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Il romanzo si apre su una descrizione della città di Palermo vista dall’alto, all’alba, quando la luce ancora

incerta ne altera i colori, ma la rende ancora più seducente e smagliante. Di fronte allo spettacolo in
chiaroscuro dei tetti e del riflesso di luce che giunge dal mare, Federico, il giovane protagonista del
romanzo, pensa all’arte del Caravaggio. E sarà proprio il chiaroscuro l’elemento dominante nel racconto,
l’alternarsi di spazi di speranza a spazi di disperazione nella vita dei personaggi.

Qui , in questa città ricca di arte, custode di tradizioni e culture antiche, si sono radicati abuso e
sopraffazione, sfruttamento e violenza. L’opera coraggiosa di 3P, come veniva affettuosamente chiamato
Padre Pino Puglisi, è volta al recupero dei giovani più diseredati, di bambini abbandonati e adolescenti
dediti al furto e alla prostituzione. In lui è una volontà, un desiderio e l’ambiziosa aspirazione a spegnere il
fuoco dell’inferno che circonda i suoi ragazzi. L’inferno esiste ed è sulla terra e Federico lo imparerà a sue
spese nel momento in cui coraggiosamente deciderà di aiutare Don Pino. L’amore per Lucia lo sosterrà
nell’impegno.

Ciò che convince in questo romanzo è la capacità dell’autore di non abbandonarsi più del necessario a
riflessioni religiose. Certo il personaggio di Don Puglisi non può prescindere dalla sua professione di fede,
ma visto attraverso gli occhi dell’adolescente laico Federico, risulta più convincente e più coinvolgente il
suo impegno ad aiutare i più deboli. È quasi un ritorno a un Cristianesimo delle origini che si libera della
retorica ecclesiastica e agisce con dedizione e generosità. Ed è questo che convince, io credo, anche il
lettore più laico. Perché in fondo Padre Pino intendeva solo restituire all’uomo quella dignità di cui era stato
privato, e alla morte la tragicità di cui era stata spogliata. Come sacerdote non eccede in superflue prediche
ma rende i sacramenti aderenti alla realtà. Con questo spirito raccoglie la confessione di Francesco, che
diventa vera catarsi, cancellazione del suo inferno interiore.

“Riparare è molto più eroico di costruire” – queste le parole di Don Pino a Serena, volte a persuaderla a non
arrendersi. E in fondo questa era sempre stata la sua missione, portata avanti con tenacia e perseveranza,
quella tenacia che sua madre riconosceva con ammirazione come un aspetto del suo carattere, quando
diceva: “Disse la goccia alla roccia, dammi tempo che ti percio”.

Dal punto di vista stilistico, la prosa è piuttosto ridondante, per l’uso frequente di figure retoriche, ma ciò
che altrove può senz’altro essere considerato un difetto, qui diventa quasi naturale, visto l’argomento,
affrontato e portato avanti con passione. D’altronde laddove si è accennato al chiaroscuro per descrivere i
colori della città al primo risveglio, non appare fuori luogo un uso frequente dell’ossimoro, proprio per
sottolineare i contrasti che esistono nei luoghi e nelle persone che li abitano.

Non a caso proprio Federico, che aspira a diventare poeta, dice del suo stile e della sua tendenza
all’esagerazione barocca : “Del barocco amo l’arguzia, la metafora che sloga la realtà e il grande gioco delle
parole con cui sfidarla d’azzardo”

Un romanzo coraggioso con il quale Alessandro D’Avenia intende celebrare la figura di Don Puglisi e
ricordare il suo amore per quel quartiere degradato, Brancaccio, e il suo impegno per sottrarre quella parte
di umanità diseredata e dimenticata all’inferno dell’abuso e della violenza del passato e del presente per
traghettarla verso un futuro di dignità e di rispetto che inferno non è.

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