Ward Jouve, 1991.
■* Uso qui i tre aggettivi proposti da H.C. per descrivere lo sforzo di classificare, or*
ganizzare cene riflessioni, enfatizzare un “senso comune", presente nelle prime pubbli­
cazioni “teoriche", come "La jeune née" o "Le Rire de la Meduse" (Cixous, 199-i). Bella la
sezione 'léaching after Cixous, con i saggi: “Learning to read thè Femmine" (Susan Sel-
lers); "Pour une lecture Fémmine?” (Sissel Lie); "The implications of Etudes Féminines
for teaching" () en ni fer Birkett), in Wilcox ci ah. (1990).
"Le passioni secondo... H.C." 25

jero diventata colei che annotava, che cercava » niille.0segnt ciazio-


.inli ddje^voci degli altri (qui solo una nota triste - o forse solo la ricon­
ferma della “radicalità” del loro destino, della difficoltà della loro seni tu­
ra? l’appartenenza alla terra dove è diffìcile viaggiare?: desiderando tra­
scrivere le voci che, come me, avevano perso ogni identità per farsi tra­
duttori della passione degli altri, questa volta ho trovato non “miracoli''
ma vuoti - voluti da una politica editoriale italiana che ad esempio lascia
intradotto proprio il Miracolo della rosa di Genet, oppure « magli ilici
“Fogli di conversazione” di Kafka, ed anche... nn sono resa ancora più
umile e ho seguito, quando potevo, lo specchio delPongtnale già tradot­
to nella lingua inglese; spero, ancor più, che molti “miracoli" si produ­
cano nei panorama italiano, ed effettivamente - la traduzione dell’opera
di Genet era anticipata, ma ancora non c’è traccia del suo avvento). 11 la­
voro era cosi quasi finito - senza mai arrivare ad un telos o significato fi­
nale; meglio sarebbe dire che era piantato e poteva “germogliare"
Il traduttore deve assicurare In sopravvivenza, cioè la crescita, dell'originale,
che, fino a quando sopravvive, non cessa mai di esser trasformato e di cresce
re. Èssa modifiai l’onginaJe mentre modifica anche la lingua della traduzione.
Questo processo - trasformare l'originale allo stesso tem po della traduzione -
è il contratto traduttivo tra l'originale e il testo traduttore (Derrida, 1982. 122).

Le note che ho aggiunto alla fine sono solo piccoli germogli che
quasi sempre cercano di vedere come queste lezioni, datate 1991, han­
no prodotto altre scritture di H.C., spesso tradotte, a parure da quella
data, nel mondo anglosassone, e anche umidamente in Italia.
Un terzo corpo:, guardateci terzo capitolo dove H.C. scrive la sua pas-
jiione per la jradiizioiie.sLessa^^lQN^ Te^^^can^iienjrL^.irasibrn^i^eniencja
*le^rirdüzicîiiTinglesi'dei-.tesü. Io ho cercato di intrecciare le sue lingue: a
volte le scorgerete in nota, altre volte nei testo stesso. “Tre passi” ed una
sola regola: ritornare alla più grande incertezza, lasciare la lingua parlare,
fraseggiare la frase, far scorrere la lingua, senza la predestinazione di un
pensiero precedente, infinito displacemeni di significati - giocare la di­
spersione, la diversione, la sorpresa, così che la scrittura possa tornare da
lontano, da niente, prima della stona di ogni stona, prima della narrativa
della società, al di là o al di qua di ogni separazione e riparazione...
LA SCUOLA DEI MORTI

C’è bisogno di una mortefa) per cominciare


Che Tatto di leggere o scrivere sia un atto mortale;
oppure, Leggere/scrivere, evasione in pieno giorno
Cos’è leggere? Ë mangiare m segreto
li delitto dell'autore ha la sua leggenda
Uautore è al buio; ossia, Autoritratto di un pittore cieco
L’inclinazione alla confessione
Verso l’ultima ora
Abbiamo bisogno della scena del delitto
Aneliamo alla-scuQla*della-sauuyra. Vi trascorreremo tre giorni ini­
ziandoci alla strana scienza riella^caicura^cloe,è^una.saenza.dladdii. Di
ritrova menti..
,■■^ ^Comincerò con: H
La scrittura, eccola.
,. .M'indirizza^aαώι o ggL (oggi 2‘i aprile 1990, oggi 24 giugno 1990)
^in/Gtìn“cltse;iìngue. Qi^uix^jqrn o .a[Pajt m^ da una.,pagin:uiU’aIli^l .ia^cui--
•saura- cambia lingua(e). Nella‘lingua francese ho pensato-misien che-non—
j^ s s o pensare in.ingleser;\j-jche-ciar.quesuuperdiui1-eu.]ueste-guadagaQ..
^d^IisÊriuürâ;: I lo disegnato H . L’avrete.riconoscili ta, diversamente se
.Siei&J^agnaudairiinamo da] ] ’altr^ jing 11a^Laseri taira è: I (o )
w.una4inguaŸ.J.(o)-un'altra lingua; fra le due, il tratto che le fa vibrare, bi
^Cntt0ftrfófm^trììàSàìiggio;*-tra-dtie-5pondev _ — ^
H:„ncanùscet^ jl.disegno stilizzato.di urm^scal a) Ë^ki.scahi che.sca-?:
^ia.-la-sci'ittura, quella*dïê'W im porta; -Mrdìresté^Toivse ch equ est’H
unY/. V ogliod irej^ Jettera,/1/^Certo.,, in..francese, FI.è una lettera.lertile
d ’e f f e t t f v S i g n i f ^ e ' S e i l t p W tfçh e ( a s c i a ) ^
^ià^aspoc.i£Êper^hhdesîdeia^crivei;eri^^quûstu1^ c/ x ^ .->,sir.uiiienLû.da
«MgliQ^asQaup£Jkspian;u:e-j}.uQy^ in francese,
jO£Ì£alfabe ro lla i ette 8Qde Ai.&XQH. suigojan. Se /V è maschile, come
β Λ C, D yÌlx ecc.. so\aJ:LJi sola, è maschile, neutro o fèinhïmiTeirpîace-
Come^otrej^ non ^essere legata alla l i ?1 * ..

Le note tra parentesi quadre, anche quantici non direttamente specificato, sono del·
la curatrice dell'edizione.

* (Vedi \X'7tb ou l ’art de rinuocettce (Cixous, 1981), lessino incorno alia lette
sospesa H(élène), bache - ascia e lettera muta - che, in posizione d’autore, e tonneiv
30 Hélène Cixous

JnoJtre,. in,francese^//^u ^ ha p e rd uto il. respiro.. P âm a


UL essexe^ndotta.ai^silenztQ, durante l ’im p ero, .era inspirata,, a s p ira ta c i se
lo ricorda, anche se noi lo dim entichiam o. È lei ch e p ro te g g e le beros, la
hardiesse, ta b a r p e , V h a n n o m e , le h a sa rd , ία h a u te u r, i'h e u re da ogni
c o lp o e c ce s s iv o '
-Posso raccontarvi questi ^ΐ5ΐ6Γν'6Θίο-ΐη--ίΓαηα(^6,.^ίΐ€ηζιθ52Γη^
■te; In inglese/c'è'il respiro;.manteniamola
Dicevo: H , questa scala è ia^sermura. Me la figuro così;..la scalatnon
è pé4iqmipbile‘-né:VAiQ^JËr.^m au ^ incorpora il movimento che suscita
e che inscrive. La mia scaia è frequentata.,JD[co_/mi7, a causa del mio
amore per essa; è scalata.da.quégli-.âutori^çQn 1 .quali, mi ;s en teJ ^
nosa affinità: le affinità, le scelte, sono sempre^egrete.
Quando scelgo un testo, sono chianiata:,obbedisco aU'appello ,dL=—
certi testi, oppure sonp rifiutata.da altn^I testi.GheÆL.chiamano hanno
voci differenti. -Tutti, però, hanno una voce .in comune; hanno^tutti, nel-
le iorò difTerenzè^iiià iiuisica cui sono accordata, ed è j^egreto^Proba-
bilmente conoscete già quelli di cui ascolto la musica, li nò portati con
me, li farò nsuonare^C.’è Clanc<zZ/5jDec/Q?^rIa cuiTn usicaésecca,.dura, e
severa, come creila di Bernbard^jyt la musica £iù 4 engra^
ù\ Ci^etaeva, oppure queljaτpiù_s traviata di
questerpe!^eiie*}Ttinno-rr^qiientatq;la;stótó~C's^a:^er^noi^que5ta scala"
ha .un movimento discendente perché l’ascesa^die^eyQca,sfoczo e clifFi-
coltilaè.verso.iLbassp. Dico ascesa^verso il basso-perché di.solito credia-
.mo che-la-discesasia'faciie. Quelli che amo sono discenditori, esplorar
tori del più basso,, d e l più^prqÈinçlo^Discendere èingannevGle7“fca~“dH—
scesa, compiuta da* quelll· che;amo5ê a voite.i n t o U e r a b i l e , d i t o n ^ .
scendono Gon-difflçpltâ; a voJt;ensm£U£^adì,sc£^^^

tntn dalla colpa e sogna una liberazione, pur limitala dagli interdetti che le vengono dal­
l’esterno c da sé, imcrnalizzau. Vedi anche Le Livre fie Promethea (Cixous, 1983). |
{ (Il respiro della lettera dona il titolo al saggio “Respiration de la hache":
Contretemps i. 1995· 1
Tre Passi sulla Scaia della Scrittura 31

; Tu nn dici che devo scendere ancora, ma sono già molto 111 basso, mi manca
già il respiro, sono già troppo in basso, comunque, se così dev essere, mi fer-
V merò qui. Che strano posto! Probabilmente è il punto più profondo. Ma vo-
glio fermarmi qui, e tu non forzarmi a scendere ancora (Kafka, 2000, 918).

(Forse sapete che· Kafka era due persone;· e-a-volte· si rivolge a sé-
dandosi- d e l “ tu^•"CdniëTàceva Leon^ rciò cla Vi nei).
.CLsono due morlLdijscalare^:ecso-il-basso —tuffarsi 4iel!a 4eiTar e—
sprofondare neLmare.^.nessi-ino dei- due-c facile.
(^VàlëmëTUp (vorceù&cukascoitaFe questa .parola dettn d^GvenrovH;
intende J ’eleiTientQc^Javjmatena^-,e-Xekc,n.
mejnto.^ J lS g rsO-pQGÌiCQ: Λa p a r lilo \ imso^T^nffic^T^nih'iTnïï^'lg cose):
'lte(emento-resisteija-tGm film a r e offrono- resistenza; come il linguag-
^gj^n?iÎ^ensiero^Ma-qaiiI1fl0'sœ7id&^ cÌie'ScàvisK’
T ^ i T ü r r f f T o m e ^ n i m a t o r r f * a n (W f W O i!| îîÙ ^ H t t ïï' ' c o n i ^ i e d i : ’ F o r s e lT S lT a ^
>gliato^forse-.bisognerebbe -ini mag ma rei una discesa nella terra xhe_ non,
-iSia^DJàwiwWJn-i-ptèdUQuando-Scenciete^nel-niare,-allora .potete immagi-
uw^tuUGLdà.cIm .^jetp; JéLtesta. prima^e^sieteun^DasiziGìnG-fetaie - for-.^.
seja,n asaja^M (^ 0 -il fondo.o,y oppure dritti fuori... Il corpo,
tSèSPad.oJa.sua.posiZione.e bisogno,, inscrive parte dello sforzo per scen-
dere^lavorare^concro^corrente, contro te im ·Inscrive- Γorientamento
delîe^uGtpulsioni^Che^èr^ifpçilç.vQuando saliamo verso ii foncio, proce­
diamo portati nella direzione di - cerchiamo qualcosa: lo sconosciuto,.. ■

i
' ICixous ha ariicoteto questo ‘'andare nella direzione di*' in “Il libro personaggio
del libro” (relazione non pubblicata, tradotta da Monica Fiorini, che fautrice ha letto al-
ΓUniversità di Bologna, maggio 2001), col tramile della parola tedesca gegen. «L’"ogget-
to" ê ciò che si tiene in una regione che si definisce attraverso delle direzioni, orienta­
menti, prossimità o allontanamenti che sono gegeîi* Il riferimento è a Thomas
Bernhard, L’ortgme, ma anche ad /\;//fe/crrii-Shakespeare: «Ricordate Γenigma del cimi­
tero in Amieto: Amleto interroga il becchino: Per chi scavi? Per un uomo? No, non è per
un uomo - Per una donna? Non per una donna - E per una cosa, scavo per qualche co­
sa che fu uomo o donna, che non è più uomo o donna, e che è una di quelle improv­
vise apparizioni, che ci rasentano, uomo, donna, bambino, esser umano, simili e toral­
mente dissimili, e che fanno entrare nella nostra esperienza la sensazione di alterazio­
ne, di altro, di un altra specie d ie noi siamo. Questo ci accade Gegeti. Con Cegcn co­
mincia a nascere la scrittura, nella regione torbida deUe connessioni, dei riconoscimen­
ti, delle identificazioni, dei margini...». |
32 Hélène Cixous

Stiamo per scalare questa scala, viaggiando lungo i suoi scalini, i


momenti che, come stadi, ere (ane - fate attenzione ai giochi fonici) ed
epoche, conducono verso il più profondo. Verso ciò che chiamo: la ve­
rità, ciò che mi chiama, che mi attrae magneticamente, irresistibilmen­
te. Ovviamente circoscrivo la “verità” ; perché è una parola che, pur at­
traversando costantemente il nostro universo con una scia splendente,
é anche inseguita dal sospetto. Vi parlerò ancora della verità, senza la
quale (senza la parola verità, senza il mistero venta) non ci sarebbe
scrittura, È ciò che vuole la scrittura. Pure, essa “(la venta)” è assoluta­
mente al fondo e lontanissima. Tutti i personaggi che amo e che ho
menzionato, sono inclini a dirigere la loro scrittura verso questa verità-
laggiù, con un lavorio incredibile, lottando contro gli elementi, innanzi-
lutto contro gli innumerevoli nemici immediati, esrerm ed interni. Oggi
l’esterno è potentissimo. Siamo particelle viventi, lucciole ne! mondo, e
intorno a noi nsuona un'enorme concerto di macchine-che-producono-
rumore-e-chiasso, uno strepito ed un frastuono tali da impedirci di sen­
tire la voce della verità. 1 nemici interni sono egualmente numerosi. Si
tratta della paura; ciò di cui siamo fatti: la nostra debolezza. Kafka ha
detto che il paradiso non é perduto. Noi non l’abbiamo ancora riguada­
gnato-*; se non lo abbiamo fatto, é perché soffriamo di due vizi: l’ignavia
e IImpazienza. In questo modo non facciamo niente e non avanziamo,
ci fermiamo per ignavia ed, impazienti, ci precipitiamo. Tra i due, Il la­
voro della discesa non si compie. Il paradiso è giù m fondo. Per la mia
gente, scrivere non è dato. Darsi alla scrittura vuol dire fare questo la­
voro di scavo, di disseppellimento. La qual cosa implica un lungo perio­
do di apprendistato, che ovviamente significa andare a scuola; scrivere è
In-scuola giusta. Ciò che ho imparato non può essere generalizzato, ma
[ìlio esser condiviso. Ci sono momenti importanti d ’apprendistato. 11
primo momento della scrittura è fa Scuola dei Morti; il secondo m o

* (Questo "secondo paradiso” più d ie un luogo è uno spazio, uno spazio di se


lura, perché ‘«...non si è mai a casa, ma sempre esiliati, girovaghi, alla ricerca della chia­
ve per il paradiso, il poeta esiliato cerca di trovare il paradiso attraverso la scrittura, ma
fa chiave è nella scrittura e non nel recupero di un luogo» (Conlev, I9H*i, 55). j
Ire Passi sulhi Scab della Scrittura 33

mento della scrittura è la Scuola dei Sogni. Il terzo momento, il più


avanzato, il più elevato, il più profondo, è la Scuola delle Radici,

Oggi, primo giorno, prima ora del viaggio, andremo alla Scuola dei
Morti. Vi avevo annunciato che saremmo andati alla Scuola del Peggio.
Eni inesatto: nella mia lettera non osavo dirvi che il primo giorno sa­
remmo andati dai morti.

C’è bisogno di una morte(a) per cominciare

Per cominciare (a scrivere, a vivere), a vuole la morte. Amo \mor­


ti, sono i guardiani della porta che, chiudendo su un lato, dà sull'altro.
CI vuole la morte, ma giovane, presente, feroce, fresca, la mone
del giorno, la morte d'oggi. Che arriva al nostro fianco cosi d’improvvi­
so da non lasciarci il tempo d’evitarla, voglio dire d’evitare di sentirci
toccare dal suo respiro. Ma!
Poiché, in seguito, la maggior parte di noi passa la vita a non vede­
re il quadro che rappresenta la morte di Alessandro, lì appeso in classe:

La morte è dinanzi a noi pressappoco come, in un’aula scolastica, il quadro di


una battaglia di Alessandro Magno. 1*importante é di oscurare o cancellare* quel
quadro, ancora in questa vita, mediante le nostre azioni (Kafka, 2000, 802-803).

Ê vero che né la morte né i guardiani bastano ad aprire la porta; a


vuole anche il coraggio d'avvicinarsi, il desiderio d’andare alla porta.
Scrivere è questo sforzo per non obliterare il quadro, per non di­
menticare: è cosi per Lispector, per Cvetaeva, per Ingeborg Bachmann...
Per tutti quelli che ho amato, credendo d’amarli ognuno per il linguag­
gio diverso, ognuno secondo la sua voce, il sorriso, le lacrime, ognuno
diverso dagli altri. Fino a quando, in seguito, ho scoperto che all’inizio
ognuno aveva una scena inaugurale, da cui era germinata la scrittura.
Perché si tratta sempre di una scena con un quadro, il quadro è la
porta aperta attraverso cui bisogna passare. Ecco la scena della nascita
della scrittura per Thomas Bernhard:
Hélcne Cixous

...questo cammino mi concluceva davanti alia casa d’un macellaio: porte aper­
te, asce, coltelli, mannaie, allineati in ordine, gli uni sanguinanti, le aitre bril­
lanti e pulite, pistole d'abbattimento, poi il rumore dei cavalli che cadevano,
quegli enormi ventri aperti che vomitavano ossa, pus, sangue... Passata ia ma­
celleria, qualche passo verso iJcimitero, all’obitorio, alla tomba... durante que­
sto primo giorno, mi ricordo ancora, in più, un pallido giovine esposto all’o*
buono, il figlio di un produttore di formaggio... e di là, il cuore ancora palpi­
tante sui mio banco di classe, una giovane istitutrice...

Mia nonna mi portava sempre con lei, in più, - il mattino passavo solo davan­
ti al cimiiero; nei pomeriggio, mi faceva visitare l’obitorio - mi nsollevava di­
cendo: ‘'Guarda, ancora una donna stesa lì” Nient aitro che cadaveri...
(Bernhard, 1986, 57-58)’

Ho riconosciuto subito il cammino della scuola. Come futuri ani­


mali scuotati, per andare a scuola dobbiamo passare dinanzi la casa del
macellaio, attraverso il macello, fino alla porta dei cimitero. Attraverso il
cimitero, * cuori che battono per cosi tanta morte, fino a che non rag­
giungiamo la vita giovane. É la nostra scuola primaria, la scuoia prima
della scuola. La scuoia per andare a scuoia. Dove sono andata per tutta
l'infanzia, per caso e per necessità.
Vivevo a Clos Salembier, sulle alture della periferia d’Algeri, e per
andare a scuola passavo tutti i giorni (scendevo in autobus, la linea K) da­
vanti al Cimitero Cattolico. Il Cimitero Cattolico era la mia morte d'ebrea.
Il Cimitero parlava latino. Mi diceva* o mors, spes, et maona. Sentivo ìe
mors {il morso del cavallo ), l'espèce (la specie): un cavallo resisteva,
(di') chi era (la) vittoria? Mi è successo tutto al Cimitero, ostilmente6.

- {Aciotto In punteggiatura utilizzata dai testo francese indicato in bibliografìa, dif­


ferente da quella riportata in inglese nei testo (S.C).l
■■Il emulerò cattolico era a Boulevard Bru; in “Mon Algériance” (Cixous, 1997),
l’autnce ricorda dì avervi venduto, insieme al fratello, i bellissimi crisantemi coki nel
giardino del padre morto, avvertendo un misto di rabbia verso ia madre che, per ragio­
ni eli sopravvivenza, li rendeva "mercanti”, di amore per il suo realismo coraggioso, ed
ancora dì disgusto per la trasformazione del dono del padre in materia di commercio;
diversamente, un riferimento ad un "evento” legato al cimitero ebraico rimarca una
possibile origine del "libro”* «La sensazione che ci fosse un "libro*', una presenza avvol­
gente e supplementare nel luogo in cui arrivavo, dove mi recavo mio malgrado con mio
fratello suo malgrado, si e prodotta il 12 febbraio 1949 verso le 11 dei mattino al cimi-
Tre Passi sulla Scala della Scrittura 35

tiQn_è_un_caso^dic ritroviamo nelle nostre memorie il e


jnanzi lascuola. li primo apprendistato è fa scuola, con cimitero. Kafka,
che non passava davanti ad un cimitero stra n ie rò -^ n Z ^
ri -, ave\^dmanz^ i, in classe, la battaglia. In seguito passiamo la
vita a non vedere ciò che abbiamo visto. E ììTil quadro: io'sàpevairioTïâ
piccoli; perché dajpiccolì sappiamc^iuitò, anche se iryngdo infantile.
Ho detto che ^ primi morti sono i nostri primi maestri, coloro i
quali ci schiudono, secolo siamo dispostTa 'sopportarlc^^lh ÌDortu che si
apre^ni^ìTiO^hìta Scrivere, nella sua funzione più nobile, è il tentativo
di recuperare, disseppellire^ ritrovare il quadro primitivo, il nostro, quel*
lo che ci fa Paura. StrahanìenteTsuratta di una scenaVìì’ quadrò non è ΓΓ
per caso. Quelli che sono stati m contatto con la porta che sta per aprir­
si, l’hanno percepita nella forma teatrale della scena. Perché una scena?
Perché è una scena? Perché diventerà ia scena dei delitto? Perché noi sia­
mo il pubblico di questa scena, non siamo nella scena; quando andia­
mo a teatro non siamo sul palcoscenico7. Siamo testimoni di una scena

tero Saint-Eugène di Algeri. A causa eli questa presenza impalpabile ma intensa, it luo­
go, ovvero il cimitero, era diventato una scena della scena che non solo noi stavamo vi­
vendo, ma anche incarnando in quanto personaggi/da un lato/a causa della presenza
immensa di un libro che ci prendeva m note e in ostaggio proprio qui tra le tombe/dai-
l’akro/a causa della presenza intensa di quella specie di assenza potente nella quale mio
padre si teneva in questo cimitero in cui era disteso fin dalPanno precedente/a causa
della presenza di questa assenza indeterminta di mio padre in quanto corpo che senti­
vo ancora letteralmente non respirare e anche mio fratello,/a causa di questo terribile;
disordine umano ai confini dei regni della Vita e della Morte» (Cixous. 2001, 19-20). 11
luogo ritorna ovviamente nella pratica teatrale dell’autrice che, in "Apparizioni”, ricorda:
«Nella Ville patjure - tutto è cominciato con un cimitero che era una Citta in sé - un
cimitero enorme (Anane fMnouchkincj pensava alla citta dei Morti dove vivono al Cai­
ro 150.000 "senza casa” tra le tombe) popolato di morti e di vivi e che si estende all'c-
sterno della cinta muraria di una citta. Si può far di tutto con un cimitero immenso, ge­
mello nemico della Città nemica, Città al rovescio Città al diritto-» (Cixous* 2000, 11-i).
I/opera teatrale a cui si riferisce Cixous t La Ville parjure, ou te reveii des Entiyes,
Théâtre du Soleil, 199-i. Sullo spettacolo teatrale, vedi Quadri (1994) e Fort (1997).|
7 In Cixous (2001, 19), il “pubblico" è chiamato in scena come «emanazioni igno­
te di noi stessi. “U puljblico^ che è allo stesso tempo seicentoi persone^diiTerenu.e una
sola |...j Il pubbfic^he dinieniiavii^ropriornomer-ja-propna professione, la pròpria
jdenìiCajper lasciarsi andare all’altro che gli giunge dalla scèna,
^iblicèmeme spcuaiore ma scclia elupgo eli una’strçorçliiiaria
36 Hélène Cixou.s

straordinaria, il cm segreto ê dall'altro lato. Non siamo noi ad avere il se­


greto. È una scena pittorica.
La scena d'apertura de *ΊΙ mio Puskin" di: Cvetaeva iptzia con un
quadro: “’ · .......

Incomincia come un capitolo del romanzo vangelo di tutte le nostre· nonne-e-^


mamme -J a n e Eyre —Il segreto della camera rossa.

[ Nella camera rossa c'era un armadio segreto.


j Ma prima dell'armadio segreto ci fu altro, ci fu il quadro nella camera da letto
/ della mamma - // d itello (Cvetaeva, 1991, 9 ) ‘\

11duello rappresenta la morte di Puskin. Inizialmente c’è il quadro,


in cui entriamo o non entriamo. II duello - la mone - e il quadro fanno
porta, finestra, apertimi. Montaigne ha detto che filosofare è imparare a
morire. Scrivere é imparare a morire. Imparare a non aver paura; in ai-
tré parole, a vivere all’estremità della vita. Che è ciò che ci dona il mor­
to, la morte.
Lo dico tra parentesi: forse il morto dà, mentre la morta ci dà meno,
non so. Confesso la mia ignoranza. Forse è il morto, e non la mona, a per*
metterci di ricevere; parlo del padre o della madre, o di chiunque sia al
posto del padre o della madre. Forse non possiamo ricevere dalla madre
morta ciò che ci dona il padre morto? La morte dei morto ci dona l'es­
senziale esperienza primitiva, l’accesso ali'akro mondo, non senza avviso
o fracasso, ma anche senza la perdita del luogo di nascita. Quindi ci dà
lutto, ci dona la fine del mondo; per essere umani, necessitiamo dell’e­
sperienza della fine del mondo. Dobbiamo perdere il mondo, perdere un
mondo, scoprire che c’è più di un mondo, che il mondo non è quello che
pensiamo. Senza ciò, non sappiamo nulla della mortalità e delPìmmorta-

B [Una trattazione simile era già in “DifTiCokit jovsM(intervento presentalo al col­


loquio tenuto in suo onore all'Università di Liverpool nell’aprile 1998, pubblicato in I L
Wilcox, 1990, 16), dove Cixous enfatizza la presenza di "un segreto entro il segreto, una
stanza entro una stanza, una caverna entro una caverna**. Se Cixous dice di non voler
chiamare “ utero1' questo spazio entro lo spazio, in ogni caso definisce lì duello “Pem-
bnone deil'intern inondo" di Cvetaeva. |
Tremassi sulla Scala della Scrii tura 3”

iità’di cui siamo portatori. Non sappiamo d’essere vivi se non quando ab­
biamo incontrato la morte: banalità cancellate. Hd è un ano di grazia.
Dostoevskij ricevette il mondo nei perderlo (torniamo sempre al­
l'esperienza d ’Àbramo e d ’Isacco), lo ricevette perchè, condannato a
morte, dinanzi al plotone d ’esecuzione, in extremis, fu graziato. La gra­
zia: la mone data, e poi ripresa.
* Naturalmente, parlo della morte dell’essere amato; qui è solo que­
stione d'amore. E di tutto ciò che ia perdita ci apporta, nei sottrarci. Per-
diamo e, nel perdere, vinciamo. Non accade insieme, può avvenire in
modo differito, prolungato, o continuo9. Per quanto riguarda Bernhard,
si potrebbe dire che perdere fosse diventato vincere in una folgorarne
continuità. Egli ci racconta come cominciò a scrivere: ricoverato in
ospedale a diciotto anni, fu dichiarato un caso disperato. Il nonno, che
adorava, era nello stesso ospedale, e stava abbastanza bene - ci dice -
quando, d’un tratto, morì. Bernhard: “Ho cominciato a scrivere centi­
naia e centinaia di poesie” Cosa ammirevole, perché inscrive una so­
vrabbondanza nell’apparente realismo, uno straordinario gettito vitale.
"Esistevo solo quando scrivevo” Capiamo quanto sia necessario scrive
re, non fermarsi più, perché non-monre e scrivere si sono scambiati. ‘Έ
poiché mio nonno il poeta era morto, ora avevo il diruto di scrivere e
usavo l’intero mondo, trasformandolo 111 poesie” Ecco la causa di que­
sta sorgente di scrittura, che si produce come risposta, o erezione, co­
me resistenza alla castrazione. Io preferisco parlarne m termini di ses­
sualità femminile, come una sorgente vitale apportata e ordinata dalla

9 (Decido di tradurre i termini del succedere, dell’avcr luogo, ecc. .sempre con
verbo "accadere", grazie ad una poetica stessa deli'accade re, un lasciare che la cosa ac­
cada anche prima di sapere cosa o chi; un'emergenza al posto del verbo; il rìiìuio di es­
ser organizzati in categorie d'attribuzioni. Vedi Cixous (2001) e Locai dii (2000. 25).
-L’irriducibilità dell'universo interpretato ad un universo semantico e pragmatico è una
epifania cognitiva, che scaturisce dal “conflitto delle interpretazioni”, che Cixous sotto­
linea f...{. È un conflitto preso in considerazione non canto nella prospettiva di una sin­
tesi degli opposti, un'ennesima violenza «iella stona ciel pensiero occidentale, ma nella
prospettiva di poter (salvaguardare il) “lasciar accadere". Cosi, si potrebbe dire che con
la sua decisione di “lasciare accadere le cose”, in Cixous, la filosofia della riflessione non
può che diventare una riflessione (interminabile) sulla filosofia e/o sulla scnciunt-.]
Hélène Cixous

scomparsa di chi n’era la fonte. Il nonno non era una persona qualsiasi,
era il poeta, che io aveva sempre amato, che era tutto per lui.
In ‘Appartenere” Clarice Lispector ci ha raccontato in modo simile
d’essere stata concepita nelJa speranza che la madre malata sopravvivesse,
nella fantasia superstiziosa che se la madre avesse prodotto vita, sarebbe
guarita (2001, 101-103). Il che non successe, la madre mori. Clarice rive­
la con voce secca come, dopo ia morte della madre, si sia sempre consi­
derata il soldato che lia disertato. E ciò accadeva senza che lei potesse far­
ci nulla. È quello che a volte troviamo difficile da ascoltare o da accettare:
non possiamo farci nulla. E tuttavia, la diserzione, (a fuga, l’impotenza, so­
no impresse sul muro della classe. Legate, associate: c’è morte. La sfortu­
na o fortuna - ciò che farà delle nostre vite una iotta incessante per esse­
re giusti - ê che, nel perdere* c ’è da guadagnare, Perdita e guadagno
uniti: il nostro delitto. Di cui saremo sempre colpevoli, la colpa di non po­
terci fare nulla, con questi benefìci inattesi e terribili.
Il primo libro che ho scritto è nato dalla tomba di mio padre 10
Non so perché, forse era la soia cosa che dovevo scrivere al tempo, nel­
la mia povertà, neirinespenenza, il solo bene\ la soia cosa che m’aveva
fatto vivere, che avevo vissuto, che m’aveva messo alla prova, e che pro­
vavo perché m aveva sconfìtta completamente, li mio tesoro strano e
mostruoso. Al tempo non ci pensavo affatto, altrimenti non avrei scritto.
Ho vissuto a lungo ia morte di mio padre con il sentimento di una per­
dita immensa e di un rimpianto infantile, come in una fiaba all'incontra-
rio: ah, se mio padre fosse vissuto! Ingenuamente mi fabbricavo storie
magnifiche, fino al giorno in cui ie cose hanno cambiato colore e ho co­
minciato a vedere altre scene - compreso tutto ciò che di meno conso­
lante riuscissi a immaginare - senza sovramvestimento. Ero passata ad
una riflessione meno idealizzante, alla ricostruzione. Riuscivo ad imma­
ginare scene varie senza mio padre; ia scena perfetta (ma quaie?), la sce­
na imperfetta, la scena deil'interdetto, ia scena banale, quella classica:
non scrivere. E mi dicevo che non avrei scritto... Non avrei avuto la mor-

10 (SI tratta eli Dedans (Cixous, 1969)).


Tre Passi sulla Scaia della Scrittura 39

ce, se mio padre fosse vissuto. L’ho scritto molte volte: egli mi ha dato la
morte. Per cominciare.
Recentemente mia madre, un ani ma semplice e retta, ha letto uno
dei miei libri, e mi ha detto; "Cosi, quindi, la morte di tuo padre è stata
una cosa sena per te". “Sì, le ho risposto, te l'ho detto mille volte”. Sen­
za dubbio il messaggio non era arrivato, e cosi, in modo calmo, le ho
spiegato ciò che dico a voi. Al che mia madre ha replicato: "Anche per
me”. So che mia madre ha sentito ia mancanza di mio padre per tutta la
vita, è stata senza lo sposo, il suo giovane sposo, una vera perdita, ia
perdita dell'uomo che amava. E mi ha detto: "Per fortuna è morto” . Se
non fosse morto, iei non sarebbe diventata quella che è. Quando mio
padre era vivo, mia madre non lavorava perché, secondo la dignità di un
giovane ebreo primitivo, era lui a dover provvedere alla famiglia. Dopo
la morte di mio padre, mia madre è diventata ostetrica. Ha portato avan­
ti centinaia e centinaia di parti, avendo vagamente elaborato quello che
non può esser detto a parole. Ciò che si libera dal iutto di un'anima ret­
ta e semplice può anche essere la vita.
Non sappiamo, universalmente ed individualmente, qual ê esatta­
mente il nostro rapporto con i morti. Individualmente, esso costituisce
parte del nostro lavoro, dei nostro travaglio d’amore, non d’odio o di di­
struzione; dobbiamo riflettere su tutte le relazioni. Possiamo farlo con
raiuto della scrittura, se sappiamo scrivere, se osiamo scrivere. Anche
con l’aiuto dei sogni: questi ci fanno il dono meraviglioso di riportare
costantemente 1 morti in vita, così che di notte possiamo parlar loro. In­
dividualmente e liberamente, ognuno deve fare quel lavoro che consiste
nei ripensare cos’è la tua morte e la mia morte, che sono inseparabili. La
scrittura si origina in questa relazione. In ciò che é spesso inammissibi­
le, contrario, pericoloso in modo terribile, e che rischia di trasformarsi
in compiacenza - il peggiore dei crimini; Ja scrittura si origina qui. Sia­
mo noi che rendiamo ia morte mortale e negativa. Sì, è mortale, è catti­
va, ma è anche buona: dipende da noi. Possiamo essere gli assassini dei
morti, il peggio di tutto, perché, uccidendo una persona morta, uccidia­
mo noi stessi. Ma, al contrario, possiamo essere il guardiano, l’amico, il
rigeneratore dei morti.
Hélène Cixou.s

Scrivere è questa attivila complessa, "questo imparare a morire”, a


non uccidere cioè, sapendo che c'è la morte, senza negarla né procla­
marla,.. Il nostro delitto non è quello che pensiamo, non è il delitto dei
giornali, è sempre un po' meno ed un po' più. Nella vita appena dico
“mio"; “mia”, appena dico “mia” figlia, "mio” fratello, rasento una forma
d’omicidio, appena dimentico di riconoscere incessantemente la diffe
renza delPaltm. Potreste arrivare a conoscere vostro figlio, vostra sorel­
la, vostra figlia, dopo trenta, quaranta o cinquantanni di vita, e tuttavia,
m questi trenta o quarantanni, non avete mai conosciuto questa perso­
na così vicina. L'avete mantenuta nel regno dei morti. E viceversa. Chi
muore uccide, e chi non muore quando muore l'altro, uccide lo stesso.
Sopravvivere non è ciò che pensiamo: ce lo confida Lvdia
Ichoukovskaia in La Tuffai rice (1976). Questa donna, amica di Anna
Akhmatova e di Nadezda MandePstam, apparteneva ai piccolo universo
di donne colpite dalla stessa sfortuna, donne alle quali era stato strappa­
to metà del corpo, meta dell’anima, il bambino, l'amante, lo sposo. I so­
vietici, nella loro bizzarra follia durante gli anni neri, mandarono milioni
di russi nei campi di concentramenio, ma, inesplicabilmente, spesso la­
sciarono “sopravvivere” le spose. Anna Akhmatova, che aveva perso un
primo manto ucciso dai plotone d’esecuzione, poi un secondo manto
deportato e quindi messo a morte, e il cui figlio era stato deportato, ave­
va per amica Nadezda MandePstam il cui marito, il grande poeta, era sta­
to deportato a causa della poesia. Anche il marito di Lvdia Tchoukovskaia
fu deportato poiché era uno studioso ebreo. Quando venne arrestato, a
Lydia notificarono il verdetto: “Dieci anni senza il diritto di corrispon­
denza" Cosi, come centinaia d’altre donne, lei si mise in fila, con i suoi
pacchi, dinanzi le mura della prigione - fino al giorno in cui apprese che
“dieci anni senza il diritto di corrispondenza” era una metafora per: ese­
cuzione immediata. Per anni aveva portato dentro di sé un morto viven­
te, vivo dentro di lei* in decomposizione fuori di lei.
È Ja stona di "Mr Valdemar" di Edgar Allan Poe: il signor Valdemar
chiama il narratore, un ipnotizzatore, dicendogli di venire presto perché
sta morendo. È arrivato il momento, secondo il loro patto, d’ipnotizzare
il morente. Il narratore arriva. Il signor Valdemar non sente il narratore,
Tre Passi sulla Scala della Scrimini il

che ha appena il tempo eli coglierne il respiro e d’addormentarlo. Dopo


un bei po', veniamo a sapere che ii signor Valdemar, ora in stato ipnoti­
co, sia soffrendo atrocemente. Quando il narratore "risveglia” il signor
Vnldemar, la vita dei dormiente fuoriesce come un flusso di pus, perche
lui “era” morto. É la stona di Tchoukovskaia, l'amato è rimasto m lei, un
m ono inesplicabilmente senza mone.
Tchoukovskaia ci parla di "tuffarsi” come se fosse bere o mangiare.
Dice: sto per tuffarmi. È il suo modo d’andare a scrivere. Il libro comin­
cia con una cosa terribile: di notte Tchoukovskaia grida, ed è sempre lo
stesso sogno, il marito morto e tornato; le passa accanto, la guarda con
odio, fa come se non la conoscesse, va a parlare con altre persone. Ogni
volta è lo stesso sogno crudele che lei non capisce. Tra loro brucia l’odio.
Fino ai giorno in cui, improvvisamente, ella comprende Γοdio che le ha
manifestato quest’uomo che ama cosi tanto. Comprende il suo odio. Il
proprio odio . Il loro odio\ che si soddisfa nei suoi sogni. Mette in scena
un delitto inimmaginabile. Ciò che vive, e che rifiuta con rime le forze, è
che il m ono le rimproveri d’essere viva. C è qualcosa con cui non riesce
a scendere a patti, perché è entrambi \ personaggi insieme, se stessa e
lei-lui. È colpevole d’essere sopravvissuta. Non lo ha seguito. Non è lui.
Noi conosciamo questi ritorni, lo ne ho vissuti molti. In Se questo è
un uomo (Levi. 1989), Primo Levi parla del sogno che fa, un sogno che,
come dice, facevano ano i deportati, l'incubo assoluto, il sogno dell’im­
possibile ritorno. Il deportato ritorna in famiglia, tutu sono a tavola, nes­
suno lo riceve, non lo ascoltano, non gli credono, non lo capiscono. Lo
privano del suo dolore. Gli portano via il suo bene, la sua venta di sup­
pliziato. È colpevole d’essere una vittima. L’esperienza al contrario.
Non morire, vivere dopo l’altro, "restare” - sono anclvesse espe­
rienze intollerabili. Ê a questo punto che sentiamo, pur non potendo
farci nulla, che può esse rei Vimperdonabile in not. C’è un assassino che
ci assassina, non è me, non è tu, ma tra re e me, tra il mio amore e il tuo
amore, c’è assassino. Tutti i grandi testi sono preda della domanda: “Chi
mi uccide? A chi mi do da uccidere?” Noi che amiamo appassionata­
mente le storie d’omicidio, crediamo di leggere un libro di Dostoevskij
ma, in realtà, gustiamo il resoconto dei nostri omicidi.
42 Hélène Cixous

J Taccumt dell'idiota sono ossessionati da questo nucleo iniziale


da cui è nato l'id iota ll. Vidiota é il libro sopravvissuto a molti altri libri.
I! libro che sarà pubblicato è il più forte, misteriosamente sopravvissuto
a tutu gli altri. Sotto questo libro, ci sono cento libri che non sono stati
scritti, e che a.poco a poco sono stati messi da parte. Ne I Taccuini del­
l'idiota giacciono in rovina i cento libri proposti, cancellati e allo stesso
tempo riprodotti affinchè L'Idiota potesse esistere12. La stona iniziale, ii
colpo d’inizio da cui è sorto Vidiota è - con o senza aneddoti - un fat­
to di cronaca: una ragazza di sedici anni, Umeckaja, vittima di vessazio­
ni, aveva ucciso l’intera famiglia. Ella è là m tutti I Taccuini, costante-
mente trasformata, a volte un uomo, a voite una donna, a volte giovane,
a volte vecchia- Finirà per dividersi tra Nastasia Philipovna e Rogojine.
Dostoevskij era preda del mistero di questo personaggio: cosa può con­
durre una ragazza ad insanguinare un'intera casa. È un mostro che non
è un mostro. Potrei essere lei. Io, che sono anche voi.

Nel corso del suo sviluppo e nell’ambiente che io ha circondato egli ha attin­
to questi veleni e questi principi che gli erano entrati nel sangue [L'Idiota stes­
so è ii criminale in questo momento|. Infinita e la generosità e il bisogno d'a­
more di questo cuore offeso. Che però non è stato soddisfatto, e per questo
si vendica, per questo fa del male a quelli che vorrebbe amare infinitamente,
dando loro il suo sangue, a tutti quelli insomma che gli sono cari,
invece eli un attività utile - ii male.
U l·
- Oppure s’è messo a scrivere il suo testamento. Voleva uccidersi, non s’è uc­
ciso, ha cominciato a tessere un intrigo,
- Hanno incendiato la casa.
M.
- Preziosa domanda e fisposta:
- Voi finirete con un grande delitto o con una grande azione - Gli dice il Figlio.

11 (In Cixous & Calie-Gruber (1997, 57), una “finestra” nei testo, dai taccuini del­
la stessa Cixous, mostra: «Ciò che amo (lettura-scrittura): Taccuini. La terra prima del
libro. I Taccuini di Kajka, di Dostoevskij, di T.B.t di C.L, t respi n, le grida, / ciottoli.
Quando leggo, cerco i taccuini del libro. C'è taccuino in /Ζλ>·. j
12 (Sarebbe rincontro del *1utto“ e del “dono” «Lutto per l’esclusione, ma anche do­
no senza desLinazione - ciò che non era voluto, creduto, posseduto. Dono di niente, se
non l'insaziabile desiderio di scrivere il libro che non era scritto-. Cfr. Calle-Gruber (1994). j
Ire Passi sulla Scaia della Scrittura 43

- Dio Io voglia! Egli risponde seriamente e semplicemente; ma è probabile


che non Farò nulla.
(Sete di un gesrot sete di fare qualche cosa che io ponga al di sopra di tutti: ia
casa incendiata e il dito bruciato).
M.
N. B. - Egli ama rumèckaja. Amicizia strana e completamente infantile per la
juròdivaja.
1—1·
- Ella non gli insegna mai quali sono i suoi obblighi verso la moglie; agisce sol­
tanto.
In campagna ella aveva bruciato il fienile due volte per fare qualche cosa co­
me Ol'ga Umèckaja.
Diede fuoco a qualcosa anche a Pietroburgo.

Forse è molto meglio il figlio legittimo.


U|.
Stabilire un piano preciso e cominciare stasera.
M-
Cosi morite bene, si può morire bene sputandoci sopra per l’ultima volta, va­
nità, il bambino, le vostre sofferenze, i monti -
Quando diviene necessario - Perché non pariare? - Volete spararvi, sparatevi
- AiFospedale, sputo, come sono sciocco -
(...]·
- Fate troppo chiasso intorno alla nostra morte. Si può morire m modo più
nobile.
Ebbene sparatevi. Volete farci paura.
- In casa mia non io permetto, no, non lo permetto -
- Chiacchierate un po' con me intorno a Cristo principe. -

Per le 2 settimane che mi restano mi è assolutamente indifferente dire la ve­


rità o mentire,
M
- Perché nella costruzione del mondo sono necessari i condannati a morte -
(Dostoevskij, 1958, 809, 810, 814, 859, 869, 870).

Vorreste saperlo? Leggete i Taccuini e saprete tutto: abbiamo bi­


sogno di condannati a morte e di libri che ci “condannano”
Ecco cosa scrisse Kakfa nel 1904 all’amico Pollak:
Hélène Cixous

Bisognerebbe leggere, credo, soliamo i libri che mordono e pungono. Se il li­


bro che leggiamo non ci sveglia con un pugno sul cranio, a che serve legger­
lo? Affinchè ci renda felici, come scrivi tu? Dio mio, felici saremmo anche se
non avessimo libri, e \ libri che a rendono felici potremmo evenrualmente
scriverli noi. Ma abbiamo bisogno di libri che agiscano su di noi come una di­
sgrazia che a fa molto male, come la mone di uno che ci era più caro di noi
stessi, come se fossimo respinti nei boschi, via da tutti gli uomini, come un
suicidio, un libro dev’essere la scure per il mare gelato dentro di noi. Questo
credo (Kafka, 1996, 26).

Kafka lo scrisse perché lamico l‘aveva rimproverato di non aver ri­


sposto alle sue lettere. Kafka gli risponde dicendo: “Scusami, ma stavo
leggendo. II libro era così importante che non potevo smettere” Sem­
pre la stessa relazione violenta: ii fibro prima, poi tu.
Anch’io credo che dovremmo leggere solo quei libri che ci "mor­
dono" e ci “pungono”, che ci svegliano con “un pugno sul cranio”, o che
u colpiscono come eventi terribili, che a fanno o non ci fanno bene, d ie
ci fanno male facendoci bene, un libro "come la morte eli uno che ci era
più caro di noi stessi”, o “come se fossimo respinti nei boschi, via da tut-
u gli uomini”, oppure “come un suicidio” Oppure, come dice Kafka alla
fine: un libro “dev'essere la scure per il mare gelato dentro di noi”
Ecco cosa credo, pur se anche mi intristisce perché pochissimi libri
sono asce, pochissimi libri ci feriscono, pochissimi libri fendono il mare
gelato. Quei libri clic riescono a rompere il gelo e che ci uccidono, sono
i libri che ci danno gioia. Perché sono cosi rari, questi libri? Perché colo­
ro i quali scrivono i libri che ci feriscono soffrono aneli’essi, aneh1essi sot­
tostanno ad una specie di suicidio, anch'essi si perdono nei boschi - e
ciò fa paura. Non si vuol perdere la vita cosi facilmente nella scrittura, an­
che se Clarice Lispector lo ha fatto. Non solo metaforicamente, lo ha fat­
to in realtà. I suoi libri non cercano solo di essere la scure, ma, alla fine
della sua vita piuttosto breve, Lispector scrisse L'ora della stella (1989),
d ie tratta effettivamente della vita e della morte di un personaggio di no­
me Macabea, una specie di donna, una quasi-persona, una persona così
leggera che quasi non esiste. Per l’intera scrittura del libro tutti sono ter­
rorizzati, lo scrittole è terrorizzato, il libro è terrorizzato; il testo inizia a
dirci qualcosa, poi smette. Sentiamo che sta per accadere una cosa tern-
Tre Passi sulla Scala della Scrimini

bile e anche noi leuon siamo spaventati: continuiamo a pensare che ac­
cadrà qualcosa che non vorremmo, solo che non accade. Avanziamo pa­
gina dopo pagina» pieni di presentimenti. Ed improvvisamente accade: il
testo colpisce, il libro é finito, Macabea è morta. Non solo Macabea, muo­
re anche Clarice Lispector: mori subito dopo. Il libro ha raggiunto la
realtà nel modo più veritiero, il segreto della scrittura. Clance Lispector
era malata. Non sapeva di stare per morire; lo seppe nel momento in cui
finì questo libro. Non si sa in realtà chi abbia scruto il libro o chi ha ucci­
so chi. Non si sa se Clance Lispector scrivesse il libro in fretta perché
pensava di star morendo, o se sia stato il libro a mettere (ine alla sua vi­
ta. A causa di questa strana connessione tra scrittura e morte, gli scritto­
ri provano uno strano desiderio di morte. Si sentono di morire. Ma è una
cosa che non possono dire. Non posso dire: “vorrei morire” , perché è
proibito; tuttavia, è la sola cosa che bisognerebbe invero dire.

Gli sene con cui mi sento vicina giocano col fuoco, giocano seria­
mente con la propria mortalità, vanno oltre, vanno troppo lontano, a
volte fino a prendere fuoco, fino ad esser presi dal fuoco. È terribile sa­
pere com’è morta Ingeborg Bachmann - bruciata dal fuoco, cioè, dalla
venta - nel 1971 a Roma, mentre, nello stesso periodo, Clance Lispector
era estratta dalle fiamme dal figlio: terribile e sconvolgente!

Trovo gli stessi desideri, le stesse gnda nell'introduzione a II caso


Pranza di Ingeborg Bachmann:

Mi è spesso capitato di chiedermi, e probabilmente è capitato anche a voi. do­


ve mai sia andato a Unire il virus del crimine - non sani ceno scomparso al­
l’improvviso dal nostro mondo... (1988, 12).

Bachmann scrisse questa introduzione in un'epoca m cui, in Au­


stria, l’antisemitismo, (Olocausto e la profanazione erano sotterranei -
'Ί .massacri sono finiti, sì", scrive, aggiungendo: “ma gli assassini sono
ancora tra noi” Lo scrive in un momento in cui avremmo potuto pen­
sare d‘aver seppellito Auschwitz. Ciò che scrive è pericoloso, perché
Auschwitz è sempre lì, in ogni essere umano.
46 Hclène Cixous

in un'intervista in cui parla dei suoi libri, Bachmann afferma che


tutto è guerra. Li guerra non inizia con le prime bombe, non inizia nep­
pure con il terrore raccontato dai giornali; inizia nelle relazioni tra ie
persone: “Il fascismo è la prima cosa m una relazione tra un uomo e una
donna, ho cercato di dirlo qui, che neJJa società c’è guerra. Non pace e
guerra, solo guerra” È una frase severa, ma è lei, in verità, nella situa­
zione austriaca.
In Francia, anche noi diciamo che c’è guerra, ma diciamo anche
che siamo soggetti di pace. Per l’Austria, invece, c’è solo guerra.

