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Presentazione

Quattromila anni di storia in quattrocento pagine, senza


ridurli a un arido elenco di date e di nomi. Impossibile?
Tutt'altro: in questa "Breve storia d'Italia" Alfio Caruso fonde
documentazione e divulgazione, raccontando l'Italia
attraverso i personaggi, le mode, i costumi, le invenzioni. I
grandi eventi si intrecciano alle minuzie quotidiane, i grandi
uomini emergono da piccoli episodi, senza tacere dei loro
lati meno onorevoli: il ruolo fondamentale di Nerone per la
diffusione del Cristianesimo; la sola volta in cui Leonardo e
Michelangelo si sfiorarono dandosi volutamente le spalle;
l'unico incontro tra Manzoni e Leopardi (che non si
piacquero) e molto altro Un affresco di questa complessa
realtà chiamata Italia, e un modo efficace per trovare nel
passato le ragioni del presente.

Alfio Caruso, nato a Catania nel 1950, è storico, saggista e


autore di romanzi. Con Longanesi ha pubblicato: Da cosa
nasce cosa (2000, nuova edizione 2005), una storia della
mafia dal 1943 a oggi; Italiani dovete morire (2000),
un’appassionata ricostruzione dell’eccidio di Cefalonia;
Perch´e non possiamo non dirci mafiosi (2002), un’«
autobiografia » della Sicilia tra storia e costume; Tutti i vivi
all’assalto (2003), il racconto dell’epopea degli alpini in
Russia; Arrivano i nostri (2004), sullo sbarco alleato in Sicilia
nel luglio 1943; In cerca di una patria (2005), sui ragazzi che
combatterono nell’esercito del re dopo l’8 settembre, il
romanzo L’uomo senza storia (2005), Noi moriamo a
Stalingrado (2006), Il lungo intrigo (2007), Io che da morto
vi parlo (2009), Milano ordina uccidete Borsellino (2010),
L’onore d’Italia (2011).
www.salani.it

facebook.com/AdrianoSalaniEditore

@salanieditore

www.illibraio.it

ISBN 978-88-6918-504-5

Illustrazioni di Fabian Negrin

Prima edizione: ottobre 2001 Nuova edizione: ottobre 2006 Prima ristampa:
ottobre 2008 Seconda ristampa: maggio 2012

© 2001 Adriano Salani Editore S.p.A.

Gruppo editoriale Mauri Spagnol


Milano

Prima edizione digitale 2015


Quest'opera è protetta dalla Legge sul diritto d'autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
1. Un altro 2000

Agli italiani che vi sono immersi il nuovo millennio sembra


annunciare un’era di fondamentali cambiamenti. Il computer
promette di rivoluzionare la nostra esistenza, soprattutto di
allungarla preservandola dalle malattie. Il ventunesimo
secolo coincide, infatti, con la conoscenza forse più
importante, e inquietante, nella storia dell’umanità,
scaturita per l’appunto dall’impiego contemporaneo di
centinaia di computer: la mappa dei geni, che concorrono a
fare di ogni essere vivente quella stupenda creatura che è.
Avremo la possibilità di studiare e di affrontare molti mali
finora inesorabili, ma saremo esposti, noi e le generazioni
future, ai rischi insiti nello sfruttamento di ogni grande
scoperta, com’è capitato con il ferro, con la polvere da
sparo, con la scissione dell’atomo.
Questo clima di stupore e di attesa ci riporta a un altro
2000, quello avanti Cristo, quando gli abitanti dell’Italia, che
ancora è una penisola senza nome, escono dalle loro
caverne per assistere esterrefatti al passaggio di alcune
tribù provenienti dal Centro Europa. Non sono turisti, ma
emigranti alla ricerca di luoghi più accoglienti dove
insediarsi. Succede anche oggi, solo che allora chi giungeva
da fuori voleva ripagarsi del viaggio e delle fatiche
sottomettendo i residenti. Superate le Alpi, i nuovi arrivati
scoprono, come faranno tanti altri in seguito, l’incanto del
Belpaese e decidono di metter fine al vagabondaggio. Le
loro usanze sconvolgono gli indigeni abituati a rintanarsi
nelle caverne per proteggersi dai pericoli esterni: gli ospiti
prediligono vivere all’aperto. Costruiscono capanne di sterco
e di fango ricoperte con la paglia su travi infisse nell’acqua
(da qui la definizione di ‘palafitte’); intorno, per proteggerle,
alzano bastioni di mota e di terra battuta. Allevano animali
(cani, galli, pecore, maiali), coltivano il suolo, tessono le
stoffe. E poi posseggono la vera arma segreta dell’epoca: da
alcune tribù della loro etnia insediatesi in Germania hanno
appreso la lavorazione del ferro. Sono quindi in grado di
fabbricare utensili e armi, che li mettono in posizione di
preminenza rispetto a quei poveracci dei locali ancora fermi
agli oggetti in pietra. Al Nord sono liguri e abitano Piemonte,
Liguria, una fetta di Lombardia e una di Emilia e Romagna;
al Sud sono siculi e risiedono in prevalenza nella Sicilia.
Oltre alla povertà e a una vita densa di pericoli, hanno in
comune la testa a forma di pera e un’altezza che non
supera il metro e mezzo. Rappresentano l’evoluzione di una
specie apparsa al di qua delle Alpi circa 130.000 anni prima.
Probabilmente ignorano che nel 3500 in Mesopotamia (la
terra in mezzo a due fiumi, il Tigre e l’Eufrate, nell’Asia
occidentale, dove allora prosperavano i babilonesi, i sumeri,
i persiani e dove ora si trovano l’Iran, l’Iraq, la Siria) è stata
inventata la scrittura, che nel 3300 hanno costruito la prima
ruota, che nel 3100 sono state edificate le prime case con
mattoni di argilla e che nel 3000 in Egitto è comparsa la
candela di sego destinata a scacciare definitivamente il buio
dalle abitazioni. Differenze abissali tra aree geografiche oggi
quasi confinanti, ma cinquemila anni addietro talmente
distanti che occorreranno secoli e secoli prima che alcuni
avventurosi marinai, i fenici, le mettano in contatto. Finché
questo contatto non avverrà è proprio in quella fetta di
Africa e di Medio Oriente che incomincia la storia del mondo.
Lì gli uomini seminano, sperimentano, costruiscono, si fanno
la guerra e studiano il Cielo, perché nella loro ricerca di
risposte avvertono che lassù agisce il Motore Primo di ogni
vicenda. Gli assiri e i babilonesi progrediscono a forza
d’intuizioni, dunque ignorano che la Luna, la Terra e gli altri
corpi celesti visibili ruotano attorno al Sole. Ritengono che
siano magie inspiegabili, di conseguenza per secoli trattano
i pianeti come se fossero dei: li pregano, li onorano, li
temono. Chiamano i giorni della settimana con il loro nome:
lunedì (Luna), martedì (Marte), mercoledì (Mercurio), giovedì
(Giove), venerdì (Venere), sabato (che può essere il giorno di
Saturno, come nella traduzione inglese, saturday, oppure
quello dedicato al riposo se si accetta la radice ebraica di
shabbat), domenica (anche qui doppio significato: giorno del
Sole nella traduzione inglese, sunday, oppure il giorno del
Signore, Dominus, nel tardo latino).
Il progresso cammina in mezzo al deserto, tra fiumi
impetuosi come il Nilo, i cui straripamenti rendono ogni
anno fertile la terra e costringono i contadini egiziani a
prender confidenza con i primi elementi di geometria per
ridisegnare i vecchi confini degli appezzamenti spazzati via
dalle acque. Non è un caso che la raccolta di leggi più
antica, il Codice di Hammurabi, provenga da Babilonia, della
quale Hammurabi intorno al 1785-1750 fu un re saggio e
giusto come si desume per l’appunto dalle sue leggi.
L’umanità ha un debito enorme nei confronti di queste
genti, i cui successori adesso sbrigativamente indichiamo
come gl’immigrati provenienti dal Terzo Mondo: in realtà è
stato il Primo. E se ci spostassimo nell’Oriente ancora più
profondo, quello che nei romanzi d’avventura viene tuttora
definito ‘lontano e misterioso’, resteremmo ammaliati dalle
straordinarie invenzioni, che sbocciano in Cina. Essa, però, è
talmente ai confini della terra allora conosciuta che
bisognerà veder transitare mille soli e mille lune prima di
poter godere delle sue mirabolanti conquiste.
Di tanto fiorire – nel 2500 in Egitto vengono realizzate le
prime perline di vetro, a testimoniare il superamento delle
necessità basilari – ben poco o forse niente si sa nelle
pianure e negli acquitrini che si stendono tra le Alpi e gli
Appennini. Proprio qui s’installano i popoli giunti dal Centro
Europa: sono i veneti, gli japigi (affini agli illirici), gli umbri, i
sabini, i volsci, i latini, gli etruschi. Appartengono al ceppo
indoeuropeo, ma da qualunque parte siano piovuti sono
comunque una benedizione perché saranno i maestri dei
romani e per secoli ne costituiranno il polo d’attrazione. Gli
umbri, i sabini, i volsci, i latini saranno poi indicati come
italici: in origine, però, gli italici sono una minuscola tribù
arroccata fra il golfo di Sant’Eufemia e quello di Squillace. La
Penisola è conosciuta come Esperia o Enotria o Ausonia, dal
nome di popoli del gruppo latino-siculo. Italia è chiamata
una piccola fetta di Calabria, da qui l’appellativo si diffonde,
risale il Paese fino a indicarlo nella sua interezza intorno al II
secolo a.C.
La prima ‘civiltà’ dei nostri antenati risale ai fondatori di
Villanova, città nei pressi dell’odierna Bologna. Si allarga
alle altre regioni portando con sé l’obbligo di dare sepoltura
ai defunti oppure di cremarli. Chissà, i villanoviani hanno
forse appreso che gli uomini al di là del mare, gli egizi, gli
assiri, i babilonesi, riservano ai morti grandi onori,
approntano tombe, sarcofaghi, mausolei zeppi di oggetti di
lusso e che addirittura i sovrani dell’Egitto, i faraoni,
impiegano migliaia e migliaia di schiavi per erigere altissime
piramidi, le quali fungeranno da sepolcro per l’intera
famiglia reale. S’inizia il culto dei morti, una costante degli
umani costumi. E da noi un preciso giorno dell’anno, il 2
novembre, è dedicato ai defunti: li si visita nei cimiteri
portando quegli splendidi fiori autunnali, i crisantemi, che
nei paesi di origine, la Cina e il Giappone, sono considerati
invece fiori ornamentali per eccellenza. Ma in talune regioni
del Sud il 2 novembre è molto atteso dai bambini: al
risveglio trovano giocattoli e doni inviati, secondo la
tradizione, da chi non c’è più, mentre in realtà sono stati
acquistati da genitori e parenti.
Mentre gli egiziani si servono già della meridiana per
misurare il trascorrere dei mesi e delle stagioni, i nostri avi
si regolano con le albe e con i tramonti. D’altronde i loro
bisogni sono molto meno raffinati, devono ancora difendersi
dalle belve, dal freddo e dall’umido degli Appennini, attorno
ai quali sono accampati. La ricerca di luoghi più temperati li
conduce, intorno al 1000 (quando i cinesi cominciano a
utilizzare il carbone come combustibile e il ghiaccio per
conservare il cibo), tra la foce del Tevere e la baia di Napoli.
Ormai si è creata una mescolanza in cui vanno persi i
caratteri distintivi di coloro che una volta erano i residenti e
di coloro che erano gli invasori, ma questo non elimina i
motivi di attrito. Sorgono una miriade di villaggi. Nel tempo
si trasformeranno in grandi città: da Bologna, chiamata
Felsinea, a Milano, chiamata Melpo, con il contorno di
Piacenza, Ravenna, Modena, Parma e di tanti altri
capoluoghi del Nord in continuo sviluppo grazie all’influenza
etrusca. Lo stesso avviene con gli umbri, con gli oschi dai
quali derivano i sanniti, i sabini, i volsci, i marsi e altri
ancora di cui si è quasi perso il ricordo. Insomma, sono più o
meno tutti imparentati tra loro, abitano in posti che distano
pochissimi chilometri l’uno dall’altro, sono angustiati dai
medesimi problemi di sopravvivenza, ma ogni scusa è
buona per incrociare la daga (la spada corta e robusta in
uso all’epoca) e a volte per farli riappacificare non bastano
neppure i fulmini delle divinità. L’Italia dei mille campanili,
delle infinite dispute comunali è già nata.
Il Paese è un gran pentolone in ebollizione sotto il quale
accende l’ultimo fuoco l’ennesima corrente migratoria
sviluppatasi intorno all’VIII secolo: dalla Grecia giungono
frotte di coloni smaniosi di nuovi spazi e di terre più fertili di
quelle abbandonate nella loro pietrosa penisola. Divisi in
patria, i greci lo sono anche negli insediamenti in Sicilia, in
Calabria, in Puglia, in Campania. I calcidesi fondano Naxos
(l’odierna Taormina), Catania, Messina, Lentini, Reggio e
Cuma; i corinzi Siracusa; i megaresi Megara Iblea (cioè
Augusta); i dori Crotone, Sybaris, Metaponto; gli spartani
Taranto. Questi immigrati con la puzza sotto il naso, verbosi,
litigiosi, individualisti portano con sé le istituzioni e le regole
che hanno trasformato i loro antichi villaggi in città-stato
facendone al contempo un modello del vivere civile.
Dobbiamo a loro la paroletta magica, che racchiude la forma
più avanzata di governo degli uomini: democrazia. Il termine
(composto da due sostantivi, demos e kratos, che si
traducono con popolo e potere) significa il potere del
popolo, il quale attraverso il voto elegge i propri
rappresentanti. Il sogno per cui si sono battute e sono morte
intere generazioni in ciascuno dei cinque continenti. In
realtà nell’ordinamento greco il sostantivo demos non
indicava tutti i cittadini, ma soltanto alcune classi sociali. In
ogni caso tale ordinamento rappresentava quanto di più
avanzato si potesse auspicare.
Oltre alla paroletta magica, i greci portano un’usanza
molto più comune, tuttavia di grande praticità: la maniera di
contare gli anni. Per loro il riferimento sono le Olimpiadi. Il
nome deriva dal luogo dove sono nate e dove si svolgono
ogni quattro anni a partire dal 776: Olimpia, la cittadella
consacrata al numero uno degli dei, Zeus. Accanto ai templi,
con i quali cercano di accattivarsi il favore di Zeus e della
sua turbolenta e dispettosa famiglia, i greci hanno avuto
l’accortezza di costruire un campo sportivo: tradotto in
soldoni, un’immensa spianata. In occasione
dell’appuntamento quadriennale, che fa camminare a
braccetto sport e religione, i giovani più prestanti accorrono
da ogni angolo della Grecia per inseguire l’alloro olimpico.
Non è soltanto amore per lo sport. Oltre alla mitica corona,
una vittoria nella lotta, nella corsa a piedi o a cavallo, nel
lancio del disco e del giavellotto garantisce così tanti
privilegi da indurre i più spregiudicati ad accordi sottobanco
più o meno leciti, quando non direttamente all’imbroglio
bell’e buono. In pratica la copia conforme di ciò che avviene
anche oggi. Eppure il valore simbolico delle Olimpiadi è
immenso da subito: si tratta dell’unica occasione in cui
vengono interrotte le interminabili guerricciole che all’ombra
delle due città-stato per eccellenza, Sparta e Atene,
imperversano in tutta la Grecia. Di rincalzo ai greci
approdano sulle coste del Meridione i più audaci e fantasiosi
marinai dell’antichità, i fenici, gli antenati dei palestinesi.
Provengono da quella fetta di Asia abitata dagli ebrei, con i
quali si sono sempre guardati in cagnesco. Le loro città, Tiro
e Sidone, si affacciano sul mare e da esso traggono
nutrimento. Alla pesca i fenici hanno presto aggiunto il
commercio. Su barchette appena più grandi di una
scialuppa scorrazzano per il Mediterraneo. Nei porti dove
attraccano espongono una mercanzia invitante: utensili di
grande aiuto per la vita quotidiana, monili, stoffe colorate,
soprattutto di porpora, che fanno scoprire la vanità alle
donne. In mezzo a tanti popoli bellicosi, sempre propensi ad
affidare le proprie sorti alle armi, i fenici sono gli unici a
puntare sul commercio. Sono i primi uomini d’affari della
Storia. Appena in una zona intravedono la possibilità di
concludere accordi vantaggiosi piantano le tende e creano
uno scalo commerciale, che spesso crescerà fino a
trasformarsi in città.
Non volendo imporsi con le armi, i fenici vengono accolti
bene ovunque e sono una manna per chi li ospita giacché
hanno in serbo un dono ancora più prezioso delle loro
ambite merci: l’alfabeto. Sì, proprio quell’elenco di vocali e
consonanti, studiato sin dal primo giorno di scuola e senza il
quale saremmo nei pasticci. A chi sia venuta l’idea e per
quale preciso motivo, lo si ignora. Probabilmente, come
spesso accade, fu il bisogno. Ai fenici serviva uno strumento
veloce e duttile sia per stilare contratti sia per mandare e
ricevere notizie da casa durante le lunghe assenze. I
geroglifici degli egizi così come la scrittura cuneiforme dei
babilonesi erano complessi e laboriosi: da qui la trovata
geniale dei segni, ciascuno dei quali rappresenta un suono,
con i quali si formano tutti i vocaboli occorrenti. Dopo
tremila anni sono scomparsi i fenici, ma il loro modello di
scrittura è stato adottato da quasi tutte le lingue del
pianeta.
Non hanno preoccupazioni di scrittura i latini intenti a
espandersi nel basso Lazio. Il loro problema vitale è la
ricerca di terre fertili per le colture, per il bestiame. La
capitale Alba Longa (all’incirca Castel Gandolfo), un borgo
appena più esteso degli altri, è ormai insufficiente a
contenere la crescita della tribù. Soprattutto i più giovani
manifestano – come si ripete da tremila anni – voglia di
avventura, di un’esistenza diversa da quella dei loro
genitori. Un gruppo di essi lascia Alba Longa, si dirige al
nord, cioè a una trentina di chilometri, vicino al Tevere. Zona
piena di acquitrini, di stagni, con l’insidia della malaria, ma
con il vantaggio di essere libera, a disposizione di chi se ne
impossessa. È proprio ciò che cercano quegli avventurosi
coloni – cinquanta, cento? – la cui identità è sconosciuta e
per i quali la leggenda si sovrappone alla realtà. Magari nel
gruppo ci sono davvero due fratelli, magari i loro nomi
hanno qualcosa in comune con Romolo e Remo, magari i
due avranno bisticciato, ma la lite, l’aratro che traccia il
confine, l’omicidio appartengono alla leggenda.
Hanno in serbo un dono ancora più prezioso delle loro ambite merci: l’alfabeto.

