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La palestra dello scrittore

Il ritmo e il movimento
a cura di Enrico Valenzi

Edizione ebook dicembre 2012


© Omero, Roma 2012. Tutti i diritti riservati.
Isbn: 978.88.96450.11.6

Illustrazione di copertina di Flavia Brandi


Impaginazione e grafica di Luigi Annibaldi

www.omero.it
www.omeroeditore.it

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Introduzione
Vi siete mai chiesti perché un racconto non funziona? Vi sembra scritto bene, la storia è
originale, i personaggi sono forti, eppure non funziona. Perché? Qualche volta la risposta è
nel ritmo e nel movimento della scrittura.
I racconti si muovono, hanno uno sviluppo, sono scritti con più o meno parole, con paragrafi
più o meno lunghi, con una lingua più o meno sofisticata. Lo scrittore deve saper scegliere il
passo di danza con il quale far avanzare la sua prosa.
Questo manuale contiene i consigli per farlo al meglio.

La palestra dello scrittore. Il ritmo e il movimento è un laboratorio di scrittura creativa in


tutto simile nei temi e negli esercizi a quelli che da anni Enrico Valenzi svolge per scuole,
corsi di formazione e università. Per chi ha già letto La palestra dello scrittore si tratta di un
avanzamento teorico e pratico. Chi si avvicina alla scrittura creativa con questo libro troverà
l’analisi di romanzi e racconti di autori famosi ed esercizi più o meno spericolati. Il tutto
garantito dalla Scuola Omero, la prima scuola di scrittura creativa in Italia dal 1988.

Enrico Valenzi
Enrico Valenzi: dirige fin dalla fondazione nel 1988 la scuola di scrittura creativa Omero. Ha
curato il manuale La palestra dello scrittore (Omero editore, 2001) e insieme a Paolo
Restuccia il volume Fantareale. Nuova antologia del racconto
fantastico (Omero editore, 2009). Ha tradotto la raccolta di racconti Contes carnivores di
Bernard Quiriny (Racconti carnivori, Omero editore, 2009).

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Premessa
Rispetto al nostro precedente manuale di scrittura creativa, intitolato anch’esso La palestra
dello scrittore, questo volume ha diversi punti di continuità didattica e divulgativa. Qui, come
nel primo volume, i capitoli sono definiti sotto forma di lezioni. Anche in questo caso i testi
che compongono il libro vengono utilizzati da tempo come materiale didattico all’interno
delle aule della scuola Omero e delle aule universitarie. L’aspetto laboratoriale del libro è
evidenziato ancora una volta dalla presenza in coda a ogni singola lezione di un bel numero
di esercizi di scrittura. Però questa è solo la prima chiave di lettura del libro che possiamo
riassumere così: si tratta di un corso avanzato di narrativa, con esercizi tecnicamente
“acrobatici” e, speriamo, molto divertenti da svolgere. Ma nel sottotitolo, che è presente nella
copertina del volume con la dizione Il ritmo e il movimento, abbiamo voluto sottolineare un
elemento di novità importante: stavolta proviamo a indicare la possibilità di una linea creativa
prevalente da assegnare, sia nell’ambito della scrittura che in quello della lettura, a una
coppia di elementi della struttura narrativa a loro modo inscindibili e fondamentali come il
ritmo e il movimento. E diamo un’attenzione particolare a questo binomio basilare della
narrativa attraverso un ampio ventaglio di modalità di utilizzo: il ritmo e il movimento nella
descrizione, nel dialogo, nel monologo, nel racconto fantastico, nelle singole parole.
Tantissimi gli esempi testuali presenti nel libro, con citazioni provenienti da racconti e
romanzi di valore assoluto, e riguardanti sia la letteratura classica che la letteratura che
classica magari lo sarà domani.

Buona lettura e buona scrittura.

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La danza in tutte le sue forme non può essere esclusa da una nobile
educazione; danzare con i piedi, con le idee, con le parole, e devo
aggiungere che bisogna essere capaci di danzare con la penna?

Friedrich Nietzsche

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Lezione 1
Prime definizioni del ritmo e del movimento
Benvenuti al corso di narrativa proposto dalla Scuola Omero e intitolato Il ritmo e il
movimento. Scopo del corso è quello di riuscire a farvi produrre, poco alla volta, dei testi
letterari compiuti in cui risuonino e agiscano il ritmo e il movimento più congeniali alle
vostre voci narrative. Prima di entrare nel vivo del laboratorio è bene darvi un minimo di
istruzioni per l’uso intorno a questo libro. Intanto vi anticipiamo che la scelta dei testi letterari
inseriti nelle sette lezioni che seguono è caduta spesso su autori vicini ai nostri giorni. Autori
che noi di Scuola Omero consideriamo, con una formula un po’ azzardata, “i classici di
domani”. Ossia autori e testi che, se letti tra dieci, venti, trent’anni e oltre, crediamo possano
mantenere inalterata la loro bontà letteraria. Abbiamo deciso di portare diversi esempi della
narrativa attuale perché è proprio con questa narrativa che si può equivocare più facilmente
sulla “presa” e sull’efficacia del ritmo e del movimento. In molti casi l’attualità letteraria può
essere cattiva consigliera e far risultare orecchiabile e interessante ciò che in realtà è
assemblato con tagli narrativi pieni di scorciatoie e astuzie stilistiche. Pensiamo perciò che,
isolando dal frastuono del presente delle voci uniche e originali, possiamo dare un contributo
a tutti gli appassionati di narrativa proponendo dei nostri punti di riferimento artistico.
Crediamo che poi, una volta fatta l’esperienza sulle narrazioni recenti, si possa risalire con
bella autonomia ai classici del passato (presenti in buon numero nel nostro libro) per affinare
ulteriormente le proprie capacità di ritmo e movimento. Altra indispensabile avvertenza
sull’utilizzo di questo libro riguarda gli esercizi assegnati alla fine di ogni lezione. Questi
esercizi possono sembrare azzardati e spericolati. Beh, forse lo sono. Però pensiamo che la
loro miscela di rischio e fantasia sia appropriata per liberare, senza riserve, ogni vostra voglia
e sentimento espressivo. D’altronde più elementi della vostra personalità farete sprigionare
dalle composizioni assegnate e più se ne arricchirà la vostra stessa scrittura.

Prime definizioni di ritmo

Il ritmo e il movimento in narrativa si possono definire come l’insieme dei passi, più o meno
rapidi e più o meno intricati, che l’autore compie attraverso le trame, i personaggi e gli
ambienti delle sue storie. Il ritmo è l’aspetto più elementare da isolare in una narrazione.
Semplificando, si può dire che il ritmo ha a che vedere con le scelte dell’autore rispetto al
proprio modo di periodare. È chiaro che periodi lunghi, carichi di aggettivi e avverbi, pieni di
subordinate e con pochi punti fermi, portino la narrazione a un ritmo lento e articolato. Per
contro è anche evidente che un’impostazione narrativa fatta di tanti periodi brevi, composti
solo di proposizioni principali, asciugati di aggettivi e avverbi, spinga il racconto a un ritmo
cadenzato e brevilineo. Fin qui tutto troppo facile come primo tentativo di definizione di
ritmo. È ora di complicarci un po’ la vita.

Il ritmo nella narrazione è dato anche da una serie di parti del discorso combinate tra loro che
concorrono a dargli un corpo e quindi a innalzare o ad abbassare la velocità di fruizione
narrativa e di conseguenza a segnare l’intero scorrere ritmico di un testo. Queste parti
possono essere: la complessità o semplicità dell’intreccio; l’altezza o la bassezza delle
disquisizioni dei personaggi; il multilinguismo o al contrario l’uso di una lingua omogenea e
compatta; la scelta di una lingua letteraria raffinata o invece di una lingua media; la

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specializzazione tecnica di un testo o la sua genericità; i continui cambi di ritmo narrativo o
invece la costanza della cadenza; ecc. Su tutto però è fondamentale che l’autore provi il
massimo piacere nell’esprimere proprio quel particolare ritmo che si forma nelle sequenze
date dalle sue parole. Se l’autore per primo prova delle belle sensazioni nell’attaccare una
storia con un certo passo anche al lettore arriverà la spinta ad abbandonarsi all’andamento
ritmico del tutto.

Prime definizioni di movimento

Il movimento è dato dall’insieme dei rapporti che si creano tra il ritmo e la trama, tra il senso
della storia e l’arco di sviluppo dei periodi. Se il movimento funziona, ossia se l’autore
rispetta e centra le proporzioni tra le parti drammaturgiche (e cioè l’autore riesce a trovare un
giusto rapporto tra incipit, centro e finale di storia) non è però ancora detto che l’aspetto
ritmico sia ben realizzato. È il caso della prima stesura del Talento di Mister Ripley di
Patricia Highsmith. Ecco cosa ci dice in proposito la grande scrittrice americana di gialli:

Ho cominciato a scrivere il libro con un umore bucolico e sembrava procedere


bene. Ma a pagina 75 cominciai a sentire che la mia prosa era rilassata come me,
direi quasi flaccida, e che un’atmosfera rilassata non era quella adatta per il signor
Ripley. Decisi di stracciare tutto e ricominciare da capo, sia mentalmente che
fisicamente in bilico sul bordo della sedia, perché Ripley è questo tipo di
giovanotto – un giovanotto in bilico sulla sedia, se pure si siede.

Al contrario, se il ritmo funziona, non è detto che l’autore riesca nell’obiettivo di dare il
giusto sviluppo drammaturgico alla storia. Se l’autore si incanta a seguire un ritmo, le
sonorità, la lingua che usa e non fa procedere nei modi e nei tempi giusti la storia, il senso del
discorso e le sue connessioni col ritmo potrebbero spezzarsi portando fuori sintonia il
movimento generale della composizione.

Sul ritmo che va a discapito del senso della storia ecco quello che ci scrive Lu Ji ne L’arte
della scrittura, scritto nel III° secolo d.C.:

A volte ritmi e armonie dominano e lo scrittore si lascia sedurre. E il cattivo


musicista suona più forte per nascondere le imperfezioni. I falsi sentimenti sono
uno schiaffo in pieno volto alla grazia.

Insomma, dopo questi primi ragionamenti, ci si può arrischiare a dire che ritmo e movimento
sono uno il riflesso dell’altro. Il ritmo rappresenta la parte più primitiva, più intuitiva e lirica
di uno scrittore. Il movimento è l’elaborazione più mediata e articolata di una serie di
elementi che partono dal ritmo fino ad arrivare al significato profondo che si vuole dare alla
storia. Il vero problema, per amalgamare al meglio tutte le parti che compongono il
movimento della narrazione, sta nel trovare equilibrio tra le parti pulsanti e interne della
storia e quelle formali esterne. Ecco alcune riflessioni d’autore sul rapporto tra le diverse
parti narrative:

Italo Calvino

Il mio lavoro di scrittore è stato teso fin dagli inizi a inseguire il fulmineo percorso
dei circuiti mentali che catturano e collegano punti lontani dello spazio e del tempo.

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Nella mia predilezione per l’avventura e la fiaba cercavo sempre l’equivalente di
un’energia interiore, di un movimento della mente. Ho puntato sull’immagine, e dal
movimento che l’immagine scaturisce naturalmente, pur sempre sapendo che non si
può parlare d’un risultato letterario finché questa corrente dell’immaginazione non
è diventata parola. Come per il poeta, la riuscita sta nella felicità dell’espressione
verbale, che in qualche caso potrà realizzarsi per folgorazione improvvisa, ma che
di regola vuol dire una paziente ricerca del mot juste, della frase in cui ogni parola
è insostituibile, dell’accostamento di suoni e di concetti più efficace e denso di
significato. Sono convinto che scrivere prosa non dovrebbe essere diverso dallo
scrivere poesia; in entrambi i casi è ricerca di un’espressione necessaria, unica,
densa, concisa, memorabile.

Ecco ora un altro contributo sulle relazioni esistenti tra parti narrative diverse che possono
dare movimento e vita a un’opera letteraria:

Marcel Proust

Quel che noi chiamiamo ‘realtà’ è un certo rapporto tra quelle sensazioni e i ricordi
che ci circondano simultaneamente, rapporto unico che lo scrittore deve ritrovare,
se vuol concatenare per sempre nella sua frase i due termini differenti. In una
descrizione possiamo elencare indefinitamente gli oggetti presenti nel luogo
descritto; ma la verità comincerà solo quando lo scrittore avrà preso due oggetti
differenti, ne avrà stabilito il rapporto e lo avrà saldato con gli anelli necessari dello
stile; o meglio, come la vita stessa, quando, riaccostando una qualità comune a due
sensazioni, ne avrà liberato l’essenza comune, riunendole insieme, per sottrarle alle
contingenze del tempo, in una metafora.

Inevitabilmente con Calvino e Proust sono entrati in ballo (a proposito di ritmo e movimento)
concetti letterari decisivi come la scelta della parola giusta e la capacità di mettere in contatto
narrativo oggetti molto diversi tra loro. Ma il ritmo e il movimento in un testo scritto lo
trasmettono anche altri fattori, solo apparentemente più superficiali, come ad esempio la
disposizione delle parole sulla pagina.

Ecco cosa ci dice Stephen King a proposito del ritmo e del “colpo d’occhio” che la nostra
scrittura è in grado di offrire al lettore:

Aprite un libro di narrativa a caso e guardate un paio di pagine. Osservatene la


composizione, le righe tipografiche, i margini, e soprattutto gli spazi bianchi dove
cominciano e finiscono i paragrafi. Siamo in grado di giudicare senza leggere se il
libro che abbiamo scelto sarà facile o difficile, giusto? I libri facili hanno molti
paragrafi brevi, in special modo paragrafi di dialogo che possono essere di solo una
o due parole in tutto, e un sacco di spazio bianco. Sono ariosi come i coni gelato
della Daury Queen. I libri difficili, quelli pieni di idee, narrazione o descrizioni,
hanno un aspetto più ponderoso. Un’aria densa. I paragrafi sono importanti per
come appaiono quasi quanto per quel che dicono; sono manifesti. È la cadenza
ritmica del racconto a stabilire dove ciascuno comincia e finisce. Io sono pronto ad
affermare che è il paragrafo e non la frase l’unità di base della scrittura, il luogo
dove si fonda la coerenza e le parole hanno la possibilità di diventare qualche cosa
di più di semplici vocaboli. Se deve esserci un momento di accelerazione, esso si
manifesta a livello di paragrafo. Bisogna imparare a usarlo bene se si vuole scrivere
bene. Questo significa molto esercizio: bisogna imparare il ritmo.

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Adesso è tempo di entrare concretamente in una narrazione per vedere da vicino quali
strategie, relative a ritmo e movimento, possa adottare uno scrittore in un racconto breve.
L’esempio scelto è il bellissimo racconto Bullet in the brain, Una pallottola nel cervello, di
Tobias Wolff, pubblicato il 25 settembre 1995 sul “The New Yorker Magazine”, e poi nella
raccolta intitolata The night in question, 1996, Proprio quella notte, ed. Einaudi Stile libero,
2001, traduzione di Laura Noulian, pag 217-223.

Il ritmo e il movimento nel racconto “Una pallottola nel cervello”

Sul racconto Una pallottola nel cervello c’è un aneddoto tutto di marca omerica (nel senso
della nostra scuola di scrittura Omero) che, pur correndo il rischio di risultare troppo
autoreferenziali, pensiamo valga la pena di raccontare in questa sede. Se non altro perché
questo racconto è davvero esemplare nel mostrarci quanto il ritmo e il movimento siano tra
gli elementi decisivi di quel patto ideale che in ogni nuova produzione letteraria si viene a
creare tra scrittore e lettore. Un giorno del febbraio 2001 Fabio Cozzi, collaboratore di
vecchia data della nostra rivista web www.omero.it, ci invia per posta elettronica la
segnalazione di un libro di racconti appena usciti per la collana Stile Libero della Einaudi e
scritti da un certo Tobias Wolff, autore americano contemporaneo. L’articolo naturalmente
era inviato alla nostra redazione con lo scopo di essere pubblicato su Omero.it. All’arrivo
della mail, contenente ampie parti del racconto Una pallottola nel cervello, mi trovavo per
caso davanti al computer col mio amico e direttore di Omero.it Paolo Restuccia e così per
deformazione professionale abbiamo deciso di leggerci subito la novità letteraria,
abbandonando ogni nostra altra attività. Dopo aver assaporato, si fa per dire, le prime 20-30
righe del racconto ci siamo guardati con la stessa espressione tra l’idiota e l’amareggiato che
hanno i lettori quando si stanno domandando, con un libro appena comprato in mano, “ma chi
e perché ha pubblicato ciò?”. Ora, per ricreare la nostra stessa situazione di partenza, ecco
anche per voi, amici lettori, le prime righe del racconto di Wolff. Ci si rivedrà tra qualche riga
per scambiarci le prime impressioni:

Una pallottola nel cervello

Anders non riuscì ad arrivare in banca che qualche istante prima della chiusura,
ragion per cui ovviamente c’era una fila che non finiva più e lui si ritrovò bloccato
dietro due donne la cui stupida e rumorosa conversazione gli urtò subito i nervi. In
ogni caso, la sua disposizione d’animo non era mai delle migliori. Anders era un
critico letterario noto per l’elegante e noncurante ferocia con cui stroncava qualsiasi
libro gli capitasse di recensire.

Con una coda che ancora doppiava il corrimano, uno dei cassieri, una donna,
espose la targhetta CHIUSO davanti al suo sportello e si ritirò in fondo alla banca,
si appoggiò a una scrivania e iniziò a chiacchierare animatamente con un altro
impiegato che intanto maneggiava delle carte. Le due donne davanti ad Anders
interruppero la conversazione e guardarono con odio la cassiera. – Oh, gentile la
signorina, – disse una. Poi si girò verso Anders e aggiunse, sicura del suo appoggio:
– Ecco un esempio di quella cortesia per cui questa banca va famosa.

Anders aveva sviluppato un suo personale e violentissimo odio verso la cassiera,

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ma immediatamente lo rivolse sulla presuntuosa e piagnucolosa donnetta davanti a
lui. – Oh, in che mondo viviamo, – disse. – Quante tragiche ingiustizie! Se non ti
amputano la gamba sbagliata, se non ti bombardano il paesello natio, ti chiudono lo
sportello sotto il naso!

Lei non si lasciò scoraggiare. – Non ho detto che era una tragedia – ribatté. – Dico
solo che è un pessimo modo di trattare i clienti.

– È imperdonabile – rimbeccò Anders. – In Cielo ne prenderanno nota.

Il ritmo e il movimento nel primo atto

Ecco, quella che avete adesso è proprio la stessa espressione nebbiosa che Paolo Restuccia e
io abbiamo avuto nel febbraio 2001 dopo aver letto l’incipit del racconto di Wolff. Perché ci
troviamo in questo stato? Perché il movimento del primo atto è dominato da una fiacchezza
di senso disarmante. I personaggi sono costretti all’immobilismo tipico di una fila che non
scorre per il cattivo servizio di una banca. Ci viene riferita dall’autore, in terza persona, la
solita sequenza di scaramucce verbali che si sviluppano in queste situazioni di stress. Solo
uno scrittore che sa quanto forte sarà lo sviluppo del suo racconto può rischiare un attacco
così flebile nei confronti del lettore. Lettore che continua a leggere, e così facemmo io e
Paolo, solo sulla fiducia. Fiducia nel nostro collaboratore e pure, bisogna confessarlo,
nell’Einaudi che ha pubblicato il libro. Un lettore comune non può credere che la storia che
hanno pubblicato e che sta leggendo sia solo in quello che sta scorrendo sotto i suoi occhi,
ormai già da qualche riga. E però non c’è nessun segnale di sviluppo possibile. Solo un colpo
esterno potrebbe sollevarne l’interesse. D’altronde il racconto non si intitola Una pallottola
nel cervello? Ma il ritmo finora è blando e senza scossoni. Arriviamo persino a chiederci
stizziti se la pallottola nel cervello non ce l’abbia per caso chi ha scritto il racconto. Per
sperare in migliori sviluppi futuri della storia ci attacchiamo come disperati ad alcuni indizi
che Wolff ci mostra. L’autore spende diversi periodi, descrittivi e ritardanti l’avvio della
storia, per ritrarre il carattere indisponente di Anders (“la sua disposizione d’animo non era
mai delle migliori”) e i tic professionali tipici del suo mestiere (“era un critico letterario noto
per l’elegante e noncurante ferocia con cui stroncava qualsiasi libro gli capitasse di
recensire”). Queste sono le sole note originali dell’inizio che possano far sperare in uno
scarto drammatico. Davvero poca roba. Troppo poca per esser vera. E allora? C’era il rischio
concreto che per una volta Paolo Restuccia rispedisse al mittente l’articolo di un nostro
collaboratore di valore. Comunque ci siamo rituffati con coraggio nel racconto di Wolff come
farete voi adesso. Ci si rivede alla fine del secondo atto.

... Una pallottola nel cervello

Lei si succhiò le guance, ma fissò lo sguardo oltre le spalle di lui e non disse niente.
Anders si accorse che l’altra, la sua amica, stava sbarrando gli occhi guardando
nella medesima direzione. E a quel punto i cassieri interruppero ciò che stavano
facendo, e i clienti piano piano si girarono tutti e il silenzio calò nella banca. Due
uomini che indossavano impeccabili abiti blu e avevano passamontagna neri in
testa si erano piazzati ai lati della porta. Uno dei due rapinatori teneva una pistola
premuta contro la nuca dell’agente della vigilanza. L’agente aveva gli occhi chiusi,

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e le labbra gli tremavano. L’altro rapinatore era armato con un fucile a canna
mozza. – Zitti! – gridò l’uomo con la pistola, benché nessuno avesse fiatato. – Se
solo uno di voi cassieri si azzarda a premere l’allarme, qui siete tutti carne morta.
Afferrato l’idea?

I cassieri annuirono.

– Ma bravo! – disse Anders. – Carne morta – Si girò verso la donna che gli stava
davanti.

– Magnifica sceneggiatura, eh? Ecco la dura poesia delle classi socialmente


pericolose che ti colpisce come un tirapugni.

La donna lo guardò con gli occhi dilatati.

Quello col fucile a canna mozza diede uno spintone all’agente costringendolo a
inginocchiarsi. Passò il fucile al suo compagno e con uno strattone afferrò i polsi
dell’agente, gli tirò le braccia dietro la schiena e gli bloccò le mani con un paio di
manette. Poi lo fece ruzzolare a terra con un calcio fra le costole. Riprese il fucile e
si avvicinò alla porta di sicurezza in fondo al banco. Era un uomo basso e pesante,
si muoveva con particolare lentezza, quasi torpidamente.

– Apritegli! – gridò il suo compare. Il rapinatore col fucile varcò la porta di


sicurezza e lentamente passò davanti ai vari cassieri, porgendo a ciascuno di essi
una busta di plastica. Quando arrivò davanti allo sportello vuoto, lanciò un’occhiata
a quello con la pistola, il quale disse:

– Di chi è quel posto?

Anders guardò la cassiera. Lei si portò una mano alla gola e si girò verso l’uomo
con cui prima chiacchierava. Lui annuì.

– Mio, – disse lei.

– E allora muoviti culona e riempi la borsa.

– Ecco – disse Anders alla donna davanti a lui – giustizia è fatta.

– Ehi! Furbone! T’ho detto forse di parlare?

– No – disse Anders. – Allora chiudi quella fogna.

– Sentito? – disse Anders. – «Furbone». È una battuta de I Killer.

– Per l’amor di Dio, stia zitto, – gli disse la donna.

– Ehi, tu, sei sordo o cosa? – L’uomo con la pistola si avvicinò ad Anders e gli
piantò l’arma nella pancia.

– Pensi che gioco?

– No – rispose Anders, ma la canna della pistola gli faceva il solletico come fosse
un ditone puntato e gli venne la ridarella. Per bloccarla si costrinse a fissare il

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rapinatore negli occhi, che erano chiaramente visibili dietro i buchi del
passamontagna: azzurro pallido, cerchiati di rosso, infiammati. Gli batteva la
palpebra destra. L’uomo alitò una zaffata penetrante come ammoniaca che
sconvolse Anders più di tutto quanto era successo fino a quel momento, e avvertì
un acuto disagio quando quello lo pungolò di nuovo con la pistola.

– Ti piaccio, furbone? – gli disse. – Hai voglia di ciucciarmi l’uccello?

– No – disse Anders.

– Allora piantala di allumare. Anders si mise a guardare le scarpe del rapinatore,


erano lucide con la mascherina lunga.

– Non giù. Su! – Gli ficcò la pistola sotto il mento e spinse verso l’alto finché
Anders non ebbe gli occhi rivolti al soffitto.

Il ritmo e il movimento nel secondo atto

Adesso farvi riemergere dalla lettura è proprio un colpo basso. Il ritmo e il movimento del
racconto hanno preso il sopravvento su ogni scetticismo iniziale. E in effetti dall’inizio della
rapina in poi Paolo e io procedemmo velocissimi nella lettura, correndo rapidi incontro al
finale. Cosa è successo di così eclatante nell’esposizione del racconto? Si fa concitato e viene
accelerato di botto dall’arrivo improvviso di due rapinatori. Il nostro Anders non abbandona
il suo atteggiamento caustico e distaccato neppure in presenza dei due criminali. E qui il
movimento del racconto raggiunge di colpo un apice di tensione molto forte. Il lettore teme
per la vita di Anders e spera che riesca a dominare il suo sistema linguistico di sputasentenze
per non vederlo incappare nelle reazioni incontrollate di rapinatori pronti a tutto. Il ritmo si fa
serrato e il movimento frenetico. Il periodare si essicca e si scandisce su un’andatura molto
abbreviata rispetto all’incipit. L’esposizione del testo si fa tesa per una serie di scene che
riprendono azioni e dialoghi di tono violento. Ma il senso dello svolgimento del racconto
viene inceppato da Anders che non riesce a smettere il punto di vista del critico letterario e i
suoi atteggiamenti da recensore perpetuo. Infatti, coerentemente col suo sferzante sguardo
analitico, Anders giudica le frasi del rapinatore come dozzinali e rubate a vecchie
sceneggiature di film di serie B.

È straordinario che il ritmo continui velocissimo nei tempi esagitati di una rapina mentre
intanto Anders ne fraziona e ne ritarda l’andamento con una spinta di anticlimax devastante
per lui, ma anche per la storia che scorre. L’effetto è tragicomico. Si va pericolosamente
verso un “controsenso” che non promette, per Anders, nulla di buono. Il movimento si
inceppa, e quando questo accade di regola si sorride. Ma qui si sorride con gli occhi dilatati
dalla paura. Perché il clima del racconto è comunque di taglio realistico.

E ora dritti filati verso il terzo atto. Tutti sperando assurdamente nella salvezza del
protagonista, Anders, che, con tutta la carica dell’antipatia da critico letterario dell’universo
mondo che si ritrova, alla fine è riuscito a generare in noi comunque un’attrazione autentica
per la sua verità narrativa.

