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facebook.com/AdrianoSalaniEditore
@salanieditore
www.illibraio.it
ISBN 978-88-6918-504-5
Prima edizione: ottobre 2001 Nuova edizione: ottobre 2006 Prima ristampa:
ottobre 2008 Seconda ristampa: maggio 2012
I lavoratori si ritirano sul Monte Sacro, cinque chilometri fuori dalla città, e
incrociano le braccia.
Ciò che non gli riesce con le donne, a Catone riesce con
gli Scipioni. È finito il tempo in cui i generali si
accontentavano del trionfo, se avevano ucciso almeno
cinquemila nemici in battaglia, o dell’ovazione, cioè del
sacrificio di una pecora (ovis), se i nemici eliminati erano
quattromilanovecentonovantanove (ma dato lo scarso
numero di ovazioni di cui abbiamo conoscenza, dobbiamo
arguire che la tendenza fosse ad arrotondare). Tutti ora
esigono il trionfo e lo esigono in moneta sonante. Ai grandi
condottieri non basta passare sotto l’arco di legno, mentre
dietro sfilano i prigionieri e il bottino, non basta ascendere
sulle scale del Campidoglio tra le grida di giubilo del popolo.
Li lascia freddi il privilegio di cingere la testa con la sacra
corona di alloro e d’indossare la veste purpurea ricamata di
stelle e il manto sacro, identico a quello esibito da Giove in
ogni immagine. Il rito pubblico, compreso il sacrificio dei
prigionieri per ringraziare gli dei, è ritenuto ormai
insufficiente. Chi ha conquistato una nazione, chi riporta
indietro scrigni di pietre preziose, casse d’oro, bauli
d’argento desidera ricevere una parte del bottino. Non
sarebbe permesso dalle leggi, che prevedono la consegna
allo Stato di ogni indennità di guerra, però il Senato, i comizi
centuriati, l’Assemblea sono disposti a chiudere un occhio,
visto che ce n’è in abbondanza per tutti.
Naturalmente Catone l’occhio non vuole neppure
socchiuderlo. Egli si vanta di aver sempre consegnato, da
generale, l’intero bottino alla Repubblica, tranne la libbra
d’argento concessa in premio a ogni soldato. E allora Catone
vuol sapere da Publio Cornelio e da suo fratello Lucio se
hanno versato al Senato tutti i tributi pagati da Antioco. Lo
vuol sapere pur conoscendo l’assoluta integrità morale del
vincitore di Zama e l’enorme popolarità che lo circonda. Lo
muove il desiderio di riaffermare la supremazia del Senato?
O, più probabilmente, l’antipatia per una dinastia apertasi
alle mode ellenizzanti e che contribuisce a diffonderle grazie
all’enorme prestigio da cui è circondata?
È la prima controversia giudiziaria, che coinvolge il
Senato e lo spacca. Il rifiuto di Lucio Scipione a consegnare
le carte e quello di Scipione l’Africano, come oramai lo
chiamano tutti, a farsi interrogare segnano il momentaneo
appannamento della potentissima famiglia. Catone intona
un’altra orazione delle sue, forse la migliore, in cui individua
nel culto della personalità e nell’individualismo i mali che
corromperanno la democrazia di Roma, che mineranno la
compattezza sociale, finora le sue armi vincenti. Catone è
atterrito dal dilagare della cultura greca, del suo gusto
estetizzante, dei suoi libri – dove la ragione dileggia le
credenze religiose e le divinità – perfino delle sue sculture,
che gli appaiono indecenti e troppo laiche. Nel giudizio
dell’incallito conservatore, il console Flaminio, che adorna la
casa con le statue di Fidia e Prassitele, il console Emilio
Paolo, che dopo aver battuto il re Perseo di Macedonia a
Pidna si è impossessato della sua biblioteca e su di essa
educa i figli, sono l’annuncio di una rovina imminente. Lo
stesso predominio assunto da Giove gli pare
un’imperdonabile mancanza di rispetto nei confronti degli
altri dei dell’Olimpo, che così tanto hanno fatto per Roma.
In effetti la supremazia assegnata a Giove, signore
dell’Olimpo, serve a semplificare la vita religiosa. Vengono
stabilite rigide gerarchie, copiate dalle usanze greche:
attorno a Giove si muovono la moglie Giunone e gli dei di
primaria importanza, Mercurio, Diana, Marte, Venere,
Nettuno, Minerva. Costoro pian piano assommeranno nella
propria persona le funzioni e le peculiarità in precedenza
esercitate da una moltitudine di divinità. L’erudito del I
secolo a.C. Marco Terenzio Varrone si prende la briga di
contarle e arriva fino a trentamila.
Pur non immaginando che l’avvento di un numero uno
come Giove apra la strada verso le religioni monoteistiche,
Catone avverte che Atene rappresenta la negazione della
romanità, la modernità immorale contro la tradizione
bacchettona: in tempi recenti capiterà agli inglesi con
l’americanismo. Ma l’anziano senatore non ha bisogno di
predicare contro la Grecia giacché le sue città e i suoi
cittadini proseguono da soli nell’opera di autodistruzione. La
rivolta di Perseo, sventata dal figlio del console ucciso a
Canne, ha prodotto la distruzione di settanta città, la
devastazione dell’Epiro, di Rodi, il trasferimento di migliaia
di greci a Roma in qualità di schiavi. La Grecia quale entità
politica cessa definitivamente di esistere. Prospera invece
quale entità culturale, a tal proposito viene coniata una
frase, che fotografa alla perfezione la sua influenza: Graecia
capta ferum victorem cepit (la Grecia conquistata conquistò
il barbaro vincitore). La conquista avviene con i manoscritti,
con le opere d’arte, con le mode esistenziali, ma avviene
anche attraverso l’opera dei letterati. A Livio Andronico era
succeduto un altro prigioniero di guerra napoletano, quindi
di cultura greca, Cneo Nevio, giudicato però troppo
irriguardoso. Dopo alcuni scialbi imitatori fu il turno di un
pugliese di padre italiano e madre greca, Quinto Ennio. È lui
con gli Annales ad avviare la storiografia di Roma, a
camuffare il passato con la leggenda di Enea, che serve a
dare qualche quarto di nobiltà lì dove si erano aggirati
contadini e pastori. Poi si presentò sulla scena un umbro,
che i greci li aveva solo letti: Tito Maccio Plauto. Tito ‘il
pagliaccio dai piedi piatti’ fu il vero trionfatore delle scene,
l’inventore della commedia leggera, il primo autore
autenticamente romano. Se non vi è capitato, vi capiterà
senz’altro di assistere a un suo lavoro, il Miles gloriosus, che
si continua a mettere in scena con immutabile successo da
ventidue secoli.