Che ratto di leggere o di scrivere sta un alto mortale; oppure,


Leggereìscnvere, evasione in pieno giorno

Non tutti praticano l’atto di leggere allo stesso modo, eppure c’è un
modo di leggere paragonabile aii’atto di scrivere - è un atto che sopprime
il mondo. Annientiamo il mondo con un tibro. Prendete il libro che avete
aperto, sapendolo o non sapendolo, spesso col presentimento che possa
essere uno strumento di separazione. Appena aprite il libro come una
porta, entrate m un altro mondo, chiudete la porta su questo mondo.
Leggere è evasione m pieno giorno, è il rifiuto dell’altro; il più delle voite
è un atto solitario, proprio come scrivere. Non ci pensiamo sempre, per­
ché non leggiamo più; leggevamo quando eravamo piccoli e sapevamo
quanto possa essere violento leggere. Il libro assesta un colpo, ma voi, col
vostro libro, assestate un ugual coipo ai mondo esterno. Non si può scri­
vere m nitro modo - senza sbattere ia porta, senza tagliare ì legami.
Lo scrittore è un criminale segreto. Come? Innanzitutto perché la
scrittura cerca di intraprendere quei viaggio verso strane fonti d’arte che
ci sono straniere. La “cosa” non accade qui, accade da qualche altra parte,
in una terra strana e straniera. Lo scrittore ha un'origine straniera; non co­
nosciamo la particolare natura di questi stranieri, ma sentiamo che essi
sentono che c’è un appello, che qualcuno li sta chiamando indietro.
L’autore scrive come se lui/lei fossero m un paese straniero, stra­
nieri nella propria famiglia. Non conosciamo gli autori, leggiamo libri e
Tbe Passi sulla Scala della Scrittura 47

■ li Scambiamo per gli autori. Pensiamo che ci debba essere un 'analogia o


un’identità tra il libro e l’autore. Mat potete esserne certi, c’è un’im­
mensa differenza tra l’autore e la persona che ha scritto; e se incontra-
>*ste quella persona, sarebbe qualcun'altro. L’origine straniera del libro
rende Îa scena della scrittura una scena d’incommensurabile separazio­
ne. Rembrandt è "olandese’^ Ha sempre dipinto “in terre straniere” I
suoi quadri, che dipingono la pittura, sono abitati da un popolo straor-
: dinario, da stranieri. Tutti sono rimasti colpiti dai fatto che Rembrandt
abbia dipinto costantemente ebrei, ebrei immaginari, ebrei coperti di
.·: fronzoli: tranquilli, doppiamente stranieri in quanto ebrei e come esseri
coperti di fronzoli, tre volte iper-onentali e stranieri nell'aspetto. Come
se questo strano uomo avesse attraversato l’ombra del quadro verso ta
' fonte distante, la fonte straniera da cui dipingeva, lui che era più di un
uomo dei suo paese, più di un oriundo di terra olandese.
Guardate ad esempio il quadro di Rembrandt intitolato La fidan­
zata ebrea H. £ strano, in modo soffice. Ê anche una metafora dell’inte­
ra opera di Rembrandt, piena di stranieri familiari, d'ebrei e di persone
orientali che non appartengono alla famiglia di Rembrandt. Eppure, es­
si appartengono a questo altro mondo, ed egli ai loro. Come se dipin­
gesse per scoprire ia propria origine straniera segreta. Scriviamo, dipin­
giamo, per tutta la vita, come se andassimo in un paese straniero, come
se fossimo stranieri nelle nostre famiglie, "hmaus/ in die Fremde dei*
Heimat” come scrive Ceian, che è do\'e andiamo (1999, 22 3 )155 Tra lo
scrittore e la sua famiglia, il problema è sempre di partire rimanendo
presenti, d’essere assenti in piena presenza, di scappare, d’abbandona­
re. È allo stesso tempo profondamente banale ed anche ciò che non vo­
gliamo sapere o dire. Uno scrittore non ha figli; io non ho figli quando
scrivo. Quando scrivo fuggo da me stessa, mi sradico, sono vergine: me
ne vado e non torno. Nel momento in cui prendo la penna - gesto ma­
gico - dimentico tutte le persone che amo; un'ora dopo, non sono mai

13 [Per Rembrandt, Cixous parla di "pendre à l 'étrangère" (1990, 97).|


14 [Anche titolo di La fìancée jiuve. De ta tentation (Cixous, 1995}-}
[Li traduzione italiana recita: "nella parmi estraniata” !.
48 Hélène Cixous

nate e non le ho mat conosciute. In realtà, poi, torniamo. Ma per la du­


rala del viaggiti siamo assassini (non solo quando scriviamo, anche
quando leggiamo. Scrivere e leggere non sono separati, leggere è parte
dello scrivere. Un vero lettore è uno scrittore. Un vero lettore é già sul­
la strada della scrittura).

Cos'è leggere? È mangiare in segreto

È anche un atto clandestino, furtivo. Noi non lo accettiamo. Confon­


de. Leggere non è insignificante come crediamo. Prima bisogna rubare la
chiave della biblioteca. Leggere é una provocazione, una ribellione: apria­
mo la porta del libro, fìngendo sia una semplice copertina, e, in pieno
giorno, evadiamo! Non siamo più lì: ecco cos’è il vero leggere. Se non ab­
biamo lasciato la stanza, se non abbiamo scavalcato il muro, non leggia­
mo. Se facciamo solo fìnta d’esser lì, se fingiamo agli occhi della famiglia,
allora sì che leggiamo. Mangiamo. Leggere è mangiare m segreto.
Leggere è mangiare il frutto proibito, fare l’amore proibito, cam­
biare epoche, cambiare famiglie, cambiare destini, e cambiare il giorno
per la notte ]<i Leggere è fare tutto esattamente come vogliamo ed “in
segreto”
E quali libri leggiamo mentre ci estraniamo nella gioia? Quelli che
ci insegnano a morire.
Per esempio Montaigne, il nostro nonno testuale.
“Montaigne” - il titolo di un breve racconto di Thomas Bernhard,
che ho letto con piacere. È come “Il racconto della Scrittura” - abile,
scritto in una sola fuga, all’andatura di una sola corsa, mimando la sce­
na della lettura nascosta.

lr’ (Analizzando la recente edizione dì Le troisième corps (Cixous, 1970/1999).


Mireille Calle-Gruber (2000, 5‘0. dopo aver ciiaio dal testo: «...tutte le cose, c tutti i fatti
e tutte le donne hanno due facce, che sono l’ordinario e lo straordinario, il femminile e
il maschile, il sahato e la domenica, il normo e la gioite- (7SC, 30), commenta sulla leg­
gibilità del "gioco dei significanti (“il nomo cr la giotte") più che il senso del consenso".)
Tre Passi sulla Scala della Scrimini -i9

Il cuoio annuncia: "Momaigne” Crederei, insieme a voi, che il cesto


tratterà di Montaigne, l’autore. Un ritratto? "Montaigne” al nudo, sem­
plice "Montaigne”* annuncia nuli'akro che Montaigne. "Montaigne" a
mette in uno stato di Montaigne.
Così pensiamo che sarà un ritratto di Montaigne, oppure che ri­
tornerà a Montaigne, l’intestazione.
Ed ecco che il testo inizia, fuggendo. In fuga. Scritto per sfuggire
ad una minaccia di morte. La Riga e l’affanno del fuggiasco tracceranno
Λ cammino e il ritmo dei testo. Decollando da “Montaigne”, la narrazio­
ne e il narratore si precipitano nella direzione di Montaigne:

Per fuggire alla mia famiglia e dunque ai miei carnefici, mi rifugiai in un


angolo della torre, e avevo, senza luce e dunque senza far impazzire le zanza­
re contro di me, preso dalla biblioteca un libro che, dopo qualche frase die
v'avevo letto, si rivelò essere di Montaigne, col quale sono, /// modo così inu­

,
mo e effeltivamente illuminante, parente come con nessun altro ( Bernhard,
1982 1 )17

Montaigne che egli ama di più. L’intera breve avventura tratterà dì


quella scelta al buio.
Inizia cosi, per continuare raccontando l'avventura della lettura di
quel libro. Il cesto è una vera lezione di scrittura, paragrafo per para­
grafo, passo dopo passo, come se voi foste nella torre, salendo passo
per passo - non vi dirò se m alto o in basso - in completa oscurità.
Il testo fugge, paragrafo per paragrafo. “Montaigne” raggiunge la
sua fine in venudue passi o paragrafi - ventidue balzi (il sottotitolo del
racconto è: “ Eine Erzahlung in 22 Foresetzungen”). Poiché state leggen­
do col corpo, il vostro corpo paragrafa. 1 paragrafi sono pressoché para­
gonabili in dimensione. A volte un po' più corti o un po più lunghi. E
tutti egualmente densi e urgenti.
Immediatamente si tratta delle esperienze essenziali delie nosrre
vite. Non appena entriamo, siamo in fuga. Nel primo paragrafo abbiamo

17 (Li pubblicazione tedesca riporta il testo suddiviso in 22 passi o paragrafi; le


dicazioni ini parentesi si riferiscono a questa suddivisionej.
50 Hclène Cixous

già una sene di direzioni. Saranno seguite tutte, nessuna verrà abban­
donata dai testo. Per quanto» per la maggior parte di questo testo, cor·
riamo e fuggiamo nell'oscurità: "mi rifugiai in un angolo della torre, e
senza iuce... avevo preso,., nell'oscurità assoluta della biblioteca un li­
bro...” Una scelta cieca, scelgo precisamente Montaigne con cui “sono...
parente come con nessun altro” Scelgo fra tutti - senza averlo scelto,
quindi ciecamente - il mio parente.

... Montaigne, con il quaie sono, in modo cosi intimo e effettivamente illumi­
nante, parente come con nessun altro.

Ecco la luce, nella relazione con Montaigne. È una relazione illu­


minata.
Terzo paragrafo:

Sui cammino che mi conduceva alla torre, sulla quaie non avevo, come ho già
detto, a causa delle zanzare, acceso ia iuce, mi ero sforzato, con la più grande
concentrazione, d’indovinare quale libro avessi tirato dallo scaffale, ma mi
passavano per la testa tutti i filosofi eccetto Montaigne... (ibid., 3).

La iuce viene da dentro, il libro arriva attraverso ia testa (la niia).


Montaigne gli arriva dall’interno, come necessità stessa.
Ê già una lezione di lettura vera; quella che non possiamo disso­
ciare dalle nostre vite. La lettura, che instaura un altro universo di luce
e d ’oscurità rispetto a quello esteriore, e che è ovviamente ii prolunga­
mento ciell’universo della scrittura. Accade nell'intimità, dove non regna
la iuce del sole, sovrastata da un‘altra luce.
È ciò che facciamo, scegliamo al buio. Non sappiamo cosa. Lo fac­
ciamo sempre: scegliamo un libro senza sapere perché, E accade che sia
il nostro genitore, poiché l’unico modo di trovare il vero genitore è di sce­
gliere un libro al buio. È un mistero. Forse è il genitore sullo scaffale ad
averci scelto, ma non io si può spiegare. In ogni caso è il modo in cui ci
capitano quei libri che ci trasformano ia vita. Ovviamente dobbiamo aver
avuto sentore almeno di un significante, ma non c'é dubbio che sceglia­
mo in modo completamente cieco, che si riveia essere la luce. Montaigne
arriva a Bernhard cosi: il totalmente inaspettato, ed il completamente spe-
Tre Passi sulla Scala della Scrittura 51

• rato. Per la menie gii passano lutti i filosofi tranne Montaigne. Una sottile
scena di sovrinvestimento. Il cìestderio di Montaigne è cosi forte che egli
• non si aspetta Montaigne. E Montaigne arriva a condizione d’essere inat­
teso. É Vassolutamente inatteso. Ci deve essere un'assenza di luce, più di
; luce nella frase per trovare Montaigne. Perché, ovviamente, la luce viene
jdairinterno e non st può dar conto dell’arnvo della luce nella vita e nella
testa attraverso i libri. Bernhard insiste:

Leggevo il mio Montaigne con le persiane chiuse, nei moclo più assurdo, per­
ché era cosi faticoso senza luce artificiate (ibid., 22).

Inimmaginabile - così leggeva Montaigne m completa oscurità.


Alla fine raggiungiamo il punto in cui Bernhard ha letto Montaigne,
ed è giunto a questa frase:

“Speriamo non gli sta successo n u l/ a (corsivo mio, H.C.]. La frase non era
di Montaigne, ma dei miei, che mi cercavano andando su e giù ai piedi della
torre (ibicL, 22).

"Speriamo non gli sia successo nulla”. Si può gustare tutto lo zuc­
chero e il saie e l’amarezza di questa frase, dopo che si ê letto quanto la
precede. A un livello realistico, i genitori sembrano preoccupati (parlo
dei contenuti della frase, non deirintervento della frase nel testo). Con
senso d’ironia, sentiamo: speriamo che non abbia letto nulla, che non
sta successo nulla in quella torre terribile, soprattutto che non sia arri­
vato Montaigne, ecc.. Si può svolgere la frase all’infinito. Un mondo è
ingoiato da un altro. Leggevo Montaigne fino all’arrivo della frase. Mera­
vigliosa continuità. Bernhard non dice se questa frase é dentro o fuori.
La frase lo incontra per caso. È immaginata come un sogno. Siete den­
tro il sogno, o già fuori dal sogno? La frase appena espressa: è ancora
nel sogno, oppure è già fuori? È nei libro o in voi? É delocalizzata. C’è
esitazione sull’origine della frase perché, dopo tutto, Montaigne non é
Montaigne: è la “mia famiglia” . Montaigne e Mi miei” passano attraverso
lo stesso iuogo parentale.
52 Hélène Cixous

Ora non sappiamo se la frase, l'ultima del libro, venga ascoltala


dentro o fuon la torre. Cosi come non sappiamo se il libro abbia luogo
dentro o fuori.
Perché mai Bernhard avrebbe avuto bisogno di rifugiarsi nella torre
buia - la torre di Montaigne, ovviamente - se non per salvarsi la vita, mi­
nacciata sin dalla prima infanzia dalla famiglia-carnefice? Le cose divengo­
no chiare nella biblioteca buia. È la guerra mortale perpetuata tra figli e
genitori, questa guerra che gira m tondo e che è cominciata prima di noi
tutti: la paura e la distruzione tessono le loro trame tra i bambini e i ge­
nitori: tu vuoi uccidermi, dice uno; no, sei tu che vuoi la mia morte, dice
l'altro. Ed è vero, ognuno uccide l’altro, su entrambi i lati del libro: l’og­
getto della passione. Ê vero: coloro i quali amano i testi suscitano l’odio
di quelli che non li amano. È vero: si può uccidere un libro, per una poe­
sia. Per o contro. Si può uccidere un poeta a causa della poesia. È vero: la
poesia - quale veleno per quelli che non possono mandarla giù. Poiché
tra noi, lettori e antiletton, a sono delitti suggeriti dalla jouissance,
I nostri assassini sono decisi in una relazione oscura e violenta c
la jouissance, secondo una gelosia cosi oscura, primitiva e remota, che
neppure Ja vediamo. Lì, nelle tenebre, si recita una scena di privazione
scandalosa: il genitore vorrebbe affamare il bambino, almeno usare la fa*
me per trai tenerlo. E tutto ciò non senza amore, non senza odio.

Se in passato ho avuto una paura mortale di prendere una zolletta di zucche


ro dalla zuccheriera della stanza da pranzo, oggi ho una patini mortale di
prendere un libro dalla biblioteca e ho la più grande paura mortale se è un li-
hro filosofico, come ieri sera (ibicl., 14).

Prima dicevano non devi bere quest'acqua, perché è avvelenata, poi hanno
detto non devi leggere questo libro, perché è avvelenato. Se bevi quest'acqua,
ri rovinerai, se leggi questo libro, u rovinerai. Ti hanno condotto nelle foreste,
ti hanno messo in buie stanze di bambini, per disturbarti, ti hanno presentato
a persone che hai riconosciuto immediatamente come quelli che dovevano
distruggerti (ibid., 12).

Riconosciamo il vecchio e grandioso cantico, cosi minaccioso: non


berrai, non mangerai, non leggenti, non scriverai, altrimenti la morte.
Ire Passi sulla Scala della Senti tira 53

E chiamano peccato la lettura, e scrivere è un crimine.


E, indubbiamente, non è del tutto, falso.
Non ci perdoneranno mai per questo Alrrove.

Torniamo alle prime parole dei testo; tutto è fatto solo “per scap­
pare”. Il testo è stato scritto per fuggire, per scappare dalla famiglia, ecc.
Ecco l’ultimo paragrafo:

Leggevo il mio Montaigne con le persiane chiuse, nel modo più assurdo, per­
ché era così faticoso senza luce artificiale (...[ “Speriamo non gli sui successo
nullaî'’. La frase non era di Montaigne, ma dei miei, che mi cercavano andan­
do su e giù ai piedi della torre (ibid., 22).

Siamo ancora al buio. Senza luce artificiale: pure, non senza luce.
Se siamo raffinati quanto lui. tutto è, in un certo senso, chiaro.
Ritorno all’inizio del testo. Il testo parte a tutta velocità, per scap­
pare. Li fuga non è portata avanti. Nonostante ciò, gli altri sono là in
basso.
C’è una relazione tra la lettura e ciò che ne produce il bisogno,
l'urgenza della lettura: non si può avere l’una senza l’altra. Per fuggire...
leggo. È il mistero della lettura. E senza realismo. Bisogna stare dalla
pane del testo. Accettando il fatto che la lettura sia portata avanti “con
le persiane chiuse" È vero, e non è vero. Bisogna avere costantemente
un piede in un mondo e un piede nell'altro. Non fa parte dei faunistico:
è disorientante alla maniera di Kafka. Credete d’essere su un cammino,
ma siete su un altro, su quello, ecc. Questa è la relazione tra lettura e
scrittura. Allo stesso modo, questo testo è scritto alla luce di un
Montaigne intenore, al buio. Scriviamo al bino, leggiamo al buio: lo stes­
so processo.

Il delitto dell'autore ha la sua leggenda

Lo dobbiamo allo specialista del delitto irrepnmibile - il delitto


nella scrittura - il demone della perversità: Edgar Allan Poe.
54 Hélène Cixous

Che ne facciamo dell’altro quando creiamo? Che fa l’autore? Che


fa il pittore? In altre parole, cosa facciamo noi? È il nostro ritratto, il ri*
tratto dell'artista fatto da se stesso/a, ii ritratto di voi fatto da me: è
ovaie: l’Uovo del Male. Quando siamo in stato creativo, cosa facciamo
col corpo deiraltro - e anche con il nostro corpo? (Ci) annientiamo
(direbbe Thomas Bernhard), (cì) consumiamo (direbbe Edgar Allan
Poe), (ci) cancelliamo (direbbe Henry James). In breve, procediamo
airistituzione dei muro. Tutto comincia con le mura. Quelle della tor­
re. Quelle del castello in cui entriamo seguendo un narratore grave*
mente ferito.
“Il ritratto ovale” inizia cosi:

Il castello eie! quaie il mio domestico, per non farmi passare la notte all’aper­
to nelle mie condizioni penose di ferito, s era deciso a forzare l'ingresso [que­
sto non é "Montaigne”, è “Il ritratto ovale”. H.C.], era uno di quegli edifìzi
frammisti di grandezza e di tetraggine che per secoli e secoli hanno torreg­
giato sugli Appennini, anche nella realtà oltre che nella fantasia di mistress
Radcliffe (Poe, 1999, 204).

Mentre inizia, voi lettori entrate nei castello dei narratore ferito. Il
narratore arriva in una strana stanza piena di quadri, e la sua attenzione
è colpita da un particolare quadro ovale, cosi straordinario che egli non
crede ai propri occhi. A poco a poco la stona si svolge in modo taie che
vi ritrovate fìssati, concentrati sui ritratto ovale: ed il ritratto ovaie ha
una stona che sarà letta dai narratore. Passate nell'altra storia, che é la
storia dentro ia storia. La stona, delia vita e della morte di una giovane
donna, serve come modello della storia. Entrando nella storia dei ritrat­
to ovale, dimenticate del tutto il narratore; non solo io dimenticate, ma
questi scompare completamente dalla scena, e quando il racconto fini­
sce finisce dentro il ritratto ovaie - dietro il muro del ritratto ovale - e
voi lettori avete commesso una cosa assai strana: avete cancellalo il nar­
ratore dalla vostra memoria, siete in un'altra scena. È il genio di Poe.
Quando leggiamo “Il ritratto ovaie", pensiamo di leggere la stona di "Il
ritratto ovaie": la storia di un pittore che era un genio, che sposò una
bellezza che era ia vita stessa e iniziò a dipingerla. Lo dice Poe, oppure
Tre Passi sulla Scala della Scrittura 55

il narratore. In realtà non so chi lo dica, perché c’è Poe, il narratore, e


io scrittore dei libro in cui è descritto il ritratto ovale,., quindi, qualcu­
no dice:

Lui, il pittore, trovava gloria nei suo lavoro, che dì ora in ora progrediva
sempre più. Ed era un uomo appassionato e strano, d’animo trasognato, che
si perdeva in fantasticherie,- tanto che non sapeva vedere come la luce che
cadeva così lugubre dentro quella torre solitaria consumava la salute e ìe
forze spirituali della sua sposa, che tutti vedevano languire, tranne lui. Ep­
pure essa sorrideva e continuava a sorrìdere {...][- sino a quando, a lungo
andare, tutta la vita della sposa va nel ritratto, H.C.|. Ma a lungo andare, co­
me l’opera si avvicinava al suo adempimento, nessuno fu più ammesso nel­
la torre; perché il pittore era tutto preso dalla foga dei lavoro, e non disto­
glieva che di rado gli occhi dalla tela, anche per osservare il viso della sua
donna. E non vedeva come i colon che riversava sulla tela venivano tolti dal­
le gote di colei che gli sedeva dinanzi. E quando settimane e settimane fu­
rono passate, e più non restava quasi nulla da fare, null’altro che dare un
tocco di pennello alle labbra ed uno agli occhi, lo spirito della giovine don­
na palpitò ancora come una fiamma al bocciolo della lampada. Allora il toc­
co fu dato, alle iabbra e agli occhi; e il pittore rimase per un attimo in esta­
si dinanzi alfopera civegli aveva compiuto; ma continuando a contemplarla,
subito tremò e si fece pallido, e atterrito, scoppiando in un urlo: “Ma questa
é la vita, che ho creato!” si voise a guardare ia sua beneamata, la quale era
morta! (ibid., 207-208).

Ed è la fine.
É una specie d'allegoria eli cosa accade nella creazione. Ê mitico,
potrebbe anche essere un cliché. Non lo é, perché nel corso della lettu­
ra noi stessi siamo diventati ii pittore. Anche noi abbiamo seguito e ini­
ziato a dipingere e a dimenticare e a cancellare in particolare il narrato­
re, che è molto strano. Sospetto addirittura che potremmo uscire dalla
torretta o dal racconto senza aver capito ciò che abbiamo fatto. È il de­
litto dello scrittore, descritto da Poe. Ê parossistico, ma Poe io fa spesso,
come se avesse un’inclinazione femminista: di solito affida la parte dei-
l’assassino agii uomini, e la parte della vittima alle donne.
Conosco un tipo di pittore che faceva esattamente la stessa cosa:
dipingeva i suoi poemi con il rossore delle guance delle donne che
amava. Parlo di Rilke. Negli ultimi anni della sua vita, quando era profon-
56 Hélène Cixous

damente innamorato di Medine, Rilke tenne un diario chiamato ti testa­


mento (1995). È composto di brevi frammenti e non doveva esser pub­
blicato in vita. Fu pubblicato cinquantanni dopo. Ci narra unicamente
della relazione con Merline/la signora Klossovska e con la poesia. È qua­
si insopportabile poiché rivela una bramosia straziante per la poesia
che, allo stesso tempo, comporta una terrìbile guerra contro la donna -
sebbene ciò non le sia espresso direttamente dato che lei non leggeva il
diano. Inoltre c’é un gran volume di lettere scambiate tra Rilke e rama­
ta, che dicono tutte la stessa cosa: non venire, non avvicinarti, non uc­
cidermi. Rilke glielo dice, perché deve scrivere. A volte ìa vedeva una so­
la volta in sei mesi, e lei, una donna potente, non gradiva questa situa­
zione. Lei soffriva e lui soffriva; e Rilke spiega tutto sulla sublimazione in
lettere bellissime.
N.B. Non so se questo testamento sarebbe dovuto esser pubblica*
10 o meno, È vero che si può aver il permesso d’“uccidere” simbolica­
mente nell'intimità, ma se ciò viene fuori, se il delitto ha testimoni, è
terribile: Rilke, ovviamente, non pensa di star uccidendo. Egli chiede al­
la amata d'accompagnarlo nella sfera della poesia. Allo stesso tempo, ha
bisogno di lei per essere reale. Bernhard, al contrario, rivendicherebbe
11 delitto direttamente. È parte della sua forza dire direttamente: "Scu­
sami, ma devo ucciderti” Il che rende i suoi libri straordinariamente
crudeli e, allo stesso tempo, ai limite del comico.
Ritorniamo dentro le mura de "il ritratto ovaie”. Seguivo il narrato­
re da diverse pagine (non è un narratore fantasma, allora, se occupa i
due terzi de) testo). L’economia della nostra relazione co) tema e con la
narrazione è un effetto del testo ma è anche legato a ciò che a raccon­
ta il lesto. Il narratore fa una sparizione talmente sparente che noi di­
sinvestiamo. Reinvestiamo nella scena dei pittore: quindi, addio al nar­
ratore! Eppure dovremmo preoccuparcene, egli è gravemente ferito.
Tutto ciò 6 la straordinaria messa in scena della nostra capacità di re­
pressione. Noi, il pittore-assassino. È Parte di Poe: far fare a noi ciò che
viene fatto nel testo (qui, dal pittore),
II ritratto é nel ritratto, ii libro nel libro, ecc., e l'ultimo circolo
questo processo ci dice: attenzione, se qualcuno dipinge, che ne è del
Tre Passi sulla Scala della Scrittura 57

modello? Che relazione ha il pittore con il modello? (Domanda banale,


ma indispensabile). Tutti i modelli dei pittori lo chiedono. Pirandello ha
scritto la stessa stona. È la stona della persona che dà la vita; è il mo­
dello che dà la vita, pur se crediamo che sia il pittore. Il pittore è colui
il quale prende la vita del modello. Una metafora per tutte le arti,
Bernhard dice che in certi momenti bisogna passar sopra ai cada­
veri, bisogna uccidere qualcuno per scrivere, È vero e non è vero. /Men­
ni artisti dicono che è vero, altri che non è vero. Con Edgar Allan Poe crè
una vittima addizionale che è lo stesso narratore. Con Poe mettiamo a
morte il narratore.
C’è un personaggio secondario nel racconto: il pubblico. Noi. Noi
siamo gli spettatori del breve racconto letto nel libro. Il pubblico: un
pubblico non individualizzato ma interessato. Il testimone di un gran­
dissimo amore, 11 pubblico è chiaramente distinto dall'aurore, Penali­
sta” del piccolo volume. Il pubblico dice: bisogna amare in modo ap­
passionato per dipingere cosi bene la giovane donna. L’analista ci dice
che la relazione del pittore con la moglie è una sfortuna, mentre il pub­
blico ci dice che è una fortuna. È una posizione di lettura,
E allora il pubblico è mandato via; non è lì quando avviene il de
lieto* Non c’è nessuno per raccontarlo, se non l'anonimo narratore
analista. Noi, spettatori della creazione, siamo ciechi. Perduti nell’am-
mirazione per questo grande pittore, senza sapere il prezzo che co­
sterà una cosi bell'opera. “ Io”, il narratore sconosciuto, lo sa. La giova­
ne donna lo sa.
Se cercassimo di trarre da questo racconto una specie d'etica per
la relazione tra l’artista ed il modello, come potremmo leggere le ultime
frasi del racconto? Nel diciannovesimo secolo la relazione etica tra crea­
tore e creato era un problema essenziale. Appare anche nei testi di
Bernhard. È un rema ricorrente in Poe. Il rapporto antagonista e morta­
le uomo-donna è ovunque. Non c’è neanche ambivalenza: l’uomo è cat­
tivo, la donna è buona. Molti testi riprendono questa semplice opposi­
zione, altri sono più ambigui: qui, diversamente, a volte la donna è buo­
na o cattiva, mentre l’uomo è spesso nella posizione del pittore.
58 Hélène Cixous

Prendiamo la fine dei testo: mentre il pittore guarda al dipinto, egli


vede per la prima voita. Non ha mai visto prima. Il nostro narratore co­
mincia a vedere, quindi lavora su questo vedere: cosa ho visto? Ho visto,
ecc. Ma ii pittore non ha mai visto. È cieco. Soio alla fine, quando “la co­
sa" è fini ia (e finisce con “un tocco’' all’occhio), coglie un istante per
guardare. E in queJl’istante vede per la prima volta, vede la venta. Vede:
è la vita stessa ad essere stata dipinta.
Secondo momento: ciò che vede io riempie di paura. Il che signi­
fica un raddoppiamento della sua cecità. Non lo ha mai voluto fare. Gri­
da: "É la vita’V come se gridasse: È la morte. Nei terrore più assoluto.
'ferzo momento: si “gira improvvisamente" e, nel voltarsi, è esatta­
mente ciò che ha temuto di vedere: iei è morta. È una scena analitica.
Dio non c’è. Anche se c’è l’interdetto ed il permesso. Ci sarà stato il su­
per-io, ma non Dio. Ci viene fatto capire che non può esserci vita su en­
trambi <lati. Come ci racconta l'analista, il pittore ha magicamente trat­
to la vita, la vita reaie, sostanziale, materiale, dalle guance delia moglie.
Potremmo aspettarci che sia orgoglioso dell’opera, ma non può esserlo.
Siamo obbligati a capire: non si può creare in modo giusto. Nella crea­
zione ci ritroviamo dinanzi ail’inevitabile fallimento. È un doppio lega­
me: sia che non rendiate la vita, o che la prendiate. Tutto ê fallimento,
tutto è delitto .
Noi, gli spettatori, vorremmo consolarci e repnmere ia crudeltà
della scena, dicendo che il fine giustifica i mezzi. Ma viviamo in un'epo­
ca femminista e protestiamo: sono le donne a pagare. Perdiamo o l’arte
o la vita. Il resto è verità.
Ciò che ritorna a noi, non importa quale sia il nostro luogo, è un
dovere di verità, sapere quello che è in ballo e non negarlo.
È il compito del narratore ne “II ritratto ovale”. Egli ha visto al pri­
mo sguardo; allo stesso tempo ciò gli é insopportabile, ed ha bisogno di
molto tempo per interiorizzare ciò che ha visto, per accettare la folgo­
rante e terribile evidenza. Ma, come implica il testo, il narratore è “do­
tato per ciò'*, accetta ia vista della morte perché, sin dall’inizio, è ferito
mortalmente. È invero necessario essere stati feriti per tollerare di v e ­
dere la morte inscritta ineluttabilmente nella scena.
Tre Passi sulla Scala della Scrittimi 59

L'autore è ai buio; ossia, Autoritratto di un pittore cieco 16

Come il pittore de “Il ritratto ovale” o come Rilke ne fi testamento,


.fautore avanza in una cecità costitutiva, che produce effetti che posso*
no essere buoni o cattivi. Che l'autore percepisca la propria oscurità,
non cambia ia qualità delfoscuntâ.
Può anche accadere clie un autore si uccida scrivendo. Il solo libro
che vaiga ia pena d'essere scritto è quello che non si ha il coraggio o la
forza di scrivere. Il libro che ci fa male (a noi che scriviamo), che ci fa
tremare, arrossire, sanguinare. Ê un combattimento contro noi stessi,
l’autore; uno di noi deve svanire o morire.
Non voglio scriverlo il libro vero; è quello che voglio scrivere: lo
strappo da me.

10 fVedi "Wriiing btind. Conversation with thè donkev" (Cixous, 1996). Vedi, inol
il capitolo “Autoportraits d'une aveugle", inJours de Van (1990), scritto - sens se donner
te mot - nello stesso periodo in cui Derrida, come lui stesso nota (1994), scnveva Mé­
moires d'avcugìes. Vautoportrait et attires ruines (1990V In continuità - o forse proprio
in forza di discontinuità - con ia casuale coincidenza, bellissimo è il saggio “Savoir", nel
volume scritto con Jacques Derrida, Voites (1998), sul lutto, in seguito all'operazione la­
ser, della propria miopia. Il legame della cecità con Yopera daU’autrice é commentato nel­
l'intervista "Cixous Pocil nu” (1998), quando Cixous racconta: «Derrida décrit merveilleu­
sement l’engendrement de l'oevre (l'opus) par Γopération (acuvc/passivc) de l’oeil. Il γ a
cu miracle. D’autant que je n avais ïamais imagine qu'il m arriverait un jour de "voir le
jour”. Je pensais toujours aux guerriers au siège de Troie: aucun mvopc ne pouvait survi­
vre, on ne voi pas l’ennemi arriver. Ça prend un peu de temps pour arriver au "voir”
après l'opération: cette progressivité fait que vous êtes vous-même ie lieu et le tcmom de
la dissipation du voile et de la venure du monde vers Y oeil nu. J'étais si bouleversée que
le me suis accompagnée de notes: or, tandis que j'allais traversant avec joie cette zone
d'opacité, se levait un deuil - je perde ma ro/e, mon étrangère. Encore une trace de mon
enfance à langues: ma mère a un léger accent allemand, iirsciue je lui ai announcé: "On
va opérer ma myopie”, ella nva répondu: “Was? Qui est ma mie Opi?”. Alors j’ai entendu
que toute ma vie ('avais dit, comme ma mere: ma mie opie: Et fa t pensé: cest ma moi,
mon étrangère la plus intime que s en va, â jamais» (loret, 1998). A seguire, commenta la
recensione di Robert Maggiori: «Quelle chirurgie pourra jamais ôter le voilement des yeax<
sans, “deuil inattendu", provoquer l'hémorragie des secrets cle l'enfance, ébranler le soi
natal,1blesser ia langue mère, l’identité, la vérité enfouie au plus profond de soi? "Adieu
ma mie ma mère", dit elle*· (Maggiori, 1998). in precedenza (Cixous, 1988), l’autrice ave­
va creduto che la propria disabilita abilitante (capace cioè di produrre sostituzioni, me-
taforizzaziom, metonimizznzioni del inondo e degli esseri, una visione ipenutenta al det­
taglio, Γimmaginazione notturnale di un cieco) fosse incorreggibilej.
60 Hélène Cixous

Inquieta pensare a questi libri desiderati ma temuti. Ho umore del


fuoco che ha divorato Clance e Ingeborg, ma, allo stesso tempo, lo am­
miro. Per quanto riguarda L'ora della stella ho scruto molto sulla di­
sianza estrema che ha percorso Clance Lispector per scrivere il libro che
le era proibito, A lungo ho girato intorno a questo piccolo testo violen­
temente magico.
fi Pesempio più straordinario di scambio totale e di fusione con la
misteriosa e dolce violenza della scrittura. L’ora della stella è l'ultimo li­
bro» e per scrivere l'ultimo libro, Clance Lispector ha dovuto trasfor­
marsi, abbandonarsi, perdersi in un aurore maschile fino al punto dei
non-morno.
Ciò che mi tormenta è che la persona che scrive e che e sensibile a
questo genere di pencolo, non possa non avere il desiderio di morire. Il
desiderio di morire è la cosa al mondo che non ci si può permettere
d ’ammettere; non parlo di suicidio: il desiderio di morire e Ja tentazione
smcidia sono due cose diverse; il suicidio è un omicidio, è indirizzato a
qualcuno o a qualcosa, mentre il desidero di morire non ê assolutamen­
te questo - che è la ragione per cui non possiamo parlarne. Alcuni lo
hanno fatto poeticamente e direttamente. Clance Lispector ne ha parlato
con Macabea, ma senza enfatizzare di star esprimendo il suo desiderio di
morire. Tramando la morte di Macabea, annotava nei suoi taccuini:

L'unico m odo di sapere se esiste la vita d op o la m on e è credere mentre si è


ancora in vua. Una volta volevo morire e poi ritornare in vita - semplicemen­
te per conoscere il succo della vua che è la m one.
i miei giorni sono numerati senza che io lo sappia. Vorrei morire ora - di già
- nel pieno della vita - e d op o la morte ricordare per i! resto della vita.
Pensarci bene, a cosa si intende per morte, che a spaventa e ci causa paura, è
vedere quanto sia necessario morire.
Dio ha agito su grande scala. Per farlo non si è preoccupato della morte indi­
viduale e nemmeno di quella collettiva.
Egli lavora solo con i millenni: i minuti per Lui non contano. Attinge all’inevi­
tabile attraverso millenni di secoli. E noi - noi teniamo una piccola fiamma di
vita che si accende e si appaga. Dobbiamo crescere contando sul fatto che sia­
mo la parte più infima del Grande Tempo che Non Finisce.
Dio creò la morte e poi non potette più porci riparo o abolirla...
Tre Passi sulla Scala della Scrutimi 61

La morte esiste. Forse il mio ultimo destino sarà come un oboe... (Borrellì,
1981, 49-50).

Il desiderio di morire è il desiderio di conoscere; non il desiderio


di scomparire, non il suicidio; è il desiderio di godere.
Come disse Kafka:

“Non fai che parlar ili morte e non muori mai”


"Eppure morirò. Sto appunto intonando il mio canto funebre. Chi ha un cau­
to più lungo, chi ha un canto più corto. Ma la differenza non comporta mai
più di poche parole” (Kafka, 2000, 922).

Ë iJ nostro discorso interiore. Bisogna essere in due per dirsi: io il


vivente ed io il morente. Gli esseri umani desiderano questa duplicità
paradossale, che per decenza non dovrebbe essere espressa, ma che
persone come Kafka e Clarice esprimono. C'è una differenza assoluta
tra me ed il morente. Ma l’autore vuole morire. Perché è lì che accade
“la cosa”. Egli o ella desidera, è geloso/a, lui o lei ama i morenti e i mor­
ti. È un desiderio che ho donno formulare in me stessa meno chiara­
mente di quanto non abbia fatto Kafka. Non mi sono mai detta; Cosa,
non muori? Perché non credo di dover morire. Perché io, H.C. non
muoio, e perché muore lui? Uno di noi morirà, io non muoio perché sei
tu quello morto. É lo schema della mia vita. Il padre di Kafka era tale che
Kafka potesse dire: Sarò io a morire. Il mio ha fatto sì che io possa solo
dire: perché non io?
Quindi, dopo tutto, il desiderio di morire è solo il desiderio di gu­
stare i frutti deiralbero dei Bene e del Male. Per essere capaci di voler
gustare i frutti deiralbero dei Bene e del Male, contrariamente a quanto
dice la Bibbia, bisogna essere mortali. È diffìcilissimo quando non si ê
mortali. Non tutti sono mortali. Non tutti hanno questa difficile fortuna.
Io stessa, non Πιο.
.Ho sempre amato gli scrittori che chiamo deWestreintià, che si
portano all’estremità dell'esperienza, del pensiero, della vita. Quando
ho iniziato a leggere Clarice Lispector nel 1977, l’ho letta con calma e
con appassionata meraviglia. Solo ora capisco che la leggevo - forzo un
62 Hélène Cixous

po', ma non molto, per ritrovare uno stato della mente - al di là» fuori
dal tempo. Appariva cosi grande e forte nel suo testo che non la pensa·
vo al di fuori di esso. La leggevo oltre e ai di là di Clance Lispector La
potenza dei suo pensiero mi trasportava, mi tratteneva. Ho trascorso un
anno ascoltando ciò che diceva, senza pensare a lei. Tutto era in un eter­
no futuro. E, improvvisamente, mi dicono che era morta. Non credo che
mi abbia fatto alcun effetto, perché non avevo pensato a lei da viva o da
morta. La vita e la morte di Clance Lispector erano restate in un altro
mondo. Ero nel futuro dei testi di Clarice Lispector.
Quando ho letto Kafka, l’ho letto morto, ancor più morto perché
mono nello stesso modo e alla stessa età di mio padre. Quindi mi era
ovvio: neanche mi chiedevo le ragioni. L'ho sempre letto da morto. Era
morto. L'uomo morto.
Un giorno, una cara amica m’ha fatto leggere Thomas Bernhard.
All’inizio ho provato un'antipatia profonda (la sua). Poi mi sono diverti­
ta. Non avevo mai letto testi che mi facessero ridere, la cosa più miste­
riosa fra tutte. Mi dicevo: "Come si può scrivere cosi impudentemente
senza doverlo scontare?”.
Ero estasiata che egli esistesse. Un giorno mia madre é entrata nel­
la stanza e ha detto: "Hai sentito, l’uomo che stai leggendo (al tempo
leggevo Un bambino , 1999), beh, è appena morto”. Anche la sua era
una morte prematura. E io stavo ridendo mentre lui moriva. Mi direte
che tutti muoiono, ma non tutu muoiono di scrittura.
Ecco due scrittori morti di scrittura perché sono andati così lontano
neirawicmarsi al proibito, cosi vicino a ciò che Kafka chiamava il fuoco,
da prendere effettivamente fuoco. In effetti Clance Lispector sfuggi a sten­
to alla morte per arsura dieci anni prima di monre definitivamente. Si bru­
ciò gravemente, il letto prese fuoco, e fu salvata all’uitimo momento dal fi­
glio, con le mani così bruciate da non poterie più usare per scrivere.
Ingeborg Bachmann, la grande scrittrice austriaca, mori misterio­
samente nei 1971. Ancora oggi non si sa cosa sia successo. La stanza da
letto, il bagno, si dice, presero fuoco improvvisamente, e lei mori. Non
si sa se si sia tolta la vita, come sembrerebbe dalle note bibliografiche,
oppure se sia stato un incidente. C’era morte per arsura nei suoi libri.
Tre Passi sulla Scala della Scrittura 63

Quando siete vivi e scrivete, vi domandate: “Sto scrivendo? Sto brucian­


do? Oppure fìngo?” Questi scrittori sono andati verso la verità.
(Spero mi perdoniate l’uso della parola “verità*’ Nel momento m
cui dico “verità” , mi aspetto che mi si chieda: “Cos'è la verità?” "Esiste la
verità?” Immaginiamo che esista. La parola esiste, quindi esiste il senti­
mento).
Retrospettivamente, dopo lunghi anni di lettura, mi sono detta:
quando ieggo qualcuno, quella persona muore. Ma non posso farci nul­
la. Mi piacciono solo quelli che scrivono laggiù. Non sono una strega e
sono innocente di questi eventi e coincidenze. D ’altro canto, sono re­
sponsabile del fatto d’avere un orecchio per un certo tipo di scrittura
che non esita ad andare di là dell'io, di là del sé. Questi testi mi com­
muovono, mi toccano, mi colpiscono a colpi d ’ascia perché sono i testi
di cui parla Kafka, testi che mi danno una gtota cosi intensa da somiglia­
re al dolore. E noi possiamo sopportare quella gioia solo laggiù. Potrei
dire “là” - é ia direzione. Queste persone scrivono nella direzione.
Nella direzione delia verità , perché dire la verità e morire vanno
insieme. Qualcosa allea la verità alla morte. Non si può sopportare di di­
re ia .verità, se non nell'ultima ora, all’ultimo minuto, perché farlo prima
costa troppo. Ma quando arriva l’ultimo minuto?
Forse andare nella direzione di ciò che chiamiamo venta è, quanto
meno, “s-mentire", non mentire. Le nostre vite sono edifìci fatti di bu­
gie. Dobbiamo mentire per vivere. Per scrivere, invece, dobbiamo cer­
care di “s-mentire". Qualcosa rende pressoché sinonimi l’andare nella
direzione della verità ed il morire. Ê pericoloso andare nella direzione
della verità. Non ne possiamo leggere, sopportare, dire: si può pensare
che solo all’ultimo minuto si saprà cosa dire, senza sapere però quando
sarà l’ultimo minuto.
Quelli che amo vanno nella direzione di ciò che chiamano ^ultima
ora - che Clarice Lispector chiama “l’ora della stella”, l’ora dell’abban­
dono finale di tutte ie bugie che ci hanno aiutato a vivere.
Scrivere o dire la verità equivale a morire, perché non si può dire
la verità. È vietato in ogni modo perché ferisce tutti. Non si dice mai la
verità, bisogna mentire, soprattutto in risultanza di due bisogni: amore
Hélène Cixous

e codardia. La codardia d'amore, ma anche il coraggio d'amore. La co­


dardia e il coraggio sono cosi prossimi l'un l’altro che spesso si scam­
biano. Probabilmente la codardia è il cammino strano e tortuoso del co­
raggio. L'amore é tortuoso. Cosi è solo ali’ulurna pagina del libro che,
forse, abbiamo la possibilità di dire ciò che non abbiamo mai detto, di
scrivere ciò che non abbiamo mai scruto in vita nostra, ad esempio il più
precario, il migliore, m altre parole, il peggiore.
Mo aspetto ed ammirazione per quegli scnuon che, nella loro vita, si
sono avvicinati al plinto in cui codardia e coraggio sono cosi vicini l’un l’al­
tro da volare in fiamme, se solo dicessero un parola in più. E ciò che de­
scrive Cvetaeva, il punto che io chiamo la verna e che lei chiama le parole
magiche nella scrittura. Allude ad un breve episodio in La figlia del capi­
tano di Puskin, in un breve testo chiamato “Puskin e Pugachev” Il raccon­
to di Puskin inizia con l’eroe, Grinov, da giovane, a sedici anni. Sia per in­
contrare Pugachev, un impostore, un cosacco che ha osato sfidare il pote­
re dello Zar ed è quasi diventato l’imperatore russo. ΛΙΓίηϊζϊο del racconto,
il giovane Gnnov si perde in una terribile tempesta di neve, ed, improwi·
samenre, da lontano vede una cosa che si muove. Cvetaeva cita l'episodio:

È strano che io, così lenta a ragionare e così incapace d ’indovinare da piccola,
e anche nella vua, io, cosi facile da imbrogliare, indovinai giusto m questo ca­
so e subito, non appena n ell'oscu ro vortice della torm en ta si potette vedere
una cosa nera. Subito mi misi in guardia, sapendo, sapendo, sapendo, che
non era “ un tronco d'albero né un lupo”, ma quella cosa.
E quando l'oggetto sconosciuto iniziò a muoversi verso di noi ed m due mi­
nuti divenne un uomo, sapevo già che non era “un buon uomo'V com e lo
chiamò il cocchiere, ma un uomo cattivo, un babau, quell'uomo.
ìaì cosa sconosciuta era - quella m eglio conosciuta.
Avevo aspettato la Guida per tutta la vita* la mia intera, enorme vita di sette anni.
Era la cosa che ci aspetta ad ogni curva della strada e del corridoio, che esce
da dietro ogni gruppo d'alberi nella foresta e ad ogni angolo di stradai il mi­
racolo nel quale cani minano il bambino e il poeta, senza pensare, com e se
tornassero a casa, la sola e unica passeggiata verso casa che facciamo, per la
quale abbandoniamo - tutte le nostre case familiari (Cvetaeva, 1993, 3/2 ) 19

,l1 {Vedi anche "L'amour du Lnup" (Cixous, Ι99·ί)|.


Tre Passi sulla Scala della Scrittura 65

È la definizione di verità, é ia cosa che non si deve dire. “ II miraco­


lo nel quale camminano il bambino e il poeta1’ come per tornare a casa,
e la casa ê li. E per questa casa, questa casa straniera, di cui non sappia­
mo nulla e che sembra una cosa nera in movimento, per essa abbando­
niamo tutte le nostre case familiari.
La cosa conosciuta e sconosciuta, la più sconosciuta e la miglior
sconosciuta, è quella che cerchiamo quando scriviamo. Andiamo verso
la cosa sconosciuta meglio conosciuta, dove il conoscere e il non-co-
noscere si toccano, dove speriamo di conoscere ciò che è sconosciu­
to. Dove speriamo di non aver paura dì conoscere l’incomprensìbile,
confrontare l'invisibile, ascoltare l'inudibile, pensare l'impensabile,
che è naturalmente: ii pensiero. Pensare è cercare di pensare l'impen­
sabile: pensare il pensabile non vale lo sforzo. Dipingere è cercare di
dipingere ciò che non si può dipingere e scrivere è scrivere ciò che
non si conosce prima d'aver scritto: è preconoscenza e non-cono-
scenza, ciecamente, con le parole. Accade là dove cecità e luce si in­
contrano. Kafka dice - una frase piccolissima persa nella sua scrittura
- “alle profondità, alle profondità” Andare alle profondità è esatta­
mente ciò che fanno queste persone - esattamente ciò che ha fatto
Dostoevskij nei secolo scorso.
in questo secolo se non ci riusciamo ê perché siamo spaventati.
Non riusciamo a farlo; pur se i libri sono esattamente quei passi che do­
vrebbero condurci ai punto in cui le opposizioni si incontrano, e, coin­
cidendo, aprono improvvisamente la strada a ciò clic Kafka chiamereb­
be “Sancta Sanctorum” Ma, come sapete, per metter piede nel Sancta
Sanctorum, bisogna spogliarsi di tutto:

Prima di entrare nel Sancta Sanctorum devi toglierti le scarpe, ma non le scarpe
soltanto, bensì tutto, abito da viaggio e bagagli, e, sotto, la nudità e tutto quan­
to c'è sotto la nudità, e tutto quanto si nasconde sotto di questo, e poi il mi­
dollo e il midollo del midollo, e poi il rimanente e poi il resto e poi ancora il ri­
flesso del fuoco eterno. Solo il fuoco stesso verrà risucchiato dal Santissimo e si
lascia da lui risucchiare, nessuno dei due vi può resistere (Kafka» 2000, 735).

Ingeborg Bachmann si spogliò di tutto.


66 Hélène Cixous

Avevo miziato a leggere Ingeborg Bachmann dieci anni fa, ma smisi


per il dolore; è tornata da me solo di recente. Era amica di Celan; quan­
do ho letto ia prima volta Celan non vedevo nessuno intorno a lui. L’ho
letto come una persona isolata e prescelta. Poi ho letto Nallv Sachs, quin­
di Thomas Bernhard, e gradualmente ho capito che Ingeborg Bachmann
aveva amato NelJy Sachs e l’aveva conosciuta. Neily Sachs e Celan si era­
no conosciuti. Ingeborg Bachmann conosceva Celan. Era amica di
Thomas Bernhard. C'era un filo bruciante di corrispondenza e d’amore
tra tutte queste persone, perché condividevano lo stesso tipo d’esperien­
za personale e storica, un esperienza connessa al fuoco e alle ceneri.
NeU’introduzione di un racconto intitolato // caso Pranza, Inge­
borg Bachmann dice:

Mi ê spesso capitato di chiedermi, e probabilmente ê capitato anche a voi, do­


ve mai sia anelato a finire il virus dei crimine - non sarà certo scomparso ai-
rimprowiso dal nostro mondo vent anni fa, soltanto perché qui l’assassinio
non viene più premiato, richiesto, insignito di onorificenze e sovvenzionalo. I
massacri sono finiti, si, ma gli assassini sono ancora tra noi [parla qui dei Nazi­
sti, H.C.], spesso evocati e talvolta identificati, e non tutti, ma alcuni, sottopo­
sti a processo. DeU’esistenza di questi assassini siamo stau resi consapevoli tut­
ti quanti, non solo da cronache più o meno reticenti, ma appunto anche grazie
alla letteratura... oggi è soltanto infinitamente più difficile commettere delitti,
ed ecco perché questi delitti sono tanto sublimi che quasi non riusciamo ad ac­
corgercene e a comprenderli, benché vengano commessi ogni giorno nei no­
stro ambiente, tra i nostn vicini di casa (Infatti, H.G|. Anzi· lo affermo-che an*
cora oggi moltissime persone non muoiono ma vengono assassinate. Giacché
non vi é nulla che sia, se non proprio più possente, questo forse no, comun­
que più mostruoso dell'uomo, se mi ê concesso richiamare alla vostra memo­
ria un ricordo scolastico. I delitti che hanno bisogno dello spirito, che turbano
il nostro spirito e meno « nostri sensi, quelli insomma che ci toccano più
profondamente - avvengono senza spargimento di sangue, e la strage si com­
pie entro i lìmiti del lecito e della morale, aH'interno di una società i cui debo­
li nervi tremano dì fronte agli atti belluini. Ma non per questo i delitti sono di­
ventati meno gravi, essi richiedono soltanto una maggiore raffinatezza, un di­
verso grado d’intelligenza, e sono spaventosi (Bachmann, 1988, 12).

Il problema della presenza dei crimine negli esseri umani ci è sta­


to sottoposto daU’austnaca Ingeborg Bachmann in tutti i suoi testi. La
stessa amara angoscia trova eco nella brasiliana Clarice Lispector.
Tre Passi sulla Scala della Scrimini 67

La passione secondo G.H. é anche ia passione secondo la blatta


che G.H. mette quasi a morte, È allo stesso modo la passione secondo
la Donna o anche le Donne: i due personaggi che si misurano l’un l’al­
tro, scambiandosi grida silenziose, repulsione, istinti di morte, sono en­
trambe femminili. Una è una donna, G.H., e l’altra é un blatta - in Bra­
siliano, barata - che è femminile. G.H. incontra la barala in una stan­
za, là dove non è rimasto nessuno ai mondo oltre se stessa e la barata.
La barata incarna l'intera storia e l’intera memoria deU’universo viven­
te. Per G.H,, è l’occasione di ripensare l’intera esperienza umana. Gra­
dualmente ella arriva a pensare che, per confrontare l’esistenza della
barata, deve superare la repulsione, che le impedisce di comunicare
con gli altri: dovrebbe cambiare più profondamente, tradotto in fatto
concreto dalla sua decisione “coraggiosa” di mangiare la "barata” . In ef­
fetti, questa non è la fine della storia, perché Clance Lispector è più sag­
gia. Una volta che ha effettivamente assaggiato la "barata”; G.H. capisce
che non è il modo migliore per entrare in contatto con alcuno. Scopre
che mangiare Taitro, il cannibalismo, non è dopo tutto il modo più sag­
gio per sconfìggere la repulsione. Cosi pensa in avanti. Senza meno,
però, è tramite questa violenza simbolica e concreta che ella impara a
pensare oltre la repulsione, che é sempre all’opera in noi. Attraverso la
morte, verso il riconoscimento dell’amore.