... Una pallottola nel cervello

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Anders non aveva mai prestato molta attenzione a quella parte della banca, un
vecchio pomposo salone coi pavimenti, gli sportelli e i pilastri di marmo, e una
decorazione di ricci dorati sopra gli sportelli dei cassieri. Il soffitto a cupola era
affrescato con delle figure mitologiche alla cui bruttezza polputa e togata Anders
aveva rivolto un’occhiata molti anni prima e dopo di allora aveva sempre evitato di
osservare. Adesso non aveva altra scelta che esaminare attentamente l’opera del
pittore. Era persino peggiore di quanto ricordasse, intrisa della solennità più falsa e
ridondante. L’artista conosceva due o tre trucchi del mestiere e li usava e li riusava
senza misura, il rosa della parte bassa delle nuvole aveva una certa freschezza,
amorini e fauni non lesinavano sguardi schivi ed esitanti. Il soffitto era gremito di
scene drammatiche; quella che attirò l’attenzione di Anders raffigurava Zeus ed
Europa, che il pittore rappresentava con un toro che adocchiava una giovenca di là
da un mucchio di fieno. Per rendere sensuale la giovenca, il pittore le aveva
smussato i fianchi in maniera suggestiva e aveva munito gli occhi di lunghe ciglia
socchiuse dalle quali essa contemplava il toro con appassionato gradimento. Il toro
aveva l’aria compiaciuta e le sopracciglia inarcate. Se ci fosse stato un fumetto che
gli usciva dalla bocca, dentro ci sarebbe stato scritto: «Hurrah».

– Di che ghigni, furbone?

– Di niente. – Pensi che sono comico? Pensi che sono una specie di pagliaccio?

– No.

– Pensi che mi puoi prendere per il culo?

– No.

– Tu prendimi per il culo, e diventi storia. Capischi?

Anders scoppiò a ridere. Si coprì la bocca con entrambe le mani e disse: – Scusa,
scusa – e dopo sbuffò fra le dita senza potersi più trattenere e ripeté: – Capischi!
Oh, Dio, capischi,– e fu a quel punto che l’uomo con la pistola alzò l’arma e gli
sparò dritto nella testa.

Il ritmo e il movimento nel terzo atto e nel primo finale

Eccolo là. È successo. Il nostro Anders è andato fino in fondo. Non si è fermato neanche sotto
la minaccia di una pistola. In realtà era lui che con la sua visione critica del mondo teneva
sotto scacco i rapinatori e tutti gli altri. Compresi noi lettori. E ci dispiace che sia finita qui.
Anche perché come vecchi voyeur implacabili speravamo che la scena di tensione
parossistica tra Anders e i rapinatori durasse di più e presentasse altre varianti con situazioni
di tortura psicologica. Ma non è questo l’intento di Wolff e lo vedremo. Il suo non vuole
essere un racconto centrato sul confronto sadico tra violenza fisica e violenza intellettuale. O
almeno non un racconto che parla solo di quello. In questo terzo atto il massimo
dell’anticlimax avviene quando il nostro Anders con la pistola puntata sotto il mento è
costretto a guardare il soffitto a cupola della banca. La descrizione, attraverso il suo sguardo
di critico, fa sì che l’azione della rapina svanisca ai suoi come ai nostri occhi di lettori. E il
risultato finale è la fuoriuscita di un sogghigno da parte di Anders, divertito dallo scarso
livello artistico dell’affresco sul soffitto, che in verità è più simile al soggetto di un fumetto

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che a un affresco. Il sogghigno si sprigiona dalla faccia di Anders come fosse un colpo di
pistola. Il rapinatore colpito si incazza a morte, gli spara e lo ammazza. Il movimento del
racconto qui sarebbe finito e con esso il ritmo visto che Anders è morto. Ma è adesso che
Tobias Wollf compie il suo capolavoro trasformando il ritmo e il movimento della
deflagrazione nel cervello di Anders in un racconto di una intensità e di una potenza
visionaria davvero uniche. Le parole viaggiano a ritroso nel tempo alla velocità di una
pallottola e alla fine centrano una frase che diventa poesia e che fa diventare pura lirica
l’intera vita del personaggio Anders. Ci rivediamo più in là con lo sguardo offuscato di
lacrime.

... Una pallottola nel cervello

La pallottola fracassò il cranio di Anders, attraversò il cervello, e uscì dietro


l’orecchio destro, spargendo scaglie d’osso nella corteccia cerebrale, nel corpo
calloso, indietro verso i gangli basali, e in basso fino all’ipotalamo. Ma prima che
tutto ciò accadesse, l’ingresso della pallottola nel cervello innescò una crepitante
catena di trasferimenti di ioni e di neurotrasmissioni. A causa della sua peculiare
origine, questo processo seguì un tracciato peculiare, riportando casualmente in vita
un pomeriggio estivo di circa quarant’anni prima, che non era mai stato richiamato
alla memoria. Penetrata nel cranio, la pallottola continuò ad avanzare a una velocità
inferiore ai 300 metri al secondo, un ritmo pateticamente lento, degno di un
ghiacciaio, almeno rispetto all’attività frenetica delle sinapsi attorno al proiettile.
Una volta nel cervello, cioè, la pallottola entrò nel tempo cerebrale, il che diede ad
Anders tutto l’agio di contemplare la scena che, con una frase che lui avrebbe
aborrito, «gli passò davanti agli occhi».

Stabilito che cosa Anders ricordò, occorre forse notare tutto quello che invece non
ricordò. Non si ricordò del primo amore, Sherry, o di ciò che più di tutto in lei lo
aveva fatto impazzire, prima di piacere, poi di rabbia: la sensualità totalmente
disinibita e specialmente il tono amichevole con cui alludeva al suo pene, da lei
ribattezzato Signor Talpa, snocciolando frasi come «Ohò, il signor Talpa ha voglia
di giocare», o «Vediamo dove va a nascondersi il signor Talpa!» Anders non si
ricordò di sua moglie, che pure aveva molto amato prima che lei lo sfinisse con la
sua prevedibilità, o di sua figlia, ormai un’accigliata professoressa di Economia a
Dartmouth. Non si ricordò di quando restava dietro la porta della camera di sua
figlia ad ascoltarla mentre rimbrottava l’orsacchiotto dicendogli che era stato
cattivo e descrivendogli le punizioni davvero raccapriccianti che avrebbe ricevuto
se non si decideva a filare dritto. Non si ricordò nemmeno uno delle centinaia di
versi che aveva imparato a memoria in gioventù, così da potersi far venire i brividi
a comando: «Silenzioso, in cima a una vetta nel Darien», o «Mio Dio, ho sentito
parlare di questo giorno» o «Tutti i miei cari? Tutti, dici? Oh, crudele! Tutti?». Non
si ricordò di nessuno di questi versi Anders. Non si ricordò della madre che in
punto di morte, parlando del padre, aveva detto: – Avrei dovuto pugnalarlo nel
sonno. Non si ricordò del professor Josephs che raccontava ai suoi studenti come i
prigionieri ateniesi in Sicilia fossero stati liberati se erano capaci di recitare
Eschilo, e poi si metteva lì a recitare Eschilo lui stesso, in greco antico. Anders non
ricordò di come si era sentito pizzicare gli occhi al suono di quelle parole. Non si
ricordò della sorpresa che aveva provato vedendo il nome di un ex compagno di
università sulla copertina di un romanzo, non molto tempo dopo che si erano

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laureati, o il rispetto che aveva provato dopo aver letto quel libro. Non si ricordò
del piacere di provare rispetto per qualcuno.

E neanche si ricordò di una donna che aveva visto suicidarsi buttandosi da una
finestra del palazzo dirimpetto al suo pochi giorni dopo la nascita di sua figlia. Non
si ricordò di aver gridato: «Signore, abbi pietà! » Non si ricordò di aver mandato a
bella posta l’auto di suo padre a sbattere contro un albero, o di essere stato preso a
calci nelle costole da tre poliziotti durante una manifestazione contro la guerra, o di
quella volta che si era svegliato ridendo. Non si ricordò di quando aveva
cominciato a guardare le pile di libri sulla sua scrivania con un misto di noia e
paura, o di quando aveva cominciato a odiare coloro che li avevano scritti. Non si
ricordò di quando tutto quanto aveva cominciato a ricordargli qualche altra cosa.

Ecco cosa ricordò Anders. Caldo. Un campo di baseball. Dell’erba gialla, il ronzio
degli insetti, lui appoggiato a un albero mentre i ragazzi del quartiere si radunano
per una partita. Li guarda mentre litigano sulla superiorità del genio di Mantle o di
Mays. È tutta l’estate che dibattono questo tema, l’argomento è diventato noioso
per Anders: opprimente, come il caldo. Poi arrivano gli ultimi due ragazzi, Coyle e
un suo cugino arrivato dal Mississippi. Anders non ha mai incontrato il cugino di
Coyle prima e non lo vedrà mai più. Gli dice ciao come fanno tutti gli altri ma poi
non fa più caso a lui almeno finché non hanno diviso il campo e qualcuno chiede al
cugino di Coyle in quale posizione vuole giocare. – Interbase, – dice il ragazzo. –
Interbase è la posizione migliore che ci sono –. Anders si gira a guardarlo.
Vorrebbe sentire il cugino di Coyle ripetere la frase che ha appena detto, ma è
abbastanza sveglio da capire che è meglio non chiederglielo. Gli altri penserebbero
che fa il cretino, che prende in giro il ragazzo per il suo errore di grammatica. Ma
non è questo, proprio no. È che Anders è stranamente eccitato, euforico, per quelle
tre parole finali, così totalmente inaspettate, così musicali. Prende il suo posto in
campo come in trance, ripetendole fra sé e sé. La pallottola è già nel cervello;
l’attività cerebrale non potrà continuare in eterno a superarla in velocità, e niente la
fermerà per incanto. Essa deve seguire la sua traiettoria e uscire dal cranio
trascinando come una cometa la sua coda di memorie, di speranze, di talento e di
amore, nel salone di marmo della banca. Non ci si può fare niente. Ma per il
momento Anders può ancora avere tempo. Tempo per le ombre che si allungano
sull’erba, tempo perché il cane legato alla catena abbai alla palla che vola, tempo
perché il ragazzo nel campo di destra picchi la mano nel guanto da baseball
annerito dal sudore e ripeta sommessamente come una cantilena: «La migliore
posizione che ci sono, la migliore posizione che ci sono».

Il ritmo e il movimento nella coda

Beh, alla fine della lettura Paolo e io eravamo proprio emozionati. Così come credo siate voi
adesso, nonostante questa lettura guidata e frazionata. Felici di aver letto un grande racconto.
Specialmente perché all’inizio aveva finto così bene di raccontare cose di poco conto. Ma il
titolo, Una pallottola nel cervello, era lì apposta per invitarci a continuare. Lo scrittore
Tobias Wolff nel racconto riesce a dedicare al personaggio di Anders i momenti più belli e
inaspettati della sua vita di critico nel lasso di tempo che la pallottola impiega per
attraversargli il cervello. Il ritmo diventa quello di un altro racconto. Il senso pure. Si sta
volando sul passaggio deflagrante della pallottola (come nel volo del barone di Münchausen a

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cavallo della palla di cannone) sopra i pensieri più importanti della vita di Anders. I suoi
ricordi più intensi si accavallano e si elidono veloci, diventano la negazione del ricordo;
un’elencazione di non ricordi. Di tutta una vita di memorie e fatti autobiografici salienti resta
soltanto una scena estiva rimandata dall’infanzia verso l’età adulta, in questa assurda morte
sul pavimento di marmo di una banca. Il movimento del racconto si fa epico per lo scarto tra
la fine impietosa e pubblica di Anders e la sua attività mnemonica solitaria che solo lui e il
lettore possono seguire. Il ritmo diventa quello ripetuto di una cantilena mantrica impostata
sul non ricordo. E si arriva all’ultima frase che è replicata come avesse il valore di un verso
poetico (che a me chissà perché ricorda vagamente per il non sense l’assurdo titolo
dell’acchiappatore nella segale, The Catcher in the Rye, il ricevitore nella segale, del Giovane
Holden di John D. Salinger) nell’ultimo riflesso percepibile della mente di Anders “La
migliore posizione che ci sono, la migliore posizione che ci sono”. La sua vita e il suo
racconto finiscono come uno scherzo del destino “insieme con” e “attraverso” un refuso.
Meraviglioso percorso di un ritmo e di un senso colpiti a morte dalla pallottola di un
criminale da strapazzo. Un ritmo e un senso morti ridacchiando all’infinito su tutti gli errori e
i refusi del mondo. Tutte queste cose Paolo, io e naturalmente il nostro redattore Fabio Cozzi
le abbiamo fatte presenti a Tobias Wolff in persona il 10 febbraio 2003 quando l’autore di
Una pallottola nel cervello è stato protagonista di un incontro organizzato dalla Scuola
Omero insieme alla Casa delle letterature del Comune di Roma. E Tobias Wolff, autore
stimatissimo dal grande Raymond Carver, quello stesso Wolff docente di scrittura creativa
alla Stanford University e scrittore con ben tre racconti inseriti nelle antologie della serie Best
American Short Stories, beh Tobias Wolff sorrise delicatamente sotto i baffi bianchi dicendo
“Capischio, capischio...”

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Esercizi
Lezione 1
Esercizio 1

Prendiamo spunto dallo splendido finale del racconto Una pallottola nel cervello per eseguire
il primo esercizio del corso sul ritmo e movimento. Per la prossima volta proviamo a
raccontare una scena di grande rapidità e intensità, fisica ed emotiva, spostando da un certo
punto in poi il senso del racconto, e di conseguenza anche il suo ritmo e il suo movimento, in
una direzione molto diversa dall’avvio.

Mi spiego meglio: immaginiamo una scena che vede un furioso alterco tra coniugi, fatto di
battute cattive, lancio di oggetti e altro. D’improvviso, tramite una luce particolare, un suono
lontano, insomma un dettaglio sensoriale, dovete fornire i presupposti, per uno solo dei
personaggi attivi nella scena, di creare un’associazione mentale interna. Seguendo l’input di
quell’associazione mentale il litigio sparisce o si allontana dal personaggio e quindi dal
racconto e la narrazione si sposta all’interno dei pensieri e delle emozioni del personaggio
stesso. Prima di scrivere il pezzo vi consiglio di rileggere l’ultima parte del racconto di Wolff
per entrare già in un clima filtrato e molto interno a un personaggio. Il componimento da
realizzare deve essere lungo minimo 30 righe, massimo 60 (ogni riga 60 battute) ed è
importante, per la sua migliore riuscita, che facciate cadere la scelta su un’azione
rappresentata in un punto di acme emotivo e fisico: un atleta visto nel massimo sforzo
agonistico; un inseguimento con sparatoria; una persona che assiste a una scena violenta; una
ballerina nel pieno della sua performance; una prova per un lavoro importante; ecc.

Una volta decisa la scena da raccontare e il contesto, bisogna descrivere la scena nel suo
andamento agitato per poi trovare quell’elemento giusto che faccia scoccare nel personaggio
il suo allontanamento psicologico dall’azione vissuta. Ovviamente si tratta di scrivere solo
una scena, integralmente o parzialmente, e non un racconto finito. L’esercizio è importante
per testare la capacità di coordinare e tenere insieme più ritmi e movimenti in un’unica storia.

Esercizio 2

Per 20 righe (sempre da circa 60 battute l’una) cambiate il punto di vista del personaggio che
guarda il soffitto affrescato della banca nel racconto Una pallottola nel cervello. Insomma,
provate a passare la narrazione da Anders al rapinatore. In questo modo sarà il rapinatore a
guardare il soffitto e a far girare i suoi pensieri sui contorni di quello stesso affresco. Col suo
linguaggio e col suo carattere, naturalmente. Per far questo bisognerà allontanarsi dal ritmo e
dal movimento prolisso ed estetizzante di Anders e andare verso quello sovreccitato,
esagitato e gergale del rapinatore. Le immagini e i pensieri del criminale si possono riportare
sia in terza che in prima persona. L’esercizio è importante per il livello di immedesimazione,
ritmica e di senso, che si riesce a trovare con un personaggio diverso da quelli già “sfruttati”
nel racconto.

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Lezione 2
Ritmo e movimento nella descrizione
Siamo alla seconda puntata dedicata al ritmo e al movimento in narrativa e le vostre facce
sembrano un po’ meno spaesate rispetto alla prima lezione. Sono certo che avete cominciato
a prendere confidenza con questi argomenti fondamentali dell’arte narrativa. D’altra parte,
come una coppia di ballerini deve imparare a conoscersi per non pensare più alla sequenza
dei passi da eseguire, così noi dobbiamo riuscire a conoscere e ad adattare gli aspetti ritmici e
di movimento della nostra scrittura per farli risultare i più naturali possibili. In questa seconda
lezione affronteremo il ritmo e il movimento nella descrizione.

Il ritmo e il movimento nella descrizione

Melania Mazzucco

Il ritmo è il respiro della lingua e la ricerca dello scrittore è trovare di volta in volta
quello necessario o funzionale alla materia che si va a trattare. [...] Penso che il
ritmo sia talmente interno a ogni narrazione che in qualche modo è la prima cosa
che si trova quando si va a scrivere, cioè ogni “contenuto” trova la sua velocità.

La descrizione di ambienti e personaggi, tra le diverse parti narrative che formano la struttura
del racconto, è forse quella che richiede il maggior impegno creativo. Selezionare pezzi di
mondo reale e rappresentarli, con un ritmo e un movimento coerente, è un compito davvero
difficile. La voce narrante della storia deve riuscire a far passare le immagini della realtà
attraverso la sua sensibilità e le sue scelte etiche ed estetiche. Il rischio sempre in agguato
nella descrizione è nel lasciarsi condizionare da un’obiettività di resa descrittiva a tutto
svantaggio del rispetto del punto di vista.

E invece non bisogna dimenticare che la cosa più importante di un’opera letteraria resta lo
sguardo e il punto di vista della voce narrante e non certo la semplice restituzione
documentaria di quello che per convenzione chiamiamo realtà. Per entrare meglio nel vivo
dell’argomento di oggi conviene leggere subito qualche esempio letterario di descrizione.

Ecco un brano tratto da La cena della scrittrice brasiliana Clarice Lispector, dalla raccolta
Laços de família, 1986, Legami famigliari, Feltrinelli, 1999, traduzione di Adelina Aletti,
pag. 65-69. È un racconto breve, di 4-5 pagine, quasi completamente basato sulla descrizione
fatta in prima persona da un cliente solitario seduto al tavolo di un ristorante. Cliente di cui
non avremo mai nessuna informazione biografica o dettaglio fisico. Tutto ciò che verremo a
sapere del personaggio che ci racconta la storia corrisponde ed è rintracciabile esclusivamente
nel modo che esso ha di descriverci la scena che ha davanti agli occhi. La sua descrizione
dimostra a noi lettori un livello così alto e sensibile di coinvolgimento emotivo che ben presto
capiamo quanto la voce narrante sia implicata dai tormenti esistenziali del personaggio che
essa osserva in modo morboso. È evidente che il punto di vista narrativo finisce per
corrispondere in modo allusivo, ma anche diretto, allo sguardo della stessa scrittrice Lispector
e per estensione alla visione riflessa e voyeuristica che tocca il lettore. Insomma un grande

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gioco di specchi narranti.

Avviciniamoci di più al racconto. Gli occhi del cliente solitario vengono attratti fin
dall’incipit dalla figura di un uomo:

[...] Poteva avere una sessantina d’anni, era alto, corpulento, con i capelli bianchi,
sopracciglia folte e mani possenti. A un dito portava l’anello della sua forza. Si
sedette solenne e massiccio.

Tutto il racconto è pilotato dalla descrizione che parte da un punto di vista fisso e sistemato
sempre alla stessa distanza dal soggetto osservato (come lo sguardo di James Stewart verso
l’appartamento dell’uxoricida Raymond Burr nel famoso film di Alfred Hitchcock La finestra
sul cortile). La prima descrizione fisica del vecchio equivale alla raffigurazione dell’ingresso
nell’arena di un campione di forza straordinaria e invincibile. E con questo senso di potenza,
trasmesso sin dall’attacco del racconto, finirà per scontrarsi e misurarsi, per tutta la durata
della storia, ogni singola particella del tessuto narrativo e ogni singola riga. Il racconto è una
continua rappresentazione della crisi morale e psichica in atto in un personaggio e si
manifesta soltanto tramite la visione della sua mimica e dei suoi comportamenti.
Comportamenti visti e riprodotti nei loro alti e bassi dall’invisibile e implacabile voce
narrante:

[...] Quando stavo per portarmi la forchetta alla bocca, lo guardai. Eccolo a occhi
chiusi che masticava con vigore e metodo, i pugni chiusi sul tavolo. Continuai a
mangiare e a guardare. Il cameriere disponeva i piatti sulla tovaglia. Ma il vecchio
manteneva gli occhi chiusi. A un gesto più deciso del cameriere, aprì gli occhi così
bruscamente che quello stesso movimento si comunicò alle sue grandi mani e una
forchetta cadde.

Il punto di vista della voce narrante è condizionato dalla lotta interiore che sta vivendo il
soggetto su cui si posa il suo sguardo. Quando si manifesta una delle tante crisi del vecchio e
diventa visibile la forza dei suoi tormenti interiori, il ritmo della descrizione, e quindi quello
delle “inquadrature” realizzate su di lui, si fa via via più incisivo. Il “montaggio” delle frasi si
riempie di “stacchi” veloci su dettagli e primissimi piani. La voce narrante “riprende” in
successione le immagini di un match durissimo e a fasi alterne in cui si susseguono controllo
di sé e crisi devastanti. Ecco un momento interlocutorio in cui il ritmo per poche righe
diventa blando e il periodare si allarga:

[...] Quando lo guardai di nuovo, era all’apice del suo rito alimentare, masticava
con la bocca aperta, si passava la lingua sui denti, con lo sguardo fisso alla luce del
soffitto. Stavo riprendendo a tagliare la mia carne quando lo vidi immobilizzarsi
completamente.

Come si capisce molto bene quel “lo vidi immobilizzarsi completamente” rappresenta un
segno, un anticipo di un possibile punto di rottura, di cedimento. E allora la prosa si
concentra in una sequenza di frasi coordinate che seguono, minuziosamente e da vicinissimo,
una serie di movimenti fisici del vecchio per sorprenderne il momento del crollo:

[...] Mi fermai aspettando. Il suo corpo respirava con difficoltà, si dilatava.


Finalmente si tolse il tovagliolo dagli occhi e guardò intorpidito come da molto
lontano. Respirava sollevando e abbassando smisuratamente le palpebre, si ripulì
con cura gli occhi e masticò adagio il resto del cibo che aveva in bocca.

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Questa successione di periodi espande e rallenta il ritmo del racconto creando un contrasto di
senso. E sta a significare: il vecchio reagisce alla sua crisi interna cercando una calma
artificiale in una serie di piccoli atti concilianti, simili alla ginnastica respiratoria yoga. Così
anche il racconto, in questa fase, diventa una breve area di respiro e tregua conflittuale, un
anticlimax, prima degli altri sconvolgimenti che seguiranno. Un’altra fase interlocutoria del
racconto si ha quando la “nostra” voce narrante appare quasi delusa dal placarsi del dramma
al quale stava assistendo. Il vecchio sembra aver fatto rientrare i suoi rodimenti e si dedica
finalmente solo al rito della cena.

[...] Ora lui mescolava alla carne i sorsi di vino nella grande bocca, i denti finti
masticavano pesantemente, mentre io lo spiavo invano. Non accadeva più nulla. Il
ristorante pareva risplendere con intensità raddoppiata al tintinnio dei bicchieri e
delle posate; nella cornice sfavillante della sala il brusio delle voci cresceva e
decresceva ondeggiando soavemente, la donna dall’ampio cappello rideva con gli
occhi socchiusi, esile e bella, il cameriere versava lentamente il vino nel bicchiere.

Lo sguardo della voce narrante ondeggia e si perde nel frastuono e nelle luci “sfavillanti” del
ristorante che riprendono il sopravvento sulla quiete che ormai emana dal vecchio. Il ritmo
della prosa si è fatto prolisso e gira superficiale intorno a tanti oggetti scenografici e
luccicanti. Il movimento e il senso del racconto sembrano giunti a un punto morto. Eppure
subito dopo arriva la crisi definitiva, quella del knock-out del vecchio che pare avere, nella
descrizione seguente, le sembianze di un pugile suonato. Personaggio perdente che finisce per
amareggiare e deludere intimamente la voce narrante. Come se il crollo del personaggio
osservato possa riguardare molto da vicino la persona che sta narrando e il suo stesso futuro.

[...] Lui stava crollando a vista d’occhio. I tratti del volto si erano fatti cascanti e
come dementi, dondolava il capo da una parte all’altra, da una parte all’altra, senza
più controllarsi, con la bocca contratta, gli occhi serrati, ciondolava – dentro di sé il
patriarca stava piangendo. La rabbia mi soffocava. Lo vidi mettersi gli occhiali e
invecchiare di parecchi anni.

[...] Poi si tolse gli occhiali, batté i denti, e con smorfie inutili e penose si asciugò
gli occhi...

Le ultime frasi della voce narrante, pur mostrando totale disapprovazione e rancore verso il
personaggio che è uscito di scena sconfitto, proprio per contrasto risuonano con un tocco di
totale prossimità nei confronti di chi ha appena perso:

[...] Non sono ancora così potente, così costruito, così distrutto. Spinsi lontano il
piatto, rifiutando quella carne e il suo sangue.

E così, dopo aver letto insieme ampi brani del racconto della Lispector, credo che abbiamo
sfatato una volta per tutte la leggenda che vuole la descrizione come una parte necessaria
all’arte del racconto, ma non particolarmente adatta a confezionare storie di elevato tasso
spettacolare. Questo racconto della Lispector si rivela appassionante e incerto come un bel
match sportivo.

A proposito del modo di impostare le descrizioni all’interno di un racconto Raymond Carver


scrive:

Il mondo è così precario e instabile, per tanti versi, che credo sia importante cercare

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di concentrarsi sui dettagli e sulla specificità, cercare di definire qualcosa con
precisione, nel momento in cui il centro comincia a cedere.

Un’altra modalità possibile nell’uso della descrizione si ha quando viene narrata e resa
visibile in terza persona la condizione mentale, lo stato d’animo dei personaggi di una storia.
Si tratta di un brano presente nella prima pagina di un romanzo di circa 600 pagine, il
bellissimo The Corrections, 2001, di Jonathan Franzen, Le correzioni, Einaudi, 2002, pag. 3,
traduzione di Silvia Pareschi.

[...] In tutta la casa risuonava un campanello d’allarme che nessuno poteva udire
eccetto Alfred e Enid. Era il campanello d’allarme dell’ansia. Era come uno di quei
grandi dischi di ghisa muniti di battaglio elettrico che spedivano in strada gli scolari
durante le esercitazioni antincendio. Suonava da così tante ore che ormai i Lambert
non udivano più il messaggio “campanello che squilla” ma, come quando un
rumore prosegue ininterrotto finché non si riescono a distinguere i diversi suoni che
lo compongono (o come quando si fissa una parola finché non si trasforma in una
sequenza di lettere morte), udivano invece i rapidi rintocchi del battaglio sulla cassa
di risonanza metallica, non una nota pura ma una sequenza granulosa di percussioni
con uno strato superficiale di toni acuti e lamentosi; suonava da così tanti giorni che
ormai rimaneva sullo sfondo, tranne certe volte, la mattina presto, quando uno dei
due si svegliava in un bagno di sudore e si accorgeva che un campanello squillava
nella sua testa da tempo immemorabile; suonava da così tanti mesi che il suono
aveva ceduto il passo a una specie di metasuono, il cui volume non dipendeva dal
battito ritmico delle onde di compressione ma dal molto, molto più lento variare
della loro consapevolezza del suono stesso. E questa consapevolezza era
particolarmente acuta quando anche il clima era di umore ansioso. Allora Enid e
Alfred – lei inginocchiata ad aprire cassetti in sala da pranzo, lui in contemplazione
del disastroso tavolo da ping-pong nel seminterrato – si sentivano entrambi sul
punto di esplodere dall’ansia.