Insomma l’ellenismo è una finta preoccupazione o, se
volete, preoccupa le coscienze e neppure tutte. Viceversa
Cartagine è una preoccupazione vera, è il nemico sconfitto,
ma non domato. Per questo Catone ha preso l’abitudine di
concludere i discorsi in Senato con un ammonimento
destinato anch’esso a gloria imperitura: Delenda Carthago
(Cartagine è da distruggere). È il chiodo fisso su cui batte e
sul quale, forse, influiscono le difficoltà che il suo commercio
di olio incontra sui mercati a causa dell’olio cartaginese. Gli
altri lo ascoltano con la stessa considerazione con cui si
ascolta il nonno lunatico finché il quasi novantenne
Massinissa non fornisce un grazioso aiuto. Massinissa ha
continuato a fare figli, l’ultimo a ottantasei anni, almeno così
gli fanno credere, e a sfruculiare i cartaginesi, forte della
protezione romana. Ogni protesta degli odiati rivali è caduta
nel vuoto. Senonché, pagata l’ultima delle cinquanta
annualità dovute quali risarcimento di guerra, Cartagine
decide di farsi giustizia da sola: attacca Massinissa.
L’ammonimento di Catone trova per una volta orecchie
attente. Il Senato dà l’alt a Cartagine, le chiede in ostaggio
trecento bambini, che partono in mezzo alle urla, alla
disperazione delle madri, alcune delle quali si lanciano a
nuoto nel folle desiderio di seguire le navi e annegano.
Ormai però si è messo in moto un meccanismo infernale, lo
stesso che ha portato alla distruzione degli etruschi. Roma
cerca un motivo per scatenare la guerra. Non lo trova
chiedendo la consegna della flotta, delle armi, di gran parte
del grano perché tutto ciò le viene consegnato. Lo trova
pretendendo che la città venga rasa al suolo, che la
popolazione si ritiri dieci miglia più indietro. Gli ambasciatori
cartaginesi offrono la loro vita; sostengono, a ragione, che
non si è mai visto tanto accanimento nel solo nome della
forza. A Cartagine scoppia una rivolta popolare contro i
maggiorenti, che hanno ceduto i bambini, contro i cittadini
romani in città per affari. È la guerra agognata dall’Urbe. In
otto mesi i fenici danno la prova estrema di che cosa siano
capaci. Vengono costruite centoventi navi, diciottomila
spade, trentamila lance, ottomila scudi. Tutti i quartieri sono
fortificati.
Il Senato sceglie Publio Cornelio Scipione Emiliano per
guidare la spedizione punitiva. È il nipote dell’Africano
essendo figlio adottivo di Cornelio Scipione jr. Suo padre
naturale era Emilio Paolo, il vincitore di Pidna. Come vedete
girano sempre gli stessi nomi – da qui la necessità degli
appellativi – e le stesse famiglie, che hanno fatto e faranno
la storia della Repubblica fino ad Augusto. Per condurre a
termine la missione di morte affidatagli, Scipione impiega
tre anni. Cartagine dev’essere espugnata casa per casa. Alla
fine brucia per diciassette giorni e diciassette notti. Del
mezzo milione di persone che l’abitavano ne rimangono in
vita meno di un decimo. Il territorio diventa provincia con il
nome di Africa. È il 146: una delle civiltà più fiorenti
dell’antichità sparisce per il capriccio di un popolo.
Nello stesso anno viene liquidato ciò che resta della
pratica greca. La Lega achea ha indotto le altre città alla
sollevazione contro Roma sperando di approfittare della
guerra in corso. L’esercito del console Mummio s’abbatte su
Corinto, passa gli uomini a fil di spada, deporta le donne
come schiave, fa incetta di tutto quanto può trasportare. Il
resto viene dato alle fiamme. L’Ellade, Macedonia compresa,
diventa provincia con una leggera autonomia per Sparta e
Atene. Di Grecia non si parlerà più per duemila anni.
Cartagine dev’essere espugnata casa per casa. Alla fine brucia per diciassette
giorni e diciassette notti.
La Tetrarchia.
Giustiniano.
Francesco.
Domenico, Francesco e Tommaso danno risposte diverse
all’esigenza di un profondo rinnovamento interiore del clero.
Tanto diverse che nel prossimo secolo parecchi francescani
saranno arsi sui roghi perché accusati d’eresia dai
domenicani. D’altronde i ‘giullari di Dio’ fanno più proseliti
fuori che dentro la Chiesa: le ansie e i tormenti che li
agitano si rispecchiano nella costruzione (1228) della
cattedrale gotica di Assisi. Nel cuore della cattolicità
continuano a considerarli degli esagitati da maneggiare con
cautela e da usare in funzione anti Federico, il cui
imperversare inquieta il crepuscolo di Onorio.