Üinclinazione alla confessione

Vi ho parlato degli autori che mi sono cari. Perché sento un tipo


d’amore cosi giubilatone verso di essi (in francese userei il plurale ma­
schile, ils, essi, perché includo anche Bernhard nell’insieme, pur se la
maggior parte di questi autori sono donne)? Perché mi ispirano un sen­
timento simile a quello che prova Genet per “Il Funambolo” (1997):
paura e ammirazione. Provo paura e fiducia. Perché essi manifestano
l’audacia, che consiste nel dire il peggio, nello scrivere il peggio, nei
rendere apparente, nominare, il peggio. Non parlo qui di esseri religio­
si; sono poeti. Non si tratta di confessarsi. Pur se ciò mi affascina, dato
68 Hélène Cixous

che la confessione mette in gioco una cosa che nu sembra impossibile e


terribile: il cancellamento. Dovremmo essere amnistiati? La confessione
tratta ritualmente l'assolutamente intrattabile.
Accade cosi che questi autori siano emersi feriti e pieni di rabbia
da una scena di confessione. Perché non c'è Dio nei loro restj, anche se
ce ne può essere un po; nei loro cuori. È un altra cosa. Non c'è religio­
ne. C*è ritmano***
Cosi, ciò che fanno queste “persone le cui anime sono già mature”,
come direbbe Clance, è d’avventurarsi Fi dove non abbiamo la fo ra o t
mezzi d’awemurarci, al bordo del nostro abisso: e, quindi, dì descriverlo.

A POSS1VEJS LEJTORES

Este livro é conio um livro qualquer. Mas eu ficana contente se fosse lido
apenas por pessoas de ai ma jâ formada. Aqueias que sabem que a aproxj-
maçao, do que quer que seia, se faz gradualemente e penosamente - attra-
vessando inclusive o oposto daquilo de que se vai aproximan Aqueias pessoas
que, so eias, entenderao bem devagar que este livro nada tini de ninguèm. A
mini, por exemplo, o personagem G.H. foi dando pouco apouco urna alegna
dificil; mas chama-se alegria.
CL. (Lispector, 1979, 5)

AGLI EVENTUALI LETTORI

Questo libro ê un libro come un altro, ma avrei piacere fosse letto solo da per*
sone dall’anima già formata. Quelle persone sanno come l'avvicinamento a
ogni cosa avvenga per gradi e con sofferenza - e passando talvolta attraverso
l’opposto di ciò che é la meta. Quelle persone e solo loro capiranno passo per
passo che questo libro non toglie nulla a nessuno. A me, per esempio, il per­
sonaggio di G.H. ha dato a poco a poco una gioia diffìcile, eppure il suo no­
me è gioia (Lispector, 1991, 3)31

» [Vedi Cixous & Calle-Cruber (1997. 30-35). I


21 JLa traduzione italiana non riporta la firma (le iniziali) ddl'aucrice. Per la pro­
blematica della traduzione di questo testo, si rimanda ai commenti di H.C nel terzo ca­
pitolo del presente volume.)
Tre Passi sulla Scala della Scrittura 69

Questo è il cammino della “maturazione ddl'anima” . andare a vede-


re, e non solo vedere ma inscrivere l'abisso che siamo. Sforarsi di cercare
in sé il peggio e di confidarlo là dove non c’è Γistanza cancellante, dove il
peggio rimane tale. Fate l’esercizio di scrivere il peggio, e vedrete che esso
vi si rivolterà contro, e, con tradimento, cercherà di velare il peggio. Perché
non possiamo sopportare il peggio. Scrivere il peggio è un esercizio che ci
nchiede d’essere più foni di noi stessi. I miei autori hanno ucciso.
Ne Im passione secondo G.H., il crimine è perpetuato su una blatta.
Se vi raccontassi l'uccisione della blatta non vi farebbe alcun effetto. Solo
all'interno del testo, abitando il testo, tremiamo là dove Clance Aaiole far­
ci tremare. Accade che io uccida. La mia vittima è una mosca. Accade che
quando scrivo entra una mosca: cerco di scacciarla; inizia un combatti­
mento. Accade che, non avendo potuto salvare la mosca, la uccido. Lo
ammetto, poi sento d’avere aumentato la mia parte di crimine. I lo ucciso
mosche, e non c’è fine all'uccisione. Lo ammetterò mai? Mai veramente.
Ho l’inclinazione alla confessione. Quale sarebbe il contrario del
desiderio di confessione? Il desiderio di tacere. Esiste? Si ha realmente
desiderio di segreti? Il bisogno reale è dal lato della confessione. Il vero
segreto è quello che fa più soffrire, perché è la figura esatta della morte.
Se si ha un segreto e non lo si dice, si é veramente una tomba .
Thomas Bernhard è orgiastico nella sua confessione. Lo ha sempre
fatto ridere il fatto che la relazione umana sia intimamente miessuta di
peggio. Ma è Clarice Lispector che ha detto le cose più forti su tale gro­
viglio. I! groviglio in noi, che chiamiamo “umani”, dei Bene e del Male:
questo gusto del Bene per il Male, questo gusto dell'Amore per (Odio.
La parte oscura, selvaggia, buona-cattiva in noi; la parte-bestia nell’esse
re umano. Nelle impietose opere di Clarice Lispector, a volte a misuria­
mo e siamo misurati contro un essere della nostra specie - pur violen­
temente differente da noi; a volte, come donna, siamo misurate contro
un uomo, a volte come donna siamo misurate contro un mendicante, o
cpntro un cieco, o anche una gailina, o una barata ; a volte, come uo­
mo, siamo misurati contro un cane... Misurati e soppesati. Bisogna an­
dare a volte a cercare il peggio o // meglio di noi in un essere più puro,
più nudo di noi.
70 Hélène Cixous

Una donna che un uomo non ha voluto amare, andò in uno zoo a
cercare ciò che non era riuscita a trovare in se stessa: la fonte, il segreto
dell’odio. Questo incidente accade in un racconto intitolato “Il bufalo”
(Lispector, 1989), C’è una sostanza amara e sconosciuta che circola in
noi e che si chiama "odio". Per la donna nella stona si tratta di “ far cri-
stallizzarc" eli coagulare questa sostanza. Riconoscerla, afferrarla, pro­
varne la natura, goderne. Di cosa ê fatta questa sostanza che inebria e
che avvelena? “Il bufalo" ce lo dice in modo mortale. Il desiderio di con·
fessione è in un certo senso il bisogno di sputare Tosso, il rospo, vomi­
tare, rigettare una certa sostanza - che ê parte di me.
Qui, una donna domanda silenziosamente alla brutalità di un bufa­
lo il segreto eli tutta la brutalità.
In un altra stona, un “uomo” chiede ad un cane il segreto seppelli­
to più profondamente, il segreto che si fonde con ia natura umana stes­
sa. Si tratta dell'amore, che non è quello che pensiamo, noi che pensia­
mo che l’amore ami e che amiamo “amare” . Noi che crediamo di sape­
re, che calcoliamo, che siamo una specie di “professori di matematica”
La stona è intitolata “Il delitto del professore di matematica” (Lispector,
19S9). Pur se nel racconto non c’è nessun “ Professore” intitolato. C’è
solo “l’uomo” Senza nome, senza professione. L’uomo-umanità, colui
che prende le decisioni in famiglia, ecco “l’uomo”. Ln,uomoMarriva in ci­
ma ad una montagna, spinto da un misterioso disegno. Porta gli occhia­
li. Gli occhiali sono più che semplici occhiali. Per "vedere” meglio, l’uo­
mo si toglie gli occhiali. Il testo non smette di togliere e rimettere gli oc­
chiali, sempre in un sottile contrappunto o contrattempo. È cosi che re*
goliamo il nostro modo di non vedere, o di vedere ciò che non voglia­
mo vedere. Vedere, non vedere, rendere visibile, nascondere/esporre,
cosa? Cosa c'è in quella borsa pesante che l’uomo trasporta?
L’uomo apre la borsa e ne tira fuon un cane morto e sconosciuto:
molto sconosciuto, molto m orto22. “Il cane morto” . Ora io seppellire*

” (Un recente riferimento molto Dello al “cane” è m “Il libro personaggio del li­
bro” (Cixous, 2001, IV II riferimento e a un dipinto di Goya: -«Questo Cane non lo ave­
vo mai visto prima, questo mczzo-Cnnc, a metà strada tra la vita e la morte la terra e il
Tre Passi sulla Scala della Scrittura 71

mo. Si tratta della sepoltura del cane? L’uomo pensa e calcola. Calcola i
dettagli precisi della sepoltura, lì in alto, sotto il cieio - che vede o non
vede? - pensa "al cane vero”. Improvvisamente apprendiamo che il cane
vero vive in un'altra città mentre qui l'uomo lo seppellisce, nelle sem­
bianze di un altro cane, quello morto. Doppia sepoltura, dei vivo e dei
morto. Sembra che l’urgenza sia di seppellire...
Abbiamo bisogno di cani. Ecco perché nei nostri libri preferiti ci
sono tanti cani che siamo noi: i cani di Kafka; o \gatti: i gatti di Edgar
Alìan Poe.
... L'uomo vuole seppellire il cane esattamente dove vorrebbe es­
sere seppellito, lui, l'uomo, se fosse morto. Deve/dobbiamo seppellire
lui/noi. Ogni giorno crediamo di dover reprimere, dimenticare e sep­
pellire. Ma non è così. Il desiderio di seppellire nasconde un desiderio
più contorto: l’uomo vuole essere visto seppellire - vuole essere sco­
perto mentre nasconde. (Chi lo vedrà là m aito a seppellire? Nessuno...)
L’uomo seppellisce il cane solo a metà. In effetti, il seppellimento é esi­
bito in modo taie da sembrare un dissotterramento.
L’uomo deve disseppellire ia sepoltura, che equivale a far ritornare
il represso alia superfìcie della coscienza. Clarice Lispector non parla
mai pstcoanaliticamente, ma nei termini della propria etica. Uuomo de-
ve farlo perché si è sentito costretto ad abbondare il cane vivo. Che é un
delitto. Ma ê un delitto, sfortunatamente, invisibile. L’uomo è preoccu­
pato dal delitto che, sebbene esista, non è accaduto, rendendolo colpe­
vole sebbene non sia colpevole. L’uomo non può sopportare d’aver
commesso ciò che chiamerei im delitto perfetto, poiché nessuno ne sa

ciclo in un uragano dt ocra rovesciali eia Goya nei vano di un niente, a Madrid, da ciuaiv
do l’ho visto, dal giorno in cui l’ho visto, ero io, quel giorno, senza esitazione, ho visto
il ritratto della mia anima, una dissotterrala anche lei, io m quanto il mio cane dal mu­
so giallo mezzo vivo malgrado ia stretta della morte. Era cone se avessi trovato la prova
del l’origine»* Vedi anche Lejo u r où je n*etais pas là (Cixous 2000, 149-150). in "Wriung
Blind” (Cixous, 1996,150), dopo aver giocato con le moi Dieu: le mot dyeux (la paro­
la (degli) occhi|; te mot-dieu. Le mot dit ettx Ila parola dice !oro|; te mode veaux,
Cixous ricorda che "God is dog in thè English mirnor". Vedi, infine, “Stigmata, or job thè
dog” (Cixous, 1997).|
72 Hélène Cixous

nulla. Il cane, addirittura, non ne sa nulla. Il delitto é cosi perfetto da es­


sere imperfetto, il delitto realmente perfetto dovrebbe davvero essere
imperfetto. Ma questo crimine, perpetuato sul cane, non è riconosciuto
come delitto, ed é la cosa con cui l’uomo deve confrontarsi. Siamo cri­
minali e non sappiamo come esprimere o provare che siamo criminali.
Il problema è che se, in quanto criminali, fossimo riconosciuti come ta­
li, dovremmo pagare per il delitto. Ma se pagassimo, il delitto scompari'
rebbe e il nostro debito sarebbe cancellato. Dobbiamo salvare il delitto
per mantenere iJ delitto al sicuro, per evitare il terribile fato d’essere
perdonati. Cioè: come proteggere il delitto dalla punizione e quindi dal
perdono che minaccia di cancellare il delitto? Come evitare il seppelli­
mento della colpa che ci priva della nostra verità? È diffìcile, quasi im­
possibile, come ci mostra Clance Lispector nella sua stona straordinaria.
Cosa em erge alla fine dalla terra della narrativa è che, per venire a patti
con noi stessi, abbiamo bisogno della scena del delitto : del teatro del
crimine. Abbiamo bisogno d’essere capaci d’esporre il delitto e allo stes­
so tempo in un qualche modo di tenerlo vivo.
L'inclinazione alla confessione, il desiderio di confessione, la bra­
ma di provare il gusto della confessione, ci costringe a scrivere: sia il bi­
sogno che l’impossibilità di confessare. Perché, di norma, nel momento
in cui confessiamo cadiamo nella trappola dell’espiazione: confessione -
e dimenticanza. La confessione è la cosa peggiore - s-confessa ciò che
confessa.
Come confessare l'inconfessabile? Ê il problema che ia narrazione,
l'istanza enunciatnce, tratta nel racconto “Il cane nero” di Edgar Allan Poe.

La stona delfici Nero.


Ê la storia di un uomo che ci racconta una stona terribile. Ha avu­
to una bella infanzia, ed una relazione molto dolce con il mondo degli
animali. Da adulto, diviene un uomo felice. La moglie, che desidera far­
gli piacere, porta a casa dei gatti, dei cani, dei pesci... ed un gatto nero.
Il gatto si chiama Pluto. Improvvisamente, la stona s-voha. Il gatto è il
punto di svolta, un colpo di gemo da parte di Poe. L’uomo inizia a bere.
Non si sa perché. Il gatto è il male? Il carattere dell’uomo si altera. Di­
Tre Passi sulla Scala della Semi uni 73

venia capace di violenza e di crudeltà. Il gatto è cosi appassionato, non


lascia il narratore neanche per un secondo. Un giorno, il narratore, esa­
sperato dall'amore, afferra Fiuto e gii cava un'occhio con un coltello.
Dopo di che si addormenta sobrio. 11gatto guarisce. Da ora 111 poi, l'am­
biguità s’installa tra ii narratore e il gatto.
li narratore finisce coir uccidere Pluto:

Era questa nostalgia misteriosa dello spinto di “[otturarsi”, di far violenza alla
propria natura, di fare il male per l’amore del male, che mi spingeva a conti­
nuare e finalmente a portare n compimento il supplizio che avevo inflitto a
quella povera bestia inoffensiva.
Una mattina, a sangue freddo, gli feci scivolare un nodo scorsoio al collo e l’ap-
piccai al ramo di un albero; e avevo gli occhi pieni di lagrime e ii rimorso più
amaro nel cuore, lo appiccai perché sapevo che mi aveva amato tanto, e perché
sentivo che non mi aveva mai dato ragione di offesa; lo appiccai perché sapevo
die facendolo commettevo un peccato mortale che avrebbe compromesso la
mia anima immortale tanto da ridurla se una tal cosa fosse possibile, fuori dalla
misericordia dei mio misericordioso e più terribile Iddio (Poe, 1999, 2-16).

Arriva un secondo gatto. In una taverna dove si sta ubriacando,


l’uomo vede una macchici nera sullo scaffale (ci fa pensare alla macchia
nera m “Puskin e Pugachev”, che ê Pugachev, di cui Cvetaeva dice: Ave­
vo aspettato ia Guida per tutta ia vita. Una macchia nera ai fondo del
quadro, l’uomo nero, portatore di morte, che io a m o )23
Quando l’uonio si avvicina alla macchia nera, è un gatto esatta­
mente come Pluto, tranne per una macchia bianca sul petto. Il gatto se­
gue a casa l’uomo, e la storia ricomincia. Il secondo gatto sarà preso nel­
la stona del primo gatto; le stesse reazioni, pur se spiazzate, nascono nel
narratore. Questi inizia ad avere orrore di questo gatto come gatto stes­
so, il gatto che gli ricorda il gatto che ha ucciso. Si sviluppa l’odio. Il ri­
cordo della prima scena gli ricorda quanto questa gli sia costata in sen-

25 (Nel passo, già citato, la frase non é in corsivo, il testo inglese, inoltre, rimanda
a Mll mio Puskin" (ò'etaeva 1991), pur l’indicazione precisa è a Cvetaeva 1993; una pos­
sibile spiegazione è nel fatto che Cixous si rifa al testo francese che pubblica insieme 1
due saggi: Manna Cvetaeva, Mon Po 11ebbine-Poh chhine et Pougaichov, irad. André
Markowicz & Clémence Hiver, Paris 1997.}
74 Hélène Cixous

timenti d'ambivalenza e terrore. A poco a poco, la pulsione de) narrato*


re cresce. Finisce coJ chiamare il gatto mostro. La stona finisce con l'im­
muramento dei cadaveri in cantina.
Un giorno il narratore scende nella cantina con la moglie e il gatto.
I personaggi non riescono più a distinguersi, il gatto scappa tra le gam­
be dei narratore, che gli dà un colpo d’ascia. Il gatto è più veloce e l’a­
scia cade sulla moglie, tagliandola in due. Ê a questo punto che il narra­
tore procede a murare il cadavere. L’uomo è in cantina; considera tutte
le possibilità. Lavora intensamente. Tutta l'energia libidinale di quest'uo­
mo e investita nell Impresa. Abbatte un pezzo di muro e mura la moglie.
Noi, lettori, seguiamo ogni minuzia dell’operazione. A volte siamo ai li­
vello di realismo, altre volte nella metafora; ripetiamo la nostra maniera
dì murare - non un cadavere: ma il suo equivalente. Anche noi seppel­
liamo alla perfezione. È il nostro grande desiderio.
11 racconto è fatto in pum a persona . L’ho notato mentre vi rac-«
contavo ia stona. Poe può arrivare ftn qui: poteva scriverlo solo in prima
persona. L’avesse scritto in seconda o terza persona, avrebbe introdotto
una dimensione distanziarne, e noi ci saremmo precipitati sulla possibi­
lità di non credere, di non sentirci toccati.
Ma leggiamo in prima persona. Il problema riguarda chi costituisce
la narrativa. Poe crea una narrazione dentro la narrazione, lasciando un
elemento invisibile, non stampato nel libro, che dice: "E tu, cosa hai mu­
rato? Qual e in tua stona?'’
Liniero tesio procede come una lava che ricopre tutto, un inces­
sante muramento. AlPinizio l'adulto reprime e mura l’infanzia dorata.
Proprio come un atto ne copre un altro, un gatto copre un altro, c’è una
successione di episodi sempre più violenti fino alla fine della narrativa.
Anche noi siamo soggetti a questo crescendo di violenza creata da una
violenza che ne copre un al tra. La tragedia della violenza è che essa can­
cella * propri gradi violenti, cosi da permettere a noi di cancellare il pri­
mo atto di violenza tn quanto irrisorio, pur se è stato decisivo. Tutta la
violenza ha una stona. Quando arriviamo ad un certo grado di violenza
soggettiva, fantasi natica, o socio politica, questa riproduce violenze se­
condarie e, allo stesso tempo, produce nuove violenze.
Tre Passi sulla Scala della Scrittura 75

Il meccanismo di muramento gioca su clue piani: quello simbolico,


che mette in forma concreta il muramento di repressioni e d’amnesia,
ed il muramento reale, che accade in cantina. Il narratore finisce col
chiudere se stesso nelle profondità dell’inconscio e della propria casa,
l'uno a figura deli’aitra.
È difficile avvicinarsi ai luogo dove esporremo il crimine che è par­
te della nostra anima. Vogliamo conoscere il sapore della confessione,
che è gioioso, ma allo stesso tempo veniamo in contatto con qualcosa
che ci spaventa: l’odio. Noi che siamo pieni d’odio quanto d’amore, per­
ché rodio è una parte deli’amore; noi che vogliamo vomitare la sostan­
za deH’odio, ma anche sapere di cosa è fatto l’amore.
Abbiamo bisogno di cani per comprendere questa relazione strana
ed ambigua con l’amore-odio. lo non ho un cane. Evito d’avere un ca­
ne. Sono sempre stata consapevole d ’evitare d ’avere cani. Un cane è
una minaccia. Nei cani ia minaccia é il loro terribile amore. Lo capite
non appena vedete un particolare cane. Alcuni cani sono come esseri
umani, pieni di odio, ma la maggior parte dei cani sono fasci d’amore.
Ora, questa profusione infinita, compieta e illimitata, d’amore è spos­
sante per un essere umano. Siamo una mistura d’amore e del suo con­
trario. Apparentemente, nell’amore di un cane, non c’è una combina­
zione simile. Poe scrisse “Il gatto nero” su ciò: l’amore di un gatto è co­
si infinito che il narratore arriva ad odiare il gatto.
Incontrando un cane, improvvisamente, vedrete l’abisso d’amore.
Un amore cosi illimitato non rientra nella nostra economia. Non sappia­
mo gestire un tipo di relazione cosi totalmente aperta, sovraumana.

Verso ΓυΙίιma ora

Come si può mantenere la mistura d’innocenza e di crimine suffi­


cientemente viva e aperta per vivere e scrivere? Come possiamo proce­
dere fino al punto bruciante, raggiungere <\ué\Yultima ora, quando sa­
remo capaci di scrivere o di dire tutto ciò che non abbiamo mai osato
dire per amore e per codardìa?
76 Hélène Cixous

Se fossimo capaci di' raggiungere quest/ora di grazia, arriveremmo


forse a dire ciò che non abbiamo mai detto. Morire senza averlo fatto: la
morte. Perché desideriamo così tanto morire? Perché desideriamo dire
cosi tanto. Perché desideriamo ottenere questo momento misterioso?
Perché desideriamo vivere come non abbiamo mai vissuto, totalmente
nudi. In questo momento, se abbiamo lavorato m questa direzione -
perché è un compito enorme mentire e s-menure - potremmo dire mi­
to ciò che, per amore e per codardia, per amore come per codardia,
non avremmo mai detto.
lutto ciò che non avremmo mai detto, ma che abbiamo letto, perché
almeno ê scotto. Abbiamo tremato leggendo i racconti dì crimine, siamo
noi, ma con un nome assunto, uno pseudonimo: che é la ragione per cui
non ci riconosciamo o per la quale sfuggiamo ai testi che ci conoscono.
La scena del cimitero, la scena di Thomas Bernhard a Traunstein, è
oltre la nostra fora ; non ci è semplicemente interdetta, ê proibita qua­
si all’origine. É già vero delle nostre storie personali: premesso che sia
raccontata da un narratore impavido, la storia di ogni essere umano è
sempre la più grande e la più crudele delle storie. Siamo noi a ridurla e
ad annichilirla. Altrimenti, ogni giorno, saremmo personaggi (ritornati e
riapparsi) dalle grandi tragedie che amiamo rileggere - dalle tragedie e
dai miti, ma anche da un altrove lontano, in vicinanza della camera dei
bambini, dalle favole di bambini crudeli, che ci piacciono cosi tanto an­
che se sono storie di un'età infantile. Siamo pieni d’orchi. Crescendo,
siamo in Re Lear, possiamo andare fino a Tito Andronico , siamo in Otel­
lo; siamo in tutte le tragedie greche, che sono le nostre tragedie, senza
essere incoraggiati, però, a fare la connessione: recitando come non fos­
simo i personaggi di piccole o grandi tragedie.

Abbiamo bisogno della scena dei defitto

Non abbiamo mai detto la verità su ciò che ho chiamato il peggio,


sebbene il segreto del peggio spesso non sia un granché: lo trasformia­
mo noi in peggio. Questa "cosa” produce effetti di morte tra gli indivi-
Tre Passi sulla Scala della Scmiura

•dui. Non faccio mia l'affermazione di Bachmann, che pur ascolto con te­
nerezza, simpatia e dolore. Non sono al punto in cui chiamerei fascista
a giusto titolo la relazione tra uomo e donna. Eni vero per lei: la rela­
zione tra uomo e donna al suo tempo, m Austria, era vestita, si presen­
tava col vestito del fascismo.
Solo alia fine - tutti i libri di Ingeborg Bachmann sono libri della fi­
ne - ogni volta scrive m agonia - si dira tutto ciò che non si è pcnuto di­
re. Non solo che c’è guerra tra gli esseri, ma anche che questa guerra è
prodotta dalla differenza sessuale, E non solo dalla differenza sessuale.
Dai sotterfugi, dai paradossi, dalle sorprese che ci riserva la differenza
sessuale, È la ragione per cui il conflitto uomo-donna non è sufficiente,
a me, nel mio tempo, nel mio luogo, È una questione di differenza ses­
suale; ma la differenza sessuale non ê quella che pensiamo. È allo stes­
so tempo tortuosa e complicata. C ’è la differenza sessuale, e c'è ciò che
essa diviene nelle sue distribuzioni e nelle sue manifestazioni m ognuno
di noi. Lo sapevamo giù con Shakespeare: noi stessi non apparteniamo,
e non sappiamo chi amiamo34. Prima dell'ultima ora non saremo mai ca-

u [Ringrazio Monica Fiorini per avermi formio la traduzione della frase, insieme ai
commento deM*autnce: “Ho sempre amato - lo annoio perché sra insculto in me come
una divisa sui muro di Montaigne -, ho sempre amato la frase di Shakespeare·.
“Ourselves we do noi owe". Noi stessi non ci possediamo. Non ci conosciamo. Non sia­
mo padroni di noi stessi. Bisognerebbe meditare il mistero di questa espressione dell’io
che insiste, nella lingua, su di me, per sdoppiarsi, (dunque dividersi), approssimarsi, ap­
propriarsi del suo proprio, come se sentissi che allorquando sono/dico "io” non sono an­
cora io, non abbastanza io, non molto io, sono allietiamo tu che io; bisognerebbe ascol­
tare questa accolta di me die cerai di abbracciarsi, di coniugarsi, di constatarsi: me stes­
so. E più strettamente m inglese: myselj\ ma l'inglese slitta verso l'aggettivo possessivo,
"mio-io", dice la lingua inglese, il mio-propricwo, io stesso mi possiedo. “Non possedia­
mo il “nostro pror>rio,,‘\ suggensce Shakespeare in un possente paradosso. C'è del pro­
prio ma chi può dire: io sono il proprietario del mio proprio? “C ’esi du propre#' (Bella
roba!!), eccone un'altra! E questa forma idiomatica è “propria” solo della-lingua france­
se. Shakespeare la illustra, a qual punto siamo fuorviati, o al contrario illuminali. É una
dichiarazione forte: non possiamo neppure affermare la nostra stabilità sessuale perché
• si scontra con esperienze deiraltro tali da farci vacillare. Shakespeare questo lo sostiene
nelle commedie passando attraverso metamorfosi, come nel Sogno di una notte di mez­
za estate, travestitismo, travisamenti pure. Significa spingere alla visibili!;) estrema un
certo tipo di constatazione delle nostre instabilità», 8-9. (Cixous, 2001; una versione leg­
germente diversa del saggio appare, col titolo “Aux commencements, il y cui pluriel...”,
7S Hélène Cixous

paa di dire che quella taie donna è in realtà un uomo. Perché non pos­
siamo dirlo? Perché sarebbe dire ciò che il mondo non è ancora pronto
a sentire. Inoltre, è oltremodo pericoloso, perché siamo già sui cammi­
no verso ciò che potrebbe essere ripreso e distorto dalla misoginia. Im­
maginiamo di amare una donna che dentro é un uomo. Ciò significa che
amiamo non un uomo esattamente, ma una donna che è un uomo, che
non è affatto ia stessa cosa: ê una donna che è anche un uomo, un'altra
specie. Queste complessità non sono ancora udibili. Anche se é vero,
stranamente, ancora oggi ci atteniamo ad una differenza netta, conci­
nniamo a dire uomo e donna, pur se non funziona. Non siamo fatti per
rivelare il grado della nostra complessità. Non siamo abbastanza forti,
non abbastanza agili; solo ia scrittura è capace di fario. A volte siamo
sposati con un uomo perché è una donna, anche se abbiamo creduto di
sposare un uomo. Chi abbiamo sposato? La nostra nonna, forse- Una
donna che era la replica di un uomo divoratore di donne, che si faceva
passare nel mondo per una donna per eccellenza. Sotto tali spoglie, el­
la faceva ecatombe di donne, mentre veniva ceJebrata dagli uomini per
il fascino materno. E un racconto vero. Dovremmo scrivere "Le Favole
della Differenza Sessuale”, sarebbero i racconti dei nostro tempo; verti­
ginosi. I greci io facevano. Nelle tragedie greche Eschilo ci dice fin dal·
l'inizio che Clitennestra è di forza virile. Ma allora chi uccide Agamen­
none? Mi piacerebbe saperlo. È un uomo o una donna che uccide Aga­
mennone? Vuol dire che una donna che uccide un uomo è un uomo»
ecc.? In altre parole, che solo un uomo uccide un uomo. Ma allora per­
ché accusare Clìmennestra d’essere una donna? Non c'è fine...
Potremmo riflettere su questi misteri ma non lo facciamo. Siamo
incapaci di inscriverli o di scriverli perché non sappiamo chi siamo, una
cosa che non consideriamo mai perché ci prendiamo sempre per noi
stessi; e, da questo punto in poi, non sappiamo più nulla. Voglio dire
sinceramente che io non ho ia più vaga idea di chi sono, ma che alme-

nel dialogo con Mireille Calle-Gruber, pubblicato su Genesis, 1997). la citazione già inti­
tolava una sezione di “Tancrède con li nuè” (Cixous, 1986; Bono, 2000, 63).]
'Tre Passi sulla Scala della Scrittura 79

no so di non sapere. Non sono l’aitro che può percepirmi. So delle co-
: se su di me. So chi non sono, credo.
Per quanto riguarda te, che sei l'altro, sono là dove penso tu non
sia chi credi d’essere, chi sembri essere, chi il mondo crede tu sia - uti­
lizzo ia seconda persona per evitare la difficoltà di parlare ai maschile o
al femminile - d'altro canto, dato che la definizione dì me o di te è la co*
sa più vulnerabile in noi, ciò mi impedisce di pensare ciò che penso.
Quando diciamo ad una donna che è un uomo o ad un uomo che è una
donna, è un insulto terribile. È la ragione per cui ci si scanna.
Abbiamo identificazioni estremamente forti, che fondano ia nostra
dimora. Una carta d’identità non permette confusione, tormento, o
smarrimento. Essa afferma ie immagini semplificate e nette delle comu-
galità. Se si rivelasse la venta delle scelte amorose o deil'odio, questa fen­
derebbe la crosta terrestre. Ecco perchè viviamo in un'illusione legalizza­
ta e generalizzata: la finzione prende il posto della realtà. È la ragione per
cui il solo nominare una di queste svolte deirinconscio che fanno parte
delia nostra strana avventura umana, provoca tali capovolgimenti (che
sono allo stesso tempo intimi, individuali e politici); ê la ragione per cui
noi, coscientemente o no, cerchiamo di salvarci da tale nominazione. Chi
è chiamato "sposo” da una donna, è il padre, il figlio, oppure egli-madre?
Chi governa il paese, è ii padre o il figlio? La guerra che divide il mondo
m due metà ê una guerra tra il. padre ed il figlio, oppure é una guerra tra
il padre arcaico = una specie di madre, e il figlio geloso. E ie donne?
Nei nostri tempi appassionanti su tutti i fronti politici, dove indubr
blamente c'è una lotta aperta e coperta con i misteri delia differenza ses­
suale, in quanto donne siamo alla mercé obbligatoria delle semplifica­
zioni. Per difendere ie donne siamo obbligate a parlare nei termini fem­
ministi di “uomo” e di “donna" Se cominciamo a dire che quella tale
donna non ê interamente o per niente donna, che questo “padre” non
è un padre, non possiamo più batterci perché non sappiamo più chi ci
Sta di fronte, È cosi distruttivo, talmente destabilizzante, che chi è con­
sapevole della posta in gioco, si trova spesso spinto verso una forma
d’interdetto. Solo postumi possiamo permetterci di mettere in dubbio
la terra, di far tremare ia terra.
80 Hélène Cixous

J fiuei personaggi - Clarice, Jngeborg Bachmann, Kafka, Dostoevskij,


Thomas Bernhard, Manna Cvetaeva - lo hanno fatto nella scnirurci. Per­
che ho cominciato ad amare Cvetaeva cosi tanto? Perché negli anni trenta
scrisse d’essere nata dal ventre di Puskin. E pur tuttavia sapere troppo e
troppo presto può condurre alPalbero cui impiccarsi, perché si é troppo
sole.
Queste persone hanno attraversato la tempesta evocata da Cvetaeva
alPinizio di “Puskin e Puchagev” e che soffia nella scena d’apertura di La
figlia chi Capiiauo M. Questo paesaggio turbolento é la nostra bufera in-
tenore, l’alzata del sipario delPinconscio. Il mondo è bianco, ci siamo per­
si, c’è un gran vento, e laggiù al fondo c’è un puntino nero. Ci domandia­
mo cosa sia.
Queste persone ci hanno accompagnato nella tempesta “verso le
profondità”, dove non vediamo chiaramente ciò che vediamo, per sco­
prire ula cosa sconosciuta più conosciuta”
Questa cosa sconosciuta più conosciuta diventerà per Puskin e per
Cvetaeva un personaggio strano e meraviglioso che in realtà era
Pugachev, l'impostore, e che in verità è il personaggio tipico della no­
stra scena segreta, la persona che ci ama e che ci uccide. Amare e ucci­
dere sono assolutamente indissociabili. La sola persona che può ucci­
derci è chiaramente la persona che ci ama e che noi amiamo.
Le nostre guide - Cvetaeva dice d’essersi immediatamente inna­
morata della parola “Guida” - ci conducono sulla strada dove saremo sia
spettatori che attori della famosa scena del delitto. Solo poeticamente e
nell'immaginario possiamo avvicinarci a questi luoghi di fuoco.
Siamo tutti uccisori del cane che sei, uccisori d'altri. Ê semplice­
mente una questione di designare la scena o le scene d'abbandono che
segnano i nostri cammini» cosi che esse possano essere immaginate. Sia­
mo abbandonati e abbandoniamo. L’uomo di Clarice dice al cane, che
non è più là: "Sei diventato subito un essere abbandonarle”

iS (Dì nuovo, ii riferimento bibliografico del testo inglese è a ‘il mio Pushkin"
(Cvetaeva, 1991). Crediamo di poter emendare la possibile confusione - vedi nota 23-]
Tre Passi sulla Scnla della Scrittura 81

Quando raggiungiamo l’ora in cui diremo d’aver ingannato itati


nella vita pur di mantenere in vita ciò che chiamiamo vita? Non lo so.
Andiamo alla Scuola dei Morti per ascoltare una piccola pane di ciò che
non riusciamo a dire. È la ragione per cui abbiamo bisogno dei libri che
ci feriscono. Spesso, però, siamo nella situazione che Kafka descrive nel
passo intitolato “Della morte apparente” l’esperienza di passare dall'al-
ero lato, dì Mosè sul Sinai, delle persone che muoiono di mone appa­
rente e che poi ritornano (Kafka, 2000, 1010). Mosè ndiscese. tornò dal
suo popolo. E tra quelli che sono morti in apparenza e che si sono poi
rianimati, non uno si è espresso suH’esperienza, anche se avremmo vo­
luto sapere cosa è successo.
Scrivere è il mezzo delicato, diffìcile, e pericoloso per riuscire a
confessare l'inconfessabile. Ne siamo capaci? È il mio desiderio. Anch*io
vorrei morire; anche se ciò non vuol dire che ci sia riuscita. Faccio il ten­
tativo. Per il momento non ci sono riuscita. Nel frattempo, faccio la co­
sa più vicina: per avvicinarmi ai luogo dove posso smentire e apparen­
tarmi - come sogna Clance - con il morente, vado all’altra scuola, la più
vicina, quella che più somiglia alla Scuola dei Morti, la Scuola dei Sogni,
Domani, stanotte, noi che siamo sfortunatamente immortali, an­
dremo alla Scuola dei Sogni.
LA SCUOLA DEI SOGNI

Un sogno di Kafka
Chi (cosa) non ci riguarda/ Non è affar nostro
Fissando a lungo il viso di Dio
La Scuoia dei Sogni è situata sotto il Ietto
Sognando nel 1990
Sogni, Produzione, Creazione
I
Il gusto dei segreto
II sogno ci insegna “it puro elemento della paura"
Come possiamo finire un libro, un sogno?
Mi piacciono gli scrittori da sogno
Li stona dei miei sogni
Viaggio ai sogni più vicini
Cosa dobbiamo fare per andare alla Scuola dei Sogni?
j Riprendo In mia ascia. Apriremo un senuero attraverso ia foresta.
Avanzando alla luce dell’ascia.
Riscrivo la mia FI. La mia scala dì scrittura.
La Scuola dei Sogni? Come arrivarci? Non a sj può andare per la
strada della città, né a piacere, e neanche con l’autobus.
È sempre temibile domandarsi se si può andare alla Scuola dei So­
gni. C’è qualcosa nel utolo “La Scuola dei Sogni" che ci gioca: una spe
eie di gioco spiazzato del gatto e del topot con il topo che ha un gran
desiderio d’essere mangiato. L’andare alla scuoia dei sogni si prende
gioco di noi.
I Sogni cj attendono in un paese per il quale non si possono com
prare biglietti. Se dico: "Voglio andare alla Scuoia dei Sogni”, ci sono tin­
te le possibilità che i sogni nn dicano: "Puoi sempre correre", senza che
io raggiunga mai i sogni.
Oggi ho fatto due atti mancati: ho dimenticato di portare due testi.
Uno è L'interpretazione dei sogni di Freud l’altro è Mandel'sumi: L'o­
pera critica completa di prosa e lettere (1979), un testo che "non leg­
go ” Forse alla Scuola dei Sogni si lavora anche con la mancanza, l’as­
senza, l'omissione. Non ho dimenticato, però, // segreto di Clarice
Lispector (1999). Ecco un libro che “leggo’', ma che non ho mai Unito di
leggere. Non faccio sforzi né per leggerlo né per non leggerlo. Lo lascio
essere, è nella stanza, ê là, spesso non lo leggo e, nel frattempo, oscu-
Hélène Cixous

ramente irradia. È una forma di lettura (cosi si va alla Scuoia dei Sogni,
facendo un'enorme deviazione). C'è qualcosa di straordinario nel rap­
porto che abbiamo con i libri. Il libro é ia Porta, il Sogno fatto dall’altro
che non ci scappa, che ci sogna e ci aspetta. La cosa magnifica con i li­
bri è che possono aspettarci. È cosi che il segreto nn aspetta, ed io non
ho fretta. Mi dà tempo- E un mistero della scrittura. Non tutu i libri ci
danno tempo. Il segreto dà tempo perché è esso stesso scavato nei tem­
po, talmente ricco e folto, tanto sfogliato da essere sostanza pura di
scrittura. Non ci racconta una stona, ci fa sentire, gustare, toccare una
vita, la vita. È là come una persona immobile, eterna, piena, Ja cui infal­
libile caratteristica produce qualcosa di perennemente strano: la pa­
zienza , con o nonostante il desiderio. Non ho finito di leggere il segre­
to, io sto leggendo, e in questo wsto" esistono passaggi di non-iettura nei
quali il libro continua ad emettere i suoi raggi.
Lo stesso vaie per il libro Mandel’stam: L'opera critica completa
di prosa e lettere, questi due libri rappresentano per me i due poli dei­
la scrittura.
Non c’è lettore più grande di Mandel’stam. La maggior parte dei
poeti legge in segreto, dandosi di rado alla lettura; Mandel’stam é inve­
ce un lettore sublime ai quale si deve il fatto d'elevare ia lettura all'al­
tezza della poesia, facendone un’arte equivalente.
Riferiamoci di nuovo alle prime frasi della lettera di Kafka. Ecco il
segreto:

Bisognerebbe leggere, credo, soltanto i libn che mordono e pungono- Se il li­


bro che leggiamo non ci sveglia con un pugno sui cranio, a che serve legger­
lo? (Kafkn, 1996, 26).

Chi vuole scrivere deve poter raggiungere questa regione folgorante


che vi toglie il respiro, dove siete istantaneamente spaesati, voi che leg­
gete, voi che scrivete, dove si sono rotti tutti gli ormeggi dei già-scntto,
del gìà-conosciuto. Questo “pugno sui cranio" dì cut parla Kafka è il coipo
sulla testa dei morto, della morte che siamo. Il risveglio tra i mortt.
Non posso farne una ricetta, perché nei momento in cui si comin­
cia ad inscrivere segni, ad attirare l'attenzione, si distaigge. Quindi, tut­
Tre Passi sulla Scala della Scrittura 87

to ciò cJie vi dico, bisogna che lo ascoltiate cosi da assorbirlo, da farlo


passare nel sangue, senza pensarlo ma vivendolo.
Tutti i grandi testi iniziano in questo modo che wnipe: con le no­
stre abitudini di pensiero, con il mondo intorno a noi, in una violenza
estrema doni ta alla rapidità. Essi ci scagliano aH’estero. L'inizio di que­
sto testo di Mandel’stam è la lezione assoluta:

Erba sulle strade di Pietroburgo - i primi germogli di una foresta vergine che
copriranno il sito di città moderne. Questo intenso, tenero verde, straordinario
nella sua freschezza, appartiene ad una nuova natura ispirata (Mandei'statn,
1979, 112).

Non ê dato a tutti d’aver accesso a questo altro mondo in cui vivo­
no i morti ed i morenti. Non tutti siamo invitati dai morti, la più saggia
delle compagnie. Se non possiamo arrivarci morendo, allora andiamoci
sognando.

Un. sogno di Kafka

Sono stato ospite presso i morti. Era un gran sepolcro lindo, dove c erano già
alcune bare, ma c era ancora molto spazio. Due bare erano aperte e facevano
pensare a due letti sfatti da cui qualcuno fosse appena uscito. C’era poi uno
scrittoio, ma un po’ in disparte, talché non mi accorsi subito che c era seduto
dietro un uomo dalla corporatura gigantesca. Nella destra teneva una penna,
pareva che stesse scrivendo e sì fosse interrotto proprio allora; la sinistra gio­
cava, sui suo panciotto, con una catena d'orologio scintillante, e la testa ie
s’inchinava profondamente incontro. Una serva stava scopando, ma non c era
niente da scopare (Kafka, 2000, 855).

Questo sogno continua a lungo, ed é un'avventura completa che


Kafka ci racconta, tutta una vita dai morti. Seguiamolo.

Della morte apparente


Chi ha subito una volta la morte apparente può raccontare le cose più terribi­
li, ma non può dirvi che cosa c‘è dopo la morte, in realtà non si ê nemmeno
avvicinato alla morte più di un altro, in fondo ha soltanto “vissuto” un'espe­
rienza particolare che gli è servita a rendergli più preziosa la vita non panico-
88 Hélène Cixous

lare, quella comune. Più o meno lo stesso accade a tutti coloro che hanno vis­
suto un’esperienza particolare. Mosè, ad esempio, sul monte Sinai ha certo
vissuto un'“esperienza particolare” , ma invece di abbandonatasi, come po­
trebbe fare un morto apparente, che non dà segni di vita e resta disteso nella
cassa, egli è scappato giù di corsa dalla montagna e aveva certo da raccontare
cose inestimabili e amava gli uomini, presso i quali si era rifugiato, ancora
molto di più di prima, e in seguito ha loro sacrificato (a sua vua, si potrebbe
quasi dire per ringraziamento. Da entrambi, però, dal morto apparente che
torna come da Muse che ritorna, si può imparare molto, ma non la cosa deci­
siva, perché non ci sono arrivati nemmeno loro. Se ci fossero arrivati, infatti,
non sarebbero tornati più. Del resto non vogliamo arrivarci nemmeno noi. E
ce lo prova il fatto che, ad esempio, potrebbe anche venirci il desiderio di vi­
vere l’esperienza del morto apparente o quella di Mosè (avendo però il ritor­
no assicurato, quasi un "salvacondotto”), che ci avviene persino di desiderare
ia morte: ma neppur coi pensiero vorremmo restare vivi dentro la bara senza
possibilità di ritorno, oppure sul Sinai... (ibid., 1010).

Questo testo mi ha sempre affascinata; evoca quei fenomeno dIn ­


decisione per cui non si sa se una persona sia morta o viva, ma ia si
prende per morta. Kafka ci dice cose molto importanti al riguardo, mar­
cando, allo stesso tempo, i nostri limiti.
Kafka ci dice, m modo complesso, dell'incapacità di desiderare ciò
che desideriamo - il segreto. La nostra difficoltà, la nostra incapacità.
Non siamo capaci di divenire cittadini dell’altro lato, preferiamo morire
su questo lato piuttosto che neU’akro; è quanto capita a Mosè, come di­
ce lui stesso m modo comico: una volta arrivato sulla montagna, Mosè
non pensa che a correre giù tra gli esseri umani, sino al punto di sacrifi­
care la vita per loro - quella vita che non ha osato perdere lassù.
Come fare per avvignarci a un luogo dove si aprono le porte che
ci permettono di passare dall1altro lato; come dice Clance ne U segreto,
“ Uscire dai limiti della sua vita” (Lispector, 1999, 73)

1(Il senso tPusduT coinvolge, in pnmo luogo, il “sapere" "Il movimento princi­
pale e generale è uscire: uscire dalla logica dei due campi, uno di fronte all'altro, dalle
fortezze, dalle cittadelle dei .sapere teorico, per intravedere il campo aperto dove gli in­
contri possibili sono incalcolabili" (Sein, 2000, 81). I
Tre Passi sulla Scala delia Scrimini 89

Possiamo sperare di avvicinarci a ciò che non possiamo dire senza


morire di paura tramite la Scuola dei Sogni. Ciò che ci fa fuggire, che ci
; spinge a correre giù per la montagna, che nessun uomo, nessun profe­
ta potrebbe mai fare, é guardare in viso Dio. È una metafora. Guardare
.ciò che non va guardato, che ci impedirebbe d'esistere, di continuare a
vivere ie nostre vite ordinarie, domestiche, ciò che chiamo, al meglio o
ai peggio: "la verità”

Chi (cosa) non ci riguardai Non è ajfar nostro

Ciò è quanto ci racconta Clance Lispector in un testo chiamato


‘Amore" dove una donna, Ana, si arrende casualmente ai viso di Dio, in
un episodio straordinariamente eloquente. Ana è in un tram, porta una
sacca delia spesa, ha tutti i tratti distintivi della casalinga, nella sporta ci so­
no delle uova, e t nella testa di Ana, simile a un cesto pieno di uova, ci so­
no le uova della sua vita; durante il giorno, contempla a fuoco lento la sua
vita ordinaria; possiede tutto quello che serve: un manto, i bambini, i mo­
bili, ecc. In questo momento, senza volerlo, ella vede il viso di Dio, in una
visione istantanea, insopportabile, ammirevole: cioè vede un uomo cieco
al Iato del marciapiede, il che fa esplodere le uova. Vede (è più complesso
ancora) un cicco che non è soltanto cieco, ma che mastica gomma. Que­
sto ê il segreto di questa scena potente pur cosi leggera: il cieco mastica.
Il cieco: colui che non ci vede guardarlo* Noi che siamo guardati.
Noi che viviamo, mangiamo, desideriamo, mentre siamo guardati. Noi
che siamo osservati osservatori. Ma che non ci vediamo mai mentre sia­
mo guardati, né in che modo siamo visti. Noi che non sappiamo d'esser
ciechi e masticanti.

Fu a quel punto che vide l’uom o immobile alla fermata. La differenza tra lui e
gli ahn consisteva nella sua assoluta immobilità. Stava rn piedi, ninni protese
in avanti. Era un cieco.
Cosa fu mai che suscito m Ann tanta inquietudine? Stava accadendo qualcosa
di inquietante. Allora vide che il cieco masticava gomma... Un uomo cieco ma­
sticava gomma.
90 Hélène Cixous

Per la frazione di un secondo Ana ebbe ancora il tempo di ricordare che i fra­
telli sarebbero venuti a cena - il cuore (e batteva violento, cadenzato. Protesa
m avanti, guardava profondamente il cieco, cosi come si guarda ciò che non si
vede. Lui stava masticando gomma nell'oscurità. Senza sofferenza, con gli oc­
chi aperti, i movimenti della bocca, mentre masticava, disegnavano sulle sue
labbra una specie di sorriso, poi di colpo smetteva di sorridere, sorrideva di
nuovo e nuovamente smetteva di sorridere - Ana lo guardava come se iui l’a­
vesse insultata. Se qualcuno l'avesse osservata in queiristante, avrebbe avuto
l’impressione di una donna carica di odio (Lispector, 1999, 18).

Vi lascio riflettere su cosa è rivelato in questo passaggio, cosa, nel


bagliore, porti un tal colpo, colpisca Ana, faccia cadere inesorabilmente
la lama dell'ascia... Ecco: Ana vede i! viso di “Dio”. Si può morirne, si
può anche sopravvivere. Ana ê ferita, lacerata. Alla fine del testo richiu­
de ciò che é stato aperto. Che sarebbe potuto non essere richiuso: m un
altro racconto "L'imitazione della rosa” , il personaggio non richiude
(Lispector, 1999).

Fissando a lungo it viso di Dio

Ciò che possiamo sperare alla Scuoia dei Sogni è d’avere la forza
sia di gestire che di ricevere il colpo d’ascia, di guardare dritto il viso di
Dio, che non è nitro che il mio proprio viso, ma nudo, ii viso della mia
anima. Il viso di "Dio” ê lo svelamento» la visione vertiginosa della co-
struzione d ie siamo, le piccole e grandi bugìe, le piccole noivventà che
dobbiamo tessere incessantemente per preparare la cena dei nostri fra­
telli, cucinare per i nostri bambini... Svelamento che si produce solo a
sorpresa, per caso, e con una brutalità fracassante: sotto ii colpo della
venta, il guscio d'uovo che siamo si rompe. Proprio nei mezzo dei cam­
mino della vita: l’apocalisse; noi perdiamo una vita.
Con mia sincera sorpresa, che non è altro che il prodotto di una
forma di cecità, ho capito in tempo che gli scrittori che amavo sono tut­
ti del tipo morenti-veggenti. Ciò che anche unisce questi scrittori é d ’a­
ver scritto, come amo dire, alia luce dell'ascia : tutti hanno osato seri­
Tre Passi sulla Scala delhi Scmturn 91

vere il peggio, osato “frangere il mare gelato”, come dice Kafka, rompe*
• re i gusci (coquilles) delle uova, gli scafi (coques) delle barche; tutti
: hanno osato schiantare i crani, i propri crani, e far ritorno nella foresta.
: .Queste cose si compiono per mezzo di separazioni violente, perdite, ed
! una buona fortuna - senza la quale saremmo molto limitati; siamo ca-
; paci di far ciò alla Scuola dei Sogni. DovTè situata?
La Scuoia dei Morti è dietro il muro.