Qui tutta la descrizione è orientata a fornire al lettore un senso di disturbo e di fastidio


almeno pari all’effetto del “campanello d’allarme” che squilla ansiogeno nella testa di Enid e
Alfred. L’equivalenza è restituita al lettore sia attraverso la prolissità del periodare che
attraverso la metafora tecnicistica attinta dalla scienza acustica. Così i due personaggi sono
presentati nella loro crisi generazionale e coniugale con una bella trovata narrativa. In
sostanza veniamo a sapere delle loro difficoltà di convivenza grazie a una metafora acustica e
al suo dipanarsi ritmico estenuante.

Adesso è arrivato il momento di dedicarsi in modo più diffuso e continuativo al ritmo e al


movimento così come appaiono in un racconto basato interamente sulla descrizione. Siamo
pronti a fare un viaggio all’interno del racconto di un grande virtuoso della letteratura
contemporanea come l’americano David Foster Wallace. Il racconto in questione è intitolato
La morte non è la fine ed è tratto dalla raccolta Brief Interviews with Hideous Men, 1999,
Brevi interviste con uomini schifosi, Einaudi, 2001, pag. 3-7, traduzione di Ottavio Fatica e
Giovanna Granato.

Questo racconto è un esempio di parodia di voce off ed è un esercizio di stile difficilmente


uguagliabile. Per gestire la tecnica della voce fuori campo, che dà uno straniante sapore
documentaristico a tutto il racconto, l’autore tinge il punto di vista con uno sguardo
particolarmente acido e satirico. Sguardo satirico che cala a piene mani sul corpo immobile di
un poeta pluripremiato e acclamato steso a prendere il sole in piscina. Il ritmo descrittivo è

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trasportato tutto su un piano di maniacale “ripresa” visiva in cui la voce narrante ci mostra
ogni più piccolo dettaglio della scena rappresentata. Mescolando alla pari, nella gerarchia
descrittiva, particolari anatomici umani (come l’attaccatura dei capelli o il pene strettamente
ripiegato su se stesso del poeta), tratti materiali (come i sandali di finta gomma o il costume
Speedo nero) e, almeno all’inizio, anche una fitta elencazione di riconoscimenti accademici
che il poeta ha ricevuto nella sua gloriosa carriera. Nell’economia del racconto il corpo del
poeta diventa importante alla stessa maniera degli occhiali da sole graduati che indossa e
della sfilza di premi ricevuti. Questa sovrapposizione di più piani descrittivi provoca nel
lettore la percezione di un diffuso senso di artificio e ostentazione che finisce per colpire ogni
porzione esibita del corpo del poeta. In tutto questo scorrere di dettagli la punteggiatura quasi
non prevede il punto fermo. Questo serve a dare l’effetto di uno spostamento lentissimo, ma
costante del punto di vista che ruota attorno al fuoco dell’assillante descrizione del corpo del
poeta. Per poi infine distaccarsene, allargando l’inquadratura sull’ambiente circostante. In
termini di linee guida drammaturgiche il racconto è diviso nelle tipiche tre sezioni (inizio,
sviluppo e finale), pur non essendoci una trama nel senso canonico del termine, ma solo una
successione di sguardi. Il movimento è denso e corposo e il ritmo dilatato e sinuoso.

La morte non è la fine

Il poeta americano cinquantaseienne, premio Nobel, poeta noto nei circoli letterari
americani come «il poeta dei poeti» o a volte semplicemente «il Poeta», steso
all’aperto sulla sdraio, a torso nudo, moderatamente sovrappeso, su una sedia a
sdraio parzialmente inclinata, al sole, a leggere, semisupino, moderatamente ma
non seriamente sovrappeso, vincitore di due National Book Awards, un National
Book Critics Circle Award, un Lamont Prize, due borse del National Endowment
for the Arts, un Prix de Rome, un Lannan Foundation Fellowship, una Medaglia
MacDowell, e un Mildred and Harold Strauss Living Award dell’American
Academy e dell’Institute of Arts and Letters, presidente onorario del PEN, un poeta
che due diverse generazioni di americani hanno acclamato come la voce della
propria generazione, ora cinquantaseienne, steso con un costume asciutto XL marca
Speedo su una sedia a sdraio di tela ulteriormente inclinabile sul pavimento di
piastrelle accanto alla piscina di casa, un poeta che è stato tra i primi dieci
americani a ricevere un «Genius Grant» dalla prestigiosa John D. and Catherine T.
MacArthur Foundation, uno degli unici tre Nobel americani per la Letteratura
ancora in vita, un metro e settantacinque, novanta chili, occhi castani capelli
castani, l’attaccatura dei capelli arretrata e irregolare per via del successo solo
parziale di svariati trapianti della serie Hair Augmentation System, seduto, o steso –
o forse sarebbe più esatto dire semplicemente «inclinato» – con un costume Speedo
nero accanto alla piscina di casa a forma di rene sul pavimento di piastrelle della
piscina, su una sedia a sdraio portatile dallo schienale ora inclinato di quattro scatti
a formare un angolo di 35’ con il pavimento a mosaico di piastrelle, alle 10,20 del
mattino, il 15 maggio 1995, il quarto poeta più antologizzato nella storia delle
lettere americane, vicino a un ombrellone ma non proprio all’ombra
dell’ombrellone, legge il «Newsweek», servendosi del modesto gonfiore del ventre
come sostegno obliquo per il giornale, indossa anche i sandali...

Se l’accumulo e la ripetizione sono le prime armi retoriche che nella prassi del comico
generano dosi di ironia, possiamo notare che nelle prime tre righe la parola poeta compare 5
volte, di cui una volta con la maiuscola (il poeta per antonomasia, il poeta cinto d’alloro,

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ecc.). Il gioco di esubero colpisce anche gli avverbi che danno enfasi e tocco iperbolico al
tutto. L’osservazione del “moderatamente sovrappeso” risuona con la sedia “parzialmente
inclinata”. Come se gli avverbi si posassero “indifferentemente” e con effetto reificante sia
sulle cose che sulle persone. Il “moderatamente” torna contrapposto all’avversativo “ma non
seriamente sovrappeso”, ma solo per aprire sulla grandinata iconoclastica (questa sì
pesantemente sovrappeso e zavorrante nel racconto) dei tantissimi premi poetici vinti dal
poeta ritratto. Il periodare è senza soluzione di continuità, senza punteggiatura o quasi, e
mescola la voce impersonale del narratore con uno stile giornalistico cultural-mondano e con
sguardi impudichi da fotografo armato di teleobiettivo. In sostanza lo scrittore sceglie di fare
acrobazie narrative muovendosi, a fasi alterne e a strappi, tra enumerazioni curricolari del
poeta americano cinquantaseienne e “riprese” in dettaglio delle posture e degli effetti
collaterali degli atteggiamenti del protagonista applicati alle sue scelte estetico-modaiole. Il
risultato è quello di una volontaria triturazione dell’icona solitaria del poeta. Il corpo steso del
premio Nobel è sminuzzato in tanti risibili dettagli di leccata artificialità, coerenti
stilisticamente con l’artificio retorico di Wallace.

... La morte non è la fine

... una mano dietro la testa, l’altra allungata di lato che percorre la filigrana ocra e
giallino delle costose piastrelle di ceramica spagnola del pavimento, bagnandosi
ogni tanto il dito per girare pagina, con un paio di occhiali da sole graduati dalle
lenti trattate chimicamente in modo da scurirsi in proporzione infinitesimale a
seconda dell’intensità della luce di esposizione, al polso della mano che percorre le
piastrelle un orologio di qualità e costo medi, sandali in finta gomma ai piedi,
gambe incrociate alle caviglie e ginocchia leggermente divaricate, il cielo senza
nuvole che si fa più luminoso man mano che il sole del mattino si sposta,
bagnandosi il dito non con la saliva o il sudore ma con la condensa sul sottile
bicchiere congelato del tè ghiacciato che ora si trova proprio al limite dell’ombra
del suo corpo sul lato in alto a sinistra della sedia e andrebbe spostato per rimanere
al fresco dell’ombra, percorre pigramente con un dito il lato del bicchiere prima di
portare pigramente il dito umido alla pagina, gira di quando in quando le pagine del
numero di «Newsweek» del 19 settembre 1994, legge di una riforma sanitaria
americana e del tragico volo 427 della USAir, legge un sommario e una recensione
positiva dei volumi di attualità Hot Zone e The coming Plague, gira a volte varie
pagine di seguito scorrendo alcuni articoli e sommari, un eminente poeta americano
a quattro mesi dal suo cinquantasettesimo compleanno, un poeta che il «Time»,
principale rivale di «Newsweek», una volta ha definito abbastanza assurdamente
«quanto di più vicino a un immortale della letteratura ancora in vita», le tibie quasi
glabre, l’ombra ellittica dell’ombrellone aperto che si va restringendo leggermente,
i sandali di finta gomma coi sassolini incastrati sopra e sotto la suola, la fronte del
poeta imperlata di sudore, l’abbronzatura profonda e intensa, l’interno delle cosce
quasi glabro, il pene strettamente ripiegato su se stesso dentro il costume stretto, il
pizzetto curatissimo, un portacenere sul tavolo di ferro, non beve il tè ghiacciato, di
quando in quando si schiarisce la gola, a tratti si sposta leggermente sulla sedia a
sdraio pastello per grattarsi pigramente il collo di un piede con l’alluce dell’altro
senza togliersi i sandali né guardare nessuno dei due piedi, apparentemente
concentrato sul giornale, la piscina azzurra a destra e la porta scorrevole di spesso
vetro sul retro della casa in diagonale a sinistra, fra lui e la piscina un tavolo
rotondo di ferro bianco intrecciato trafitto al centro da un grosso ombrellone da

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spiaggia la cui ombra ora non tocca più la piscina, un poeta dal talento indiscusso,
legge il suo giornale sulla sua sedia sul suo pavimento vicino alla sua piscina dietro
casa sua. La zona della piscina e del pavimento è circondata su tre lati da alberi e
cespugli. Gli alberi e i cespugli, impiantati anni prima, sono fittamente intrecciati e
aggrovigliati e assolvono la stessa funzione fondamentale di un recinto protettivo di
sequoia o di un muro di ottima pietra. La primavera è al culmine, e gli alberi e i
cespugli sono carichi di foglie, di un verde e di una immobilità intensi, in un
complesso gioco d’ombre, il cielo assolutamente azzurro e immobile, tanto che
l’intero quadro racchiuso di piscina e pavimento e poeta e sedia e tavolo e alberi e
facciata posteriore della casa è assolutamente immobile e calmo e sfiora il silenzio
più assoluto, unici rumori il debole gorgoglio dell’acqua pompata e scaricata dalla
piscina e di quando in quando il rumore del poeta che si schiarisce la gola o gira le
pagine di «Newsweek» – non un uccello, niente falciatrici tagliasiepi trinciaerba in
lontananza, niente jet sopra la testa né lontani rumori attutiti dalle piscine delle case
ai lati della casa del poeta, nient’altro che il respiro della piscina e la gola del poeta
schiarita di tanto in tanto, assolutamente immobile e calmo e racchiuso, neanche un
alito di brezza a muovere le foglie degli alberi e delle siepi, il silenzioso vivo a
racchiudere il verde immobile della flora vivido e ineluttabile e senza uguali al
mondo né per come si presenta né per quanto evoca.

Nella seconda parte del racconto la voce narrante si concentra sulla fisicità e sulle pose del
poeta palmo a palmo, in modo morboso e ossessivo, in un andirivieni di sguardi millimetrici.
Il ritmo è più asciutto e lineare e il movimento sempre sinuoso. Nella terza parte aumenta la
velocità narrativa grazie a una visione fatta di numerosi “stacchi” che saltano da un dettaglio
umano a uno ambientale. Il ritmo si fa mosso e il movimento si spezza. Il senso del racconto
sembra spostarsi in altri luoghi. Nella coda finale la conferma: con un improvviso dolly
verticale (movimento della macchina da presa verso l’alto) lo sguardo del narratore si apre
all’ambiente circostante e della parola “poeta” resta solo l’aspetto fonico del segno
linguistico. Ma in verità l’immagine del corpo del poeta viene strappata dal racconto. Tutt’al
più resta, come ultimo segno del poeta uscito dalla visuale del punto di vista della
descrizione, l’eco della gola schiarita di tanto in tanto. Rimane infine un non ambiente che
“sfiora il silenzio più assoluto”: “non un uccello, niente falciatrici tagliasiepi... neanche un
alito di brezza... il silenzioso vivo a racchiudere il verde immobile della flora vivido e
ineluttabile”.

Nel quadro finale la parcellizzazione delle prime parti del racconto è fagocitata
dall’annullamento e dalla negazione ambientale. Del poeta non c’è più traccia. Siamo
approdati, riga dopo riga di narrazione visiva, alla fantascienza pura. Abbiamo assistito sotto i
nostri occhi alla sparizione progressiva di un corpo. Alla fine del racconto rimane un concetto
alieno e satirico di poesia subentrato inesorabilmente al posto della fisicità risibile del corpo
del poeta. Sul finale il racconto, nel terzo atto, riesce, solo con l’accelerazione di ritmo data
dalla concentrazione più rapida degli sguardi sul poeta, a sterzare drammaturgicamente in una
direzione dal sapore nichilista.

Ora, dopo le riprese sui particolari del corpo del poeta, lo sguardo si amplia e si innalza sulla
natura che lo circonda. E la cornice ambientale incastra e soffoca in una serie di negazioni
finali il corpo del protagonista. Tutto finisce assorbito e divorato da un immobilismo senza
vita. Un racconto che impercettibilmente, periodo dopo periodo, trascolora da un taglio
satirico-mondano a uno di svuotamento totale del senso della descrizione. Un piccolo
capolavoro narrativo. E un grande esempio di capacità letteraria nello gestire il ritmo e il
movimento.

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Esercizio
Lezione 2
Esercizio 3

Alla maniera del racconto di Wallace La morte non è la fine, provate a realizzare un ritratto in
terza persona onnisciente di un personaggio isolato e inerte in un ambiente scelto da voi.
Nell’esercizio, non più lungo di due cartelle (due pagine da 30 righe, ogni riga di 60 battute)
e non più corto di una cartella, dovete riuscire comunque a rispettare le 3 fasi (4 se ci fosse
anche una coda) del racconto classico: inizio, sviluppo e finale. Il movimento drammaturgico
del racconto deve essere ottenuto con l’uso della sola descrizione. Non si possono usare le
altre parti del discorso narrativo (dialogo, monologo, pensieri tra sé e sé, ecc.). In assenza
così forte di mezzi drammaturgici a disposizione, il consiglio che vi do è quello di comporre
il proprio brano stimolati da una grande carica emotiva e passionale da rivolgere contro o
verso il corpo del personaggio da rappresentare. Solo così il tono preso dalla vostra scrittura
descrittiva riuscirà a disegnare, a fianco del personaggio rappresentato, un’altra sagoma,
somigliante, ma ben più corrosiva e potente dell’originale che all’inizio porrete sotto gli occhi
del lettore.

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Lezione 3
Ritmo e movimento nel dialogo (prima parte)
In questa lezione e nella successiva ci soffermeremo sull’uso del ritmo e del movimento nel
dialogo. Ma prima facciamo un passo indietro. A cosa serve un dialogo? Un buon dialogo
deve riuscire a svelarci, attraverso gli scambi di battute dei personaggi, il loro carattere, le
loro debolezze e i loro punti di forza. Nello stesso tempo un buon dialogo deve anche essere
in grado di portare avanti la storia. Cioè non deve contentarsi di mettere a segno solo delle
belle battute tra i personaggi rischiando intanto di fermare il racconto e il suo sviluppo di
storia. Quando un dialogo è ben realizzato si devono riconoscere e distinguere le voci in
campo. Ogni personaggio deve trasmettere attraverso le sue battute una psicologia e una
lingua fatta di tic, ripetizioni, modi di dire. E la voce che apparirà tra le virgolette del discorso
diretto dovrà corrispondere in tutto e per tutto a un solo personaggio in carne e ossa. Venendo
al nostro tema generale bisogna dire che possono convivere, nella stessa pagina, ritmi e
movimenti diversi tra quelli sprigionati dalla voce narrante e quelli espressi dai dialoghi tra i
personaggi. Per esempio, soprattutto se il racconto è in terza persona, può accadere che la
voce narrante della storia abbia un linguaggio elevato e di ampio respiro mentre, al contrario,
quello esposto dai dialoghi tra i personaggi risulti formato da frasi povere linguisticamente e
dalle proporzioni limitate. È il caso dello straordinario racconto di Guy de Maupassant Deux
amis, Due amici, del 1885, da Racconti e novelle, ed. Garzanti 1988, traduzione di Mario
Picchi, pag. 174-180.

In questo racconto l’amicizia porta due piccoli borghesi parigini amanti della pesca a
rischiare la vita durante l’assedio prussiano. I due amici decidono di andare a pesca,
nonostante i cannoneggiamenti ormai prossimi a Parigi. Le battute dei loro stringati dialoghi
sono inserite in un contesto dilatato a dismisura dal paesaggio che li circonda. Una natura
minacciata dalla guerra che si combatte tutto intorno.

Le parole di intimo buonsenso dei due amici si perdono così, tra i suoni bucolici della
campagna parigina e il brontolio lontano delle artiglierie. All’inizio del racconto Maupassant
ci informa che prima della guerra i due amici già si frequentavano. Ce lo dice, come potete
verificare nel passo successivo tratto dal suo racconto, con una descrizione diffusa e accurata
su come i due personaggi siano inseriti nel loro contesto ambientale. Quando Maupassant fa
dialogare i due personaggi le loro battute sono talmente impregnate di semplicità e buon
senso che lo “stacco”, esistente tra il ritmo e il movimento esposto dalla voce narrante e
quello rappresentato dal dialogo, provoca nel lettore un effetto voluto di simpatica e benevola
reazione. Verrebbe da dire “ma guarda questi buontemponi come se la godono mentre lì
vicino è in corso una guerra”. Ma forse i più avvertiti conoscitori di drammaturgia potrebbero
già pensare: “sento puzza di bruciato”. Adesso iniziamo ad assaggiare le differenze di ritmo e
movimento tra descrizione “alta” e dialoghi “bassi”:

Due amici

[...] Certi giorni non parlavano affatto; altre volte facevano quattro chiacchiere. Ma
andavano benissimo d’accordo anche senza dir nulla, poiché avevano gli stessi
gusti e un’identica sensibilità. Nelle mattine di primavera, verso le dieci, quando il

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sole ringiovanito faceva galleggiare sul fiume tranquillo quella nebbiolina che
scorre insieme all’acqua, e riversava sulla schiena dei due accaniti pescatori il
benefico calore della nuova stagione, Morissot diceva talvolta al suo vicino.

ed ecco che arriva puntuale nel dialogo il crollo del ritmo e del movimento ampio e
prolungato che c’era nella descrizione appena letta:

– Che dolcezza, eh? – e Sauvage rispondeva: – Non c’è nulla di meglio.

E di nuovo, passando dalla primavera all’autunno, la descrizione di taglio paesaggistico


classico di Maupassant, quasi alla maniera del pittore Jean Baptiste Corot, ribadisce con l’uso
della ripetizione il contrasto tra narrazione distesa e preziosa e dialogo corto e pieno di
attonita stupidità. Dialogo che porta a mettere in luce una coppia di inconsapevoli attori da
farsa. In qualche modo delle vittime predestinate, annunciate solo attraverso il rigore
narrativo di Maupassant.

[...] In autunno, verso la fine della giornata, quando il cielo insanguinato dal sole al
tramonto rifletteva nell’acqua le nuvole scarlatte, imporporava tutto il fiume,
infiammava l’orizzonte, rendeva incandescenti e dorava, intorno a loro, gli alberi
già imbionditi, e frementi del brivido dell’inverno, Sauvage guardava sorridendo
Morissot e diceva...

di nuovo l’idiota buonsenso dei due:

– Che spettacolo! – E Morissot rispondeva senza levar gli occhi dal sughero: – È
meglio del boulevard, no?

Quando si rincontrano per caso a Parigi, ormai in pieno tempo di guerra, decidono di tornare
a pesca nonostante i prussiani assedino la città. Maupassant risolve coerentemente nei
dialoghi l’atteggiamento d’incosciente superficialità che i due amici hanno per i gravi rischi
che devono affrontare:

Sauvage mostrando a dito le alture mormorò:

– Lassù ci sono i prussiani.

[...] – E se li incontrassimo? – balbettò Morissot.

Sauvage rispose, con la spavalderia parigina sempre viva nonostante tutto:

– Gli offriremo un po’ di fritto.

Superati gli avamposti col permesso di un colonnello, divertito per la loro bonaria follia,
tornano a pescare insieme e parlano amichevolmente, mentre sulle colline intorno si sente il

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rumore sordo dei cannoni e i brontolii della guerra:

Morissot brontolò:

– Bisogna essere dei veri imbecilli per ammazzarsi così!...

– Son peggio delle bestie – rispose Sauvage. E Morissot, che aveva pescato allora
un’argentina, dichiarò: – Purtroppo sarà sempre così, fintanto che ci saranno i
governi...

Sauvage lo fermò:

– La Repubblica non avrebbe dichiarato la guerra...

– Coi re c’è guerra all’interno; con la repubblica c’è la guerra all’esterno, – lo


interruppe a sua volta Morissot.

Le ultime frasi di dialogo dei due amici sono:

– Così è la vita – disse Sauvage.

– Piuttosto dite che è la morte – aggiunse ridendo Morissot.

Arriva all’improvviso alle loro spalle una pattuglia di soldati prussiani guidati da un ufficiale.
L’ufficiale in buon francese chiede ai due amici la parola d’ordine utile per superare gli
avamposti, ma i due amici, tremanti, restano zitti. Anche quando l’ufficiale prussiano cerca di
corromperli non cedono. Nella scena dell’esecuzione militare con la fucilazione dei due
protagonisti si incontrano in modo struggente e antiretorico le descrizioni naturalistiche e
preziose di Maupassant e le parole semplici e banali dei due amici. Adesso il rapporto tra le
due parti fin qui staccate del racconto diventa formidabilmente contiguo. Da queste righe
parte un finale magnifico e di massimo livello di narrazione eroica quando alle parole di
stupido ma coerente commiato tra due personaggi simili, si sostituisce una gestualità fraterna
che finisce assimilata e metabolizzata nella parte descrittiva alta:

[...] Si ritrovarono un’altra volta a fianco a fianco. L’ufficiale diede un ordine. I


soldati alzarono le armi. Lo sguardo di Morissot cadde casualmente nella rete piena
di ghiozzi

che era rimasta sull’erba a qualche passo da lui. Un raggio di sole faceva luccicare i
pesci ammassati, che si muovevano ancora. Fu preso dallo smarrimento.
Nonostante i suoi sforzi gli occhi gli si riempirono di lacrime. Balbettò: – Addio,
signor Sauvage.

Sauvage rispose: – Addio, signor Morissot.

Si strinsero la mano, scossi da capo a piedi da brividi irreprimibili. L’ufficiale


gridò:

– Fuoco!

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Sauvage cadde di schianto con la faccia contro la terra. Morissot, più alto, oscillò,
girò su se stesso, e cadde di traverso sul suo compagno, col viso rivolto al cielo,
mentre dalla giacca forata sul petto gli usciva un fiotto di sangue.

Morti i due semplici, ma eroici piccolo borghesi, la natura e la descrizione classicheggiante si


impadroniscono totalmente del racconto trasformando la storia da farsa in tragedia. Il
racconto finisce in modo terribile, ma verosimilmente autentico, con un gesto di pacifica
rilassatezza militare che diventa così l’ossimoro bestiale dell’insensatezza della guerra:

[...] Un soldato accorse. Il prussiano ordinò, gettandogli la pesca dei due fucilati: –
Fammi friggere subito questi animaletti finché sono vivi. Saranno deliziosi.

E riprese a fumare la pipa.

Quello che si può “rubare” dall’arte di Maupassant, e da uno dei più grandi racconti mai
scritti nella narrativa di tutti i tempi, è la capacità di evitare in modo assoluto gli effetti
retorici del dolore e della sofferenza. È fortissima in questo racconto la “tenuta” drammatica
del punto di vista che resta inchiodato in una zona intermedia: non troppo vicina ai due amici,
non troppo vicina ai militari prussiani e ugualmente distante dalla natura circostante.
L’effetto è quello di far provare al lettore delle sensazioni forti in completa autonomia. Senza
che dal racconto, almeno apparentemente, arrivi nessun condizionamento emotivo. La morte
antieroica dei due protagonisti avviene in un clima di terribile “normalità” di guerra. Il
semplice e consapevole addio dei due amici è quanto di più formidabile possa offrire un
racconto sulle atrocità della guerra. La forza del dialogo sta nel continuo passaggio di
concetti e parole da uno all’altro. Come se a parlare fosse una voce sola. È la
rappresentazione perfetta della sintonia e dell’amicizia totali. Una battuta viene contenuta e
ampliata dalla frase successiva. Una sola voce mite e serena. Quando arriva la violenza delle
frasi militari le voci dei due amici sono annichilite e resta solo il tempo per un addio fugace e
per una stretta di mano.

Questo splendido racconto è stato preso come modello narrativo dallo sceneggiatore Luciano
Vincenzoni per il bellissimo finale del film di Mario Monicelli La grande guerra, 1959, con
Alberto Sordi e Vittorio Gassman. Chapeau! Mi sembra giustamente ironico e provocatorio
sottoporvi subito dopo l’emozionante esempio di Maupassant quella bella invenzione di
dialogo di Raymond Carver che troviamo nel racconto Ancora una cosa, 1974, dalla raccolta
di racconti What we talk about when we talk about love, Di cosa parliamo quando parliamo
d’amore, ed. Garzanti, 1987, traduzione di Livia Manera, pag. 138, in cui un uomo che sta
abbandonando moglie e figlia termina la discussione sulla soglia di casa in questo modo:

[...] Lui appoggiò la valigia per terra e la busta di plastica sulla valigia. Raddrizzò
le spalle e si piazzò davanti a loro. Rae e Maxine fecero un passo indietro. –
Attenta, mamma – disse Rae.

– Non mi fa paura – disse Maxine.

L.D. infilò sotto il braccio la busta di plastica e raccolse la valigia. Disse: – Soltanto
una cosa voglio ancora dire –

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Ma poi non riuscì a pensare cosa mai potesse essere.

Beh, l’idea di Carver di far annunciare una battuta al personaggio e di fargliela inceppare, e
anzi di non riuscire nemmeno a fargliela pensare, è di tutte le possibilità quella più estrema e
geniale. Questa bella trovata agisce sul vuoto drammatico e fa assumere al silenzio che ne
deriva una struggente insensatezza. Qui si creano una sintesi e una circolarità totale: tra il
ritmo e il movimento del dialogo del personaggio che si inabissa nel nulla e la battuta finale
della voce narrante. L’assenza di pensiero è testimoniata sia dalla mancata frase tra virgolette
che dalla negazione della voce narrante. Un esempio di perfetta armonia letteraria tra ritmo e
significato.

Adesso proviamo ad andare su qualcosa di completamente diverso dai dialoghi visti fino a
qui. Entriamo addirittura nel logorroico e farsesco scambio di battute tra due prigionieri di un
campo di riabilitazione sovietico. L’autore è Sergej Dovlatov e il libro in questione è la
raccolta di racconti Čemodan, sorta di commedia autobiografica, scritto nel 1986 e pubblicato
da Sellerio col titolo La valigia nel 1999, tradotto da Laura Salmon. Il racconto citato è La
cintura da ufficiale, pag. 81-88.