Pur essendo l’ultimo gigante del Medioevo, Federico
precorre i tempi. Nel privato coltiva abitudini da satrapo:
trasforma il suo genetliaco, 26 dicembre, in festa nazionale
con generose elargizioni ai poveri; alimenta il proprio culto e
gli piace esser trattato da semidio; si sposta con una
folcloristica e innumerevole corte di consiglieri, di artisti, di
animali esotici. Ma per quanto assolutista, Federico ha
un’idea di Stato molto moderna: attua una straordinaria
tolleranza religiosa, istituisce a Napoli la prima università
pubblica – le altre tre, Bologna, Vicenza e Padova sono
private – concepisce un forte governo centrale, ben
disegnato nelle Constitutiones Melphitanae, le leggi del
regno. Il centralismo conduce Federico allo scontro con i
comuni del Settentrione, i quali trovano nel sostegno al
papato il motivo per opporsi al disegno di uno Stato unitario.
Federico lo coltiva per i propri tornaconti, ma se l’avesse
conseguito avrebbe fatto guadagnare seicento anni all’Italia.
E sarebbe rientrato nella norma che fosse un tedesco a
unificarla. Di conio germanico è infatti l’Europa delle nazioni
da Carlo Magno in avanti. Francia, Inghilterra, la stessa
Russia non sarebbero esistite senza i tedeschi. Purtroppo,
tra Federico e il suo progetto ci sarà sempre di mezzo un
pontefice, mosso dal solito desiderio di salvaguardare il
proprio potere temporale.
Comincia Gregorio IX (il conte Ugo di Segni) con una
scomunica. Il motivo? La tiepidezza di Federico nell’onorare
l’improvvida promessa, pronunciata dinanzi al sarcofago di
Carlo Magno, di allestire la quinta crociata. Ma Gregorio IX
agogna davvero la liberazione di Gerusalemme o è alla
perenne ricerca di una scusa per impedire a Federico di
essere riconosciuto re d’Italia da comuni e signorie? Gli
emissari del papa spingono gli italiani alla rivolta contro il
‘traditore’ Federico. La sua colpa è di aver ottenuto dal
sultano palestinese la cessione di Acri, Giaffa, Sidone,
Nazareth, Betlemme e Gerusalemme con una pacifica
trattativa (1229), senza spargere una goccia di sangue.
Purtroppo al pontefice amante dell’Inquisizione non va a
genio una crociata priva del consueto massacro d’infedeli.
Federico deve correre in Italia per domare il Mezzogiorno
e poi puntare sulla Germania per debellare una congiura di
principi addirittura in accordo con Enrico, il figlio. Nei suoi
confronti Federico è spietato: lo fa accecare e rinchiudere
fino alla morte in un castello pugliese. In Italia la rivolta si
propaga al Settentrione: la ricostituita Lega è intenzionata a
sbarrare il passo all’imperatore di ritorno dalle province
tedesche. Ma l’esercito di Federico è troppo superiore per
numero e armamento: a Cortenuova (1237) le schiere dei
comuni sono severamente battute. Tuttavia Milano e Brescia
non demordono. La strenua resistenza di Milano spinge
l’irriducibile papa Gregorio a bandire una sorta di crociata
contro il monarca scomunicato per la seconda volta. Genova
e Venezia accettano di farsi coinvolgere. Rispetto alle altre
città italiane hanno la flotta e un’invidiabile posizione
geografica, che le mette al riparo dalle offensive nemiche.
Federico, infatti, si limita a bandirle dall’Impero, senza
pensare d’invaderle come, invece, fa con il Lazio. Il suo
obiettivo è Roma, dove i Frangipani lavorano per lui, ma
Gregorio ha dalla sua i quattrini degli Orsini e dei Colonna:
riesce ad arrangiare una milizia cittadina, che induce
Federico a un veloce dietrofront. È una guerra di proclami e
di dispetti. Il pontefice punta a un provvedimento risolutivo
e convoca per il 1241 un concilio con il disegno di deporre
Federico.
Per evitare un viaggio zeppo d’insidie attraverso gli
Appennini, i vescovi s’imbarcano a Genova. Niente da fare:
nei pressi della Meloria le navi sono aggredite da una flotta
siculo-pisana. La città toscana si è schierata con
l’imperatore in odio a Genova, che le ha sottratto il Tirreno.
La vittoria di Federico è completata dal decesso di Gregorio.
Il successore, Innocenzo IV, è un prelato ligure, Sinibaldo
Fieschi, fin lì in posizione defilata. Sembrerebbe l’occasione
giusta per una pace ormai agognata da entrambi i fronti. Ma
ci pensa Viterbo con un’insurrezione guelfa a rinfocolare il
conflitto. Il papa teme per la propria sicurezza, si rifugia a
Lione. Qui un concilio protetto dai francesi dichiara
decaduto l’imperatore. Federico ha l’intelligenza di lanciare
un appello agli altri sovrani invitandoli ad allearsi con lui per
sconfiggere la pretesa papalina di poter deporre i monarchi
a proprio piacimento. In Europa sono mesi d’inesausti
conciliaboli, di trame, di congiure. Minacciati di scomunica
da Innocenzo, i principi e i re traccheggiano. Non
traccheggiano, viceversa, i nobili tedeschi e siciliani vogliosi
di liberarsi dal giogo federiciano. Il colpo di grazia è inflitto
nel 1248 da Parma: assediate da mesi, le abborracciate
milizie cittadine con una sortita disperata travolgono
l’esercito imperiale. Poco dopo, a Fossalta, sono i bolognesi
a vincere: tra i prigionieri figura Enzo, un altro figlio di
Federico.
Lo stupor mundi è ormai un vecchio in disarmo, sebbene
abbia soltanto cinquantaquattro anni, un’età in cui suo
nonno battagliava ancora sui campi. Il progetto politico è
fallito, la famiglia e il ‘partito’ sono a pezzi. Oltre al figlio
Manfredi, accanto gli sono rimasti in pochissimi. La pretesa
della Chiesa di non avere rivali nella Penisola ha dato fiato
agli egoismi e agli interessi spiccioli degli italiani, ben felici
di conservare ciascuno il proprio spicchio di sole, noncuranti
della tempesta all’orizzonte. A modo suo pure Federico
rende onore al grande nemico vittorioso: spira nel 1250
confessato e comunicato dopo aver indossato la tonaca dei
monaci cistercensi.