La Scuola dei Sogni è situata sotto il ietto

Ho un vago ricordo da un racconto di Grimm, apparentemente ìn-


•genuo, di un re mandato in rovina dalle figlie. Le teneva rinchiuse con
; cura, come si deve, senza capire perché avessero bisogno di cambiarsi le
:■scarpe ogni giorno. Le figlie consumavano le scarpe in modo nusterio-
V so. Fino al giorno in cui il re assoldò una spia per gettar luce sulla vì-
■: cenda. Al cader delia notte, le figlie spingevano di lato il letto, sollevava­
no un chiusino, scalavano la scala fin sotto al palazzo, uscivano nella fo­
resta e danzavano tutta la notte. Può darsi che non sia una versione del
■ tutto accurata; non importa, è Ja metafora perfetta per la Scuola dei So­
gni, riunendone tutti gli elementi, inclusa la jouissance. Tratta del fare
ciò che é proibito: il piacere sessuale. C!è anche l’usura delle scarpe che
mi piaceva cosi tanto da piccola, senza capire perché. Ora so il perché
molto meglio, e dedico questo racconto a Mandel'stam.
Mandefstam si chiede molto seriamente m “Conversazione su
Dante” quante paia di scarpe deve aver consumato Dante per scrivere
La Divina Commedia, perché, ci dice, quest'opera non poteva esser
:scritta che a piedi, camminando senza sosta, che è poi anche il modo in
cui scriveva MandePstam (1979, 400). La totalità del suo corpo era in
azione, partecipava, cercava2. La passeggiata, la danza, lajouissance ac-

■[L’immagine è in Manne (Cixous, 1988): «Pour bien courir lous les sentiers de
. TEnfer de ce siècle, combien de souliers me foudni-t-il user, se domandali Osip,
avançant juste derrière Alighieri, ne lâchant pas le maître d’une semelle, maintenant
92 Hélène Cixous

compagnano Tatto poetico. Il poeta che non consuma le scarpe, che


scrive con la testa, non so chi sia. Il vero poeia è un viaggiatore. La poe­
sia riguarda il viaggio a piedi e tutti 1 suoi sostituti, tutte Je forme di tra­
sporto3
Mandel'stam consumava centinaia di pam di scarpe. Non si può
scrivere una poesia cosi intensa, cosi densa, senza quella danza che vi
danza intorno aJ mondo. Mandel’stam non poteva scrivere senza cam­
minare in tondo. Quando gli fu impedito di camminare, mori.
Cosi, forse, sognare e scrivere riguardano effettivamente l’attraver­
samento della foresta, il viaggio per il mondo, usando tutti ι mezzi di tra­
sporto disponibili, usando iJ corpo come forma di trasporto. Viaggiato­
re, un bellissimo resto di Hofmannsthal, racconta la storia di un viaggio
attraverso le terre greche e turche, dove il narratore incontra uno stra­
no viaggiatore. Sembra che questo uomo abbia camminato per secoli,
non e mai chiamato per nome, ma quando avete vissuto nella terra dei
poeti, lo riconoscete immediatamente: è Rimbaud. Per incontrare
Rimbaud, bisogna camminare fino airAustria, fino a quella Grecia che è
nascosta in Austria; viaggiare al cuore del paese deIirinconscio, dove for­
se ritroveremo quei paesi che abbiamo perduto, inclusi l'Algeria e il
Giardino d’Essais4 Per farlo, però, c’è da camminare, usare il corpo in-

ciu'il avait un pa&sporc pour h Cité Dolerne-. Per le scelte stilistiche della traduzione in­
glese di questo passo, vedi MacGillivniy, 199-i, L1V.]
' |Casi la metafora, la relazione di transferenza, la transe (MacGillivray, 1994,
XVI), ma anche la pmura e In musica. Nadia Setti commenta: *«ùi pittura o la musica non
sono tanto considerate come metafore della scrittura ma come mezzi di trasporto, for»
me di passaggi, poiché la domanda soggiacente e talvolta dolorosa è come trasportare
e trasportarsi da una realtà corporea a un'altra, da un essere concreto ad un altro di-
vm im em e cosmiuto (Sem, 2000, 81). Per fornire solo due esempi della capacità di
lettura del passaggio "pittorico", si veda “Sans Arrêt, non, Bat de Dessi nation, non,
plutôt: Le Décollage du Bourreau’* (Cixous, 1991) e “Bethsabée ou la Bible intérieure’*
(Cixous, 1993). Per l'attenzione alla musica, rimando ad uno dei possibili infinii ì mie*
ressi di Cixous: Le nom ci'O edipus : Chant du corps interdit, libretto, des femmes, con
musica di Antiré Boucourechliev, direno da Claude Régv, ai Festival d'Avignon, 1978.|
“* (Impossibile tentare di seguire le risonanze della presenza ilei ‘■giardino” nel*
l'opera di Cixous; rimandiamo al breve ma splendido testo Un vraijardin (1971/1998),
e a Le troisième corps (1970/99) nel commento di Mireille Calle-Gruber, "Corpo/corpi
della differenza sessuale” (2000, -19-50): «Perché è innanzitutto un modo di abitare “il
Tre Passi sulla Scala della Scrittura 93

cero per farne lu possibilità d ie il mondo s ì incarni, proprio come acca­


de nei sogni. Nei sogno e nella scrittura il corpo è vivo: usiamo il corpo
intero oppure, dipende dal sogno, una parte. Bisogna intraprendere un
viaggio corpo-a-corpo per scoprire il corpo.
In 'Amore” l’evento è inscritto dai mezzi di trasporto. Ana è tra­
sportata, è sui binari, in un tram, che è un mezzo di trasporto come fat­
tore d’immobilità: il tram la porta, lei non si muove, e, dinanzi a lei, ve­
de il cieco assolutamente immobile. È effettivamente una questione di
dislocamento.
Per andare aila Scuoia dei Sogni, qualcosa deve essere spostato, co­
minciando dal letto. Iniziare a muoversi. Scrivere è: mettersi in marcia. At­
tività e passività. Il che non significa che si arriverà. Scrivere non è arriva­
re; la maggior parte del tempo é noti arrivare. Bisogna andare a piedi,
col corpo. Bisogna andar via, lasciare il sé. Quanto bisogna non-arnvare
per scrivere, quanto bisogna errare e consumare e godere? Camminare fi­
no alla notte. La propria notte. Camminare attraverso sé verso l’oscurità.

Sognando net 1990

M ìo figlio non è più grande di una larva . È la ragione per cui


quasi lo dimentichiamo, il mio sogno e io, non ci crediamo troppo.
Dove vive? Per il momento, tra i fo gli di un libro. Corre iunior rischio
di perdersi qui. Diversamente, rischia d'essere schiacciato, se si poggia
qualcosa sul libro. Se non per questo* tra i fogli, riposa senza grande
difficolta. Qual è Vavvemre di una simile larva? Ben poca cosa. Vege-

giardino", vale a dire la terra, che viene qui evocato: un abitare plurale a due o più di
due, di una “umanità corrente” altrimenti detta mortale, luMci, nella loro umilia di
"vermi0, destinati a ritornare polvere. Scena paradisiaca deli'Eden...». In Cixous & Calle-
Gruber (199-0. *1giardino m cui avviene rincontro tra le due studiose diviene il "luogo
delle relazioni, relazioni di colon, di specie diverse insieme, tra il vegetale e rumano, la
relazione al fenomeno della crescita, della preservazione" Vorrei indicale una possibile
fioritura del giardino d'Essais, come indicata da Conley (1991, 116): «essais: esse, et c ’e-
st, et sait, die sais, (Hjél.C».\
Hélène Cixous

tare. Se rimane di questa dimensione. Ma ecco che, molto lentamente.


prende una qualche sostanza. Senza dubbio è il risultato dei miei
sforzi: lo porto fu o n a volle, io metro su un tetto, oppure fu ori , perché;
rfopo tuttOf ha diritto al mondo e sembra propendere verso la vita. V?/-
w rw e //pencolo che qualcuno lo schiacci inavvertitamente. A poco a
poco, guadagna anche in intelligenza. Comincia a pensare, rtri essere
felice . ìì divenire un vero essermo vivente. Ovviamente è in considere­
vole ritardo. perché è da mesi che esiste in questa forma. Ma eccolo
ben deciso a guadagnare il tempo perduto. E ora io spio che corre , es­
sendo sceso per le scale, cbe scala spigoli pericolosi. Sono preoccupa­
ta perché non sa cos'è il pericolo.
Sento una felicità, un amore per la mia larva che esce dal suo
stato crepuscolare. Vedere la vita “cristallizzarsi" è una taie benedi­
zione. Improvvisamente, è ia discesa tra grossi massi rossia bordo di
un 7axi" invisibile cbe gira mille volte ni tondo nei circolo dei massi,
come se non et fosse via d'uscita. Ma di fatto f ce n'è un a 5

s {Il riferimento alla "larva*’ ritorna ne “Il libro personaggio del libro” (Cixous,
2001, 2): *i.e larve provocano in noi una leggera ingiusta repulsione come tuue le re*
pulsioni leggermente giustificate: c il nostro difetto d’anima, ìi nostro gusio acquisito
per il definito, il situato. Una larva - una larva di insetto non é questo, non ê quello, è
una forma embrionale tipica degli insetti che appunto non sono questo e non sono
ciucilo, come la blatta nmnemonale sulla quale l’intera vita di G.H. finisce coJ fracassare
la sua chiglia. Quelle cose, blatte, larve, le temiamo, affascinati. Ma prima che la lingua
francese designasse con larva uno stadio intermedio nella genetica degli insetti, abba­
stanza tardi, nel IR* secolo, poma dì pos?rsi su queste cose-esseri, mezzi sepolti, per
meta immersi, abbastanza tardi, fa parola larva si aggirava per le case. Le larve erano al­
lora gli spirili dei morti, che perseguitavano i vivi, gli spiriti in latino. L'origme di larva è
tur. Se fossi Edgar Poe direi: è l ’arte (t'arf). Li si chiamava dei, questi lari, tutelari dei
focolari tIella vita romana, incaricati della protezione dei vivi che avevano dapprima, in
quanto spiriti dei morti, perseguitato. Un, larve, antichi spiriti infernali, trasformati nel
loro contrarlo da queirambi valenza descritta da Freud. Ma non si dimentica mai la mi*
nnccia. Si chiede proprio a chi si teme dì proteggere il delicato foro interiore. Si prega*
no i morti rii custodire la vita, si tutto ciò che è larva è sia buono che cattivo vivente e
morente attira perché respinge, spaventa perché seduce inesplicabilmente. In questi
tempi larvali non conoscevo ancora il concetto di UnhefttilicO ma ne facevo molto spes­
so l'esperienza. Per le larve mio malgrado, a dispetto della mia repulsione, avevo in me
un Faible (debole) come si dice in tedesco (si noti che un “Faible’’ ù sempre una os*
sessione, uno spirito/corpo estraneo che non si riesce a rifiutare nel focolare mentale,
Tre Passi sulla Scala della Scrittura 95

Questo è il ritratto dei mio primo sogno scritto.


f
Ritornerò con la mia scala al primo sogno dei sogni, quello che tut­
ti conoscono - tranne quelli che non sono dì cultura giudeo-cristiana,
cioè - il sogno di Giacobbe. All’origine di questa stona, c’è l’intera que­
stione della genealogia di Giacobbe. Ci sono i due fratelli, Giacobbe e
Jìsaù, e il padre Isacco, il figlio d’Àbramo. Immaginiamo d’essere il gio­
vane Giacobbe. La genealogia parentale fornisce uno sfondo* Λ partire
da Abramo, siamo costantemente in uno spazio dove il Bene e il Maie si
intricano incessantemente. Eventi violenti cospargono la biografìa dei
personaggi. In seguito, come in un romanzo, veniamo dal piccolo Isac­
co che avevamo lasciato sulla montagna, progrediamo nella stona, e tro­
viamo un Isacco del tutto diverso. La Bibbia, come il sogno, ci porta
sempre il senso violento delle generazioni. Viviamo aggrappati grotte­
scamente al livello della nostra età, spesso con un rifiuto enorme di ciò
che ci ha preceduto: quasi sempre ci prendiamo per la persona che sia­
mo nel momento attuale delle nostre vite. Non sappiamo pensare - e
esattamente lo stesso vale per ia morte - a ciò che ci è m serbo. Non
sappiamo pensare all’età; ne abbiamo paura e la reprimiamo.
La scnttura ha come orizzonte questa possibilità, spingendoci ad
esplorare tutte le etti. La maggior parte dei poeti sono bambini salvi:
persone che hanno conservato la loro infanzia viva e assolutamente pre­
sente. Ma la cosa più difficile per l’essere umano è pensare in avanti,
metterci nei panni di coloro i quali non siamo stati ancora. Da qui la dif­
ficoltà di riflettere su ciò che è dietro ia barriera della "terza età” . La Bib­
bia fa si che possiamo vivere lungo tutta la scala delle generazioni. Con
la Bibbia saliamo e scendiamo attraverso le generazioni, lì bambino che

io si accusa e lo si accetta). Avevo dunque mio malgrado e a causa dei miei morti in me
- mio padre e il seguito innominabile - un "Faible" (pronunciato Febettl in tedesco; per
le larve, genia di larve, cose-esseri il cui stato transita tra due stati. Perchè le larve non
sono embrioni all'interno dei corpo materno, conducono una vita libera, néquestone-
quello, fuori dall'uovo, e questo che mi inquieta, non sono ancora ma già». Vedi l'inter­
pretazione, all’interno della problematica del “dono'1e della “differenza sessuale’*, del
sogno di H.C. di una "formica*’ da parte di Jacques Derrida (199;i).f
96 Hélène Cixous

abbiamo trofico ien nella polvere, eccolo nel capitolo seguente, vec­
chio, barcollante e cieco. Chi sognerà cjuesto famoso sogno è il figlio
speciale di un padre cieco, un uomo assai particolare. C’è l’ascensione,
quel movimento che ci procura il senso che gli esseri maturano e cre­
scono. Ma sono uomini» così deperiscono. Non sono buoni: a volte so­
no buoni, altre volte sono cattivi. Non esitano davanti alle gesta più in­
classificabili, e sono accessibili a tutto ciò che, nel gelo della nostra im­
maginazione, farebbe cadere un personaggio fuori da una scena "nobi­
le” La storia della gioventù di Mosè, ad esempio, è stupefacente. Non
c'è uomo più ordinario di Mosè; dentro di sé attraversato da tutti i tipi
di passioni inaspettate, il nostro Mosè è stato per secoli il Mosè di Mi­
chelangelo, e non il Mosè della Bibbia. Il Mosé della Bibbia si taglia ra­
dendosi. Ha paura, e un bugiardo. Combina una varietà di cose sotto la
tavola prima d’essere Lassù con le altre Tavole. È ciò che il mondo oni­
rico della Bibbia ci rende evidente. La luce che bagna la Bibbia ha il co­
lore crudo e senza vergogna della luce che regna sull'inconscio. Siamo
noi che, in seguito, trasformiamo, spostiamo e canonizziamo la Bibbia,
la dipingiamo e la scolpiamo diversamente.
Per iniziare, Giacobbe parte. Troviamo sempre la partenza connes­
sa ai sogni decisivi: il ietto è spostato. La natura del sogno, in cui o da
cui sogniamo, è importante. Potremmo dover lasciare il nostro letto
proprio come un fiume fuoriesce dal suo. Forse lasciare il letto legittimo
è una condizione del sogno. Giacobbe parte, dopo un episodio in cui
deruba il fratello maggiore Esau del diritto di nascita, ingannando il vec­
chio cieco Isacco con l’aiuto della madre. Al che, il vecchio Isacco scac­
cia Giacobbe fuori dal paese, verso un altro ramo della famiglia. Lo al­
lontana e, allo stesso tempo, lo spedisce a vivere la sua vita d’uomo or­
dinano, che si sposerà, ecc.. Cade la notte, Giacobbe è all’estero.

Gincobbe pani da Bersabea e si diresse verso Carran. Capitò cosi in un luogo,


dove passò la notte» perché il sole era tramontato; prese una pietra, se la po­
se come guanciale e si coricò in quei luogo. Fece un sogno: una scala poggia­
va sulla terra, mentre In sua cima raggiungeva il cielo; ed ecco gli angeli di Dio
salivano e scendevano su dì essa (Gn, 28, 10-12).
Tre Passi sulla Scala della Scrittura 97

Nella mia versione, inscritta per sempre nella stanza dei sogni, vedo
sempre la stessa cosa: la scala e il movimento degli angeli in ascesa e di­
scesa. Ero particolarmente deliziata da questa folla di angeli discendenti.
Permettetemi di ritornarci, È il ritratto del primo sogno della mia vi­
ta: é figurativo, per me è una scala con uno scalino. Gli altri sarebbero in­
ventati da quelli che salgono e scendono la scala. Avrete probabilmente
indovinato che è Ja figura delia scaia di Giacobbe. Da piccola sono stata
introdotta ai sogni dalla scala di Giacobbe. Il passo arriva presto nella
Bibbia, nel libro della Genesi. Mi sono sempre rallegrata, quando m se
guito sono cresciuta fuori dal Giardino, che questo sogno arrivi presto
nella Bibbia, che la Bibbia inizi a sognare in fretta; mi sono appropriata di
questo sogno. Ne ho conservato una versione tutta mia, e solo in segui­
to ho capito, rileggendo il libro, controllando e cercando ia scoria, che
avevo lasciato cadere alcuni elementi che non mi interessavano. Mante
nevo solo Giacobbe, la scala, e la pietra - un elemento era scomparso
completamente dalla mia memoria: Dio. Lasciate che rilegga il passo:

Giacobbe parti da Bersabea e si diresse verso Carran. Capitò cosi in un luogo,


dove passò la none, perché il sole era tramontato; prese una pietra, se la po­
se come guanciale e si coricò in quel luogo. Pece un sogno: una scala poggia­
va sulla terni, mentre la sua cima raggiungeva il cielo; ed ecco gli angeli di Dio
salivano e scendevano su dì essa.

Mi fermavo qui. Per me era tutto. Ciò che nn piaceva particolar­


mente era il fatto che gli angeli andassero su e giù. Se avessi letto una
versione di angeli ascendenti al Cielo, non me ne sarei interessata. Ciò
che mi interessava era il loro discendere. Ma la stona continua:

Ecco il Signore gli stava davanti e disse: "Io sono il Signore, il Dio di Àbramo
tuo padre e il Dio di Isacco. La terra sulla quale tu sei coricato la darò a te e
alla tua discendenza. La tua discendenza sarà come la polvere della terra e u
estenderai a Occidente e ad Oriente, a settentrione e a mezzogiorno, li saran­
no benedette per te e per la tua discendenza tutte le nazioni della terni. Ecco
io sono con te e ti proteggerò ovunque tu andrai; poi ti farò ritornare in que­
sto paese, perché non u abbandonerò senza aver fatto tutto cjuello che t’ho
detto” . Allora Giacobbe si svegliò dal sonno e disse: "Certo, il Signore: è in
questo luogo e io non lo sapevo" Ebbe umore e disse: “Quanto ë tenibile
9B Hélène Cixous

questo luogo! Questa è proprio ia casa di Dio, questa e ia porta del cieio" (Gn,
28, 13- 17).

Come ho detto, avevo dimenticato Dio. Rileggendo, mi é piaciuto


il fatto che Dio sia nel sogno. Non è fuori dal sogno. É dentro il sogno.
La Bibbia continua in un modo taie da non fana mai capire vera-
niente se Dio sia dentro o fuori dai sogno. È dentro - quindi potreste
pensare che è dove accade: che Dio e Giacobbe si svegliano dai sonno.
Rileggendo questo sogno, mi sono resa conto che c’è lina sequenza
che elimino sempre. Fermo sempre il ricordo alla pura vistone degli an­
geli che salgono e scendono. É la mia scala, questo andirivieni di messag­
geri il cui viaggio mi interessa di più quando discende. Inscena del sogno
ê sempre stala di gran lunga più importante per me della scena delia ri­
velazione,-È il pnmo sogno. Per far si che si installi la scala che ci permet­
te di passare da un luogo all'altro, dobbiamo partire. Inoltre, se seguiamo
il cammino di Giacobbe, é attraverso un sistema di trasgressioni permes­
se, poiché Isacco ha benedetto Giacobbe suo malgrado; tuttavia é cosi
che bisogna andare, lasciandosi la casa alle spalle. Andare verso terre stra­
niere, verso lo straniero in noi stessi. Viaggiando neirinconscio, quella ter­
ra straniera interna, casa straniera, paese dei paesi perduti.
Per ciò, il letto deve essere spostato; dobbiamo scendere sulla sca­
la nascosta sotto il Ietto legale e, rompendo tutti î legami e convenzioni,
con colpi d’ascia, passare dalPaitro lato.
Cosi, all’inizio, si tratterà di uscire da “casa” passando per ia “por­
ta” deJ profondo di se stessi.
Ë ciò che compie la giovane Virginia con stupefacente violenza ne
// sagre/o, un libro immenso e premonitore, scritto da Clarice Lispector
all’età di vent anni, come se ne avesse già vissuti cinquanta.
Non mi piace il nome Virginia, ma diviene significativo nella lettu­
ra del libro, perché sentite subito che ci deve essere stata una eco di
Virginia Woolf, una donna destinata ad annegare. La cosa importante è
che stranamente - non penso che Clance Lispector a vent’anni facesse
ie cose intenzionalmente, era totalmente nel reame dell’inconscio - il li­
bro tratta invero della verginità.
Tre Passi sulla Scila della Seritcura 99

Il cesto inizia con Virginia da giovanissima:

Si guardava alio specchio, il viso bianco e delicato perduto nella penombra, gli
occhi aperti, le labbra inespressive... disse... "... Ma voglio che nn comprino,
sennò... sennò... mi ammazzo!" esclamava scrutandosi il volto spaventato da
quella frase, e orgogliosa dei proprio ardore usci in una risata falsa, bassa e
brillante. Sì, sì, per poter esistere lei aveva bisogno di una vita segreta. Subito
dopo eccola nuovamente seria, stanca - il suo cuore batteva neU’ombra lento
e rosso. Un nuovo elemento fino ad allora estraneo le era penetrato nel cor­
po dopo che era nata (a Società delle Ombre. Oggi sapeva di essere buona ma
quella bontà non escludeva la sua cattiveria. Era una sensazione già un po;
vecchia, l’aveva scoperta giorni prima. E di nuovo un desiderio ìe pungolava il
cuore: quello di liberarsi ancora di più. Uscire dai lìmiti della sua vita - questa
frase ie girava nel corpo tacita, semplicemente come una forza (Lispector,
1999, 72-73).

Il libro si dispiega dentro il corpo di un personaggio. Naturalme


te è dentro e fuori, ma tutto quello che accade fuori, tutti i piccoli even­
ti della vita esterna, sono immediatamente afferrati e trasformati in sen­
timenti e relazioni coi corpo.
Quindi ìi libro ci porta alla frontiera del proibito, e ci aiuta a sol­
carla. Si tratta d'andare oltre, d’oltrepassare il conosciuto, l’umano, e
d’avanzare nella direzione del terrificante, della nostra propria fine... là
dove comincia l'altro .

"Uscire dai limiti della mia vita”. Virginia ignorava il senso di quelle sue paro­
le mentre si guardava allo specchio nella stanza degli ospiti. Potrei ammazzar­
li tutu, pensava con un sorriso e una libertà nuova fissando infantilmente la
propria immagine. ... E da dove le era venuta quelfidea? Dopo quel mattino
passato in cantina, le domande le sorgevano facili: lei progrediva sempre eli
più, ma in quale direzione? Andava avanti imparando cose delle quali m tutta
ia sua vita non aveva nemmeno avvertito l’inizio. Da dov era venuta quell’idea,
dal suo corpo? E se il suo corpo fosse stata la sua destinazione?... (ibid., 72).

L’episodio dello specchio continua:

“Eccomi nello specchio!”, gridava, rozza e felice. Ma cosa poteva? Cosa non
poteva? No, non voleva aspettare un occasione per ammazzare, se doveva am­
mazzare desiderava farlo liberamente senza un occasione... questo sarebbe
stato uscire dai limiti della sua vita.
100 Hélène Cixous

Virginia ignorava il senso dei propri pensieri. In un'improvvisa spossatezza... si


sdraiò sul letto degli ospiti... E, come una porla che si chiude m frena senza
rumore, rapidamente Virginia si addormentò. E rapidamente sognò.
Sognò che la sua forza diceva ad alta voce dil igendosi al confine del mondo...
Un impulso crudele e vivo la spingeva m avanti e lei avrebbe desiderato mori­
re per sempre, se morire le 3vesse dato un solo istante dì piacere, tale era la
gravità raggiunta dal suo corpo. Avrebbe daio il suo cuore da mordere (ìbid.,
73*74).

Avrete notato che emergono qui tutte le metafore che abbiamo


nevato nella descrizione deila lettura da pane di Kafka. Ci stiamo avvi­
cinando al punto in cui Ho scoppia, Torà deila crudeltà. Fra un po' noi
uccideremo, cioè, mostreremo la ferocia nascosta in noi. Uccidere chi?
Sempre la stessa creatura, la figura della nostra impossibile innocenza:

Stava camminando quando vide un cane e con uno sforzo ansimante simile a
duello che si fa per uscire da acque chiuse, a ciucilo che si fa per uscire da ciò
che si può, decise di ammazzarlo mentre camminava. Il cane scodinzolava in­
difeso - pensò di ammazzarlo e l’idea era fredda, ma lei temeva di ingannare se
stessa, dicendosi che l’idea era fredda per sfuggirne. A quel punto, a gesti
guidò il cane fino ad un dato punto sul fiume e col piede lo spinse risoluta­
mente nelle acque verso la morte. Lo senti guaire, lo vide dibattersi trascinato
dalla corrente e morire - non ne rimase nulla, neanche un cappello. Virginia
prosegui serenamente. Serenamente continuava ad andare alla ricerca. Vide un
uomo, un uomo, un uomo. Per effetto del vento i suoi pantaloni ampi gli si in*
coliavano al corpo, quelle gambe, quelle gambe magre. Era un mulatto, l’uo­
mo, l'uomo. I suoi capelli, mio Dio, i capelli ingngivano. Tremando dal disgu­
sto lei gli andò incontro tra l'ana e lo spazio - e si fermò. Anche lui si fermò, i
vecchi occhi in attesa. Niente sul volto di Virginia lasciava supporre ciò che lei
aspettava che accadesse. Lei doveva parlare e non sapeva come. Disse:
"Prendimi" (ibid., 74-75)-

È un sogno, il sogno eli Virgnüa, il sogno di una vergine. Nel sogno


s-vergimamo noi stessi. Adesso arriva ii terzo periodo in questa violenta
avventura chiamata scrittura: adesso arriva il tempo per dire il peggio.

i ‘‘miei** scrittori, le “mie" sorelle, le “mie guide", cos’hanno in co­


mune? Hanno tutti scritto alia iuce deH'ascia. Hanno cercato la benedi­
zione nel conflitto selvaggio, e l’hanno trovata.
Tre Passi sulla Scala della Senaura 101

La stato della creazione, ci dice Cvetaeva in “ L'arte alla luce delia


coscienza” ,

“è quella dell’ossessione (...[ possession. Qualcosa, qualcuno si insedia in re, la


tua mano è solo strumento - non di ce, di un altro. Di chi si tratta? Dì ciò clic at­
traverso te vuole essere |,..|. La condizione creativa é quella del sogno, quando
di colpo, ubbidendo a un’ignota necessita, dai fuoco a una casa o geni giù dal­
l’alto dì una montagna un amico. È tua l’azione? È chiaramente tua (giacché sei
tu che dormi, tu che vedi in sogno!). Azione compiuta da te: dal ìc - compieta-
mente libero, dal re - senza coscienza, dal te - natura (Cvetaeva, 198 -1, Ulv-O.

Nel dire ciò, Cvetaeva riabilita, fa riapparire la parte in noi che ha a


che fare con la distruzione, fa contraddizione, la violenza: qualcosa più
forte di noi che ci priva di ciò che è più prezioso (come dicevo alla
Scuola dei Morti). Spingere un amico o un nemico giù dali’alio della
montagna, è egualmente un crimine dinanzi alla legge, ma non è la stes­
sa cosa. I miei autori, quelli che amo, che sono capaci di dar fuoco alla
casa, di gettare un amico giù dall'alto della montagna, no, non sono ca­
paci di passare allatto. Sono capaci di scrivere il potenziale violento in
se stessi. Dico “in se stessi” perché diffido delle confusioni. Lungi da noi
gli assassini che si vedono in televisione, che sono sia scusati che legn-
umati. Sono quasi sempre uomini, no, sono sempre uomini che si arro­
gano il diritto di uccidere. Non penso che abbiamo il diritto all'assassi­
nio. Differenzio tra Tassassimo perpetuato per ragioni mass-mediauche
e ciò che fanno ι nostri autori: la rivelazione di qualcosa ineluttabilmen­
te minacciato e minaccioso, che si manifesta appena c'è una relazione
con l’altro, qualcosa con cui bisogna confrontarsi, e che fa si che, per
quanti sforzi si facciano, si è sempre in difetto. È questa situazione ine
vjtabile e terribile di colpa, di occasioni perdute di salvare l’altro per sal­
vare noi stessi, che è affrontata da quelli che hanno scelto, ad esempio,
l’impegno umanitario concreto. Gli autori importanti per me sanno lino
a che punto bisogna sopportare Γinsopportabile* Basta essere coinvolti
in qualche storia di famiglia per essere già beneficiaπ o vmime - è la
stessa cosa, le posizioni sono infinitamente scambiabili - di ingiustizie.
Vale per ι dettagli più insignificanti fino ai più grandi delle storie d’ere­
dità, cosi nelle storie di corpi e di malattie. Le malatue sono le nostre fe
102 Hélène Cixous

rite, Je nostre vendette, ie nostre grida, i nostri appelli —le nostre m e­


tafore. L’esempio più beilo e più tragico ê quello di Clarice e di sua ma­
dre, una relazione intrecciata e indissociabile di vita e di morte tra ma­
dre e figlia. Ci è sufficiente avere un bambino, specialmente se è già
adulto, per capire il legame con la vita e la morte, con Tassassimo invi­
sibile e incessante, l’omissione mortale da entrambe le parti. È suffi­
ciente avere dei genitori per essere il bambino: l’assassino.

Sogni, Produzione, Creazione

Cosa ci insegnano i sogni sulla creazione scritta?


Parlerò solo della mia esperienza in quanto donna . Una donna
che scrive è una donna che sogna di bambini. I nostri bambini da sogno
sono innumerevoli. Il tempo della scrittura, che è come il tempo della
lettura - c’è latenza, c’è pre-scrittura - é accompagnata da uno stato
bambino, che Cvetaeva chiama "condizione creativa” . L'inconscio ci rac­
conta che un libro è una scena di nascita, parto, aborto, allattamento.
L’intera cronaca della gravidanza è in atto nelFinconscio durante il pe­
riodo della scrittura. Faremo nascere alla luce della notte innumerevoli
bambini. Λ volte il bambino é della grandezza di una foglia, e cade a
pezzi. A volte è solo un pezzetto di carta, lo metti sul letto, e d’nn trat­
to s'è perso. Non si sa se il bambino sia spanto o se lo avete dimentica­
to voi. A voite viene ai mondo a sei mesi, più grande di voi, e ovvia­
mente parla meglio di Shakespeare. A volte è una ragazzina appiccicosa
attaccata alle vostre gambe, a volte ê un terribile ragazzino a forma di
gallo, che corre freneticamente in una stanza a quattro zampe. Il peggio
ê la scena in cui il bambino appare e poi scompare. Queste sono tutte
metafore della condizione creativa potenziale.

Pruno sogno

Era un uccellino deliziosof addomesticato, colorato, rosa scuro, che


giocava con me sui tetto, Non so come; improvvisamente non era più
Tre Passi sulla Scali della Scrittura 103

II con grande mia afflizione. Lo abbiamo cercato invano, era neì-


Vangolo della stanza? No. Nel letto allora? Abbiamo scrollato le coper­
te, le lenzuola. D ’un tratto, eccolo . Z# mia amica lo ba preso: è mor­
to! - Morto? Morto di cosa? Morto di morte, indubbiamente. 5e»2&r spe­
ranza? Vuoi prenderlo? Dopo tutto ci potrebbe essere in im ancora un
p o' di questo amore, di questa gioia. L'ho fatto , Orribilel La creatura
era assolutamente rigida, si, era la morte, l'opposto di ciò che era sta­
to. No, w , l'ho riposto. Ne troveremo un altro.,, disse il sogno.

Secondo sogno: Era quasi la fine del mondo

Le foreste avevano preso fuoco ma non lo avevo notato ancora. Ero


completamente presa dalla preoccupazione per la mia fìglioletta, una
bambina che avevo amato cosi tanto, di cui mi ero gloriata , e inor­
goglita. E ora il tempo era passato. Aveva dieci mesi. Era piccola, si­
lenziosa. La portavo in braccio. Ero venuta nella regione del mare
con lei. All'albergo mi aspettavano solo in serata. Ero occupata con la
bambinat aspettandomi cosi tanto. Improvvisamente, mi scoppiò den-
tiO il fuoco di un terrore. Questa bambina - mi dicevo - non è nor­
male. Ha mai mostrato segni di vita? Ma si, era evidente. M i crogiolo
nella felicità , ma il bimbtno perso ritorna. Non ne avevo già cono­
sciuti? Non ne avevo già avuti? Capivo - era nella famiglia. Il mio ter­
rore cresceva. Da lontano vedevo mio figlio e ia moglie. Se sapessero!
Abbiamo figlie ritardate. Delusioni. Una fitta ai cuore. Immenso dolo­
re. Contemplavo la bambina grave e indecifrabile. "Quando comin­
cerai a parlare?” - chiedo tristemente. (tQuando v o r r a i m i risponde
ad alta voce e distintamente. Sapeva parlare, e parlare cosi ammire­
volmente, da anni , Ero fu o ri di me dalla gioia. A dieci mesi! Un tale
linguaggio! Avevo ia figlia più straordinaria del mondo! L'adoro. Le
dico con passione: "Come vuoi che ti chiami”. "Nane" mi risponde su­
bito - "Oh. no, non è possibile! Ho già Anna, non posso chiamare An­
na anche te” -"H o detto None"., dice. "None"7 (si scrive None; pensai.
Gioca con "Nonne"...). Perché no? Un nome cosi straordinario ed in­
tenzionale. Senza neanche pensare che aveva usato una parola in-
Hélène Cixous

glese Questa bambina era un gei no. Provavo una gioia, una fierez­
za. Lo gridavo ai quattro venti. Mia figlia, che parla a dieci mesi, mi
ha detto “quando vorrai”. A questo punto, mentre avanzavo verso ìa
città e verso le spiagge col mio trionfo , notai da lontano, non così lon­
tano, le prime strisce di fuoco. Che cos'è? L'incendio. Divorava già le
campagne, lefattone vicine, leforeste. Sarà presto su di noi. E non c'è
via d'usata. Con la bimba in bracciot pensavo a fuggire. Ma dove?
Dappertutto il fuoco ha già preso, siamo al centro: è su di noi. Ho pen­
sato alla pisci) ia. Un'idea debole. Restare nell'acqua, sotto il fuoco? Ci
proverò. Mi sono precipitata. Aila piscina c'erano già delle persone
che avevano avuto la stessa idea. Sul bordo, ad un tavolo, la Signora
U scriveva rapidamente una lista di persone da informare in caso di
incidente. Lo faceva in modo ordinato. Ha ragione. Anch'io dovrei al­
meno lasciare qualche segno scruto su di me, m caso di morte. L'ho
fatto subito, mal preparata, un pezzo di carta, scrivo il nome della
bambina: None. Se muoio e la trovano, bisogna che sappiano chi è.
Mi dico allora che None non è sufficiente. Bisogna mettere di chi èf i ­
glia. Scarabocchio, faccio scivolare il pezzetto di carta nel vestitino di
None. Ero per strada con None ; tutto in fiamme. D'improvviso ho pen­
sato a mio figlio, mio figlio. Ah! Ecco quando il cuore ni 'ha preso fu o ­
co. Sono pronta a morire con mia figlia t ma non separata da mio f i ­
glio. L'idea che gli possa accadere qualcosa - a lui, solo - separato da
noi, mi è intollerabile. Correvo nelle strade, cercando mio figlio, sin*
ghiozzando, come se fosse già morto, sicura che fosse già morto. Lo
piangevo a morie. Non era al fronte all'inizio della guerra? Non ave­
vo notizie, senza dubbio era morto lì senza di noi, oppure era disper­
so, avremmo avuto morti separate. Singhiozzavo da spaccarmi le co-
stole, correvo attraverso l'incendio, avendo vinto tutto e perso tutto
nella stessa ora.

b (In inglese, "none" significa "nessuno", ad indicare un senso importante per il


seguilo dei sogno, in questo momento, ii sogno fa riferì memo al francese “nonne", fa­
miliare per "monaca"; in mgiese, la pronuncia di "none" ncorda “nun": .suoni.)
Tre Passi sulla Scala della Scrittura 105

Te)*zo sogno

Pittura a mano o M
la scrittura eli una donna”

Sono le pulizie di primavera, la grande partenza. Ci battevamo con lo


sporco ed il disordine, nei numerosi stanzoni deirumversità. lo stessa
gettavo, gettavo: il pavimento è ricoperto di vecchie carte e detriti,
non ci sono i cestini ma verranno gli addetti, spero...
Ora ero dinanzi alla vecchia credenza della chiesa, nell'ampia
stanza agitata. E anche se questa era una chiesa cattolica, ho deciso di
metterci mano. Le grandi porte di ferro . Ed ora sotto le mani sorge il
colore; sorge! La pittura sorge! Al tocco delle mie mani, un paesaggio
cosmico sgorga improvvisa menti? sulla porta di ferro a sinistra; fiori
planetari appena sbocciati dalle mie mani. Andavo molto veloce; col­
pivo la superficie di ferro o, piuttosto, vi facevo scorrere le dita e il fer­
ro rispondeva, i colon si diffondevano gaiamente. Arriverò fin o in fon ­
do? Riuscirò a coprire tutta la placca di metallo? ! fioristelle sboccia­
vano sotto i miei palmi, salendo d'un lampo alla superficie di ferro,
vado molto veloce, p ili veloce; con tutta la forza gareggiavo con la fo r­
za sconosciuta che dipingeva, passandomi attraverso /palmi, venendo
dal più profondo del ferro: silenziosamente ho posto l'appello, ancora
un pannello di ferro. Ecco! La credenza era magnifica: un mondo. /
pianeti respiravano. Ero fiera. Sono tornata nel retro a prendere la
mia amica f, che rassettava. Mi sono vantata: le ho annunciato che io,
proprio io, avevo dipinto la credenza, insistevo che J venisse a vedere
la mia grande opera. Quando alla fine cede, viene; cosa ho visto? Non
la creazione stellare sulla cassa dipinta, ma un dipinto classico, à la
Braque, con al centro una di quelle chitarre dai fianchi dipinti, un cli­
ché laccato. Ubai fatto tu? Ammirava f Sì, ho mentito. Sbalordita.
Qualcuno lo avrà rifatto? Ricoperto? Il dipinto miracoloso? La meravi­
glia vivente sgorgante dalle profondità del ferro all'appello meravi­
gliato e sorpreso delle mie mani: qualcuno ha ricoperto questa notte
sbocciarne con questa pittura morta? Chi lo ha fatto? Dico: si. Attri­
buendomi, falsamente e con sorpresa, il lavoro classico di uno degli
106 Hélène Cixous

uomini cbe vedevo darsi da fare qui e là nella stanza. Inoltre, avvici­
nandomi al lavandino, ho visto "il pittore” in azione. Era là. vicino al
lavandino, con la scatola di colon. Aveva appena disegnato un largo
punto verde, lì, nel quadro, col pennello. Avevo dipinto io? "Dipinto”?
Che cosa vuol dire? No: avevo fatto appello con le mani. Il ferro ed io,
avevamo fatto sorgere. Era successo a due corpi stranieri Pano all'al-
irò. Fuori, nel frattempo, era in arrivo una tempesta, gli alben oscilla-
vano, avanzava una colonna di polvere...1

Ciò che viene fuori quando si inizia a scrivere, sono tutte le scene
di impotenza, di terrore, o di grande potere. L’inconscio racconta un
racconto della possibilità supernaturale (è sempre supernaturale) di
portare alla luce un bambino, ma il miracolo nei sogno è che si può ave­
re un bambino anche quando non si può avere un bambino. Anche se
siete troppo giovani o troppo vecchie per avere un bambino, anche se
avete ottant anni, potete ancora restare incinte d ’un bambino, e dargli
nascita, e allattarlo. E a volte il latte è nero.
Nella sua rappresentazione dei bambini, il sogno porta tutte le specie
di bambini e tutte le specie di libri. I bambini che arrivano nei sogni sono
lutti gii elementi di un libro. Non sappiamo nulla del libro: sono il sogno e
il bambino che ci insegnano tutto. Questi bambini sono i bambini di una
sognatnce e, allo stesso tempo, sono stranieri. È egualmente interessante
se sono bambini o bambine; a volte è un feto, a voite un uccello...
Il bambino straniero ha un'altra forma. Ne La morte di Virgilio
Herman Broch c’è sempre un bambino che va e viene, un compagno,

r Poiché questi sogni sono stati sognati e scruti in francese, il lavoro del signi fi-
carne si perde nella traduzione. "Reste le reste”: solo i resti restano. \Maima (Cixous,
1988) fa un uso dichiaratamente “polìttco-poetico” di questi resti - il dolce matrimo­
niale per Nelson e Winnic Mandela, i dolci d’addio per Mandel*stam, l’uno nel senso
dell'unione differita che risulta in unione, attraverso ia separazione, della differenza; gli
altri quali simboli di una solidarietà anonima per il poeta esiliato (cfr. MacGillivray 199Ί,
XXII). in un'intervista (Cixous, 1989, 176), Cixous ricorda che «We must go to
Mischivi ts or io wnat remains of thè Cambodìam charnel-houses and wrap ourselves up
in méditation on these remains-.j
Tre Passi sulla Scala della Scrmu ra 107

guida e doppio del morente Virgilio. È forse un equivalente esterioriz­


zato di ciò che vive una donna interiormente. Tra il bambino (il testo,
cioè) e l’autore, c’è una relazione d’assoluta intensità, perché è una que­
stione di vita e di morte: ci si scopre incessantemente a non garantire la
vita. Se non odiamo ia castrazione, un sogno di questo genere ce ia farà
aborrire. C’è anche una reversibilità nella relazione materna tra il bam­
bino e la madre, poiché ci si scambia la vita.
Insistendo su questa scena primitiva, dovrei aggiungere che il fatto
che il libro sia vissuto in modo assoluto dalla madre o dall’autore, non
può non incidere sulla totalità della scrittura. Pario degli autori che so­
gnano, Le poste in gioco - darò o non darò ia vita? ci riuscirò? - miste
d’amore e di terrore - non possono che far eco nei testo.
I sogni di una donna sono pieni di godimento, pieni di terrore. D
vo confessare di essere curiosa degli uomini. Non so come sognano gli
uomini quando iniziano a scrivere, pur se me lo domando. Non riesco
ad immaginare che sognino d’essere incinti. Allora deve essere qualche
altra cosa. Vorrei saper qual è l’equivaiente o il sostituto.
I nostri libri sono bambini-sogno. Sono nostri, pur essendo st
nieri totali. Il sesso è solitamente e stranamente determinato. Il bambi­
no che appare nel sogno che è il testo, è sempre molto più forte di noi.
Non sappiamo da dove venga. Il bambino ci adotta, noi obbediamo, poi
abbandoniamo il bambino, ma in realtà è lui che ci abbandona. Tutto è
reversibile. Anche se pensiamo di scrivere noi il libro, é il libro che ci
guida. Dipendiamo interamente dal buon volere del libro. Ciò rende
conto deU’umiltà dello scrittore, e della paura e della speranza di veder
maturare il libro.
Altri tipi di sogni sono comuni a uomini e a donne. Sognerete tut­
ti i tipi di trasporto, tutti i tipi di metafore. Ma se vedete arrivare una
macchina, potete star sicuri che non siete voi a guidare: vi troverete se­
duti sul sedile posteriore con la macchina clie corre aU’impazzata, e tut­
to quello che potete fare è pregare d ie non vi uccida. Forse eviterete
l’incidente, forse eviterete l’aborto. Ho notato con sorpresa che nell’ini-
ziale romanzo, II segretof cosi come nell'uitimo romanzo di Clance Li-
spector, L’ora della stella, di cui vi ho già parlato, ricorre lo stesso col-
108 Hélène Cixous

po del fino. In effetti ho letto L'ora della stella la prima volta dieci anni
fa, e ho appena finirò II segreto, che è il più giovane dei due libri. En­
trambi i libri finiscono nello stesso modo brutale - con un incidente di
macchina e ia morte del personaggio. É come se stessero imitando qual­
cosa connesso alla vita e alla mone di un libro. Scrivere è questo, esser
giocati dalla vita e dalla morte.

I sogni nostri maestri

Î sogni ci insegnano. Ci insegnano a scrivere in quattro lezioni:

Senza Transizione

Il fascino di un sogno è che siete trasportati m un altro mondo, n


non siete trasportati, siete già nell’altro mondo. La scena è quella del-
Paltro mondo. Non c’è transizione: vi svegliate nel sogno nell'altro mon­
do, dall'altra parte; non c’è passaporto, nessun permesso, se non questa
estrema familiarità con l’estrema estraneità. Quando arrivate da stranie­
ri negli Stati Unni, ci vuole cosi tanto tempo - ii passaporto, il permes­
so, e altro - che vi abituate ad essere stranieri ancor prima d'atterrare. È
un'esperienza traumatica. Nei sogni ciò vi viene risparmiato, il senti­
mento di estraneità é assolutamente puro, che è la cosa migliore per
scrivere. L’estraneità diviene una nazionalità fantastica.
1 nostri sogni sono i più grandi poeti. Come le poesie di Rimbaud.
II problema è che normalmente distruggiamo ·. sogni al risveglio, altri­
menti tutti saremmo poeti. Non c’è formalità, nessuna introduzione:
aprite il libro, e già siete molto lontani dentro il paese della scrittura.

Velocità

Questo è il modo in cui Jean Genet apre il Diano del ladro : “Le
vêtement des forçats est ravé rose et blanc". Nel momento in cui leggia­
'Ire Passi sulla Scala della Seni tura 109

mo questa straordinaria frase iniziale, all’istante siamo condannati. “L’a­


bito dei forzati è a righe bianche e rosa”

Si, commandé par mon coeur l’univers où je me complais, je l’élus, ai~|e le


pouvoir au moins d’y découvrir les nombreaux sens que je veux, il existe
donc tut étroit rapport entre lesfleurs et les bagnards. " (Genet, 19-Ì9, 9).

Se l'universo, di cui nu compiaccio, io per comandamento dei cuore io elessi,


la facoltà ho almeno di scoprirvi gli svariati sensi che voglio: ebbene, tato
stretto rapporto esiste tra t fiori egli ergastolani (Genet, 1992, 13).

Rifiutate il libro, oppure siete già a righe bianche e rosa. È cosi im­
mediato e potente; racconta all'istante cose a cui non siete abituati, i se­
greti più profondi di un certo mondo. Sapete come si pensa nascano i
romanzi, con le circostanze; “nei 18.., avreste potuto vedere un gentiluo­
mo, ecc. nella città di Nestfes, ecc../’ Qui inizia con: “L’abito dei forzati"
- che è il soggetto, l’eroe di questo libro formidabile. Inoltre, “a righe”
entra come qualcosa che attraverserà effettivamente la scrittura, righerà
la scrittimi, taglierà la scrittura; la strada sarà “tagliata" attraverso tulio il
testo. Quando leggete in francese: "si, commandé par mon couer
Γunivers où [e me complais, je l’élus", siete immediatamente trasportati,
senza capirlo, non solo in un altro mondo ma anche in un altro secolo; è
scritto nelPimpaginazione, con la scansione ed il vocabolario del grande
secolo della scrittura francese. Oltre ciò, gioca immediatamente con i si­
gnificanti, cosi quando leggete "je l’élus” (tradotto in inglese “l chose",
che ê insoddisfacente; dovrebbe essere "i elected him”) st in francese
sentiamo anche un'altra cosa, per esempio “lo leggevo”, “je fai lu” Lina
tipica scrittura da sogno.
Attraversare le frontiere verso l’altro mondo senza transizione, ai
colpo di un significante, ecco cosa ci permettono di fare i sogni, ed è la

” |Cixous riporta il passo dalla traduzione inglese: «Though h was ai mv heart‘s


bidding that l chose thè universe wherem 1deligfu, i ai least have die power of finding
therein thè many meanings i wish io fìnd: there is a close rclaiionship between flowers
and convias» (Genei, 196-i, 9). Il riferimento, in una più ampia discissione sulla tra­
duzione di questo tesio di Genet, ritornerà nel ter/o capitolo di questo volume.!
110 Hélène Cixous

ragione per cui, se siamo sognatori, amiamo i sogni cosi tanto. È la can­
cellazione dell'opposizione tra interno ed esterno, senza spiegazione: la
spiegazione distruggerebbe la magia. Non c'è suspense: la scena è im­
mediatamente nell'altro mondo. I sogni sono come “I deserti dell’amo­
re” (Rimbaud, 2000, 189-194), sono poemi. Ci garantiscono ciò che non
sempre abbiamo nella vita: {a velocita. Il passaggio é alla velocità di un
fulmine: non c!è passaggio, introduzione o entrata. Forse è quello che
mi piace di più nello scrivere narrativa, paragonato al tormento che pro­
vo quando scrivo per ii teatro. A teatro ci sono ie entrate: non sì può ca­
dere dal cielo, bisogna camminare tutto il tratto - una “entrata” a teatro
è il tempo di cui hanno bisogno gli altri personaggi per unirsi a noi sui
palcoscenico.
Nel testo, come nei sogni, non c’è entrata. Lo offro come test per
tutti gli apprendisti-scrittori: se marcate ii tempo, non ci siete ancora.
Nel testo, come nei sogno, siete già là. Inoltre, è la ragione per cui i te­
sti possono provocare resistenza in un certo numero di lettori. Molti
non riescono a sopportare d’aver lo straniero proprio lì. Se voi, lettori,
non avete bruciato la casa, se siete ancora a casa, allora non volete spo­
starvi aU’estero. Le persone a cui non piace ciò che chiamo “testo” sono
fobiche, persone a cui, in altre situazioni, non piace essere dislocati.

// gusto ciet segreto

Ecco come Clarice Lispector inizia II segreto:

Fluida lei lo sarebbe stata tutta la vita. Ma ciò che aveva dominato i suoi con­
torni e li aveva attratti veiso un centro, ciò che l’aveva illuminata contro il mon­
do e le aveva conferito un intimo potere, era i! segreto (Lispector, 1999, 5).

È la prima frase di questo libro. Mi piace un libro che inizia cosi.


Inizia all’interno, nel corpo.
Questi sono i libri che si possono leggere. Dei veri libri. Aprite il li­
bro e avete già attraversato la frontiera. Siete nel testo. Siete nel mondo
del testo. Siete già nell’altro paese. Già irradia dell’altro paese. Siamo già
Tre Passi sulla Scala della Scrittura m

lì per una moltitudine di segni; pur tuttavia non capiamo nulla. É così
che entriamo in un libro. Siamo ciechi e ignoranti, e a poco a poco ie
cose si fanno più chiare. Nei testo di Genet c’è ia divisa; ia divisa sarà in
gioco dall'inizio alla fine, come i forzati, come le strisce deireterna divi­
sa - ancor più violento e magnifico perché, in questo testo, scritto pri­
ma della distruzione dei bagni penali, Genet ne piange ja soppressio­
ne 9 Genet ci parla al tempo presente della natura eterna dei bagni pe-
nalL Per tutta l'eternità, la divisa dei forzati sarà a strisce rosa e bianche.
Tutto è immediatamente sbarrato, a strisce, tagliato...
Entra il soggetto “L’abito dei forzati”
“Fluida iei lo sarebbe stata tutta ia vita". li soggetto “lei” entra.
"Fluida lei io sarebbe stata tutta la vita” Pintero libro sarà portato
da questa fluidità che troviamo anche in Acqua viva - che non vuol di­
re che sia senza forma. Clarice sa cos‘è ia fluidità:

Ma ciò che aveva dominato i suoi contorni e li aveva attratti verso un centro*
ciò che Paveva illuminata contro il mondo e le aveva conferito un intimo po­
tere, era ii segreto. Segreto al quale lei non avrebbe mai saputo pensare in ter­
mini ciliari, temendo di invaderne e dissolverne l'immagine. Segreto che ave­
va tuttavia formato nei suo intimo un nucleo lontano e vivo senza mai perde­
re la propria magia - sostenendola nella sua insolubile vaghezza come la sola
realtà che per lei avrebbe sempre dovuto essere perduta (ibidem).

Sentiamo immediatamente il suo potere: si situa istantaneamente


al livello della lettura che farà si che Pauuice sia obbligata, m seguito, ne
La passione secondo G.H., aci aggiungere un avvertimento al lettore.
Non a tutti interessa questo tipo di segreto. Non è il segreto del crimine
- di cui ella è comunque capace di parlare - ma questo:

I due si sporgevano sui fragile ponte e, inquieta, Virginia sentiva 1 piedi nudi
vacillare come se si librassero sopra il calmo gorgo delle acque. Era un giorno
asciutto e violento dagli estesi colori immobili; gli alberi scricchiolavano ai tie­
pido vento increspato dai bruschi raffreddamenti. Il suo vestito sottile e strap-

91 bagnes erano penitenziari dove gli ergastolani erano condannati ai lavori for­
zati. Queste istituzioni oggi non esistono più.
112 Hélène Cixous

paio cia bambina era attraversato da brividi d'aria fresca. La bocca sena pre­
muta contro it ramo morto dei ponte, Virginia immergeva gli occhi distratti
nelle acque. A un tratto, tesa e lieve lei si immobilizzo.
“Guardai"
Daniel aveva rapidamente girato la resta - trattenuto da un sasso, c’era un
cappello fradicio, pesante e scuro di acqua. Nella sua corsa, il fiume lo trasci­
nava con brutalità e ii cappello resisteva. Fino a quando, perdendo le ultime
forze, fu portato dalla corrente veloce e scomparve saltellando quasi allegro
ira le schiume. 1due esitavano sorpresi,
“Non possiamo parlarne a nessuno”, sussurrò infine Virginia, con una voce di­
starne e vertiginosa.
“Sì...". Anche Daniel si era spaventato e concordava... le acque continuavano
la loro corsa. “Neanche se ci domandano deH’aifog...”
“Mai!", per poco non gridò Virginia... E (acquerò con tutte Ìe loro forze, gli oc­
chi sgranati e feroci (ìbid., 5-6).

Siamo immediatamente in una straordinaria condensazione d’effetti.


A partire dal primo paragrafo siamo all'interno di qualcosa che si
approfondirà: la meditazione, una forma di monologo interiore indiret­
to, in terza persona, ci spinge verso un centro inaccessibile: "ciò che
aveva dominato i suoi contorni e li aveva attratti verso un centro1'. E sen­
za cambiare paragrafo ecco che, improvvisamente, *1 due si sporgevano
sul fragile ponte” 11 testo ci dice: fluido, segreto, centro, dentro; poi
questo segreto interiore che resta segreto - perché non sappiamo cos’è
- è improvvisamente raddoppiato dalPappanzione di un segreto este­
riore e visibile, che ci viene descritto: “Guarda” li segreto sarà questo
cappello, che non è una cosa da nulla poiché “resisteva. Fino a quando,
perdendo Je ultime forze../'. É preceduto nella frase da “Daniel aveva ra­
pidamente girato Ja testa” Il sistema di forza è Huido, trasferito da un
soggetto alfaltro nella frase. Ecco la materializzazione oggettiva di un se­
condo segreto: il primo é immemore e precede la scena. 11 secondo se
greto è immediatamente sigillato: "Non possiamo parlarne a nessuno"
Siamo nel mondo dei segreti di tutti i tipi. Uno chiama Paitro, suscita
l'altro: così non sappiamo se siamo dentro o fuori, così non sappiamo
se siamo uno o due. Lei è due: "1 due si sporgevano sul fragile ponte e,
inquieta, Virginia”... - “due” è ovviamente Virginia. Daniel viene dopo.
Tre Passi sulla Scala della Scrittura Π3

Spero vi suoni misterioso. Siamo immediatamente attirati nel cen­


tro dove ê il segreto. Volete sapere qual è il segreto? Non potete, perché
è un segreto.