Un dialogo preparatorio all’udienza di un processo militare si trasforma gradualmente nel


testo di una sceneggiatura di tono farsesco e paradossale. I due dialoganti si assegnano da soli
le battute di un copione, simulando anche situazioni e clima psicologico che secondo loro
troveranno nell’aula del tribunale della corte marziale dove uno dei due sarà a breve
processato. L’effetto è quello di un gioco sofisticato che raddoppia il senso stesso della forma
dialogo. Il divertimento è assicurato dal fatto che il futuro imputato al processo si affida così
ciecamente al valore delle battute e al loro meccanismo drammatico da sembrarne già vittima
predestinata. Da questa serie di dialoghi si possono apprendere i rudimenti della farsa. La
scena comica poggia sul carattere di un personaggio che non ha la minima percezione della
condanna che rischia e sul carattere di un altro che, pur di assecondarlo, finisce per
preparargli una serie di battute dal sicuro e pericolosissimo effetto antimilitarista. Nel dialogo
che si creano da scrittori autodidatti, i due militari sotto processo accusano paradossalmente
l’apparato militare di non aver creato dei corsi di formazione utili a dare un senso alla vita
dell’intero esercito sovietico. Una vera follia difensiva! Il capo d’accusa di aver colpito un
commilitone alla testa con una cinghiata è del tutto uscito dal “copione” dei due esaltati
sceneggiatori. Farsa assicurata e battute esilaranti ottenute per aver abbandonato il solco del
ragionamento ed essere diventate deliranti. Tutto questo è ottenuto con una velocizzazione di
ritmo e movimento provocata dall’ottusità e dalla mistificazione con cui si rincorrono le voci
in campo. Siamo di fronte a una classica coppia comica formata da due caratteri opposti. Si
fronteggiano un istruito irresponsabile e un idiota aggressivo. La combinazione fortemente
conflittuale dei due caratteri è garanzia di potenziale comico rilevante, ma ancora
insufficiente per avere il massimo risultato nello sviluppo del movimento narrativo. Bisogna
che i dialoghi mandino avanti l’azione e la trama e nello stesso tempo mostrino al lettore tutta
la fragilità dell’accordo raggiunto dalla coppia comica, dopo estenuanti e assurdi batti e
ribatti. E Dovlatov riesce benissimo anche in questa seconda impresa:

[...] – Tu sei istruito, inventa qualcosa. Cava un ragno dal buco. Altrimenti quei
bastardi passano i documenti al tribunale. Questo significa tre anni di battaglione
disciplinare. E il battaglione disciplinare è peggio del lager. Quindi tirami fuori...

Fece una smorfia cercando di mettersi a piangere.

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– Sono anche figlio unico... mio fratello è in galera, le mie sorelle sono sposate...

Gli dissi:

– Non so cosa si può fare. C’è una possibilità...

Čurilin si rianimò:

– Quale?

– Al processo io faccio una domanda. Chiedo: «Čurilin, lei, da civile, svolge una
qualche professione?». Tu rispondi: «No». Allora io dico: «Cosa dovrà fare lui
dopo il congedo, rubare? Dove sono i corsi da autista e bulldozerista che ci avevate
promesso? Perché dovremmo essere peggio dell’esercito regolare?». E così via. A
questo punto, naturalmente, ci sarà un gran vocìo. Magari ti rilasceranno su
cauzione.

Čurilin si rianimò ancora di più. Si sedette sul mio letto ripetendo:

– Che testa che hai! La tua sì che è una testa! Con una testa come la tua, in
generale, si può anche non lavorare.

– Soprattutto – dissi – se la prendi a fibbiate.

– È acqua passata – disse Čurilin – tutto dimenticato... Scrivimi quello che devo
dire.

– Ti ho già detto tutto.

– Beh, ora scrivimelo. Altrimenti mi confondo subito.

Čurilin mi allungò un mozzicone di matita copiativa, poi strappò un pezzo del


giornale murale:

– Scrivi.

Io con grande accuratezza scrissi «No».

– Come sarebbe «No»? – chiese lui.

– Mi hai detto «scrivimi quello che devo dire». E io ho scritto: «No». Al processo
io ti chiedo se tu hai una professione da civile. Tu mi rispondi: «No». Poi io dico
dei corsi da autista. Dopo inizia il vocìo.

– Allora, io dico solo la parola «no»?

– Direi di sì.

– Un po’ pochino – disse Čurilin.

– Non escludo che ti facciano anche altre domande. – Quali?

– Come faccio a saperlo?!

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– E io cosa rispondo?

– Dipende da quello che ti chiedono.

– E cosa possono chiedermi? Per esempio?

– Beh, per esempio: «Tu Čurilin, ammetti la tua responsabilità?».

– E io cosa rispondo?

– Tu rispondi: «Sì».

– Tutto qui?

– Puoi anche rispondere: «Sì, naturalmente, la riconosco e sono profondamente


pentito».

– Così va già meglio. Scrivi. Prima la domanda, poi la mia risposta. Le domande
scrivile normali, le risposte in stampatello. Così non mi confondo...

Čurilin restò con me fino alle undici. L’infermiere voleva mandarlo via, ma Čurilin
gli disse: – Potrò far visita a un compagno d’armi no?!...

Alla fine avevamo scritto un intero dramma. Avevamo previsto decine di domande
e di risposte. E come se non bastasse, Čurilin aveva insistito che io annotassi tra
parentesi: «lucido», «pensieroso», «imbarazzato».

Questo dialogo rappresenta il caricamento di una molla comica che tiene nella sua spira il
lettore. Vediamo ora come scatta il meccanismo farsesco preparato nella prima fase. Il testo
che è stato organizzato, come avete letto, prevede un vero e proprio copione con domande e
risposte. Però al processo della corte marziale tutta la sceneggiatura naturalmente salta. Il
maggiore Afanas’ev, che rappresenta il pubblico ministero nel processo militare, dice una
semplice battuta imprevista e fa cadere tutto l’intreccio elaborato dai due commilitoni. È
come quando ci si era preparati come bestie per un’interrogazione a scuola e poi ci facevano
una domanda a piacere. L’adrenalina se ne andava sotto le scarpe.

E così succede a Čurilin. Ormai nel pieno della farsa la scuola è evocata in pieno, compresi i
compagni di classe che cercano di dare l’aiutino all’interrogato. Solo che qui stiamo
nell’Unione Sovietica dei Gulag e della Siberia e Dovlatov riesce nell’impresa di dissacrare
pezzi interi della mostruosa macchina burocratica comunista.

[...] – Dobbiamo decidere se Čurilin resterà con noi o se le sue carte andranno al
tribunale. È una faccenda seria, compagni!... Čurilin, racconti come sono andate le
cose.

Tutti osservarono Čurilin. Tra le sue mani comparve un pezzetto di carta


stropicciata. Lo rigirava, gli dava delle occhiatine e borbottava qualcosa sottovoce.

– Racconti – ripeté il maggiore Afanas’ev. Čurilin smarrito mi lanciò un’occhiata.


Evidentemente c’era qualcosa che non avevamo previsto. Avevamo trascurato

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qualche particolare del copione.

Il maggiore alzò la voce:

– Vuol farci attendere ancora a lungo?!

– Non ho fretta – disse Čurilin. Si oscurò. Il suo volto diventava sempre più
rabbioso e cupo. Ma anche nella voce del maggiore vibrò l’irritazione. Fui costretto
ad alzare la mano:

– Posso raccontare io.

– Non se ne parla nemmeno – urlò il maggiore – ci manca solo lei!

– Proprio così – disse Čurilin – ecco ... desidero ... cioè ... frequentare un corso per
bulldozeristi.

Il maggiore si girò verso di lui:

– Cosa cazzo c’entrano i corsi, porca d’una Eva! Ma sentitelo! Si è ubriacato, ha


storpiato il suo amico e ora sogna un corso da bulldozerista!... Non è che, per caso,
vorrebbe essere ammesso all’università? O al conservatorio?...

Čurilin diede un’altra occhiata al pezzetto di carta e proferì cupamente:

– Perché dovremmo esser peggio dell’esercito regolare?

Il maggiore trasalì dalla rabbia:

– Quanto durerà ancora tutto questo? Gli vanno incontro e lui parla da solo! Gli
dicono “racconta” e lui non vuole!...

– Ma non c’è niente da raccontare! – saltò su Čurilin. – Devo inventarmi una saga
tipo Forsyte?! Racconta! Racconta! Ma cosa c’è qui da raccontare?! Ma che cazzo
mi rodi il cranio, bastardo?! Posso dartela anche a te una ritoccata!...

Il maggiore afferrò con la mano il fodero della pistola. Sui suoi zigomi comparvero
delle macchie rosse. Respirava a fatica. Alla fine riuscì a controllarsi:

– Alla giuria è tutto chiaro. Dichiaro chiusa la seduta!

Due raffermati presero Čurilin per le braccia. Io mi avviai all’uscita tirando fuori le
sigarette.

Altro dialogo da cui poter imparare qualcosa è quello orchestrato dalla scrittrice A. M.
Homes nel racconto di genere fantastico A real doll, dalla raccolta di racconti The safety of
objects, 1990, Una vera bambola, 1990, da La sicurezza degli oggetti, ed. Minimum fax,
2001, traduzione di Martina Testa, pag. 142-164.

Questo racconto è la dimostrazione lampante che le fantasie erotiche di un adolescente, con le


bambole o con qualunque altro oggetto del desiderio, possono diventare una sfida narrativa a
tutto campo. Nel dialogo le battute del ragazzino sono inzuppate dall’autrice nelle più accese

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colorazioni ormonali destinate alla conquista e al possesso fisico nientemeno che di Barbie in
persona. Cioè, di Barbie la vera bambola. L’incipit, come si conviene in questi casi, non
perde tempo in inutili preamboli e va al sodo:

Esco con Barbie. Tre pomeriggi a settimana, mentre mia sorella è a lezione di
danza, porto Barbie via da Ken.

Partendo da questo incredibile presupposto ecco come ci viene raccontato il primo approccio
con Barbie e il dialogo che ne scaturisce:

All’inizio ero seduto in camera di mia sorella e guardavo Barbie, che viveva con Ken posata
su un centrino sopra il ripiano del comò. La stavo guardando e a un tratto mi accorsi che mi
stava fissando. Era seduta accanto a Ken che strusciava distrattamente la coscia, coperta dal
pantalone beige, contro la gamba nuda di lei. Lui si stava strusciando, ma lei guardava me.

– Ciao – disse

– Ciao – dissi io.

– Mi chiamo Barbie – disse, e Ken smise di strusciarsi contro la sua gamba.

– Lo so. – Tu sei il fratello di Jenny.

Annuii. La testa mi faceva su e giù come quella di un pupazzo con dentro un


contrappeso.

– Mi sta tanto simpatica tua sorella. È dolcissima – disse Barbie. – Un amore di


bambina. Specie negli ultimi tempi, si mette sempre tutta carina, e ha cominciato
anche a farsi le unghie.

Da notare l’eccellente “auto-reificazione” del ragazzo che, per lo sbalordimento derivato


dalla situazione, si descrive irrigidito come un pupazzo, proprio davanti alla bambola che gli
si rivela, al contrario, viva e vegeta. In un passo successivo, dopo che sono usciti in giardino
in un tête à tête che taglia fuori il povero Ken, il ragazzo avvia un discorso più diretto e
confidenziale con Barbie:

[...] – Allora, che tipo di Barbie sei? – chiesi.

– Come scusa?

– Beh, a forza di sentire Jennifer so che esistono Barbie Giorno e Notte, Barbie
Movimenti Magici, Barbie Regalo, Barbie Tropical, La Mia Prima Barbie e altre
ancora.

– Io sono Tropical – disse, con lo stesso tono con cui uno potrebbe dire “sono
cattolico” o “sono ebreo”.

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Ecco la dimostrazione di quanto riescano verosimili, nei racconti inseriti in una cornice
surreale e assurda, i dialoghi che partono da banali situazioni di imbarazzo psicologico.
Momenti in cui un personaggio non sa da dove cominciare per tirar fuori due parole sensate e
aprire un canale di dialogo. Potendo parlare con Barbie il nostro personaggio non porta la
bambola su un versante di ragionamento umano, ma per farla sentire a proprio agio le pone
l’equivalente della domanda che si fa di solito a una persona appena conosciuta quando le si
chiede dove è nata o di che segno zodiacale è. La sua domanda d’apertura è: “che tipo di
Barbie sei?” Cosa ci insegna questo dialogo tra generi e categorie così lontani? Intanto che un
essere umano e un pupazzo o un burattino in letteratura possono tranquillamente parlarsi. Ma
questo lo sapevamo già avendolo visto accadere, e anche in modo sublime, in Pinocchio.

E allora in più ci insegna che le proiezioni mentali di un ragazzino possono dar vita e
movimenti a una bambola che prenderà a comportarsi e a parlare come una stupida ricca
fighetta americana, quale l’hanno progettata quelli della casa produttrice di bambole Mattel.
Le prospettive di un dialogo tra un adolescente e una Barbie idiota sex symbol vanno verso
un inevitabile scontro dialettico di stampo feticistico:

[...] – Allora, cosa c’è fra te e Ken? ... Fece una risatina.

– Niente, siamo solo buoni amici.

– No, dai, davvero, a me puoi dirlo. Come stanno le cose? Voglio dire, siete o non
siete una coppia?

– Sciete o non sciete una coppia? – disse Barbie lentamente, farfugliando.

La ripetizione della domanda storpiata da Barbie produce un effetto misto tra lo stupore e lo
svampito, come se il meccanismo sonoro della bambola si fosse inceppato. Ma è solo un
momento perché quando nella successiva battuta il ragazzino diventa diretto e volgare:

– Cos’è frocio?

lei dimostra che la sua testolina è reattiva e anzi parte in quarta con un flusso di particolari
sulle caratteristiche intime di Ken che per contenuto e forma sembrano proprio la proiezione
delle fantasie sessuali del ragazzino.

[...] – Ma no, mi desidera eccome. Torno a casa la sera e lui è lì in piedi che mi
aspetta. Non porta le mutande, sai. Cioè, non ti pare strano? Ken non possiede
biancheria intima. Ho sentito Jennifer dire alle sue amiche che per Ken non la
fanno proprio. Comunque, dicevo, lui sta sempre lì ad aspettarmi e io gli faccio:
Ken, siamo amici e basta, ok? Cioè, non so se l’hai notato, ma ha i capelli che sono
un blocco di plastica. La testa e i capelli sono un pezzo solo. Non posso uscire con
uno così. Oltretutto, non credo che sarebbe all’altezza, se capisci cosa intendo. Ken
non è uno che definiresti ben dotato... Non ha altro che un bozzetto di plastica, cioè,
in realtà è più una gobbetta, e una che cazzo ci deve fare con un coso del genere?

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Questo sbilanciamento improvviso del dialogo porta il personaggio di Barbie a una svolta. Il
ritmo delle sue frasi era breve e stringato. Quasi con i giri contati come quelli che hanno le
bambole parlanti. E ora invece il suo pensiero bambolesco si srotola in una serie di
considerazioni triviali da donna insoddisfatta sessualmente. Questo cambio di ritmo e di
movimento narrativo segna il tempo per una reazione anche nel ragazzino che infatti passa
dallo stupore ebete all’azione violenta.

Mi stava raccontando cose che pensavo non avrei dovuto sapere e nonostante questo ero
chino verso di lei, quasi sperassi che se mi fossi avvicinato ancora lei mi avrebbe detto di più
[...]. Nel corridoio fra le scale e la stanza di Jennifer mi ficcai la testa di Barbie in bocca,
come un leone con un domatore, Dio con Godzilla.

Ecco cosa possono provocare quelle bambole che osano cambiare il ritmo e il senso degli
eventi. Ma la colpa non è loro... certo, è degli scrittori che le descrivono così.

Lasciamo il racconto fantastico tout court e spingiamoci in un’atmosfera letteraria di tipo


surreale col prossimo esempio letterario. Esempio che riguarda un formidabile, e forse
insuperato a tutt’oggi, saggio sugli effetti linguistici portati dalla televisione sui suoi
spettatori. Si tratta del romanzo di Jerzy Kosinski Being there, 1971, Oltre il giardino,
Feltrinelli 1996, traduzione di Vincenzo Mantovani. In questo breve, e quasi incompiuto
romanzo, il linguaggio caratterizza a tal punto il protagonista della storia da riempire esso
stesso la scena più della presenza fisica del personaggio che lo esprime. Il personaggio
sparisce dietro la fisicità fortemente allusiva delle sue parole. E questo accade perché l’autore
assegna al protagonista un impasto linguistico unico e corporeo che realizza fondendo tra loro
due codici linguistici professionali: quello del giardinaggio e quello dei conduttori di talk
show televisivi di basso profilo. Il risultato mostruoso dell’ibrido linguistico fa sì che le
battute del protagonista risuonino per gli altri personaggi del romanzo, ma anche per il
lettore, come una continua metafora sul mondo e vengano interpretate, con una serie di
fraintendimenti e scambi di persona spettacolari, addirittura come una possibile linea politica
da seguire a livello governativo. In realtà il tono del racconto è pieno di malinconia perché
quelle che leggiamo sono le frasi pronunciate da un uomo solo, un idiota gentile che ha
vissuto per anni e anni recluso in una villa a fare il giardiniere e a guardare la tv. Eppure le
sue parole ascoltate dal premier politico e poi trasmesse in prima serata tv vengono recepite
da tutti come illuminanti e geniali. Il ritmo e il movimento del romanzo ogni volta che a
parlare è Gardiner prendono un respiro ieratico, sacro. Le sue frasi volano molto più alte
rispetto alla prosa usata dagli interlocutori e questo accade perché il suo linguaggio è
pienamente allusivo e metaforico. Il lato struggente della cosa, che solo il lettore conosce
dalle pagine iniziali del romanzo, è che si tratta del risultato di una degenerazione umana e
solo poi semantica.

Da Oltre il giardino, pag. 57-58:

[...] Gli uomini cominciarono una lunga conversazione. Chance non capiva quasi
niente di quello che dicevano, anche se guardavano spesso dalla sua parte, come
per sollecitare la sua partecipazione. Chance pensava che si esprimessero di
proposito in un’altra lingua per ragioni di segretezza, quando a un tratto il
Presidente si rivolse a lui:

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– E lei signor Gardiner? Cosa pensa della brutta stagione nella Street?

Chance si fece piccolo piccolo. Aveva l’impressione che le radici dei suoi pensieri
fossero state improvvisamente divelte dalla loro terra umida e spinte, in un
groviglio, nell’aria ostile. Fissò il tappeto. Infine parlò.

– In un giardino – disse – ogni pianta ha la sua stagione. C’è l’estate e la primavera,


ma c’è anche l’autunno e l’inverno. E poi, ancora, la primavera e l’estate. Purché le
radici non vengano recise, tutto va bene e tutto andrà bene.

Alzò gli occhi. Il Presidente pareva molto soddisfatto.

Il linguaggio di Gardiner è così banalmente limitato alle conoscenze di giardinaggio e tv che


non può esprimersi altrimenti. Per gli altri acquista un senso vagamente profetico, da maestro
di pensiero. Per tutto il romanzo di Kosinski la voce di Gardiner ripete coerente e monotona
la stessa sequenza di concetti con piccole variazioni. Certe volte le risposte idiote di Gardiner
diventano delle meccaniche esplosioni di cinismo. Così quando una ragazza in una festa
mondana in suo onore gli chiede:

– E la guerra? – disse la ragazza seduta alla sinistra di Chance, sporgendosi verso di


lui.

– La guerra? Quale guerra? – disse Chance. – Ho visto molte guerre alla tv.

Così il ritmo e il movimento nell’eloquio di Gardiner si rarefanno ancor di più e ce lo


mostrano in difficoltà. L’assuefazione al linguaggio della guerra vista in tv entra nelle parole
dell’idiota Gardiner che non sa distinguere la fiction dalla no fiction. Pian piano il suo
linguaggio perde ritmo e movimento e diventa un triste soliloquio che lo fa abbandonare da
tutti. Le ultime righe del romanzo vedono Gardiner fuggire, come nelle più classiche storie di
mostri, e le sue parole insensate diventano malinconicamente degli sguardi intensi e muti.
Gardiner, prima di uscire di scena, posa il suo sguardo sui dettagli in movimento, dialoganti
con lui, di un giardino agitato dal vento. Il Giardino con la G maiuscola, quello che aveva
nutrito finora il linguaggio del protagonista, risucchia Gardiner divorandone per sempre ogni
parola.

[...] Gardiner spinse la pesante porta a vetri e uscì nel giardino. Rami carichi di
nuove gemme, esili steli con minuscoli germogli puntati verso il cielo. Il giardino
era calmo, ancora sprofondato nel riposo. Brandelli di nuvole passarono nel cielo
lasciando la luna allo scoperto. Ogni tanto i rami stormivano e si scrollavano
dolcemente dalle loro gocce d’acqua. Una brezza investì il fogliame cercando
riparo sotto le foglie umide. Non un pensiero si levò dal cervello di Gardiner. La
pace gli riempiva il petto.

Vale la pena ricordare la grandissima prova d’attore di Peter Sellers nei panni di Gardiner
nella riduzione cinematografica del 1979, per la regia dell’ottimo Hal Ashby. Cosa possiamo
imparare da questa lezione, ancora oggi attualissima, sul linguaggio e sulle sue
interpretazioni, specie negli effetti deformanti apportati dalla televisione a ogni espressione di

39
pensiero? L’insegnamento che si può trarre da questo dialogo (che poi somiglia più a un
monologo, o meglio a un parlare tra sé e sé, perché Gardiner non entra mai in vera sintonia
con le altre voci) è che quando riusciamo a trovare un personaggio che non ha uguali e che ha
un suo modo di parlare e di gestire il linguaggio possiamo sfruttarlo in lungo e in largo
all’interno di una storia. E anzi il suo vantaggio, oltre a qualche rischio di assuefazione e
soffocamento a furia di spremerne il potenziale, è quello di portare con sé un tale impatto
drammaturgico che in ogni situazione sarà sempre felicemente a contrasto con l’ambiente
esterno.

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Esercizi
Lezione 3
Esercizio 4

Prendete il dialogo di un autore letterario che non vi lascia indifferenti (insomma che amate o
detestate particolarmente) e leggetelo più volte. Quindi “sfilate” dal dialogo tutte le battute di
un personaggio, lasciando vive quelle dell’altro dialogante. A questo punto ricreate a modo
vostro le battute soppresse. Che siano almeno una ventina. Dovete dare alle nuove battute il
senso e il ritmo che voi credete opportuno, cercando però di allontanarvi il più possibile dalla
versione originale. Non sentitevi obbligati al rispetto della trama dell’opera scelta, ma solo a
quello della concatenazione del dialogo. È quasi scontato che ne verrà fuori una specie di
dissacrazione o di parodia. Ma questo esercizio vi dà la favolosa possibilità e il piacere di
duellare alla pari con qualsiasi autore della letteratura vi capiti a tiro!

Esercizio 5

Non prendeteci per matti, ma provate a far rivolgere la parola a un essere umano da un
qualunque oggetto presente nella stanza di una casa (poltrona, posacenere, vaso cinese,
lampada a stelo, ecc.) e date l’avvio a un dialogo credibile (un botta e risposta di almeno una
dozzina di battute) in cui l’oggetto parlante dimostri una sua personalità e fisicità attraverso le
battute usate.

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Lezione 4
Ritmo e movimento nel dialogo (seconda parte)
Dalla lezione precedente si sarà capito che il dialogo in narrativa è una delle componenti più
difficili da amalgamare col resto del racconto. Non basta preparare al meglio i nostri
personaggi per il momento clou del dialogo con descrizioni cariche di particolari preziosi, sia
di taglio esteriore che psicologico. Al momento della verità il dialogo da solo deve riuscire
nell’impresa di far corrispondere le parole tra virgolette al personaggio rappresentato e nello
stesso tempo nell’impresa di fargli dire delle cose sensate e legate al movimento della storia.
Nel dialogo si corre il rischio di replicare senza profondità le voci reali che incrociamo nella
vita e di riprodurre queste voci in modo piatto, agendo come semplici registratori di parole.
L’altro pericolo in agguato è quello contrario di precipitare nella magniloquenza o nell’enfasi
caricando di eccessivi significati ogni battuta. Assegnando così parole e frasi ridondanti a
personaggi che non riescono a trovare una loro dimensione umana credibile. I risultati sono
nel primo caso quelli di una riproduzione naturalistica, senza drammaticità e spessore, e nel
secondo di una caricatura linguistica, di una semplice imitazione vocale.

Insomma, si può dire che il dialogo sia la massima espressione mimetica del narratore. E più
che in ogni altra parte del discorso narrativo, per migliorare il proprio “orecchio” è bene
provare e riprovare a fare “il verso” ai personaggi che discorrono tra loro nei libri già
pubblicati. Cioè riscrivere o continuare i dialoghi già editi adottando nuove soluzioni. Non ci
sono regole che riguardano la lunghezza del dialogo in un testo narrativo. È evidente però che
più monologhi, “a parte”, dialoghi e forme epistolari ci sono in una narrazione e più si
radicalizzano le forme del racconto. Dialoghi e monologhi in quantità strabordante portano la
narrativa in una zona di confine col testo teatrale o con la sceneggiatura cinematografica,
televisiva o radiofonica. Per evitare dialoghi o monologhi fatti per essere recitati, il tratto che
più deve caratterizzare gli aspetti narrativi, cioè una fruizione del testo attraverso la lettura
muta, è la rapidità e leggerezza del fraseggio. Rapidità che si può raggiungere facendo in
modo che ogni singola parola di un dialogo letterario eviti di seguire facili effetti acustici e di
incantarsi nell’ascolto delle sue sonorità. In sostanza le frasi virgolettate devono suggerire il
carattere di un personaggio e non imporlo attraverso delle scorciatoie espressive. Il senso e il
ritmo dei dialoghi sono molto più importanti del loro effetto sonoro. Per chiarirsi le idee
conviene riprendere e concludere l’ampia carrellata di tipologie di dialogo che abbiamo
cominciato nella scorsa lezione.

Proviamo a dare un’idea forte ed evidente di come in un dialogo si possano caratterizzare e


rappresentare problemi e debolezze dei personaggi citando un altro passo dal romanzo The
corrections, 2001, Le correzioni di Jonathan Franzen, Einaudi, 2002, traduzione di Silvia
Pareschi, pag. 21:

[...] – La mancia si dà per il servizio e il comportamento – riprese Enid. – Se il


servizio e il comportamento sono particolarmente buoni si può dare il quindici per
cento. Ma se tu la dai automaticamente...

– Ho sofferto di depressione per tutta la vita – disse Alfred, o almeno così parve.

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– Come hai detto? – fece Chip.

– Gli anni della depressione mi hanno cambiato. Hanno cambiato il valore del
denaro.

– Ah, stiamo parlando di depressione economica.

In un semplice dialogo a tre su una mancia da lasciare al tassista, che peraltro è presente alla
scena, è evidenziato con una gag lo stato confusionale del personaggio che si chiama Alfred e
che è affetto dal morbo di Parkinson. Le battute che pronuncia sono credibili se prese
singolarmente, ma messe in successione si elidono di senso e creano la percezione di uno
stato mentale disorientato. Così lo scrittore riesce a mostrarci nello stesso tempo la perdita di
controllo di sé di un personaggio e il suo impotente tentativo di aggrapparsi a parole cariche
di pathos. Il risultato che ne esce è quello di un clima malinconicamente comico.