Con lui tramonta il primo germe della lingua italiana – un
misto di latino, germanico e arabo – fiorito alla corte
palermitana sull’esempio dei menestrelli provenzali, i
trovatori. Sono giunti in Italia dopo la crociata contro gli
albigesi, hanno soggiornato nel Monferrato e nella Lunigiana
prima di essere invitati nel regno di Sicilia. La Chanson de
geste alla quale s’ispirano, l’equivalente della moderna soap
opera, canta tra sospiri e languori l’amore puro e platonico
per una donna. Imitandone l’arte e i convenevoli, Sordello,
Pier delle Vigne, Jacopo da Lentini, Ciullo d’Alcamo e Guido
delle Colonne hanno composto i loro versi in quel volgare,
che s’appresta a soppiantare il latino. Lo stesso imperatore
l’ha usato per i componimenti poetici di cui si dilettava
assieme ai figli Enzo e Manfredi in un’attrazione per la
cultura, che nessuna cura dello Stato ha mai attenuato.
Palermo, Foggia, Lucera ne hanno ospitato il meglio
senza distinzione tra arabi, cristiani, ebrei. Davanti
all’eccellenza, Federico non aveva pregiudizi: all’università
di Napoli ha insegnato Pietro d’Irlanda, maestro di Tommaso
d’Aquino; a Palermo ha tenuto banco Michele Scoto,
eccellente traduttore di Aristotele e straordinario astrologo.
Questa doppia eredità di Federico non andrà perduta: il
mecenatismo e la protezione dei grandi artisti saranno la
prerogativa delle corti d’Italia, il brodo di coltura del
Rinascimento; l’uso della lingua volgare si trasferirà in
Toscana dove le arrabbiature politiche stimoleranno un
geniale poeta, Dante, a darle forma compiuta.
Nello sbandamento suscitato dalla dipartita di Federico,
papa Innocenzo cerca di trarne giovamento. Abbandona la
Francia, s’installa a Napoli, dichiara l’annessione del regno
di Sicilia agli Stati pontifici. Ma la dinastia degli
Hohenstaufen non è ancora domata. Sul trono di Germania
si è insediato un ennesimo figlio di Federico, Corrado IV: gli
basta valicare le Alpi per intestarsi i possedimenti
meridionali. Innocenzo prova a bandire un’altra santa
alleanza, stavolta i comuni si rifiutano: non c’è da difendere
la propria autonomia dalle ingerenze di un monarca, bensì
appoggiare le pretese di un papa-re, che qualora si
annettesse il Sud diventerebbe lui stesso una minaccia
all’indipendenza comunale. Innocenzo viene lasciato a
sbrigarsela da solo con Corrado e muore dal dispiacere. Da lì
a poco lo segue anche il re tedesco, cui succede Manfredi. A
differenza di padre e fratelli, Manfredi si disinteressa della
Germania: punta a diventare il regolo dell’Italia. Il pontefice
Alessandro IV (un secondo conte di Segni, Rinaldo) chiama
gli antichi alleati alle armi, ma le truppe regie, composte in
gran parte da mercenari saraceni, la cui abilità non teme in
quegli anni confronti, sbaragliano il raccogliticcio esercito
papalino.
La volontà di Manfredi di non farsi coinvolgere in vicende
lontane lo priva, però, del suo principale alleato, il cognato
Ezzelino da Romano. Rimasto isolato nelle sue terre venete,
questi viene sconfitto e lasciato morire in una segreta,
mentre al resto della famiglia è riservato un lungo ed
efferato supplizio. L’eliminazione di Ezzelino ha l’effetto di
rinsaldare i ghibellini attorno a Manfredi sempre nel timore
che l’altra parte diventi troppo forte. Timore coltivato
soprattutto dalle città toscane davanti al crescere della
guelfa Firenze. La battaglia di Montaperti, nel 1260, con la
rotta delle schiere fiorentine, ridà a Manfredi la supremazia.
Tocca a papa Urbano IV (il cardinale Jacques Pantaléon)
preoccuparsene: dopo quarant’anni di lotta, gli
Hohenstaufen sono considerati peggio del diavolo. Per
liberarsene non trova di meglio che rivolgersi all’ennesimo
straniero. Essendo lui stesso francese offre la corona del
regno di Sicilia al cattolicissimo re di Francia, Luigi IX. Il
sovrano la dirotta sul fratello Carlo d’Angiò. L’aspirante
monarca si presenta con un esercito ingente, trentamila
uomini. Tra saraceni e tedeschi Manfredi ne mette assieme
meno della metà. Eppure nella piana di Benevento (1266) è
sul punto di vincere, alla fine però soccombe. Due anni dopo
(1268) tocca a suo nipote, il quindicenne Corradino di
Svevia, figlio di Corrado, essere sconfitto a Tagliacozzo e
decapitato a Napoli. Di Hohenstaufen in Italia non si parlerà
più.
L’Italia cambia fisionomia. I comuni del Nord hanno
esaurito il loro ciclo. Le popolazioni, stanche di una feroce
contrapposizione, che non accenna a diminuire e che da
quella classica tra ghibellini e guelfi si sposta a volte tra le
fazioni di uno stesso partito, come avviene a Firenze,
chiedono forme di governo più tranquille e più stabili. Pur di
ottenerle, rinunciano alle istituzioni democratiche: ci si avvia
verso la signoria. La incarna o il capo del clan vittorioso o il
podestà chiamato da fuori per mettere fine alle dispute. Al
signore si riconoscono doti d’imparzialità e di maggior
attenzione all’interesse generale: viene ripagato con un
potere quasi indiscusso. L’esempio più calzante è Milano:
Pagano Della Torre, che dopo Cortenuova ha salvato i resti
dell’esercito della Lega, instaura un dominio personale con
l’appoggio dei borghesi e degli artigiani. È il trionfo delle
corporazioni, che si dotano di feste, di bandiere colorate e di
una disciplina ‘sindacale’. Si parla infatti di solidarietà fra gli
iscritti, di proibizione della concorrenza scorretta, di etica
commerciale, si stabiliscono orari e tariffe per apprendisti e
garzoni: purtroppo rimarranno quasi sempre a livello
d’intenzioni.