La cruda e misera realtà apparirà squalificante alla Roma


del IV secolo, che comincia ad affacciarsi sul mondo con
fiere ambizioni. A quegli orgogliosi guerrieri sembrerà
impossibile, e soprattutto umiliante, che a dare inizio alla
storia, e quale storia, siano stati braccianti e pecorai
senz’arte né parte. No, occorrevano natali molto più nobili.
Si forma così la leggenda di Enea, l’eroe buono dell’Iliade,
che, fuggito da Troia in fiamme portando sulle spalle
l’anziano padre Anchise e in mano le immagini votive dei
defunti, vagabonda in lungo e in largo prima di sbarcare nel
Sud dell’Italia. Da qui raggiunge il Lazio, sposa Lavinia, la
figlia del re Latino, fonda una città alla quale dà il nome
della moglie. In seguito suo figlio Ascanio fonda Alba Longa,
sul cui trono dopo circa duecento anni siederanno due loro
discendenti, Numitore e Amulio. Ma due è il numero
sbagliato se c’è posto per uno solo. Così, quando Amulio
decide di essere quell’uno, caccia Numitore, gli uccide tutti i
figli maschi e tiene in vita l’unica femmina, Rea Silvia. La
confina, però, tra le sacerdotesse della dea Vesta, obbligate
al voto di castità. Amulio, infatti, desidera evitare che Rea
Silvia abbia figli in grado di vendicare il nonno. Rea Silvia,
invece, ha tanta voglia di un figlio, o di un marito, che i suoi
segreti pensieri convincono Marte ad accontentarla. E alla
ragazza sarà sembrato il più appagante dei sogni dato che
l’impetuoso dio della guerra la mette incinta mentre dorme.
Dalla sbrigativa unione nascono due gemelli, Romolo e
Remo, per l’appunto. Zio Amulio però sta in agguato: fa
adagiare i gemelli su una piccola e traballante zattera, che
poi viene abbandonata sul Tevere nella certezza che le
acque del fiume o, caso mai, quelle del Tirreno
provvederanno a ingoiarla. In questa parte della leggenda,
che sarà rifinita ai tempi di Augusto, si avverte l’influenza di
un’altra avventura sul fiume a lieto fine: il miracoloso
salvataggio di Mosè dalle acque del Nilo. La futura guida del
popolo d’Israele deve la vita alla predilezione del
Padreterno, Romolo e Remo la devono, invece, al vento, che
conduce la rudimentale zattera su una secca. Richiamata
dagli strilli delle due piccole pesti giunge una lupa, che
anziché sbranarli li allatta: in tal modo si garantirà l’eterna
riconoscenza dei romani. Verrà, infatti, eletta a simbolo della
città. Tentando poi di umanizzare la leggenda qualcuno
sosterrà che la sentimentale e caritatevole bestia fosse una
donna in carne e ossa, Acca Larentia, detta ‘la lupa’ per i
suoi modi selvaggi e per le corna che infliggeva al povero
marito. La sostanza della vicenda comunque non muta:
Romolo e Remo crescono sani, robusti, ribaldi. Arrivati alla
maggiore età, ai due è svelata la loro rocambolesca
avventura, il nobile lignaggio da cui discendono, i soprusi
subiti dai parenti. Essendo figli di Marte ci mettono un
niente a tornare ad Alba Longa, a organizzare una rivolta, a
uccidere Amulio, a ricollocare sul trono Numitore. Ma le
vicissitudini del nonno hanno fatto intendere ai ragazzi che
non si può regnare in due: decidono di cercare altrove gloria
e spazi sufficienti per entrambi. La sede prescelta è quella
dove la zattera si era arenata: la circondano sette colli.
Faticando ad accordarsi sul nome da conferire alla città,
anche se al momento sono un paio di casupole e nulla più,
salgono Remo sull’Aventino e Romolo sul Palatino. Chi vedrà
più uccelli avrà il diritto di scelta. Remo ne vede sei, Romolo
dodici: si chiamerà Roma, colei che è destinata a realizzare
un potere mondiale la cui durata è rimasta finora imbattuta.
Chi vedrà più uccelli avrà il diritto di
scelta. Remo ne vede sei, Romolo dodici:
si chiamerà Roma.

Stabilito il nome, bisogna tracciare i confini attorno al


Palatino. Due bianchi buoi servono a scavare il solco, lungo
il quale viene eretto il primo muro di cinta. Romolo costringe
Remo a giurare che uccideranno chiunque oserà
oltrepassarlo, ma Remo non ha digerito la sconfitta e per
dimostrare che quelle mura sono fragili con un gran calcio
ne sbriciola una fetta. A Romolo non pare neanche vero di
potersi liberare dello scomodo gemello, nel timore che se
non fosse stato lui a ucciderlo, un giorno sarebbe stato
Remo a spaccare la sua testa. Forse è in quest’occasione
che viene formulato uno dei più famosi proverbi romani,
‘mors tua, vita mea’, per molti, ahinoi, una regola di
comportamento.
Così l’avventura di Roma s’inizia quel 21 aprile del 753
a.C. Data tuttora festeggiata nella Capitale e che cambiò il
modo di contare gli anni, soppiantando la moda greca di
fare riferimento alle Olimpiadi. Poi sarebbe arrivato il Cristo
e sarebbe cominciata tutta un’altra storia.
2. Si comincia con sette re (forse...)

Con Romolo re senza più timori di concorrenza, gli abitanti


di Roma cominciano la loro dura fatica di pastori e contadini.
Servono braccia per coltivare le terre, per catturare gli
animali da allevare e non ci si cura della fedina penale dei
forestieri. Le vestigia di un tempio dedicato al dio Asilo ci
chiariscono che ad arrivare furono soprattutto uomini che
avevano conti in sospeso con la legge. Nel nuovo borgo non
si chiede loro di regolarli, quello che si chiede è di dare una
mano, anzi tutt’e due le mani. Roma, insomma, si fonda su
quel principio di riscatto sociale, da cui nascerà, in secoli
recenti, l’Australia. Si svolge la vita quotidiana di ogni
villaggio in ogni epoca, ma con una differenza non piccola:
al ritorno a casa, dopo una giornata trascorsa sui campi o in
collina, Romolo e i compagni non trovano nessuno ad
aspettarli. Le loro casupole sono vuote, non ci sono donne
che le accudiscano, che si preoccupino di preparare la cena
e che, soprattutto, mettano al mondo figli. In breve: giorni
senza gioie e senza futuro. Che fare? In qualche modo si
provvedette, ma per sapere come bisogna di nuovo affidarsi
alla leggenda. D’ora in avanti si verificheranno episodi
quanto meno dubbi, conoscerete personaggi probabilmente
mai esistiti. La Storia è in grado di spiegarci la crescita civile
di Roma, ma sa dirci poco, pochissimo sui suoi protagonisti.
Così non resta che il mito, il racconto a tratti fiabesco di ciò
che è accaduto. Ricordatevi, quindi, di prendere fatti e nomi
con le molle.
Per alzare il morale degli abbacchiati sudditi, Romolo
indice una grande festa alla quale invita i vicini sabini, che
accorrono in massa assieme al loro re, Tito Tazio. Si mangia,
si beve, si familiarizza, s’invitano i sabini a dimostrare la
loro maestria nella corsa a piedi e a cavallo. Su di giri per le
abbondanti libagioni, gli ospiti non chiedono di meglio.
Quando esausti e soddisfatti smettono, hanno la cattiva
sorpresa di non trovare più le figlie, le sorelle, qualcuno
anche la moglie. I romani le hanno portate via. Vista la
facilità con cui ci sono riusciti bisogna pensare che forse sia
nata allora la fama di conquistatori di cui i maschi italiani
vanno così fieri. I sabini, tuttavia, non gradiscono lo
scherzetto. Il giorno dopo si presentano armati di tutto
punto per riprendersi le loro donne. Qui compare a sorpresa
una ragazza, Tarpea, che già da tempo pare vivesse con i
romani. A lei, si dice, erano state affidate le chiavi del
Campidoglio, dove i suoi amici si sono asserragliati assieme
alle sabine. Sorvolando sul Campidoglio, che sarebbe stato
costruito con una velocità inaudita, e sulle chiavi, un
oggetto troppo moderno per l’epoca, ciò che conta è il
tradimento di Tarpea. Consegna le chiavi del Campidoglio o
forse svela dove sono nascosti quegli scapestrati dei suoi
amici. Tarpea tradisce per amore: se i romani vogliono le
sabine, lei vorrebbe un sabino, addirittura il re, Tito Tazio.
Ma questi non dev’essere molto sensibile al fascino
femminile, per di più interpetra la riconoscenza in un modo
assai singolare: ordina di schiacciare Tarpea sotto gli scudi.
E la poveretta, prima vittima di quell’amore insensato, che
nei secoli farà strage di donne, sarà segnata in eterno: i
romani, infatti, chiameranno con il suo nome la rupe dalla
quale faranno precipitare i traditori della patria.
Quando le due accozzaglie sono l’una di fronte all’altra,
le presunte rapite si mettono in mezzo. Avendo compiuto la
loro scelta, non vogliono che lo scontro imminente le privi di
un padre, di un fratello, del futuro sposo. Finisce con un
gigantesco pranzo nuziale e con la decisione di unire le
forze in una sola tribù. Romolo si trova di nuovo obbligato a
una convivenza sul trono, ma Tito Tazio ha il buongusto di
andarsene presto al Creatore liberando per la seconda volta
il suo coinquilino dalle preoccupazioni dinastiche. In tal
modo Romolo può dedicarsi al vero grande problema, che si
profila all’orizzonte di Roma. Ai confini del suo povero
orticello, cioè svoltato l’angolo, dominano gli etruschi, che
per stile di vita paiono esser piovuti da un altro pianeta.
In effetti ancora oggi ignoriamo da dove arrivassero. La
metodica distruzione adottata dai romani dopo averli
sconfitti ha lasciato ben poco di loro e campo aperto a ogni
deduzione. Gli ultimi rinvenimenti archeologici e le
ricostruzioni dei teschi inducono gli studiosi a considerarli
villanoviani. La dimestichezza con il mare e con le navi
sarebbe frutto dei contatti ravvicinati con i greci. Gli etruschi
chiamano Tirreno (che nella loro lingua significa, per
l’appunto, etrusco) il mare che bagna la Toscana, perno
dell’insediamento. Nell’VIII secolo la loro lega comprende
dodici città: Volterra, Arezzo, Perugia, Cortona, Chiusi,
Volsini, Populonia, Vetulonia, Vulci, Veio, Cere e Tarquinia, la
principale, che però non riesce a esercitare un ruolo guida
stante l’insofferenza delle altre a farsi comandare. Ognuna
delle dodici città preferirà restare autonoma ed esser
sconfitta dai romani piuttosto che consorziarsi e affrontare
tutte insieme il pericolo comune.
In quell’Italia rozza e stentata gli etruschi costituiscono
un faro di civiltà. Le città sono governate da un lucumone,
che è il numero uno eletto dai cittadini. E questo lucumone,
da cui il nome di lucumonie dato alle città, di volta in volta
può essere re, capo o, molto più semplicemente, magistrato.
Gli etruschi sono grandi mercanti. Per affari sono già andati
in Piemonte, in Liguria, in Lombardia prima di raggiungere,
superando a piedi le Alpi, le valli del Rodano e del Reno.
Visitano, dunque, la Svizzera, la Francia, la Germania
quando i sudditi di Romolo faticano a uscire dai confini del
Lazio. Gli etruschi diffondono l’uso della moneta quale
comodo strumento di scambio: il giorno in cui i romani
decidono di adottare anch’essi le monete, copiano quelle
etrusche e vi lasciano incisa la prua di una nave benché non
posseggano una flotta. A Veio e a Tarquinia sorgono
rinomate scuole d’ingegneria e di medicina. I centri abitati
sono forniti di strade, di fogne. Vengono costruiti canali
navigabili, con cui disinfestare le terre dalla malaria. Gli
etruschi impiegano protesi dentarie e conoscono l’uso del
‘ponte’ per rinforzare i molari, come dimostrano i crani
ritrovati. D’altronde hanno il ferro occorrente, che vanno a
prelevare sull’isola d’Elba.
Giudicando ancora dai modesti resti scoperti durante i
secoli, pare di poter dire che conducessero un’esistenza
gioiosa, nella quale le donne godevano di notevole
indipendenza e di un importante ruolo sociale. Amano lo
sport: i contatti con tanti popoli diversi li spingono oltre le
rituali gare di atletica, d’ippica, di boxe: praticano infatti
discipline antesignane del polo e della corrida. Da loro i
romani erediteranno l’uso della toga, dei gioielli su mani e
braccia, dei cosmetici, dei profumi, del mangiare e bere
distesi su comodi divani. Quello che non vorranno adottare è
la libertà dei costumi, soprattutto da parte delle donne:
saranno definite ‘etrusche’ le signore un po’ spregiudicate e
delle prostitute si dirà che seguono il costume toscano.
Gli etruschi onorano il dio Tinia, posto a capo di un
governo di dodici dei. Al pari di Giove, anche Tinia si
manifesta con fulmini e tuoni quand’è arrabbiato, ma per i
suoi fedeli i problemi non sono di qua, dove tutto sommato
se la spassano, ma di là, dove li aspetta il tribunale delle
dodici divinità, che giudicheranno il loro comportamento
terreno. Nasce il concetto di paradiso per chi se l’è meritato
– un paradiso molto terreno fatto di allegre bevute, di grandi
mangiate e di altri diletti – e d’inferno per quanti non hanno
seguito i precetti del vivere civile. Di questo inferno gli
etruschi temono le pene al punto d’affidarsi in punto di
morte ai parenti affinché con preghiere e sacrifici ottengano
per loro una sorta di tardiva assoluzione.

Da loro i romani erediteranno l’uso della toga, dei gioielli su mani e


braccia, dei cosmetici, dei profumi, del mangiare e bere distesi su
comodi divani.