Poi ci sono dialoghi che hanno una specie di marchio di fabbrica quando a condurre le danze
del discorso c’è un battutista che gode come un pazzo nel rappresentare se stesso in modo
ostinatamente e percussivamente provocatorio. Ed è così forte il suo modo di imporre il ritmo
e il movimento del dialogo che ogni personaggio gli cede il passo non potendo contrastare la
sua dialettica prepotente. È il caso di Charles Bukowski nel libro di racconti Erections,
Ejaculations, Exhibitions and General Tales of Ordinary Madness, 1967, Storie di ordinaria
follia, racconti, Feltrinelli 1979, traduzione di Pier Francesco Paolini.

Da La mia vita in un casino del Texas, pag. 29:

– Cosa fa lei? – mi chiese.

– Sono uno scrittore.

– Oh, che bello! Che cosa ha pubblicato?

– Non ho pubblicato niente.

– Allora, in un certo senso, non è un vero scrittore.

– Esatto. E abito in un bordello.

– Cosa?

– Ho detto che ha ragione, non sono uno scrittore vero e proprio.

– No, voglio dire, il resto.

– Abito in un bordello.

– Abita abitualmente in un bordello? Sempre?

– No.

– Come mai non è sotto le armi?

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– Non ho superato la visita psichiatrica.

– Vorrà scherzare.

– Grazie a dio, no.

– Non ambisce combattere?

– No.

– Ci hanno attaccati a tradimento, a Pearl Harbour.

– L’ho inteso dire.

– Non ambisce combattere contro Adolf Hitler?

– Veramente no. Lascio che altri lo facciano.

– Lei è un vigliacco.

– Sì, lo sono, e non è tanto per non ammazzare la gente, quanto che non sopporto la
vita di caserma, dormire con un branco di uomini che russano, e poi essere
svegliato da un cazzone che suona la tromba, e non mi va di indossare una ruvida
camicia verde-oliva. Ho la pelle molto sensibile.

– Forse dovrebbe scrivere con la sua pelle.

– E lei magari con la sua sorca.

C’è poco da competere con un personaggio che sprizza provocazioni anarcoidi a ogni respiro.
La costanza di una voce così fuori dal coro porta in modo predestinato il personaggio a subire
le reazioni violente e le aggressioni di tutti quelli che incontra. È un moderno Don Chisciotte
a fili invertiti. Invece di essere un appassionato di cavalleria e di galateo è un fanatico
sostenitore della disobbedienza e dell’insubordinazione.

Su uno stesso piano di forte caratterizzazione ci sono innumerevoli esempi di personaggi


protagonisti di libri di genere (gialli-noir, thriller, fantascienza, ecc.). Tra questi vale la pena
scegliere un modello di prosa che per essenzialità e potenza espressiva risulta quasi unica
oggi. L’autrice è Dorothy Porter e nel libro The monkey’s mask, 1994, La maschera di
scimmia, Fandango libri, 1994, traduzione di Sergio Claudio Perroni, scrive una sorta di
poesia epica con grande ritmo e tensione. Prendiamo un passo a pagina 35, intitolato Parlami
di te, in cui la protagonista Jill, una detective lesbica, entra in contatto con una donna per
carpirle qualche informazione utile per la sua indagine:

– Qui non posso parlare – mi fa – che ne direbbe di pranzare insieme? mi apro tutta
in un sorriso ebete lei sorride di rimando come se fossi svago e non lavoro in
ascensore passiamo al tu e ci studiamo sono completamente nel pallone non
parliamo di Mickey incombenza di cui a pranzo mi sgravo in fretta

– Quand’è stata l’ultima volta che hai visto Mickey? – Al seminario di poesia due
settimane fa. – Era eccitata tipo per un viaggio imminente? Diana scuote la testa

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– No, era sempre la solita. – Cioè come? – Sensibile e timida. Come la maggior
parte dei patiti di poesia. Diana affonda un polpastrello nella schiuma del mio
cappuccino e poi se lo lecca piano – Parlami di te – dice.

È una pagina che dimostra quanto sia incisivo intrecciare con i dialoghi un punto di vista
forte che penetri quella certa patina convenzionale che esiste negli scambi di battute tra
personaggi. Le notazioni della voce narrante aprono spiragli sui sussulti emotivi che
l’incontro descritto le procura. E anche la gestualità raccontata crea un ricco contrappunto di
ritmo e movimento tra parole dette, punto di vista e atteggiamenti dei personaggi.

Un altro modello di dialogo si può sviluppare in letteratura attraverso il coinvolgimento


diretto del lettore. Chi in passato ha rivolto battute al lettore in modo assolutamente
trascinante e umoristico è stato senz’altro Laurence Sterne. Leggiamo l’incipit del suo The
life and opinions of Tristram Shandy, gentleman, 1760, Vita e opinioni di Tristram Shandy,
Rizzoli, 1958, traduzione di Giuliana Aldi, pag. 19-20:

Vorrei che mio padre e mia madre, o meglio, tutti e due, come era loro dovere,
avessero pensato a quello che facevano, allorché mi misero al mondo. Diamine!
Avrebbero dovuto considerare le conseguenze di certi loro atti! Poiché non si
trattava soltanto di produrre un Essere pensante, ma di occuparsi della buona
formazione del suo corpo, forse, e fors’anche della sua intelligenza e del suo
carattere; il destino stesso di tutta la sua famiglia poteva dipendere dalle condizioni
di spirito in cui si trovavano nel momento culminante. Se i miei genitori avessero
opportunamente valutato e ponderato tutto ciò e avessero agito di conseguenza, io
ho la certezza che avrei fatto nel mondo ben altra figura di quella che
probabilmente il lettore mi vedrà fare. Credetemi, buona gente, questo punto non ha
così poca importanza, come molti di voi potrebbero supporre. Penso che voi tutti
abbiate udito parlare delle essenze vitali, di come si trasmettano dal padre al figlio,
eccetera, eccetera... e di molte altre cose inerenti a ciò; ebbene, credetemi, nove
volte su dieci il buonsenso o la stupidità di un uomo, i suoi successi o le sue
disgrazie in questo mondo dipendono dal dinamismo e dagli impulsi di queste
essenze vitali, nonché dai vari indirizzi che voi imprimete loro in quel determinato
momento culminante. E quando avete dato loro l’avvio, giusto o sbagliato che sia
(ciò è del tutto trascurabile), ecco che se ne vanno confusamente, come pazze
frenetiche, e, calcando più volte le stesse orme, ne fanno una strada levigata e
agevole come il viale di un giardino, dalla quale, una volta addestrate, neppure il
diavolo le potrà più dirottare.

– Scusami, caro... – chiese mia madre – non ti sei per caso dimenticato di ricaricare
la pendola?

– Perd...! – strillò mio padre, pur sforzandosi nel contempo di moderare il tono
della voce. – È mai capitato, dalla creazione del mondo, che una donna
interrompesse un uomo con una domanda così stupida?

– Ma scusate... che stava dicendo vostro padre?

– Nulla.

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L’inizio del libro corrisponde alle riflessioni tragicomiche che la voce narrante (assoluta
protagonista del romanzo) compie intorno agli attimi che riguardano il proprio concepimento.
Il lettore è tirato in ballo dall’autore in due modi: prima genericamente, attraverso le
domande retoriche che pone la voce narrante, e poi più decisamente, quando gli viene data
addirittura voce ed è trascinato tra le virgolette del discorso diretto a chiedere lumi sulle
meditazioni a voce alta dell’autore. E il lettore partecipa al surreale dialogo con la voce
narrante facendo una domanda su una questione che Laurence astutamente aveva lasciato in
sospeso nel suo preambolo (“Ma scusate... che stava dicendo vostro padre?”). Questo tipo di
atteggiamento complice tra voce narrante e lettore porta a una scrittura aneddotica, infarcita
di situazioni problematiche e assurde in cui si chiede con ironia evidente l’intervento
giudicante del lettore. Il taglio richiesto è comico e surreale. Uno sguardo simile nel cinema è
paragonabile alle occhiate desolate che Oliver Hardy (Ollio) lancia “in macchina”, e cioè allo
spettatore, cercandone la solidarietà ogni volta che Stan Laurel (Stanlio) lo rende vittima
sacrificale di una gag.

In un altro inizio di romanzo la voce narrante, prima ancora di attaccare la storia, si rivolge
subito e senza mezzi termini al lettore. Il romanzo in questione è Se una notte d’inverno un
viaggiatore di Italo Calvino, 1979, Einaudi, pag. 3:

Stai per cominciare a leggere il nuovo romanzo Se una notte d’inverno un


viaggiatore di Italo Calvino. Rilassati. Allontana da te ogni altro pensiero. Lascia
che il mondo che ti circonda sfumi nell’indistinto. La porta è meglio chiuderla; di là
c’è sempre la televisione accesa. Dillo subito, agli altri: “No, non voglio vedere la
televisione!” Alza la voce, se non ti sentono: “Sto leggendo! Non voglio essere
disturbato!” Forse non ti hanno sentito, con tutto quel chiasso; dillo più forte, grida:
“Sto cominciando a leggere il nuovo romanzo di Italo Calvino!” O se non vuoi non
dirlo; speriamo che ti lascino in pace. Prendi la posizione più comoda: seduto,
sdraiato, raggomitolato, coricato. Coricato sulla schiena, su un fianco, sulla pancia.
In poltrona, sul divano, sulla sedia a dondolo, sulla sedia a sdraio, sul pouf.
Sull’amaca, se hai l’amaca. Sul letto, naturalmente, o dentro il letto. Puoi anche
metterti a testa in giù, in posizione yoga. Col libro capovolto, si capisce.

In questa apertura di romanzo la voce narrante si rivolge al lettore in modo diretto e continuo.
Sottolinea nelle battute gli aspetti della fruizione del lettore che lo sta leggendo. Così
quell’artificio consolidato nei tempi che vede il lettore perdersi fin da subito nelle pagine di
storie coinvolgenti è qui bloccato e aperto in tutti i suoi aspetti esteriori e fisiologici dalla
voce narrante. Il lettore si sente pedinato e addirittura smascherato nei suoi comportamenti di
fruizione letteraria. È un caso di sperimentalismo narrativo esibito in modo spudorato e in
certo qual modo irripetibile. L’esperimento di Calvino è di fatto un’invenzione unica basata
su un’idea che appena venisse riproposta, consapevoli o no, diverrebbe all’istante una
citazione. Nel cinema un esempio simile a questo può considerarsi quello di Woody Allen nel
film La rosa purpurea del Cairo (The purple rose of Cairo) del 1985, in cui un attore scende
dallo schermo e dà vita a una storia d’amore con una spettatrice che sta guardando il suo film
in una sala cinematografica.

L’ultima testimonianza portata a modello sulle tecniche di costruzione del dialogo riguarda il
romanzo epistolare. In effetti i carteggi tra due o più personaggi sono come dialoghi spaziati

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tra loro da passaggi di tempo e da accadimenti. Un personaggio scrive una lettera, racconta
degli episodi, li può commentare, può descrivere stati d’animo e tante altre cose. Un altro
personaggio, dopo aver letto la lettera ricevuta, risponde facendo corrispondere o
contrapponendo le sue parole a quelle dell’interlocutore. Così l’epistolario è una macchina
narrativa che permette all’autore di presentare una pluralità di punti di vista tutti soggettivi,
diversi tra loro e in continua evoluzione. Anche il romanzo epistolare dà la possibilità di
lavorare sulle contraddizioni e sulle ambiguità dei caratteri dei personaggi. Un personaggio
può dare, per esempio, un’impressione di sé altamente morale nello scambio di lettere con un
interlocutore e poi mostrarsi perverso nell’epistolario avviato con un altro personaggio. Se il
romanzo epistolare ha avuto la sua massima espressione intorno al XVIII secolo c’è da dire
che oggi, col grande sviluppo di internet e delle comunicazioni scritte tramite e-mail, si può
ridare con cognizione di causa sviluppo a trame basate su corrispondenze epistolari.

Vediamo qui di seguito il brano tratto da un classico del romanzo epistolare Les liaisons
dangereuses, 1782, di Pierre Choderlos de Laclos, Le relazioni pericolose, Einaudi 1989,
traduzione di Adolfo Ruata, pag. 17-19:

LETTERA V

La marchesa di Merteuil al visconte di Valmont, il 7 agosto 17’’

Sapete, visconte, che la vostra lettera è di una insolenza rara e che avrei diritto di
arrabbiarmi? Ma essa mi ha mostrato chiaramente che avete perduto la testa, e ciò
soltanto vi ha salvato dalla mia indignazione. Amica generosa e sensibile,
dimentico l’offesa fatta a me per non darmi pensiero che del pericolo vostro; e,
benché sia tedioso ragionare, cedo al bisogno che ne avete in questo momento.

Voi, avere la presidentessa di Tourvel! Ma che ridicolo capriccio! Riconosco, sì, in


questo la vostra testa balzana che non sa desiderare se non ciò che ritiene
impossibile a ottenersi. Che cos’è questa donna dunque? Lineamenti regolari, se
volete, ma per nulla espressivi: non è mal fatta, ma è priva di grazia; sempre vestita
in modo ridicolo con quelle sue sciarpe sul petto e il corpo che le risale al mento!
Ve lo dico da amica: non ve ne occorrerebbero due di donne come quella per farvi
perdere tutta la vostra reputazione. Ma ricordatevi dunque il giorno in cui faceva la
questua a San Rocco, quando mi ringraziaste tanto di avervi procurato quello
spettacolo.

Mi pare ancora di vederla dare la mano a quello spilungone dai lunghi capelli,
mentre, sul punto di cadere a ogni passo, tiene sempre il suo cestello quattro spanne
sopra la testa di qualcuno, e arrossisce a ogni inchino! Chi vi avrebbe detto allora:
voi desidererete questa donna? Andiamo, visconte, arrossite, e ritornate in voi. Vi
prometto il segreto.

E poi, considerate un po’ le cose spiacevoli che vi aspettano! Che rivale avete da
combattere? Un marito! Non vi sentite umiliato a questa sola parola? Che
vergogna, se fallite!...

LETTERA VI

47
Il visconte di Valmont alla marchesa di Merteuil, il 9 agosto 17’’

Non c’è dunque donna che non abusi del potere che è riuscita a ottenere! E voi
stessa, voi, che io chiamai così spesso mia indulgente amica, cessate di essere tale e
non esitate ad attaccarmi nell’oggetto della mia tenerezza! In che modo osate
dipingere la signora di Tourvel! Quale uomo non avrebbe pagato con la vita simile
insolente audacia? E a quale altra donna, all’infuori di voi, non avrebbe procurato
almeno il mio risentimento? Di grazia, non sottoponetemi più a prove così dure;
non rispondo del mio coraggio a sostenerle. In nome dell’amicizia, aspettate che io
abbia avuto questa donna, prima di sparlarne. Non sapete che soltanto il piacere ha
il diritto di togliere la benda all’amore? Ma che dico? La signora di Tourvel ha
forse bisogno di illusione? No, per essere adorabile le basta essere se stessa. Le
rimproverate di vestirsi male; lo credo bene: ogni ornamento le nuoce; tutto ciò che
la nasconde la guasta. Appunto nell’abbandono del negligé è veramente
incantevole. Grazie agli spossanti calori che sopportiamo, una semplice vestaglia di
tela mi lascia vedere la sua persona rotonda e flessuosa. Solo una mussolina le
ricopre il seno, e i miei sguardi furtivi, ma penetranti, ne hanno già colto forme
incantevoli. Il suo viso, dite voi, non è espressivo. E che cosa esprimerebbe, nei
momenti in cui nulla parla al suo cuore? No, senza dubbio ella non ha, come le
donne civette, quello sguardo menzognero che seduce talvolta e ci inganna sempre.
Non sa coprire il vuoto di una frase con un sorriso studiato, e, sebbene abbia i più
bei denti del mondo, non ride se non di ciò che la diverte. Ma bisogna vedere come
nell’allegria del gioco, offre l’immagine di una gaiezza ingenua e schietta. Come,
accanto a un disgraziato che si affanna a soccorrere, il suo sguardo rivela pura e
pietosa bontà. E soprattutto bisogna vedere, alla minima parola di elogio e di
lusinga, dipingersi sul suo volto angelico il commovente impaccio di una modestia
che non è simulata!

In questo scambio di opinioni a distanza è evidente il duello in punta di fioretto tra due
personaggi entrambi virtuosi nell’arte della seduzione. Le frasi delle due lettere girano
attorno a un nucleo fisso di ragionamento: quanto è complicata e ambita la conquista amorosa
della signora di Tourvel da parte del visconte di Valmont? Le frasi dei due personaggi sono
impressionanti per l’esattezza descrittiva del ritratto che ognuno di loro compone della donna
al centro della contesa estetico-morale tra libertini. In sostanza la rettitudine morale e
comportamentale della donna oggetto del desiderio si trasforma, nelle disquisizioni delle
lettere, in un bersaglio più o meno prezioso da colpire nella speciale classifica libertina dei
due “epistolanti”. In questi dialoghi a distanza che sono le lettere è importante, per dare
incertezza al duello, non dare vantaggi a nessuno dei due contendenti. Più o meno la stessa
lunghezza delle frasi, argomenti che per entrambi possano stare in piedi, uno stile simile
seppure con accenti diversi e ben riconoscibili. Insomma se si vuole rendere interessante un
duello epistolare bisogna dare in partenza agli sfidanti le stesse armi retoriche.

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Esercizi
Lezione 4

Esercizio 6
Scegliere tra gli esempi riportati in questa
lezione due dialoghi e provate a continuarli,
ognuno per una ventina di righe, inserendo,
quando e se necessario, parti descrittive.

Esercizio 7
Trasportare ai giorni nostri le due lettere tra la
marchesa di Merteuil e il visconte di Valmont
citate nell’ultima parte della lezione. Farle
diventare due e-mail di botta e risposta tra due
personaggi, nostri contemporanei: uomo-
donna, ragazzo-ragazza, oppure due
personaggi dello stesso sesso. Cercando di
mantenere a tutti i costi l’argomento centrale
della seduzione ai danni di un terzo
personaggio. Conservando nel contraddittorio,
come nella versione originale di Laclos, la
posizione scettica assunta dalla marchesa e
quella ottimistica del visconte, facendole
duellare in successione.

49
50
Lezione 5
Ritmo e movimento nel monologo
Le citazioni e i suggerimenti presenti in questa lezione toccano un argomento che sembra
appartenere alla narrativa più sperimentale e d’avanguardia del passato. Invece il monologo è
entrato prepotentemente nell’uso degli scrittori più duttili e interessanti di oggi: autori che
nella maggior parte dei casi spargono il monologo in sapienti assaggi all’interno di racconti o
di romanzi che hanno una struttura aperta e sono in grado di accogliere questi spazi di
profonda intimità con i personaggi.

Nella lezione che segue porteremo esempi di letteratura del passato prossimo e del presente
che trattano il monologo con diversi approcci e diversi livelli di sviluppo. Si andrà dal
monologo interiore più classico e di derivazione joyciana al monologo mascherato da
dialogo, con una delle due voci che viene “oscurata” dall’autore (come se in una telefonata
ascoltassimo solo uno dei due interlocutori). Gli esempi di monologo, e le loro possibili
varietà, sono però infiniti.

Facendo un minimo di storia letteraria del monologo interiore o flusso di coscienza,


dall’inglese stream of consciousness, dobbiamo la sua prima definizione al filosofo
americano William James che nei Principi di psicologia, 1890, per primo ne scrisse e
ragionò. James Joyce ne fece largo uso nel suo rivoluzionario romanzo Ulysses, pubblicato
nel 1922. Tramite il monologo interiore il lettore può essere coinvolto interamente nella
narrazione perché arriva a leggere il pensiero e addirittura a “sentire” le parti più
inconsapevoli e nascoste dei personaggi. Ecco un saggio dall’Ulisse di Joyce, edizione
Mondadori, 1987, traduzione di Giulio De Angelis, pag. 169-170:

[...] Che serataccia di vento quando andai a prenderla c’era quella riunione della
loggia per quei biglietti di lotteria dopo il concerto di Goodwin nella sala dei
banchetti o dei ricevimenti del municipio. Lui e io dietro. Un foglio dello spartito
mi volò via di mano contro la cancellata della scuola media. Meno male che non.
Una cosa del genere le guasta tutta una serata. Il professor Goodwin avanti era
agganciato a lei. Tremulo su quegli stecchi di gambe, povero vecchio rimbambito. I
suoi concerti addio. Assolutamente la sua ultima comparsa su un palcoscenico.
Forse per qualche mese o forse per sempre. Me la ricordo che rideva al vento, col
grande bavero rialzato. Angolo di Harcourt Road ti ricordi che colpo di vento?

I pensieri del protagonista, Leopold Bloom, sembrano svelarsi proprio sotto gli occhi del
lettore. Vengono riprodotti dallo scrittore con fedeltà naturalistica anche i punti di contatto
più astrusi e le combinazioni e associazioni mentali che non si chiudono e restano campate in
aria come anacoluti. Pensiero e percezioni diventano così un’unica miscela narrativamente
potente, ma solo a patto di saperla gestire con maestria e senso del ritmo. Sempre avanzando
verso una meta drammaturgica, obiettivo che lo scrittore deve riuscire a non perdere mai di
vista, nonostante gli spezzettamenti di questo tipo di scrittura. Dopo il grande precursore
Joyce sono seguiti a breve distanza altri importanti autori che hanno usato magistralmente il
flusso di coscienza, come William Faulkner nel romanzo L’urlo e il furore, pubblicato nel

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1929, e nel successivo Mentre morivo, pubblicato nel 1930. Oppure vale la pena ricordare
Gita al faro di Virginia Woolf, pubblicato nel 1927. Queste sono tutte opere di valore
immenso che rappresentano i punti di massima espressione artistica del monologo interiore.
Per il nostro laboratorio di scrittura conviene portare degli esempi di monologo più prossimi
ai nostri giorni e più utili in termini di riproducibilità narrativa. A questo proposito si può
citare Il male oscuro di Giuseppe Berto, pubblicato nell’ormai lontano 1964. Questo è un
romanzo scritto con un italiano ancor oggi attualissimo e con un tipo di flusso monologante
che ingloba al suo interno sia i ragionamenti della voce narrante che i dialoghi con altri
personaggi, il presente come il passato prossimo e il passato remoto della vita del
protagonista. Tutto senza soluzione di continuità. Rispetto alla citazione precedente di Joyce
non c’è l’interruzione e il franare dei pensieri. Ma tutto è tenuto assieme da un logico e
funzionale controllo delle regole grammaticali e sintattiche. Solo la punteggiatura è ridotta al
minimo, specie i punti fermi. Berto riesce, attraverso una serie di incisi e proposizioni
parentetiche, a tenere perfettamente in pugno la struttura logica del discorso. Leggiamo
direttamente le parole di Berto sul suo atteggiamento nei confronti di questa materia narrativa
molto fluida:

[...] fatti e pensieri sgorgano in gran parte automaticamente da quelle oscure


profondità dell’essere dove la malattia prima e la cura poi sono andate a sfruculiarli
fino a fargli venire questa immoderata voglia di esternarsi della quale mi sembra di
essere passivo esecutore, nel senso che non le presto se non la mia diligenza
espressiva e diciamo pure stile.

Leggiamo ora da pagina 293 a pagina 294 de Il male oscuro, Rizzoli, 1983:

[...] il paziente dovrebbe dire in assoluta libertà tutto ciò che gli passa per la mente
senza mediazione o intervento di facoltà critiche, ma qui io temo proprio di non
esserci e infatti la prima resistenza che il vecchietto tenta di vincere in me è la
resistenza diciamo così espositiva, e per invogliarmi fin dal principio alla
schiettezza del discorso dice che se io a un certo momento in un dato discorso
sentissi la necessità o mi venisse comunque fatto di nominare per esempio l’organo
copulatorio maschile dovrei nominarlo nel modo più immediato per me ossia con lo
stesso termine con il quale abitualmente lo penso e lo definisco, ma io gli rispondo
subito che questo non posso proprio farlo perché non so se per decoro borghese o
altro malanno ereditato direi bene dal padre sia pure limitatamente alla parte
lessicale e sintattica adatto sempre il discorso alla persona alla quale lo rivolgo, e in
verità forse siamo in molti a farlo e a quanto ne so io i modi di dire sono parecchio
diversi a seconda che si parli a un cardinale o a un colonnello o a una battona da
marciapiede, e così con lui io mi sento impegnato a una lucida e corretta
esposizione di pensieri, né mai chiamerei cazzo il cazzo tanto per dire perché
invero io lo considero un rispettabilissimo uomo di scienza, e con gli uomini di
scienza io quell’affare lo chiamo pene, o membro virile, o verga, o asta, e via
dicendo, talvolta anche metaforicamente...

E qui evidentemente Berto accenna a una dotta citazione del famoso sonetto del Belli
intitolato Er padre de li santi in cui il membro virile è nominato di volta in volta come:

cavicchio, canaletto, e chiavistello,

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er gionco, er guercio, er mio, nerchia, pirolo,

attaccapanni, moccolo, brugnolo,

inguilla, torciorecchio, e manganello...

e via andando... Altra qualità del romanzo di Berto, che non vi sarà certo sfuggita, è quella di
condire tutto con uno smaliziato umorismo che allenta la presa drammatica della malattia
psichica. Ma l’aspetto più importante della sua prosa, quello che riesce a dare profondità a
quella specie di chiacchiericcio espanso del suo romanzo monologante, è che ogni lembo del
chilometrico pensiero della voce narrante porta con sé un perenne contraddittorio. Ogni
lunghissimo arco del periodare di Berto vive all’interno di un dilemma, condotto col ritmo e
col senso parossistico di una nevrosi vissuta al massimo della sua esplosività. Siamo di fronte
alla problematicità esasperata e clownesca di un Woody Allen ante litteram. Ecco un’altra
porzione di Male oscuro per meglio apprezzare la forza dirompente della problematicità
continua ed esilarante del ritmo e del senso che imprime Berto al suo libro. Questa scena poi
è straordinaria perché mostra, con perfetta coerenza narrativa, quale può diventare il destino
di un ipocondriaco, l’alter ego di Berto, che passa di ospedale in ospedale per curare il suo
male oscuro. In questa scena il protagonista-voce narrante si rende conto preoccupato, ma
ancora troppo stordito dall’anestesia per un intervento chirurgico sbagliato, della lotta senza
esclusioni di colpi che due donne stanno compiendo vicino al suo lettino d’ospedale, tra le
suorine che lo accudiscono. Lottano per stargli accanto e sperare così di impalmarlo, lui e
tutti i suoi malanni immaginari.