Due anni dopo (1268) tocca a suo nipote, il quindicenne Corradino di Svevia,
figlio di Corrado, essere sconfitto a Tagliacozzo e decapitato a Napoli. Di
Hohenstaufen in Italia non si parlerà più.
Giuseppe Garibaldi.
Ma quale patria? Nel 1832 il libro autobiografico di Silvio
Pellico reduce dallo Spielberg, Le mie prigioni, è stato per
l’Austria « più catastrofico di una battaglia perduta »
(giudizio di Metternich). Il regime di Vienna è sempre più
mal sopportato, tuttavia molti lo ritengono, almeno al
momento, imbattibile e suggeriscono altre soluzioni a quello
che è ormai diventato, presso tutte le corti continentali, il
problema italiano. L’abate Vincenzo Gioberti propone una
federazione di stati sotto la presidenza del pontefice, ma dà
per implicito che il Lombardo-Veneto resti sotto l’Austria. Il
conte Cesare Balbo idea una soluzione settecentesca,
quando i re erano proprietari delle nazioni: il ritiro austriaco
dall’Italia in cambio della cessione a Francesco II dei
principati danubiani, attualmente in mano ai turchi. Con
Balbo una fetta della borghesia torna a guardare al
Piemonte, d’altronde nel 1846 Carlo Alberto pare ricordarsi
dei suoi trascorsi giovanili. Incontrando lo scrittore di
maggior successo del momento, Massimo D’Azeglio,
afferma che qualora se ne presenti l’occasione lui, i suoi
figli, i suoi beni, il suo esercito sono a disposizione della
causa italiana. In quello stesso anno il partito pontificio
riacquista vigore con l’elezione di Pio IX, il cardinale
Giovanni Maria Mastai Ferretti. L’amnistia ai condannati
politici, la creazione di una guardia civica e di una consulta
di stato, una moderata libertà di stampa gli guadagnano il
favore di molti democratici. Contro l’intransigenza dei
gesuiti (riammessi nel 1814: il Vaticano non sa fare a meno
di tanta intelligenza e di tanta spregiudicatezza), ostili a
ogni intesa con il liberalismo, e contro l’intransigenza dei
cattolici liberali, che si battono per una netta separazione
tra Chiesa e Stato, Roma e una certa Italia sono convinti di
aver individuato in Pio IX il campione dell’unità. Sui muri di
Milano, di Napoli, di Palermo appaiono scritte inneggianti a
lui. Un suo consigliere lancia il progetto di una lega
doganale tra lo Stato pontificio, il granducato di Toscana, il
regno di Sardegna. Ne rimane stizzosamente estraneo
Ferdinando, alle prese con i tumulti delle sue province.
L’ultimo si estende dalla Basilicata a Reggio Calabria e
culmina nella rivolta di Palermo, gennaio del ’48. Gli insorti
sono pochi e male armati, hanno un sostenitore eccellente
nel principe Ruggero Settimo, si fanno forti dell’irresolutezza
delle truppe borboniche. Ferdinando fa bombardare la città
dal forte di Castellammare, da qui il nomignolo di re Bomba,
ma per venire a capo dell’insurrezione dilagata in tutta la
Sicilia concede l’aborrita costituzione.
Al riformismo italiano si sovrappone l’ondata
rivoluzionaria europea, che alle richieste civili aggiunge seri
problemi economici. L’incendio divampato ancora a Parigi si
propaga a Berlino, a Budapest, a Vienna. Metternich è colto
di sorpresa dalla contestazione degli studenti e dei ceti
popolari. Lo stato d’assedio non placa la protesta. L’anziano
cancelliere capisce che il problema è la sua persona, si tira
in disparte. All’annunzio delle dimissioni i veneziani bruciano
i ritratti di Metternich, assaltano le prigioni, liberano Daniele
Manin, un avvocato ebreo, e Niccolò Tommaseo, letterato di
fama e autore di un celeberrimo dizionario della lingua
italiana: sono gli esponenti più in vista del movimento
antiaustriaco. A Milano la situazione è incandescente. La
città ha partecipato con entusiasmo allo sciopero del sigaro
indetto contro le tasse del monopolio. Lo scontro è
straripato dal campo economico a quello politico. I milanesi,
insomma, sono nello spirito giusto per accogliere un
proclama stilato nella notte tra il 17 e il 18 marzo da un
gruppo di patrioti. In conseguenza di esso una gran folla si
raduna al mattino tra le chiese di San Babila e San Carlo
decisa a ottenere dal viceré, già in fuga, una serie di misure,
che ne decurterebbe l’autorità. È l’inizio delle Cinque
Giornate, uno degli episodi più belli dell’intero Risorgimento
con il popolo protagonista accanto ai soliti idealisti. Strada
per strada sorgono barricate spontanee, costruite svuotando
i palazzi. Gli scontri rispondono alla sola logica di bloccare i
movimenti dei reparti austriaci. Il Consiglio municipale è
completamente esautorato, la guida della rivolta è assunta
da un laureato in legge, Carlo Cattaneo, lontano dalla
massoneria, dalla carboneria, dalla Giovine Italia. Cattaneo
è un repubblicano convinto, un federalista in anticipo sui
tempi. Si oppone a una richiesta formale d’aiuto a Carlo
Alberto, che ha fatto sapere di essere prontissimo a
intervenire, sostiene che Milano deve fare da sola. Il 22
l’anziano maresciallo Radetzky è costretto a sgombrare le
sue truppe, nelle stesse ore anche Venezia cade in mano
agli insorti guidati da Manin.