Ecco con chi i romani e i sabini s’apprestano a fare i


conti. Ammesso che non li abbiano cominciati a fare appena
messo il naso su quel tratto di Tevere. Potrebbe darsi, infatti,
che i ragazzotti di Alba Longa trovassero sul fiume una
piccola colonia etrusca, la quale aveva chiamato rumon
quell’insediamento. E rumon in etrusco significa fiume e da
rumon può benissimo discendere Roma con la conseguenza
che Romolo sarebbe allora un etrusco, così come
certamente etrusco è il rito della fondazione con il toro e la
giovenca bianchi, che scavano il solco dopo il volo augurale
di dodici uccelli. In questo caso la stessa leggenda,
formatasi a Roma nel IV secolo, sarebbe servita non soltanto
per assicurarsi una discendenza d’alto lignaggio, ma anche
per cancellare ogni traccia di Etruria nella nascita di Roma.
Di sicuro c’è che sabini, latini ed etruschi s’incontrano.
Probabilmente i primi due fanno comunella contro le
avanguardie di un popolo superiore che, sapendo di esserlo,
li guarda dall’alto in basso e pensa di sfruttarli. Per gli
etruschi l’avamposto nel povero Lazio – ricco soltanto di
legname, di olio, di farro, di vino – è una semplice tappa
intermedia nell’allargamento verso il più prospero
Meridione. Sono troppo brillanti, progrediti, sicuri di sé per
curarsi di quei braccianti analfabeti senza scuole, senza
organizzazione sociale, senza quattrini. Non prevedono che
proprio la mancanza di beni e di divertimenti condurrà i
romani verso l’unica struttura capace di strapparli alla
miseria del vivere quotidiano: l’esercito. Gli etruschi saranno
il loro banco di prova. Dopo averli distrutti, e occorreranno
duecento anni, avranno acquisito le conoscenze e la
preparazione necessarie per dedicarsi alla conquista del
mondo.
Nella Roma che muove i primi passi Romolo non muore
come tutti gli altri, ma viene rapito da papà Marte. A Romolo
condotto in cielo e in attesa di essere trasformato nel dio
Quirino (il santo protettore dei romani) succede Numa
Pompilio. Ci viene descritto come un re pacifico e pio,
instauratore di culti e costruttore di templi. Numa è molto
attratto dalla contemplazione e accentua la visione religiosa
del proprio ruolo. Governa una città in cui ciascuno dei tre
popoli pretende che i propri dei abbiano la meglio su quelli
degli altri due. Di conseguenza tocca a lui stabilire priorità e
mettere ordine. Ci riesce promulgando un calendario nel
quale fissa anche i giorni festivi e soprattutto li riduce, vista
la tendenza di questi nostri avi ad abusarne: buon sangue
non mente. Numa divide l’anno in dodici mesi lunari: il
primo è marzo, poi a seguire aprile, maggio, giugno,
quintile, sestile, settembre, ottobre, novembre, dicembre,
gennaio, febbraio. Lascia ai suoi assistenti in materia di
religione, chiamiamoli sacerdoti, di allungare o di accorciare
ogni mese purché alla fine dei dodici la somma sia di
trecentosessantasei giorni. La concessione si trasformerà in
abuso al punto che Cesare sarà costretto a rimettervi mano
per fare ordine. Nessun problema, invece, con i giorni del
mese suddiviso, secondo le tre fasi lunari (novilunio, primo
quarto, plenilunio), in calende (il primo di ogni mese), none
(5 e 7), e idi (13 e 15).
Da abile re e sacerdote Numa sostiene che le sue
decisioni hanno un’ispirazione divina: ogni notte la ninfa
Egeria lo visita in sogno e gli suggerisce le iniziative da
prendere. I romani le prendono talmente sul serio da
accettarle senza aprire bocca. Ne conseguono il
riconoscimento del valore sacrale dell’autorità e la ferrea
applicazione della disciplina: due qualità che faranno nei
secoli la fortuna di Roma e che sanciranno la supremazia dei
suoi ordinamenti e, quindi, dei suoi eserciti. Ciascuno degli
abitanti si sente investito di una missione e fa di tutto per
assolverla. I diretti interessati probabilmente non lo sanno,
ma è il trionfo del principio di responsabilità, che sta alla
base di ogni vera democrazia. È quella di cui agli inizi si
nutrono romani, etruschi e sabini. Non esistono classi
sociali, favoritismi, privilegi: anche il re conduce l’aratro nel
proprio appezzamento di terra. Esistono, invece, le tre tribù
dei fondatori formate ciascuna da dieci curie. Ogni curia è
composta da dieci casate o gentes, ogni casata è divisa in
famiglie. Le curie si radunano due volte l’anno (il comizio
curiato) per esaminare la situazione e votare. Una testa un
voto, la maggioranza naturalmente vince, il re esegue. La
regola vale in pace e in guerra, quando il comizio curiato
viene sostituito dal comizio centuriato. A esso il re, che per
altro ha diritto di vita e di morte sui soldati, è obbligato a
chiedere un parere. Lo fa anche per la nomina degli ufficiali,
chiamati pretori.
Sull’esempio delle città greche, tutto il potere viene dal
basso. Nella gestione degli affari correnti il re è un esecutore
della volontà popolare. Non può intervenire nelle beghe
private, può farlo soltanto se la condotta del cittadino ha
rilevanza pubblica, se interferisce con l’interesse dello Stato.
Da questo punto di vista Numa è un re perfetto. Non cerca
di estendere i propri poteri, si dedica con passione
all’interpretazione del volo degli uccelli e delle viscere degli
animali sacrificati, preserva la pace di Roma. La qual cosa
finisce con l’annoiare fino alla malinconia i fondatori
dell’Urbe, che di svaghi ne hanno pochini.
Le capanne si sono allargate, ma genitori, figli, nonni e
animali vivono più o meno tutti assieme. Le giornate sono
scandite dalle necessità della terra. Gli uomini la lavorano
accompagnati dai ragazzini, la cui unica scuola sono i
modesti insegnamenti degli adulti: l’unico privilegio che
hanno è di non dover imparare il latino. Il mestiere passa di
padre in figlio assieme alle regole, il cui fondamento è
l’obbedienza: dei giovani ai pater familias, dei pater familias
al re e ai suoi aiutanti, di tutti loro alle divinità da coccolare
con preghiere e sacrifici nella speranza che mandino l’acqua
e il sole al momento propizio per favorire prima la semina,
poi il raccolto. Converrete che non è una gran vita. Per
fortuna manca la possibilità di fare paragoni. Non soltanto
con l’effervescenza delle città etrusche, ma anche con
quanto avviene oltre il mare: a Mileto, in Asia Minore, opera
già la prima scuola filosofica, quella di Talete, che comincia
a indagare sui misteri della natura.
A Roma non hanno di queste curiosità. Le ore trascorrono
tutte eguali l’una all’altra, dal canto del gallo al tramonto.
L’igiene è approssimativa, l’acqua nelle case non arriva, le
fogne sono sconosciute, così come gli unguenti, i balsami.
Capelli e barba crescono a dismisura. Come spesso accadrà,
a risentirne maggiormente sono le donne, trattate più o
meno come bestie da soma. Tocca a loro recarsi al pozzo per
attingere l’acqua e trasportarla nelle pesanti anfore,
preparare il pasto, andare in giro a raccogliere qualche
foglia di lattuga e un po’ di frutta. E le incombenze non sono
finite: madri e figlie hanno anche da cucire le rudimentali
tuniche per l’intera famiglia e se avanza tempo accorrere
nei campi a dare una mano. L’unico divertimento per gli
uomini è giusto qualche ora di caccia in modo da unire
l’utile al dilettevole e variare il consueto menu di farina,
farro, olive, cacio. Il vino è un lusso, l’olio viene impiegato
per curare la pelle. Per le donne non c’è proprio niente.
Sfacchinare e procreare sembra il solo destino. È bandita
ogni forma di vanità; se anche qualche signora o signorina
desiderasse praticarla, le mancherebbero gli strumenti.
Dopo tanti anni di dura e ripetitiva fatica, si capisce che
gli abitanti abbiano fame di qualche emozione. Per questo
alla morte di Numa Pompilio il comizio curiato sceglie,
secondo la leggenda, un successore dalle caratteristiche
opposte, Tullo Ostilio, che la guerra la evoca già nel nome. E
trova bell’e pronto il mezzo per farla: la mitica legione. È la
figlia in armi delle trenta curie. Ognuna fornisce una
centuria (cento) di fanti e una decuria (dieci) di cavalieri. In
termini pratici tremilatrecento soldati. Ecco il primo esercito
di Roma, dal quale si desume che all’epoca la sua
popolazione è di poco superiore alle trentamila anime divise
fra il villaggio e la campagna. Abbiamo detto esercito, in
realtà è una massa disordinata, vociante, senza differenze di
grado e insegne tra ufficiali e truppa, dove il re è spesso
confuso in mezzo ai sudditi e dove ciascuno è armato con
quanto ha trovato in casa: bastoni, vanghe, zappe, rasoi.
Pochi posseggono spade e lance, non esistono elmi,
corazze, armature. Ma ciò che l’esercito di Roma possiede
da subito è un altissimo spirito di sacrificio, l’intimo
convincimento di essere chiamato a un compito. E tanto più
alto sarà il compito, tanto più devastante sarà la ferocia di
quei pastori e contadini. Alba Longa, che in teoria è la
madrepatria, viene distrutta pietra su pietra, scompare dalla
geografia e dalla Storia. Il suo re subisce una pena efferata:
è legato con le gambe a due carri, che partono in direzione
opposta. Alba Longa è la prova generale di che cosa sono
capaci i romani quando prendono di punta un nemico:
capiterà poche volte, ma saranno sufficienti a fare sparire
due grandi civiltà come quella etrusca e quella cartaginese.
Avendo vinto, Roma tramanderà una versione
cavalleresca della sua prima guerra. È il famoso episodio
degli Orazi e dei Curiazi, cioè del duello fra tre fratelli
romani e tre albalongani, al quale i due eserciti avrebbero
rimesso le sorti del conflitto. In svantaggio per 2-0 (cioè due
romani uccisi contro zero albalongani), Roma avrebbe
miracolosamente trionfato per 3-2. La leggenda anticipa già
il clima da derby calcistico, l’ultimo Orazio alla stregua di un
Batistuta dell’antichità.
Agli abitanti della futura Urbe, al momento un paesone
che dal Palatino si è esteso agli altri colli, l’era di Tullo Ostilio
va a sangue. Il re si dimostra un gran politicante capace di
convincere i comizi che le sue decisioni sono le loro. Alla
città piacciono il suo spirito d’avventura, la sua politica di
annessioni. Sono conquiste facili alle quali segue un
miglioramento delle condizioni generali. Così è normale che
a Tullo Ostilio segua un re con il suo stesso profilo, Anco
Marzio, il quale tra una battaglia e l’altra con i latini fonda
Ostia avvicinando i suoi concittadini a quel mare, che non
amano, ma dal quale è impossibile prescindere in vista del
definitivo confronto con gli etruschi. A spingere su questa
strada sono gli stessi discendenti degli etruschi, che a Roma
si occupano del commercio e che vedono nelle guerre un
mezzo sicuro per incrementare gli affari. Sabini e latini sono
rimasti agricoltori: all’inizio si oppongono a queste
spedizioni militari, che sottraggono braccia alla terra. Poi
però giungono le vittorie e con esse la spartizione di nuove
terre, il possesso dei prigionieri, che i soldati portano a casa
e trasformano in schiavi con minori diritti delle bestie
domestiche. In tal modo la guerra comincia a esser vista
come un guadagno anche da quanti la devono
materialmente fare.
Fin qui i mitici re di Roma hanno avuto una provenienza
terriera, sono stati scelti tra i sabini e i latini. In città però è
cresciuta una nuova classe, i mercanti, che reclamano
maggior spazio politico e che negli ultimi anni di Anco
Marzio (intorno alla fine del VII secolo) individuano il proprio
campione in Lucio Tarquinio. La novità è grossa: come
suggerisce lo stesso nome, Tarquinio non è nato a Roma,
bensì a Tarquinia da un greco, Demirato, emigrato da
Corinto, e da una donna etrusca. Si è trasferito sulla scia dei
successi, che hanno trasformato il borgo selvaggio di
Romolo nel centro più importante della regione. Roma si è
allargata a sud, a est, a nord strappando abitazioni e
territori a latini, sabini, volsci, etruschi. Ormai è il polo di
attrazione di chi coltiva ambizioni. Tarquinio ci viene
tramandato come ricco, brillante, colto: saprebbe addirittura
di geografia, di filosofia, di matematica. È l’espressione dei
commercianti, degli artigiani, degli affaristi di vario genere
giunti soprattutto dall’Etruria a sfruttare le proprie superiori
conoscenze. Roma ne ha un assoluto bisogno sia per
aumentare e migliorare i propri arsenali, sia per dotarsi dei
più moderni conforti. Dopo decenni di esistenza
parsimoniosa e triste, i suoi abitanti sono attratti dal
benessere. Di denaro sonante se ne vede ancora poco –
mezzo secolo prima l’hanno inventato i lidi in Asia Minore,
dalle parti del mar Egeo; nella Penisola soltanto gli etruschi
lo usano con regolarità – ma c’è abbondanza di argento, di
oro, di vino, di grano, di formaggio, di tessuti, di quei beni,
cioè, che in una società basata sul baratto garantiscono il
tenore di vita.
Naturalmente si è riversata in città anche una massa di
poveracci, che di questo miracolo economico vede soltanto
il luccichio. Sono gli schiavi, i vinti rimasti senza casa, i
contadini che hanno abbandonato i piccoli poderi, i poveri
lavoratori delle botteghe. Costituiscono il plenum, da cui
sarà tratto l’appellativo che li marchierà in eterno, plebe.
Una moltitudine crescente, affamata di quel tutto di cui è
priva, sempre pronta a cadere in braccio al primo
demagogo: lo trova in Lucio Tarquinio. In qualche modo è
eletto re in barba alla tradizione. A lui, detto Prisco (dal
latino prior, primo), si fa risalire l’inizio di un nuovo costume.
Tramonta la Roma arcaica, legatissima a una democrazia
assembleare, nella quale contavano le virtù morali, le
subentra una Roma in cui spregiudicatezza e quattrini
domineranno la scena al punto che molti storici collocano a
questa data il sorgere di una pratica che non passerà più di
moda: le tangenti.

Viene costruita la cloaca massima, ciòe la rete fognaria, che finalmente


libera le strade, e i romani, dai rifiuti e dalla puzza con i quali hanno
convissuto.