Segreto al quale lei non avrebbe mai saputo pensare in termini chiari... che
aveva tuttavia formato nel suo inumo un nucleo lontano e vivo senza mai per­
dere ia propria magia - sostenendola nella sua insolubile vaghezza come la so­
la realtà che per lei avrebbe sempre dovuto essere perduta (ibid., 5).

Potreste mai immaginare che queste frasi siano state scritte da una
donna di ventanni? Continua più profondamente dentro il romanzo.

I due si sporgevano sul fragile ponte (ibidem).

Improvvisamente, un “due" è spuntato sul ponte/testo. Ma il due


resta innominato, sconosciuto, segreto.

e, l...|, Virginia sentiva i piedi nudi vacillare come se si librassero sopra il cal­
mo gorgo delle acque. Era un giorno asciutto e violento dagli estesi colori im­
mobili; gli alberi scricchiolavano al tiepido vento increspato dai bruschi raf­
freddamenti. il suo vestito sottile e strappato da bambina era areni versato da
brividi d’aria fresca, la bocca sena premuta contro il ramo morto del ponte,
Virginia immergeva gli occhi distratti nelle acque. A un tratto, tesa e lieve lei si
immobilizzo.
“Guarda!” (ìbidem).

E cosa vediamo?

... trattenuto da un sasso, c'era un cappello fradicio, pesante e scuro di acqua.


Nella sua corsa, il Hume lo trascinava con brutalità e il cappello resisteva (ibi­
dem).

Il cappello si comporta esattamente come un essere umano.

Fino a quando, perdendo le ultime forze, fu portato dalla corrente veloce e


scomparve saltellando quasi allegro tra le schiume. I due esitavano sorpresi.
“Non possiamo parlarne a nessuno”, sussurrò infine Virginia, con una voce di­
stante e vertiginosa (ibid., 5-6).
114 Hélène Cixous

Il cappello, ci sembra, è una sineddoche perturbante per un an


negato, e "non possiamo parlarne a nessuno” è il secondo segreto. Ma
il segreto generale, il segreto principale di cui è fatta la vita, non io co­
nosceremo mai.
Il sentimento del segreto è quello a cui ci abituiamo quando so
gliamo, e naturalmente è ciò che ci fa godere e, allo stesso tempo, te­
mere di sognare. Quando siete posseduti da un sogno, quando siete l’a­
bitante di un sogno, siete guidati da ciò, da una specie di battito dei
cuore: e ii sogno dice qualcosa che non è mai detto, che non sarà mai
detto da nessuno altro e che voi non conoscete; possedete il segreto
sconosciuto. È questo, non la possibilità di conoscere il segreto, che vi
fa sognare e scrivere: la sua presenza palpitante, il suo sentimento.
Chiaramente, i sogni ci portano anche altre cose. Una è l'incredibile
situazione che osa mostrare Clarice Lispector. È un tipo di esercizio in ses­
sualità che non ha niente a che vedere con la perversità o con l'erotismo,
ma che è l'illustrazione vivente di quei paradossi, contraddizioni, e diffi­
coltà nella nostra relazione con l'altro. Neirepisodio che ho iniziato a ci­
tare, che portava aU’incontro con lo strano mulatto, avrete notato la cru­
dezza della descrizione dell'uomo. Inizia con “un uomo un uomo un uo­
mo”, in una connotazione razzista che Clarice Lispector lia inscritto inten­
zionalmente. Non l’ha inventata; probabilmente ha annotato uno dei suoi
sogni. Non è scritta per trattare il tema del razzismo, ma per portare una
persona aH'estremità deiraccettabile, ai punto in cui si inizia a rifiutare (La
passione secondo GH. esibisce lo stesso tipo di comportamento: la don­
na mangia consapevolmente una blatta, una barata - femminile in brasi­
liano - come se questa donna stesse mangiando la donna arcaica).

E, come una porta che si chiucie m fretta senza rumore, rapidamente Virginia
si addormentò. E rapidamente sognò.
Sognò che la sua fora diceva ad alta voce dirigendosi ai confine del mondo:
voglio uscire dai limiti della mia vita, senza parole solo con l'oscura forza che
dirige se stessa (ibid., 74).

Mi sono emozionata nei leggerlo* È già La passione secondo G.H.


Oggi lo sogna; lo scriverà trent anni dopo.
Tre Passi sulla Scala della Scrittura 115

Un impulso crudele e vivo ia spingeva m avanu e lei avrebbe desiderato mori*


re per sempre, se morire le avesse dato un solo istante di piacere, raie era la
gravità raggiunta dai suo corpo. Avrebbe dato il suo cuore da mordere. Come
crudeltà suprema, Virginia voleva uscire dai limiti della sua vira. Allora usci di
casa e andò alla ricerca, alla ricerca con tutto ciò che di più feroce possedeva;
alla ricerca di un'ispirazione, le narici sensibili come quelle di un animale ma­
gro e impaurito, ma tutto intorno a lei era dolcezza e la dolcezza lei oramai la
conosceva e ora ia dolcezza non era che l’assenza della paura e del pencolo.
Avrebbe fatto qualcosa cosi al di là dei suoi limiti da non riuscire neppure a ca­
pirlo - ma lei non aveva forze, ah, non poteva uscire da ciò che poteva. Dove­
va chiudere un secondo gli occhi e pregare perse stessa con un disprezzo bru­
tale finché con un profondo respiro, spogliandosi dell’ultimo dolore, dimenti­
candolo, infine si sarebbe incamminata verso il sacrifìcio del destino. Perchè
sono libera, se con un gesto posso rinnovare tutto quanto - Virginia cammina­
va nella campagna sotto un cielo slavato - allora nulla mi impedisce di com­
piere quei gesto; questa era la buia sensazione inquieta che lei provava.
Stava camminando quando vide un cane e con uno sforzo ansimante simile a
quello che si fa per uscire da acque chiuse, a quello che si fa per uscire da ciò
che si può, decise di ammazzarlo mentre camminava. Il cane scodinzolava in­
difeso - pensò di ammazzarlo e l’iclea era fredda, ma lei temeva di ingannare se
stessa, dicendosi che ridea era fredda per sfuggirne. A quel punto, a gesti
guidò il cane fino ad un dato punto sui fiume e col piede lo spinse risoluta­
mente nelle acque verso la morte. Lo senti guaire, io vide dibattersi trascinato
dalla corrente e morire - non ne rimase nulla, neanche un cappello. Virginia
prosegui serenamente. Serenamente continuava ad andare alla ricerca. Vide un
uomo, un uomo, un uomo. Per effetto del vento i suoi pantaloni ampi gli si in­
collavano al corpo, quelle gambe, quelle gambe magre. Era un mulatto, l’uo­
mo, Puomo. I suoi capelli, mio Dio, i capelli ingrigivano. Tremando dal disgu­
sto lei gli andò incontro tra Paria e lo spazio - e si fermò. Anche lui si fermò, t
vecchi occhi in attesa. Niente sui volto di Virginia lasciava supporre ciò che ici
aspettava che accadesse. Lei doveva parlare e non sapeva come. Disse:
‘'Prendimi1’
Gli occhi del mulatto si spalancarono. E subito dopo stagliato contro Tana
pura e il vento, contro il verde chiaro e scuro dell’erba e degli alberi, subito
dopo, capendo, lui scoppiò a ridere. Muto ia sollevò ridendo, i capelli che in-
grigivano, ridendo, e dietro si estendeva la campagna battuta dai vento. Mu­
to la sollevò ridendo, un odore di carne masticata gli saliva dalla bocca, dal
ventre attraverso la bocca, un alito di sangue; dalla camicia semiaperta spun­
tavano lunghi peli sudici e intorno l’aria era vivace, lui ia sollevò per le brac­
cia e la sensazione di ridicolo ia irrigidì ferocemente - la faceva dondolare
nelPana per dimostrarle che era leggera. Virginia lo allontanò con violenza e
iui muto, ridendo, muto si incamminò e ia trascinò e invincibile la prese. E
lui rideva ancora quando lei si rialzò e serenamente come per uscire infine
116 Hélène Cixous

dai limiti della sua vita calma e vigorosa gli schiacciò col piede il volto rugo­
so e gli sputò addosso mentre lui muto hi guardava non capendo e il cielo si
dilatava in un unico azzurro. In quel momento lei si svegliò di colpo c quan­
do aprì gli occhi era quasi in piedi, il viso limpido e ansioso, immobile, Virgi­
nia sentiva tutto il suo corpo fino all'ultimo nervo, grande, i muscoli rilassati
e contenti (ibid., 74-76).

Virginia va oltre il possibile; più in là di quanto vada in realtà; è an­


cora giovanissima e fa l’impossibile. É un'esperienza in cui Virginia (che
è sia la sognatrice che quella sognata, cosi da renderci impossibile deci­
dere se sia stata stuprata o si sia stuprata lei stessa) perde ciò che in
francese chiamiamo “il suo fiore” (ho bisogno della parola a causa di
Genet e a causa di ciò che vi dirò oggi). Non è più vergine - se non co­
me Virginia - perché sa tutto sulle relazioni tra gli uomini e le donne;
ciò In trasforma completamente nella vita reale: sebbene io non sappia
cosa sia la vita reale, se non che la vita da sogno è ovviamente la più rea­
le. Non conosco altro esempio in scrittura di un sogno cosi violento. Bi­
sogna essere un potente sognatore ed uno scrittore potente per trascri­
verlo e darlo da leggere al pubblico. Let è autrice della propria verginità
e del proprio stupro - che è il risultato di ciò che chiama la sua forza -
grazie al sogno.
Il cane è ruornaro per essere ucciso. Il che e anche degno di n
non perché ci sia stata l'uccisione di un cane, ma perchè Clarice
Lispector ê energizzata cosi direttamente dall'inconscio che, già da gio­
vane, sapeva - anche se in modo insondabile - tutti i misteri che fanno
una grande scrittura ed una grande vita.
I sogni ci ricordano che c’è un tesoro rinchiuso da qualche pa
e che la scrittura è il mezzo per cercare di avvicinare il tesoro. E come
sappiamo, il tesoro è nella caccia, non nella scoperta.
Se potessi, sarei gelosa dei sogni; sono più potenti di noi, più gran­
di m debolezza e in forza. Nei sogni diveniamo magici, che è la ragione
per cui, se potessi essere gelosa dei miei sogni - e a volte lo sono - lo
sarei.
Tre Passi sulla Scala della Semi uni 117

li sogno a msegna 7/ puro elemento della paura"

I miei autori sono sognatori: hanno capito ciò che Cvetaeva s


luppa magnificamente in “Puskin e Pugachev" (1993): che l’inconscio è
alla fonte. Non parlo in termini freudiani: si tratta delia fonte delle pul­
sioni che saranno i motori della scrittura, d ò che Cvetaeva, raccomando
la storia della “guida", chiama: "il puro elemento della paura” Come nel­
le fiabe dì Gnmm e di Perrault, ella suggerisce che godiamo della paura,
della delizia che è nella paura, una delizia di cui non possiamo godere
nella realtà, perché abbiamo paura per fa nostra pelle. Di converso, a di­
ce Cvetaeva, una fiaba d ìe non spaventi, non è una fiaba. È il terrore che
ci trasporta nel luogo dove fu portato Dostoevskij quando venne con­
dannato a morte, nel luogo più prezioso, più vivo, dove dite a voi stessi
che state per ricevere il colpo d’ascia, e dove scoprite, alla luce dell’a-
scia, ciò che Kafka fa dire a Mosè: come è bello il mondo, pur nella sua
bruttura. È in questo momento che, come direbbe Blanchot, "vediamo
il giorno” In questo momento, m extremis, nasciamo e beneficiamo di
quelle strane cose che possono accadere durante un’esperienza perico­
losa, magnifica e crudele come la perdita di un familiare ancora nel fio­
re dell’infanzia o della gioventù. Proveremmo, con grande orrore, qual­
cosa di molto singolare: da una parte, una perdita infinitamente più
grande dì quella che proveremmo se fossimo d ’eià matura, e, d'almi
parte, una gioia inconfessabile - diffìcile da percepire - che è semplice
mente la gioia d’essere vivi.
La pura gioia del sentimento che non sono io a morire. Prova di vi­
ta: il sentimento che c’è la morte e la vita, e che l’ascia non è caduta su
di me. Proviamo questa gioia effimera e giubilatona in seguito alla per­
dita di una persona cara come un lampo di fulmine, poi si cancella per­
ché non appartiene ai sentimenti umani. Si cancella in modo tale che
solo coloro i quali ne hanno fatto esperienza la conoscono; gli altri tro­
vano difficile anche solo immaginarla. L’età vi contribuisce, perché ab­
biano una relazione col lutto e con fa perdita che matura e cambia col
tempo.
J18 Hélène Cixous

i misteri persi

I sogni ci ricordano i misteri. I misteri di cui abbiamo bisogno so


quelli che si sono perduti; riemergono solo quando qualcosa si riapre.
Per una madre e una figlia tra le quali c’è una malattia come il cancro -
dico madre e figlia perché e ia relazione più intensa, ia più vicina dai
punto di vista del corpo - accadono cose inaudite che non possono esi­
stere mai nella vita quotidiana, che sono tuttavia i segreti veri e propri
delle nostre vite. Dicendo cancro, vorrei evocare una minaccia che co­
noscono tutti, che tutu prendono sui seno, che vivono - un momento
tra i sentimenti più alu e più forti della vita. Se abbiamo perso tutto nel­
la realtà, 1 sogni ci permettono di ripristinare quei momenti in cui siamo
più grandi, più forti in forza e in debolezza - quando siamo magici.

La parola magica

Ciò che troviamo nei sogni ê “il puro elemento della paura”
Quando Cvetaeva usa la parola elementor questa evoca qualcosa di ma­
teriale, come se lei ci stesse indicando la pura sostanzat qualcosa di chi­
mico, qualcosa di concreto, che si trova, si teme, si prova, si percepisce
nel sogno. In “Puskm e Pugachev”, Cvetaeva scrive:

Ci sono parole magiche, magiche oltre ì loro significati (siamo già nell’ele­
mento, H.C.l, fisicamente magiche, con una magia inerente ai suono stesso,
parole che prima di esprimere un messaggio hanno già un significato, parole
che sono segni e significati in se stesse, che non richiedono comprensione ma
solo ascolto, parole dei linguaggio onirico delfanimaie, del bambino*
È possibile che ognuno abbia nella vita le proprie parole magiche.
Nella mia vita, la parola magica era e rimane - la Guida (Cvetaeva, 1993, 242).

Buone notizie, perché se non avete trovato ie vostre personali pa­


role magiche, vivete ancora tempo per trovarle. Ognuno ha le proprie
parole magiche. Nei momento in cui trovate la vostra parola magica -
può essere una, o molte - allora possedete la chiave, potete iniziare a
scrivere.
Tre Passi sulla Scala della Scrittura 119

Per Genet, come ha mostrato magicamente Derrida nel suo straor­


dinario Glas, era la più ovvia e la meno ovvia tra tutte le parole: ii suo
nome proprio, genêt.
Cvetaeva continua, dicendo;

Se mi avessero chiesto, a me ragazzina di sette anni in un sonno a sette strati:


"Quale é il nome del lavoro dove si incontrano Savelich e il Tenente Grinev e
L'Imperatrice Caterina Seconda?” avrei risposto senza esitazione: "La Guida”. An­
cora adesso La Figlia ctel Capitano è quella parola ed ha quei nome (ibidem).

La "Guida” è quella cosa sconosciuta che è, allo stesso tempo, la


cosa più conosciuta: quella macchia nera a distanza, neH’oscuro vortice
delia tormenta, molto fontana, verso cui, come Cvetaeva dice in modo
cosi bello, “i poeti camminano, senza pensare, come se tornassero a ca­
sa”, Ed aggiunge;

Oh, mi innamorai immediatamente della guida, da quel momento del sogno


quando il padre fattosi da se, cioè i( contadino dalla barba nera, che si trova
nel ietto al posto del padre di Grinev, mi ha guardato con gli occhi che ride­
vano. E quando il contadino, afferrando l'ascia, ha iniziato a brandirla a destra
e a sinistra, sapevo che io, cioè, Grinev. che noi ne saremmo usciti interi, e se
mi fossi spaventata, era ia paura dei sogni, e lussuriavo nella mancanza di sof­
ferenza nella paura, nella possibilità di attraversare l’intera paura fino alle sue
profondità senza soffrirne le conseguenze. (Cosi, nel sogno, voi rallentare in­
tenzionalmente il passo, per provocare l’omicida, sapendo che, all'ultimo se­
condo, fuggirete). E quando lo spaventoso contadino cominciò a chiamarmi
dolcemente, dicendo: "Non avere paura! Vieni sotto ia mia benedizione!”, ero
già lì, sotto la sua benedizione, in piedi, e con tutta ia mia considerevole for­
za da bambina, spingevo Grinev: “Beh, va, continua, va avanti! Amaio! Amalo!”
ed ero pronta a piangere amaramente perché Grmev non capiva (Grinev non
è mai molto bravo a capire) che il contadino lo ama, il contadino abbraccia
tutti, ma ama lui, proprio come se un lupo stesse per porgervi improvvisa­
mente la zampa e voi non la prendeste (ibid., 242-243)*

L’ascia è tornata. Non ê possibiJe percorrere questa strada senza in­


contrare l’ascia ed essere illuminati dalla sua luce.
Che dire di questa scena con l'ascia e il contadino?
Quanto mi sono rallegrata leggendo ciò che Cvetaeva ci racconta,
con la sga abituale franchezza e forza, a proposito ciel sogno che fonda
120 Hélène Cixous

l'intera sua esistenza: non è neanche - e questa è la pane bella - il suo


sogno ma un sogno in un libro di Puskin. Ciò che é meraviglioso é che
la genealogia della scrittura è circoscritta in un sistema di storie sui mi­
steri di scrittura.
Potremmo addirittura dire che Cvetaeva poeta ha per nonno un
sogno di Puskin. All’inizio de “Il mio Puskin" ci dice d’essere uscita dal
ventre di Puskin - ventre da cui è nato il suo corpo, la sua vulnerabilità
e la sua forza m Poi c'è il sogno ne La figlio dei Capitano raccontato dal
giovane Gnnev, che conferma e inscrive questa prima intuizione.
Gnnev, il personaggio che sognerà, è un giovane aristocratico di
sedici anni; il sogno avrà luogo durante l’incredibile tempesta;

Mi trovavo in quello stato dei sensi e dell’animo in cui i! mondo materiale, ce»
dendo alle fantasia, vi si confonde nelle sfumate visioni del primo sonno. Mi
sembrava che la bufera imperversasse ancora e che noi vagassimo ancora per
il deserto di neve... D’un tratto vidi delle porte ed entrai nel cortile padrona­
le della nostra casa. 11mio primo pensiero fu il timore che papà si adirasse con
me per l'involontario ritorno sotto il tei lo paterno e lo considerasse un atto dì
intenzionale disobbedienza. Con inquietudine saltai giù dalla kibìtka e vedo:
la mamma mi viene incontro sul terrazzino d’ingresso con uncina di profon­
do abbattimento.
■‘Fa piano” mi dice "papa è malato, sta per morire e desidera dirti addio”
Terrorizzato, ìa seguo in camera da letto: vedo che la camera è fiocamente il­
luminata: accanto al letto stanno persone con il viso triste. Piano piano mi av­
vicino al letto; la mamma solleva il velo e dice;
■‘Andrej Petróvic, Pei ni sa è arrivato; è tornato indietro quando ha saputo della
tua malattia; dagli la benedizione”
Mi misi in ginocchio e rivolsi i miei occhi verso il malato.
Ma come...? Al posto di mio padre, nel letto vedo sdraiato un muzik con la
barba nera che mi guarda allegramente. Sconcertato, mi voltai verso la mam­
ma dicendole:
“Che cosa vuol dire? Questo non è papà. E per quale motivo dovrei chiedere
la benedizione ad un muzik?',
“È lo stesso, Petrùsa” mi ripose la mamma “questo è il tuo padrino; baciagli fa
mano, che ti benedica...”

m (Un riferimento alla '‘genealogia" ili Cvetaeva, nell'intuizione d’essere discesa


dal venire di Puskin, sani ripreso anche in “l/amour du Loup*' (Cixous, 199*0· i
Tre Passi sulla Scala della Seni tura 121

Non volli farlo. Allora il muzik saltò giù dal letto, uro fuori una scure da die-
irò la schiena e si mise ad agitarla in tutte le direzioni. Volevo scappare,,, ma
non ci riuscivo; la cameni si riempiva di corpi morti; io inciampavo nei corpi
e scivolavo sulle pozze di sangue,.. Il terribile contadino mi chiamava dolce
‘mente, dicendo:
"Non avere paura, vieni sotto la mia benedizione...”
II terrore e rincredulìcà si impadronirono di me... E in quel momento mi sve­
gliai. I cavalli erano fermi; Savél’ic mi tirava un braccio dicendo:
■‘Scendi, signore: siamo arrivati" (Puskin, 2000, 17-18).

Abbiamo notato l'ascia. Non possiamo neanche immaginare quan­


te asce ci siano in queste storie. È una scena primitiva. L’amore e l’ascia
sono inseparabili. Solo quelli che u amano possono ucciderci. Quelli
che a amano ci uccidono. E noi uccidiamo quelli che amiamo. È ciò che
non possiamo vivere. Solo il sogno ce lo dice.
i Aggiungerò il breve discorso di Grinev, dietro al quale c e Puskin:

Feci un sogno, che non ho mai potuto dimenticare e nel quale tuttora, quan­
do io metto a confronto con le strane circostanze della mia vita, vedo un che
di profetico. Il lettore mi scuserà; poiché probabilmente sa per esperienza
quanto sia umano, per quanto si dispreizino i pregiudizi, abbandonarsi alla
superstizione (ibid.» 16-17).

Ê Grinev, il giovane di sedici anni, che si scusa, potremmo pensa­


re, per pudore. Ma non è così: ι nostri autori sanno che il sogno non ha
diritto di cittadinanza, non e “persona grata” 11 E questa per di più la
conquista di Freud: difendere il diruto di sognare. Freud, però, è a casa
propria: è l’imperatore elei suoi sogni.
Tramite Puskin, Cvetaeva ci racconta i segreti dell’amore. Ama il
contadino con l’ascia: ama colui che passa la linea. La scrittura si situa là,
al punto di svolta dove il Male ci lascia vedere che può trasformarsi in
Bene, e che il Bene può trasformarsi in Male. Ella ci dice che possiamo
godere di tutti questi colpi d'ascia, perché siamo nello spazio sacro del
sogno dove sono sospese tutte le regole che di solito fanno sì che ci

11 fin italiano nel lesto.)


122 Hélène Cixous

scusiamo per il sogno. Spazio, allo stesso tempo, totalmente libero e to­
talmente limitato. Genet dice la stessa cosa.
Ricordate il sogno che chiude iJMiracolo della Rosa. Genet scrive
di lunghi amori in prigione con una sene di personaggi che hanno tutu
in comune una cosa: d’essere condannati a morte - che è la ragione per
cui Genet li ama.
Arriviamo alla (Ine del testo:

Si apri la porta di Arcamone. Dormiva, coricato sui dorso. Quattro uomini pe­
netrarono nel suo sogno, poi (ui si svegliò. Senza alzarsi, senza neanche alza­
re il torso, girò la testa verso la porta. Vide gli uomini nen e capi subito, ma si
rese anche conto molto velocemente che, per morire addormentato, non do­
veva disturbare o distruggere lo stato di sogno in cui era ancora impigliato.
Decise di trattenere il sogno (Genet, 1966, 282).

Non so più se la scena è nei sogno o fuori dai sogno, oppure se lui
si sveglia nei sogno. Ci sono sogni in cui sognamo di sognare, e sogni in
cui sognamo di svegliarci. Ma qui è soprattutto una struttura di scrittu­
ra. Nella sua indecisione e potere, questa scrittura si origina totalmente
dal sogno.

Non si passò cosi la mano tra i capelli intricati. Disse “sì" a se stesso, e sentì ia
necessità di sorridere - ma il sorriso era appena percettibile agli altri - di sor*
ridere in se stesso così che la virtù del sorriso si trasmettesse ai suo essere in­
teriore, per essere più forte di quell'istante, perché il sornso avrebbe parato,
malgrado l'immensa tristezza, la tremenda pesantezza dell'abbandono che mi­
nacciava dì condurlo alia disperazione, con tutte ie pene che comporta. Egli
quindi sorrideva, di quei leggero sornso che avrebbe conservato fino alla mor­
te. Soprattutto non si pensi che egli rissasse altro che In ghigliottina, aveva gli
occhi concentrati su di essa, ma decise di vivere dieci minuti eroici, cioè gioio­
si... Senza crescere di una pulce, divenne enorme, sovrastando e dividendo la
cella, riempiendo l’universo, e i quattro uomini si ridussero fin che non erano
più grandi di quattro punesse. Il lettore avrà capito che Arcamone era investi­
to di una maestà tale che i suoi stessi vestiti si mnobilirono Πηο a divenire se­
ta e broccato... Forse a causa del miracolo di cui egli era il luogo e l’oggetto,
o per qualche altra ragione - rendere grazia a Dio suo padre - posò per terra
il ginocchio destro. Velocemente \quattro uomini ne approfittarono per sca­
lare ia gamba e la coscia piegata. La salita però era diffìcile, la seta scivolava. A
metà coscia, precedendo la sua finta inaccessibile e tumultuosa, inconcrarono
Tre Passi sulla Scala della Scrittura 123

la mano di Arcamone, che giaceva posata. Vi si arrampicarono e, dalla mano al


braccio, sulla manica di merletto. Infine fu la spalla destra, il collo piegato sul*
ia spalla sinistra e, il più leggermente possibile, il viso. Arcamonc non si era
mosso, salvo che respirava con ia bocca aperta. Il giudice e l'avvocato entra­
rono nell’orecchio e il cappellano e il bota osarono penetrare nella bocca.
Avanzavano un po' sul bordo del labbro inferiore e caddero nel baratro. E al­
lora, quasi mentre passavano l’esofago, arrivarono ad una fila di alberi che di­
scendevano una dolce scesa, quasi voluttuosa. Tlitto il fogliame era molto alto
e formava il cielo del paesaggio. Erano incapaci dì riconoscere ìe essenze, per­
chè in uno stato come il loro non si distinguono più le caratteristiche parti­
colari: si attraversano foreste, si calpestano fiori, si scalano pietre. Ciò che li
sorprendeva di più era il silenzio. Per un po' si presero quasi per mano, per­
che aH’interno di una taie meraviglia, il cappellano e l’esecutore divennero
due scolaretti persi. Premevano all’esterno, ispezionando a destra e a sinistra,
prospettando il silenzio, inciampando sul muschio, pur di- vedere, ma non
trovarono nulla. Dopo un centinaio di metri, anche se niente fosse cambiato
in quel panorama senza cielo, fece scuro. Scalciavano allegramente 1 resti del­
ia fiera di campagna, un maglione pieno di lustrini, le ceneri di un fuoco di
campo, una frusta del circo. Poi, girando la testa, capirono che avevano segui­
to, senza essersene resi conto, i meandri più complicati di quelli di una mi­
niera. L’interno di Arcamone non finiva più. Era più coperto di nero che una
capitale il cui re fosse stato appena assassinato. Una voce dal cuore dichiarò:
‘‘L’interno é desolato", ed essi si gonfiarono di paura, che si levo in loro come
un vento leggero sul mare. Andarono più avanti, più leggeri, tra le rocce e le
scogliere vertiginose, a volte molto ravvicinate, dove non volava alcuna aquila.
Queste mura continuavano a convergere. Gli uomini stavano avvicinandosi al­
le regioni inumane di Arcamone...
"Il cuore, avete trovato il cuore?”
Et comprendendo subito che nessuno lo a\reva trovato, continuarono il loro
cammino nel corridoio, colpendo e auscultando agli specchi. Avanzavano len­
tamente, una mano a formare imbuto con l'orecchio e l’orecchio spesso in­
collato ai muro. Fu il boia che senti per primo i colpi. Affrettarono il passo. La
loro paura divenne tale che si velocizzarono su questo suolo elastico in balzi
e salti lungo parecchi metri. Respiravano forte e si parlavano senza mai fer­
marsi, come si fa nei sogni, cioè, con parole confuse e cosi dolci che non fan­
no che arruffare il silenzio... Infine, i quattro uomini scuri arrivarono ad uno
specchio su cui era disegnato, ovviamente intagliato con il diamante di un
anello, un cuore traversato da una freccia. Senza dubbio era la porta dei cuo­
re. Qüaîe gesto abbia fatto il boia, non saprei dire, ma questo gesto fece apri­
re il cuore e noi penetrammo nella prima camera. Era nuda, bianca e fredda,
senza apertura... E questa camera non era che la prima. Restava da scoprire il
mistero della camera nascosta. Ma non appena uno dei quattro pensò che
Hélène Cixous

non erano al cuore dei cuore, una porta si apri, e ci trovammo dinanzi una ro­
sa rossa, mostruosa di caglia e di bellezza.
“Ut Uosa Mistica'*, mormorò il cappellano.
1 quattro uomini furono atterriti dallo splendore. I raggi della rosa li abbaglia­
rono all'inizio, ma si ncompattarono velocemente, perché persone simili non
sj per men ono mai di mostrare segni di rispetto,.. Riprendendosi dalla agita*
zione, si precipitarono, scartando e spiegazzando « petali con le mani ubria­
che, come un satiro privato d'amore spinge indietro la gonna di una puttana.
L’ubriachezza della profanazione li teneva m pugno. Arrivarono, con le tempie
che battevano, il sudore sulla fronte, ai cuore della rosa: era una specie di poz­
zo tenebroso. Tutt’intorno a questo buco nero e profondo come un occhio, si
protesero e non si sa quale vertigine ii prese. Fecero tutti e quattro il gesto di
persone che perdono l’equilibno, e caddero in questo sguardo profondo.
Sentii il galoppo dei cavalli che tiravano il furgone per condurre la vittima nel
piccolo cimitero (ibid., 282-286).

Questo è il sogno dei sogni nell’opera di Genei. Abbiamo viaggia­


lo attraverso la successione di “stanze” e dei loro equivalenti (si potreb­
be seguire lo stesso tragitto in un gran numero d’opere letterarie, cioè,
l’esplorazione del più grande da parte del più piccolo, da Rabelais a
Swift). Una scena è posta su un’altra. La scena mistica e la scena erotica
si sostituiscono l’un l’altra, interminabilmente. Notiamo anche che
Genet non ha potuto trattare la fine estremamente potente di questo te­
sto in altro modo che sollevando la scala del sogno: solo Π egli ha com­
pleta libertà; la scena si sposta verso ciò che sarebbe indicibile altrove, i
luoghi d’enunoazione si uniscono e si succedono l’un l’altro senza di­
scontinuità, fino al punto in cui siamo noi a cadere nel buco famoso.
Quanto ai sogni di Clarice, essi sono gli autori di Acqua viva. Ac­
qua vira è un libro della notte. Sì, c ’è il giorno, ma per raggiungerlo, el­
la attraversa la notte. Questa notte non è la notte notturna. Questa Not­
te ê l’universo di passaggio. A volte Clarice si addormenta per passare
dall'altro lato u\ È un atto volontario. **E io avevo deciso che avrei dor-

u (“Da un lard all'altro" - in Cixous Calle*Gruber (299*0, la locuzione idiomati­


ca “de l'un à l’autre’', ad esclusione del femminile, viene trasformata in de Vinte ci Van­
ire , nel)'intenzione tir interrogarsi su cosa succeda nel “ passaggio” da l'una al l'altra. Suc­
cede, ati esempio, che, per gioco, per una de/gerarchizzazione e per un cambio di prò-
Tre Passi sulla Scala della Scrimini 125

mito per poter sognare, avevo nostalgia del sogno» (Lispector, 1997,
28). Con l’aiuto dalla potenza dei sogno, ella riesce a fare le sue spedi­
zioni nel reale. Bisogna attraversare il sogno per percepire la dimensio­
ne supernaturale del naturale.
Ne La mela al buio c’è un passo che mi fa pensare alla scena di
Genet, un passo che improvvisamente ci trasporta sulla scala, e che ar­
riva proprio alla fine (Lispector, 1988). I quattro personaggi di Genet so­
no lì: il cappellano, il boia, il giudice, e l’avvocato, che hanno regolato,
governato e padroneggiato la vita dell'individuo nella società. Ed ecco,
alla fine, la venta. Genet lo fa sempre. Da una parte ci svela \propri fan­
tasmi ma, a volte, attacca x veli degli altri, solleva le gonne ai giudici e
agli avvocati, soprattutto nelle opere di teatro. Ne II Miracolo della ro­
sa attacca ia Legge dicendo che, di contro alla loro astrattezza, \giudici
non hanno sognato altro che di sodomizzare i condannati a morte. An­
che i giudici desiderano infrangere gli interdetti, ma possono passare al­
l’atto solo in questo modo terribile.
Stranamente, ne La mela ai bino , Martini, che è sospettato d’aver
commesso un delitto - che non ha veramente commesso - è nella stes­
sa posizione di Arcamone, e cerca di legittimarsi immite \ridicoli perso­
naggi marionette di cui si circonda. Non funziona, e alla fine del testo,
egli arriva veramente dall’altro lato.

Come possiamo fin ire un libro, un sogno?

Cosa accade alla fine di un testo? Qui di nuovo, abbiamo mollo da


imparare da ciò che « sogni, i nostri maestri, fanno con noi: fautore è

snelliva, si ascolti anche de lu tte à l ’mttre - “dalla luna aU’ahra*’; il secondo termine
della relazione si offrirebbe al potenziale, tutto da scoprire, del rallenta della luna, la
stessa terra, in Le troisième cotps (1970/99, 31), nelhnversione-trasformazione della
scrimini, Cixous enfatizza l'emergenza dello “scivolamento” «... tra Γυηο (maschile,
unico indefinito, eletto, singolare, inconoscibile) e l’akroA (mascliile-feinminiie-neuiro,
dipendente, attraente, inquietante, desiderabile)»*.f
120 HeJene Cixous

nel libro come noi siamo nella barca del sogno. Crediamo e ci illudiamo
sempre d’essere quelli che scrivono o che sognano. Ovviamente non è
vero. Non siamo noi ad avere il sogno, è il sogno che ci ha, ci porta, e,
ad un daio momento, ci lascia cadere, anche se il sogno ê nell’autore
nel modo in cui si pensa vi sia il testo. Quelli che chiamiamo testi ci
sfuggono come ci sfugge il sogno al risveglio, o come il sogno ci evade
nei sogni. Lo seguiamo, ie cose vanno a velocità massima, e noi siamo
costantemente - che sensazione deliziosa e vertiginosa - sorpresi. Nel
sogno come nel testo, passiamo da una meraviglia ad un'altra. Immagi­
no che molti testi siano scritti in modo del tutto diverso, ma io mi inte­
resso solo ai testi che evadono. Come autrice posso dire che se per ca­
so si é attanagliati dall'inquietudine della fine, beh, è una esperienza del
tutto singolare, non necessariamente piacevole, inquietante. Solo se sia­
mo totalmente perduti, ci chiediamo: “Come andrà a finire? Finirà? E se
non finisse?” La domanda può impossessarsi di voi. É di gran lunga più
sconvolgente della domanda sull'inizio. Da una parte, un testo può aver
avuto inizio prima di noi, ed ê la cosa migliore. Dall’altra, bloccarsi all'i­
nizio - un’esperienza che non ho mai avuto - non è così grave perché
non c’è aitro da fare che attendere. 11 testo Finirà cominciando. Un testo
che si presenta e che non finisce mette in dubbio l'identità delia cosa
che si sta facendo. Ma finisce un sogno? Forse non ci pensiamo molto
perché è un momento difficile. Che la fine ci sfugga è forse ia sensazio­
ne con cui é più difficile riconciliarsi. Se ia fine ci sfugge, dove siamo?
Un sentimento simile all’abbandono, o allo sradicamento violento che si
prova ad un brutto risveglio. Il sogno si ê volatilizzato, e ci infligge una
sensazione più o meno intensa di lutto. I libri che non vogliono finire
mettono in questione l’intera economia della relazione con ia scrittura e
con ia vita. Ci sono libri che finiscono all'improvviso. Stavate scrivendo
e, d’un tratto, è finito.
L'esempio che mi viene in mente è quello di un libro di Thomas
Bernhard, che m’ha fatto molto ridere, sebbene non sia affatto diver­
tente. È così che Bernhard scrive, tra le righe: inscrivendo la libertà as­
soluta del testo rispetto ai suoi padroni e alla sua popolazione. Il titolo
del testo è Alte Mester - Komodie (1985/ È talmente performativo che
Tre Passi sulla Scala della Seraiura 127

non ci rendiamo conto degli elementi che sono in gioco nel testo, se
non quando ci ritroviamo messi fuori dalla porta del testo. Il narratore
ha un appuntamento con un vecchio amico in un museo. È sorpreso
perché non ê nello stile delPamico, un critico d’arte. Il testo è estrema­
mence denso e compatto, come tutti i testi di Thomas Bernhard, sebbe­
ne giri su se stesso in quanto - contrariamente aJa (197φ, dove c’è nar­
rativa, c’è tempo - qut non c’è narrativa o tempo. Andiamo all’appunta­
mento, guardiamo l’ora, c’è l’iscrizione di spirali di ricordi che riguarda­
no il rapporto tra i due amici, ma tutto è sospeso dall’enigma iniziale: è
strano che m abbia dato un appuntamento in questo luogo. Cosa deve
dirmi? Perchè m’ha dato fretta ad incontrario oggi? La domanda ricorre
incessantemente. E noi, cosa facciamo noi? Leggiamo con un solo oc­
chio, aspettando l’ora del libro, quando i due amici si incontreranno.
Cosi, proprio come se aspettassimo, et lasciamo distrarre, e distratta-
mente leggiamo cosa accade nell’attesa del tempo fissato. Poi guardia­
mo l’orologio ed ê pagina 200. Alla fine l’appuntamento accade. Ad un
certo momento, il vecchio critico d’arte dice al narratore: “Vi starete do­
mandando perché v’ho fatto venire oggi, a quest'ora? Ve io dirò, ma non
adesso". Siamo a pagina 220, nella stanza del museo. Quindi il vecchio
critico chiede ai narratore se non voglia andare a teaLro con lui quella
sera, perché ha un posto. Cosi il narratore si dice: "Ecco perché mi ha
fatto venire!” lì noi diciamo: Allora abbiamo letto l’intero libro per an­
dare a teatro! Ma che ora è? L’altro dice: “Bene, é tempo, bisogna anda­
re a teatro velocemente, danno La brocca rotta di Kleist”. Si affrettano.
Non restano che due pagine. Hanno appena il tempo di vedere l’opera,
che è un fiasco. Ed è finito.
Ho adorato questo libro. I libri genuini sono sempre cosi: il luogo,
il ietto, la speranza di un altro libro. Tutto il tempo che aspettavate di
leggere il libro, ne avete letto un altro. Il libro al posto dei libro.,Qual è
il libro che si scrive mentre vi preparate a scrivere un libro? Non c'è al­
tro appuntamento con ia scrittura se non l’appuntamento a cui ci re-
chiamo domandandoci cosa facciamo qui e dove andiamo. Durante
questo tempo l'intera vita ci attraversa e, all’improvviso, ne siamo fu oa
Una volta non c era l'abitudine di scrivere questo tipo di libri. Scrivere il
128 Hélène Cixous

libro obliquamente. Non ci si permetteva di scrivere il libro che non fos­


se annunciato, lasciando che lo spazio e il tempo del libro fossero inva­
si da un libro totalmente inaspettato. Λ tal proposito, un singolare colpo
di genio letterario è il Tnstram Sbandy di Sterne.
La scrittura che si arrende a se stessa: è un p o’ quello che accade
ne II segreto. Questo libro non ha né inizio né fine. È un luogo. È ciò
che il sogno ci insegna egualmente a fare: a non temere di non condur­
re, perché, quando si scrive, fa spavento trovarsi a bordo di un libro paz­
zo. Il libro scrive se stesso, e se per caso la persona che vi sta di fronte
vi chiede cosa state scrivendo, non avete nulla da dire perché non io sa­
pere. Tuttavia il libro può scriversi solo se ha un motore. Un libro che si
scrive e vi porta a bordo deve avere un motore, anche se non sapete co­
me funziona, altrimenti va in panne.

Mi piacciono gli scrittori da sogno

Cvetaeva, Kafka, Clarice Lispector, Genet, Ingeborg Bachmann so­


no tutti sognatori: scrivani sonnambuli. Non mi ero interrogata mai ve­
ramente sulla relazione con i sogni degli au ton che amo. Quando ho co­
minciato a farlo, inizialmente si è visto che erano tutti sognatori. Ciò che
si è anche intravisto ê a qual punto la maggior parte dei libri siano fuo-
n-sogno, quanto si tengano lontano e resistano ai sogni. É sorprenden­
te che ci debba essere questo rifiuto di una fonte cosi importante. Do­
mandandomi se non fosse stata la scrittura classica ad impedire i sogni,
se non ci fosse, nella letteratura francese ad esempio, una sfiducia ge­
neralizzata verso le produzioni sognate, il solo grande sogno che io ab­
bia trovato, andando indietro nei secoli, è in Racine, il famoso sogno di
Atalia, un sogno reale intorno a cui si organizza tutto, un po' come ne
la figlia del capitano :

A tutti e due chiedo la massima attenzione.


Non voglio affatto qui ricordare il passato,
nè rendervi ragione del sangue che ho versato...
... Un sogno (è tale, un sogno, da potermi inquietare?)
Tre Passi sulla Scaia della Scrimini 129

Mi rode il cuore, insiste, non smette di assillare


... ma quando riprendendomi daii'incubo funesto
fissavo quel bel volto, cosi dolce e modesto,
un acciaio assassino sentii che in pieno cuore
immergendo mi andava di colpo il traditore (Racine, 1986, 303-30^-307).

Tutto è organizzato dalla potenza del sogno insieme a una cosa


specificamente tragica: un'incertezza; bisogna prestare attenzione a
questo sogno, oppure no? C'è una grande battaglia col sogno. Atalia è
un personaggio dell'inconscio, un personaggio raro. Ai contrano, è cir­
condata da personaggi che appartengono alia scena del conscio. Questa
discrepanza produce effetti tragici. 11 contenuto del sogno è brutale: il
sogno inscena, per due volte, la morte della madre. C’è una qualche ci­
clicità nella produzione dei matricidi. Visto in prospettiva, il destino del
personaggio è interessante, perché è una storia di una messa a morte. U
secondo sogno non fa che profetizzare ciò che accadrà. Non ho mai
amato Atalia, perché vi trovavo di nuovo la ripetizione dell’antica e for­
midabile scena dell’assassino della madre pervenutaci dalla notte dei
tempi, pur se la stessa Atalia ci appare come una regina assetata di san­
gue, come dice “il sangue che ho versato”. Il sogno è reale in ogni caso,
un colpo di genio di Racine nei panni di Atalia.
Aitrove, ci sono pochi sogni, eccetto nel mondo dei romantici.
Non li considero esemplari, ma eccezionali, i romantici francesi, tede­
schi, inglesi. Nella letteratura c'è stata una breve epoca “rivoluzionaria”,
una rottura - o un ritorno - da parte dei poeti-bambini alle fonti del ge
nio: i'ìnconscio-madre.
Ciò che mi sorprende veramente, però, ê Ia sfiducia frequente da
parce degli scrittori. Non so dov’è posta, se precede la seni tura, se gli
autori sono dei non-sognatori, oppure forse, per loro, reprimere i sogni
è una condizione della scrittura? Forse c’è un senso di pudore nel ripar­
tire dall’inconscio per scrivere? Tutto ciò è senza meno immaginano
perché, quando si comincia a scrivere, quando si scrive in una tradizio­
ne, si é in un immaginano di tradizione, in un immaginano di letteratu­
ra dove si propongono leggi immaginarie che crediamo ordinino il
mondo della scrittura.
130 Hélène CLxous

La stona dei miei sogni

Ι-Io cominciato a scrivere nelle regioni delt'inconscio. Avevo rappor­


ti enormi e clandestini con i sogni; 1 miei sogni erano talmente più forti di
me ciie non potevo fare altro che obbedirvi. Eppure avevo una sensazio­
ne inquietante d’impostura. Continuavo a dirmi: ciò che ho appena scrit­
to non viene da me. lo potevo scrivere una tesi, ma i testi che scrivevo
non erano miei. A lungo ho vissuto in uno stato di grave incertezza - a
voite mi dicevo addirittura che non avrei dovuto firmare col mio nome.
Oppure, in altre situazioni, ero in gran disagio quando mi parlavano di te­
sti che “io” avevo scruto. Credono che sia io, ma io non faccio che copia­
re l’altro; è dettato: l’altro, non so chi sia. Inoltre, allo stesso modo in cui
non si governano « sogni, pur sapendo che era "l'altro" ad arrivare, non
ero mai sicura che "l'altro" sarebbe arrivato. Non avevo in me la memoria
della stona dei miei sogni. Avevo sempre sognato? Cosa sarebbe successo
se non avessi più sognato? Sfidavo radicalmente la questione dell’autorità.
Con un’ingenuità perfettamente giustificabile. Detestavo ridea di inuto-
larmi autrice o scrittrice. Ci ho messo vent anni prima di poter tollerare
che questa etichetta mi fosse incollata come definizione.
Cosa c’è da dire se si è ladri di sogni? Dopo anni, mi sono ritrova­
ta a dire che non si può pensare l’esperienza: bisogna prima di tutto ri­
spettare il sogno, rispettare il fatto che io straordinario interdetto sui so­
gno sia in rapporto con l’interdetto generale e con il fatto che molti tra
noi hanno perso la fonte, definitivamente o occasionalmente. L’inaridi-
mento occasionale del sogno é molto frequente - si rapporta a ciò che
riusciamo o meno a sopportare del nostro rammarico. Abbiamo i nostri
periodi di deserto. Mettersi in rapporto con l'inconscio è delicato, per­
ché non abbiamo controllo sugli andirivieni, sugli zampilli della fonte.
Ho anche imparato che è necessario che i reamt dei sogno non siano si­
tuati esclusivamente dove sono, cioè, sotto il letto, nella profondità del­
ia notte, ma che devono esistere anche nella realtà della veglia. È terri­
bile pensare che si potrebbe scrivere senza il potere dei sogni. Questa
potenza deve essere ritrovata; quindi bisogna lavorare per ottenere la
stessa forca ed intensità nella realtà come nei sogni.
Tre Passi sulla Scala della Scrittura 131

In questo senso Clarice è esemplare. In "Amore” la scena con il cie­


co alla quale abbiamo fatto riferimento, è una scena di sogno - è una
scena reale, il testo dà ie sue prove di realtà perché sembra realista, ma
ha radici di senso e dì rivelazione d ie vanno ben oltre il realismo
(Lispector, 1999). Affonda nelle profondità più profonde di tutti i nostri
segreti; cosi bene che i significanti di questa scena potrebbero essere
trovati in un sogno. Sono i significanti apparentemente insignificanti e
familiari che spesso fanno sia apparire che esplodere le mura che bloc­
cano le nostre finestre. Clarice è riuscita a rompere lo schermo, l’opacità
che ci impedisce di vedere ia realtà. Ê di questo che parla costantemen­
te nei suoi testi - ritrovare nella realtà ciò che non abbiamo la forza, ia
rapidità, l’intelligenza di percepire.
Un equivalente sogno/realtà è la scena che racconta Genet in “Co­
sa rimase di un Rembrandt* (Genet, 1997): la breve scena accade in un
vagone di treno, un niente a partire dai quaie tutto si lacera e finterò
mondo si capovolge, proprio come accade nei sogni. La difficoltà sta nei
fatto che bisogna letteralmente riscoprire ia notte nascosta nei giorno,
ma non è impossibile: é un esercizio e deve essere fatto.

Viaggio ai sogni più vietiti

Non vado da qualsiasi Sogno strano. Vado da quelli che somigliano


ai giardini antichi dove ho trascorso una vita dimenticata, da quelli che
nascono ai di sotto della terra, prima dei nomi, nelle zone dove si paria
la musica, dove risuonano ie lingue prima delle lingue. Mi sento “a casa”
nella notte di Clance Lispector.

La mia notte vasta si svolge nel primario di una pulsazione. La mano·si posa
sulla terra e ascolta calda pesare un cuore. Vedo il grande verme bianco con
seni di donna: è ente umano? Lo brucio m rogo inquisitoriale. Ho ii mistici­
smo delle tenebre di un passato remoto. Ed esco da quelle torture da vittima
coi marchio indescrivibile che simbolizza la vita. Mi circondano creature ele­
mentari, nani, gnomi, folletti e geni. Sacrifico animali per raccoglierne il san­
gue di cui ho bisogno per le mie cerimonie di sortilegio. Nei mio accanimen-
132 Hélène Cixous

[o faccio J'offerta dell'anima nel suo stesso nerume. La messa mi impaurisce -


me che la officio. E !a torbida mente domina la materia: la fiera mostra i den­
ti e galoppano in lontananza nell’aria i cavalli dei carri allegorici.
Nella mia norie idolatro il senso segreto del mondo. Bocca e lingua, E un ca­
vallo lanciato da una forza libera. Gli guardo lo zoccolo in amoroso feticismo.
Nella mia profonda notte soffia un pazzo vento che mi reca rei* di grida
(Lispector, 199/, 3-i).

La notte del cosmo, dove soffiano i venti dei misteri, quelli che, in se­
guito, quando verra l’era della scrittura, prenderanno la forma delle odi e
delle tragedie. Vado, viva, lì dove andrò postuma, ai tempi prima del tenv
po e al mondo dopo il tempo. Io stessa, là, non sono più che un sogno.
Da qualche parte, vicino a un fiume, incontro i Sogni di Kafka. Non
ci conosciamo, ma ci riconosciamo.
1 sogni di Kafka sono di straordinaria bellezza, ma lo sono mera
gliosamente in quanto scrittura di sogni. Eccone due o tre. Uno che ho
sempre amato è un’inezia che dice tuuo del rapporto di Kafka con \sogni:

Avvolgi il tuo mantello, alto sogno, intorno al bambino (Kafka, 2000, 835).

I sogni di Kafka sono angeli senza ali. Movimenti deH’amma. Atti


benevolenza. Corse. Infiniti. Verbi senza soggetti.
Eccone un altro:

Chi è? Chi cammina sotto gli alberi, sul lungofiume? Chi è irrimediabilmente
perduto? Chi non può più essere salvato? Sulla tomba di chi sta crescendo
l'erba? Sono arrivati dei sogni, risalendo la corrente del fiume, stanno salendo
per una scala sulla banchina. Ci si ferma, si conversa con loro, essi sanno mol­
te cose, quello che non sanno è di dove vengono. Molto tiepida, questa seni
d'aurunno. I sogni si volgono verso il fiume e atenno ie braccia. Perché alzate
le braccia, invece di stringerci in esse? (Kafka, 2000, 851).

Ecco ancora un altro sogno, con un titolo che ci fa sognare: “So­


gno infrangibile"

Essa correva lungo la via maestra, io non la vedevo, notavo solo il movimento
sussuhorio della sua corsa, il suo velo svolazzante, il suo piede che s’alzava. Io
stavo sedino al margine dei campi e guardavo ne N’acqua del ruscelletto. Essa
Tre Passi sulla Scaia della Scrittura 133

attraversò di corsa i villaggi, i bambini» usciti sulle soglie, la guardavano avvici­


narsi, la guardavano allontanarsi (Kafka, 2000, 775).