Male oscuro pag. 138-140

[...] ma io non sono disposto a farmi ammazzare più di quanto non abbiano già
fatto, io voglio andarmene a casa finché sono in tempo, anzi dico alla ragazzetta e a
quell’altra che nel frattempo è tornata a riprendere il suo posto di darsi da fare per
trovarmi un’autoambulanza, così grazie a Dio quello alla fine si convince che sono
un caso disperato, niente ormai può salvarmi affogato come sono nel vizio, pertanto
dice alla suora di farmi la morfina o qualsiasi altra cosa mi venga in mente di
volere, e infatti la suora mi fa questa sospirata iniezione con l’aria che deve aver
avuto Ponzio Pilato nella nota circostanza ossia facendo ben vedere che lei nella
mia dannazione da alcaloidi non c’entra per nulla, e intanto tra una cosa e l’altra si
è fatto notte e dopo che i dolori faticosamente recedono seppellendosi nel mio
corpo squartato mi assopisco, e dormo, e svegliandomi poi che è ancora notte vedo
la ragazzetta addormentata tutta vestita con una coperta addosso sopra l’altro letto
che è nella camera perché vi possano riposare appunto i parenti della vittima, meno
male mi dico che si sono messe d’accordo per i turni, invece più tardi quando al
mattino si sveglia per mezzo di un gran caffellatte con ciambella casalinga che una
suora graziosamente le porta vengo a sapere che a tarda sera c’è stato un
memorabile litigio in corridoio tra lei e l’altra, una lotta senza esclusione di colpi
specie per quanto riguarda la diffamazione ed evidentemente ne è emersa vincitrice
la ragazzetta, la qual cosa mi fa abbastanza contento per comprensibili ragioni, però
subito dopo mi spavento pensando accidenti se questa è riuscita a far fuori la
vedova è una potenza di cui bisogna aver paura, e i motivi di paura ovviamente
crescono dopo che lei mi spiega che è riuscita a vincere grazie al concorso nella

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lotta delle suore del reparto che lei era riuscita a conquistarsi facendo loro credere
che l’altra era protestante mentre ch’io sappia era semplicemente atea o areligiosa.
E in tal modo per via di questa manovra in fondo abbastanza semplice io ero
diventato per così dire possesso esclusivo della ragazzetta la quale aveva raccontato
a sua madre che andava da una cugina a Minturno e invece era stata da me notte e
giorno spalleggiata dal corpo compatto delle suore che tra l’altro aveva invitate al
nostro imminente matrimonio, e la prima volta che io sentii parlare di questa
faccenda volevo protestare con adeguata fermezza ma lei mi fece segno di star
buono, e poi in separata sede mi illustra la sua teoria che la gente va presa per il suo
verso se si vuol cavarne qualcosa di buono, e in realtà ora quando mi tornavano
quei tremendi dolori la suora infermiera non faceva più tante storie per la morfina e
d’altra parte neppure i medici facevano più storie sebbene ormai si fossero convinti
che nel mio caso non si poteva proprio parlare di assuefazione agli stupefacenti, io
credo che la loro arrendevolezza dipendeva soprattutto dalla circostanza che dopo
quanto era successo gli stavo antipatico e mi consideravano più che altro un ospite
indesiderato, ma se loro avevano poca voglia di tenermici io ne avevo ancor meno
di starci in quel luogo sfortunato sebbene ormai non mi convenisse uscire tanto
presto perché siccome stavo lì per colpa loro mica mi avrebbero fatto pagare la
degenza, e invece quando dopo due settimane venne finalmente il momento di
uscire mi presentarono un conto non voglio dire quanto grosso, con specificato
tanto per la degenza e tanto per i medicinali e tanto per l’operazione suddiviso tra
professore aiuti e anestesista, cioè tutta la combriccola che aveva cooperato nella
bella impresa, e padre mio sapessi quanto malvolentieri tirai fuori quei soldi che
erano parecchi inquantoché sembra che un’operazione sbagliata non debba costare
meno di una giusta, e a pensarci bene non è possibile che sia altrimenti se no allo
scopo di spendere meno soldi tutti andrebbero a ficcare il naso nelle operazioni per
vedere se sono sbagliate o giuste, e io penso che quasi sempre sono sbagliate
almeno secondo la conoscenza mia.

In altri due romanzi italiani molto più recenti l’uso del monologo diventa un potente modo
espressivo per calare la storia in uno spazio angusto di violenza parossistica. Violenza vissuta
attraverso lo sguardo dilatato di chi è posseduto da raptus assassini o di chi ne subisce le
conseguenze. In questi casi il monologo non è l’impianto totalizzante dell’opera, ma ne
rappresenta una parte minoritaria ed è utilizzato solo per valorizzarne gli effetti espressivi.

Il primo passo è preso da Almost blue di Carlo Lucarelli, Einaudi Stile Libero, 1997, pag.
169-171:

[...] Il nastro si è bloccato e ha fatto scattare il tasto dello stop. La musica continua
a riempirmi le orecchie, scorticandomi i timpani poi mi accorgo che è finita e allora
cessa di colpo. LE CAMPANE.

Sbatto la testa all’indietro, contro il finestrino e continuo a batterla a ogni rintocco


che mi esplode nel cervello, don, don don, sempre più forte. Lui urla: – Fermo! Ti
sparo! Fermo! – ma io non ci riesco e sbatto, spinto indietro dai rintocchi che mi
sfondano la fronte, sbatto e sbatto finché non sento lo schianto, dietro, del vetro che
si incrina. Mi strappo le cuffie dalle orecchie e le campane adesso suonano
fortissimo, DON, DON, DON, e urlo anch’io e mi copro le orecchie con i gomiti

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perché ho i polsi incatenati e dico: – Mamma, mamma! – e lui urla: – Fermo,
fermo! Ti sparo, cazzo! ma non spara, punta la pistola, non spara e mi ascolta.

Io urlo: – Mamma! – Mi schiaccio i gomiti sulle orecchie e urlo: – Mamma!


Mamma sento le campane!

– Quali campane? – dice lui. – Come sono le campane? Cristo! Autoipnosi! Cristo!
Dimmi come sono le campane?

Spalanco gli occhi. Le palpebre mi si arricciano, si arrotolano all’indietro e i bulbi


oculari si gonfiano come se volessero schizzare fuori, spinti dalle lacrime che mi
inondano le guance come un acquario che scoppia. Il labbro di sopra preme su
quello di sotto e lo schiaccia in giù, sul mento, mi allunga la faccia fino al petto e la
voce mi esce da un buco, stretta e squillante, come l’urlo del feto di un delfino.

– Mamma! Sento le campane! Mamma! MAMMA!

Mi scuoto sul sedile, stringo le braccia attorno alle orecchie e mi scuoto sul sedile,
sbattendo contro il vetro e contro lo schienale di pelle. Tremo e urlo tra i denti
stretti, ma le campane non smettono, DON, DON, DON, non smettono, non
smettono.

Lontana, la sua voce che mi punge il cervello.

– Fermo! Stai fermo! Non ti muovere e dimmi dove sei? Chi sei adesso? Chi sei?

Urlo. La bocca mi si apre e inghiotte quasi tutto il mio viso, schiacciandomi gli
occhi contro la fronte. La voce mi esce gonfia e cupa, mi riverbera nella gola come
nel fondo di una caverna nera.

– Quel bambino mi fa venire i brividi, Agata! Quello non è normale! Io non ce lo


voglio in casa! O me o lui! O me o lui! O me o lui!

– MAMMAAA!

La bocca mi si chiude, le labbra mi si piegano in fuori e la voce mi si stringe in uno


strillo così acuto che i vetri della macchina esplodono in una cascata di schegge
bianche.

Perché? – chiede lui, lontano, lontano. – Perché non vogliono Alessio? Non ti
muovere, non ti avvicinare o ti sparo! Chi non vuole Alessio? Perché?

– L’uomo grida con la mamma. Io sono a letto nella mia stanza ma di là si sente
sempre tutto lo stesso. L’uomo grida con la mamma. Dice quel bambino rompe il
cazzo, Agata! E sempre fai piano se no ci sente, fai piano se no ci sente! Te ne devi
liberare, Agata, o me o lui! Dice te la ricordi l’altra notte? Te lo ricordi quando
stavamo scopando e all’improvviso si spalanca la porta della camera ed entra
questo bambino in mutandine e canottiera che Urla MAMMA, MAMMA! SENTO
LE CAMPANE! Mi mette i brividi, Agata! Mi fa paura! Questo bambinetto piccolo
piccolo, con le mani schiacciate sulle orecchie, che piange e strilla allucinato
MAMMAAAAA!

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Urlo ma la voce mi si perde nei rintocchi che schiantano la macchina e piegano il
telaio, schiacciando il tetto su di noi. Voglio scappare, voglio uscire ma lui grida: –
Non ti muovere, cazzo, no! – e allora io alzo le mani e gli faccio saltare via la
pistola. Poi la pelle mi si spacca all’improvviso, si ritira sulle ossa, come gomma, e
il naso mi esce fuori di colpo, trascinandosi dietro il resto della faccia.

Scatto in avanti e prima che lui riesca a muoversi gli pianto il mio becco in un
occhio.

Qui, anche se la punteggiatura è usata in tutta la sua gamma praticabile, il ritmo è frantumato
dalle voci e dalle allucinazioni della voce narrante. Anche quando a parlare è un “lui”,
estraneo all’io narrante, quella stessa voce appare come l’ultimo gancio razionale dell’io a
contrastare la follia scatenata dalla pressione aggressiva di troppe connessioni mentali,
dolorose e insopportabili. Tutte le voci dei personaggi sono di fatto interpretate da un unico
attore che modella in una degenerazione schizofrenica ogni parte all’interno di uno stesso
copione e lo porta a rappresentare un rituale di distruzione umana totale. Il testo si muove con
un ritmo molto scandito e dei ritorni di parole che “ribattono” ferendo il senso e astraendolo
in una dimensione surreale, survoltata dal punto di vista percettivo.

Altro brano monologante immerso in una scrittura di puro livello sensitivo è il finale del libro
Io non ho paura di Niccolò Ammaniti, Einaudi Stile Libero, 2001, pag 218-219:

Ho aperto gli occhi. La gamba mi faceva male. Non era la gamba di prima. L’altra.
Il dolore era una pianta rampicante. Un filo spinato che si attorciglia alle budella.
Una cosa travolgente. Rossa. Una diga che si è rotta.

Niente può arginare una diga che si è rotta.

Un rombo montava. Un rombo metallico che cresceva e copriva tutto. Mi pulsava


nelle orecchie.

Ero bagnato. Mi sono toccato la gamba. Una cosa densa e calda mi impiastricciava
tutto.

Non voglio morire. Non voglio. Ho aperto gli occhi. Ero in un vortice di paglia e
luci. C’era un elicottero.

E c’era papà. Mi teneva tra le braccia. Mi parlava ma non sentivo. I capelli gli
brillavano mossi dal vento.

Luci mi accecavano. Dalle tenebre spuntavano esseri neri e cani. Venivano verso di
noi.

I signori della collina. Papà, stanno arrivando. Scappa. Scappa. Sotto il rombo il
cuore mi marciava nel petto. Ho vomitato. Ho aperto gli occhi di nuovo. Papà
piangeva. Mi carezzava. Le mani rosse. Una figura scura si è avvicinata. Papà lo ha
guardato. Papà, devi scappare. Nel rombo papà ha detto: – Non l’ho riconosciuto.
Aiutatemi, vi prego, è mio figlio. È ferito. Non l’ho... Ora era di nuovo buio.

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E c’era papà. E c’ero io.

Il monologo è qui reso col fiatone, con frasi brevi e singhiozzate. Le sensazioni mescolano
aspetti percettivi con immagini e metafore che rendono tutto confuso e opprimente. Le visioni
della voce narrante si succedono una dopo l’altra come diapositive incongrue e terrificanti.
Fino alla chiusura autoconsolatoria in cui, con l’ultimo respiro rimasto, la voce narrante
prende atto di spegnersi, ma anche di ritrovare nel buio la presenza del papà.

Due begli esempi “nostrani” di letteratura realizzata con l’arte difficile del monologo. Ma il
monologo, per quanto assurdo e contraddittorio, può anche procedere usando impostazioni
diverse dalla prima persona. Vediamone ancora un esempio italiano da 54 di Wu Ming, nome
che rappresenta un collettivo di narratori composto da 5 persone, Einaudi Stile Libero, 2002,
Capitolo 7, pag. 392-3:

[...] Bologna, bar Aurora, 8 maggio

Chiariamoci: noi del bar Aurora non siamo vecchie sottane che guardano sempre il
piatto degli altri perché nel loro, ormai, ci son soltanto gli ossi. D’accordo non
avremo da raccontarci delle gran chiavate, però, anche senza quelle, ce n’è da dire
lo stesso, altroché, che il tempo è uno schifo per via degli sperimenti nucleari e il
Bologna è uno schifo perché Viani fa catenaccio anche col Legnano e l’Italia è uno
schifo perché comandano i preti. Capita poi a tutti di aver un amico con dei
problemi e quando succede, è normale che se ne parla, magari c’entra anche il
pettegolezzo, ma di solito si fa per trovare il modo di aiutarlo. Se poi questo amico
è quello che dà tono alle serate o che se ha il muso lui si finisce per avercelo tutti,
allora i suoi guai diventano un affare comune, da risolvere insieme.

Chi non frequenta un bar forse non può capire fino in fondo, ma non c’è niente di
peggio di quando il gestore c’ha i maroni girati. Non puoi più scherzare su niente,
non c’è verso di bere a credito, bisogna evitare tutta una serie di discorsi e pure
l’espresso sembra fatto col surrogato. Insomma, ormai è quasi un mese che
Capponi fa il moscone in fondo al fiasco, sempre a brontolare, e da quando è
tornato il fratello, anche peggio, i due quasi non si parlano, se non per dire passami
quello. Il brutto poi è che di questo problema non puoi parlarne così, come se
niente fosse, bisogna che non ti fai sentire e siccome sei nel loro bar, la cosa
diventa complicata. L’unica maniera è mettersi tutti intorno a un tavolo, con
“L’Unità” nel mezzo, a far finta di leggere e commentare, ogni tanto Bottone dice
un titolo ad alta voce e se Capponi viene da questa parte, Garibaldi si mette a
parlare dell’Indocina.

Con mossa teatrale e altamente coreografica, è tutto il bar in una visione totale che si racconta
collettivamente. Ecco che il “noi” voce narrante diventa un modo per esprimere un umore
depresso che aleggia su tutti i frequentatori del bar e che poi si definisce meglio indugiando,
inquadratura dopo inquadratura, sulle facce e sui comportamenti dei clienti. Qui il risultato,
che potremo definire con un ossimoro “monologo plurale”, è quello di uno sguardo ironico e
sociologico che fotografa un bar nel suo complesso e invita il lettore a una visita guidata e
particolareggiata. Venite a vederci, venite al bar Aurora e vi farete un’idea su che razza di
gente siamo.

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Per chiudere questa carrellata di esempi ci sembra opportuno mostrare il solitario dialogo, o
“dialogo col morto”, del geniale David Foster Wallace. Non è propriamente un monologo
perché l’autore ci priva volontariamente delle parole di uno dei due interlocutori (che è
segnalato da una D maiuscola). Quello che resta è un’unica voce e allora godiamocela, si fa
per dire, ancora, come in una precedente citazione, da Brief interviews with hideous men,
1999, Brevi interviste con uomini schifosi, Einaudi Stile Libero, 2000, traduzione di Ottavio
Fatica e Giovanni Granato, pag. 24-26.

– Va bene, lo sono, okay, sì, ma aspetta un attimo, okay? Voglio che cerchi di
capire questo. Okay? Sta’ a sentire. Lo so che sono lunatico. Lo so che certe volte
mi chiudo in me stesso. Lo so che non è facile stare con uno così, okay? Va bene?
Ma questa cosa che ogni volta che mi vengono le lune o mi chiudo tu pensi che me
ne vado o che mi preparo a scaricarti... non mi va giù. Questo fatto che hai sempre
paura. Mi logora. Mi fa sentire come se dovessi, che so, nascondere qualunque
stato d’animo posso avere perché tu pensi subito che riguarda te e che mi preparo a
scaricarti e andarmene. Tu non ti fidi di me. È così. Non dico che vista la nostra
storia mi meriterei tutta questa fiducia a occhi chiusi. Ma tu non me ne dai
nemmeno un briciolo. Come dire sicurezza zero, qualunque cosa faccio. Okay? Ho
detto che promettevo di non andarmene e tu hai detto che ci credevi che saremmo
rimasti insieme per chissà quanto stavolta, e invece non l’hai fatto. Okay?
Ammettilo, no? Non ti fidi di me. Devo sempre camminare sulle uova. Ti rendi
conto? Non posso mica passare la vita a rassicurarti.

D.

– No, non dico che questo ti deve rassicurare. Questo è solo per cercare di farti
capire... okay, sta’ a sentire... è che ci sono alti e bassi, okay? Certe volte uno si
sente più coinvolto che altre. È così, c’è poco da fare. Ma tu alti non sai che vuol
dire. Tu non li ammetti. E lo so che in parte è colpa mia, okay? Lo so che le altre
volte non ti hanno fatto sentire granché sicura. Ma io questo non lo posso cambiare,
okay? Qui stiamo parlando di adesso. E adesso mi sento tale e quale a quando non
ho voglia di parlare o divento un po’ lunatico o chiuso e tu pensi che ho in mente di
scaricarti. E questo mi spezza il cuore. Okay? Mi spezza il cuore. Forse se ti amassi
un po’ meno o ci tenessi meno a te riuscirei a mandarlo giù. Ma non ci riesco.
Perciò sì, è questo che significano le valigie, me ne vado.

D.

– È proprio quello che temevo, che l’avresti presa così. Lo sapevo, avresti pensato
che avevi ragione ad avere sempre paura e a non sentirti mai sicura, a non fidarti di
me. Lo sapevo che la versione sarebbe stata «Ecco, vedi, hai promesso che non
l’avresti fatto e invece te ne vai.» Lo sapevo ma voglio cercare lo stesso di
spiegare, okay? E lo so che probabilmente non capirai nemmeno questo, ma –
aspetta – cerca di ascoltarmi e magari di afferrare questo, okay? Pronta? Il fatto che
vado via non è una conferma di tutte le tue paure sul mio conto. Non lo è. È a causa
delle tue paure. Okay? Lo capisci o no? Sono le tue paure che non riesco a mandar
giù. Sono la tua sfiducia e la tua paura che ho cercato di combattere. E non posso
più farlo. Si sono scaricate le batterie. Se ti amassi appena un po’ di meno magari lo
manderei giù. Ma questa cosa mi sta uccidendo, la sensazione costante che ti
spavento sempre e non ti faccio mai sentire sicura. Riesci a capirlo o no?

58
D.

– Certo che è ironico dal tuo punto di vista, lo capisco benissimo. Okay. E capisco
che ora provi solo odio per me. E ce ne ho messo di tempo per essere pronto ad
affrontare te che provi solo odio per questo e quel tuo sguardo come di completa
conferma di tutte le paure e i sospetti sulla tua faccia se solo potessi vederlo, okay?
Giuro che se in questo momento tu potessi vedere la tua faccia chiunque capirebbe
benissimo perché me ne vado.

D.

– Mi dispiace. Non voglio scaricare tutto su di te. Mi dispiace. Non sei tu, okay?
Cioè, deve dipendere da me se non ti fidi dopo tutte queste settimane e non sopporti
nemmeno dei piccoli normalissimi alti e bassi senza pensare subito che mi preparo
ad andare via. Non so cos’è, ma dev’essere così. Okay, e lo so che la nostra storia
non è il massimo, ma ti giuro che tutto quello che ho detto lo pensavo, e ci ho
provato al mille per cento. Giuro davanti a Dio che l’ho fatto. Mi dispiace. Darei
qualsiasi cosa per non ferirti. Io ti amo. Ti amerò per sempre. Spero che ci crederai,
ma mi sono stufato di provare a convincerti. Ti prego solo di credere che ci ho
provato. E non pensare che dipende da qualcosa che non va in te. Non farti questo.
Dipende da noi, siamo noi il motivo per cui me ne vado, okay? Lo capisci? E non è
di questo che hai sempre avuto paura? Okay? Lo capisci? Lo capisci o no che esiste
l’eventualità anche minima che possa esserti sbagliata? Questo almeno me lo
concedi, no? Perché non ti credere che io mi diverto, okay? Andarmene così,
vedere la tua faccia così come ultima immagine che mi resterà nella mente. Lo
capisci che anch’io posso sentirmi distrutto per questo? Sì o no? Che in questo non
sei sola?

La tecnica narrativa di Wallace è come al solito impressionante. L’impasto della voce che
monologa, o meglio che parla col morto, è mellifluo, falsamente rassicurante. È una voce che
vive il monologo con doppiezza. Doppiezza perché la voce solista contiene anche le ragioni
della voce assente, la voce zittita da Wallace. La voce monologante comprende anche quella
annichilita dal dolore e la umilia facendone un’imitazione spudoratamente faziosa e
piagnucolosa. Il tono che incoraggia la propria assoluzione è da predica. Un monologo
assolutamente spregevole. Ossia il massimo del risultato per il libro composto da Wallace.

59
Esercizio
Lezione 5

Esercizio 8
Prendendo spunto da Wallace, assegnate a un
personaggio del racconto che state scrivendo
un monologo molto caratterizzato e rivelatore
della sua personalità. Il monologo deve essere
lungo intorno alle 30 righe e, solo se necessario,
vanno inserite anche parti descrittive. Puntate
decisamente a una scrittura, per dirla alla Ezra
Pound, di “prima intensità”. Cioè a
un’immedesimazione fortissima col
personaggio.
Le parole e i pensieri espresse dal vostro
personaggio dovranno riflettere il ritmo
interno della sua personalità, compresi tic e
storture psichiche. La sua voce dovrà aprirsi su
parti di sé ancora inesplorate, parti che
potranno tornarvi utili per ritoccare e
precisare il suo ritratto caratteriale all’interno
dei vostri racconti.

60
61
Lezione 6
Ritmo e movimento nel racconto fantastico-
surreale
Cominciamo questa lezione in modo veramente “fantastico” con la serie di brani di racconti
che seguono e che sono quasi tutti inizi:

da Dentaphilia di Julia Slavin, 1999, tratto dalla raccolta The Woman Who Cut Off Her Leg at
the Maidstone Club, Odontofilia, nella raccolta di racconti Burned Children of America,
minimum fax, 2001, traduzione di Martina Testa, pag. 225

Una volta ero innamorato di una donna a cui crebbero denti su tutto il corpo. Il primo fece la
sua comparsa sotto forma di un puntino duro sull’ombelico.

da Godzilla’s Twelve Step Program, di Joe R. Lansdale, 1994, Godzilla in riabilitazione,


nella raccolta di racconti Maneggiare con cura, Fanucci Editore, 2002, traduzione di
Umberto Rossi, pag. 57

Godzilla, che sta andando al lavoro in fonderia, vede un grosso edificio che sembra
essere fatto interamente di rame lucido e scuro vetro solare riflettente. Vede la sua
immagine rispecchiata nelle vetrate e pensa ai vecchi tempi, si chiede cosa
proverebbe a saltare sull’edificio, sputargli fiamme addosso, annerire le finestre con
il suo fiato ardente, poi ballare gioiosamente tra le rovine fumanti.

da The Leading Man, di Aimee Bender, inedito negli Usa, Il protagonista, nella raccolta di
racconti Burned Children of America, minimum fax, 2001, traduzione di Laura Pugno, pag.
13

Il ragazzo era nato con le dita a forma di chiave. Tutte tranne una, il mignolo della
destra, avevano rilievi aguzzi dal lato interno, per tutta la lunghezza, e un cerchio
piatto sul polpastrello.

da Eine Kreuzung, di Franz Kafka, 1917, Un incrocio, nella raccolta Tutti i racconti, 1998,
Oscar Mondadori, traduzione di Rodolfo Paoli, pag. 383

Possiedo uno strano animale, metà gattino, metà agnello. L’ho ereditato da mio
padre, ma si è sviluppato soltanto ai miei giorni, prima era molto più agnello che
gattino.

da Carta a una señorita en París, di Julio Cortázar, racconto tratto dalla raccolta Bestiario,
1951, Lettera a una signorina a Parigi, da Bestiario, Einaudi, 1996, traduzione di Flaviarosa

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Nicoletti Rossini, pag. 10

[...] Di tanto in tanto mi capita di vomitare un coniglietto. Quando sento che sto per
vomitare un coniglietto, mi ficco due dita in bocca come una pinza aperta, e aspetto
di sentire nella gola la peluria tiepida che sale come un’effervescenza di sali di
frutta.

Perché vi ho proposto questa sequenza di brani tra l’inquietante e l’assurdo? Perché dovendo
scegliere un genere letterario da mettere alla prova del fuoco del ritmo e del movimento mi è
sembrato più ricco di spunti e possibilità espressive proprio il racconto fantastico. Attraverso
il racconto fantastico si può interpretare con maggior libertà ideativa ed espressiva una data
realtà mettendola a soqquadro e sovvertendo i rapporti tra gli elementi compositivi in campo.
Tutto questo si può ottenere grazie alla potenza immaginifica radicata in questo genere
letterario. Un bel racconto fantastico nasce da immagini fortissime e suggestive. E queste
immagini, che si stagliano potenti fin dalle prime righe, danno linfa vitale allo scorrere di
tutto un racconto. Quando in un laboratorio di scrittura in aula l’immaginazione dei nostri
allievi diventa fiacca e si scolorisce in modo preoccupante, la terapia d’urto consiste in una
bella successione di letture di racconti fantastici. E così d’improvviso le relazioni più
nascoste e impensate tra personaggi e ambienti delle storie ritrovano ritmo e senso, attraverso
aperture sorprendenti, ma possibili. La serie di inizi che precede la lezione odierna è
indicativa di quanto siano condizionanti, più che in altri ambiti narrativi, gli incipit del genere
fantastico. Le parole che danno vita alla storia offrono subito un senso di straordinarietà
all’ambiente e ai personaggi che agiranno nel racconto. L’immagine iniziale determina il
movimento dell’intero racconto. Si tratta quasi sempre di un’immagine che influisce, per le
sue caratteristiche di senso visivo, anche sul tono del racconto che può essere, fin dall’incipit,
ansiogeno, beffardo, ironico, drammatico, onirico, comico, erotico, demenziale, ecc. I
racconti fantastici sono sempre impostati su un’eccezione che si innesta sorprendentemente
nella realtà circostante. E questa situazione eccezionale viene subito mostrata dall’autore in
modo che con gradualità, più o meno parossistica, lo svolgersi della storia possa avere un
forte tirante drammatico. La trama tira la corda in ogni parte della narrazione e la storia può
fermarsi solo al termine della concatenazione di effetti narrativi che è in grado di produrre
l’immagine iniziale. L’autore ha il compito di sfruttare al massimo ogni singola particella
narrativa racchiusa nella visione iniziale, senza sprecare nessuna stilla creativa. L’avvio del
racconto fantastico dichiara subito al lettore se l’invenzione che muove il suo mondo
narrativo dominerà la storia e di conseguenza il suo ritmo e movimento. Oppure se sarà lo
stile dell’autore a contare di più, nonostante il sovvertimento del mondo narrato provocato dal
meccanismo ideativo. Per capire meglio il senso di queste riflessioni diamo un’occhiata a due
incipit di racconto fantastico dalle qualità contrastanti. Un incipit mostra dalla prima frase la
peculiarità straordinaria della storia e l’altro invece esalta e mette in luce lo stile dell’autore
sciogliendo l’immagine decisiva della storia solamente a racconto avviato.

Cominciamo da Franz Kafka e dal suo Eine Kreuzung, Un incrocio, del 1917, da Tutti i
racconti, Oscar Mondadori, 1998, traduzione di Rodolfo Paoli, pag. 383-384. In questa breve
narrazione la prima frase influenza tutto il resto:

Un incrocio

63
Possiedo uno strano animale, metà gattino, metà agnello. L’ho ereditato da mio
padre, ma si è sviluppato soltanto ai miei giorni, prima era molto più agnello che
gattino. Adesso invece ha, direi, tanto dell’uno quanto dell’altro: del gatto ha la
testa e gli artigli, dell’agnello la grossezza e la forma, di entrambi gli occhi selvaggi
e fiammeggianti, il pelo morbido e aderente, i movimenti ora saltellanti ora
striscianti. Sul davanzale al sole si acciambella e fa le fusa, sul prato corre
all’impazzata ed è quasi impossibile rincorrerlo. Quando incontra un gatto fugge,
mentre invece aggredisce gli agnelli. Nelle notti di luna la grondaia è la sua
passeggiata preferita. Non sa miagolare e ha ripugnanza dei topi. Se ne sta per ore
in agguato presso il pollaio, ma non ha mai approfittato d’una occasione di
uccidere.