Tarquinio edifica la reggia, vi colloca il trono, definisce un


cerimoniale, circonda la propria figura di un’importanza che
non è più quella sacrale dei predecessori. Tarquinio tralascia
le funzioni religiose, si dedica interamente alla gestione del
potere. Nel far questo porta alla luce l’altra grande virtù dei
suoi sudditi, che da questo momento si accompagnerà alla
forza militare: una particolare versatilità nelle costruzioni. In
pochi anni Roma cambia volto. Viene costruita la cloaca
massima, cioè la rete fognaria, che finalmente libera le
strade, e i romani, dai rifiuti e dalla puzza con i quali hanno
convissuto. È approntato il Circo Massimo, dove i
protagonisti sono pugili, lottatori, artisti provenienti
dall’Etruria. Vengono innalzate costruzioni con il tetto
spiovente da ambo i lati, strade, quartieri, il foro per
accogliere le adunate dei cittadini. Sul finire del regno di
Tarquinio Roma s’avvia a essere una metropoli, ma la sua
crescita, non solo demografica, spaventa i tradizionalisti,
che vorrebbero tenerla legata alle virtuose, e misere,
abitudini dei padri fondatori. Costoro hanno nel Senato il
loro riferimento. L’opposizione ai fautori del progresso, i
modernisti, si fa aspra e annuncia un contrasto che segnerà
i secoli di Roma. I modernisti, però, non mollano. Li
rappresenta la classe dei nuovi ricchi, commercianti,
banchieri, industriali, la quale ha bisogno del cambiamento
per salvaguardare le fortune accumulate con gli appalti
pubblici e con i commerci. Le tiene bordone la plebe,
conquistata dalle sfavillanti esibizioni di lusso e dalle briciole
che ogni tanto le vengono elargite. Ai tradizionalisti non
resta che il delitto per sperare in una restaurazione: difatti
Tarquinio viene ucciso. Ma la sua scomparsa non frena il
corso della Storia, la quale anzi, per la legge del
contrappasso, assume la fisionomia di una donna. E per una
società brutalmente maschilista come quella romana non
può esistere schiaffo più bruciante. Tanaquilla, la vedova di
Tarquinio, è un’etrusca che ha studiato, che proviene da una
lunga tradizione d’indipendenza femminile, che è bene
addentro ai segreti, ai compromessi, alle camarille, di cui
suo marito era stato il motore. Tanaquilla, insomma, il
potere della famiglia non lo cede. Lo conserva per il figlio
Servio Tullio, che forse è figlio invece di una schiava – siamo
alla leggenda della leggenda – ma che comunque diventa il
successore di Tarquinio, sebbene quella romana non sia una
monarchia ereditaria.
L’epoca di Servio si caratterizza per l’ulteriore sviluppo
edilizio – viene eretta la cerchia delle mura esterne – e per
la riforma censitaria, che diventerà la base di tutti gli
ordinamenti romani. La città è cambiata sotto ogni aspetto. I
comizi curiati, serviti per centocinquant’anni a rendere
funzionante la democrazia di base, non sono più
rappresentativi. In tanti ne restano esclusi e fra questi, oltre
ai larghi strati della plebe quotidianamente attratti in città
dalla possibilità di un ingaggio, vi sono i detentori di grandi
ricchezze, i capitalisti, ai quali è impossibile negare un ruolo
politico. Prima di procedere ai profondi cambiamenti, Servio
si assicura un seguito personale dando la cittadinanza ai
libertini, i figli dei liberti, cioè degli schiavi liberati, che in tal
modo si trasformano nei suoi partigiani, la prima forma di
partito così come la si intende oggi. Servio ne ha bisogno
per trasferire il potere dai comizi curiati, che rimangono a
livello di club araldico, ai comizi centuriati divisi in cinque
classi in base al reddito e chi non raggiunge il gradino più
basso resta fuori. Si va dai più poveri, coloro che detengono
un patrimonio di 12.500 assi, ai più abbienti, coloro che di
assi ne hanno almeno 100.000. Quanto vale un asse?
All’incirca 500 lire delle nostre.
La rivoluzione di Servio da un lato chiede ai più ricchi di
sopportare il peso maggiore dell’esercito, fornendo 98
centurie, 18 delle quali a cavallo; ma dall’altro assegnando
un voto per ogni centuria regala loro la maggioranza
assoluta giacché le altre quattro classi contribuiscono con
95 centurie. La democrazia assembleare, che ha governato
Roma fino a Tarquinio Prisco, è ormai uno sbiadito ricordo.
La città è adesso retta da una singolare alleanza tra i ricconi
autorizzati a farsi le leggi su misura e il proletariato, che,
ricevendo da essi un salario e qualche passatempo (un
comportamento demagogico fotografato in latino
dall’espressione panem et circenses), ne diventa il
sostenitore più accanito. Il garante di tale accordo è Servio,
il quale però sa di essersi attirato odi inestinguibili. Si
protegge con la creazione di una guardia reale, che va ad
aggiungersi agli altri segni esteriori di un potere sempre più
assoluto: il diadema d’oro, il trono d’avorio, lo scettro
sormontato da un’aquila, che Servio tiene in mano quando
dà udienza. E per parlargli bisogna prenotarsi e aspettare il
proprio turno. Il sesto re di Roma non lo è per volere dei
cittadini, ma per investitura divina, sebbene essa si sia
manifestata attraverso un assassinio, e si comporta di
conseguenza.
Ancora una volta il grande sconfitto è il Senato, in cui
s’incontrano gli ultimi cultori dei comizi curiati e della
democrazia assembleare spazzata via da Servio. Come
avevano fatto con il padre, ai senatori non resta che tessere
il filo di un’altra congiura di palazzo che abbatta il figlio.
Trovano un appoggio nella stessa famiglia di Servio, nel
nipote Tarquinio, che è pure suo genero avendone sposato
una figlia. Tarquinio dapprima tenta di far deporre lo zio con
un voto di sfiducia, ma le centonovantatré centurie lo
riconfermano all’unanimità al Campo di Marte, sorto
all’esterno delle mura. Allora non resta che il pugnale.
Tarquinio lo usa. L’illusione del Senato, che il regicida abbia
agito per restaurare l’antico sistema e liquidare la fazione
capitalista, dura il tempo di vedere Tarquinio sedersi sul
trono d’avorio e autonominarsi re.
Quest’altro Tarquinio dev’essere un bel tipetto se in poco
tempo gli appioppano l’appellativo di Superbo. La sua era
battezza l’espansionismo in politica estera. Fra l’Arno e il
Volturno la forza militare di Roma non ha confronti. La mitica
legione, che con i suoi tremilatrecento soldati aveva
distrutto Alba Longa, si è moltiplicata per dieci. La potenza
economica consente una netta supremazia tecnica
all’esercito in marcia dietro le insegne con l’aquila e con i
fasci di verghe di olmo e di betulla, tenute insieme da
corregge rosse e con al centro una scure. Sono i simboli
della romanità: saranno adottati dalla Rivoluzione francese,
dal Risorgimento e, purtroppo, dal fascismo.
A farne le spese sono gli etruschi: ci rimettono le colonie
in Campania e una vasta fetta del proprio territorio. Sul
finire del sesto secolo Roma è la potenza del Centro Italia. Il
prezzo da pagare è un regime oppressivo, spesso
dipendente dai capricci del re. Dopo la cacciata, di lui si dirà
che si divertiva a uccidere, che era talmente sospettoso che
bastava un nonnulla a scatenare la sua furia omicida. Una
vena di prepotenza trasmessa al figlio, Sesto Tarquinio, e
che diviene la causa della rovina del casato. Una
discussione tra Sesto Tarquinio e suo cugino Lucio Tarquinio
Collatino sulle virtù delle rispettive consorti induce i due
giovani a lasciare l’accampamento per fare una visita
notturna alle mogli. Quella di Sesto viene sorpresa nel bel
mezzo di una festa mentre quella di Lucio, Lucrezia, è
intenta a preparare una veste per il marito lontano. Il
successo familiare di Lucio scatena l’ira di Sesto. Sottopone
Lucrezia a una corte serrata e alla fine, un po’ con le buone,
un po’ con le cattive, la piega. Sconvolta per l’accaduto, la
povera donna si ammazza dopo aver confessato il
tradimento al padre e al marito. Uno dei tanti nemici di
Tarquinio, Lucio Giunio Bruto, che pur essendone nipote ha
avuto il genitore ucciso da lui, sfrutta l’episodio per chiedere
al Senato di decretare la perdita del trono e l’esilio per il
Superbo. La prima sollevazione armata nella storia di Roma
porta all’espulsione di Tarquinio e dei suoi congiunti. Il re
deposto corre a mettersi sotto la protezione del lucumone di
Chiusi, Porsenna, meditando una rivincita.
È il 509, Roma chiude con la monarchia. In questo
turbinio si perde la più clamorosa scoperta del tempo: il
famoso teorema formulato da Pitagora, il quale in realtà
divulga una scoperta già fatta dagli egizi. È uno di quegli
avvenimenti, che hanno modificato le nostre conoscenze, la
cui applicazione continua a essere una pietra fondamentale
della matematica. I romani lo conosceranno attraverso gli
etruschi, che all’importanza della scuola ci credono mentre
nell’Urbe ginnasi e licei sono ancora ritenuti superflui.
Avrete intuito pure voi che i sette re sono probabilmente
una favola. Nei duecentoquarantatré anni trascorsi tra la
fondazione e la cacciata di Tarquinio il Superbo saranno stati
ben di più (una media di regno superiore ai trent’anni per
ciascuno ci pare assai elevata per quei tempi). Se,
viceversa, sono stati proprio sette, il numero ha un che di
simbolico perché sette saranno i monarchi Plantageneti in
Inghilterra e sette saranno i Borboni in Francia.
3. La Repubblica

L’espulsione di Tarquinio sancisce la fine della monarchia.


Troppo pericolosi questi re, che poi tentano di sottrarsi al
controllo degli elettori. E siccome quelli che più ci hanno
provato appartenevano al ramo etrusco, l’Etruria, i suoi
costumi, le sue mode, le sue scuole, i suoi figli e nipoti, tutto
viene messo all’indice. Dimenticando che il progresso e i
successi dai quali è stata baciata sono dovuti anche
all’apporto di una borghesia nata e sviluppatasi sul modello
etrusco, Roma si volge al passato. Gli sconfitti di ieri sono i
vincitori di oggi. I Tarquini vengono indicati come la causa di
ogni male, il ripristino delle antiche usanze come la via più
breve per raggiungere quelle che sono da sempre le massime
aspirazioni dei popoli: la libertà e la giustizia.
Ai comizi centuriati, ai cittadini-soldati, la cui sollevazione
ha liberato la città dal despota, viene affidata la designazione
dei due consoli in carica per un anno. I consoli sono i supremi
magistrati, che guidano la Repubblica (Res Publica, la Cosa
pubblica). Vengono scelti entro una lista di candidati fornita
dalla potente casta dei sacerdoti. I sacerdoti guidati dal
pontefice massimo (rex sacrorum), sono gli unici abilitati a
interpretare il volo degli uccelli, a leggere le viscere degli
animali, a trarre indicazioni da altri fatterelli della natura: il
loro giudizio è tanto inappellabile quanto insormontabile.
Magari nelle occasioni più importanti si manda qualcuno a
consultare la Sibilla, una indovina che sta a Cuma ed è in
stretti rapporti con Apollo, o addirittura si affronta il viaggio
fino a Delfi per chiedere il parere dell’Oracolo, ma per tutto il
resto, specialmente per il resto che ha a che fare con la
bottega, i sacerdoti di casa in stretti legami con le classi
dominanti vanno benissimo. E se una mattina sostengono che
gli dei non vedono di buon occhio la candidatura di
Sempronio, Sempronio è pregato di ripassare il prossimo
anno. In tal modo il consolato rimane un affare tra poche
famiglie, quelle che compongono il Senato e che ritengono di
avere in appalto perpetuo le magistrature più importanti. La
qualifica di pontefice, destinata a trasmigrare nella gerarchia
cattolica, nasce dall’antica e specifica attribuzione di questi
magistrati: pontes facere, cioè costruire i ponti sul Tevere.
I due consoli, coadiuvati dal Senato.

Dopo la nomina, i due consoli, coadiuvati dal Senato


governano l’Urbe, ma dato che le incombenze aumentano
ogni giorno, attorno a essi si verrà formando una burocrazia,
alla quale spetterà la gestione degli affari correnti.
Spunteranno i questori con funzioni di assistenti-segretari dei
consoli, mentre ai pretori, fin lì ufficiali della legione, saranno
affidate anche funzioni giudiziarie. Chi durante il mandato
avrà bene meritato vedrà aprirsi le porte del Senato, cioè il
sancta sanctorum della tradizione e del potere. La Storia ci
dice che i trecento senatori, i consoli, i questori, i pretori e poi
gli edili (addetti al controllo di prezzi e mercati, nonché
all’organizzazione di feste religiose e giochi pubblici) si
dimostrarono all’altezza delle aspettative. Quel rozzo popolo
di pastori e di contadini seppe allevare e selezionare un
personale di primissima scelta, capace di assolvere al meglio
le funzioni di governo in tempo di pace e di trasformarsi in
straordinari condottieri quando la parola passava alle armi.
Tanto rigore, tanta attenzione alle forme, che poi si traduce in
eguale attenzione alla sostanza, si colgono già nel rigido
protocollo: la sovranità del Senato e del popolo che lo esprime
è garantita persino nei dettagli. Non a caso proprio dagli
ultimissimi anni del VI secolo a.C. sui monumenti, sulle
costruzioni eretti per conto della Repubblica viene apposta la
sigla SPQR, abbreviazione di Senatus Populus-Que Romanus,
il Senato e il Popolo che governano Roma. Ma il popolo è
sempre meno quel tutto, cui siamo abituati. Esso comprende
due sole classi: i patrizi e i cavalieri. I primi discendono dai
patres, cioè dai fondatori della città. In quanto tali hanno il
privilegio del seggio senatoriale: lo rimarcano esibendo il
nome dell’antenato (Fabio, Giulio, Valerio, Emilio, Claudio),
iniziatore della gens, la famiglia, intesa in senso lato con le
diramazioni di fratelli, sorelle, figli, nipoti. I secondi
appartengono alla fresca classe degli equites, cioè dei più
ricchi tra quanti hanno fatto fortuna accorrendo a Roma. Sono
etruschi, sanniti, volsci, equi ormai trapiantati dentro le mura,
che si sentono romani, che ambiscono a contare in rapporto
alle considerevoli sostanze accumulate. Preoccupati
dall’invadenza numerica della plebe, i patrizi solleticano la
vanità dei neoborghesi accogliendoli in Senato. In cambio i
cavalieri accettano che le differenze di nascita rimangano
inalterate – non avranno diritto al titolo di patres, dovranno
accontentarsi di essere conscripti (iscritti alla lista) – e che il
loro voto determinante sostenga le scelte, spesso settarie, dei
patrizi. È l’immancabile alleanza, che si ripeterà mille volte
nella storia, tra nobiltà e borghesia con la sola eccezione della
Rivoluzione francese: e sarà il trionfo della ghigliottina.
Anche nella Roma repubblicana è previsto qualcosa di
simile, ma soltanto per chi tenti d’impadronirsi di una carica a
dispetto del popolo o per chi, ahilui, tenti di farsi nominare re.
E quest’accusa, che non abbisogna di molte prove, consente
ai senatori di liberarsi degli avversari scomodi. D’altronde
negli anni tra il VI e il V secolo un sacro furore sembra
accendere chiunque, soprattutto coloro che nel nome della
Repubblica esercitano le proprie funzioni. Publio Valerio è
divenuto console per il rifiuto di Collatino, nominato assieme a
Lucio Giunio Bruto (in fondo avevano entrambi causato la
deposizione del Superbo). Publio Valerio va subito a caccia di
un consenso generale. I suoi atti gli valgono il soprannome di
Publicola, cioè di ‘amico del popolo’, il popolo, beninteso, di
quegli anni: nobili e gran borghesi. Ma Publio Valerio è bravo a
tenersi buoni anche i piccoli elettori con il ricorso – tipico dei
demagoghi – a un accentuato formalismo. È lui a introdurre
l’usanza di far abbassare le insegne dell’imperium, i fasci
condotti da dodici sottufficiali (i littori), all’ingresso del
console nei comizi centuriati. Nella simbologia comune
rappresentano il potere coercitivo dei magistrati. Publicola fa
compiere l’atto di sottomissione affinché sia chiaro chi
comanda a quanti hanno occhi per vedere.
Già, chi comanda? In teoria i componenti dei comizi
centuriati, che comunque rappresentano una minoranza degli
abitanti di Roma, cioè delle cinque classi, la cui suddivisione
risponde a un apparente principio di giustizia: chi paga più
tasse, chi deve dare di più in tempo di guerra, ha più potere
decisionale. Il bello e il cattivo tempo lo fa, dunque, la prima
‘classe’, che ha conservato il privilegio accordato da Servio di
contare 98 voti su 193. Insomma, sono sempre i capitalisti in
combutta con i senatori a dettare le regole del gioco. Dopo
tanti proclami, dopo aver dato l’impressione di voler cambiare
Roma, è cambiato ben poco rispetto all’esacrata era dei
Tarquini. Ventiquattro secoli più tardi un acuto osservatore
della realtà, Tomasi di Lampedusa, proclamerà nel suo unico e
celebrato libro, Il Gattopardo: « Se vogliamo che tutto
rimanga com’è, bisogna che tutto cambi ». L’unico
cambiamento è la fine del boom economico, coincidente con
la fine degli appalti pubblici. La carica dei consoli è troppo
breve perché questi possano varare le imponenti opere alle
quali avevano messo mano i due Tarquini e Servio Tullio. E poi
ai senatori non dispiace tenere sulla corda la borghesia delle
arti e dei commerci, che si è tanto arricchita con le commesse
dello Stato. Per avere al guinzaglio pure la plebe, il Senato fa
revocare l’ultima concessione di terre predisposta dal
Superbo. È la rovina di parecchi piccoli proprietari, privati nel
volgere di poche ore (con l’invenzione della meridiana è
diventato facile contarle) dell’appezzamento e della casupola
e costretti a rientrare in città, dove lavoro non ce n’è. Di
giorno in giorno cresce il rimpianto per quando, secondo la
versione ufficiale, si stava peggio. La prodigalità dei Tarquini,
la facilità di guadagno, la comodità del vivere fanno passare
in secondo piano, nel giudizio di molti, specialmente dei
neopoveri, la corruzione, il capriccio, che avevano
contraddistinto la monarchia.
Su questo dilagante malumore punta il Superbo per un
ritorno a Roma. Spiega a Porsenna che i tempi sono maturi
per fare di quella figlia degenere la tredicesima lucumonia o,
al peggio, per ridurla alle dimensioni del villaggio che fu.
Porsenna ascolta, ma si muove con cautela. Gli etruschi sono
allo zenith del proprio splendore: il fresco accordo con i
cartaginesi ha fruttato l’esclusivo controllo del Tirreno
occidentale, tuttavia Porsenna non si fida della capacità dei
suoi di stare insieme senza litigare. Prima di schierare
l’esercito, s’aggiudica il favore di latini e sabini. Prova persino
a suscitare una rivolta interna puntando sugli antichi legami di
Tarquinio. Questi riesce ad arruolare due figli di Lucio Giunio
Bruto, colui che l’aveva fatto cacciare. La congiura, però,
viene scoperta, Lucio Giunio Bruto diventa il più inflessibile
giudice dei figli, condannati alla pena capitale. La Repubblica
è salva, non lo stesso si può dire dei suoi territori. Le città del
Lazio in aperta rivolta massacrano le guarnigioni romane.
Dall’Etruria s’avvicina Porsenna alla testa di un esercito
imponente messo assieme con i soldati di ogni consorella.
Roma è isolatissima, esposta alle vendette di popoli, che da
decenni soffrono la sua voglia d’espandersi. Sulla carta ha
una sola alleata, la spregiudicata Cartagine, interessata a
bloccare la crescita di quegli etruschi, assieme ai quali si è
divisa il mare. Con Roma priva di flotta ha concluso un patto
sulle rispettive zone d’influenza, ma non ha alcuna voglia
d’immischiarsi nelle vicende italiche.
Nonostante alcuni episodi di straordinario valore, da Muzio
Scevola (mette su un braciere la mano che ha fallito
l’assassinio di Porsenna) al sacrificio di Orazio Coclite (da solo
blocca l’esercito nemico mentre i compagni distruggono il
ponte sul Tevere), Roma deve contrattare la resa: restituisce i
territori conquistati in precedenza. Porsenna, però, non sfrutta
la vittoria. Rinuncia a rimettere sul trono Tarquinio, forse teme
un suo voltafaccia; rinuncia a ristabilire i contatti con le
colonie etrusche del Sud, a malpartito davanti
all’intraprendenza di quelle greche. Soddisfatto del risultato
raggiunto, Porsenna ritorna a Chiusi, le altre lucumonie
richiamano i loro uomini, l’esercito confederato si liquefa. Gli
etruschi hanno perso l’ultima chance, mentre si annuncia una
nuova minaccia: i galli, una tribù celtica, che sta
attraversando le Alpi e si riversa nella Pianura padana. Nella
sorte delle città etrusche si può leggere in trasparenza la
sorte dei comuni italiani durante il Rinascimento. L’incapacità
di unirsi li esporrà alle scorribande, all’occupazione dello
straniero.
Il ritiro di Porsenna non risolve le difficoltà dell’Urbe. Latini
e sabini in armi hanno nell’etrusca Veio la baldanzosa
capofila. Roma ha pochi mezzi per affrontarli, ma li usa al
meglio: ottiene una rocambolesca quanto inaspettata vittoria
al lago Regillo, nel 493 a.C. Dopo questo successo viene
stipulato il foedus Cassianum, l’alleanza con la Lega latina:
prende nome da Cassio, il console che la firma. Roma può
respirare, la sopravvivenza, però, ha avuto un prezzo enorme.
Della potenza che era con i Tarquini rimangono poco più di
500 chilometri quadrati in un’area compresa tra Fregene e
Anzio. Anche all’interno la situazione si è fatta esplosiva. La
sofferta vittoria del lago Regillo è stata preceduta e seguita da
violenti moti popolari. La plebe non ha più voglia di
combattere le guerre decise dal Senato, soprattutto le guerre
perse, che non solo la lasciano senza il bottino cui si era
abituata con i re, ma addirittura la privano dei poderi divenuti
preda del nemico vincitore. E la sua rabbia aumenta nel
vedere che patrizi e cavalieri in ogni caso se la cavano: i loro
beni rimangono intangibili, quando non aumentano. I ricchi
prestano soldi alle famiglie dei militari, i quali spesso non
sono in grado di restituirli e si trovano ridotti allo stato di
schiavi con moglie e figli.
Il malcontento cresce. L’impossibilità d’incidere nei comizi
centuriati per i pochi voti a disposizione dell’ultima classe
porta la ribellione nelle strade. Improvvisati capipopolo
domandano a gran voce la cancellazione dei debiti,
l’assegnazione di nuove terre, la possibilità di eleggere
magistrati propri. Come capita in tutti i conflitti sociali, anche
stavolta chi detiene il potere tende a non cederlo. Il Senato e i
capitalisti non aprono alcuna trattativa convinti di stare dalla
parte della ragione. Non si aspettano che la plebe receda di
colpo da richieste e proteste scegliendo la strada
dell’astensionismo, che sarà poi seguita da Gandhi nella lotta
per l’indipendenza dell’India. I lavoratori si ritirano sul Monte
Sacro, cinque chilometri fuori dalla città, e incrociano le
braccia. Annunciano che da quel momento i patrizi e i
cavalieri se la dovranno vedere da soli per coltivare i campi e
fare le guerre. È questa evenienza a terrorizzare il Senato. Il
destino di Roma è appeso a un filo: se le sue legioni si
assottigliano, che ne sarà di essa e di coloro che la
governano?
Uno dei maggiorenti, Menenio Agrippa, tenta di rabbonire
la massa raccontando una favoletta istruttiva. È il famoso
apologo sulle braccia e le gambe che lavorano per dare da
mangiare allo stomaco, il quale, da parte sua, trasforma il
cibo in nutrimento per l’intero organismo, quindi anche per le
braccia e per le gambe. Lo stomaco, secondo lui, sarebbe il
Senato; braccia e gambe la plebe. Forse l’apologo è troppo
sottile, forse la plebe non è convinta di questa
interdipendenza, in ogni caso la mozione dei sentimenti cade
nel vuoto. A patrizi e cavalieri non resta che trattare, nella
fattispecie accettare la cancellazione dei debiti, la restituzione
alla libertà di quanti sono caduti in schiavitù. Ma la conquista
più importante della plebe è il riconoscimento del suo ruolo
politico. Dal 494 anch’essa ha diritto a esprimere due tribuni
(letteralmente: rappresentanti della tribù), ai quali spetta
difendere la vita e i beni dei compagni opponendo il veto alle
decisioni dei consoli e degli altri funzionari. Oltre ai tribuni la
plebe ottiene di nominare anche due edili.