Se barassi un po' potrei fare un “montage” e dirvi che questi sono


frammenti da "I deserei dell'Amore”. È esattamente il modo in cui scrive
Rimbaud: a bordo del sogno. Allo stesso modo capita che Kafka non la-
vorasse su questo lato: scriveva in modo fantasmatico più che poetico.
Il suo apprendistato era in qualità di ospite dei morti, il che gli permet­
teva di scrivere un sogno senza autore. Nessuno lo sa. Solo il sogno ci
insegna questa sensazione di “nessuno lo sa” - in queste brevi frasi si
sentono tutte le emozioni de "I deserti dell‘amore’\ la razza, il passag­
gio, il luogo alquanto spaventoso dell’emozione - eppure non è né nel
linguaggio, né nella grammatica, neppure nella scrittura. Ho sempre
adorato questi sconosciuti che camminano lungo il molo. Non si può
scrivere nulla di più magnifico di questa perdita che è la separazione del
soggetto, il non-riconoscimento che, lungi dal restare astratto, si mate­
rializzerà al punto dell’erba che cresce sulle tombe, per essere poi se
guita dall'arrivo dei sogni.
Questi sogni: ciò che siamo quando non siamo più noi stessi; le
nostre sopravvivenze. Profeti delle nostre tracce, delle nostre meta­
morfosi definitive. Autoritratti dei nostri fantasmi futuri. Qualcuno m
noi ha il presentimento di un riconoscimento futuro, “Sarò io!” sentia­
mo *Ecco perché li vediamo correre attraverso le notti dei poeti.
Eccoli di nuovo, nel corpo sorpreso di Ingeborg Bachmann. Que­
sto è in Fuga di Notte:

Il nostro campo è il cielo,


Coltivato dal sudore dei moion,
alla faccia della notte
a rischio dei nostri sogni -

Chi ci viveva? Pure erano le mani di chi?


Chi splendeva nella notte,
uno spinto ad altri spinti?
Ι3*ί Hélène Cixous

Chi vive lì giù? Chi grida...


Chi Iiìi pensa hi chiave di casa?
Chi non trova più il letto, chi dorme
Sui gradini delie scale? Quando il mattino viene, chi
Oserà interpretare la traccia argentea: guarda al di sopra di me... Quando
l/acqua spinge la ruota dei mulino una volta ancora,
Chi oserà ricordare la none? (Bachmann, 1986, 59*60).

Cosa dobbiamo fare per andare alla Scuola dei Sogni?

É la domanda più insistente. So che é necessario viaggiare fin lì. Fa­


re quello che fa Clarice, ad esempio: andare a dormire “E io avevo deci­
so che avrei dormito per poter sognare, avevo nostalgia del sogno”
Come le piante, i sogni hanno nemici, pidocchi che li divorano. Il
nemico del sogno é l’interpretazione. Ho Ietto L’interpretazione dei so­
gni con passione ma, sebbene sia un libro meraviglioso, è un vero as-
sassmo-di-sogni perché interpreta. Vuole far espettorare ι sogni. I sogni
interpretati da Freud ne Uinterpretazione dei sogni sono tutti simili: an­
che se c’è una differenza nel contenuto, un nucleo diverso, ia scrittura è
la stessa. I sogni sono scritti da Freud, i propri e quelli d'altri. La carne
del sogno non è più lì. Questo é il grande pericolo. Dobbiamo sapere
come trattare il sogno in quanto sogno, come lasciarlo libero, senza dar
credito ai demoni esterni e interni che distruggono i sogni. Noi tutti ab­
biamo un demone, ce n’è uno nascosto nei sogno. Questo demone cer­
ca di far sparire il sogno nei momento in cui a muoviamo. Dobbiamo la­
sciare che il sogno ci trasporti, proprio come si lascia trasportare Kafka
dai suo “Desiderio di diventare un indiano” (Kafka, 1986). Dobbiamo la­
sciarci trasportare sulla criniera dei sogno, senza svegliarci - una cosa
che sanno tutti i sognatori - mentre il sogno ci detta il mondo. Come
farlo? Dobbiamo scrivere sotto il dettato del nostro maestro sogno, ma­
ina in mano, abbracciando la criniera a pieno galoppo.

Ci sono pochi sogni nei libri. Come se avessero una brutta reputa­
zione. Ce ne sono sempre di meno. Una volta i sogni ricorrevano in tut-
Tre Passi sulla Scala della Scrittura 135

ri i grandi libri - nella Bibbia, nei poemi epici; nella letteratura greca, nei
poemi epici babilonesi, in Shakespeare - in una modalità arcaica, poi si
sono allontanati. Associo questo crescente distanziarsi, questo dissecca­
mento, con ia diminuzione di altri segni. Allo stesso modo troviamo:
sempre meno poesia
sempre meno angeli
sempre meno uccelli
sempre meno donne
sempre meno coraggio
Giacobbe si sveglia, si aiza. Che ne è della scaia?
Dovete prendere una pietra, porla sotto la testa, e lasciar che la
scala dei sogni cresca. Cresce alFingiu - verso le profondità.
LA SCUOLA DELLE RADICI

Uccelli, donne, e scrittura


Il passaggio di tutte le frontier
a) Certificati di nascita
b) Le due nature
c) H sexto (C.L) dell'autore
d) La frontiera di Genet
La parola Racine: una storia di nomi propri
Tutto finisce con t fiori
Verso il libro senza autore
Uccelli, donne, e scrittura ‘

Sono interessata ad una catena dì associazioni e significanti fatta di


uccelli, donne, e scrittura. Da un Iato ciò potrebbe suonare divertente,
gratuito, ma non lo è. Basta leggere il capitolo nel Levitico nella Bibbia
per capirne la serietà, il capitolo dà a Mose e all'umanità in generale le
leggi sull’alimentazione: il dettato di ciò che è edibile e ciò che non io
è. In inglese, ia distinzione é tra carni clean (pulite) e carni nnclecin
(sporche). Ho bisogno dei francese: in francese, itndean c immonde
dal latino immundus; é la stessa parola in brasiliano - immundo - e ne
avrò bisogno in seguito.

Fra i volatili terrete in abominio questi, che non dovrete mangiare, perché ri-
pugnanti: l'aquila, l'ossifraga e l'aquila di mare, il nibbio e ogni specie di falco,
ogni specie di corvo, io struzzo, ia civetta, il gabbiano e ogni specie di spar-
viere, il gufo, l'alcione, ribis, il cigno, il pellicano, la foiaga, ia cicogna, ogni
specie di airone, l’upupa e il pipistrello.
Sarà per voi in abominio anche ogni insetto alato, che cammina, su quattro
piedi (Lv, li, 13-20) 1

1 [Questo capitolo ciani spunti creativi per “Démasqués!” (Cixous, 1995).|


- [Si veda "Dedica nllo Struzzo” in Manne (Cixous, 1988). nel commento deil'n
tnce: *Ho cominciato a lavorare sudo struzzo attraverso il doice (del matrimonio dei
140 Hélène Cixous

Quindi, ciò é quanto non dovremmo mangiare. Quesu sono abo­


minevoli. Perché sono abominevoli? Quando ce ne sono altri che pos­
siamo mangiare - ad esempio:

U l ogni specie di cavalletta, ogni specie di locusta, ogni specie di acridi e


ogni specie di grillo. Ogni altro insetto alato che ha quattro piedi lo terrete in
abominio! Per i seguenti animali diventerete immondi: chiunque toccherà il
loro cadavere sarà immondo fino alla sera... (Lv, 11, 22-24).

Possiamo fantasticare all’infinito sul mistero deH’"immondità” della


cicogna; possiamo fare ogni sogno ad occhi aperti sul cigno e suil’abo-
minio del cigno. E ovviamente, se fossimo abbastanza infantili, ci preoc­
cuperemmo; oppure, se fossimo Parsifal, ci chiederemmo ii perché d e­
gli uccelli abominevoli. E dovremmo accertare la risposta della legge:
Perché. È quanto dice la Bibbia.
Ne La passione secondo G.H., G.H., una donna ridotta alle iniziali,
incontra in completa solitudine, faccia a faccia - addirittura, occhio a oc*
chio - uno scarafaggio, un abominevole scarafaggio. In brasiliano, la pa­
rola scarafaggio è barata, ed ê femminile. Quindi, una donna incontra
una barata, il centro d'attenzione di un tipo di rivoluzione fantastica, tota­
le, emozionale, spirituale ed intellettuale che, in breve, è un delitto. La ri­
voluzione induce G.H. a rivedere completamente il suo modo abituale -
il nostro modo abituale - dì pensare: le relazioni con il mondo in genera­
le, e con gli esseri viventi in particolare. La donna deve confrontarsi con la
fobia, con l’orrore che abbiamo degli esseri cosiddetti abominevoli. Citerò
da un capitolo al centro del libro, dopo che G.H. ha avuto un’iniziale ed
ordinaria reazione alla barata: cioè, l’ha quasi “ uccisa”, schiacciandola. Dal-

Mandela)... Quindi ho lavorato sul personaggio dello struzzo con le enciclopedie. Ho


scoperto cose favolose sugli struzzi, ad esempio, che il nostro mito sul “fare come uno
struzzo" in realtà non è fondato. Al contrario, lo strur&a ha una vista assai dotata, e può
veliere nella sabbia per miglia. Abbiamo costruito, come sempre, una sorta di mitologia
inversa e negativa sullo struzzo. Al livello di miti, il dizionario ci dice che lo struzzo è un
uccello prometeico, un uccello che si dice abbia dato il fuoco. Quindi, c e stata per de­
finizione una copertura, una storia trasformata nel suo opposto, riduttiva di un anima­
le straordinario. Li messa a morie dello struzzo è la metafora siessa dì ciò che sio rac-
comumln in Manne»(CisGust 1990, 228). |
Tre Passi sulla Scala delia Scrittura MI

la barata, che è senza meno immortale, fuoriesce della pasta bianca. G.H.
entra m concatto con questa pasta: inizia a riflettere su cosa possa essere»
e come relazionarvi. È quanto dice, ad un ceno punto:

I had comnmted thè forbiddcn act of touch ing so met hmg impure (Lispector,
1988, 64) '

in brasiliano, “impure” è immondo.

And so impure was \ [cosi im m on d a ero io|, in mv sudden indirect moment


of self-knowledge, that I opened my moudi co cali for help (ibidem) *

Ut traduzione americana continua:

They proclami, die Bible does» but if I undersrand what thev proclami, they
will cali me crazy People like me had proclauned tlvat understanding them
would be my destruction. “But you shai! noi eat thè impure, thè eagle, thè
griffon, and thè hawk'\ Nor ihe owl, nor thè swan, nor thè bat, nor thè stork,
nor thè en Lire tribe of crows (ibidem)5

Lisciate che corregga questa traduzione. G.H. non dice infatti:


“They proclami, thè Bible../'

E tao imunda estava eu, naqueie meu subito conhecimento mdirecto de mini,
que afon a boca pani pedìr socorro. Eles dizem ludo, a Bibita, eles clizeni ludo
- mas se cu encender o que eles di2em, eles mesmos me chamarao de cnlou-
quecida [miei corsivi, H.CJ. Pessoas iguais a mini haviam dito, no enianto en*
tende - ias seria a mmha derrocadn.

■ [D’ora in poi, per seguire l’analisi di Cixous. daremo la traduzione americana


nel testo (seguila, quando necessario, dalla traduzione italiana letterale in parentesi) e
quella italiana ufficiale, u i passione secondo G.H. (1991), tn nota. Qui, «Io avevo com­
piuto ratto proibito di toccare ciò che é immondo» (6:i).j
4 [«Ed ero talmente immonda, in quella mia sùbita conoscenza indiretta di me
stessa che non ho neppure aperto la bocca per chiedere aiuto·» (ibidem).}
* (“Loro dicono tutto, si, quelli della Bibbia, dicono tutto loro - ma qualora io ca­
pissi ciò che loro dicono, loro stessi mi giudicherebbero impazzita. Persone uguali a me
avevano detto, eppure capirle sarebbe la mia rovma.ME non mangerete degli impuri.
Che sono l'aquila e il grifone, e l'avvoltoio". E neppure la civetta, e neppure it cigno, e
neppure ìi pipistrello, e neppure la cicogna, né ogni specie dì corvo» (ibidem). |
Hélène Cixous

"Mas nao cornere is clas impuras: quais sao a aguia, e o grifo, e o esmerilhao”
E nem a coruja, e nem o cisne, e nem o mercego, nem a cegonha, e rodo o
genero eie corvos (Lispector, 1979, 68).

Ciò d ie Clarice effettivamente suggerisce è che la Bibbia sia un ma*


sellile “essi"
Si sarebbe potuto tradurre: "Quelli Egli-Bibbra, quelli Bibbia, dico­
no timo” È strano, ma è il modo in cui scrive Clarice, stranamente, du­
ramente, più possibilmente verniero a ciò che vuole farci sentire.
Cosi, quelli Egli-Bibbia, sono loro che ci dicono d ò che è sporco e
abominevole. Clarice Lispector é una scrittrice che ha affrontato in tutta
la sua opera, tra le aitre questioni, questa nozione deJi’abominevole nel­
le nostre vite, in tutte te possibili forme. Lasciate che quegli uccelli siano
1 "abominevoli”: associo ie donne e la scrittura con tale abominio. Lo fac­
cio, ovviamente, un po; per gioco, un po sul serio. Ê il mio modo di in­
dicare il cammino o il luogo riservato, recluso o escluso, dove si incon­
trano quegli esseri che reputo valga la pena di conoscere mentre siamo
vivi. Quelli che appartengono agli uccelli e alla ioro specie, alle donne e
alla loro specie (può includere degli uomini), alle scritture e alla loro spe­
cie: si possono trovare tutu - è una bella compagnia - fuori; in un luogo
denominato da Quelli Bibbia, quelli che sono ia Bibbia, abominevole.
Altrove, fuori, gli uccelli, le donne, e la scrittura si uniscono. Non
luffe le donne, ovviamente; un numero considerevole di questa specie
si intrattiene all’interno, lo vediamo ogni giorno, identificandosi con
“quelli-Egli-Bibbia” e con la loro specie. Fuori troveremo tutte quelle
preziose persone che non si sono preoccupate di rispettare ia legge che
separa ciò che è e ciò che non è abominevole secondo Quelli Bibbia.
Mo deliberatamente incluso Genet tra quegli scrittori che ho scel­
to d’incontrare oggi. Volevo che aveste con voi ia versione francese e la
traduzione americana, corretta ed ingannevole allo stesso tempo. Genet
è particolarmente diffìcile da tradurre: abita una terra verbale che resi­
ste aci ogni tentativo di “naturalizzazione” , come diciamo in francese. Bi­
sogna viaggiare nel suo “altrove”, cioè incontrario sui propri idio-terreni
c leggere lungo i suoi specifici cammini, per abituarsi ai suo universo.
Tre Passi sulla Scala della Sem tura 143

Accade la stessa cosa con la scrittura eli Clarice Lispector e eli quegli
scrittori con i quali ho una relazione d ’amore profonda e durevole: Anna
Akhmatova, Manna Cvetaeva, Ingeborg Bachmann, Ossip Mandel’stam.
Tutti - senza averlo deciso, senza essersi incontrati, senza essersi leni Tun
l'altro - abitano ciò che Genet chiama tn francese: "Ses domaines
inférieurs”. Abitano da qualche parte, senza indirizzo preciso, nella più
evasiva delie terre, la più diffìcile da trovare e con cui lavorare, dove é
addirittura diffìcile vivere senza sforzo, pericolo o rischio. Questa terra
rischiosa è situata da qualche parte vicino all’inconscio: per raggiunger»
fa. bisogna che attraversiate la retroporta del pensiero.
Se metto insieme questi esseri per parlarne allo stesso modo, se
mi preoccupo del destino degli uccelli e delle donne, è perché ho im­
parato che non molte persone - sfortunatamente - o forse fortunata­
mente - riescono realmente ad amare, tollerare o capire un certo tipo
di scrittura; uso donne e uccelli come sinonimi.
È quanto dice Clarice Lispector con saggezza all'inizio de La Pas­
sione secondo G.H. La traduzione dice “To poteniial readers” (A lettori
potenziali) (Lispector, 1988, 3); dovrebbe dire “Ai lettori possibili”
La traduzione dice: "This is a book like any other book” (Questo è un
libro come un qualsiasi altro libro) (ibidem), quindi siate tranquilli. Ciò che
invece dice Clance Lispector é: “Questo libro è come ogni altro libro” *
La traduzione continua: “But Ï would be happy if it were read only
bv people whose outiook is fullv formecl” (Ma sarei contenta se fosse
letto solo da quelle persone il cui outiook è pienamente formato) (ibi­
dem). Non so cosa sia un “outiook” * quindi lasciatemi indicarvi ciò che
dice Clance: “Ma sarei compiaciuta se fosse letto solo da persone le cui
anime sono già mature” 7. E cosi continuo:

Those who know that thè approach to anything is done progressive^' and
painfuüy - and indudes as well passing through thè opposite of what is being
npproadied These peopie and thev alone will understand very slowly that

6 («Questo libro è un libro co me un aiirò»» (ibici,, 3). j


7 j-»Ma avrei piacere fosse letto solo da persone dal Γηnmin già forma ta» (ibidem ).|
Hélène Cixous

this book takes noLhing from anyone. To me, for example, che character G.H.
graduaUy gave me a diffìcili* joy; but it is calJed jov (ib id em )a

Cosi venite accolti ad apertura del libro. Vi viene detto che questo
libro è un libro come altri. Cosi che vi dobbiate chiedere se siete una di
quelle persone le cui anime sono già mature. È minaccioso, inquietante.
Chiedervi: “'La mia anima é già matura?” può suonare proibitivo, ma non
lo è. Il tempo di leggere la fra.se successiva, e siete già dentro o fuori ciò
che si avvicina. Vi sarà capitato una volta nella \'ita di star andando in di­
rezione opposta a ciò che arrivava. Penso che questo sia il caso, ma se
non è ancora accaduto, accadrà.
Il seguito è importantissimo: dopo essere stata severa Clarice dic
“Ma questo libro non toglie nulla a nessuno. A me, per esempio, il per­
sonaggio di G.H. ha dato poco a poco una gioia diffìcile”. Nello scriverlo,
Clance Lispector saggiamente e con enfasi parteggia con noi letton: non
è Pautnce, è simile a noi dinanzi al libro. Anche lei Io sta leggendo, deve
affrontare il personaggio che Je arriva nel libro e che le dà ogni tipo d’e ­
mozioni. Eppure é un avvertimento che questo libro et procurerà dolore,
che è ovviamente una gioia. Cosa dire del libro che non toglie nulla a
nessuno: la scrittura si muove veloce, potreste anche non notare il com­
mento, anche se credo sia una delle chiavi delle nostre vite insieme.
Ognuno di noi - l'intera umanità, senza considerare ia differenza sessua­
le - deve confrontarsi con il sentimento delle cose che ci sono state sot­
tratte. La cosa interessante è che gli uccelli, la scrittura, e molte donne
sono considerati abominevoli, minacciosi, e vengono rifiutati, perché al­
tri, coloro che rifiutano, sentono che gli viene sottratto qualcosa. Ma per-
mettetemi di lasciare le donne da parte oggi, visto che e una questione
controversa, per attenermi solo agli uccelli e alla scrittura. Né gli uccelli
né la scrittura sottraggono nulla, ma ia gente sente che alcune forme di

s {«Quelle persone sanno come l'avvicinamento a ogni cosa avvenga per gradi e
con sofferenza - e passando talvolta attraverso l'opposto di ciò che è la meta. Quelle
persone e solo loro capiranno passo per passo che quesio libro non toglie nulla a nes­
suno. A me, per esempio, il personaggio di G.H. ha dato a poco a poco una gioia diffì·
C ile , eppure il suo nome è gioia·· (ibidem).]
Tre Passi sulla Scala della Scrittura 1-Ì5

scrittura ci sottraggono qualcosa. Clance Lispector non è mai stata fem­


minista, Genet non è femminista; eppure, le loro scritture possono feri­
re, lasciare insoddisfatti, dare la sensazione che qualcosa sia sottratto.
È esattamente (ho scelto questo esempio per rendere le cose chia­
re) ciò che è successo a Gandhi. Immagino che crediate che egli fosse
prevalentemente adorato; in realtà, era odiato e lo è ancora oggi. L'odio
è ancora vivo in India e lui ne è morto. Coloro \ quali sostenevano
Gandhi provenivano, per la maggior parte, dalle cosiddette caste sche­
date, dai bassifondi con cui si era schierato. Ma Gandhi non chiedeva
nulla a nessuno; semplicemente seguiva la sua strada. Non chiedeva alla
genre dì cambiare. Faceva ciò che sentiva di dover fare. Quando la gente
si avvicinava, non chiedeva mai, non esigeva nulla da loro, non chiedeva
nulla a chi lo avvicinava, nemmeno agli amici cari; questi continuavano a
vivere come volevano. Ma il semplice fatto che vivesse secondo la pro­
pria legge - ascetica e esigente verso se stesso - era qualcosa che la gen­
te non poteva tollerare. Ci sono dei modi di scrivere che vengono per­
cepiti allo stesso modo in cui fu percepito Gandhi dagli indiani.
Clance Lispector dovette affrontare questa percezione, come
Ingeborg Backmann e Cvetaeva. Fortunatamente, esiste sempre un picco­
lo gruppo che ama tali scritture. Ma la maggioranza sono “quelli Bibbia"
Ora, che dire di ciò che si chiama m francese l'immonde, in brasi­
liano imundo , e in inglese thè undecinì Clance dice:

I was knowing that thè Bible’s impure animais are forbidden because thè
imund is thè rootJ> For there are ihings creared that have never made
themselves beautiful, and have stayed just as thev were when createci, and
only they continue to be thè enurely compiete root, they are not io he eaten.
The fruit of good and evil, thè eating of living matter, woukl expel me from
thè paradise of adornment and require me to walk forever tiirough (he desert
wich a sheperd’s staff. Many have been those who have waiked in ihe desert
with a staff To build a possible soul, a soul whose head will not devour il s

? La (Riduzione legge: “So" perché la traduzione pensa che “Stavo sapendo1' suo­
ni "sporco”, scorreiro. Lasciamo intana la “scorrettezza'’ del testo di Clarice Lispector.
ibi forma progressiva al passato del testo brasiliano è cambiata in inglese nel presente
’Ί know”, invece che "! \v;is knowing".]
146 Hélcnc Cixous

own [ail, che law commande that one uses oniy what is patently alive. And tlie
law commande that whoever partakes of thè imund, must do so without
knowing; for, he who partakes of ihe imund knowing that u is imund, musc
also come to know that the imund îs not imund. Is chat it? (ibid., 64-65)10

Ella cita la Bibbia:

“And everything that crawls on thè ground and has wings shall be imund, and
shall not be eaten”
1 opened mv mouth in fright to ask for help. Why? Bccause I did not want to
hecome imund like thè cockroach. What idéal held me from the sensing of an
idea? \\7hy should l not make myself imund? Exactly as I was reveaiing my
whole self, what was ï afraid of? Betng imund? Wîth what?
Being imund wîth jov (ibid., 65)n

Questo ê i! mio tema oggi: essere “immondo"} essere sporco di


gioia. Immondo, cioè, fuori dal mimdus (il mondo). Il mondo, il mon­
do, cosiddetto pulito. Il mondo che è dal lato buono della iegge, che ê
“proprio” , il mondo dell’ordine. Nel momento in cui attraversate la linea
disegnata dalla legge con la parola» verb(alizz)ando, si suppone che sia­
te fuori dal mondo. Non appartenete più ai mondo.

■" («io ero in procinto di sapere che l’anmiaie immondo della Bibbia è proibito
poiché l’immondo e l'origine - esistono infatti cose create che non si sono mai aitera­
te e si sono conservate identiche a quando sono state create, e soltanto quelle hanno
seguitato a essere l'origine, tuttora completa. E siccome sono l’origine noti se nc pote­
va mangiare, il frutto del bene e del male - mangiare la materia viva mi scaccerebbe da
un paradiso di orpelli e mi porterebbe per sempre a camminare con un bastone per il
deserto. E parecchi erano stati coloro che avevano camminato con un bastone per il de­
serto... Per costruire un anima possibile - un'anima la cui testa non si divori la coda -
la legge comanda di tenere per sé appena d ò che 6 larvatamente vivo. E ia legge co­
manda inoltre che colui che mangerà dell'immondo, sapendo che è immondo - saprà
pure che l'immondo non è immondo. È dunque così?» (lispector, 1991, Ó4).|
,l (“"E tutto ciò che striscia e possiede ali sarà impuro, e non se ne mangerà” Ho
aperto spaventata ia bocca: era per chiedere aiuto. Perché? perché non volevo diventa­
re immonda quanto ia blatta? Quaie ideale mi legava al sentimento di un’idea? Perché
non sarei diventata immonda, esattamente come io tutta mi scoprivo/ Che cosa teme­
vo? Di rimanere immonda di che? Rimanere immonda di gioia» (ibid, 75).|
Tre Passi sulla Scala della Scrittura 147

Li fuori saremo jn compagnia di cigni, cicogne , e grifoni, immagi­


nate questa lista dall’altro lato, celebrata da qualcuno come Dante. Dan­
te ama gli uccelli, e nel Paradiso ha visioni di uccelli come lettere ne!
cielo. Ma allora perché quegli uccelli sono immondi? Perché, Come sa­
pete, questo è il segreto della legge: "perché” La logica della legge.
Questo terribile “perché”, questo insensato fatale “perché" che ha deci­
so il destino della gente, perfino neirestremità dei campi di concentra-
mento. Le persone venivano divise, alcune erano mandate alle camere a
gas, altre “risparmiate” ad una data successiva, “perché". Questo “per­
ché” regola le nostre vite. Pervade tutto. Può addirittura raggiungere il
fragile mondo della traduzione.
Ora Clarice dice esplicitamente che l’immondo ê gioia. Sono sino­
nimi. La gioia è immonda, è non sporca: se usate l’espressione inglese
tmciean perdete il significato necessario di “fuori dal mondo”. La gioia
ê fuori-dai-mondo - é quanto vuoie farci capire Clarice. È vero che ciò
che è realmente proibito é godimento, giubilo. Come dice Clarice, con
un colpo di gemo, la questione per Quelli Bibbia é che la gioia, il giubi­
lo, gli uccelli sono proibiti perché costituiscono la radice.
Così il fine di Quelli Bibbia è di proibire la radice. Questo è quan­
to volevo portare in superficie, anche se non rimarremo in superficie; la
nostra scaia, invece, crescerà giù nella terra.
La scrittura non é messa lì, non accade iassù/fuon. non viene dal­
l'esterno. Al contrario, viene dall’interno profondo. Viene da ciò che
Genet chiama i reami inferiori, les domaines inférieurs. Cercheremo di
andarci per un po\ poiché é lì che giace il tesoro della scrittura, dove si
è formato, dove ê stato sin dall'inizio della creazione: lì giù in fondo. Il
nome del iuogo cambia secondo i nostri scrittori. Alcuni lo chiamano in­
ferno: è naturalmente un inferno buono, desiderabile. Clance lo chia­
ma: inferno . Non usa sempre ia parola inferno, ma tutti i tipi di deno­
minazioni parallele Q'Vallro lato", citato in Acqua Viva, diviene l'abisso
.di Cvetaeva). È lì giù in fondo ai mio corpo, ancora più giù, dietro il pen­
siero. Il pensiero gli viene davanti, ed esso si chiude come una porta.
Ciò non significa che non pensa, solo che pensa diversamente dal no­
stro pensiero e dal nostro discorso. Da qualche parte nelle profondità
148 Hélène Cixous

del mio cuore, che é più profondo di quanto io pensi. Da qualche par­
te nel mio stomaco, nel ventre, e se non avete un ventre - beh, allora, ò
da qualche “altra” parte. Bisogna scendere all Ingiù per andare nella di­
rezione di quei luogo, Ma, come ho detto ieri, questa specie di discesa
è mollo più difficile, molto più stancante, più gravosa fisicamente (fisi­
camente, perché l’anima é if corpo) di quanto non sia risalire la scala. È
un salire, ma richiede la forza intera di unto ciò che siete - non voglio
chiamarlo “corpo”, perché é più complesso del corpo - per attraversare
le varie porte, gli ostacoli e le distanze che abbiamo forgiato per vivere.
So inoltre che ciò che ci impedisce nella nostra società d'andarvi non è
l'inabilità - tutti starno capaci - ma la paura, la nostra codardia. La nostra
paura, poiché sappiamo benissimo che raggiungeremo il punto perico­
loso dove vivono coloro che sono esclusi - e noi odiamo l’esclusione. Il
nostro problema emozionale, personale e politico, è di non sopportare
l'esclusione. Ne siamo spaventati, odiamo essere separati, la ragione per
la quale siamo disposti a commettere tutu i possibili piccoli crimini, gli
auto-rifiuti, ed il tradimento.
Ma bisogna scegliere tra perdere ciò che è “mondo” e perdere la
parte migliore di noi chiamata “immonda” . Formati per anni ed anni da
tutte le possibili esperienze ed educazioni, dobbiamo viaggiare per tutti
quei luoghi non necessariamente piacevoli da raggiungere: le nostre pa­
ludi, il nostro proprio fango. E in realtà vaie la pena farlo. Il problema é
che nessuno ci ha insegnato che paga, che è benefico. Non ci viene in­
segnato il dolore, e neppure che nel dolore si nasconde la gioia. Non
sappiamo di poter lottare contro noi stessi, contro l’accumulo di cliché
mentali, emozionali e biografici. La tendenza generale della scrittura è
un enorme concatenazione di cliché, una lotta contro nemici subdoli. I
nemici personali in questa lotta sono quelli che Kafka denunciò come
quelli che ci sbarrano il ritorno al paradiso. Kafka insiste d ie il paradiso
non è perduto, è lì. Ma noi siamo pigri e impazienti. Se non fossimo pi­
gri o impazienti, torneremmo nel paradiso. Dobbiamo affrontare questa
pigrizia ed impazienza. E naturalmente tutti i rappresentanti di “Quelli
Bibbia” C'è un’intera lista d ’istituzioni, di media e di macchine che san­
ciscono il bando degli uccelli, delle donne, e della scrittura. Sbaglierem­
Tre Passi sulla Scala della Samum U9

mo se pensassimo che aparatcbik sia un parola Russa. Gli Apamtchik


esistono in tutti i paesi, specialmente m Francia: sono potenti contro gli
uccelli, cioè le donne, cioè ia scrittura, e la gente nc ha paura.
Il proibito è sfortunatamente il meglio, ed è la gioia. La legge ci
ce: MNon mangerai quegli uccelli, e non leggerai quei libri”, cioè: "Non
mangerai quei libri d ie sono ia gioia”. Thomas Bernhard ci ha racconta­
to in “Montaigne” come, da bambino, la famiglia gli dicesse: se vai nella
biblioteca e prendi un libro diverrai mauo, insano: è cattivo, sbagliato,
marcio, vizioso. La lettura è una magnifica metafora per tutti 1 tipi di
gioia definiti viziosi.
Cvetaeva mori giovane: era una donna molto forte, potente, ribelle,
troppo potente e troppo piena di gioia per avere il permesso di soprav­
vivere. in una lunga poesia chiamata “Poema della fine" (199-it 162), c’è
un breve verso dove improvvisamente ella colpisce dicendo: ui poeti so­
no gli ebrei! " u. La parola è fortemente offensiva, un chiaro sinonimo di
immondo. Γ poeti sono sporchi, abominevoli, allo stesso modo delle
donne. Quando Cvetaeva usò questa parola nel contesto della .società
russa, al tempo 1 più abominevoli degli abominevoli, ì poeti, lei sentiva,
erano ebrei. L’equivalente per tutti gli altri abominevoli. In un altro testo
l'abominevole-che-lei-amava, “l'abominevole” con cui si identificava, era
il negro. Cosi, nella stessa linea di sostituzioni, si trovano: ebrei, donne,
negri, uccelli, poeti, ecc., tutu esclusi ed esiliati. L’esilio è una situazione
scomoda, pur se magica. Non ho intenzione di far luce sull Esperienza
dell'esilio, ma indicare solo che esso può essere sopportato in modi di­
versi l3. Alcuni esiliati muoiono di rabbia, altri trasformano l’esilio in un
paese. Comprendo quelli che muoiono di rabbia. £ successo a Safcharov.

‘- (Vedi Cixous, 1990, 23-[


13 [L'exil fait taire. L’exil fait terre” - dice Cixous. parlando all'Univers uà di San
Francisco nel 1988. A partire dalla lesi di Doctorat d'Êiat, L'exil de JamesJoyce ou fa rt
dù remplacement (1969), la problematica dell'esilio é fondamentale alla senti lira di
Cixous. Allo stesso tempo, l’autrice afferma: "Forse resisto ali esifio, che per me è fon*
damemale ed iniziale, lavorando incessantemente a riunire. Mo il senso che quando
scrivo, nulla mi soddisfa di più che riunire gli estremi, riunire IOriente e l’Occideme, il
nord e il sud, il nero e il bianco, il ghiacciato e ii bollente*· (Cixous, 1990, 2i9).l
150 Hélène Cixous

Recentemente ho incontrato la moglie, Eiena Bonner, che è profondata­


mene folle di rabbia. Soffre giorno e notte a causa di una rabbia dispera­
ta, che comprendo. Alcuni esiliati possono estrarre la gioia dalla rabbia;
quelli che sono capaci di beneficiare di questa strana esperienza, nap-
prendono, ncatturano ciò che abbiamo perso. Era la nostra esperienza
da bambini, ma abbiamo perso il gusto dei pane, poiché, come dice Cla­
nce Lispector, abbiamo mangiato aragosta nel frattempo. Abbiamo perso
ii gusto delle mani, del tocco delle mani14, Abbiamo perso tutti * piccoli
e i grandi segreti delia gioia. Ma il paese clelfesilio non é irraggiungibile.
È addirittura più facile andare in questo paese, Esilio, di quanto non sia a
voite attraversare la frontiera di un paese come gli Stati Uniti.

Il passaggio di tinte le frontiere

a) Certificati di nascita

Stiamo andando m un luogo a cui l’immaginazione cristiana ha


conferito una connotazione negativa, cioè, l’inferno, ma che, ai contra*
no, nei testi che mi sono can, ha una connotazione gioiosa (non voglio
dire positiva m opposizione a negativa). Cominciando col dire che stia­
mo andando alPinfem o”. designo un approccio che, ne sono perfetta­
mente consapevole, ho scelto in un contesto selezionato, e che quindi
privilegia un certo luogo, un certo cammino. Chiaramente, non sono la
soia, perché vado in quella direzione chiamata da altri, da quelli che
amo. Non ci vanno tutu. Preferire ciò che chiamano inferno a ciò che
chiamano paradiso implica scelte libidinaii: l’inferno è il paradiso. Γο
non li oppongo; Ìa\'oro semplicemente verso un riorientamento libidi-
naie e geografico.

M (Vedi il saggio, presemaio direttamente in inglese al Focused Research Pro*


grani in Gender and Women’s Studies, UCl, Maggio 1999: ‘The Two Couiunes o f Wri*
ting: Thcaier and PoeticaI Fiction” (Cixous, 1990). Qui, ia mano destra di Cixous scrive
β aiuti noetica, e la mano sinistra sostiene la scrittura teatrale...}
Tre Passi sulla Scala della Scmiura 151

Ho già sottolineato che Cenci chiamava un certo luogo "i reami in­
feriori” ; che è ovviamente un equivalente. Allo stesso tempo noto che
Genet parla in termini di "domini” (domaines), in altre parole introdu­
ce il ctommus, il maestro. Lo fa più o meno consapevolmente; pur se io
propendo a pensare che sia coscientemente, perché Genet lavora su
ogni parola come un forzato; nei testi di Genet siamo nei penitenziario
del linguaggio (è una buona prigione, perche ia prigione è buona per
lui). Quando Genet dice “1 reami inferiori” (les domaines inférieurs),
sento il maestro che passa.
Oggi lavoreremo in un area simile, l’incontro tra le economie di
Genet e di Clarice, economie simili e differenti, che considero esempla­
ri. Genet e Clance sono abitanti di quei paesi che Genet chiama, delibe*
ratamente e magnificamente, ì “reami inferiori" e che Clance chiama "in-
ferno". É la parola che appare in tutti i suoi testi: in Acqua Viva, ne La
passione secondo G.H,. Non c’è un solo testo di Clance in cui non sor­
ga l'inferno e sorga in modo giubilatono. L’inferno ê un luogo di
jouissance, un luogo di felicità; potremmo immaginare che l'inferno,
nonostante il nome, sia situato celestialmente, pur se é situato nei rea­
mi più bassi.

E se spesso dipingo grotte è perché queste sono il mio tuffo nella terra, buie
ma nimbate di chiarore, e io, sangue della natura - grotte stravaganti e peri­
colose, talismano della Terra, dove si uniscono stalattiti, fossili e pietre, e do­
ve le bestie che impazziscono per la loro stessa natura malefica cercano rifu­
gio. Legrolle sono il mio inferno (miei corsivi. H.C.]. Grotta sempre sognan­
te con le sue nebbie, ricordo o nostalgia? Spaventosa, spaventosa, esoterica,
inverdita dal fango del tempo. Dentro la caverna buia scintillano appesi i topi
dalle ali a forma di croce dei pipistrelli. Vedo ragni pelosi e neri. Topi e ratti
corrono spaventati sui suolo e sulle pareti. Fra le pietre lo scorpione. Granchi,
uguali a se stessi fin dalla preistoria, attraverso morti e nascite, sembrerebbe-
ro bestie minacciose se avessero la grandezza di un uomo. Blatte vecchie stri­
sciano nella penombra. E tutto questo son io. Tutto è pesante di sogno quan­
do dipingo una grotta o te ne scrivo - da fuori arriva il tumulto di decine di
cavalli in libertà che pestano le tenebre con zoccoli secchi, e dall'attrito degli
zoccoli il giubilo si libera in scintille: eccomi, io e la grotta, nei tempo che ci
imputridirà (Lispector, 1997, 15*16).
152 Hélène Cixous

Ritroveremo questa popolazione, questa folla, questa antichità, di


nuovo ne La passione secondo CJ-L ed in Genet. Per raggiungere le ra­
dici, quel posto magico, bisogna scendere attraversando le frontiere.
Attraversare le frontiere è un cliché. Un cliché sostanziale, pieno
di risorse. Nel D iano del ladro , Genet inscrive continuamente il pas­
saggio di frontiere (le passage des fro n tiers), l’attraversamento reale
delle frontiere. Ci sono le frontiere reali, da un paese all’altro, dalla Fran­
cia alla Spagna, dalla Polonia alla Cecoslovacchia, ecc. Ad orecchi france­
si l'espressione suona come un cliché. Ma quando Genet usa un cliché,
il che accade spesso, lo fa deliberatamente. Egli enfatizza fortemente ii
cliché al fine di disfarlo, facendolo attraversare il bordo che è.
Nel passo che segue, che tratta della gioia della fame - un paese di
dolorosa gioia e di saggezza fusi nella pasta del pane - c’è, come esem­
pio, un cambio di paragrafo. Ci viene raccontata una lunga stona di un
uomo chiamato Stilitano, di cui Genet ê innamorato; la stona si chiude
con la frase:

ìornai in albergo. Avvertii Stilitano, il quale mi disse che avrebbe pensato lui a
sistemar la faccenda, e usci.
Sono nato a Parigi il 19 dicembre 1910 (Genet. 1992, 43).

È il modo in cui il testo attraversa il bordo. Siamo al centro della


stona con Stilitano, Stilitano esce, proprio come se fossimo a teatro:
“esce Stilitano. Sono nato a Parigi../' Stilitano usci - io nacqui. L’attra­
versamento della frontiera è così improvviso e sottile che addirittura
possiamo non renderci conto d'aver attraversato il confine.
In Genet, nella scena d'attraversamento del bordo, c’è sempre
un ambivalenza, passiamo ,o non passiamo? 11 passaggio è soggetto a tut­
ti i generi di nu, sia codificati, come il passare per l’esercito, che simbo­
lici, il primo dei quali è ia nascita.
‘‘Sono nato a Parigi il 19 dicembre 1910”. È un autobiografia? A pa­
gina 43 Genet é nato; pnma non lo era. Come potete vedere, ciò acca­
de molto tempo dopo la nascita. Allo stesso tempo, non accade.

A ventun anni riuscii a ottenere un certificato di nascita (ibidem).


Tre Passi sulla Scala della Scrii cura 153

Una iraduzione accurata. Tuttavia, ia parola francese per certificato


ê acte, Acte de naissance. Il foglio stesso, cioè, iì modulo , è dilaniato
acte. Così, è all'età di ventun anni che l’Atto di Nascita di Genet viene
stilato. Ora, per ottenere un documento ufficiale o un modulo, bisogna
che abbiate un Atto di nascita che confermi la vostra esistenza, 1 fran­
cesi usano l'espressione senza capirne la ricchezza. Per noi è solo un fo­
glio di carta, un atto di nascita. Così all’età dì ventun anni, Genet cerca
d’ottenere un atto di nascita; cioè, ventuno anni dopo la nascita, egli
cerca fatto delia sua nascita.

Mia madre si chiamava Gabrielle Genet. Mio padre rimane cuu'ora ignoto. Ero
venuto al mondo al n. 22 di rue d’Assas (ibidem).

Bisogna prenderlo letteralmente,

... 22 rue d’Assas,


"Potrò cosi aver qualche informazione sulla mia origine" mi dissi... Si rifiutaro­
no di darmi informazioni. Fui allevato nel Morvan, da una famiglia di contadi­
ni. Quando, nella brughiera* specie al crepuscolo.., incoiliro dei fiori di gine­
stra (genêt), provo per loro una profonda simpatia (ibidem).

Accade m questo modo, il modo in cui continuiamo - senza nep­


pure capirlo - ad attraversare frontiere invisibili: siamo a rue d’Assas,
dove si rifiutano di darci informazioni, ma nella frase seguente: “Fui al­
levato nel Morvan, da una famiglia di contadini”. Accade di frase in frase
usando tutti i mezzi possibili, incluso \ lavorìi del tempo, dei tempi dei
verbi; la madre é passata, il padre rimane presente come sconosciuto, e
cosi di seguito. Prima Genet ha ventun'anni, poi ne ha cinque.
Il motore di questo momento è il lavoro testuale sulfattsversa
mento delle frontiere che, in Genet come m Clance Lispector, gioca su
molteplici registri. L'atcniversamento della frontiera familiare e pertur­
bante (unheimlicb) sarebbe quello a cui siamo periodicamente sogget­
ti - da un paese ad un altro - qui metamorfizzato in tutti gli attraversa­
menti di tutte le frontiere.
In Acqua viva il passaggio é la definizione stessa del vivere:
154 Hélène Cixous

... esisto c* in un modo febbrile... nusarò un giorno a smettere di vivere? Po­


vera me, che tanto muoio. Seguo la tortuosa strada delle radici che fanno
esplodere la terra, ho in dono la passione, nella bruciatura di tronco secco mi
con forco alle fiamme (Lispector, 1997, 21).

Notiamo; Clance sta seguendo la radice. Ci ritorneremo.


lim e ie nostre esperienze primitive o poetiche sono separazioni o
non-separazioni: la difficoltà di definire il confine tra i sessi, tra le specie,
e anche tra J’alto ed il basso.
Passiamo ancora una volta nei paese di Genet.
"Sono nato a Parigi../' è l’inizio, come iniziano le autobiografìe. Ma
il D iano dei ladro inizia con “L’abito dei forzati è a strisce bianche e ro­
sa' Je ìiats in seguito. C’è un gioco fonetico tra je nais (sono nato) e
Genet. È l’ambiente teatrale di tutto ciò che è connesso ai passaggio, al­
la frontiera, nascita, transizione, discesa, stirpe. Egli esiste, entra: ‘A ven­
ni n anni riuscii a ottenere un certificato di nascita” Il certificato di na­
scita è successivo alla nascita, non sappiamo mai quando passiamo la
frontiera, in quale direzione andiamo; se entriamo o usciamo, oppure se
entrare non sia uscire, ecc. “Il nome di mia madre era Gabrielle Genet".
C'è origine; il problema ê di sapere se sia o non sia origine, se è l’origi­
ne oppure no. Il narratore non ne è affatto certo: “Mio padre rimane
tuttora ignoto". Slittando attraverso i tempi dei verbi. Ci sono molti nu­
meri nel paragrafo, c’è l’indirizzo, ia data: a diciamo che c’è anche ori­
gine, ma alla fine non c’è.

Il 22 era occupato dalla Maternità. Si rifiutarono di darmi informazioni. Fui al­


levato nel Morvan, da una famiglia di contadini* Quando, nella brughiera, spe~
eie al crepuscolo... incontro dei fiori di ginestra (genêt)* provo per loro una
profonda simpatia (ibid., 43).

Ero a m e d’Assas, eccomi a Le Morvan, poi nella brughiera, con at­


traversamenti di frontiere estremamente rapidi. Questa tecnica, questa
scrittura straordinariamente condensata, ci ricorda la condensazione e
la rapidità dei sogni. 11 tempo non tiene il passo e ìndica Tattraversa-
mento. È un tempo che non preserva la nostra logica ordinaria.
Tre Passi sulla Scala della Scnuura 155

Quando, nella brughiera specie al crepuscolo, di ritorno da una delie mie so­
lite visite alle rovine eli Tiffauges dove vme Gilles de Rais, incontro dei fiori di
ginestra (genêt), provo per loro una profonda simpatia. Li osservo serio, con
tenerezza. Il mio turbamento par provenire da un comando delfiniera natura.
Sono solo al mondot e non sono affatto sicuro di non essere il re - la fata for­
se - di questi fiori. Mentre passo, essi mi rendono omaggio, s’inchinano sen­
za inchinarsi ma mi riconoscono. Sanno che sono il loro rappresentante vivo,
mobile, agile, vittorioso dei vento. Sono il mio emblema naturale, e io affon­
do radici, grazie a loro, in questo suolo di Francia nutrico delle ossa polveriz­
zate dei bambini, degli adolescenti infilati, trucidati, bruciati da Gilles de Rais
(ibidem).

Normalmente non incontro fiori, incontro persone. Siamo scivola­


ti da un genere ad un altro, da un regno ad un aitro, da una specie ad
unaitra.
Se Genet scrive "una profonda simpatia1'; che è un intollerabile cli-
*ché, è perché ci spinge verso le profondità. Cominciamo a scendere.

Li osservo seno, con tenerezza. Il mio turbamento Qnon trouble) par prove­
nire da un comando delfintera natura (ibidem).

La parola trouble (tradotto in inglese con emotion) appartiene al


dominio racmiano: T'intera natura” viene dal mondo di Rousseau.

Sono solo ai mondo,,, (ibidem)

Anche questo ê Rousseau. Genet gioca con diversi periodi stilistici,


facendoci attraversare la frontiera stilistica, impercettibilmente, all’inter­
no dello stesso paragrafo.

e non sono affatto sicuro di non essere il re - la fata forse - di quei Ποπ (ibi­
dem).

Egli mette giù tutte ie carte, anche se, con il doppio negativo, en­
triamo nel mondo della retorica. Stiamo per indossare taccili alti e guan­
ti, per parlare elegantemente. Il re, o la fata? Lui o lei? Non si sa, rima­
niamo sulla frontiera, pur se in fata conta più del re.
256 Hélène Cixous

Menere passo, essi mi rendono omaggio [ascoltiamo passaggio e uomo -


homme - in omaggio| s’inchinano senza inchinarsi jsi inchinano fisicamente
ma non si abbassano) ma mi riconoscono (ibidem).

É una fiaba, con il riconoscimento da parte dei fiori. Inoltre, il "ma”


non indica un Opposizione tra “omaggio” e “riconoscono”

Sanno che sono il loro rappresentante vivo, mobile, agile, vittorioso del vento
(ibidem).

È una fiaba, e lui (Genet) è “naturalmente” nel luogo dei fiori.

Sono il mio emblema naturale, e io affondo radici, grazie a loro (ibidem).

C'è qualcosa di infamile in questo “e ”

Proprio m virtù di questa spinosa pianta delle Cevenne, partecipo alle avven­
ture di Vacher. Infine, per lei di cui porto il nome, il mondo vegetale é mio fa­
miliare. Posso considerare senza pietà tutti i fiori, fanno parte della mia fami­
glia. Se grazie a loro fin congiungo coi reami inferiori - ma è fino alle felci ar­
borescenti e alle loro paludi, è fino alle alghe che \'orrei scendere - ancora più
m’allontano dagli uomini (ibid, 43-14).

Adesso sono in un mondo sotto il mondo, il paragrafo seguente


inizia con il pianeta Urano et tramite le stelle, sarà inscritto anche il
mondo stellare. Con questa spina fallica dalle Cevenne discendo e, allo
stesso tempo, risalgo. “Lei di cui porto il nome” è la madre Gabrielle Ge­
net - cosi c’è un legame comune tra la “spinosa pianta” e Gabrielle G e­
net. La madre, con un gioco di prestigio sessuale, non è senza “spine”.
Il mondo vegetale è la mia famiglia. Il nome non è in questo paragrafo,
ê stato cucito nei testo. “Gabrielle” è disseminata, tutte le lettere sono
presenti in marécage (palude), arb%elle. É lì, tagliata a pezzi.

Posso considerare senza pietà tutti * fiori, fanno parte della mia famiglia. Se
grazie a loro mi congiungo coi reami inferiori - ma è fino alle felci arbore­
scenti e alle loro paludi, e fino alle alghe che vorrei scendere - ancora più
m'allontano dagli uomini (ibid., 44).
Tre Passi sulla Scala della Scrittura 157

É vero che se discendo nei “reami inferiori... ancor più m'allonta­


no dagli uomini”, sono sili lato delle radici, o delle alghe, o delle paludi,
ma, allo stesso tempo, raggiungo i reami inferiori del mio desiderio, ad
esempio, “uomini”. Voglio discendere ma anche ascendere. Gli uomini
sono marcati da questa doppia stella con cui il testo risale verso il cielo.

De! pianeta Urano, sembra, l'atmosfera è cosi pesante che le felci si fanno ter­
ragne; Je bestie si trascinano schiacciate dal peso dei gas (ibidem ).

È così che Genet ci afferra: siamo innocenti, crediamo di star se­


guendo il sentiero-alla-radice di Clarice Lispector, ci troviamo caduti
piatti sul ventre sul pianeta Ur/ano, È una trovata tremenda, ma ha an­
che un Iato molto seno. La stona racconta ii destino di Genec, che è lun­
gi dall'essere insignificante. Ma allora questo lei-uomo l\ che ha scoper­
to l'origine dei testo al fondo della scala, va da un frammento di frase ad
un altro, giocando il testo, torcendolo, prendendolo m giro, facendone
un “ pastiche”, travestendolo, spingendolo infinitamente a viaggiare. Egli
pone ia lingua sulla linea di confine del divenire un oggetto sessuale,
esigendo sia lajouissscince che la vendetta.
Attraversiamo ancora il lato di Clance Lispector. Qui atterriamo sul­
lo stomaco:

Sono passata senza accorgermene dall’altro lato? L’altro lato e una vita che
palpita infernale- Ma c’è una trasfigurazione del m io terrore: allora mi abban­
dono a una pesante vita tutta simboli pesanti com e frutti maturi. Scelgo so­
miglianze errate ma che mi trascinano neiraggomitolato. Una parte minima di
ricordo del buon senso del m io passato nn fa ancora sfiorare il huo di qua.
Aiutami perché qualcosa si avvicina e ride di me. In fretta, salvami.
Ma nessuno può darmi la mano per farmi uscire: devo usare la grande forza -
e nell’incubo con un improvviso slancio cado infine dal lato di qua. Rimango
distesa sul suolo agreste, esausta, il cuore pulsa ancora impazzito, il respiro a
Ποαι. Sono in salvo? Mi asciugo fa fronte bagnata. Mi alzo lentamente, cerco di
fare i primi passi di una convalescenza debole. Riesco a equilibrarmi.

15 [Noia delle traduttrici del manoscritto francese su cette homme; "Nel testo
francese la forma femminile del l'aggettivo dimostrativo cette é accorciato con il sostan­
tivo maschile homme, giocando cosi sulla soglia ira le forme maschili c femminili". |
Hélène Cixous

No, lutto questo non accade in fatti reali nei dom inio di - di un'arte? Sì, di un
artifìcio per m ezzo del quale em erge una realtà delicatissima che comincia a
esistere in me: la trasfigurazione mi è accaduta.
Ma l’altro lato, da cui sono appena scappata, è divenuto sacro e a nessuno rac­
conto il mio segreto (Lispector, 1997, 19-20).

b) La due nature

LA PAROLA NATURA

Quando nel D iano dei ladro attraverso di nuovo il confine, non


so da quale lato attraverso. Proprio all'entrata vedo scintillare ia parola
natura , e naturalmente, la colgo, la raccolgo. É una parola naturale nei-
lopera di Genet.

L'abito dei forzati è a righe bianche e rosa., ebbene; u n o stretto ra pporto esi­
ste ira i fio r i e g li ergastolani. La fragilità, la delicatezza dei primi sono della
medesima natura della brutale insensibilità dei secondi.
Oltre che con le sue tinte, con la sua ruvidezza ia stoffa evoca certi fiori dai pe­
tali leggermente villosi, particolare sufficiente perché all’idea di forza e d ’onta
io associ quanto s’ha di più naturalmente prezioso e fragile (Genet, 1992J3).