Il 23 un giornale torinese dal profetico nome ‘Il
Risorgimento’ pubblica un editoriale, in cui si afferma che
per la monarchia sabauda è suonata l’ora suprema. La firma
è di Camillo Benso, il trentanovenne conte di Cavour,
rappresentante dell’ala liberale, che guarda alle fertili
pianure del Lombardo-Veneto non certo all’Italia. L’esercito
piemontese si muove con lentezza. Radetzky ha l’agio di
chiudersi nel munitissimo ‘quadrilatero’ (le fortezze di
Peschiera-MantovaVerona-Legnago). Nel resto del Paese
cresce la frenesia dell’intervento. Dalla Toscana giungono
ottomila volontari, tra i quali la legione degli studenti pisani;
da Roma s’incammina e s’ingrossa lungo la via una schiera
di volontari; da Napoli Ferdinando invia un corpo di
diciassettemila uomini. Appena schierati in linea vengono
richiamati indietro per essere impiegati in Sicilia: l’Isola ha
infatti dichiarato decaduta la dinastia dei Borboni. Ma la
perdita più grave per Carlo Alberto è lo svelamento del
papa. Sottoposto a durissime pressioni dalla curia e con la
minaccia di una scissione nazionalista del clero austro-
tedesco, Pio IX scopre la sua anima di tenace difensore dello
status quo, del tutto insensibile alle richieste e alle illusioni
addensatesi sulla sua figura.
Il 29 maggio la Lombardia vota a schiacciante
maggioranza l’unione con il Piemonte. Mazzini, accorso a
Milano, non si oppone; si oppone invece Cattaneo. Sono
giorni di grande entusiasmo, di piccole vittorie, di piccole
sconfitte. L’eroico sacrificio degli studenti toscani a
Curtatone e Montanara impedisce a Radetzky una manovra
d’accerchiamento, cadono alcune città venete pronunciatesi
per il Savoia, si arrende la guarnigione imperiale di
Peschiera. In un clima di assoluta incertezza si giunge alla
tragica battaglia di Custoza. Fiaccato dalle divergenze tra i
generali e Carlo Alberto, l’esercito piemontese arretra prima
ancora di combattere. Radetzky vince senza fatica.
L’armistizio obbliga Carlo Alberto a ritirarsi oltre il Ticino. Il
re abbandona Milano di notte, Mazzini afferma che comincia
la guerra di popolo. Lo prende in parola Garibaldi: è rientrato
dal Sud America, dove ha combattuto per la libertà in
Brasile, Uruguay, Argentina. Si è portato appresso i
reumatismi e l’appellativo di ‘eroe dei due mondi’, gli vanno
dietro entusiasti millecinquecento volontari, che già
indossano la camicia rossa. Anche i democratici romani
prendono in parola Mazzini: il primo ministro Pellegrino Rossi
ci rimette la vita. Pio IX fugge a Gaeta, qui lo raggiunge il
granduca di Toscana. Avendo ristabilito un ferreo ordine nei
suoi domini, re Bomba offre le migliori garanzie di
protezione a quanti si sentono minacciati dalle novità.
Non molla Venezia, s’infiamma Roma per l’ostinazione
del pontefice a non voler trattare con un governo giudicato
illegittimo. Il suo atteggiamento spinge alla lotta anche i
tiepidi. Nel febbraio del 1849 viene eletta un’Assemblea che
proclama la repubblica. La Capitale torna a esser tale dopo
secoli. Accorrono patrioti da ogni regione, accorrono
Garibaldi e Mazzini, accorre la gioventù più determinata a
inseguire il sogno dell’Italia attraverso una guerra di popolo,
alla quale continua a mancare il popolo. Anche Carlo Alberto
desidera riprendere la guerra, ma le sue mosse sono
catastrofiche. Affida il governo a Gioberti, l’esercito a un duo
impresentabile, uno sconosciuto generale polacco,
Chrzanowsky, e un vecchio arnese dei tempi napoleonici,
Ramorino. Le manovre di Gioberti per tessere una tela di
alleanze falliscono. Le sue dimissioni costituiscono il
preludio allo scontro armato. Gli equivoci e le incertezze di
Carlo Alberto e di Chrzanowsky conducono alla disfatta di
Novara, all’immediata abdicazione di questo re, che ha fatto
del grigio il suo unico colore. Il giorno dopo Radeztky tratta
la pace con Vittorio Emanuele II. Le condizioni non sono
pesanti, a patto che Vittorio Emanuele liquidi, come
promette di fare, i democratici.
La disfatta piemontese comporta la caduta della
Lombardia, di Milano, dalla quale vanno via a frotte nobili,
borghesi, artigiani, operai. Brescia paga con un terribile
saccheggio la sua rivolta. Le truppe austriache riportano
Leopoldo a Firenze. Ferdinando revoca la costituzione e non
incontra più ostacoli in Sicilia. Ormai a resistere ci sono
soltanto Roma e Venezia. Nell’Urbe il triumvirato guidato da
Mazzini confida nel ‘fraterno aiuto’ della Francia, dove è
stato nominato presidente Luigi Napoleone. Ma sono proprio
i reparti transalpini del generale Oudinot a dare l’assalto a
Roma. I volontari di Garibaldi compiono prodigi, cedono però
al numero lasciando sul campo il fior fiore della gioventù.
Tra quanti spirano, il ventenne Goffredo Mameli, che ha
appena composto le parole del futuro inno nazionale. Dopo
la resa, Mazzini viene condotto dagli stessi francesi a
Ginevra; Garibaldi con un manipolo di ardimentosi
s’incammina verso il Nord. Nelle valli di Comacchio perde gli
ultimi fedeli e l’amata compagna Anita, una brasiliana, che
per seguirlo aveva abbandonato il marito calzolaio. Gli
austriaci occupano la parte settentrionale dello Stato
pontificio, assestano la spallata definitiva a Venezia. Sotto
l’ispirata guida di Manin, la Repubblica ha retto per mesi
togliendosi perfino lo sfizio di espugnare un paio di
munitissimi ridotti austriaci. Quando però alla scarsità di
viveri e di munizioni si aggiunge il colera, sul ponte di Rialto
alzano la bandiera bianca. Radetzky entra in città a fine
agosto: si deve a lui il comportamento corretto delle truppe
e la magnanimità dei vincitori. Il tragico ’49 si conclude con
la revoca generalizzata delle costituzioni. Il solo a
mantenerla è Vittorio Emanuele. A differenza del padre, è
tanto deciso quanto rozzo. Spesso le sue azioni vanno nella
direzione opposta dei suoi disegni, tuttavia ha il buon senso
di adeguarsi al corso della Storia.