I lavoratori si ritirano sul Monte Sacro, cinque chilometri fuori dalla città, e
incrociano le braccia.

Il 494 diventa così l’anno della svolta, la prima


rivendicazione proletaria giunta a buon fine. Giusto in tempo
per consentire a Roma di fronteggiare un periodo di gravi
turbolenze. Domati i latini, che d’ora in avanti faranno parte
dell’esercito repubblicano, si annuncia un’insurrezione di
volsci ed equi. Sono anni confusi, di guerricciole ininterrotte,
ma spesso intervallate da lunghi periodi di relativa calma.
Pure di questi fatti d’armi più che la storia è sopravvissuta la
leggenda. Conoscerete probabilmente gli episodi di Coriolano,
un patrizio intransigente che dapprima tradisce i suoi, ma poi
si fa uccidere dai volsci per salvare Roma; di Cincinnato, che
in sedici giorni di dittatura sbaraglia gli equi, rinunzia agli
onori e torna ad arare il proprio podere; di Mario Furio Camillo,
astuto nell’entrare a Veio alla testa di un drappello di arditi
attraverso un cunicolo fatto scavare sotto le mura. Della tosta
città etrusca, da sempre rivale di Roma e alla quale in quel
momento sta contendendo lo sfruttamento commerciale della
foce del Tevere, non si salvano che i sassi. Tutto il resto è raso
al suolo, i sopravvissuti ridotti a schiavi, il vasto territorio
incorporato. Siamo nel 396 a.C.: dopo un secolo la vendetta di
Roma si è abbattuta sugli etruschi. Ma non è finita qui.
La ripresa militare si accompagna a una evoluzione della
vita cittadina, scandita dai successi di quello che potremmo
definire il partito socialista. I tribuni della plebe si battono per
la certezza del diritto: pretendono che le leggi siano messe
per iscritto, non più affidate alla tradizione orale e al libero
arbitrio dei magistrati civili e religiosi. In questo modo
nessuno conosce bene i contenuti della legge, né quale sia la
pena per chi la viola. I magistrati finora l’hanno ferocemente
applicata nei confronti dei nemici – quasi sempre i più poveri,
quelli che non hanno voce in capitolo – e benevolmente
interpretata nei confronti degli amici, appartenenti come loro
alle classi alte. Anche stavolta il Senato prova a resistere, ma
davanti alla minaccia di una seconda secessione sul Monte
Sacro cede. Accetta d’inviare tre dei suoi in Grecia a studiare
le leggi di Solone, la cui fama di sapiente legislatore ha
raggiunto l’Italia. Al ritorno degli ambasciatori, dieci giuristi,
detti decemviri, sotto la guida di Appio Claudio promulgano le
Dodici Tavole. Sono l’equivalente laico dei Dieci
Comandamenti, che Dio dettò a Mosè, e nella sostanza non se
ne distanziano granché; sono il codice che da quel giorno,
siamo nel 450, regola l’esistenza di Roma e di coloro che si
possono fregiare del titolo di civis romanus; sono la base del
diritto romano, quale viene tuttora studiato in ogni facoltà di
Legge del pianeta. Completano il patrimonio della romanità,
che verte su tre capisaldi: la guerra, l’architettura, la
giurisprudenza.
L’unico contraccolpo giunge dai decemviri. Alla scadenza
del loro mandato biennale si rifiutano di decadere dalla carica,
di rinunciare agli ampi poteri di cui godono. Nella consueta
mescolanza di verità e fantasia, pare che sia Appio Claudio a
voler mantenere il posto per conquistare una bella ragazza
del popolo, Virginia, la quale tuttavia non vuole saperne di
entrare nel suo harem. Tra lusinghe e intimidazioni si arriva al
fattaccio. Per liberare la figlia dall’incubo, il padre Lucio
Virginio pugnala Appio Claudio, poi corre dai soldati per
raccontare l’accaduto e chiedere protezione. La vicenda
indigna la plebe, che rioccupa il Monte Sacro, e offre al Senato
la giusta causa per mandare a casa i decemviri e in esilio il
focoso Appio Claudio. La democrazia può rimettersi in marcia.
In un secolo e mezzo compirà tutto il percorso che in quella
fase sarà possibile compiere.
Nel 445 a.C. la lex Canuleia riconosce i matrimoni misti fra
patrizi e plebei. Un anno dopo c’è l’ammissione dei plebei al
tribunato militare con potestà consolare. Nel 366 viene
nominato il primo console plebeo, nel 356 il primo dittatore
plebeo, nel 351 il primo censore plebeo (carica creata nel 443
per sollevare i consoli dai lavori del censimento), nel 337 il
primo pretore plebeo. Nel 300 i plebei sono accolti tra i
pontefici e gli àuguri, nel 287 le deliberazioni votate dalla
plebe – i plebisciti, antenati del referendum – sono equiparati
alle leggi votate dai comizi centuriati. È la chiave che apre la
porta della stanza dei bottoni, il Senato: i plebei finalmente
siedono accanto ai patrizi e ai cavalieri, condividono le stesse
magistrature. Queste rimangono collegiali, annuali e gratuite.
Però sono così importanti, prestigiose, contese, che per
ottenerle vengono investite cifre considerevoli. Come
succedde oggi per un seggio da deputato o da senatore.
Nel 287, allorché viene promulgata la lex Ortensia sui
plebisciti, Roma è sul punto di chiudere quattro secoli di
conflitto con gli etruschi. L’abbiamo lasciata che si gode la
distruzione dell’odiata Veio e la quadruplicazione del
territorio, vasto adesso duemila chilometri quadrati. L’Urbe
non è mai stata così estesa, ma anziché decretare il trionfo al
suo bravo generale, Marco Furio Camillo, lo seppellisce di
pettegolezzi, di veleni. Camillo si ritira volontariamente ad
Ardea. Qui, qualche anno dopo, lo raggiunge una missione
diplomatica inviata in fretta e furia dai suoi concittadini. Roma
ha bisogno di Camillo per salvarsi da quello che appare il
pericolo più grave dalla fondazione: i galli. Dopo aver
devastato la Pianura padana, sono alle porte. E prima che
Camillo possa arrivare sono già comodamente stravaccati
dentro il Campidoglio sotto lo sguardo attonito dei senatori
rimasti sul loro scranno, mentre la popolazione è fuggita nei
dintorni. Avrete forse sentito parlare del senatore Papirio,
morto per difendere la dignità del ruolo, e del capo dei galli,
Brenno, un banditaccio, che per andarsene vuole un bel
riscatto in oro. La bilancia che lo misura è vistosamente
truccata, ma davanti alle timide proteste dei senatori, Brenno
butta sul piatto dei pesi la spada pronunciando l’estrema
sentenza: Vae victis (guai ai vinti). Al di là della smargiassata,
entrata in tutti i libri di Storia, Brenno commette l’errore
capitale, dal suo punto di vista, di non distruggere Roma dopo
averla saccheggiata (390 a.C.) Anche in questo caso i romani
avranno la pazienza di aspettare secoli, pur di cogliere una
vendetta definitiva.
Sebbene gli storici di casa gli abbiano messo in bocca
un’altra frase famosa: Non auro, sed ferro, recuperanda est
patria (la patria si restaura col ferro, non con l’oro), Camillo
arriva a cose fatte, cioè quando la città è devastata e i galli
sono ripartiti. Si dà, allora, a ricostruirla, a rimettere in sesto
l’esercito. Quegli stessi che l’avevano ingiustamente insultato
lo proclamano ‘secondo fondatore dell’Urbe’ dopo Romolo.
Nasce la ‘via latina’, una specie di circonvallazione, che
collega la città con i Colli Albani.
L’opera di riassetto e di ammodernamento avviata da
Camillo risulta proficua qualche decennio dopo. La Repubblica
si sente in forze al punto che le prudono le mani. Ha voglia di
espandersi. La Campania sembra a portata di mano il giorno
in cui i sanniti di Capua le chiedono protezione contro i sanniti
abruzzesi, che con regolarità li depredano. È l’inizio delle tre
guerre sannite. La prima è molto breve e quasi incruenta. I
sanniti d’Abruzzo rinunziano alla Campania, ma Capua si
sente talmente soffocata dalle premure del suo protettore da
convincere i latini a una disperata ribellione per liberarsi dal
giogo romano. È la fine della Lega latina. Roma la sgomina
grazie ai consueti eroismi dei suoi generali (Tito Manlio
Torquato uccide il figlio che ha disobbedito a un ordine; Publio
Decio Mure va incontro da solo al nemico perché gli è stato
vaticinato che il suo sacrificio salverà la patria) e la smembra.
Si annette le città più vicine, concede ad alcune la
cittadinanza senza diritto di voto, trasforma quelle più lontane
in colonie e vi invia interi nuclei familiari, a volte anche latini, i
quali ottengono le terre da coltivare in cambio di un servizio
da guardie di confine. Per raggiungere la nuova destinazione
hanno a disposizione la via Appia, la prima grande strada
consolare. Unisce Roma a Capua, con le nuove conquiste si
spingerà fino a Brindisi. È frutto della testardaggine di Appio
Claudio Cieco, un discendente del decemviro espulso, a cui la
città deve pure l’acquedotto. Con l’arrivo dell’acqua in casa, i
romani scoprono la pulizia del corpo. Una pratica di largo
successo, dalla quale deriva la costruzione delle terme,
l’appassionata frequentazione delle stesse da parte di chi se
lo può permettere.
Pur mancando un imperatore, è la nascita dell’Impero.
Tuttavia l’umiliante sconfitta (321) subita dalle legioni contro i
sanniti nelle gole di Caudio, vicino Benevento, passata alla
Storia con il nome di forche caudine, rappresenta uno stop.
Roma deve consegnare seicento ostaggi e cedere due
capisaldi, Fregelle e Luceria. Ma nel 315 è di nuovo in guerra.
L’esercito prima fronteggia gli improvvisi assalti degli
etruschi, degli ernici, poi batte i sanniti a Terracina, infine
espugna nel 305 Boviano, la loro capitale. Il successo
consente all’esercito di attraversare l’Appennino, di
raggiungere la costa adriatica della Puglia. Roma diventa lo
spauracchio dell’intera Penisola. Contro essa si coalizzano
sanniti, etruschi, umbri e celti. È la terza guerra sannita. Non
c’è proporzione tra le forze in campo, ma i generali di Roma
hanno acquisito un’esperienza ignota a quelli degli altri
popoli. Oltre a essere i più bravi, sono sempre animati da una
feroce determinazione: puntano dritti alla vittoria, qualunque
sia il prezzo personale da pagare. Il giorno della battaglia a
Sentino (295), uno dei due consoli è Decio Mure, degno figlio
del padre. Anche a lui gli àuguri hanno predetto che per
vincere dovrà sacrificare la vita. Ed è quanto fa. La vittoria
chiude la guerra, le ostilità però si protrarranno per anni fino
alla definitiva sconfitta degli etruschi, in quest’occasione
alleati con i galli, sul lago Vadimone (283).
A un secolo dalla bastonata inflittale da Brenno, Roma è
una potenza. I suoi confini racchiudono venticinquemila
chilometri quadrati. Li ha messi assieme pezzo dopo pezzo
non seguendo una precisa strategia, ma facendosi guidare dal
bisogno del momento. A indicarle la via è stato il principio
dello ‘spazio vitale’, del territorio giudicato necessario ai
bisogni, sempre in aumento, della Repubblica. A conquistarlo
è stato l’esercito, che ne rappresenta lo scopo ultimo.
Nessuno stato dopo Roma sarà mai più strutturato in funzione
dei suoi soldati. Si comincia dalla nascita quando a esser
femmine o malaticci si corre il rischio di venire abbandonati
sull’uscio. Viceversa il neonato robusto già all’ottavo giorno
riceve una sorta di battesimo da parte della sua gens. La gens
raccoglie le famiglie discendenti dallo stesso antenato, il cui
nome figura come secondo nella triade imposta al bimbo (il
primo è il nome proprio, il terzo è il cognome). L’istruzione è
affidata al padre, di scuole a Roma non ce ne saranno fino al II
secolo a.C.: consta di quelle poche nozioni, che gli consentano
di far di conto, di scrivere un papello, di farsi capire quando
parla. Gli stessi numeri si basano all’inizio sulla
rappresentazione grafica di un dito, I (l’1), di una mano
aperta, V (il 5) e di due mani aperte e incrociate, X (il 10).
L’indispensabile per cavarsela nella vita, in attesa che arrivino
i greci con la geometria e la matematica. Socrate, Platone,
che nel 387 ha fondato la prima accademia, Aristotele sono
ancora perfetti sconosciuti. Dopo le lezioni pratiche ci sono, a
mo’ di premio, i racconti di Storia, le mirabolanti avventure
attraverso le quali Roma ha battuto i tanti nemici e si è
sviluppata. Una Storia a uso propedeutico, che serve a
instillare fin dalla tenera età il senso della grandezza
dell’Urbe, i mirabili destini ai quali è chiamata. Al fanciullo,
che arde dal desiderio di essere all’altezza dei predecessori, si
spiega che può riuscirci soltanto con una cieca obbedienza e
un’assoluta disciplina. Le quali per altro sono ben riposte. Ai
ragazzi, difatti, viene da subito inculcato che il genitore,
investito del titolo di pater familias, ha ricevuto il bastone del
comando dalle divinità, le cui immagini votive riempiono i
muri di casa. Una sorta di sacra investitura, che dal padre si
estende a tutti gli adulti chiamati a ricoprire un ruolo pubblico
e perennemente divisi a metà tra le incombenze ufficiali e i
sacrifici da compiere in onore degli dei. Appena in età di
maneggiare una zappa o di guidare un aratro, il ragazzino
accompagna il padre al lavoro sui campi. Se è stato
obbediente, se non ha fatto i capricci, in premio viene
condotto al foro: assiste alle discussioni degli adulti, a volte
può persino sbirciare dentro il Senato, guardare a bocca
aperta i padri della patria dibattere sui temi capitali della
Repubblica. A sedici anni va di leva, la cui durata dipende dal
reddito familiare e dalle ambizioni. Più soldi si hanno, più
lungo è il servizio militare; più si vuol far carriera in politica,
più ci si deve forgiare nel duro apprendistato della legione. E
in questo caso il minimo è dieci anni.
Gli stessi numeri si basano all’inizio sulla rappresentazione grafica di un
dito, I (l’1), di una mano aperta, V (il 5) e di due mani aperte e incrociate, X
(il 10).