La parola naturale, la parola natura ? ha una triste sorte: è stata


usata nelle grandi dìspute, finalizzate in particolare a quelle persone co*
me me che lavorano sulla scena sessuale e che sono state accusate da
un certo gruppo di persone non-iiluminate di usare questa parola per
intendere una natura femminile o maschile - una cosa che non ho mai
capito, come se "natura” esistesse in opposizione a “cultura” , oppure
come se ci fosse una cosa come la natura pura. Queste dispute vengono
da continenti recentemente sprofondati nelfoscurità. Per un po\ per
sfuggire al campo di queste dispute sterili, non ho più usato la parola
natura , anche se l'adoro. Poi Πιο adottata di nuovo. Appena ia uso nel
campo della scrittura, inizia a muoversi, a contorcersi un po\ perché
nella scrittura è di essa che si tratta. Non appena c’è scrittura, diviene
una questione di passaggio, di tutti i tipi di passaggi, di delimitazione, di
debordameli to.
Tre Passi sulla Scala della Scrimini 159

Non possiamo dimenticare ie M e ta m o rfo s i di Ovidio. Qui ci sono


metamorfosi di tutti i tipi e di tutti i generi. La scrittura li fa passare nel­
l’altro mondo, che è il mondo della scrittura. Le civiltà primitive che ci
precedono, le nostre madri, credevano nella tra n c e , nella trasformazio­
ne, nella transizione, nei transfer: una specie passava in un'altra, un rea­
me diventava un altro, dall’umano al minerale al vegetale, in modo gè
neralizzato, infinito, magnifico e sconfinato. Con la parola n a tu ra non
intendo necessariamente il concetto. Non voglio ritornare qui al pensie­
ro filosofico e al tema-soggetto deirattraversamento nella sua interse­
zione ed articolazione con la cu (tura; preferisco restare nello spazio
poetico, che è anche filosofico, naturalmente. Quando dico “aciotto di
nuovo”, riabilito, godo di nuovo della parola n a t u r a , senza essere in­
consapevole che nei testo le accadono tutte le possibili awen/wc>, in­
cluso le rime, e senza essere inconsapevole dei cliché del linguaggio o
al contrario dei grandi avanzamenti ed impressioni linguistiche. Per
quanto riguarda ì cliché del linguaggio, penso a Bernhard che usa co­
stantemente “naiùrlich” nei suoi testi. È un cliché che si trova dietro la
curva di ogni frase in tedesco.
Dì nuovo, nell’opera di Clance abbiamo un magnifico leitmotiv che
illumina la natura. Qui c’è natura di tutu i tipi. Clance designa la natura
come “supernauira”, e come “soprannaturale”, enfatizzando che non c’è
nulla di più soprannaturale della natura. Potremmo cambiare ia frase e
dire: non c’è nulla di più meraviglioso dell’ordinario, ma ê già più diffì­
cile da pensare. Nella scrittura di Clarice Lispector é una questione di
riabilitare ciò che è. Quando ho cominciato a leggere Clance sono rima­
sta incantata da una piccola frase di A cc(ua v iv a che chiedeva: UE ie (a r-
ta ru g b e? u (Lispector, 1997, 47). É la sua o r ifla m m e . Il dimenticato elei
dimenticati.
Cosa sarebbero le due nature per Clance? La prima, che amo
profondamente, é l'estrazione dal represso di ciò di cui siamo fatti, cioè
la m a te ria . Clance Lispector riporta alle nostre deboli memorie ancor
più delle tartarughe - perché a volte notiamo le tartarughe; riporta la ca­
pacita di non dimenticare la materia, che non notiamo: la viviamo, siamo
materia. Clarice scende la scala al punto di ritornare a pensare ia materia.
160 Hélène Cixous

Siamo incapaci di pensare la materia perché la consideriamo invisibile.


Siamo faut di assemblaggi che a nascondono la loro verità, il loro lato
atomico. Non et piace la materia, cioè» noi stessi, perché siamo promessi
alla materia, perché ia materia anonima è chiamata: morte. Forse non é
la materia che a dispiace, forse è Vanommia . L’anonimia a cui siamo
promessi - la perdila del nome - è ciò che reprimiamo ad ogni costo.
Se fossimo ciò che non siamo più, cioè, bambini, riscopriremmo
ciò che Clance non ha perso: la meraviglia di fronte al processo geneti­
co. Sto giocando con la parola genet? Non ne ho idea. Forse si. Se non
sono io, in tutti i casi, è l'inconscio del mio linguaggio, che non esita (ne
se gêne pas) a godere degli atomi linguistici.

I MIEI CONFINI

Stiamo per attraversare le frontiere* proprio come si çjattraversano


le frontiere, senza saper nulla. Dove é il nostro confine? Quando attra­
verso una frontiera, è Ja mia frontiera che attraverso, sebbene non sap­
pia quale e da che lato mi ritroverò. È la seduzione del passaggio di
frontiera. È anche ciò che può costituirne·il lato angosciante,
II confine crea la patria. Proibisce e dà passaggio nello stesso colpo.
Il tema è esplicito nel D iano del ladro , dove viene ripetuto. Ogni
volta d ie è indicato il confine, è indicata anche la terra. Ancora una vol­
ta, si potrebbe andare indietro di diecimila anni, prima del tempo del
“ paese”, e immaginare la nascita dei confini. Ciò è in effetti inimmagina­
bile. Chi ha inventato il confine? I confini non esistono. I confini sono li*
nee invisibili che fomentano ie guerre. Incredibili come gli unicorni. Al­
lora potremmo entrare nella Stona, che ê sempre una Storia di frontie­
re. Oggi siamo in un'era di risurrezione dei nazionalismi. L’invidia-di-pa-
tna (bome-netd) gonfia i popoli. Questa invidia di patria non è solo il bi­
sogno di terra e di tetto, È in primo luogo un bisogno di proprio, di pae­
se proprio, di nome proprio, un bisogno di separazione e, allo stesso
tempo, un rifiuto dell’altro; è meno un bisogno di differenza che un'av­
versione alla differenza, un desiderio di andar via raddoppiati da un de­
siderio di espellere. Un desiderio duro, tagliente, di non essere te.
Tre Passi sulla Scafa della Scrittura 161

Vorrei la parola "spaese” (dépays); nu dispiace che non l'abbiamo,


poiché si pensa che Io spaese non esista* Non esiste che il “paese" (pays),
o anclie lo “spaesani en io” (dépaysement). Mi piacciono gli esseri che ap­
partengono allo spaesamento. Persone come Genet o Clance sono abi­
tami dello spaese, dell'inpaese, del paese nascosto nel paese, oppure
perso nel paese, dell’altro paese, il paese sotto, il paese al di sotto.
Come attraversiamo le frontiere? Si può farlo m modo del tutto in­
differente e apatico, sebbene colui che attraversa i confini indifferente­
mente non attraversa mai i confini. Una persona che non trema attraver­
sando un confine, non sa che c’è il confine e non mene in dubbio la pro­
pria definizione. La persona che attraversa un confine tremando mette in
dubbio la propria definizione, non solo sul passaporto o sulla patente,
ma la definizione in ogni suo aspetto e forma: dalla definizione d'età, di
cui parliamo così poco, fino alla definizione che ci preoccupa sempre e
che ê quella a cui non possiamo né vogliamo rispondere, quella della de­
finizione sessuale. Di che “natura" siamo? Di che “specie" siamo?

DI CHE GENERE SIAMO? DI CHE SESSO SIAMO?

Abbiamo una relazione semplice con 1 cani. Siamo cani? Sì, secon­
do Kafka. Forse conoscete gli animaletti di Kafka, i portatori della sua fi­
losofia e della sua sofferenza. Ad esempio, in “Giuseppina la Cantante
ossia II popolo dei Topi”, il canto di Giuseppina è cosi commovente, co­
si incredibile, che l'intero popolo di topolini sviene nell’ascoltarla canta­
re (Kafka, 1986). Ma nessuno ha mai ascoltato cantare Giuseppina per­
ché Giuseppina non ha voce. In questo magnifico racconto, tutto è le-
gato al mistero della voce. A volte una voce è una non-voce. Questo me­
raviglioso topolino è allo stesso tempo terrorizzante poiché è l'ultima
opera di Kafka, la Psiche di Kafka morente, che aveva effettivamente
perso la voce.
Leggendo Le Favole di La Fontaine ricordo le metamorfosi di un
topo in donna e di una donna in topo. Tremavo, perché nel nostro im­
maginano non è così ovvio desiderare oppure sentirsi simili ai topi. For­
se perché temiamo d’essere mangiati dai gatti? Siamo, piuttosto, cani.
162 Hélène Cixous

I cani vengono da noi, a volte» come nelle “Indagini di un cane” di


Kafka, ad esempio, come portatori di una visione speciale del mondo
(Kafka, 1970), Sono noi, certo, in quanto cam M a ebe c a n e starno, ch e
ttp o d i c a n e ? È quanto ci chiediamo in "Indagini di un cane” . Ancora
una vofta c’è divisione; che specie di cane sono? Lufthund? Un cane d’a-
na? Un cane di terra? Siamo trasformati dall’animalità. Testi di questo ti­
po dovrebbero portar fuori il nostro lato animale. Forse, l’ironia è che
non siamo mai più umani che quando siamo cani?
Forse c’è una virtualità o una potenzialità animale che sonnecchia
e si risveglia in noi. Nelle relazioni amorose abbiamo ia tendenza a chia­
marci con nomi d’animali. Non cosi spesso ci chiamiamo con nomi di ve*
gelali, È più difficile elaborare sui nostro lato vegetale e sulla nostra iden­
tificazione con \vegetali. Se faccio appello a queste contiguità ed ecce­
denze, è per enfatizzare che tutto ciò non può avvenire senza corpo,
II nostro corpo è il luogo di questo domandare.
lì cosa ne é della parte da fiore nei nostro corpo? Pianto la do­
manda qui e ia lascio crescere,

c ) It sexto ( C i . ) d e ll'a u to r e

Una delle domande che \testi che attraversano frontiere ci chiedo­


no è: la questione della definizione sessuale. Q u a l è il sesso d e lV a u to re ì
Ê una strana domanda. L’autore é un essere umano che scrive, ma scri­
vere è già un fattore di alterazione, generalmente ostruito e represso. Al­
la maggior pane degli scrittori non piace vedersi avvicinare da questa do­
manda, ma alcuni - tra i più importanti - si lasciano seguire, incidere e
marcare dalla stranezza stessa della domanda. Un autore, in ogni caso, ha
due mondi. Kafka l’ha espresso facendo il proprio ritratto su due colon­
ne: da un iato» la colonna casalinga e dall’altro, la colonna selvaggia, la
colonna della scrittura; da un lato, la colonna su cui elencava tutte le ra­
gioni per essere un uomo “come si deve”, con tutto ciò che fa un uomo,
una casa, gli organi genitali, i bambini, e dall’altra, tutto quello che gli im­
pediva d’essere un uomo "come si deve” . Con l’abituale sua ironia stra­
ziante, Kafka arriva fin quasi alla caricatura, vivendo nella sofferenza di
Tre Passi sulla Scala della Semi uro 163

non riuscire ad essere Puomo "proprio” che voleva suo padre. Per Clan­
ce, la domanda è ia stessa, se non per il fatto che lei non ne soffriva af­
fatto - non separò mai la sua vita in due colonne distinte ed opposte, ma
godette costantemente dei passaggio. "Naturalmente”, aggiungo io.

IL SESSO DI UN TESTO

Ogni volta che prendo un estratto da Acqua viva , fallisco sempre,


non riesco mai a tagliarlo - è sempre ia pagina prima invece che quella
dopo che avrei voluto guardare - per la semplice ragione che Acqua vi­
va è un unico flusso, una sola corrente. E ogni volta faccio la mossa
idiota di prendere un coltello per tagliare Pacqua. È la forza di questo te­
sto. Un semplice tratto da notare, nel differenziare tra economie, è il­
eratto della femminilità leggibile in un testo di Clance, e il tratto della
“mascolinità” leggibile nel testo di Genet. I tagli continuano a interferire
nei testi di Genet. Dentro ί pezzetti, non c’è taglio perché la sua è una
economia doppia: mentre il testo è tagliato, all’interno c’è un circuito
delPordine della continuità femminile. Nei testi di Clance é impossibile
tagliare. L’intero testo è cosi necessario, lei è scesa cosi esattamente nei
luogo de Ila scrittura che, non importa dove siamo, siamo sempre nei
mezzo della scrittura.
In Acqua viva troviamo tutti gli atomi e gli elementi dei testi di
Genet, rilavorati in altro modo. Il passo è diverso; le metamorfosi sono
là, passiamo costantemente da un regno all’altro, da un genere all’altro,■
allo stesso tempo e nella stessa trance , ma, come dice Clarice, in modo
che tutto sia naturalizzato.

Cosa dice questo jazz che viene improvvisato? Dice braccia intrecciate a gam­
be e le fiamme che si alzano e io passiva come una carne divorata dal becco
aguzzo di un'aquila che interrompe il suo volo cieco. Esprimo a me e a te r
miei desideri più occulti e raggiungo con le parole un orgiastica bellezza con­
fusa. Rabbrividisco di piacere nella novità di usare parole che formano inten­
sa boscaglia. Lotto per conquistare più profondamente la mia libertà di sensa­
zione e pensieri, senza alcun senso utilitaristico. Sono sola, io e la mia libertà.
É cosi grande la libertà che può scandalizzare un primitivo ma so che tu non
ti scandalizzi della pienezza che raggiungo e che è senza frontiere percepibili.
164 Hélène Cixous

Questa mia capacità di vivere quello che è rotondo e vasro - mi circondo di


piante carnivore e ammali leggendari, lutto bagnato dalla rozza e sinistra luce
di un sesso mitico. Vado avanti m m odo intuitivo e senza cercare un’idea: so­
no organica. lì non mi interrogo sui miei molivi. Mi im mergo nel quasi d o lo ­
re di un’intensa allegria - e per ornarmi nascono fra i miei capelli foglie e ra­
mi (Lispector, 3992, 22).

In questo breve passo, un niente nello spazio immenso di Acqua


viva, avete già: gambe, braccia, fiamme, tutto ciò che è me - “una carne
divorata dal becco aguzzo di un'aquila”, una "intensa boscaglia” - e cosi
ho membra, uccelli, sottobosco, il tondo e l’ampio, una specie di geo·
meina, piante carnivore, animali, luce, sesso, ecc. Una genesi infinita, al­
la maniera di Genet.
rio scelto questo passo - piuttosto è lui ad avermi scelta - per la
sua natura mista, braccia e gambe, non solo braccia e gambe, ma brac­
cia, gambe e fiamme, non solo visione, ma visione persa, visione cieca,
per esempio la visione persa accecata animata da ciò che sarebbe potu­
ta essere una scena prometeica, ma di cui non rimane nulla se non la
sensazione. Immaginate ii “Prometeo” di Kafka: ê meraviglioso, fungo
dieci pagine, totalmente pazzo (Kafka, 1970, 390). In Clance è “carne di­
vorata dal becco aguzzo di un aquila"; quest’aquila non è un dettaglio: è
interiorizzata. Tutto ciò che avrebbe potuto produrre immagine, refe*
renza, cliché, è un mondo che non esiste. Non resta che la sensazione.
Un groviglio di braccia, generi e specie, e di sfere, prospettive ed
esperienze: uno totalmente “organico”, carnale; l’altro come se Clance
avesse inventato un altro reame o un'altra scena, leggendaria, mitica, al­
la propria maniera. Ad esempio, quando dice: “per ornarmi, nascono fra
i miei capelli foglie e rami”. Non è vero, ma è vero. Li continuità, la con­
tiguità, tra la sensazione e la fantasia è così perfetta da provocare una
trance senza interruzione, È'una vale l'altra, È'una è vissuta come l'altra.
Volevo parlare del sesso dell'autore : Clance ha ragione nel dire
“sesso mitico”, sebbene io non sappia cosa significhi “mitico" "... tutto
bagnato dalla rozza e sinistra luce di un sesso mitico” C’è il mistero.
Perché mi incanta questa frase, pur se non riesco a darne un resoconto
logico? Non so cosa sia un “sesso mitico”, non so cosa sia la “luce di un
Tre Passi sulla Scala della Scnuura 165

sesso mitico" e, ancor peggio, non so perché un "sesso mitico" emetta


una luce “rozza e sinistra”. E pur tuttavia ciò mi incanta. Potrei decidere
d'essere del tutto disincantata, e dire che non significa nulla. Ma credo
che ciò che sta per insinuarsi m noi, in modo furtivo, sia un mistero. Noi
abbiamo delie capacità di vivere, come dice Clance, che non sono defi­
nite nel modo in cui le definiamo di solito. Ad esempio, “ho la capacità
di vivere ciò che è rotondo e vasto" non è una frase comune. Potete ar­
rivare fino allo stadio in cui, m una elaborazione estrema, direte d’aver
la capacità di vivere qualcosa. Mi piace l’espressione francese: avoir les
doigts verts - avere il pollice verde. C’è già un po’, se volete, di questa
cristallizzazione. Avere le dita verdi è avere la capacità di dar vua alla ve
gelazione, indicando, quindi, primitivamente, una continuità tra dita e
vegetazione nella lingua, in un certo senso e la stessa cosa qui: abbiamo
dita verdi o dei colon delParcobaleno, non so. Clance riesce a notare
d’avere una capacità per ciò che è “rotondo e vasto” Qui lei è anche al­
lo stadio più primitivo delia forma e del volume. Come se fosse capace
di leggere 1 segni del corpo, non quelli dell1inconscio, che già parlano -
l’inconscio è una lingua - ma 1 segni del corpo, che sono dello stesso or­
dine di quelli dell'inconscio, ma precedenti al linguaggio.
I segni del corpo: quando incontrate qualcuno che produce seg
potete fare la lettura di segni corporei delle sue scelte, gli angoli, gli og­
getti, le posizioni. Lo nota Clarice: lei è al di sotto del pensiero, della for­
ma o dei codici, è quanto legge, decifra - incluso la lettura di se stessa.
Ad esempio: “Questa mia capacità di vivere ciò che è rotondo e vasto r
nii circondo di piante carnivore e di animali leggendari” . Ecco il suo au­
toritratto, “tutto bagnato”, è una ricetta da cuoco: prendete questo e
quello, e lasciatelo riposare in olio di “sesso mitico”
il “sesso mitico” comunica qualcosa d’altro rispetto alla natura del
sesso non mitico, qualcosa di grossolano e brancolante, come dice lei.
Noto la parola “leggendaria”, le parole “sesso miLico”, e pongo di
nuovo la domanda sui sesso dell’autore che è portato a porsi la doman­
da. L’autore-autrice immerso-a arriva a domandarsi necessariamente dei
suoi limiti, frontiere, passaggi, alterazioni; non solo il sesso ma anche
verso quale sesso, in quale relazione con l’altro, quale altro? Qual è il
166 Hélène Cixous

sesso deirakroP Non ê ovvio : Pau tore non è soltanto colui il quale firma,
ma anche una persona completamente sconosciuta, apparentata con - e
mantengo qui ia parola “leggendaria” - una consanguineità mitica, com­
plessa e variabile.

d) La frontiera di Genet

La frontiera di Genet è un apogeo, un mito: ia stranezza della lin­


gua, lo slittamento, ia torsione, l'attraversamento di frontiere, sono la
marca stessa di Genet.

La tapisserie intitulée "La Dame à ia Licorne” m'a bouleversé pour des raisons
que ie n’entreprendrai pas ici d’énumérer. Mais, quand je passai, de
Tchécoslovaquie en Pologne, la frontière, c'était un midi, l’été. La ligne idéale
traversait un champs de seigle mûr, dont la blondeur était celle de la cheve­
lure des leunes Polonais; il avait ia douceur un peu beurrée de la Pologne
dont ie savais qu'au cours de l’histoire elle fut toujours blessée et plainte.
J’étais avec un autre garçon expulsé comme moi par ia police tchèque, mais je
me perdis très vice, peut-être s’égara-t-il derrière un bosquet ou vouiut-il
m abandonner: il disparut. Ce champ de seigle était bordé du côté polonais
par un bois dont l’orée n’était que de bouleaux immobiles. Du côté tchèque
d’un autre bois, mais de sapins. Longtemps ie restai accroupi au bord, attentif
à me demander ce que recélait ce champ, si je traversais quels douaniers invi­
sibles les seigles dissimulaient. Des lièvres invisibles devaient* ie parcourir.
J’étais inquiet. Λ midi, sous un ciel pur, la nature entière me proposait une
énigme, et me la proposait avec suavité.
-S'il se produit quelque chose, me disais-je, c csi l’apparition d'une licorne.
Un tel instant et un tel endroit ne peuvent accoucher que d’une licorne.
La peur, et la sorte d’émotion que j’éprouve toujours quand je passe une
frontière, suscitaient à midi, sous un soleil de plomb la première féerie. Je me
hasardai dans cette mer dorée comme on entre dans l'eau. Debout je
traversai les seigles. Je m'avançai lentement, sûrement, avec ia certitude d’être
le (personnage héraldique pour qui s’est formé ie blason naturel: azur, champ
d’or, soleil, forêts. Cette imagerie où je tenais ma place se compliquait de
{'imagerie polonaise.
- “Dans ce ciei de midi doit planer, invisible, Paigie bianc!”
lin arrivant aux bouleaux, pétais en Pologne. Un enchantement d’un autre
ordre m allai être proposé. La “Dame à ia Licorne’' m’est l’expression hautaine
de ce passage de ia linge à midi. Je viens de connaître, grâce à la peur, un
trouble en face du mystère de la nature diurne (Genet, 1949, 52-53).
Tre Passi sulla Scala della Scrittura 167

L’arazzo detto “La Dama del Liocorno” m’ha scombussolalo per dei motivi che
non maccingero a enumerare. Ma quando passai, dalla Cecoslovacchia in Po­
lonia, il confine, era un mezzogiorno, d’estate. La linea di frontiera, ideale, at­
traversava un campo di segala matura d’un biondo come quello della chioma
dei giovani polacchi: un biondo che riassumeva la dolcezza un poco butirrosa
di tutta ia Polonia, ch’io sapevo, nel corso della storia, eternamente ferita e
commiscrata 5-\ Ero con un altro ragazzo, come me espulso dalla polizia ceca,
ma prestissimo lo persi di vista, smarritosi forse dentro un boschetto, o forse
perché aveva deciso eli lasciarmi: scomparve. Quei campo di segala confinava
dalla parte polacca con un bosco il cui limitare era formato eia immobili be­
tulle. Dalla parte ceca, con un altro bosco, ma d’abeti. Λ lungo rimasi acco­
vacciato sul margine intento a chiedermi che cosa nascondesse quel campo,
quali guardie di finanza, se lo avessi attraversato, avrebbe celato la segala. For­
se invisibili lepri io percorrevano. Ero inquieto. Λ mezzogiorno, sotto un cie­
lo terso, l'intera natura mi proponeva un enigma, e me lo proponeva con soa­
vità. “Se qualcosa deve accadere - mi dicevo - sarà l'apparizione di un liocor­
no. Un momento e un iuogo come questi possono partorire soltanto un lio­
corno”. La paura, e quella sorta d’emozione che sempre provo quando passo
una frontiera, suscitavano a mezzogiorno, sotto un sole di piombo* ia prima
féerie. M’azzardai in quel mare dorato come s'entra nell'acqua. In piedi attra­
versai la segala. Procedevo lento, sicuro, con la certezza d'essere l'araldico
personaggio per il quale s'è formato un naturale blasone: azzurro, campo d’o­
ro, soie, foreste. Queste immagini, dove avevo anch'io il mio posto, si com­
plicavano delficonografìa polacca.
“In questo cieio meridiano deve pianare, invisibile, l’aquila bianca!”
Raggiunte le betulle, ero m Polonia. Un incantesimo d’ordine diverso stava
per essermi offerto, “La Dama del Liocorno” è per me l’altera espressione di
quel mio passaggio delia linea a mezzogiorno. Avevo or ora conosciuto, grazie ,
alla paura, il turbamento di fronte ai mistero della natura diurna (Genet, 1992,ì
46-47).

“Mais, quand je passai, de Tchécoslovaquie en Pologne, la frontière,


c'etait un midi, l'été"
"Ma quando passai, dalla Cecoslovacchia in Polonia, il confine, era
un mezzogiorno, d'estate” (ibid., 46),

16 (Nella traduzione americana, j cambiamenti effettuati da Cixous vengono ind


enti nel testo tra parentesi!.
168 Hélène Cixous

Siamo già passati, ma ecco che arriva la frontiera! Si potrebbe an­


che leggere: la frontiera era un mezzogiorno. Siamo sempre in anticipo
o in ritardo sulla costruzione del passaggio. Questo “ma" è dell’ordine
dei simulacro di una proposizione avversativa. "Ma” segnala un cambia­
mento nell'enunciazione, come in una conversazione orale. Ci sono due
registri di linguaggio: un livello connota il letterario e usa tutti gli acces­
sori eleganti delia lingua francese, e questo livello é scambiato e confu­
so con il livello parlato. Ma essi non sono mai separati, mai. Allo stesso
modo, ci sono apparizioni improvvise e inaspettate del passato sronco.
C’è anche un’inversione nell'ordine delle proposizioni, la frontiera è ri­
fiutata; susseguentemenre è dall'altro lato» circola. Mezzogiorno ê la li­
nea ideale, la frontiera nel giorno, ma è anche un mezzogiorno (sud)
senza fine. La strana punteggiatura, che mima il passaggio di frontiera,
declassici?:/.;! la fiuse e si perde nella traduzione.
11 rumo canta in questo modo:
"La ligne idéale traversait un champ de siegle mur, /dont la blondeur
était celle de la chevelure /des jeunes Polonais; il avait la douceur /un peu
beurrée de hi Pologne /dont je savais qu'au cours de Thistoire /elle fut
toujours blesée et plaime”
"La linea di frontiera, ideale, attraversava un campo di segala ma*
tura /d'un biondo come quello della chioma /dei giovani polacchi: un
biondo che riassumeva la dolcezza un poco butirrosa di tutta la Polonia,
/ch’io sapevo, nel corso della stona, /eternamente ferita e commiscrata”
Queste frasi hanno una densità ritmica aggravante perché tendo­
no ai verso alessandrino o a quello classico. C’è una simulazione della
scansione poetica che però non è raggiunta. Diversamente dalla frase
increspata che la precede, la frase non presenta punteggiatura:

il avait la douceur un peu beurrée de la Pologne

... riassumeva la dolcezza un poco butirrosa di tutta la Polonia

Se si resta il più vicino possibile all'enunciazione, si è m una specie


d’estraneità. Ma ciò che si intrufola è una scena sessuale, con l’aiuto del
burro - “il avait la douceur un peu beurrée de la PologneYYiassumeva
'Ire frissi sulla Scala della Scrimini 169

la dolcezza un poco butirrosa di tutta la Polonia” - e sentiamo il lamen­


to (la plainte) e la ferita (la blessure) della scena. Ciò che ci depista è
che tutto e al femminile nel resto francese, il che è normale, visto che
quella sodonuzzata è femminile.
Ci sono altri slittamenti in gioco a livello fonetico: le beurrée (il
butirroso) si espande per tutto il testo. Ritorna in l'orée (il limite), in
clorée (dorata), scambiandosi foneticamente tra il burro e Γ ο ι ό .

Lit ligne ideale traversait un champs de seigle mûr, donc la blondeur étau celle
de la chevelure des jeunes Polonais; il avait la douceur un peu beurrée de la
Pologne d o n t‘ je savais qu’au cours d e l'histoire elle fut toujours blessée et
plainte. J’étais avec un autre garçon.

La linea di frontiera, ideale, attraversava un cam po di segala matura d'un bion­


d o com e quello della chioma dei giovani polacchi: un biondo che riassumeva
la dolcezza un poco butirrosa di tutta la Polonia, ch’io sapevo, nel corso della
stona, eternamente ferita e commiscrata. Ero con un altro ragazzo.

Il testo cambia dal campo al compagno; è all’opera la sostituzion


alla quale siamo sensibili preconsciamente. Siamo spinti verso un tipo di
umanizzazione di questa natura.

J’étaic avec un autre garçon expulsé com m e moi par la police tchèque, mais je
me perdis très vue, puet-étre s'égara-t-il derrière un bosquet ou voulut-il
m ‘abandonner; il disparut.

Ero con un altro ragazzo, com e me espulso dalla polizia ceca, ma prestissime
lo persi di vista, smarritosi forse dentro un boschetto, o forse perché aveva
deciso di lasciarmi: scomparve.

Questo compagno entra ed esce. È un rapido episodio paragonato


agli episodi più lunghi in D iano del Ladro * È mimetico: perdiamo di vi­
sta il compagno perchè siamo presi m questo testo che produce effetti
di sparizione. Siamo smarriti, persi nel testo, a causa di strani incider)u,
come quello con questo compagno, ed anche a causa deirinteressante
funzione anfibologica dei pronomi. Nessun pronome si riferisce ad un
soggetto singolo, ogni volta c’è un doppio gioco, un colpo doppio.
170 Hélène Cixous

Ce champ cle siegie était bordé du côté polonais par un bois dont l’orée
n’étaii que de bouleaux immobiles.

Quel campo di segala confinava dalla parte polacca con un bosco il cui limita*
re era formato da immobili betulle.

Di nuovo, questo modo dì torcere ciò che viene detto. Lorée (ii li­
mite) rievoca ie beurée (il butirroso), ci teniamo saldi alla fantasia ses­
suale. De bouleaux immobiles (immobili betulle) potrebbe giocare su
di una immobilità ed una ansia, ma gioca anche con de bout (in piedi):
“Debout je traversai ies seigles’Y'In piedi attraversai la segala", e vedia­
mo bouleau (betulla) di nuovo decomporsi in eau (acqua). "In piedi”
mentre lui sta "accovacciato" “Longtemps ie restât accroupi au bord’/A
lungo rimasi accovacciato sui margine” . È Proust ad insegnarci a iniziare
una frase con longtemps (a lungo); “Longtemps je me suis couché de
bonne heure’/A lungo, mi sono coricato di buonora” (Proust, 1983, 5).
Ora il testo ci paria proustiano.

attentif à me demander ce que recélait ce champ, si je traversais quels douaniers


les seigles dissimulaient

I tempi non s'accordano. La frase gioca a camuffare una scena o u


tempo. Non ci preoccuperebbe se non ci fosse “se lo avessi attraversa­
to” che sembra comandare ia presenza o fassenza delle guardie. Come
se quella decisione dipendesse dalla decisione d’attraversare. Attraver­
sare anche le guardie.

Longtemps je restai accroupi au bord, attentif à me demander ce que recélait


ce champ, si ;e traversais quels douaniers invisible les seigles dissimulaient.

A lungo rimasi accovacciato sui margine intento a chiedermi che cosa na­
scondesse quei campo, quali guardie di finanza, se lo avessi attraversato,
avrebbe celato la segala.

Tutto è contorto. Dalla messa in scena della fantasia. “Des lièvres in­
visibles devaient le parcourir" /”Forse invisibili lepri lo percorrevano”: sia­
mo portati a pensare che le guardie siano lepri: quels douaniers? (che
Tre Passi sulla Scala della Scrittura 171

guardie di finanza?). Non dimentichiamo che siamo sempre nel famoso


arazzo dove a sono anche le lepri, oitre che il Liocorno e la Dama.
"Ero inquieto” assume un valore straordinario in questo spazio lin­
guistico, d ’un tratto diviene una frase semplice. Come un oriflamme.
Nel Diano dei Ladro, il motivo deiFinquietudîne continua a brillare fio­
camente, Dì contro a quello che potremmo immaginare, se siamo in­
consapevoli dell’astuzia di Genet, l'inquietudine che temiamo è quanto
egli desidera di più, Vinquietudine è ia grande figura dei desiderio.
“Ero inquieto'V'ero vivo” ; quasi un equivalente dell'erezione.
Entra qui una parte dell’arazzo:

A midi, sous un ciel pur, ia nature entière m e proposait une enigme, et me la


proposait avec suavité.

A m ezzogiorno, sotto un cielo terso, l'intera natura mi proponeva un enigma,


e me io proponeva con soavità.

“Terso” è un “emanazione da nLa Dama del Liocorno” Sentiamo


“l’intera natura”, la natura è en-tière (un terzo partito),7· per muoversi
ancora più lontano dal cliché, la natura è intera e, allo stesso tempo, lì
come un terzo paruto.

S’il se produit queJche chose...

Se qualcosa deve accadere...

Non è altro che l’apparizione di un liocorno:

c'est l’apparition d'une licorne

sarà l’apparizione di un liocorno

17 fin Cixous (1988), Montaigne è richiamato come “il più antico e necessario ter
zo partito” dcirautricel·
172 Hélène Cixous

Ancora un giro di tempo, un tempo presente quando ci si aspetta­


va un futuro. Tutte le apparizioni sono liocorni.

Un tel instant et un tel endroit ne puevem accoucher que d ’une licorne.

Un m om ento e un luogo com e questi possono partorire soliam o un liocorno.

Entriamo nel dominio principale della fantasia di Genet, quello del·


la gestazione. Egli gioca su due registri, sul luogo comune e sul cliché.

La peur, et la sorte d'émouon... suscitaient à midi, sous un soleil de piombe,


la première féerie.

La paura, e quella sona d'em ozione... suscitavano a mezzogiorno, sotto un so-


, le di piombo, la ρηηνΛ féene.

È l’istigazione della fata. La “fata” è “naturalmente” prodotta dalla


paura.

Je me hasardai dans cette mer dorée com e on entre dans l'eau. Debout je
traversais les seigles.

M ‘azzardai in quel mare dorato com e s'entra nell'acqua. In piedi attraversai la


segala.

Sentiamo: attraversai i secoli (siècles: un vicino equivalente foneti­


co in francese di seigles, cioè, “segala"). Il mare (la mer) si divide tra la
madre (la mère) e l’acqua (Veau) e riappare il gioco con bouleau (b e ­
tulla). Non ai traversiamo un compagno, attraversiamo il mare (la mer).
Restando nell'abilità di Genet, vediamo che è il passaggio attraverso la
madre da parte del padre-figlio o del figlio-padre, la scena produttiva
dove Genet é insieme figlio e padre, da cut sorgerà improvvisamente il
"personaggio araldico"

j e m ’avançais lentement, sûrement, avec la certitude d ’être le personage


héraldique...

Procedevo lento, sicuro, con la certezza d ’essere l’araldico personaggio...


Tre Passi sulla Scala della Scrittura 173

Precedentemente, aveva insistito di non sapere chi era; qui* al con­


trario, ne è sicuro e certo. È lui effettivamente il liocorno: non un ra­
gazzino a nascere, ma un liocorno femmina (une licorne - m francese
'liocorno” è di genere femminile).

Cette imagerie ou je tenais ma place...

Queste immagini, dove avevo anch’io il mio posto...

Come liocorno, ho infine il mio posto, laddove non ho il mio luo­


go altrove. Ciò si confonde con l'immaginazione polacca, che è omo­
sessuale. Sono nato secondo un processo naturale ed araldico, con un
tocco supplementare figurato nell'immaginazione polacca.
Ritorniamo all’inizio del paragrafo:

La tapisserie de "La Dame â la Licorne" m a bouleversé pour des raisons que


je n entreprendrai pas ici d'énumërer.

L'arazzo detto “La Dama del Liocorno" m'ha scombussolalo per dei motivi che
non m’accingerò a enumerare.

Ciò che era rimasto oscuro in questa frase diviene chiaro nello svi­
luppo di questo immaginario magnifico. Scopriamo perché questo araz­
zo lo eccita. Lui che non riusciva a trovare traccia della sua nascita una
volta recatosi al 22 rue d'Assas, la trova nell’arazzo di “La Dama del Li-
corno”. Allo stesso tempo, c'è questo tocco d'humor: ma non ve lo dirò,
e questo “ma" prende in giro il lettore.
L'apparizione deil’“aquì!a bianca” opera in modo doppio: e sullo
stemma polacco e nella mitologia, e in quanto personaggio mitologico,
ci ricorda di molti giovani uomini.

Un enchantement d ’un autre ordre m'alkm être proposé.

Un incantesimo d'ordine diverso stava per essermi offerto.

Lo spostamento di “me" in francese, m'allait être invece che allait


m ’ètre, non è scorretto grammaticalmente, è semplicemente sgradevole
174 Hélène Cixous

all Orecchio, Possiamo sentire m ’a lla it a it (nu allattava), m a i-ê tre


(sconforto) e anche m a l (male). Un incantesimo d’orcline diverso.

L-ι "Dame ή ia Licorne” me Test fexpression hautiane...

“La Dama del Liocorno” è per me l’altera espressione...

Sentiamo "La Dame â la Licorne" m ê le l’expression hautiane...”


(M ê le r in francese è "mischiare”, o "interporre parola", m ê le r s o n m o t
"intromettersi'’). "La Dama del Liocorno” interpone l’altera espressione.
La questione vitale della nascita, del dare nascita, di questa relazio­
ne "naturale", come dice Genet, spesso in modo umoristico, ci porta al­
la natura vegetale. Dobbiamo solo seguire le tracce della natura-frontie-
ra, entrando e uscendo, per vedere ciò che è all'opera in queste meta­
morfosi e in queste simulazioni.

3. La parola Racine: una stona di nomi propri

La parola r a c in e (radice) ha assunto una tinta un po' volgare oggi,


insistita com’è in ideologie che hanno connotazioni razziste. Bisogna ri­
durla in cenere e aspettare la sua rinascita. Allora sentiremo una bellis­
sima parola. Ringrazio Jean Racine, ritorno alle mie ra c in e s con Kaone.
Siamo lavorati dai significanti dei nostri grandi scrittori; il nome comune
proprio, il nome comune proprio produce effetti su di noi lettori, ma
specialmente su colui che lo porta. Tutu dobbiamo confrontare gii effet­
ti inconsci dei nostri nomi propri. Troviamo questo aspetto dell’inter­
vento della lingua nei nostri destini sulla carne della nostra immagina­
zione. Lavoriamo su scrittori i cui nomi sono portatori d’effetti testuali.
Ciò non significa che io sia attratta dagli autori i cui nomi sono ai lavoro
nel linguaggio, ma semplicemente che non c’è nome che non produca
effetti. Incluso i nomi apparentemente insignificanti, come il mio per
esempio, un nome impossibile, ma che ha sempre prodotto effetti si­
gnificanti. Genet mette il suo nome costantemente all'opera nella lingua
francese. Dal suo nome sono nati intere opere. C’è c o r n e ille (corvo)
Tre Passi sulla Scala della Scnuura 175

nei testi di Corneille; l’uccello, la relazione con l’elevazione, con il volo,


con un certo tipo di uccello. Se riprendiamo Leviuco, vi troveremo tutti
i tipi di corvi. Racine deve tradurre degli effetti della radice (racine) in
tutti i suoi testi, specialmente delle radici (racines) del cuore. In altre
parole, mi riferisco unicamente alla radice (racines), perche il nome
proprio è dell’ordine delle radici, la radice più leggera e intangibile clic
abbiamo. Essa ci radica, nella lingua e oltre, senza sapere precisamente
dove. Un autore il cui nome non è stato senza effetti significativi - della
qual cosa era perfettamente consapevole - è Kafka. In tedesco, Kafka si­
gnifica cbouca = corneille (corvo). Anche lui è un uccello. Lo sa, ci gio­
ca, io inscrive. Nelle Confessioni e nei Diari, ci sono molti esempi di
questo genere di piccoli aforismi che lavorano sui corvi. É magnifico. J
corvi affermano di poter distruggere il cielo.

32. Le cornacchie affermavano che basta una sola cornacchia a distruggere il


cielo. La cosa è indubitabile, ma non dimostra nulla contro il cielo, poiché il
cielo significa appunto: incompatibilità con ie cornacchie (Kafka, 2000, 796).

Ê possibile, è impossibile, nessuno può verificarlo. Forse andare al­


la radice ê andare verso Γίηverificabile. Quanto ai nome di Clance Li­
spector, chi avrebbe potuto inventare un nome più promettente di luce
e di visione?
Ecco il punto in cui Genet racconta il suo amore per Salvador Sal­
vador é terrificante.'

J'avais réussi à aimer le corps malingre, le visage gris, la barbe rare et ridiculmcnt
plantée. Salvador prenait soin de moi, mais la nuit, à ia bougie, ie recherchais
dans les coutures de son pantalon les poux, nos familiers. Les poux nous habi­
taient (Genet, 1949, 27-28).

Ero riuscito a amare quei c o rp o gradiino, quel viso grigio, quella barba rada e
piantata in m odo ridicolo. Salvador aveva cura di me, ma la notte, presso la
candela, cercavo nelle cuciture dei suoi pantaloni i pidocchi, nostri intimi di
casa. Ci abitavano, i pidocchi (Genet, 1992, 27).

I pidocchi (les poux) t \nostri animali domestici. 1 pidocchi: la sp


sa (l'epoux) di Genet.
176 Hélène Cixous

A nos vêtements ils donnaient une animation, une présence qui, disparues,
font qu’ils sont morts.,,
IJ était bien que je fusse l'amant du plus pauvre et du plus laid ou fond de tant
de misères. Pour cela je connus un étar privilégié. J‘eus du mal, mais chaque
victoire obtenue - mes mains crasseuses orgueilleusement exposées m’aidaient
à exposer orgueillesuemem ma barbe et mes chevoux longs - me donnaient de
la force - ou da Ja faiblesse, eL c'est ici la même chose - pour la victoire suivante
qui dans voire langage prendrait naturallement le nom de déchéance (Genet,
19-19, 28-29).

Ai nostri vestiti davano un’animazione, una presenza che, una volta scompar­
se, li rendevano morti...
lira giusto ch’io fossi l'amante del più povero e del più brutto m fondo a tan­
ta miseria. Grazie a ciò conobbi uno stato di privilegio. Faticai, ma ogni vitto­
ria ottenuta - le mie mani lerce orgogliosamente esposte m’aiutavano a espor­
re orgogliosamente la barba e \capelli lunghi - mi dava la fora - o la debo­
lezza, che qui é la stessa cosa - per la vittoria successiva, che naturalmente nel
vostro linguaggio prenderebbe il nome di scadimento (Genet, 1992, 27-28).

Discesa, scadimento. Per il tramite d'accattoni, adesso siamo pas­


sati alla cokivazione delle piaghe (plaies). Per Genet, la discesa è un mo­
vimento ordinato dai desiderio di innalzare, di riportare su, di alzare il
più basso ai livello più alto.

Ce m’aura été une très utile discipline, et qui me permet de tendrement sou­
rire encore au plus humble parmi les détritus, qu’ils soient humains ou
matériels, et jusqu'aux vomissures jusqu’à la salive que je laisse baver sur le
visage de ma mére, jusqu'à vos excréments. Je conserverai en moi-même
l'iclée de moi-même mendiant.
Je me voulais semblable à cette femme qui, à l’abri des gens, chez elle
conserva sa fille, une sorte de monstre hideux, difforme, grognant et
marchant a quatre pattes stupide et blanc. En accouchant son désespoir fut
tel sans doute qu’il devint l'essence même de sa vie. Ella décida d’aimer ce
monstre, d'aimer la laideur sortie de son ventre ou elle s’était élaborée et de
Ténger dévotieusement. C’esL en elle-même qu’elle ordonna un reposoir ou
elle conservait l’idée du monstre. Acev des soins dévots, des mains douces
malgré le cal des besognes quotidiennes, avec l’acharnement volontaire des
désespérés ella s'opposa au monde, au monde elle opposa le monstre qui prit
les proportions du monde et sa poissance. C'est à partir de lui que
s’ordonnèrent de nouveaux principes, sans cesse combattus par les forces du
Tre Passi sulla Scala della Scrittura 177

monde qui venaient se heurter à elle mais s’arrêtaient au mur de sa demeure


où sa fille était enfermée (1).
(1) Par les journaux j'appris qu’après quarante ans de dévouement cette mère
arrosa tl’essence - ou de pétrole - sa fille endormie et mu le feu. Le monstre
(la Hlle) succomba, des flammes on retint ta vieille (75 ans), et elle fut sauvée,
c’est-à-dire qu'elle comparut en cours d’assises (Genet, 1949, 30).

Sarà per me una disciplina molto utile, che ancor oggi mi permette di sorri­
dere teneramente ai fondacci più umili, siano essi umani o materiali, e persi­
no al vomito, alla bava che lascio colar sul viso di mia madre, persino ai vostri
escrementi. Conserverò m me l’idea di me accattone.
Volli esser simile a quella tale che, al riparo dalla gente, serbò in casa la figlia,
una sorta di mostro orribile, deforme, che camminava a quattro zampe gru­
gnendo, stupido e slavato. Quando partorì, la sua disperazione dovette esser
tale da diventar l'essenza stessa della sua vita. Decise d’amare quel mostro,
d’amare la bruttezza uscita dal suo ventre dove s'era elaborata, e d’innalzaria
piamente. In tal modo l’idea di mostro la conservava nel propno intimo dove
le aveva ordinato un altarino. Con devote attenzioni, con mani morbide no­
nostante i calli delle quotidiane fatiche, col caparbio accanimento dei dispera­
ti s’oppose al mondo, al mondo oppose il mostro che del mondo assunse Je
dimensioni e la potenza. Nuovi principi s'ordinarono muovendo da quello,
senza posa combattuti dalle forze del mondo che cozzavano contro di lei ma
che venivano fermate dai muri della dimora dove sua figlia era rinchiusa (1).
(1) Dai giornali appresi che dopo quarantanni di piena dedizione quella ma­
dre annaffiò di benzina - o di petrolio - la figlia addormentata e l'intera casa,
appiccandovi il fuoco. Il mostro (la figlia) soccombette. Li vecchia (75 anni) fu
tratta dalle fiamme e salvata, cioè comparve davanti alla Corte d'Assise (Genet,
1992, 28-29).

Ecco l’ ultim o stadio d e llo scad im en to ch e è allo stesso tem p o l'ac­


m e, il parossism o, il punto culm inante d el più basso e d el più alto.

Je me voulus semblable à cette femme qui à l’abri des gens chez elle conserva
sa fille une sorte de monstre.

Volli esser simile a quella tale che, ai riparo dalla gente, serbò in casa la figlia,
una sorta di mostro.

Il suo d esid erio è d ’essere una d o n n a che, nascosta dalla gente


conserva la figlia in sé, una sp ecie di m ostro. Ecco ii suo auio-nirauo:
una don na ch e interiorizza un m ostro più gran d e e più p oten te del
178 Hélcnc Cixous

mondo. La madre arriva solo alla fine, nella nota, quando é condannata.
Nella nota, in stile giornalistico, c’è il mostro/figlia, sebbene potrebbe
essere la madre, e ancora l’ultima metamorfosi: “la vecchia (75 anni)*’
Cht è il mostro? Cosa è un mostro?
Con Clance la discesa verso la vita è egualmente feroce e trucu­
lenta. In Acqua Viva la discesa porta Clance a trasformarsi tn un essere
violento: è metamorfìzzata m tigre.

Noi - davanti allo scandalo della morte.


Ascolta appena superficialmente quello che ti dico e dalla mancanza dt senso
nascerà un senso come da me nasce inspiegabilmente vita alta e leggera. La
densa selva di parole avvolge fittamente quello che sento e vivo, e trasforma
lutto quello che sono in una qualche cosa mia che rimane fuori di me. La na­
tura è avvolgente: mi aggomitola tutta ed è sessualmente viva, appena questo:
viva. Anch’io sono trucuìentamente viva - e mi lecco il muso come la tigre do­
po che ha divorato il cervo (Lispector, 1997, 23).

C’è rassomiglianza, c’è differenza.

CLARICE E GENET: POSIZIONI LIBIDINAL!

Genet mette costantemente in atto un processo d’inversione. Egli


è assolutamente chiaro su questo tema. Esalta ciò che è degradato dalla
società, che é considerato inferiore. La feccia è quella che stima di più,
quella che gli piace di più. Il processo è di contrasto provocatorio. Ap­
prezzerà l’essere più sporco dei cieli, e non amerà il tipo che non ha
pulci sul collo. Questo processo di elevazione inversa è, come Genet in­
siste sempre, emozionante, magnifico, e magnificante. Allo stesso tem­
po è inquietante nella misura m cui disfa, mina, e indebolisce una ge­
rarchia sociale, sebbene ciò sia per rimpiazzarla con un’altra gerarchia
che ê libidinale e immaginaria.
Per Clance non è in gioco l’opposizione forte tra l’aito ed il basso. Se
lei scende è perché vuole andare in un certo luogo che descrive in Acqua
Viva cosi come in cento altri, Clance tende verso l'inizio e la fine, verso ciò
che sviluppa nella sua opera intera con vanaziom, la materia. La matena
Tre Passi sulla Scala della Scrittura 179

per lei non è astratta ma intelligente, vira, e potente. Per andare alla mate­
ria c’è un cammino da percorrere, con stadi, gradi che sono i gradi natu­
rali di reami e specie differenti. Clance compie un viaggio interiore, di ri­
torno, poiché noi cominciammo come materia prima di allontanarci da do­
ve venivamo. Compie un viaggio di ritorno alle nostre origini concrete, pur
se é un viaggio spintuale. Il viaggio è spirituale perché non è sufficiente
metter ì piedi sul terreno per ritornare alla terra. È un esercizio spirituale
estremamente difficile, che reintegra il terrestre, la terra, la composizione
della terra nei corpo, nell'immaginazione, nei pensiero. Clance non lo fa in
modo semplice, procede a tentoni, desiderando: si muove alla cieca, poi­
ché è un'esploratrice nel dominio, metodicamente, commettendo errori.
A volte apre la porta sbagliata, fa le manovre sbagliate; a volte va molto vi­
cino alla materia, alla terra - vi è quasi - e poi fa un passo di troppo e at­
traversa ia terra, passa dall’altro lato, e ritorna sul iato dell’astrazione, del
pensiero idealizzante, che pur critica costantemente. Rendendosene con­
to, ci ritorna ancora, ma, diversamente da Genet, non c’è provocazione in
questo processo. Per Genet, tutto è sfida. In Clance non c’è sfida, se non
verso se stessa, attacca solo un nemico: la distorsione e l'allontanamento,
che esistono in lei come in ogni essere umano. Non ha bisogno di agire
come se fosse fenta, come fa Genet, né ha bisogno d’esaltare e di cercare
l’ignobile. Cercare l'ignobile, lo troverebbe ignobile. iMa ancora una volta,
Lispector non è nella situazione di Genet. Lei non è Genet. Qualsiasi sia la
sua inclinazione alla mutazione, al cambiamento, e al travestitismo, Genet
è un uomo. Clance é marcata, marca se stessa, sente, m quanto donna.
biamo qui due esempi d'afferm azion e di un tipo di identità sessuale che
produce effetti etici. Cosi quando Clance fa qualcosa che ci sembra del­
l’ordine dello sforzo o della violenza, che potremmo avvertire come ec­
cessivo, in effetti io fa senza eccesso e senza esaltazione.

Tutto finisce con i fio ri

L'inferno ci riporta a qualcosa di misterioso, d’incantato, di cui non


sappiamo nulla se non che è profondo dentro di noi: la nostra genesi.
180 Hélène Cixous

Nel viaggio verso le origini, nel ritorno alle radici, ci sono scadi
analoghi a quello che abbiamo imparato riguardo la costituzione del
mondo nelle .scienze naturali. C ’è il passaggio attraverso ìo stadio ani­
male, quindi attraverso Io stadio vegetale, e cosi ci allontaniamo dall'u­
manità: dal vegetale discendiamo nella terra, per il fusto, alla radice, fi­
no a raggiungere ciò che non ci riguarda, pur se esiste e si inscrive, ciò
che è debordine minerale, che non si tiene insieme, però, perché sia­
mo diretti verso il disassemblaggio, la decomposizione. Forse j fiori so­
no l’ultimo stadio umano. Nei testi e nelle biografìe di Kafka, di Genet,
di Clance Lispector, tutto finisce con i fiori. Secondo me, non è un caso.
Gli ultimi pensieri di Kafka sono stati per j fiori. È ancor più note­
vole m quanto non ci sono moki fiori nei suoi testi. Morendo, perdeva
Pabilità di parlare a causa della tubercolosi che gli aveva affetto la larin­
ge, non poteva nemmeno bere. In questo momento d’estinzione, Kafka
annotava ciò che doveva dire su piccoli pezzetti di carta, che sono stati
conservati e sono magnifici. Spero abbiate letto questi resti delle opere
di Kafka pubblicati con il molo “Fogli di conversazione" (Kafka, 1978).
Ho amato Kafka a partire da questi pezzetti dì carta: appartengono ad
una economia del morire, ma in questa economia, m questa rapidità e
condensazione, c’è qualcosa di straordinariamente tenero e preciso. Si
potrebbe dire “telegrafico", poiché Kafka è esausto, ma, anche se c'è
economia di pronomi personali, la poesia e la delicatezza sono lì.

Da qualche parte nei giornali d'oggi c'è un eccellente articolo sul trattamento
dei fiori recisi: hanno cosi tanta sete...

Di fianco, quella era quasi la mia idea cosi che possano bere di più. Allarga le
foglie.

Vorrei prendermi cura delle peonie perché sono cosi fragili.

Muovere i lillà al sole.