Il giovane monarca trova in D’Azeglio un intelligente capo
del governo. Assieme si dedicano al riassesto delle finanze,
all’abolizione dei medievali privilegi ecclesiastici.
Nonostante la forte opposizione del clero locale e del
Vaticano, l’operazione riesce, attira l’attenzione e le
simpatie dei tanti patrioti, che in ogni parte d’Italia cercano,
dopo le scoppole più recenti, un nuovo punto di riferimento.
Lo diventano il Piemonte e Torino. Lo diventano le opere di
un musicista di Busseto, Giuseppe Verdi: il coro del suo
Nabucco (« Va’ pensiero, sull’ali dorate... ») assurge a
colonna sonora del patriottismo. Ogni volta che viene
intonato in un teatro fa scattare in piedi la platea. Verdi non
pensa al Risorgimento, non ritiene di averne scritto l’inno,
però la sua musica dai toni alti viene vissuta dal pubblico
come un annuncio di riscossa. Sui muri delle strade il ‘Viva
Verdi’ soppianta tutte le altre scritte perché quel Verdi è
l’acronimo di ‘Vittorio Emanuele re d’Italia’.
Tra un pasticcio e l’altro, anche il futuro re si agita. La
caduta di D’Azeglio, la designazione di Cavour accentuano
le mire di rivincita del Piemonte. Il conte è un liberale
capace di pensare in grande. Il suo accordo con Rattazzi,
leader dei democratici, regala al Regno un accordo tra
destra e sinistra in grado di reggere per dieci anni. Si apre il
filone dei compromessi politici, anche se allora lo chiamano
connubio: dureranno sino alla fine del Ventesimo secolo.
Cavour ha un’intelligenza politica fuori dal comune. Capisce
che le sorti del piccolo stato sono indissolubilmente legate a
quelle della Francia e che essa in questa fase è legata a
Luigi Napoleone, acclamato imperatore con il nome di
Napoleone III nel 1851 al termine di un golpe d’intonazione
borghese.
L’Austria mal digerisce il favore che la causa del
Piemonte guadagna fuori e dentro l’Italia. Il governo del
giovanissimo Francesco Giuseppe commette un clamoroso
errore d’immagine ordinando il sequestro dei beni degli
emigranti. A spingerlo è stata l’ennesima e non riuscita
insurrezione mazziniana a Milano. Per l’apostolo della
Giovine Italia il contraccolpo è durissimo, medita il suicidio.
Ormai anche le speranze dei repubblicani e dei rivoluzionari
si appuntano sul casato sabaudo. La sottile tessitura
diplomatica di Cavour conduce all’alleanza con Francia e
Inghilterra in guerra contro la Russia. In teoria significa star
dalla stessa parte dell’Austria e in molti gridano al
tradimento. Vittorio Emanuele briga per sbarazzarsi del suo
autoritario e incontrollabile primo ministro, ma l’esito
conclusivo è trionfale per Cavour. La partecipazione quasi
accademica di quindicimila bersaglieri alle operazioni in
Crimea gli consente nel 1856 di sedere al tavolo della pace
di Parigi. Il Piemonte è entrato nel grande gioco
internazionale. Persino la sfortunata spedizione calabrese di
Pisacane, un irriducibile mazziniano, e l’attentato parigino di
Orsini contro Napoleone III diventano tasselli nel mosaico
antiaustriaco.
L’agognata guerra – la seconda dell’epica risorgimentale
– scoppia per l’arroganza di Vienna. Il suo inutile e
sprezzante ultimatum al Piemonte spinge alle armi un
Napoleone propenso a spegnere i fuochi piuttosto che ad
accenderli. In due mesi (aprile-giugno 1859) l’esercito
franco-piemontese ottiene risicati, ma significativi successi
a Montebello, a Solferino, a San Martino. La via per il Veneto
è spalancata, Napoleone ha tuttavia perso l’entusiasmo
iniziale: teme un intervento della Prussia al fianco
dell’Austria; non gli piace il dilagare del movimento unitario,
che obbliga all’esilio il granduca di Toscana, il duca di Parma
e quello di Modena. Il monarca, per di più, è assillato dai
richiami della moglie Eugenia, fervente cattolica, a sua volta
pressata da Pio IX, il quale paventa che nel nome del
Piemonte si faccia l’Italia. Tutti questi motivi inducono
l’imperatore francese a chiedere e ottenere dal collega
austriaco la pace di Villafranca. Sulla carta al regno di
Sardegna andrà la Lombardia allargata fino a Parma. Il resto
rimarrà inalterato. Cavour per protesta si dimette, il re è
lietissimo di sbarazzarsene e di sostituirlo con la
maneggevole coppia La Marmora-Rattazzi.