L’iniziale legione di tremila fanti e trecento cavalieri, divisa


in falangi da seicento uomini l’una, si è ispessita. La
compongono quattromiladuecento soldati, divisi in ventuno
manipoli da duecento l’uno, e il solito squadrone di cavalleria.
L’armamento è migliorato, tuttavia rimane a spese dei
richiamati. Quelli della prima classe, i ricconi, hanno l’obbligo
di presentarsi con due lance, la spada, il pugnale, l’elmo di
bronzo, la corazza, lo scudo. La seconda classe può fare a
meno dello scudo, la terza e la quarta anche della corazza e
dell’elmo. L’ultima classe porta ciò che trova in casa. Ciascun
console ha il comando di due legioni: miracolosamente riesce
sempre a trovare l’accordo con il collega. Un affiatamento
sbalorditivo e senza eguali. Sino a metà del IV secolo a.C. i
militari meno abbienti, quelli provenienti dalle ultime classi,
contano le ore, i minuti che li separano dal congedo. Hanno
fretta di tornare a Roma per curare il campicello, che sfama la
famiglia. In seguito, con gl’ingrandimenti territoriali, con
l’assegnazione gratuita dei poderi, con l’istituzione delle
colonie, il servizio militare formerà una classe di piccoli
proprietari, che diventeranno i gelosi custodi della romanità.
Una romanità attaccata alle tradizioni, persa nel culto di
mille divinità, talmente corroborata dalle prove della vita da
non contemplare sino al 300 a.C. i medici: si ritiene che sia
già tutto scritto, quindi affannarsi nelle cure è inutile, tanto se
uno deve vivere, guarisce lo stesso. Una romanità composta
in gran parte di agricoltori e artigiani, con una corporazione
per ogni mestiere, poco propensa a godersi la vita, rozza,
senza grilli e senza passioni, tutto sommato tristanzuola.
Insomma conquistare il mondo le pare l’unico passatempo
accettabile.
4. Ahi, i cartaginesi

Roma esercita il ruolo di guardiana dell’Italia. Chi versa in


difficoltà le si rivolge pur sapendo che non si libererà mai
più dall’abbraccio di quei determinati e malinconici soldati.
Nel 282 i cittadini di Turii, minacciati dai lucani, invocano la
protezione delle legioni. Il Senato la concede, ma anziché
inviare le truppe attraverso l’Appennino opta per una
spedizione di mare. Roma con l’acqua ha un pessimo
rapporto, la sua flotta consiste in poche triremi, però coglie
al volo l’occasione di sfruculiare Taranto. Con la colonia
greca divenuta una grande e ricca città sotto la spinta di
Archita, uno statista mezzo filosofo e mezzo ingegnere,
l’Urbe ha stretto un patto di non aggressione nel 303:
s’impegnava a non superare con le sue navi il Capo
Colonne. Ma quella che vent’anni prima poteva considerarsi
una rinuncia pressoché ininfluente, non essendo lo Ionio nel
mirino di Roma, adesso è vissuta come una limitazione. Le
triremi, dunque, non solo oltrepassano Capo Colonne, ma
addirittura chiedono di entrare nel porto di Taranto. Un po’
troppo anche per quei pazienti e pacifici commercianti. Le
triremi vengono assaltate, quattro mandate a fondo. È la
guerra. Che Taranto non voleva e che non sa come
combattere.
Un rapido giro di consultazioni chiarisce che nella
Penisola nessuno è disposto a sfidare l’esercito della
Repubblica. A Taranto non resta che rivolgersi all’estero: nel
nostro Paese diverrà una moda. Lo straniero con cui si spera
di vincere viene trovato nell’Epiro: è il re Pirro, che avendo
lontane ascendenze macedoni vorrebbe ripetere le gesta di
Alessandro Magno. A Pirro l’Italia pare un bel palcoscenico e
Roma un degno avversario da battere. Essendo per di più
genero del dittatore di Siracusa, Agatocle, conta di poter
avere in Sicilia un’acconcia retrovia nella quale rifornirsi. Il
primo contatto con i romani avviene a Eraclea (280): è
favorevole alle truppe greche grazie a un’‘arma segreta’, gli
elefanti, che i romani non conoscono e non sanno come
affrontare. Un anno dopo Pirro rivince ad Ascoli Satriano, ma
a costo di perdite così elevate che da allora si chiamano
‘vittorie di Pirro’ quelle pagate un prezzo troppo alto.
Pirro invia a Roma il proprio segretario Cinea per trattare
la pace. La leggenda tramanda che sia stato quel vecchio
cocciuto di Appio Claudio Cieco a dissuadere gli altri
senatori spiegando che finché l’invasore occupa il suolo
italiano non si possono firmare accordi. La realtà è forse un
po’ diversa. Il Senato rifiuta la pace perché in quei giorni ha
gettato l’ancora a Ostia una flotta cartaginese. Con i
discendenti dei fenici trapiantati da secoli in Tunisia, Roma
ha già siglato un’alleanza alla fine del VI secolo, quando la
cacciata dei Tarquini aveva azzerato il suo interesse a
possedere una flotta competitiva. Ora le si offre
l’opportunità di rinnovare la vecchia intesa in funzione
antiPirro. Cartagine, infatti, guerreggia da decenni contro
Siracusa. L’antica colonia greca è la sua rivale nello Ionio e
nel basso Mediterraneo come Cuma lo è stata degli etruschi
nel Tirreno meridionale. Un’alleanza tra Siracusa e Cuma nel
470 a.C. stroncò definitivamente le velleità marinare degli
etruschi, ma con i cartaginesi è molto più dura. La potenza
africana sta soffocando Siracusa e secondo il vecchio detto
‘il nemico del mio nemico è mio amico’ vede in Roma, per
l’appunto, un amico. La rinnovata intesa sortisce per l’Urbe
buoni effetti.
Pirro decide che la partita vera è da giocare contro i
cartaginesi e accoglie l’invito di Agatocle di spostarsi in
Sicilia. Gli storici imperiali faranno dipendere questa
partenza dai racconti di Cinea sullo smisurato orgoglio dei
romani (« non hanno un re, perché ognuno di quei trecento
senatori è un re ») e dalla forte impressione che suscita nel
sovrano epirota il disciplinato ritorno dei duemila prigionieri
da lui inviati nell’Urbe al seguito di Cinea. Nei suoi piani
dovevano essere uno strumento di pressione per giungere
alla pace, ma essendo fallita la trattativa sono tutti tornati
come avevano promesso di fare. Al di là di questa versione
patriottica, resta che Roma ha qualche anno di respiro e lo
mette a profitto. Il giorno in cui Pirro, sfiancato da una
guerra di cui non intravede la conclusione, riporta le truppe
sul continente le legioni sanno come affrontare gli elefanti,
soprannominati i ‘buoi lucani’. A Malevento (275) Pirro è
sconfitto. Il luogo cambia nome: diventa Benevento. Roma è
così giunta ai limiti della Penisola: da Taranto a Reggio, tutto
il Meridione è sotto il suo controllo. Oltre c’è il mare, ma da
Reggio, oltre il mare, si scorge la Sicilia, di cui vengono
vantate ricchezze e bellezze, che ingolosiscono la solida
borghesia dell’Urbe. Avendo visto le loro fortune
moltiplicarsi assieme alle conquiste territoriali, industriali,
commercianti, banchieri sono alla perenne ricerca di nuovi
mercati, di nuove possibilità di guadagni.
La Sicilia è però un osso duro. Da secoli vi si fronteggiano
greci e fenici: in un clima di reciproci sospetti e dispetti, se
ne sono divise le zone di competenza. Nella parte orientale
stanno le colonie greche, che hanno perso i contatti con la
madrepatria e sanno di non poter contare su alcun aiuto
esterno. Nella parte occidentale stanno invece le colonie
fenicie, che guardano a Cartagine come a una santa
patrona. E ne hanno motivo. Quell’antico insediamento a
una decina di chilometri dall’odierna Tunisi, battezzato dai
suoi fondatori Nuova Città (Kart Hadasht, in greco
Karchedon, in latino Carthago), è diventato nel corso dei
secoli il fulcro dell’intraprendenza e dell’abilità commerciale
dei fenici. Cartagine si è sviluppata fino a diventare la
capitale del suo popolo allorché Tiro e Sidone sono state
spazzate via dall’irrompere in Oriente di Alessando Magno.
In questo lembo d’Africa i fenici hanno assoggettato le tribù
locali riducendole al rango di schiavi e impiegandole quale
mano d’opera nella trasformazione di plaghe desertiche in
lussureggianti coltivazioni di uva, di ulivi, di frutta. È forse il
primo sfruttamento dell’uomo bianco nei confronti
dell’uomo nero.
Cartagine ha messo sotto il tacco la Corsica e la
Sardegna, ma in Sicilia la sua espansione è stata fermata
dai greci grazie alla netta supremazia conquistata nello
Ionio. La flotta cartaginese è però tale da incutere un sacro
timore a chiunque.
Roma l’ha patita per lunga pezza, tuttavia il giorno in cui
i messi dei mamertini vengono a chiedere il suo aiuto contro
Cartagine, la prospettiva di mettere finalmente piede in
Sicilia e di allargarsi poi alla Sardegna e alla Corsica è più
forte di ogni prudenza. I mamertini sono soldatacci arruolati
da Agatocle durante una delle mille dispute con Cartagine.
Ma quando il tiranno di Siracusa avrebbe voluto rimandarli a
casa, nel 289, hanno assaltato Messina. Vi si sono insediati
da padroni dandosi quel pomposo nome di ‘figli di Marte’ a
sottolineare una loro presunta imbattibilità. Per quasi
vent’anni hanno attaccato briga con tutti finché Gerone, il
successore di Agatocle, non ha deciso, nel 270, di cingere
d’assedio Messina. I mamertini si sono allora rivolti ai
cartaginesi, che li hanno aiutati, ma non se ne sono più
andati ed è per liberarsi degli opprimenti liberatori che i
‘figli di Marte’ hanno bussato a Roma.
I comizi centuriati affidano l’impresa all’ennesimo Appio
Claudio, che si trova a svolgere le funzioni di console. Con
l’aiuto dei mamertini le legioni occupano Messina, ma il
confronto si sposta presto sul mare, dove Cartagine ritiene
di essere invincibile. Non ha fatto i conti con il carattere del
suo nemico. Davanti al rischio di dover rinunciare alla Sicilia,
Senatus Populusque Romanus danno una lucidata alle virtù
patrie. In meno di un anno sono allestite centoventi triremi,
viene studiata una tattica particolare che trasformi gli
scontri di mare in scontri di terra. Le navi sono dotate di
corvi, sorta di ganci per arpionare le navi nemiche e
permettere ai manipoli di lanciarsi all’abbordaggio. Le
vittorie di Milazzo (260) e di Ecnomo (256) stupiscono i
romani ancora più dei cartaginesi. La via verso l’Africa è
aperta. Il compito spetta al console Attilio Regolo. Sbarca a
Capo Bon con oltre centomila armati. Un esercito simile non
si è mai visto: Cartagine ne è atterrita. Tenta la via
diplomatica, ma le esose condizioni di pace richieste da
Attilio Regolo vengono respinte: l’oligarchia cittadina
preferisce il confronto armato. Per l’occasione si rivolge a
uno straniero, il generale spartano Santippo. L’uso che
questi fa di cavalleria ed elefanti stravolge le previsioni, ma
stavolta a favore di Cartagine. Nei pressi di Tunisi (255) le
truppe di Attilio Regolo subiscono una memorabile sconfitta.
Anche il console figura tra i prigionieri.
La guerra si trascina stancamente. Cartagine è alla
ricerca di un motivo per smetterla. Ne offre uno la sconfitta
di un suo esercito a Palermo (250). Nella circostanza Attilio
Regolo viene tirato fuori di galera e inserito nella missione
diretta a Roma per trattare la pace. Pessima mossa: gli anni
di carcere non hanno ammorbidito il vecchio console.
Davanti alle titubanze del Senato, Attilio Regolo si pronuncia
per la continuazione della guerra, poi torna indietro pur
sapendo di aver firmato la propria condanna a morte. Che
giunge al termine di lunghi supplizi. I figli di Attilio Regolo
riservano uguale sorte a due notabili cartaginesi. Questo
scambio di cortesie porta a un incarognimento del conflitto.
Roma controlla di fatto la Sicilia, Cartagine tuttavia gioca
una carta a sorpresa, le incursioni di piccoli e veloci navigli:
seminano lo scompiglio in Italia, fanno temere un’invasione.
L’idea è del nuovo comandante in capo, Amilcare, un
eccellente stratega di terra e di mare. I successi a Capo
Lilibeo e a Trapani lo mettono in una posizione di vantaggio.
Dopo quindici anni d’inutili e costosissime battaglie, il
Senato traballa, rimpiange le tante occasioni in cui ha
rigettato le proposte di pace. È ormai chiaro che quei ricchi
mercanti sono impastati di orgoglio e intelligenza allo stesso
modo dei romani e sembrano possedere mezzi illimitati per
arruolare ogni volta migliaia e migliaia di mercenari in Libia,
in Spagna, in Francia, in Grecia, in Medio Oriente e persino
nell’Italia meridionale. La voglia, neanche tanto sotterranea,
di patrizi e cavalieri sarebbe di raggiungere un
compromesso, firmare un trattato, dedicarsi alla
sistemazione delle scassate finanze statali.
A opporsi sono i capitalisti, i quali in questo frangente
offrono l’esempio migliore di che cosa significhi accoppiare
l’assolvimento dei propri doveri ai tanti privilegi di cui si
gode. Pagano di tasca propria la costruzione di duecento
navi, che consentono al console Lutazio Catulo di bloccare i
rifornimenti per l’armata di Amilcare in Sicilia. I senatori si
accontenterebbero di non perdere e mandano continui inviti
alla prudenza; Lutazio Catulo li ascolta fino al giorno in cui
non lo informano che una munitissima flotta cartaginese,
forte di circa quattrocento triremi, veleggia verso le coste
siciliane. Porta rifornimenti e reparti freschi per Amilcare. Se
sbarcasse, i romani non avrebbero scampo: dovrebbero
abbandonare l’isola. Benché non sia ancora guarito da una
grave ferita, Lutazio Catulo dà ordine di attaccare. Alle
Egadi (241) è la peggiore sconfitta di Cartagine in mare:
centoventi navi sono affondate, il resto torna indietro.
Privato dei fondamentali rinforzi, Amilcare chiede un
armistizio. Catulo glielo concede assieme all’onore delle
armi e alla possibilità d’imbarcarsi per l’Africa. A Roma
qualcuno lamenta che la vittoria non sia completa, ma il
Senato capisce che è il momento di chiudere una guerra
rognosa durata un quarto di secolo. In cambio della pace,
Cartagine restituisce i prigionieri, s’impegna a pagare 3200
talenti in dieci anni, ma soprattutto cede la Sicilia. Per Roma
è la prima conquista d’oltremare, in pratica non la considera
Italia. Di conseguenza crea l’istituzione della Provincia.
In meno di un anno sono allestite centoventi triremi.