Lo nutro di latte dolce che è quello che gli fa più bene. Lo succhia a lunghe sorsate,
facendolo passare tra i denti da animale feroce. Naturalmente è un grande
divertimento dei bambini. La domenica mattina ricevo le visite: tengo la bestiola in
grembo e i bambini di tutto il vicinato mi stanno intorno.

Allora fanno le più strampalate domande alle quali nessuno può rispondere: perché
esiste un solo animale così, perché lo possiedo proprio io, se ce n’è mai stato un
altro prima di questo, e come sarà dopo morto, e se si sente solo, e perché non ha
cuccioli, come si chiama.

Io non mi sforzo di rispondere, ma senza altre spiegazioni mi limito a mostrare ciò


che possiedo. Qualche volta i bambini portano gatti, una volta portarono persino
due agnelli. Contrariamente a ciò che si aspettavano, non ci furono però scene di
riconoscimento. Gli animali si guardarono tranquilli e accettarono evidentemente la
loro esistenza come una realtà divina.

Nel mio grembo l’animale non ha né paura né aggressività. Quando mi si stringe


addosso si sente bene più che mai. È attaccato alla famiglia che lo ha allevato. E
non credo sia non so quale fedeltà straordinaria, è soltanto il giusto istinto di un
animale che sulla terra ha un numero infinito di parenti, ma forse nessun
consanguineo prossimo, cui pertanto è sacra la protezione che ha trovato in casa
nostra.

Certe volte mi viene da ridere, quando vedo che mi fiuta, mi striscia fra le gambe e
non vuol staccarsi da me. Non contento di essere agnello e gatto pare quasi che
voglia essere anche cane. Una volta, come può capitare a tutti, non riuscivo a
trovare un ripiego nei miei affari e in tutto ciò che vi è collegato, stavo per
abbandonare ogni cosa e in questo stato d’animo ero in casa, sulla sedia a dondolo,
l’animale sulle ginocchia, allorché, chinando per caso lo sguardo, vidi gocciolare
lagrime dai suoi enormi baffi. Erano lagrime mie o erano sue? Quell’anima di gatto
e agnello aveva anche ambizioni umane? – Da mio padre non ho ereditato molto,
ma devo dire che questo pezzo qualche cosa vale. Cose che penso sul serio.

Ha l’inquietudine di entrambi, quella del gatto e quella dell’agnello, per quanto


siano diverse, perciò non sa stare nella sua pelle. Talvolta balza sulla sedia accanto
a me, mi appoggia le zampe anteriori sulla spalla e accosta il muso al mio orecchio.
Pare che mi dica qualcosa e in verità poi si sporge e mi guarda in faccia per vedere
l’impressione che mi hanno fatto le sue comunicazioni. Per essere compiacente,
fingo di aver capito e annuisco. Allora salta sul pavimento e fa un balletto.

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Per questo animale il coltello del macellaio potrebbe forse essere una redenzione,
ma avendolo ereditato gliela devo negare. Perciò dovrà aspettare finché gli manchi
il fiato, anche se talvolta mi guarda con intelligenti occhi umani che invitano ad
agire con intelligenza.

In questo racconto su un ibrido Kafka mescola le caratteristiche fisiche di un animale con


quelle dell’altro e così i loro comportamenti. La forza letteraria dell’autore sta nel non
concedere niente alla spettacolarità degli aspetti mostruosi presenti nella storia. La voce
narrante descrive in successione, con pacatezza e serenità domestica, le specialità ibride di
questo unico esemplare di agnello-gatto. È nel rapporto di intimità casalinga che Kafka gioca
le sue carte di grande invenzione artistica. Questo animale favoloso in fin dei conti assume
dei comportamenti del tutto consoni alla sua conformazione biologica. Chi lo descrive lo fa
abbassando di proposito ogni eccesso e alterazione di tono. Il taglio è dimesso e forse per
questo più preoccupante per il lettore. Tutta questa tranquillità espressiva contrasta con
l’immagine iniziale.

Il ritmo cozza contro il senso e crea contrasto drammaturgico. Chiunque voglia vedere
nell’ibrido un fenomeno da baraccone non trova niente di particolarmente impressionante e
spaventevole. La sua al massimo, usando un’antilogia, è una ferocia-docile come è benissimo
rappresentata nella frase:

Lo nutro di latte dolce che è quello che gli fa più bene. Lo succhia a lunghe sorsate,
facendolo passare tra i denti da animale feroce.

Quello che non è visto da nessuno, a parte la voce narrante e il lettore suo testimone
privilegiato, e che si presenta come veramente eccezionale è il contegno sentimentale e
fortemente partecipe all’umano soffrire da parte dell’ibrido:

allorché, chinando per caso lo sguardo, vidi gocciolare lagrime dai suoi enormi
baffi. Erano lagrime mie o erano sue? Quell’anima di gatto e agnello aveva anche
ambizioni umane?

Questa notazione rende l’ibrido una specie di alter ego animale della voce narrante. Tra loro
due, o meglio loro tre (l’ibrido vale per due), si crea un’intesa, o una parvenza di intesa, che
innesca il balletto mirabolante dell’ibrido:

Talvolta balza sulla sedia accanto a me, mi appoggia le zampe anteriori sulla spalla
e accosta il muso al mio orecchio. Pare che mi dica qualcosa e in verità poi si
sporge e mi guarda in faccia per vedere l’impressione che mi hanno fatto le sue
comunicazioni. Per essere compiacente, fingo di aver capito e annuisco. Allora
salta sul pavimento e fa un balletto.

Questa intesa reciproca, recitata e artefatta dalla voce narrante, crea un effetto straniante, di
comicità cabarettistica. Nel finale invece si accumulano d’improvviso delle nuvole nere che
trattano, con la stessa rapidità e incisività del resto del brano, il tema della morte. Una morte e

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un racconto che vedono entrambi rinviata la fine grazie a un finale aperto e quindi a un
ultimo grande colpo di coda del magnifico Kafka.

Di ben altro registro espressivo è il racconto fantastico di Julio Cortázar Carta a una señorita
en París, 1948, Lettera a una signorina a Parigi tratto dalla raccolta Bestiario del 1951,
Bestiario, edizione Einaudi Tascabili, 1996, traduzione di Flaviarosa Nicoletti Rossini.

Il fantastico è qui inserito all’interno di un’ulteriore tipologia narrativa che è il genere


epistolare. Così facendo Cortázar aumenta, se possibile, il grado di difficoltà del racconto
mettendo le immagini perturbatrici del fantastico all’interno di una cornice linguistica
volontariamente leziosa e rococò. Lo stile della lettera è barocco per quanto è carico, con
bella e consapevole ironia, di elementi di arredo artistico-culturale (si parla di quartetto di
Rarà, nomignolo confidenziale che sta per Ravel, libri pregiati, servizi da tè e cineserie varie,
modulazione di Ozenfant, sinfonia di Mozart, ecc.). Le frasi sono intrise di garbo e antiquato
rispetto galante per l’interlocutrice lontana. Sono frasi lunghe e dettagliatissime nel
descrivere l’interno di un appartamento che fa pendant con la raffinatezza dello stile
narrativo. Cortázar sa perfettamente che la deflagrazione del fantastico all’interno di questa
situazione di soffocante rigoglio di graziosità e carinerie avrà l’effetto di un’esplosione di
ritmo e senso. C’è un piccolo, infinitesimale segno premonitore, in mezzo a un contesto
letterario così ridondante e affettato, che compare per la miseria di 5 parole alla seconda riga
del racconto. Un lampo di senso stonato che allude misteriosamente a qualcosa di molto
diverso da quello che Cortázar sta illustrando. Una frase criptica, insinuante: “Non tanto per i
coniglietti”, che sottolineiamo di proposito.

Lettera a una signorina a Parigi

Andrée,

io non volevo venire ad abitare nel suo appartamento di via Suipacha. Non tanto
per i coniglietti, piuttosto perché mi addolora entrare in un ordine chiuso, costruito
ormai fin nelle più sottili maglie dell’aria, quelle che in casa sua preservano la
musica della lavanda, il volo di un piumino per la cipria, il gioco del violino con la
viola nel quartetto di Rarà. Mi amareggia entrare in un ambito dove qualcuno che
vive in modo preciso e raffinato ha disposto tutto come in una reiterazione visibile
della propria anima, qui i libri (da una parte in spagnolo, dall’altra in inglese e in
francese), lì i cuscini verdi, in questo preciso punto del tavolino il portacenere di
cristallo che sembra il frammento di una bolla di sapone, e sempre un profumo, un
suono, un crescere di piante, una fotografia dell’amico morto, rituale di vassoi del
tè e mollette per lo zucchero... Oh, cara Andrée, com’è difficile opporsi, anche
accettandolo con l’intera sottomissione del proprio essere, all’ordine minuzioso che
una donna instaura nel luogo della sua lieve residenza. Quale colpa diventa il
prendere una tazzina di metallo e spostarla all’altra estremità della tavola, posarla lì
semplicemente perché uno è venuto con i suoi dizionari di inglese, e proprio da
questa parte, a portata di mano, è dove dovranno stare. Muovere quella tazzina
equivale a un orribile rosso improvviso nel bel mezzo di una modulazione di
Ozenfant, come se di colpo tutte le corde dei contrabbassi si rompessero nello
stesso tempo e con la stessa spaventosa staffilata nell’istante più silenzioso di una
sinfonia di Mozart. Muovere quella tazzina altera il gioco di corrispondenza di tutta
la casa, di ciascun oggetto con l’altro, di ciascun momento della sua anima con

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l’anima intera della casa e con la sua lontana inquilina.

E poi la voce narrante si comincia a muovere nei meandri labirintici di ampi periodi e di
pensieri di ossequiosa e galante etichetta epistolare. Il ritmo è blando e non si intravede quale
possa essere il nocciolo della questione. Ma l’autore sta prendendo tempo in modo
strategicamente molto astuto, tra l’altro esibendosi in una quantità di effetti letterari resi
attraverso frasi dense di immagini. Immagini che insieme attraggono e distraggono il lettore.
E ogni tanto con un bagliore improvviso compare una frase che richiama qualcosa di
preoccupante, come nella migliore tradizione del genere horror:

E io non posso avvicinare la mano a un libro, ridurre appena il cono di luce di una
lampada, aprire il carillon, senza che un sentimento di oltraggio e di sfida mi
attraversi gli occhi come uno stormo di passeri. Lei sa perché sono venuto in casa
sua, nel suo quieto salotto corteggiato dal mezzogiorno. Tutto sembra tanto
naturale, come sempre quando non si conosce la verità. Lei è andata a Parigi, io
sono rimasto nel suo appartamento di via Suipacha, abbiamo elaborato un semplice
e soddisfacente piano di mutua convenienza fino a quando settembre la riporterà di
nuovo a Buenos Aires e mi proietterà in qualche altra casa, dove chissà...

Ma poi arriva, per meglio dire ritorna, imprevisto, il riferimento ai coniglietti che era stato
appena accennato nelle prime righe della lettera. La parte fantastica del racconto giunge così
sotto forma di auto confessione e quindi perfettamente in linea sia col genere letterario
epistolare, ma anche con quello horror, che spesso si nutre del mascheramento di anomalie e
mostruosità.

Ma non le scrivo per questo, questa lettera gliela invio a causa dei coniglietti, mi
sembra giusto che lei ne sia al corrente; e perché mi piace scrivere lettere, e forse
perché piove.
Ho traslocato giovedì scorso, alle cinque del pomeriggio, nella nebbia e nel tedio.
Ho chiuso tante valigie nella mia vita, ho passato tante ore a fare bagagli che non
portavano da nessuna parte, che giovedì è stato un giorno pieno di ombre e di
cinghie, perché quando vedo le cinghie delle valigie è come se vedessi ombre,
elementi di una sferza che mi colpisce indirettamente, nel modo più sottile e più
orribile. Comunque, ho fatto le valigie, ho avvisato la sua cameriera che mi sarei
installato qui, e sono salito nell’ascensore. Proprio fra il primo e il secondo piano
ho sentito che stavo per vomitare un coniglietto. Non gliene avevo mai detto niente,
non per slealtà creda, solo che uno non si mette a spiegare alla gente che di tanto in
tanto vomita un coniglietto. Poiché mi è sempre capitato mentre ero solo, tenevo la
cosa per me, come ci si tengono per sé le prove di tante cose che accadono (o
facciamo accadere) nell’assoluta intimità. Non mi rimproveri per questo, Andrée,
non mi rimproveri. Di tanto in tanto mi capita di vomitare un coniglietto. Non è una
buona ragione per non vivere in una qualsiasi casa, non è una buona ragione perché
uno debba vergognarsi e restare isolato e continuare a tacere.

Da qui in poi inizia un trattatello molto puntuale sul processo di vomitamento dei coniglietti
che arriva alla sua apoteosi creativa quando Cortázar porta il testo in spazi di ritmo e

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movimento liricheggianti:

Quando sento che sto per vomitare un coniglietto, mi ficco due dita in bocca come
una pinza aperta, e aspetto di sentire nella gola la peluria tiepida che sale come
un’effervescenza di sali di frutta. Tutto è veloce e igienico, avviene in un
brevissimo istante. Estraggo le dita dalla bocca, e fra di esse stringo per le orecchie
un coniglietto bianco. Il coniglietto sembra contento, è un coniglietto normale e
perfetto, soltanto molto piccolo, piccolo come un coniglietto di cioccolato ma
bianco e in tutto e per tutto un coniglietto. Lo poso sul palmo della mano, gli
sollevo il pelo con una carezza delle dita, il coniglietto sembra soddisfatto di essere
nato e freme e frega il musetto contro la mia pelle, muovendolo con quella
triturazione silenziosa e solleticante del musetto di un coniglio contro la pelle di
una mano. Cerca da mangiare e allora io (parlo di quando tutto ciò accadeva nella
mia casa di periferia) lo porto con me sul balcone e lo poso nel grande vaso dove
cresce il trifoglio che ho seminato apposta. Il coniglietto rizza del tutto le orecchie,
avvolge un trifoglio tenero in un veloce mulinello del musetto, e io so che posso
lasciarlo e andarmene, continuare per un po’ di tempo una vita non dissimile da
quella dei tanti che comperano i loro conigli nelle fattorie.

Fra il primo e il secondo piano, Andrée, come ad annunciare quale sarebbe stata la
mia vita nella sua casa, seppi che stavo per vomitare un coniglietto. Subito ne fui
impaurito (o era meraviglia? No, paura della stessa meraviglia, forse) perché prima
di lasciare la mia casa, solo due giorni innanzi, avevo vomitato un coniglietto, e
pensavo di potermene stare tranquillo per un mese, per cinque settimane, forse per
sei, con un po’ di fortuna. Guardi, io avevo risolto il problema dei coniglietti alla
perfezione. Seminavo trifoglio sul balcone dell’altra mia casa, vomitavo un
coniglietto, lo mettevo nel trifoglio e in capo a un mese, quando cominciavo a
sospettare che da un momento all’altro... allora regalavo il coniglio cresciuto alla
signora de Molina, che credeva a un hobby e taceva. E già in un altro vaso cresceva
un trifoglio tenero e propizio, io aspettavo senza alcuna preoccupazione la mattina
in cui il solletico di una fine peluria che saliva mi avrebbe stretto la gola, e il nuovo
coniglietto avrebbe ripetuto fin da quel momento la vita e le abitudini di quello
precedente. Le abitudini, Andrée, sono forme concrete del ritmo, sono la quota di
ritmo che ci aiuta a vivere. Non era poi tanto terribile vomitare coniglietti una volta
entrati nel ciclo invariabile, nel metodo. Lei vorrà sapere la causa di tanta fatica, il
perché di tutto quel trifoglio e della signora de Molina. Sarebbe stato preferibile
uccidere subito il coniglietto e... Ah, dovrebbe vomitarne uno solo anche lei,
prenderlo con due dita e posarlo sulla mano aperta, ancora aderente a lei nell’atto
stesso, nell’aura ineffabile di una prossimità appena infranta. Un mese distanzia
molto; un mese significa dimensioni, pelo lungo, salti, occhi selvaggi, differenza
assoluta. Andrée, un mese è un coniglio, fa davvero un coniglio; ma il minuto
iniziale, quando il bioccolo tiepido e fremente nasconde una presenza inalienabile...
Come una poesia nei primi minuti, il frutto di una notte di Idumea così nostro
quanto noi stessi... e dopo non più, tanto isolato e distante nel suo piatto mondo
bianco formato lettera...

La venuta alla luce del coniglietto è paragonata alla nascita di una poesia. E anche il tempo
successivo alla creazione di un coniglietto è confrontato col distacco personale che cresce col
passar delle ore tra il poeta e la propria poesia. Una volta svelato il segreto che spezza il

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clima di armonia letteraria del racconto, Cortázar rientra nell’ambito dell’esposizione dotta
che caratterizzava la prima parte del racconto. Da adesso in poi le due parti, quella barocca e
quella fantastica, cammineranno fianco a fianco in un ibridismo armonizzato benissimo.
Anche se il fantastico ha ormai intaccato per sempre, sotto forma di candidi coniglietti, la
perfezione rarefatta dell’ambiente iniziale e porterà inesorabilmente, con “aggraziato
sfacelo”, allo straordinario finale. Finale che aggiunge un’ulteriore sfumatura di genere a
questo racconto complesso e geniale:

[...] Faccio tutto quello che posso perché non rovinino le sue cose. Hanno
rosicchiato un po’ i libri dello scaffale più basso, lei li troverà nascosti affinché
Sara non si accorga di nulla. Amava molto la sua lampada con il globo di
porcellana pieno di farfalle e di cavalieri antichi? Ci si accorge appena
dell’incrinatura, ho lavorato tutta la notte con una colla speciale di marca inglese –
lei sa che le marche inglesi sono le migliori – e adesso mi ci metto a fianco in modo
che nessuno la raggiunga un’altra volta con le zampe (è quasi bello vedere come gli
piace fermarsi di botto e alzarsi sulle zampe, nostalgia dell’umano distante, forse
imitazione del loro dio che si muove e li guarda torvo; avrà osservato – forse, da
bambina – che si può mettere in castigo un coniglietto contro il muro, fermo, con le
zampine appoggiate e lasciarlo là quieto ore e ore).

I coniglietti candidi e poetici di Cortázar hanno il ruolo terribile di far saltare il senso di un
mondo costruito per creare armonie intellettuali. Le ultime righe del racconto diventano così,
con un ritmo reso più sincopato dall’emozione della voce narrante, un vero e proprio
testamento.

[...] Ecco: dieci andava bene, con un armadio, trifoglio e speranza, quante cose si
possono fare. Non più con undici, perché dire undici significa sicuramente dodici,
Andrée, dodici che sarà tredici. Allora ecco l’alba e una fredda solitudine che
racchiude l’allegria, i ricordi, lei e forse assai di più. Ecco questo balcone su via
Suipacha pieno d’alba, i primi rumori della città. Non credo che sarà difficile
raccogliere undici coniglietti disseminati sul selciato, magari non si accorgeranno
neppure di loro, affannati come saranno intorno all’altro corpo che conviene portar
via subito, prima che passino gli scolari più mattinieri.

69
Esercizi
Lezione 6

Esercizio 9
Inventare due incipit, di massimo 10 righe
ciascuno, per due possibili racconti fantastici.
Entrambi devono basarsi su una potente
immagine iniziale.

Esercizio 10
Ora un esercizio sull’invenzione di un animale
fantastico. Prendete come vostri modelli
possibili uno degli esempi seguenti realizzati
rispettivamente da Jorge Luis Borges, Marco
Papa e Massimo Mongai. Dovrete inventare
l’animale a partire dal nome pseudo-scientifico
fino a descrivere le peculiarità del
comportamento, le abitudini alimentari,
sessuali ecc. Avete a disposizione al massimo 30
righe.

70
Piccolo zoo fantastico
Lo squonk (Lacrimacorpus dissolvens) di Jorge Luis Borges
dal Manual de zoología fantástica, 1957, Manuale di zoologia fantastica, Einaudi, 1998,
traduzione di Franco Lucentini, pagina 134

La zona dello squonk è molto limitata. Fuori di Pennsylvania poche persone ne


hanno sentito parlare, benché nelle cicutaie di quello stato sembri abbastanza
comune. Lo squonk è di tinta molto cupa e in genere viaggia all’ora del crepuscolo.
La pelle, che è coperta di verruche e di nèi, non gli calza bene; a giudizio dei
competenti, è il più sfortunato tra tutti gli animali. Rintracciarlo è facile, perché
piange continuamente e lascia una traccia di lagrime. Quando lo serrano e non può
fuggire, o quando lo sorprendono e lo spaventano, si dissolve in lagrime. I
cacciatori di squonk hanno più fortuna nelle notti di freddo e di luna, quando le
lagrime cadono lente e all’animale non piace muoversi; il suo pianto s’ode sotto i
rami degli oscuri arbusti di cicuta.
Il signor J. P. Wentling, già di Pennsylvania, e ora residente a St Anthony Park,
Minnesota, ebbe una triste esperienza con uno squonk nei pressi di Monte Alto.
Aveva imitato il pianto dello squonk e aveva indotto l’animale a entrare in una
borsa, che ora stava portando a casa, quando all’improvviso il peso s’alleggerì e il
pianto smise. Wentling aprì la borsa: non restavano più che lagrime e borboglio.

William T. Cox, Fearsome Creatures of the Lumberwoods, Washington, 1910.

Lo psicotarlo di Marco Papa


da Animalario, Theoria, 1987, pagina 16

Sullo psicotarlo potrei scrivere un trattato. Lo conosco benissimo. E lo odio,


naturalmente, questo brutto paguro – se ne hai mai visto uno – che ha
caratteristiche dell’odradek, della piattola (ovvio!), della vespa nel bicchiere, del
virus. Lo psicotarlo attacca spesso quella zona del corpo umano delimitata dal
sopracciglio e dall’occhiaia nera che incupisce l’occhio. Lo psicotarlo ama scavare
appunto quell’occhiaia, svuotare lo sguardo. Perciò è detto, più comunemente,
occhialone (da non confondersi con il piviere minore) o rompipupille. Quando
invece preferisce le parti basse, brucare i riccioli del pube o divorare l’inguine o i
testicoli, cambia nome. Non ti dico quale. Né perché. Né che dolore.

L’antivampiro di Marco Papa


da Animalario, Theoria, 1987, pagina 18

Si distingue dal vampiro (di cui è nemico) per questa peculiarità: inietta sangue
invece di succhiarlo. Finché la vena attaccata dai denti, gonfiatasi all’inverosimile,
sovraccarica, esplode, e il sangue sprizza a soffioni bollenti. Allora il mammifero si
distacca, deperito, vacillante sulle sue mezze ali pelose, quasi morto per la quantità
di sangue iniettato, ma tremendamente felice. Come dopo un matto potlach.

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Zio Cri (Il Cugino Del Grillo Saggio Di Pinocchio) di Massimo Mongai
da Che drago sei?, Omero editore, 2005

La negazione del Grillo Saggio. Superficiale, incostante, ubriacone, grillaiolo (nel


senso delle grille) e se ne vanta anche (“Non ho grilli per la testa, io!” dice e ride
come un cretino). La dannazione del cugino, la pecora nera della famiglia. Per
fortuna che è stato fatto interdire per tempo, ché il posto di mentore, nel
“Pinocchio” in teoria toccava a lui. Figurarsi!

Il Gaarg di Massimo Mongai


da Che drago sei?, Omero editore, 2005

Così detto per il suo famoso grido. Animale molto introspettivo, con un grande senso
dell’orrore di sé stesso, per le sue note e brutte abitudini, sapete a cosa mi riferisco... Per
questo quando si scopre e si comprende, urla.

72
Lezione 7
Ritmo e movimento nell’uso delle parole
Nelle scorse lezioni abbiamo viaggiato a lungo nelle grandi parti del corpo della narrazione
(descrizione, dialogo, monologo, il genere, ecc.) e ora eccoci ad affrontare il ritmo e il
movimento in qualcosa di estremamente piccolo e molto duttile e scivoloso: la singola parola
di un’opera letteraria. Per dare la giusta importanza a ognuna delle parole che decidiamo di
usare in un racconto o in un romanzo, proviamo per una volta a mettere in risalto il tessuto
dato dall’insieme delle parole piuttosto che la trama o l’approfondimento drammatico dei
personaggi. Prima di leggerci un bellissimo esempio di racconto in cui la parola regna
sovrana su trama e personaggi, ascoltiamo le voci di diversi scrittori sulla lingua letteraria e
sull’uso delle parole:

Ingeborg Bachmann

La letteratura, per quanto strettamente possa essere legata al tempo e alla sua brutta
lingua, deve essere lodata per il suo disperato muoversi verso l’utopia della lingua e
solo così essa può dirsi vanto e speranza degli uomini.

Elias Canetti

Ogni parola pronunciata è falsa. Ogni parola scritta è falsa. Ogni parola è falsa. Ma
cosa c’è senza la parola?

Thomas Mann

Le parole grosse, trite come sono, non si addicono molto a esprimere le cose
straordinarie; vi si riesce meglio sublimando quelle piccole, portandole al culmine
del loro significato.

Giorgio Manganelli

Credo che la lingua in cui uno scrittore scrive sia una lingua morta; ogni parola, una
per una, va presa e uccisa prima di essere usata. [...] Il testo non ha tempo, non ha
durata, come quelle apparizioni che stupivano i fisici, è un istante di luce,
un’allucinazione, un fantasma.

Per comprendere quanto il suono di un vocabolo, la sua lunghezza o brevità di scansione, la


sua attualità o desuetudine semantica possano incidere sul ritmo e sul senso di un racconto
proponiamo la lettura di un testo di altezza letteraria esemplare. Un passo letterario che
sembra scritto in una specie di grammelot (cioè in una lingua inventata che riproduca solo
l’imitazione fonetica delle parole di una vera lingua, come nei grandi esempi teatrali del
Mistero Buffo di Dario Fo) e che invece è “semplicemente”, si fa per dire, scritto in un

73
italiano composto quasi del tutto da parole cadute in disuso. Il racconto in questione è lo
strepitoso, per musicalità, ironia e astrusa compiutezza La passeggiata di Tommaso Landolfi.
Da questo breve racconto si possono imparare tante cose sugli aspetti del potenziale ritmico e
significativo della narrativa.

La passeggiata (da Racconti impossibili, 1966)

La mia moglie era agli scappini, il garzone scaprugginava, la fante preparava la


bozzima... Sono un murcido, veh, son perfino un po’ gordo, ma una tal calma, mal
rotta da quello zombare o dai radi cuiussi del giardiniere col terzomo, mi faceva
quel giorno l’effetto di un malagma o di un dropace! Meglio uscire, pensai
invertudiandomi, farò magari due passi fino alla fodina. In verità siamo ormai
disavvezzi agli spettacoli naturali, ed è perciò da ultimo che siam tutti così magoghi
e ci va via il mitidio. Val proprio la pena d’esser uomini di mobole, se poi, non che
andarsi a guardare i suoi magolati, non si va neppure a spasso!...

Basta. Uscii dunque, e m’imbattei in uno dei miei contadini, che volle
accompagnarmi per un tratto. Ma un vero pigo! In oggi di quegli arfasatti e di
quelle ciammengole o manimorce, ve lo so dir io, non se ne trova più a giro; né
servon drusce per farli parlare, purtroppo hanno perso anche la loro bella e pura
lingua di una volta. Recava due lagene.