Sono mesi di totale confusione, la situazione sfugge di
mano a tutti e porta ai plebisciti: la Toscana, Parma,
Modena, l’Emilia votano l’annessione al Piemonte. Il ritorno
di Cavour alla guida del governo, la cessione di Nizza e
Savoia alla Francia traducono in fatto compiuto la volontà
della borghesia italiana, in cui l’elemento massone fa da
volano. L’Austria può solo digrignare i denti: il concerto
europeo guidato dall’Inghilterra è favorevole alla formazione
nella Penisola di uno stato indipendente. Verso di esso
Leopoldo di Lorena ha vanamente sospinto il nipote
Francesco II detto Franceschiello, succeduto sul trono di
Napoli al re Bomba. Il granduca di Toscana aveva intuito il
corso delle cose, ma il suo piano di un’intesa borbonico-
sabauda ha trovato freddo il giovane re. Franceschiello
assiste impassibile al continuo ingrossamento del fiume
unitario senza sospettare che sta per straripare nel suo
regno. Non immagina che la rivolta scoppiata a Palermo
all’inizio dell’aprile 1860 possa dare modo al partito siciliano
degli esuli di perorare la causa con Cavour, restio però a
ficcarsi in un’altra avventura, e con Garibaldi. Il generale
attraversa una crisi sentimentale e politica: ha sposato una
giovane nobildonna già incinta di un altro, la cessione della
sua Nizza lo ha esacerbato contro la monarchia. Forse non
presterebbe l’orecchio se il suo entourage non esercitasse
una decisa opera di persuasione. Il più accanito è un
quarantenne avvocato agrigentino, Francesco Crispi, che
dalla Giovine Italia alla massoneria ha attraversato tutto lo
schieramento rivoluzionario.
Garibaldi si vota all’invasione. All’apparenza
sembrerebbe destinata al fallimento, ma tutto gioca per
essa a cominciare da due navi inglesi, che favoriscono lo
sbarco a Marsala dei leggendari Mille (per l’esattezza sono
1087 uomini più una donna, Rosalia Montmasson, la moglie
di Crispi). L’esercito di Franceschiello vanta una superiorità
numerica strabordante, eppure a Calatafimi è sconfitto.
Potrebbe essere soltanto un incidente di percorso, invece è
l’inizio della fine: la mafia si schiera e schiera le sue
agguerrite bande con i garibaldini, le strutture borboniche si
sfaldano. Il 15 maggio è conquistata Palermo, l’8 agosto i
Mille, ormai divenuti più di diecimila grazie ai rinforzi giunti
dal resto della Penisola, approdano in Calabria. È una
cavalcata trionfale fino a Napoli: Garibaldi la raggiunge in
treno. Così come ha fatto nei secoli precedenti con tutti i
conquistatori, san Gennaro non nega il proprio favore,
espresso dall’abituale miracolo della liquefazione del
sangue. Garibaldi a Napoli inquieta la corte di Torino. Il
generalissimo ha fin qui compiuto ogni passo e ogni atto in
nome di Vittorio Emanuele re d’Italia, ma il re teme che il
‘duce’ – così hanno cominciato a chiamare Garibaldi e
Manzoni consacrerà questa definizione – tiri dritto fino a
Roma: le conseguenze paiono gravissime per la nascente
Italia.
Provvede Cavour con l’invio di un corpo di spedizione. Per
salvare il papa dal ‘primo massone d’Italia’ (è la qualifica del
‘fratello’ Garibaldi) nonché anticlericale dichiarato, il conte
strappa allo Stato pontificio le Marche e l’Umbria. Prima di
essere accerchiato Franceschiello tenta l’ultima sortita, ma
sul Volturno i suoi cinquantamila soldati sono sconfitti dai
ventimila volontari, che si sono fatti esercito in cinque mesi
di campagna. A Taverna di Catena, nei pressi di Teano,
s’incontrano il re sabaudo e l’ex guerrigliero convertitosi alla
causa della monarchia nel nome dell’unità. Spazzando via le
attese dei repubblicani (anche Mazzini è accorso a Napoli
per spronarlo) Garibaldi rinuncia a marciare su Roma e su
Venezia e cede a Vittorio Emanuele il frutto dell’insperata
conquista. I generali piemontesi, Cavour, i ministri, lo stesso
sovrano non vedono l’ora di liberarsi del disinteressato
benefattore. Garibaldi non li delude neppure stavolta: dopo
aver rinunciato a un titolo di duca, a un castello, a
un’adeguata pensione, s’imbarca per il piccolo
possedimento di Caprera in compagnia di un sacchetto di
sementi, di alcuni barattoli di caffè e di zucchero, di una
balla di stoccafissi, di una cassa di maccheroni.
Le prime elezioni generali sono riservate ai cittadini
maschi, che hanno compiuto venticinque anni e pagano
almeno quaranta lire d’imposta. Vota il due per cento della
popolazione, trionfano i candidati legati a Cavour. La legge,
che sancisce la raggiunta unità, si compone di un solo
articolo: « Il re Vittorio Emanuele II assume per sé e per i
suoi successori il titolo di re d’Italia ». Nel Parlamento
plaudente vi sono Garibaldi, Manzoni, Verdi. Assieme a
Cavour sono stati ciascuno nel proprio campo la punta di
lancia delle generazioni, che con il sangue hanno
trasformato un sogno in realtà. Purtroppo nel momento in
cui l’Italia è quasi fatta, ma bisogna fare gli italiani, e anche
oggi vedete quanto l’impresa sia ardua, viene a mancare di
colpo, per una probabile malaria perniciosa, colui che
avrebbe avuto le migliori attitudini, Cavour.
24. Gli anni difficili
1. Un altro 2000
2. Si comincia con sette re (forse...)
3. La Repubblica
4. Ahi, i cartaginesi
5. Censori, condottieri e tribuni
6. Un playboy di nome Cesare
7. L’Impero contro Gesù
8. L’adozione dei migliori
9. L’inizio del declino
10. La dissoluzione
11. La provincia Italia
12. L’impero della Chiesa
13. Qui non si fa l’Italia
14. Tra arabi e tedeschi
15. Le vie del mare
16. Si torna a vivere
17. Una lingua invece di una patria
18. Il divino poeta
19. Divisi e contenti
20. Il curioso e il tormentato
21. La Cenerentola d’Europa
22. Da un padrone all’altro
23. Una bandiera, una patria
24. Gli anni difficili
25. La quiete dopo la tempesta
26. Il terzo millennio comincia male
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