Hai un momento, per favore? fVedete, era educato anche su questi pezzetti di
carta, H. C.| Allora, per favore, annaffia le poenie (ibid., 417).
Tre Passi sulla Scala della Scrimini 181

É la cosa più bella d el m on d o. Innanzitutto, questa sua preoccupa­


zion e, seb b en e sia il discorso stesso ch e è m agnifico. E la straordinaria
gen tilezza di un u o m o ch e non ha più di ch e vivere. L’altro esiste.

Nella condizione in cui sono, per riprendermi, se fosse mai possibile, mi a


vorranno settimane. Per favore, va a vedere che le peonie non tocchino il fon­
do del vaso. È la ragione per cui devono essere tenute nelle caraffe (ibidem).

Un giorno dopo:

Visto i lillà? Freschi come il mattino (ibid., 420).

Dì fianco a ciò, avere;

Non potrebbero i dolori fermarsi di tanto in tanto, voglio dire per un po’? (ibi­
dem).

O p p u re quesca frase, ch e aassum e l’en ergia ironica di Kafka, il suo


ve cc h io lato eb reo, ch e mi ha sem p re fatto ridere:

Che il cattivo rimanga cattivo. Altrimenti diventa peggio.

Ma per il momento, ci sono abbastanza fiori.

Mosciumi il gladiolo, é troppo esile per stare con gli altri.

La spina rossa è troppo nascosta, troppo alfombra.

Più acqua. Frutta.

L'altra notte ancora un'altra vespa bevve dal bianco giglio.

Taglia molto di sbieco, cosi che possano toccare il fondo.

Non riusciamo a trovare alcun ertisits? (ibid., 419*421).

Una d e lle ultim e frasi:

È magnifico, non è vero? Il giglio morente; beve, continua a bere abbondan­


temente. Non può essere che un uomo morente beva (ibid., 422),
182 Hélène Cixous

Uuitima;

Cosi l'aiuto se ne va di nuovo, senza aiutare (ibid., 423).

Ricordo d’essere rimasta stupefatta nello scoprire che, stranamen-


le, Clance era morta con i fiori. Nelle stesse circostanze. Anche lei scri­
veva su pezzetu di carta, che sono stati raccolti dall'amico. C’è uno "sti­
le" del morire dove troviamo qualcosa d’economico, stranamente den­
so, compatto, urgente e, allo stesso tempo, molto tenero.
Clarice lo ha scritto su un foglietto di carta, poiché non poteva più
parlare, il 9 di dicembre, 197/; credo che mori il nove o il dieci:

Una improvvisa mancanza d’aria. Molto tempo prima della metamorfosi del
mio mai-essere, avevo già notato in uno dei dipinti nella mia casa, un inizio.
Me, me, se la memoria non mi inganna, morirò (Borrelli, 1981, 61).

Comprendiamo ciò che sottilmente vuoi dire: se ia memorta non


la ingannerà, sarà viva quando morirà. Ricorderà, saprà.

Sono un oggetto caro di Dio. Ed è ciò a dare nascita ai fiori nei mio petto. Mi
ha creato uguale a ciò die scrivo adesso: "Sono un oggetto caro di Dio" e gli
piace dovermi creato come a me è piaciuto creare ia frase. E più l'oggetto
umano ha spirito, più Dìo è soddisfatto.
Bianchi gigli pressavano contro la nudità dei mio petto. Offro gigli bianchi a
ciò che mi ferisce in voi: perché siamo esseri che mancano. Questo perché
certe cose - se non sono date - appassiscono. Per esempio, i petali dei gigli si
brucerebbero contro il calore del mio corpo. Chiamo Ja leggera brezza per ia
mia morte futura. Dovrò morire, altrimenti i miei petali si bruceranno. Ecco
perché mi concedo alla morte ogni giorno. Muoio e rinasco,
inoltre, sono già morta dalla morte di altri. Ma adesso muoio dal fu briachezza
della vita. E benedico il calore del corpo vivente che farà appassire i bianchi gì*
gli (ibidem).

Suona strano, non perché improvvisavo la traduzione, ma perché


lei scriveva in questo modo. Non Je importava. Scriveva in accordo a ciò
che accadeva, seguendo ciò che le dettavano i fiori.
È sorprendente che questi eroi di scrittura arrivino allo stadio dei
fiori al momento di morire. Questi Ποπ non sono segni di morte, sono vi­
Tre Passi sulla Scaia della Scrittura 183

vi. In questi momenti estremi, ammettiamo forse di avere una relazione


con il vegetale, tanto intensa, corporea, quanto carnaje. Non dovrei par­
larne nel modo in cui faccio, perché non sto morendo. Ê solo un’ipotesi.
Forse la ragione é che scopriamo a questo punto che i fiori conducono -
Genet io diceva in modo umoristico, ma in realtà toccava una nota vera -
con il ioro modo di attraversare la terra, con le radici, ai cuore della ma­
teria. Essi conducono dove suamo andando: ne abbiamo bisogno come
guide. Sono cosi fragili, come dicono sia Genet che Clance. Ci conduco­
no indietro alle origini, dove diventiamo ovviamente una famiglia.
La bellezza di questo testo è eccezionale. Mai Clarice ha scritto in
questo modo nei testi da pubblicare, dove si sforza costantemente di ra­
zionalizzare, approfondire, scoprire il mistero. Invece qui, perché non ê
interessata a leggere, è m un luogo di scrittura senza concessione o
compromesso. Abbiamo riconosciuto i tratti, ì modi del pensiero, le al­
lusioni a ciò che chiama "la metamorfosi” , qualcosa delfordine che chia­
ma "Inizio”; poiché morire ê un inizio, é qualcosa d’altro che inizia, che
era prima e che inizia di nuovo.

Mi ha creato uguale a quello che scrivo ora: "sono l’oggetto caro di D io” e gli
é piaciuto avermi creato com e a me ê piaciuto creare la frase.

Sono una frase di Dio: è una trasposizione. Lei ê trasposta. Voi non
potete trasporre. Pur se sempre così attenta alla grammatica, ella rima­
ne nel luogo che ha designato, ai maschile: “gii é piaciuto avermi crea­
to" (eiegostou. de me ter c n a d ó )y resta l’oggetto di Dio. È veramente
in metamorfosi. Avrebbe potuto fare l’accordo e dire me ter c r i a d a,
ma lei é già un oggetto. È in transizione verso qualcosa che non è né
maschile né femminile.
Ecco i fiori, che sono dentro e non dentro. Dentro o forse solo
dentro. Dapprima ci viene detto wcosa ha dato nascita ai fiori nei mio
petto’\ quindi: “i bianchi gigli premevano contro la nudità dei mio pet­
to” . È una nudità interiore: siamo in uno spazio generalizzato dell’esse-
re dentro. L’intera relazione con i fiori, con i petali, é naturale e sempli­
ce, ma anche più complicata da immaginare: non é realistica, ma di una
Hélène Cixous

continuità complessa che già permette il passaggio dal femminile al ma­


schile, da soggetto a oggetto, in questo movimento verso ciò che chia­
miamo mone. Mi dispiace che in francese non abbiamo il passato stori­
co del verbo morire: non si può avere ia mone attivamente in francese,
mentre 111 altre lingue ci viene data la libertà di morire attivamente.

Verso il libro senza amore

Dobbiamo star morendo per andare alla Scuola delle Radici? Non
so se dire sì o no. N o , se è preso letteralmente per intendere che do­
mani non apparterremo più a questo mondo. Sebbene ciò sia una cosa
per cui sperare. Sì, se lo comprendiamo come un esercizio »n quella for­
ma di vita, delicata e piena di rispetto, che chiamiamo morire. É un dif­
ficile apprendistato, ma deve essere esperito. Per esempio, se siamo in
gioia e in amore con la scrittura, dovremmo cercare dì scrivere il libro
immondo. Il libro immondo tratta di cose, uccelli e parole che sono
proibite da Quelli Egli.
Il libro immondo è il libro senza autore. È il libro scritto con n
bordo, ma non con noi al \'olante. È il libro che vi fa fare l’esperienza di
un tipo di morie, che fa cadere il sé, il sè speculante, il furbo “Io” spe­
culante.
È il libro deli'Atto della Scrittura. Il libro che prende la vita e il lin­
guaggio per ie radici. Non ha nulla a che fare con i libri pazzi - o por*
nografici. È il libro più forte dell'autore: il testo apocalittico, il cui splen­
dore sconvolge gli angeli scrivani. Come scriverlo? Con la mano che cor­
re. Seguendo la mano che scrive, come il pittore che dipinge: in lampi.
La mano conduce ai fiori. Dal cuore dove s'agitano le passioni fino alle
sommità delle dica che sentono il corpo pensare: è da dove sorge il Li­
bro (Vivo)-da- vivere (le livre Vivre)...

Serno che e tempo di finire questa corsa. Ho parlato di scuola ,


non di con segui meri li o diplomi ma di luoghi d’apprendimento e ma­
Tre Passi sulla Scala delia Scrimini 185

turazione. Perché, anche se c’è, nella persona che scrive, “una disposi­
zione al mondo delle fiabe” , una relazione con la leggenda, uno stato eli
creazione - ciò non è abbastanza.
Bisogna lavorare. La terra della scrittura. Al punto di divenire la
terni. Lavoro umile. Senza ricompensa. Eccetto la gioia.
La scuola è interm inabile.
Sto cercando di concludere. Improvvisamente, a pagina 185 quan­
do Ja terza ora stava finendo, ho capito che forse ci sarebbero dovute es­
sere delle conclusioni ai miei viaggi, perché questi fogli su cui cammino
con la mano sono "lezioni” Ma la “conclusione” non è nella scrittura...
N a d ia S e t t i

LE STRADE MAESTRE DELLA SCRITTURA”

I testi di Hélène Cixous appartengono alla specie di libri che, in­


contrati nel mezzo del cammin di nostra vita, ia sconvolgono e t se siamo
su una strada, ci fanno cambiar strada, cambiar paese, partire, vivere, so­
prattutto vivere.
Questo é quanto personalmente è successo, a me che ero già una
lettrice appassionata, un giorno è capitato di trovare non soltanto un li­
bro ma molto di più, la scrittura promessa. Ogni volta che incomincio
un testo cixousiano, ritrovo il suo sapore ricco e promettente: la cosa
sorprendente è che ia promessa si realizza pur conservando la poten­
zialità dei promettere.
I testi qui pubblicati e tradotti con tanta passione e sapienza da Sil­
vana Carotenuto, potrebbero essere considerati dei saggi, ma come per
altn lavori di scrittura, ogni volta che Cixous entra in un genere, o che
lo accosta, tutto il genere ne è riscritto, rinnovato. Questa volta si tratta
oltretutto di un volume integrale, mentre in precedenza il pubblico ita­
liano ha potuto leggere saggi pubblicati in riviste o volumi collettivi '
Essi sono tratti da una serie di lezioni che l’autrice ha pronunciato
a Irvine, presso l’Università di California nel 1990. Il primo intento quin-

* Faccio allusione a "L’approccio (li Clarice Lispector" (1988), l i teatro del cuo
(1992); “lì riso della Medusa” (1997); "La venuta alla scrittura” (1998); “La mia AJgeriance"
(1999); “tetterà a Zohra Drìf" (1999), “Apparizioni'’ e "Tancredi continua” (2000).
188 Nadia Sem

di è quello di insegnare, di impartire lezioni; infatti \ rie capitoli che


scandiscono il testo indicano altrettante scuole - la scuoia dei morti, ia
scuola dei sogni, la scuola delle radici. Materie inconsuete per coloro
che vengono qui ad imparare, e colei che oggi è qui con noi, quale in­
segnante, anzi Professor, ha frequentato queste scuole, e ne è ritornata.
Ne è ritornata come si ritorna dal Monte Sinai o dal paese della scrittu­
ra con un sapere che scotta, che attira ia parola in una lotta accanita
contro il silenzio. 11 sapere che riceviamo, attraverso la frequentazione
dei luoghi poetici, trasmesso dagli esseri dediti alla poesia e alla scrittu­
ra (sono sinonimi) è una forma di saggezza. In ogni caso non é per nien­
te identificabile come un sapere accademico.
Vale la pena di ricordare, in questa sede, che Hélène Cixous non è
soltanto scrittrice e autrice di un'opera considerevole costituita da testi
poetici e teatrali, ma anche insegnante: i suoi seminari sono il luogo in
cui si riunisce un pubblico vario, non solo universitario, di tutte le età
(dai diciouo ai più di ottanta anni), spazio in cui condivide la sua pas­
sione per la scrittura e in cui mette sul tavolo le questioni etiche e filo­
sofiche che la preoccupano. È un momento e un luogo m cui si incon­
tranti esigenze che possono sembrare a prima vista inconciliabili come
quelle della scrittura, che necessita separazione e ritorno in sé, e del-
rinsegnamento pubblico che deve tener conto dell’esterno, la storia co­
me contesto e come attualità talvolta controversa e bruciante.
Anche se è sempre il testo poetico ad essere privilegiato, forse per­
ché ritenuto più minacciato, più fragile, tuttavia è innegabile l’attenzione
costante della scrittrice ai passaggi tra pratica poetica e stona, sia essa
personale che mondiale. Non semplicemente in termini di relazioni tra
l'individuo e il contesto storico, ma come lettura trasversale degli eventi
grazie all’acquisito sapere poetico e non malgrado o eccetto la poesia. Si
tratta quindi dì una doppia lettura capace di guardare contemporanea­
mente da un lato e dall'altro, sostenuta dalla convinzione che i testi pre­
scelti sono portatori di molteplici esperienze del corpo e della stona, an­
zi ne sono già le letture incrociate, che spetta a noi decifrare. Ciò che
Cixous rintraccia nei testi di Cvetaeva, Bernhard, Bachmann è l’intreccio
"Le strade maestre della scrittura" 189

dell'intensità poetica con la percezione visionaria del proprio tempo, che


è poi ancora ii nostro.

Sto cercando l’espressione più appropriala per quello che ci succede


leggendo questi saggi e mi domando tra l’altro quale sia la traduzione esat­
ta di "leggere”: direi vivere, ma allora in “vivere” ci sono innumerevoli altre
cose, infinite scene e episodi. Coincide spesso con quello che abbiamo dif­
ficoltà ad ascoltare o ad accettare. Capiamo rapidamente che il leggere scri­
vere a cui ci invita Cixous non è atto ordinano né banale: aprire un libro
può significare leggere un destino, essere l'ospite di Montaigne (Thomas
Bernhard) o l’ospite dei morti nel sogno di Kafka.
Corrisponde con il senso ritrovato di essere all'estremità di se
stessi, a quel bordo estremo che confina con il paese o la lingua cono­
sciuta sconosciuta, indovinata. Si tratta di un'estremità di vita che impli­
ca la separazione dal mondo ma che promette Tal di là sconvolgente
della scrittura. Su questo bordo, lettura e scrittura si sovrappongono e si
scambiano. In effetti, per leggere questi saggi dobbiamo mettere da par­
te l'idea che siamo soltanto da una parte, o quella della lettura o quella
della scrittura: la convocazione significa Io scavalcamento e il susseguir­
si di funzioni e ruoli ni permanenza.
Di fatto ie traduzioni possibili di leggere come scrivere sono innu­
merevoli: ognuno dei testi che mano a mano Cixous commenta è r e ­
sero pio, l’occasione, l’evento per la traduzione. Queste traslazioni (mol­
to simili a trapassi, cioè passaggi da vita a morte e viceversa) perseguo­
no la venta, parola che si può difficilmente scrivere senza prendere le
precauzioni dei corsivo o le virgolette: però, ci dice subito Cixous, sen­
za verità, senza la parola verità implicita o esplicita, non a sarebbe scrit­
tura, perché è ciò che ia scrittura vuole1 Hélène Cixous è attratta dal
luogo dove nsuona questa necessità: in cui scintilla, sospesa a mezz'aria,
fascia, nello stesso tempo la lettera bâche e per omofonia fascia hache.
In cui neH’affernvazione stessa del bisogno, il fa u t , ci vuole, si insinua il

·* Cfr. “Li Scuola dui Morti”, in questo volume.


m Nadia Setti

falso (faux) e la falce (faux). Non ci dovremmo sorprendere che laddo­


ve la verità é in bailo ci sia scintillio tra faiso e vero, e ogni parola rischi
il filo del rasoio. Proprio lì non si può retrocedere: la perdita è da tutte
le parti, sia che lasciamo perdere, abbandonando l’impresa, sia che con­
tinuiamo, rischiando la vita, dunque ia morte. Il percorso meditativo e
poetico di Hélène Cixous e continuamente condotto sui filo dei para­
dosso come figura e come procedimento. Sul crinale } dell’ossimoro,
neH’oscilIazione tra due versanti di pensiero. Non si può dire che qui co­
me altrove, nei suoi testi poetici di fiction, Cixous tenti di trovare o ri­
trovare l'equilibrio, cioè la verità come equilibrio, come vero contro fal­
so; piuttosto ella cerca di mantenersi nello squilibrio, mostrandoci io
scintillio deirascia lanciata in aria.
Diversamente da un discorso o metadiscorso sulla verità o intorno
alla verità, questa non è sopraelevata né inaccessibile, ma è ciò che
ognuno deve cercare dentro e contro di sé, verità che si rivolta letteral­
mente dentro, che esiste e (ci) resiste. Le letture che Cixous ci propone
sono quelle che danno insieme gioia e dolore, che fanno il più gran ma­
le, facendo il più gran bene - cosciente che molti abbandonano il libro
per strada. Perché non si sopporta m uguai modo il godimento e la sof­
ferenza quando coincidono neH’estremità. Anche Lispector lo sapeva
ma diversamente da Kafka e Bernhard, che pure sapevano come tutti gli
altri e le altre che lei chiama in causa come protagonisti e testimoni di
questa scrittura m extremis.
Da questo punto di vista, fare questo gesto, dare lezioni, può sem­
brare del tutto paradossale, insieme rischioso e generoso. Come inse­
gnare ciò che non è assiomatico né dogmatico, il rischio, ia strada che
porta a gettarsi in un precipizio, a bruciare la casa, a abbandonare tutto?
Certo queste sono immagini, metafore che Cvetaeva o Bachmann o

' Sul crinale, troverebbe come compagno di strada Jacques Derrida di au dice, in
un saggio-dialogo con Mireille Calle-Gmber (1994, 89): «Perché lo vedo sul cnnale: per-,
che si situa nel punto di contatto tra i due fianchi, versanti, inclinazioni, lati al punto di
rovesciamento della salita in discesa, dei desiderio in iutto, del lutto in slancio di vita,
dì te tn me, lui in lei...»·
'‘Le strade maestre deJla scrmunT 191

Lispector ed altri hanno trasportato net loro scritti per indicare da vici­
no o da lontano l’estremità che ie attrae al punto da guidare ι loro iti­
nerari poetici e perfino i loro destini di vita.
Le lezioni letture (Lectures in inglese) di Cixous sono ugualmente
corsi di iniziazione: danno gli inizi, guidano verso <segreti dello scrive­
re. Il gesto, diciamolo, non è frequente. In genere il segreto è fatto per
essere tenuto per sé. Ma ia scrittura, ci confida Cixous, é il dono dei se­
greti nella vertigine della perdita. E quindi dono estremo di ciò che
nondimeno resta segreto. Spartire e nel contempo mantenere (in sé,
nell'altro da sé) il segreto prezioso che origina lo scrivere; ecco un altro
formidabile squilibrio.
Per fortuna che m questi luoghi, in cui i poeti si recano da soli o da
soie, Cixous ci va con noi: nel momento stesso in cui la scrittrice ci av­
verte che i luoghi che l’attraggono sono quelli in cui non si va da soli, lei
accompagna ed ê accompagnala. Talvolta mi dico che se Hélène Cixous
non facesse questo lavoro intenso e fedele di accompagnamento loro
continuerebbero da soli e lei stessa si allontanerebbe in solitario cam­
mino. Invece questa scrittura, la sua, nasce da una solitudine condivisa
con gli altri, amici, amanti e amiche in scrittura. In questo senso, il libro,
come queste lezioni, ê atto di condivisane, di spartizione di visioni.
Le parole di Cixous ci interpellano nei momento m cui ella tra­
smette a sua volta ie chiamate delle sue Guide, i suoi auctores, sapienti
nella scienza della vita, della morte, della lingua. Sono parole che vanno
diritto al cuore della domanda, verso il paese in cui ci sono più doman­
de che risposte. Sono sagge e implacabili, ritrovano i cammini o li sol­
cano di nuovo. Ci trattengono il tempo di riflettere sull’umano, sull’es-
serci, sulla paura e la gioia, insieme ad altri. Cixous richiama intorno a
sé, verso di noi, 1 testi beneamati (e soltanto quelli) come altrettanti
speccin che devono servire da riscontro e supporto alle nostre interro­
gazioni, altrettanti inviti a porci ie domande, a osare i cammini.
I testi/autori (donne e uomini) verso i quali la scrittrice ci porta,
sono testi abbondanti, generosi, così com’è sovrabbondante la sua scrit­
tura. Perciò se si dovesse cercare altri significati di "leggere secondo
H.C.” si dovrebbero cercare nel lessico del dare, dei dono, dei donare:
192 Nadia Setti

restituire, rievocare, offrire. Anche quando il dono sembra inaccettabile,


insopportabile, è il dono della morte/del morto/della morta. Lei stessa é
tra coloro che ha ricevuto questo dono: se può scrivere, se può parlar­
ne, è perché ê stata graziata. Ha ricevuto il libro come grazia ma anche
come colpo di grazia.
Cixous ci porta fin dentro un luogo - la scuola elementare - in cui
i libri di testo si aprono e vi leggiamo le “scene primitive” della vita com­
me della scrittura: sono le stesse. Le scene come le entrate sono tante o
una sola: variano per ognuno e per ognuna e ce ne sono m abbondan­
za. Le parole dell’aumce aprono, spiegano, spianano proprio una regio­
ne in cui regna di solito la più grande complessità, la più grande oscu­
rità. Che cosa ci si aspetta in fondo dal grande insegnamento? che ci in*
troduca passo a passo verso 1 luoghi (sconosciuti. Ma altro paradosso:
1 lo sconosciuto, la sconosciuta è in noi, siamo noi. Come Freud ha di­
mostrato, Jo sconosciuto, unheimlich , è conosciuto dimenticato, rinne­
gato, sepolto. Da qui, il senso di incertezza che turba la conoscenza fa­
cendola vacillare e diventare conoscenza a tentoni, passo a passo. E co­
si che guida Lispector, e Cixous con lei, dietro di lei.
Eppure, impariamo. Scrivere è un atto di amore, uno slancio verso
il mondo, l’altra, l’altro, anche verso di sé. Far scuola, mettersi alla scuo­
la (della vita, della scrittura) vuol dire trovare le parole che collegano,
trovare i collegamenti tra gli uni e gli altri, tra me e te, tra loro e me, tra
me e voi; lavoro di sapienza, di vita, di intelligenza del cuore e della
mente, del corpo. Immenso lavoro di mediazione di cui noi approfittia­
mo: perché ci fa giungere m luoghi che non sono sempre cosi accessi­
bili come si crede. Spesso siamo con \ libri, accanto, dentro, sui bordi,
questo dipende dall'esperienza e dai modi di ciascuno, ma più rara­
mente riusciamo a scorgere il sorgere della scrittura, là dove ia cosa si fa
tra corpo e scrivere, tra vita e scrittura.
La lettura di Cixous scopre e svela ciò che profondamente è al lavo­
ro nel testo, non soltanto i significati, spesso il significante (che, come la
lettera Jacaniana, contiene tutte le lettere, ma non è una di queste): ci
mette davanti airatto forse più crudele o sconvolgente di cui una scrittura
è capace (o colpevole): togliere gli accessori, i veli, e vedere il viso ultimo
"Le strade maestre della scrittura" 193

delle cose, di una scena. DEVISAGER. L'ultimo paesaggio sotteraneamen-


te collegato con il primo viso (visage) dovrebbe dirci la venta a lungo cer­
cata, e da sempre soltanto promessa, quella che ci tocca da vicino, da den­
tro, e che i cesti più forti, i più pericolosi non cessano di insegnarci.
La scrittrice ci guida verso i testi e le scritture che fanno parte del­
la sua famiglia in un senso molto intimo, quelli che sono disposti sul ta­
volo della scrittura o proprio accanto: insomma quelli e soltanto quelli
in cui ci si può riconoscere al di là di se stessi, I testi che offrono l'im­
magine delhiltro, dell'aitra, che non vediamo mai, che siamo destinali a
vedere soltanto da ciechi o da morii.
Ci si può domandare se questa scelta possa costituire la base per
un'estetica o per una poetica. Questa è una domanda che letterati, criti­
ci, appassionati di estetica hanno ragione di porsi, tuttavia non è in que­
sti termini che l’autrice ci presenta 1 suoi testi-guida. Non si tratta di mo­
delli esemplari ma di riferimenti essenziali sul cammino di una riflessio­
ne altrettanto rigorosa che libera.
La lettura di Cixous si distingue in egual modo da tutu gli approc­
ci teorici propri all'analisi letteraria (strutturalista, semiotica, critica sto­
ricista o critica psicanalitica, critica femminista), principalmente perché
disdegna i! ricorso a qualsiasi strumento o discorso critico a priori,
esterno all'opera stessa. Inoltre perché ia manipolazione più o meno
esplicita di strumenti critici non è l’obiettivo di tale lettura, che si af­
franca costantemente da qualsiasi sistema di interpretazione. Ma ancora
per un’altra ragione, essenziale: il linguaggio tecnico, critico, concettua­
le restringe gli spazi della lingua, ne limita le riserve, ne circoscrive gli
usi. Ai contrario, Hélène Cixous é aturata dalla versatilità della lingua,
dall’abbondanza delle sue risorse. Si tratta in fondo di una questione di
economia libidinale, di godimento, di fruizione e piacere del testo: an­
che nel caso di una lettura o del commento di un’opera, Cixous non
può rinunciare alla sua lingua di scrittura, estremamente suggestiva, mo­
bile, sensibile agli echi, agli accostamenti di significati.
Ancora una volta mi sembra che la fonte di tale lettura è la sua pra­
tica di scrittura in cui l’interferenza con l'inconscio - che designa qui co­
me "scuoia dei sogni” - é necessaria, frequente e determinante. Sono
Nadia Setti

quindi * testi che di volti! in volta suggeriscono le modalità dell’approc­


cio e i mezzi di trasporto più appropriati. Ma non si tratta mai di cate­
gorie letterarie, piuttosto di figure poetiche, di significanti generati dai
testo come chiavi per compiere il passaggio. Quelle che Cixous designa
come “le parole magiche”
É tn questo modo che la lettura compiuta da Cixous si pone in
commun à poetica con i testi: je discontinuità esistono ma sono del tipo
del contrassegno, della remarque, cioè traccia reperita e rintracciata,
per coloro che seguono o inseguono. Non per niente Cixous ci ripete
che i testi che più ama sono quelli che evadono, che ci sfuggono e frig­
gono, non senza lasciar tracce. Potremmo allora dire che la sua arte del­
la lettura è arte del ritrovamento delle tracce. Spesso \contrassegni so-
^ no mimmi: lettere che circolano, passano, filano sotto ί nostri occhi, e
come succede alla famosa ietterà rubata deH’omommo racconto di Poe,
noi, comuni lettori e lettrici, rischiamo di non vederla. Cioè vediamo
senza vedere, o sentiamo ma a un livello superficiale senza accorgerci
del lavoro in profondità del testo.
Tale è invece ia capacità della lettrice scrittrice Cixous: riuscire a
percepire ia lettera che fugge, insinuandosi nelle pieghe del racconto,
per poi mostrarci il suo itinerario. Il caso esemplare é il nome proprio
dell’autore Jean Genet vero fattore genetico deiropera. In questo caso il
riferimento a Derrida é doveroso *, e del resto Cixous non manca di far­
lo: ogni volta che la lettera appare e scompare nel tessuto del testo, non
si possono dimenticare i testi che da Poe in poi l’hanno inseguita. Tutta­
via anche se potremmo senz'altro contare Cixous come una delle più il­
lustri maestre di prestidigitazione del significante, bisogna precisare che
lei non si lascia intimidire dai Maestri di queH’arte e con abilità e lestezza
riesce a non fare di questa capacità una maniera o un metodo in sé.
Dai pochi esempi che abbiamo dato dell'uso della lingua da parte
di Hélène Cixous, si può facilmente capire che la traduzione si confron-

‘ Mi riferisco a Jacques Derrida (1978) che è a sua volta lettura e rilcttura sia del rac­
conto di Π. A. Poe e de **U seminario su La lettera rubata di Jacques Lacan negli Scritti.
“Le strade maestre della scrittura” 195

ta spesso con la soglia dell'intraducibile, che coincide spesso con l’insi­


stenza delle omofonie e la dispersione dei significanti nella trama te­
stuale. È significativo che siano soprattutto 1 testi francesi, e m partico­
lare quelli di Jean Genet, che offrono a Cixous ia possibilità di far valere
le sue capacità di lettura molteplice, valendosi insieme dell’acutezza del­
l’orecchio e della vista. Tuttavia questa visione ascolto riverbera verso gli
altri libri e le altre lingue a tal punto da farci pensare che dovremmo im­
parare questa lezione e accostarci alla lingua di ogni testo con la stessa
attenzione, con gli stessi riguardi.
Capiremmo cosi l'assoluta necessita di mantenere il femminile del­
ia barata, la blatta, coprotagonista con G.H., ia donna, del magnifico ro­
manzo di Clance Lispector, La passione secondo GJL . tutto il testo, dal­
l'inizio alla fine, ci ripete come la blatta non può essere né scarafaggio'
né cafard né coacbroacb. Ma un’insistenza della vita ai femminile nella
lingua grazie alla lettera “a” desinenza femminile.
Quello che può quindi apparire sorprendente è eli e Cixous riesca a
percepire le scene che ia lingua dispiega nei testo anche quando questo
le giunge nella lingua tradotta (penso soprattutto ai russo di Cvetaeva); a
questo punto l'approccio punta meno sulla lingua che sulle scene chiavi,
le "scene primitive” della scrittura. Ma anche in questo caso Cixous non
trascura le connessioni tra lìngua e inconscio.

Forse perché è una donna che scrive, perche non è il gioco in sé


cine l‘attrae ma la scena o le scene che si ìntrawedono, laddove affon­
dano le radici della lingua nei corpo, persona o universo, di ogni essere
che vive, soffre scrive. Laggiù/Lassù atopico, annunciato, promesso ma
non afferrato, né circoscritto, né posseduto come una cosa, un oggetto,
un territorio occupato.
Sto cercando di introdurre una delle problematiche che possono
interessare le lettrici e i lettori di Cixous che sanno come da tempo la
, scrittrice frequenti il territorio testuale e poetico della differenza sessua­
le: ci si può in effetti chiedere se queste lettine così singolari debbano
essere definite come “letture della differenza sessuale”. È abbastanza fa­
cile rendersi conto scorrendo i sottotitoli che costellano il volume che ta-
Nadia Seni

le molo non vi figura. Sarebbe di fatto un’encheua che ridurrebbe l'am­


piezza .simbolici e immaginativa della materia presentata. Tuttavia tale è
il filo nascosto, sotterraneo, che attraversa tutte queste lezioni. Non è
programmato né programmabile. Ne è il segno segreto. Possiamo soltan­
to percepirlo negli accostamenti, nei passaggi tra un'opera e un'altra, da
autrice a autore. Quale necessità esiste di avvicinare Clarice Lispector a
Genet o a Kafka? Quale cammino ci porta dall’una altro poi all'altra e co­
si di seguito? Non una semplice comparazione tematica. Non si tratta di
compilare il catalogo dei temi letterari comuni o differenti che siano. La
necessità della comparazione (mi piace di più il termine ravvicinamento,
approccio) risiede altrove, forse proprio nelPatopicità della differenza.
Scene, atti, eventi (come chiamarli?) 111 cui la scrittrice si ritrova con loro
* “gli autori cari" donne, Ja maggior pane, ma anche uomini.
Quando leggiamo Genet o Lispector, cosa, chi leggiamo? Chi é de­
signato con il nome d’autore? In quanto scrittrice, Cixous sa bene quan­
to l’autore sia distinto dalla persona che ne porta anagrafìcamente il no­
me'' L'omonimia come l’omofonia sottende un complesso intreccio di
distinzioni, false e vere identità e disidentifìcazioni, di cui il testo é il
tracciato e la trama. Una parte importante della riflessione di CLxous si
aggira intorno all’autore*: la scmince non esita a nominare familiar­
mente i suoi autori (soltanto Clarice tuttavia é chiamata soltanto con il
nome) pur facendo riferimento all’opera. Perché ciò che l’affascina è il
momento del passaggio, dell’alterazione della persona che scrive in au­
tore, momento di verità, certo, che però coincide spesso con una can­
cellazione e una trasformazione di dati autobiografici.
Tale crescita o aumento (ricordiamo l’etimologia di auctor da
aitgeret aumentare, far crescere) grazie ai moltiplicarsi dì esperienze e

' Od tutto appropriala è in proposito la definizione di Jacques Derrida nel saggio


“U.C. pour la vie*1 (2000, 36): ««une œuvre autobiographique oui s'auto-héieroanalyse
comme une grande, une ires grande» («un'opera autobiografica che sì auto-eieroana*
lizza come una grande, una grandissima»).
'* Vedasi la ricorrenza di espressioni enigmatiche nei sottotitoli “Il del il co detl'au*
mre”, Ί Λ ι ι η ο π ϊ è al buio*', ”11sexto(CL) deH*auiore”
"Le strade maestre delia scrittura” 197

identità, auraverso il lavoro tra sogno e radici, fa sì che lo studio delle


.relazioni tra ««amori» e testi sia in un certo senso resa complessa dalla
questione della differenza sessuale. Tinto ciò che e sotto il segno del-
l'auiore ê già in questo distacco, in questo spostarsi da sé, che apre lo
spazio delle scoperte, delle trovate, degli incontri.
Queste considerazioni suU’auiore hanno le loro radici nella con­
vinzione più volte espressa da Cixous, già negli scritti degli anni 70, che
l’io sia un coacervo di persone diverse, spesso insospettabili \ Anche se
nei saggi più recenti Hélène Cixous non ritiene più necessario inserire
queste precisioni, tuttavia penso che meritino di essere rammemate se
vogliamo misurare l'ampiezza del suo intervento neirambito della lette
ratura con lem poranea.
Man mano che si leggono questi saggi appare evidente che la scel­
ta degli amori e delle autrici corrisponde alla necessità di trovare nei li­
bri un’esuberanza della differenza, «testi talmente foni che lasciano ve ­
dere - malgrado le apparenze -, cioè scorgere, vivere, corpi sessuati che
godono, al di là dello scambio»rt
Mi sembra che questa affermazione interpretata alla luce delie ana­
lisi e delle letture contenute in questo volume, apra una nuova prospet­
tiva alla definizione di Letteratura, che si delinea attraverso un succe­
dersi degli atti di scrittura e lettura, un vero e proprio passarsi il testi­
mone alla luce della differenza sessuale. Cixous si incontra con l’altro te
s l o , l’altra autrice, perché entrambi si ritrovano testimoni di esperienze

essenziali e spesso sconvolgenti del vivere, della mortalità, dell'umano,


dell'altro. E proprio negli incontri e gli accostamente appaiono i bivii, le
configurazioni libidinali differenti. Perché ogni testo, corpo, autore, go­
de e ci fa godere secondo le sue specie e modalità.
Université de Pans 8, Vincennes Saim-Denis

; Nella bambina Cvetaeva abita il poeta Puskin e m costui la Guida, il terribile


usurpatore (vedasi “Il mio Puskin” e "Puskin et Pugachev"); in Genet, «una iemminilita
rigogliosa, materna. Un miscuglio fantasmauco di uomini, maschi, monarchi, principi,
orfani, fiori, madri, seni...·· Cosi scriveva Hélène Cixous ne La feune nea (1975).
* Cfr. “Comes de la Différence Sexuelle" (199-i, 68V
BIBLIOGRAFIA

ABRAHAM NICOLAS & TOROK MARIA


1972 - "Jntrojecter-Incorporer: deuil ou mélancolie'1
, Nouvelle Revue de
Psychanalyse, n. 6.
BACHMANN ÎNGEBORG
1986 - "Night Flight”, m ni The Stonn of the Poses. Selected Prose by ingeborg
Bachmann, Princeton University Press, Princeton.
1988 - Il caso Pranza, Adelphi, Milano.
BERNHARD THOMAS
1978 - fa t Suhrkamp Verlag, Frankfurt ani Main.
1982 - “Montaigne". Die Zert, October 8.
1985 - Alte Master - Komodie, Suhrkamp Verlag Frankfurt am Mam.
1986 - 'Trois journées*’; in Ténèbres - Textes, discours, entretien, Editions
Maurice Nadeau, Paris.
1999 - Un bambino, Adelphi, Milano.
1999 L'origine, Adelphi, Milano
BORRELU OLGA „ ,
1981 - Clance Lispector - Esboço para uni posswel reirato, Editarci Nova
Fronteria, Rio de Janeiro.
BONO PAOLA
2000 - (a cura di), Scritture del corpo. Hélène Cixous variazioni su un temat
Sossei la, Roma.
CALLE-GRUBER MIREILLE
2000 - "Corpo/corpi della differenza sessuale'', trad. di Paola Bono, in Bono
2000.
CAROTENUTO SILVANA
1998 - *’A "wilko-poetry’' m thè Crossing of tinie and space: An Atlas of thè
Diffidiit World by Adrienne Ridv\ Anglistica, voi. 2, n. 2.
200 Hélène Cixous

1999 - Ellissi d i senso. Valtro corpo della tragedia shakespeareana, Bulzoni,


Roma.
2001 - “ Una auto-biografìa iivdireua: Rootpnnts. M em oiy an d Life Wnting eli
Hélène Cixous", in Angiolina Arni, Laura di Michele, Maria Stella (a cu­
ra eli), Proprietarie, Uguon, Napoli.

CI:LAN PAUL
1999 - Poesie, Mondadon, Milano.

CIXOUS HELENE
1967 - Le Prénom de D ie u , Grasset, Pans,
1069 - Dedans, Grasset, Pans.
Les connnentements, Grasset, Paris.
1970 - Le troisième corps Grasset, Pans (riedizione, des femmes, Pans 1999).
1971 - Un vrai ja r d in , LTlerne, Paris (riedizione, des femmes, Paris 1998).
1972 - N eutre, Grasset, Paris.
1973 - Tombe, Le Seuil, Paris.
- Portrait du Soleil’ Denoel, Paris.
1975 - Portrait de D o ra , des femmes, Pans.
- Un K incompréhensible: Pierre G oldm an, Chnstian Bourgots, Paris.
- La je u n e née, (con Catherine Clément ), Collection 10/18.
- Révolutions p o u r plus d'un Faust, Seuil, Pans.
1976 - La, Gallimard, Paris.
Partie, des femmes, Parts.
Souffles, des femmes, Pans.
1978 - Le nom dOedipus: Chant du corps interdit, libretto. Des femmes (con
musica di André Boucourechliev, diretto da Claude Régy, al Festival
d'Avignon)
1979 - Vivre L'Orange, des femmes, Paris (incluso in L’heure de C lance
Lispector, précédé de Vivre POrange, des femmes, Pans 1989).
1980 - Ilia, des femmes, Paris.
1981 - With ou a rt de l'innocence, des femmes, Paris.
1982 - Lim onade tout était si infini, des femmes, Pans.
1983 - Le Livre de Protnethca, Gallimard, Pans.
1986 - “làncrêde conunue", »n Entre l'écriture, des femmes, Pans (traduzione
‘“làncredi Continua” di Nadia Serti, m Bono, 2000).
- L'heure de C lance Lispector, des femmes, Pans.
- La bataille d 'A rcachon , Laval Quebec.
- "1λ Séparation du gâteau", in Jacques Derrida et a i, P o u r Nelson M an­
dela, Gallimard, Paris.
Tre Passi sulla Scala della Seme uni 201

1988 - “L’approccio di Clance Lispector”, (rad. Nadia Sem, D\VFT 7.


Afa mici a u x Mcindelstams a u x Manclelas, des femmes, Pans (Manna.
For (be Mandelstams For the M andel as, intns. and introduction bv
Caihenne À.F. MacGillivray, University o f Minnesota Press, Minneapolis
1994).
1989 - "Interview with Hélène Cixous", in “Cixous Dossier", ed. trans. Catherine
A. Franke, Q u i R id e: A Jou rn a l o f U te n n y Siudì es 3, η. i, spnng.
1990 - ‘ A propos de Manne. Entretien avec Hélène Cìxoux” m Hélène Cixous
- chemins cVune écriture, par Françoise van Rossum-Guyon - Mynam
Diaz-Diocaretz, Rodopovî/PUy Amsterdam-Paris.
- "Difficuk Joys”, in The Body a n d the Text Hélène Cixous: Reading and
Teachtng (ed. by Helen Wilcox ~ Keith McWatters - Ànn Thompson - lin­
da R. Williams), Hamster, London.
- Reading with C lance Lispector (éd., irans. and introduction by Verena
Andennatt Conley), Harvester, London.
- Jours de Van, des ferii mes, Pans.
- “The Iw o Countnes o f Wrinng: Theater and Poeucal Fiction”, m J. Fiowcr
Mac camille (éd.), The Other Perspective in Gender and Odiare.
Rewriting Women ancl the Symbofic, Columbia University Press, New
York.
1991 - On ne p a ri pas, on ne rerient pas (prima lettura il 24 novembre a (La
Métaphore), diretro da Damici Mesguich e André Guuuer), des femmes,
Pans.
- "Sans Arrêt, non, Etat de Destination, non, plutôt: Le Décollage du
Bourreau”, m Repentirs, Réunion des musées nationaux (traduzione in­
glese “ Wìthour end, no, State o f drawingness, no, rather: The executio-
ner’s taking o ff”, cli Catherine A.F. MacGillivray, New Literarv Historw
24, 1, 1991; cjwndi in Cixous, 1998).
- Hélène Cixous. Reaclings the Poetics o f Blanchot, Joyce, Kajhat Kleist.
Lispector, a n d Tsvetayeva (ed., trans,, imroduced by Verena Andennatt
Conley), University o f Minnesota Press, Minneapolis.
1992 - Il teatro del cuore, traduzione e cura Nadia Setti, Pratiche, Parma.
1993 - "Bethsabée ou la Bible intérieure” , FMR 43, Aprii (traduzione inglese
“ Buihshcba or thè interior Bible”, di Catherine A.F. MacGillivray, New
Litercuy Histoiy 24, 4, 1993; raccolta m Cixous, 1998).
199-i - “Contes de la Différence Sexuelle’', in AA.VV, Lectures de la Différence
Sexuelle (a cura di Mara Négron), des femmes, Pans.
“L’amour du Loup”, La Métaphore, 2 (traduzione inglese “ Love o f the
w o lf” di Keith Cohen, m Cixous, 1998).
202 Hélène Cixous

1995 - “Démasqués!”, m Michel de Manessem (éd.), De légalité des sexes,


Centre Nauonai de Documentation Pédagogique.
- “Respiraiion de ia hache", Contretemps X, (traduzione inglese - “Miss
of thè axe" di Keîth Cohen, in Cixous, 1998).
La fiancée ju ive. De la tentationf des femmes, Paris.
1996 - Messie, des femmes, Paris.
“WriLing blind. Conversation with the donkev”. TriQnarteriy 97 (rac­
colsi m Cixous, 1998).
1997 - ‘Aux commencements, il y eut pluriel... Entretien avec Mireille Calle-
Grubcr", Genesis, 11.
- "Il riso della Medusa”, trad. Catia Rizzati, Critiche femministe e teorie
letterarie, CLUEB, Bologna.
- "Mon Algériance”, Les mrockuptibles 115, 20 Augusi-2 September (tra­
duzione inglese "Mv AJgeriance, m other words: to départ not to arrive
, froni Algeria" di Keith Cohen, TrìQuarteriy 100, 199/; traduzione italia­
na "La mia Algenance” di Nadia Setti, DWF 41,1999).
- “Stigmata, or job the dog'V Philosophy Today, Spnng (quindi in
Cixous, 1998).
1998 - "La venuta alla scrittura", Studi di estetica, 17, 3.

CIXOUS HELENE & CALLE-GRUBER MIREILLE


199‘i - Photos de Racine, des femmes, Paris (;rootpnnts. Memory and life
writmg, Routiedge, London 1997).

CIXOUS HELENE & DELEUZE GILLES


1973 - "Litïérasophie et Philosofiture’V Emission Dialogues, n. 30, France
Culture, 13 nov.

CIXOUS HELENE & DERRIDA JACQUES


1998 - Voiles, Galilée, Paris.
1999 - Beethoven à jamais, des femmes.
"Lettera a Zohra Drif”, trad. Nadia Setti, Leggendaria, 14.
2ΟΠΟ - Lejour où je n iétais pas là, Galilée, Pans.
‘Apparizioni". "Tancredi continua”, trad. di Nadia Setti, in Bono, 2000.
2001 - Esordi della scrittura, postfazione di Monica Fiorini, a cura di Adriano
Marchetti, Il Capitello dei Sole, Bologna.

CIXOUS HELENE & FOUCAULT MICHEL


1975 - "A propos de Marguerite Duras". Cahiers Renaud-Barraidt, 89.
Tre Passi sulla Scnln della Scrittura 203

CVETAEVA MARINA
1984 - "L’arte alla luce della coscienza", in II poeta e il tempo, Adelphi* Milano.
1987 - M on Poitchknie-Pouchknie et Pougatchov, iracl. André Markowicz et
Clémence Hiver, Pans.
1991 - "Il mio Puskin”, in L'arm adio segreto, Marcos y Marcos, Milano.
1993 - "Puskin and Pugachev”, m /I Capti ve Spirit: Selected Pi-ose, Virago.
London.
1994 - Poesie , Feltrinelli, Milano.

CONLEY ANDERMATT VEREN


1991 - Hélène Cixous: Writmg thè Fem m ine. University of Nebraska Press,
Lincoln.

DERRIDA JACQUES
1978 - fi fa ttore della verità , Adeiphi, Milano.
1982 - Voreille de Vautre , Vlb Editeur, Montreal.
1986 - et al., P ou r Nelson M andela , Gallimard, Paris.
1990 - Mémoires d'aveugles. L'autoportrait et autres ruines, Réunion des
musées nationaux, Paris.
1993 “ Passions. S au f le nom. Khora, Galilée, Paris.
1994 - ""Fourmis". Lectures de la Différence Sexuelle”, in Cixous & Calle-Gruber,
1994.
2000 - "H.C. pour ia vie”, m Hélène Cixous croisées d'une œuvre, a cura di
Mireille Calle-Gruber, Galilée, Paris.

DOSTOEVSKIJ FYODOR
1958 - Vidiota. I taccu in i p er uV id iota * tr. tt. a cura di G. Faccioli e L. Sficia
Boschian, note a cura di E. Lo Gatto, Sansoni, Firenze.

FORT BERNARDETTE
1997 - “Thester, History, Ethics: An Interview with Hélène Cixous on The Perju-
red City, o r tbe Awakenmg o f the Furies ” New Literaiy Histoiy, 28.

GENET JEAN
1949 - Jo u rn a l du voleur, in Oeuvres complètes de Jean Genet , Gallimard,
Pans.
1992 - D ia rio del la d ro , ES. Milano.
1997 - “Che cosa è rimasto di un Rembrandt strappato in pezzetti tutti uguali
e buttato nel cesso in IIfu n a m b o lo f Adelphi, Milano.
Hélène Cixous

KAFKA FRANZ
19~8 - “Conversation Slips”, in Letters to Friends, Family, a m i Editors,
Schocken, New York,
1979 - ‘‘Giuseppina ta cantarne ossia II popolo dei topi”, “ Indagini di un cane,
“ Prometeo", in Tutti i ra cco n ti, Mondadori, Milano.
199ó - "Desiderio di diventare un indiano'’, m N ella colon ta penale e altri
ra cco n ti, Einaudi, Torino 1986.
~ Lettere, Mondadori, Milano.
2000 - “Gli oito quaderni m oliavo", “Considerazioni sul peccato, il dolore, la
speranza e la vera vita", "Frammenti da quaderni e fogli sparsi", "Della
morte apparente”, tn Confessioni e Diari, a cura di Em no Pocar, Mon­
dadori, Milano.

LEVI PRIMO
1989 - Se questo è nn uomo. La tregua, Tonno, Einaudi.
i

LISPECTOR CLARICE
1979 - A Jl'ìixao segnndo G.H., Editora Nova Fronteira, Rio de Janeiro.
1988 - La mela nel b u io , Feltrinelli, Milano.
- The Rission According to G.ll., University o f Minnesota, Minneapolis.
1989 - L’ora della stella, Feltrinelli, Milano.
1993 - La passione secondo G.H., Feltrinelli, Milano.
1997 - A cqua Vira, Selleno, Palermo.
1999 - ‘Am ore”, “Il bufalo” MIJ delitto del professore di matematica", “ L’imita­
zione della rosa” , m Legami f a m ilia r i, Feltrinelli, Milano.
- Il segreto, La Tartaruga, Milano.
2001 - “Appartenere”, in La scoperta del m ondo 1967-1975> tr. it: a cura di
M. Raggini, La Tartaruga, Milano.

LOCATELJJ CARLA
2000 - “Questo lavoro d ’analisi e illuminazione", in Bono, 2000.

LORET ERIC
Î998 - “Cbcous l'oeil nu”, Liberation, 24 seprember.

MACGILI.1VRAY CATHERINE A.F.


1994 - “ introduction: “The Politicai is - (and thè) Politicai", in Cixous, 199m.

MAGGIORI KOBEUT
1998 - “Atelier de confection”; Liberation, 24 september.
Tre Passi sulla Scala della Scrimini 205

MANDEL* STAM OSIP


1979 - “ConversiiUion About Dame", "The: word and cui ture", in Mutuici'suini:
The Compiere Criticai Prose and Letters, Ardis, Ann Arbor.

POE EDGAR A.
1999 - Racconti del terrore, Mondadori, Milano.

PROUST MARCEL
1983 - Alla ricerca del tempo perduto, vol. i, ir. u. G.Raboni, Mondadori, Mi­
lano.

PUSKIN ALEKSÂNDR S.
2000 - l a fig lia del ca pita no, Mondadori, Milano.

QUADRI FRANCO
199*i - “Tragedia kolossal sui medici corrotti", La Repttblica, 26 giugno.

RACINE JEAN
1986 - B ritannico Bajazet A talia , Garzanti, Milano.

RILKE RAINE MARIA


1995 - // testamento, TEA, Milano.

RIMBAUD ARTHUR
2000 - Operet Mondadori, Milano.

SETTI NADIA
2000 - “ Passaggi di genere. Figure e transfigure della differenza", in Bono, 2000.

SPIVAK C. GAYATR1
1993 - "The Poliiics o f Translation", in Gavai ri C. Spivak, Ontside in thè Teacbing
M achine, RouLlcdge, London.
2000- “Translation as Culture”, Parallax - Translatons m k 1-i, januaiy-march.

TCHOUKOVSKAIA LYDIA
J976 ~ La plongée, Bibliothèque du Temps Présent, Editions Kombaldi, Pans.

WARD JOUVE NICOLE


1991 - Whne Woman Speaks with Forhed Totigne. Crìticism as Antobiograpby,
Kouiledge, ljondon.

WILCOX HE1ÜN - MCWATTERS KEITH THOMPSON ANN WILIJAMS R. LINDA


1990 - (eds.), The Body a n d the Text. Héléne Cixous: Reading and Teaching,
Harvester* London.
LA CURATRICE E L’AUTRICE DELLA P0ST-FAZI6NE:

BIOGRAFIE

Silvana Carotenuto insegna Letteratura Inglese all’istituto Università-*:


rio Orientale di Napoli. Si occupa di teatro e di romanzo contempóra- ;
neo, con particolare attenzione agli approcci critici della decostruzione
e della écriture fémmine. Ha recentemente pubblicato, per i tipi della
Bulzoni, Ellissi di senso. L'altro corpo della tragedia shakespeariana:

Nadia Setti insegna Letterature Comparate e Studi femminili nel Cen-


tre d’Etudes Féminines delPUmversitâ di Paris 8, é socia della Società ΐ
delle Letterate, si occupa da vari anni della scrittura lettura ai iemminir ■
ie. È autrice di numerosi saggi tra cui si ricordano, in italiano, l'introdu­
zione a II teatro del cuore di Hélène Cixous, (di cui ha curato la tradu­
zione), Parma 1992, e “Passaggi di genere. Figure e transfigure della
differenza”, in Scritture del corpo , a cura di Paola Bono, Roma 2000; e
i più recenti "Scrivere la notte ovvero Tabisso delia scrittura" in Duras,
mon amour 2, a cura di Edda Melon, Lindau 2001, e "Ecrire la vie: ten­
tatives de biographie” in Ecritures de femmes et autobiographie, a cu­
ra di Ginette Castro et Mane Lise Paoli, MSHA, 2002.

Potrebbero piacerti anche