La Repubblica può rinsanguare le esauste casse. Ma i


risultati complessivi sono ancora più cospicui. Gli orizzonti di
Roma si allargano in ogni senso. Da Catania viene importato
il primo orologio solare: per quanto spostato di tre gradi
avvicina i più curiosi all’astronomia grazie alla moda arrivata
da Babilonia di leggere attraverso gli astri il proprio futuro.
Da Cartagine viene appresa l’importanza di un funzionante
sistema monetario. I fenici acquistavano e vendevano già
con i biglietti di banca, sottili striscie di cuoio variamente
stampigliate, mentre i commercianti dell’Urbe continuavano
a far di conto con le pesanti monete di rame, i vecchi assi.
Proprio l’asse esce a pezzi dalla Prima guerra punica:
svalutato quasi per intero, cede il suo ruolo al sesterzio
d’argento (due assi e mezzo), al denario (quattro sesterzi),
infine al talento d’oro, equivalente al nostro lingotto. Da
Taranto, assieme ad altri schiavi, è giunto Livio Andronico,
un greco che conosce l’Odissea e la declama al proprio
padrone e ai suoi amici. Costoro ne restano talmente
ammirati da commissionargli una composizione per i grandi
giochi del 240 a.C., con cui sarà festeggiata la vittoria su
Cartagine. Un po’ sfruttando le vecchie reminiscenze, un po’
inventando nuove situazioni, Livio Andronico scrive la prima
tragedia in versi latini. Versi ancora rozzi, a volte di scarsa
musicalità, ma che comunque segnano la nascita di una
letteratura. L’ex schiavo recita e canta l’opera da solo. Lo
straordinario successo vale a lui e ai discepoli, dai quali è
immediatamente circondato, la possibilità di formare la
categoria dei poeti, subito irreggimentata in corporazione
con sede nel tempio di Minerva.
Alla compattezza sempre più ferrea di Roma – gli alleati
della Penisola hanno dimostrato un’assoluta fedeltà – si
contrappongono le convulsioni di Cartagine. Amilcare deve
domare una sanguinosa rivolta di schiavi e di alcune tribù
africane. La qual cosa libera del tutto le mani e le navi di
Roma nel Mediterraneo. La Sardegna e la Corsica diventano
la seconda provincia con l’aggiunta di milleduecento talenti
pagati da Cartagine per aver osato protestare. Ma l’opera di
pulizia prosegue: coinvolge dapprima i liguri, che infestano
l’alto Tirreno, poi i galli della Pianura padana, stuzzicati a
ribellarsi dall’arrivo di confratelli francesi, i quali niente
sanno dei romani. È un’orda di cinquantamila fanti e
ventimila cavalieri quella che viene battuta a Talamone
(225) e annientata a Casteggio (222). La Gallia cisalpina
diventa la terza ricchissima provincia con capitale
Mediolanum. Per pacificare il Nord dell’Italia non resta che
sbarazzarsi dell’Illiria, i cui pirati insidiano dalla Dalmazia le
coste dell’Adriatico. Le due guerre illiriche, tra il 229 e il
219, portano le città di Epidamno, Apollonia e Corciria sotto
la protezione di Roma. Da qui lo sguardo di consoli e
mercanti comincia a spingersi verso est e più ancora verso
sud, la Grecia.
Tuttavia bisogna prima domare la risorgente questione
cartaginese. A farla risorgere non è la voglia di riscatto della
metropoli fenicia, bensì del suo figlio migliore, il
generalissimo Amilcare, che ai romani ha perdonato le
durezze della guerra, ma non le imposizioni della pace.
Amilcare non riesce a convincere i suoi concittadini a
riprendere in mano le armi per inseguire la rivincita. Ottiene
soltanto un ridotto contingente con cui spegnere i fuochi di
ribellione accesisi nelle colonie cartaginesi in Spagna. Prima
di partire conduce i suoi ‘leoncelli’ – così chiama il genero
Asdrubale e i figli Annibale, Asdrubale e Magone – dinanzi
all’altare della massima divinità locale, Baal-Haman. Li fa
giurare che un giorno vendicheranno Cartagine.
Amilcare in Spagna dimostra di valere appieno il
soprannome di Barca, (in lingua fenicia, il fulmine), che da
lui passerà ad Annibale. Non solo per le riconosciute virtù
militari, che gli consentono di rintuzzare le rivolte locali, ma
per il genio organizzativo, che dimostra provvedendo a
mantenere e a rafforzare l’esercito con quanto trova nelle
terre iberiche. Alla sua morte gli succede il genero
Asdrubale, il quale dà il via alla costruzione di una città
nuova, chiamata anch’essa Cartagena. Ad Asdrubale, ucciso
dal pugnale di un sicario, subentra per acclamazione
dell’esercito il ventisettenne Annibale. Sarà il peggior incubo
di Roma nei suoi undici secoli di vita. Ha lasciato Cartagine
che aveva nove anni, la sua vita si è svolta sotto una tenda
tra battaglie, marce, accampamenti. I romani non li ha mai
visti all’opera: sa di loro ciò che gli hanno raccontato il
padre e gli altri reduci. Ha però pronunciato un giuramento
e intende mantenerlo, sebbene si trovi a operare in totale
solitudine, avendo pressoché interrotto i rapporti con il
governo di Cartagine. Non può quindi dichiarare guerra a
Roma, bensì farsela dichiarare per mettere i compatrioti
davanti al fatto compiuto.
Prima guerra punica.

L’assedio di Sagunto, alleata dell’Urbe, da parte di


Annibale stuzzica l’orgoglio romano. Il Senato ignora chi sia
questo generale, quale storia abbia alle spalle, è tuttavia
convinto che basterà alzare la voce per riportare Cartagine
all’obbedienza. In risposta Annibale espugna Sagunto, vi
lascia il fratello Asdrubale a presidiarla e attraversa l’Ebro
con trenta elefanti, cinquantamila fanti e novemila cavalieri.
Sulla scorta delle passate esperienze non ha assoldato
mercenari; i soldati sono libici, spagnoli liberamente
arruolatisi: nutrono un autentico trasporto per il loro
comandante. Il giovane Barca attraversa la Francia battendo
le tribù galliche alleate di Marsiglia, a sua volta alleata di
Roma: con una marcia a tappe forzate giunge in vista delle
Alpi. E proprio questa vista induce almeno diecimila dei suoi
a tornare indietro. Con gli altri, elefanti e cavalli compresi,
affronta il passaggio del Monginevro, che è tremendo in
salita e peggio in discesa se si devono tener le briglie di
bestie stanche, imbizzarrite. Un’impresa eccezionale. A fine
settembre del 218 Annibale e i ventiseimila soldati
rimastigli, assieme a pochissimi elefanti, sono in Italia.
Roma risponde con una leva di trecentomila uomini e
quattordicimila cavalli. L’esercito è affidato al primo dei
molti Scipioni che riempiranno la sua storia. Non è il migliore
della stirpe. Al Ticino (ottobre 218) si lascia sorprendere
dalle cariche della cavalleria, formata dai temibili guerrieri
della Numidia, l’odierna Algeria: nonostante la schiacciante
superiorità numerica, perde la battaglia e perderebbe anche
la vita se non lo salvasse il figlio, Publio Cornelio, impegnato
nelle prove generali della futura gloria. La vittoria di
Annibale convince i galli, sonnecchianti da decenni, ad
accodarsi e a cogliere una sanguinaria rivalsa con lo
sterminio delle colonie romane di Cremona e di Piacenza. Al
cospetto di Annibale i generali romani perdono la fama
conquistata nei secoli precedenti. Questo ventinovenne
indiavolato, furbo, crudele, sembra rendere incerti e
timorosi i suoi avversari. Come tutti i grandi all’apogeo della
parabola ha dalla sua la buona sorte. La notte che stanno
per circondargli l’accampamento, si salva facendo uscire un
branco di buoi con fiaccole legate alle corna. I legionari
corrono dietro ai buoi persuasi che siano i cartaginesi in
fuga, i quali invece se la svignano dall’altra parte.
A fine anno nuova vittoria sul Trebbia di Annibale, che nel
217 fa tris sul lago Trasimeno. Non la scampa nessuno dei
trentamila romani, compreso il console Caio Flaminio. Il
poveretto si era portato dietro le catene da mettere ai piedi
dei prigionieri. Roma è nelle peste. Affida il suo quarto
esercito a un dittatore, (un magistrato dotato per
l’occasione di poteri assoluti): Quinto Fabio Massimo, che
conquista sul campo il nome di Temporeggiatore. Fabio
Massimo, infatti, punta sul fattore tempo e sulla lontananza
di Annibale dalle retrovie spagnole per sfiancarlo. La
strategia non è sbagliata. Le città legate a Roma rigettano
ogni ipotesi di cambio d’alleanza. Sempre più spesso
Annibale trova porte chiuse. Asdrubale è bloccato a
Cartagena dalle legioni frattanto sbarcatevi e non può
inviare rinforzi. Annibale si sposta verso l’Adriatico nella
speranza di ricevere una migliore accoglienza. I calcoli di
Fabio Massimo si stanno dimostrando esatti, ma una
classica congiura di palazzo e il desiderio della popolazione
di arraffare il successo, che ormai pare maturo, gli
sottraggono il comando. I successori sono Terenzio Varrone,
un plebeo, ed Emilio Paolo, un aristocratico. Il primo vuol
attaccare per esaudire le richieste degli elettori, il secondo
preferirebbe aspettare. Naturalmente la spunta il più
demagogo ed è Canne (216).
Molti storici la considerano il più alto esempio di strategia
militare di ogni epoca. Di sicuro è la vera madre di tutte le
battaglie svoltesi nell’antichità. Annibale colloca al centro
dello schieramento i quindicimila galli di cui non si fida,
convinto che se la daranno a gambe. È quanto avviene
davanti all’incalzare delle truppe di Varrone. Abbagliato dal
facile sfondamento, il console si lancia a testa bassa: finisce
nell’imbuto dei ventimila collaudatissimi fanti e dei diecimila
cavalleggeri. Nella peggior sconfitta della storia di Roma,
muoiono quarantamila romani, tra i quali l’altro console
Emilio Paolo e ottanta senatori. La scampa Varrone accolto
davanti alle porte dell’Urbe dal popolo in lutto e dai senatori
che lo ringraziano di non aver dubitato della patria. Ma è la
patria che a questo punto dubita dei propri immortali
destini. Il grido « Annibale alle porte » risuona più volte e da
allora diventa sinonimo di pericolo. In realtà Annibale si
avvicina, senza però decidersi a compiere l’ultimo decisivo
passo, quasi che gli manchi il coraggio di portare fino alle
estreme conseguenze l’antico giuramento.
Con gli altri, elefanti e cavalli compresi, affronta il passaggio del
Monginevro, che `e tremendo in salita e peggio in discesa se si devono
tener le briglie di bestie stanche, imbizzarrite.