– Dove le porti? – Agli aratori laggiù: vede, dov’è quell’essedo. C’è il crovello per
loro. – E il mivolo, o il gobbello? – Bah, noialtri si fa senza. E meno male che non
avete al tutto dimenticato la vostra semplicità,

pensai. Ma volevo scatricchiarmi; finalmente lui andò pei fatti suoi e potetti
rimaner solo, e presi per una solicandola.

Che dirvi? Quando mi trovai tra quei miei piccoli amici senza parola, lo gnafalio, il
telefio, il mezereo, e tutta quella gualda, mi si aprì il cuore. Procedetti, e
principiarono i camepizi, le bugole, gli ilatri, i matalli, gli zizzifi anche, benché, a
vero dire, guasti alquanto dall’exoasco o dall’oidio; e zighene e arginnidi (pafie o
latonie) e le piccole depressarie passavano di luogo in luogo; e, accanto o sopra me,
trochili e peppole, parizzole e castorchie, e l’aria era tutta uno zezzio, un
zinzilulio... E c’era poi il popolo minore: le smicre, i lissi, l’empidi medesime, e chi
potrebbe noverarlo tutto!...

Alla fodina l’acqua ormai da tant’anni stagnava: rabeschi di gigartina, fumoso


trasparire di cara, e zannichellia e scirpo; giungendo io, tre farciglioni fuggirono, e
balenò un cimandorlo. Ma era destino che neppur qui fossi lasciato tranquillo.
Sentii frusciar la frasca alle mie spalle; mi volsi: il gignore del ferrazzuolo che
sbiluciava.

– O tu?... Beh, che si fa di bello al distendino? – Uhm, poco di bello: il padrone s’è
dato piuttosto alla moatra. Anche questo! Io non sono un lerniuccio, ma via... – Già,
– riprese – da noi ora è troppo se si fa fernette; mancano perfin le ingordine. –
Bravo davvero il tuo padrone! – Mah, si sa bene, quando la s’infaona... – E qui ora
che ci fai? – Per via dei leucischi. Ci si buttaron noi anni addietro. – Ah, ecco; e
come... – Coi prostomi e colle molliche – rispose pronto. Non era un caramogio,

74
come non era uno sbiobbo, s’ha a dire. Ma io lo lasciai lì e mi spinsi innanzi per la
lonchite. Sapevo che da un certo punto si scopriva una bella vista.

Ed eccolo laggiù, il gran padre; e perfino si scorgevano brillare i froncoli quando


prendevano il sole. E v’era una checchia venuta di lontano, con tanto di bonette
all’ipartia... Quanti pensieri, quante fantasie m’invasero allora!... Usava più il
chenisco? Oh tempi d’una volta:

– Inguala! – e via per iciche, per mocaiardi, per cheripi, per lanfe. E qualcuno
moriva in terra straniera, ma la chernite ne riportava intatte le spoglie al paese
natale: o aveva anch’essa ormai perso la sua virtù?...

Ah, s’era fatto tardi: sull’afaca e sulla ghingola compariva la trochilia, sull’atropa
l’atropo, sull’agrostide l’agrotide; dove pur mò sfolgorio di sole, non era ormai che
un ghimè; si diffondeva odor di nectria, s’udiva un ghiattire lontano. E così passo
passo me ne tornai.

Or mentre io fendo i sisimbri e finché sia giunto a casa, dimmi o amico lettore: son
io poco un ghiargione? Tu non rispondi, e con ciò assenti; e non hai torto. Pure, non
ne darei un ghieu di chi non sapesse empirsi gli occhi e l’anima come io feci quel
giorno, o, sapendo, volesse tenere ogni cosa per sé solo. Ma ecco giunsi: la mia
moglie era agli scappini, il garzone scaprugginava, la fante preparava, se non quella
stessa, una bozzima.

Di questo racconto Italo Calvino scrive:

Si prenda un testo emblematico come La passeggiata. Le frasi sono costruite a base


di sostantivi e verbi incomprensibili, come uno di quegli esperimenti di finta
significanza d’un lessico inventato, tipo il Lewis Carroll del Jabberwocky. Fosse
così, sarebbe un divertimento non nuovo, e di poco sugo. Invece, basta che il lettore
si prenda la briga di consultare un buon vecchio dizionario della lingua italiana
(Landolfi usava lo Zingarelli) e scoprirà che le parole ci sono tutte. La passeggiata
è un testo con un senso compiuto: solo che l’autore si è posto come regola d’usare
il massimo numero possibile di vocaboli caduti in desuetudine. (Egli stesso, in un
volume successivo, non seppe resistere alla tentazione di svelare il segreto, per
sbeffeggiare quelli che non c’erano arrivati). Dove si vede che il «fumista»
(“burlone”, nota del curatore) Landolfi è poi l’«antifumista» per eccellenza: ridà
significato (il significato) alle voci che l’avevano perduto (e invece di lasciare il
volgo letterato nell’errore, si prende la briga di spiegare pazientemente cos’ha
fatto).

[...] È come se Landolfi volesse annunciarci che, al di là dello humour paradossale


del suo testo, il problema che gli sta a cuore è proprio quello della lingua come
convenzione collettiva ed eredità storica della parola individuale e mutevole.

Un esempio letterario di vero e proprio grammelot è tratto dal capitolo 68 del romanzo di
Julio Cortázar Rayuela, 1966, Il gioco del mondo, Einaudi, 2002, traduzione di Flaviarosa
Nicoletti Rossini, pag. 352. In spagnolo questo linguaggio musicale si chiama glíglico e serve
a comunicare un significato per mezzo del suono delle sue sillabe e del ritmo della sua

75
scansione, senza prescindere totalmente da un’organizzazione logica. Di cosa parlerà mai
questo testo di Cortázar che pubblichiamo nelle sue prime righe nella versione originale in
spagnolo e poi nella sua traduzione? Leggete con piacere e attenzione e provate a indovinare
di cosa si sta narrando. Più tardi vi svelerò l’arcano.

Apenas él le amalaba el noema, a ella se le agolpaba el clémiso y caían en


hidromurias, en salvajes ambonios, en sustalos exasperantes. Cada vez que él
procuraba relamar las incopelusas, se enredaba en un grimado quejumbroso y tenía
que envulsionarse de cara al nóvalo, sintiendo cómo poco a poco las arnillas se
espejunaban, se iban apeltronando, reduplimiendo, hasta quedar tendido como el
trimalciato de ergomanina al que se le han dejado caer unas fílulas de cariaconcia.

Dal glíglico spagnolo al glíglico italiano con la traduzione di Flaviarosa Nicoletti Rossini

Appena lui le amalava il noema, a lei sopraggiungeva la clamise e cadevano in


idromorrie, in selvaggi ambani, in sossali esasperanti. Ogni volta che lui cercava di
lequire le incopeluse, si avviluppava in un grimado lamentoso e doveva invulsinarsi
di fronte al novelo, sentendo in qual modo a poco a poco le arniglie si
specunnavano, peltronandosi, redduplinandosi, fino a restare come il trimalciato di
ergomanina al quale sono state lasciate cadere delle fillule di cariconcia.

Beh, non so cosa avete immaginato, ma è proprio quello di cui qui si parla: un amplesso
pieno di difficoltà e di incomprensioni. Per dirla in glíglico: una cosa da lanciare un grimado
lamentoso!

Per chiudere il nostro libro sul ritmo e il movimento ci piace portare verso lidi più estremi il
divertimento delle parole che giocano a infilarsi tra le maglie della retorica, tradendo il senso
e il ritmo originale di un testo. È il caso del libro di Raymond Queneau Exercices de style,
1947, Esercizi di stile, Einaudi, 1984, nella traduzione di Umberto Eco. Nel libro di Queneau
si parte da una misera notazione di un piccolo aneddoto, una scalettina appuntata che poi
viene trasformata in 99 versioni tutte originate dallo stesso scarno testo iniziale. Si tratta di
variazioni basate su figure retoriche. La parola è schiacciata nel ritmo e nel senso all’interno
di schemi prefissati, fin dal titolo che battezza le regole della composizione: anagrammi,
onomatopee, sincopi, ellenismi, ecc. La singola parola e poi i gruppi di parole si organizzano
e trasformano la scaletta iniziale in varianti, legate ognuna in modo autonomo, ma
complessivamente coeso, a un suo ritmo e a un suo senso. La notazione di partenza è questa:

Sulla S, in un’ora di traffico. Un tipo di circa 26 anni, cappello floscio con una
cordicella al posto del nastro, collo troppo lungo, come se glielo avessero tirato. La
gente scende. Il tizio in questione si arrabbia con un vicino. Gli rimprovera di
spingerlo ogni volta che passa qualcuno. Tono lamentoso, con pretese di cattiveria.
Non appena vede un posto libero, vi si butta. Due ore più tardi lo incontro alla Cour
de Rome, davanti alla Gare Saint-Lazare. È con un amico che gli dice: “Dovresti
far mettere un bottone in più al soprabito”. Gli fa vedere dove (alla sciancratura) e
perché.

Ecco ora una delle 99 variazioni di Queneau. Preferiamo mettere in vista anche il testo

76
originale in francese perché nella citazione successiva presenteremo una traduzione di Eco,
tutt’altro che rispettosa del testo di Queneau, che ugualmente avremo sotto gli occhi. E sarà lì
che troveremo insieme un’ultima testimonianza di grande valore sulla felicità espressiva che
possono dare il ritmo e il movimento se ben giocati, anche all’interno di schemi narrativi
prestabiliti.

Hésitations

Je ne sais pas très bien où ça se passait... dans une église, une poubelle, un
charnier? Un autobus peut-être? Il y avait là... mais qu’est-ce qu’il y avait donc là?
Des œuf, des tapis, des radis? Des squelettes? Oui, mais avec ancore leur chair
autour, et vivants. Je crois bien que c’est ça. Des gens dans un autobus. Mais il y en
avait un (ou deux) qui se faisait remarquer, je ne sais plus très bien par quoi. Par sa
mégalomanie? Par son adiposité? Par sa mélancolie? Mieux... plus exactement...
par sa jeunesse ornée d’un long...nez? Menton? Pouce? Non: cou, et d’un chapeau
étrange, étrange, étrange. Il se prit de querelle, oui c’est ça, avec sans doute un
autre voyageur (homme ou femme? Enfant ou vieillard?). Cela se termina, cela finit
bien par se terminer d’une façon quelconque, probablement par la fuite de l’un des
deux adversaires. Je crois bien que c’est le même personnage que je rincontrai,
mais où? Devant une église? Devant un charnier? Devant une poubelle? Avec un
camarade qui devait lui parler de quelque chose, mais de quoi? De quoi? De quoi?

Esitazioni

Non so bene dove accadesse... in una chiesa, in una bara, in una cripta? Forse... su
di un autobus. E c’era... Cosa diavolo c’era? Spade, omenòni, inchiostro simpatico?
Forse... scheletri? Sì scheletri, ma ancora con la carne intorno, vivi e vegeti.
Almeno, temo. Gente su di un autobus. Ma ce n’era uno (o erano due?) che si
faceva notare, non vorrei dire per che cosa. Per la sua astuzia sorniona? Per la sua
adipe sospetta? Per la sua malinconia? No, meglio – o più precisamente – a causa
della sua imprecisa immaturità, ornata di un lungo... naso... mento... alluce? No:
collo. E un cappello strano, strano, strano. Si mise a litigare (sì, è così) senza
dubbio con un altro passeggero (uomo o donna? Bambino o vegliardo?). Poi finì –
perché finì pure, in qualche modo o maniera – probabilmente perché uno dei due
era scomparso...

Credo sia proprio lo stesso individuo quello che ho rivisto... ma dove? Davanti a
una chiesa, a una cripta, a una bara? Con un amico che doveva certo parlargli di
qualcosa, ma di che, di che, di che?

Il brano che più ci interessa sottolineare tra tutte le 99 variazioni de Gli esercizi di stile è il
pezzo che segue. Un’eccezione alla regola tenuta per ben altre 98 volte. E da cosa è
rappresentata questa unica eccezione? Sta tutta nella traduzione di Umberto Eco. Nel
precedente esercizio di stile, Esitazioni, la traduzione di Eco da Queneau è, come abbiamo
già segnalato, quasi letterale. Per quanto come lo stesso Eco scrive “Che cosa vuol dire
tradurre? La prima e consolante risposta vorrebbe essere: dire la stessa cosa in un’altra
lingua. Se non fosse che, in primo luogo, noi abbiamo molti problemi a stabilire che cosa
significhi ‘dire la stessa cosa’”.

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Il capolavoro di Eco, sulla resa di ritmo e movimento in un esercizio di stile, lo troviamo nel
pezzo intitolato Vulgaire che in Eco diventa, correttamente tradotto in italiano, Volgare. Ma
solo il titolo accomuna Queneau ed Eco stavolta. Poi il nostro grande scrittore e semiologo si
produce in un exploit in romanesco. Exploit che non si limita a produrre pedissequamente le
particolarità e le inflessioni di una pronuncia dialettale. Pronuncia dialettale ripresa nello
sforzo di parlare la propria lingua nazionale. Questo è quello che fa un po’ banalmente
Queneau nel suo brano. Eco invece si sbilancia in un divertentissimo pezzo di narrazione che
conserva lo schema narrativo iniziale, ma lo scalda con le parole giuste, in un dialetto
romanesco che viene elevato a lingua. Senza contentarsi di darcene solo gli eccessi o i difetti
di dizione. E queste parole del romanesco di Eco rendono viva e spassosissima la voce
narrante, trasformandola in un vero personaggio. C’è uno scarto linguistico tale che
finalmente si preferisce tradire sul serio l’originale e andarsene per i fatti propri. E così ritmo
e movimento trionfano sullo schema retorico imposto da Queneau. Anche alla faccia
dell’amata semiologia di Eco. Vi diamo qui di seguito ancora l’originale francese di Queneau
oltre alla versione di Eco, per meglio mostrare l’assoluta diversità del taglio ritmico e di
movimento delle due prove.

Vulgaire

L’était un peu plus dmidi quand j’ai pu monter dans l’esse. Jmonte donc, jpaye ma
place comme de bien entendu et voilàtipas qu’alors jremarque un zozo l’air pied,
avec un cou qu’on aurait dit un télescope et une sorte de ficelle autour du galurin.
Je lregarde passeque jlui trouve l’air pied quand le voilàtipas qu’ismet à interpeller
son voisin. Dites donc, qu’il lui fait, vous puorriez pas faire attention, qu’il ajoute,
on dirait, qu’i pleurniche, quvous lfaites essprais, qu’i bafuoille, deummarcher
toutltemps sullé panards, qu’i dit. Là-dssus, tout fier de lui, i va s’asseoir. Comme
un pied. Jrepasse plus tard Cour de Rome et jl’aperçois qui discute le bout de gras
avec autre zozo de son espèce. Dis donc, qu’i lui faisait l’autre, tu dvrais, qu’i lui
disait, mettre un ottbouton, qu’il ajoutait, à ton pardingue, qu’i concluait.

Volgare

Aho! Annavo a magnà e te monto su quer bidone de la Esse – e ’an vedi? – nun me
vado a incoccià co ’no stronzo con un collo cche pareva un cacciavite, e ‘na trippa
sur cappello? E quello nun se mette a baccajà con st’antro burino perché – dice – jé
acciacca er ditone? Te possino! Ma cche vòi, ma cchi spinge? E certo che spinge!
Chi, io? Ma va a magnà er sapone! ’Nzomma, meno male che poi se va a sede. E
bastasse! Sarà du’ ore dopo, chi s’arrivede? Lo stronzo, ar Colosseo, che sta a
complottà co st’antro qua che se crede d’esse er Christian Dior, er Missoni, che so,
er Mister Facis, de li mortacci sua! E metti un bottone de qua, e sposta un bottone
de là, e acchittate così alla vitina, e ancora un po’ ce faceva lo spacchetto, che era
tutta ‘na froceria che nun te dico. Ma vaffanculo!

Bene, dopo avervi rispolverato e proposto questa chicca di Eco molto lontana nel tempo, ma
davvero entusiasmante per ritmo e movimento, possiamo ringraziarvi per averci seguito fin
qui e lasciarvi con l’ultimo vertiginoso esercizio del corso. Buon ritmo e movimento a tutti!

78
79
Esercizio
Lezione 7

Esercizio 11
L’ultimo esercizio del nostro corso è veramente
funambolico e permette di lasciarsi andare a un
rapporto molto fisico e primitivo giocando a
briglie sciolte con la propria lingua. Infatti vi si
chiede di descrivere una scena, possibilmente
molto forte e visionaria (per aiutarsi si può
attingere anche a scene prese dai film più
popolari e d’azione), usando una lingua quasi
del tutto inventata che riproduca “a orecchio” i
suoni e il portamento dell’italiano o di un suo
dialetto usando al 90% parole inventate,
neologismi, parole onomatopeiche, ecc. Prima,
a scanso di equivoci, bisogna “dichiarare”
quale scena si va a rappresentare. L’esercizio
non deve superare le venti-trenta righe.

80
Catalogo di scrittura creativa
Omero editore
www.omeroeditore.it

La palestra dello scrittore, Enrico Valenzi

La Palestra è il corso di narrativa che è stato testato con successo, come si fa per shampoo e
creme, su decine di partecipanti ai laboratori in aula e ai corsi via Internet della Scuola
Omero. Utilizzato nei work-shop svolti nella scuola pubblica, dedicati sia ai professori che
agli studenti di medie e superiori. Nel libro vengono trattati gli argomenti principali di un
laboratorio di scrittura con i relativi esercizi. Nell’ultima sezione del libro, nuova rispetto alle
precedenti edizioni, sono pubblicate interviste e contributi sull’arte della scrittura a cura di
Rick Moody, Andrea Camilleri, Etgar Keret, Valerio Evangelisti, Chuck Kinder, Alessandro
Bergonzoni.

La palestra dello scrittore. Il ritmo e il movimento, Enrico Valenzi

Sembra che il tuo racconto sia scritto bene, la storia è originale, i personaggi sono forti,
eppure non funziona. Perché? Qualche volta la risposta è nel ritmo e nel movimento della
scrittura. I racconti si muovono, hanno uno sviluppo, sono scritti con più o meno parole, con
paragrafi più o meno lunghi, con una lingua più o meno sofisticata. Lo scrittore deve saper
scegliere il passo di danza con il quale far avanzare la sua prosa: La palestra dello scrittore –
Il ritmo e il movimento contiene i consigli per farlo al meglio. La palestra dello scrittore – Il
ritmo e il movimento è il secondo volume della serie La palestra dello scrittore della Scuola
Omero.

La palestra dello scrittore. Le parole e la forma, Paolo Restuccia

Quali sono le parole più giuste da usare quando si scrive una storia? Come fanno gli scrittori
a incutere paura, oppure a far ridere, solo scrivendo un racconto? Ed è meglio cominciare a
narrare partendo dall’inizio, dal mezzo o magari dalla fine?
Leggere La palestra dello scrittore. Le parole e la forma significa mettersi nei panni di chi
scrive e cominciare a scoprire come sono fatte le storie più efficaci, si tratti di racconti,
romanzi, film o serie tv.

Come si scrive un romanzo. Laboratorio di scrittura creativa dal giallo alla fantascienza,
Massimo Mongai

Ci sono dei trucchi professionali, degli schemi, delle strutture che si possono insegnare
attraverso un libro come questo? Ma certo! Lo scrittore sarà anche un grande artista, ma è
pure un artigiano. E se la grande arte non si insegna, le tecniche dell’artigianato sì. È difficile
scrivere un romanzo di genere? No, è difficile scriverlo bene. Perché difficile è rispettare le
regole del genere. Anzi: difficilissimo. Richiede conoscenza di alcuni metodi elementari, di
alcune tecniche semplici e note a tutti, raccontabili e soprattutto raccontabili per iscritto.
Questo libro ha la presunzione di provarci, a raccontarle. Non diciamo di riuscirci. Ma di
provarci onestamente e caparbiamente sì. Questo è un manuale che vuole aiutare chi intende
scrivere un romanzo di genere (giallo, thriller, fantascienza, ecc) e chi l’ha scritto è un
romanziere prolifico come Massimo Mongai che ha sempre letto e pubblicato letteratura di

81
genere.

Lezioni d’autore (appunti sulla struttura), Javier Argüello

Come si trasforma un’idea in una storia? Come si fa a renderla verosimile? In che modo un
autore disegna le sue trame? Come si compongono tra loro la trama principale e le trame
secondarie? A queste e altre domande, essenziali per chi vuole scrivere racconti o romanzi,
risponde lo scrittore, attraverso una rilettura del lavoro del grande docente di sceneggiatura
Robert McKee. Argüello parte dall’analisi del modo in cui ha scritto uno dei suoi Racconti
impossibili e prende a modello la sceneggiatura del film Match Point di Woody Allen.

Voglio scrivere! (135 big mi dicono come), Luigi Annibaldi, Claudia Bertozzi, Lucia
Pappalardo

Capita spesso che i giovani scrittori si trovino spaesati e che le continue pressioni della
quotidianità gli impediscano di concentrarsi sul proprio talento. Ed è per questo che abbiamo
cucito un libro che mettesse insieme tutti i consigli che grandi o piccoli artisti hanno partorito
grazie allo scontro quotidiano coi loro scritti.

C’era una volta il West (ma c’ero anch’io), Sergio Donati

Nelle pagine di C’era una volta il West (ma c’ero anch’io), il grande sceneggiatore Sergio
Donati fa rivivere con intensità e divertimento il mito del cinema western di Sergio Leone.
Di quel cinema ci svela i segreti e i trucchi e ci racconta un’infinità di aneddoti, spassosi e
nostalgici. Ma soprattutto viene fuori in tutta la sua verità, talvolta creativa e geniale, talvolta
piccola e ingrata, la relazione esistente tra lo sceneggiatore e il regista.
Nel libro Sergio Donati, che ha vissuto e lavorato negli Stati Uniti, a Hollywood, oltre che in
Italia, ci presenta inoltre decine di ritratti inconsueti, ripresi dentro e fuori dal set
cinematografico, e riguardanti Ennio Morricone, Clint Eastwood, Henry Fonda, Claudia
Cardinale, Lee Van Cleef, Charles Bronson, Tonino Delli Colli, Kirk Douglas e tanti altri.

Teoria e pratica della scrittura creativa, AA. VV.

Redatto in collaborazione con l’Università “La Sapienza” di Roma e il Dipartimento di Studi


Linguistici e Letterari della John Cabot University, questo manuale è ricchissimo di saggi e
incontri con scrittori ed intellettuali. Dalla quarta di copertina: Teoria e pratica della scrittura
creativa – Scrittura e lettura, vede la presenza di nomi importanti del mondo culturale,
artistico e scientifico. Questa partecipazione testimonia un interesse crescente verso una
ipotesi di ricerca che ponga il farsi della scrittura di rappresentazione al centro di una
osservazione e di uno studio non legati a mode e interessi momentanei. Il volume propone
ipotesi sui metodi di indagine, sui processi di elaborazione composizione e fruizione di un
testo di scrittura di rappresentazione; ipotesi sui metodi di comunicare all’interno di un lavoro
collettivo, il laboratorio di scrittura, la concretezza di un pensiero che si trasforma in atto
materiale. Ne derivano indicazioni e risultati utili per chi svolga un lavoro didattico e di
ricerca ma anche per chiunque voglia avvicinarsi in modo non casuale allo scrivere."

Story - Contenuti, struttura, stile, principi per la sceneggiatura e per l'arte di scrivere
storie, Robert McKee

Story è prima di tutto un libro su come si narrano le storie e non si limita a essere valido per
quelle ideate per il cinema. Leggendo Story si acquisiscono quella consapevolezza e quelle

82
nozioni necessarie per scrivere un racconto o un romanzo. McKee in questo libro va al di là
dei meccanismi essenziali della sceneggiatura. Dall’idea di partenza al manoscritto finale,
eleva la scrittura da esercizio intellettuale a emotivo, ci fa comprendere perché lo
sceneggiatore non sia un artigiano ma un artista. Story è il manuale necessario per chi sta
cercando di vincere la guerra contro i cliché.
Story parla di forma, non di formule. Utilizzando esempi presi da più di cento film McKee
insegna una filosofia che non è basata su rigide regole ma su quei principi alla base di una
storia di qualità.

Come si scrive un romanzo. Manuale di scrittura creativa a più voci, Daniel Alarcón

Leggere come il premio Nobel Mario Vargas Llosa lavora ai suoi romanzi. Seguire le battute
di Stephen King sulla tecnica della scrittura. Sapere dalle sue vive parole cosa fa Paul Auster
per valutare una sua prima bozza. Divertirsi agli acidi e illuminanti commenti di Haruki
Murakami. Approfondire con Jonathan Lethem i momenti più esaltanti del mestiere dello
scrittore. Vivere con A.M. Homes la passione e l’immedesimazione con i personaggi.
Insomma leggere questo libro significa imparare l’arte di scrivere da 54 grandi scrittori,
famosi, celebri o solo promesse su cui tutti gli editori puntano.
Daniel Alarcón ha puntato sulla vitalità, sull’ironia e sui sentimenti degli scrittori. Ma anche
sui loro consigli e sulle loro esperienze pratiche. In questo manuale a più voci, praticamente
unico nel panorama della scrittura creativa, il lettore proverà il piacere di “sentir discutere”
contemporaneamente di grande letteratura e di come si fa a scrivere un’opera complessa e
difficile come un romanzo.

Guida di Snoopy alla vita dello scrittore, a cura di Barnaby Conrad e Monte Schulz

La Guida di Snoopy alla vita dello scrittore presenta più di 180 strisce a fumetti di Snoopy
“alla macchina da scrivere” realizzate da Charles M. Schulz. Vignette che scaldano il cuore
con il loro brillante umorismo, accostate a 32 deliziosi saggi brevi scritti da grandi autori di
best seller che commentano ognuno la propria striscia favorita. Questi testi esaminano con
cura le gioie, e la realtà, della vita dello scrittore. Proprio il tipo di consigli che possono
essere utili a Snoopy, così come a noi!

www.omeroeditore.it

«ver.2»

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Table of Contents
Introduzione
Premessa
Lezione 1 Prime definizioni del ritmo e del movimento
Esercizi Lezione 1
Lezione 2 Ritmo e movimento nella descrizione
Esercizio Lezione 2
Lezione 3 Ritmo e movimento nel dialogo (prima parte)
Esercizi Lezione 3
Lezione 4 Ritmo e movimento nel dialogo (seconda parte)
Esercizi Lezione 4
Lezione 5 Ritmo e movimento nel monologo
Esercizio Lezione 5
Lezione 6 Ritmo e movimento nel racconto fantastico-surreale
Esercizi Lezione 6
Piccolo zoo fantastico
Lezione 7 Ritmo e movimento nell’uso delle parole
Esercizio Lezione 7
Catalogo di scrittura creativa

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Indice
Introduzione 3
Premessa 4
Lezione 1 Prime definizioni del ritmo e del movimento 6
Esercizi Lezione 1 17
Lezione 2 Ritmo e movimento nella descrizione 19
Esercizio Lezione 2 27
Lezione 3 Ritmo e movimento nel dialogo (prima parte) 28
Esercizi Lezione 3 41
Lezione 4 Ritmo e movimento nel dialogo (seconda parte) 42
Esercizi Lezione 4 49
Lezione 5 Ritmo e movimento nel monologo 51
Esercizio Lezione 5 60
Lezione 6 Ritmo e movimento nel racconto fantastico-surreale 62
Esercizi Lezione 6 70
Piccolo zoo fantastico 71
Lezione 7 Ritmo e movimento nell’uso delle parole 73
Esercizio Lezione 7 80
Catalogo di scrittura creativa 81

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