Accontentandosi di far tremare Roma, s’insedia a Capua


per godersi le quattro vittorie di fila, che nessuno prima di
lui ha colto contro le temutissime legioni. Sono i famosi ‘ozi’
grazie ai quali i romani possono riordinare l’apparato
militare con una leva straordinaria di duecentomila uomini.
Ne vengono fuori tre eserciti. Il primo rimane a difesa
dell’Urbe, il secondo è inviato in Sicilia per domare la rivolta
capeggiata da Siracusa, il terzo in Spagna per piegare
Asdrubale. Siracusa cade nel 212 dopo una strenua
resistenza di cui paga le conseguenze Archimede, il padre
del celeberrimo principio sul galleggiamento dei corpi
nell’acqua, annunciato dall’esclamazione « Eureka » (ho
trovato). Archimede la pronuncia immergendosi nella vasca
da bagno: ha finalmente compreso perché l’acqua ne
trabocchi. È tale la sua felicità che corre fuori a comunicare
la scoperta senza accorgersi di essere nudo. Archimede è
uno straordinario inventore, appassionato di matematica e
geometria, il primo italiano in grado di confrontarsi con i
geniali scienziati greci e asiatici del suo tempo. A lui si deve
il calcolo dell’area di triangoli e cerchi e del volume di
cilindri e sfere. A lui si deve l’invenzione della macchina per
sollevare acqua, che può essere azionata con la forza dei
piedi oppure da buoi e cavalli. In suo onore è stata chiamata
la vite di Archimede: la contengono le moderne trebbiatrici,
è tuttora usata dai contadini del Medio Oriente per pompare
l’acqua dai canali d’irrigazione e dirigerla verso i loro campi.
Nonostante abbia settantacinque anni, Archimede è l’anima
della resistenza di Siracusa. Suoi gli enormi specchi concavi
con cui sono incendiate le navi del console Claudio Martello,
sue le catapulte e le gigantesche gru con cui le triremi sono
sollevate in aria prima di esser sbatacchiate sul mare.
Comprensibile che i romani gliel’abbiano giurata: lo trafigge
un soldato qualunque. Ufficialmente la sua morte è
imputata a un deprecabile errore nella confusione del
saccheggio.
Le operazioni militari vanno bene anche in Spagna. Messi
a capo dell’esercito d’invasione, due Scipioni sconfiggono in
diverse occasioni Asdrubale. Muoiono però durante un
combattimento e sono sostituiti da Publio Cornelio, il
ragazzo segnalatosi sul Ticino. Non avrebbe ancora l’età per
un simile comando, ma Senato e comizi centuriati sono
d’accordo nel concedere una deroga. Dopo Canne è stato
implacabile contro i disfattisti, che parlavano di resa, ha
fama di uomo pio sempre pronto a sacrificare agli dei, in più
è sveltissimo nel cogliere le opportunità che si offrono. Al
suo arrivo davanti a Cartagena, posta sotto assedio dal
padre e dallo zio, un occasionale colloquio con i pescatori di
Tarragona gli consente di scoprire che le acque dello stagno,
comunicante con il mare e ritenuto un ostacolo
insormontabile, sono invece superabili. Per l’alternarsi
dell’alta e della bassa marea, il livello dello stagno al
mattino si abbassa, con i piedi si tocca il fondo: dunque
falange, coorti e cavalleria possono oltrepassarlo. È la
rivelazione che fa ai suoi ignoranti soldati, ascrivendola però
a Nettuno, venuto a visitarlo di notte. Il giorno dopo
Cartagena è espugnata. Cade pure il distretto minerario da
cui è estratto il ferro, da trent’anni la principale risorsa di
Amilcare, di Annibale, di Asdrubale e delle loro truppe.
La resa di Cartagena lascia campo libero alle legioni.
Asdrubale si dirige verso l’Italia seguendo lo stesso tragitto
del fratello. Valicate le Alpi gl’invia un messaggio, che
finisce però nelle mani dei romani. Viene tesa una trappola
sul Metauro nei pressi di Senigallia. Il console Livio
Salinatore stravince: la testa di Asdrubale è lanciata nel
campo cartaginese in Apulia. Siamo nel 207: declina la
stella di Annibale. Delle cento navi con le reclute spedite da
Cartagine per rinsanguare lo stremato esercito, ottanta sono
colate a picco da una tempesta sulle coste della Sardegna.
Dei possibili alleati italiani nessuno ha il coraggio di
muoversi, dopo la durissima lezione inflitta dai romani a
Capua: i notabili sono stati uccisi, la popolazione deportata.
Anche Filippo V di Macedonia, che all’indomani di Canne
aveva dichiarato guerra a Roma, si è fermato alle
dichiarazioni d’intento prima d’intavolare trattative
diplomatiche sfociate in una nuova intesa. Annibale è
stanco, disilluso e con un occhio in meno a causa di un
tracoma. Ma l’unico occhio rimasto gli è sufficiente per
vedere che la Penisola per lui diventa sempre più terra
bruciata.
Roma si sente così forte da mettere insieme un’altra
potentissima armata per tentare la seconda invasione
dell’Africa. E alla sua testa non può che esservi il ‘favorito
degli dei’, Publio Cornelio Scipione. Lo sbarco avviene nel
204. Cartagine sorpresa e sbigottita manda a chiamare
Annibale: per i governanti è un’incognita, tuttavia appare
l’unico capace di salvare la città. Annibale accorre avendo
prima domato una mezza rivolta dei suoi, ormai poco
propensi a battersi dopo quasi tre lustri di quiete. Ne fa
passare per le armi diverse migliaia e finalmente approda
nella terra dalla quale manca da trentasei anni. Per lunghi
mesi Scipione e Annibale non prendono iniziative, si
studiano. Il precario equilibrio è infranto dalla defezione di
Massinissa re della Numidia. Spodestato dal trono, corre
sotto l’ala dell’Urbe portando con sé un bene prezioso, la
cavalleria, che tanti dispiaceri ha inferto in passato ai
romani. Scipione guadagna così il vantaggio, che Annibale
perde. Forse è questo il motivo per cui il cartaginese chiede
un colloquio.
Il faccia a faccia tra i due più noti condottieri dell’epoca è
intriso di simpatia, di stima, ma non sortisce effetto avendo
entrambi le mani legate. Tra Roma e Cartagine una è di
troppo: tocca alle armi stabilire quale. Nella piana di Zama,
circa settanta chilometri a sud della città, il giorno della
verità è favorevole a Scipione. La presenza di Massinissa gli
permette di effettuare la stessa manovra a tenaglia usata
da Annibale a Canne. L’anziano generale si batte come un
leone, riesce persino a ferire Scipione in un duello
individuale, alla fine però, lasciati sul campo più di ventimila
uomini, può soltanto saltare in groppa a un cavallo e
rifugiarsi a Cartagine. Nella vittoria Scipione si mostra
generoso. Cartagine deve riconoscere l’indipendenza di
Massinissa e versare un indennizzo di diecimila talenti. Può,
però, conservare i suoi antichi possedimenti fino all’Algeria.
Scipione tenta di salvare Annibale, di evitargli la cattura, ma
la sorte del fu Barca è segnata dalle contese interne. I
maggiorenti cartaginesi ne soffrono la presenza. Per
sbarazzarsene lo denunciano ai romani con l’accusa di voler
fomentare una rivolta. Annibale fugge di notte, galoppa per
duecento chilometri, a Tasso s’imbarca per Antiochia. Ne
sentiremo parlare ancora.
È il 202 a.C.: con la fine della Seconda guerra punica
cambia la natura stessa della Repubblica. Le zone d’Italia
che hanno sopportato il peso maggiore di questa devastante
contesa, in primo luogo il Meridione, non si riprenderanno
più. Roma viene invece toccata da un benessere improvviso
e travolgente. Dei suoi trecentomila morti gran parte erano
agricoltori e l’agricoltura viene gradualmente abbandonata.
Con l’eccezione dei veterani, che si trasformano in coloni,
nessuno ha più voglia di accanirsi sulla terra. Molti
preferiscono coltivare il sogno di trasferirsi in città per
arricchirsi di colpo. I forzieri del Senato sono riempiti con i
tributi imposti ai vinti. Dalla Spagna, dall’Illiria, dall’Africa
giungono oro, ferro, argento, diamanti e qualsivoglia
bendidio. Il commercio si espande, s’internazionalizza, crea
un’altra categoria di ricconi. Chi ha soldi, li fa fruttare al
meglio con società finanziarie specializzate nei prestiti.
Nessuno o quasi ama più ricordare che tra le leggi delle
Dodici Tavole figura la fissazione del tasso d’usura all’otto
per cento. Dopo cinque secoli trascorsi a vivere male con ciò
che riuscivano a procurarsi in casa, i romani adesso vogliono
vivere sempre meglio con ciò che giunge da fuori. Traffici e
tangenti si gonfiano, il senso dello Stato tramonta.
Anche nel privato i costumi si rammolliscono. Le
matrone, che all’indomani di Canne avevano dato i gioielli
per riarmare le falangi, che avevano usato i capelli per
spazzare i pavimenti dei templi e guadagnarsi il favore degli
dei, pretendono lusso, feste. Risulta insopportabile la legge
Oppia, promulgata durante la guerra, che proibiva pietre
preziose, vestiti di fantasia, addirittura pasti troppo costosi.
Il farro, l’impasto di acqua e farina, le olive, il cacio non
bastano più. Tutti ambiscono a mettere in tavola lo stesso
desinare dei ricconi con diverse portate a base di carni, di
pesce, di cacciagione della migliore specie, di frutta sempre
più esotica.
Sull’esempio della Sicilia e delle altre province tale forma
di amministrazione viene applicata alle nuove conquiste. Il
governatore e gli alti gradi della magistratura appartengono
alla burocrazia romana, gli statuti e il trattamento delle
singole città dipendono dal precedente comportamento. Da
esso dipende pure il peso delle tasse e la proprietà del suolo
con relativo sfruttamento. Più tributi pagano, più grano
inviano a Roma, più le città conservano i costumi, la lingua,
la religione degli avi. In cambio saranno collegate al resto
del mondo da una di quelle magnifiche strade lastricate,
divenute la specialità dei romani. I quali non le costruiscono
per generosità, ma per consentire alle legioni di marciare
speditamente: la minaccia di un intervento armato nei
territori annessi costituisce il migliore strumento di
persuasione. Assieme alle strade, gli ingegneri dell’Urbe
progettano arditi ed efficienti acquedotti per venire incontro
ai bisogni dei magistrati, dei funzionari, dei centurioni
appena trasferitisi. L’acqua e tutto ciò che essa comporta è
stata una scoperta tardiva dei romani, che però non sanno
più rinunciarvi.
Per molte delle città conquistate Roma rappresenta il
progresso: strade, costruzioni, acqua corrente, leggi scritte.
Raramente nei secoli a venire capiterà d’incontrare popoli
così felici di esser sottomessi.
5. Censori, condottieri e tribuni

Zama ha lasciato un conto in sospeso e Roma ha la


memoria lunga. Non dimentica la guerra dichiaratale nel
momento di maggiore difficoltà, dopo Canne, da Filippo V di
Macedonia, che aveva tentato di coinvolgere le città della
Grecia. In quell’occasione si era svolta a Naupacto una
conferenza apertasi nel timore delle mire di Roma e chiusasi
nel timore delle mire di Filippo. Una delle due leghe in cui
erano raggruppati i greci, la Lega etolia – l’altra era la Lega
achea – aveva chiesto aiuto proprio a Roma. Filippo,
desideroso di esportare la guerra, se la trovò in casa e fu
costretto a sospendere la contesa, in realtà neppure
cominciata, per dedicarsi agli affari interni.
La Grecia era, come sempre, un guazzabuglio di città-
stato più impegnate a pestarsi i calli l’una con l’altra che a
difendersi dai nemici esterni, reduce oltretutto da un
susseguirsi di catastrofi militari e politiche, perché pure nei
confronti dei monarchi meglio intenzionati, come lo era
stato Alessandro Magno, i greci avevano mostrato
insofferenza. Così, mentre la cultura ellenica, camminando
sulla punta delle lance di Alessandro, solcando i mari con le
navi dei coloni, si espandeva in ogni regione del mondo
conosciuto e conquistava ogni giorno nuovi adepti, gli
staterelli greci avvizzivano. Contrarissimi a ogni progetto di
unione diventavano facile terra di conquista per chiunque
arrivasse da fuori. Persino i galli durante il III secolo a.C. vi
avevano soggiornato facendo scempio delle città.
All’inizio del II secolo le continue manovre di Filippo per
ridurle alla ragione producono una seconda domanda
d’aiuto a Roma, che non chiede di meglio. A Cinocefale nel
197 Filippo è sconfitto dal console Tito Quinto Flaminio.
Questi è uno dei tanti romani già conquistati dal fascino
della civiltà ellenica: in occasione dei grandi Giochi istmici a
Corinto proclama la libertà dei greci e con l’esercito prende
la via del ritorno. Anziché ringraziarlo, i greci lo accusano di
aver lasciato sul trono di Macedonia Filippo, di aver
emancipato alcune città dalla Lega etolia, di essersi portato
dietro un numero eccessivo di opere d’arte. In conclusione
invitano Antioco re di Babilonia a liberarli da un nemico
esistente soltanto nella loro immaginazione. Antioco
rappresenta invece un nemico temibile e in carne e ossa per
Pergamo e Lampsaco, che si rivolgono, tanto per cambiare,
a Roma.
Il Senato, già contrariato dalla generosità di Flaminio,
coglie al volo il pretesto. L’esercito è affidato a Publio
Cornelio Scipione: il vincitore di Zama aumenta la propria
fama sbaragliando Antioco a Magnesia. Secondo un
importante storico inglese, Scipione è il più grande generale
di tutti i tempi, più grande persino di Napoleone. Chissà se è
vero. Di sicuro è una garanzia per la Repubblica, che dopo
questa vittoria si assicura la costa mediterranea dell’Asia
Minore e ha la possibilità di sbarazzarsi definitivamente di
Annibale. Già, l’irriducibile cartaginese nelle sue continue
peregrinazioni era finito alla corte di Antioco. Forse anche lui
aveva brigato affinché il sovrano babilonese sfidasse Roma.
A Magnesia è presente sul campo di battaglia in qualità di
consigliere militare, ritrova di fronte lo Scipione che l’ha
rovinato, e perde per la seconda volta. Tra le clausole della
pace Roma inserisce la sua consegna. Annibale scappa a
Creta, poi in Bitinia: qui, prima di essere catturato, si
suicida. È il 183, Annibale ha sessantasei anni, per quaranta
ha rovinato i sonni a due generazioni di romani. Dopo poco
muore anche Publio Cornelio Scipione, l’avversario che non
ha mai smesso di ammirarlo.
La forza di Roma è ormai tale da poter mettere in campo
due, tre eserciti alla volta. Ne ha bisogno per fronteggiare
gli assalti provenienti da più parti. Sono così respinti di
nuovo i galli. Si stringono patti con i cenomani e gli insubri
per la fondazione delle colonie di Bologna, Parma, Modena.
Vengono definitivamente domati i liguri. Per tenerli
comunque sotto costante osservazione si dà mano alla
costruzione della via Aurelia, che ancora oggi è un polmone
stradale della Penisola assieme alla via Cassia, alla via
Emilia, alla via Flaminia, tutte edificate in quegli anni. E il
prolungamento della via Emilia, la via Postumia, porta alla
nascita di Aquileia, trampolino di lancio verso nuove
espansioni.
Ma il rovello continua a essere Cartagine, che ha il torto
di esistere. Gli ultimi abitanti sono sopravvissuti a due
catastrofi militari, capaci di annientare qualsiasi altro stato.
Hanno perso le colonie, i possedimenti d’oltremare,
l’esercito, la flotta. Sono rimasti loro un bel pezzo di deserto
e l’antica abilità nei commerci con cui si stanno tirando su,
ma proprio per uno di questi, il commercio d’olio,
s’inimicano un senatore romano, che non ha un grande
potere, ma è cocciuto e quando prende qualcosa o qualcuno
di punta non la finisce più. Il senatore si chiama Marco
Porcio Catone. È nato nei pressi di Rieti, è stato un
contadino plebeo finché la protezione e gli aiuti di un
patrizio non l’hanno spinto nella carriera forense. Così il
Marco proveniente da una furba (Catone) famiglia di
allevatori di suini (Porcio) ha potuto puntare alla politica.
Nella Roma che si apre al lusso, ai consumi, alle mode fatue,
lui diventa il campione delle tradizioni e della
morigeratezza, il caposaldo di ogni battaglia di retroguardia.
Una posizione da eterno bastian contrario, che pure tra i
posteri gli ha meritato consensi financo eccessivi. Magari
talune sue presunte virtù derivavano da una visione della
vita un po’ gretta quando non opportunista. Nel libro De agri
cultura, primo esempio di prosa latina, spiega che gli schiavi
sono da preferire alle bestie da soma perché sanno badare a
se stessi e quindi procurano minori grattacapi. Catone è un
misogino. Osteggia con ogni mezzo l’emancipazione
femminile; nel corteo di donne richiedenti l’abolizione della
legge Oppia vede la mano del diavolo; in Senato, nella sua
qualità di censore addetto ai costumi, pronuncia
un’infiammata difesa della legge e così conclude: «
Vedremo questo alla fine: gli uomini di tutto il mondo, che in
tutto il mondo governano le donne, governati dagli unici
uomini che dalle donne si fanno governare, i romani ». I
quali dimostrano di essere più lungimiranti di lui e la legge
l’aboliscono. Catone si rifà decuplicando le tasse sugli
articoli di lusso, tuttavia il cambiamento del ruolo della
donna è ormai in atto, neppure lui può arrestarlo. Dopo
secoli trascorsi in cucina o, alla meglio, in casa, madri,
mogli, figlie, sorelle desiderano appropriarsi della vita. Ci
riescono strappando prima il diritto di amministrare la
propria dote, poi quello di divorziare.
Dopo secoli trascorsi in cucina o, alla meglio, in casa, madri, mogli, figlie,
sorelle desiderano appropriarsi della vita. Ci riescono strappando prima il
diritto di amministrare la propria dote, poi quello di divorziare.

Ciò che non gli riesce con le donne, a Catone riesce con
gli Scipioni. È finito il tempo in cui i generali si
accontentavano del trionfo, se avevano ucciso almeno
cinquemila nemici in battaglia, o dell’ovazione, cioè del
sacrificio di una pecora (ovis), se i nemici eliminati erano
quattromilanovecentonovantanove (ma dato lo scarso
numero di ovazioni di cui abbiamo conoscenza, dobbiamo
arguire che la tendenza fosse ad arrotondare). Tutti ora
esigono il trionfo e lo esigono in moneta sonante. Ai grandi
condottieri non basta passare sotto l’arco di legno, mentre
dietro sfilano i prigionieri e il bottino, non basta ascendere
sulle scale del Campidoglio tra le grida di giubilo del popolo.
Li lascia freddi il privilegio di cingere la testa con la sacra
corona di alloro e d’indossare la veste purpurea ricamata di
stelle e il manto sacro, identico a quello esibito da Giove in
ogni immagine. Il rito pubblico, compreso il sacrificio dei
prigionieri per ringraziare gli dei, è ritenuto ormai
insufficiente. Chi ha conquistato una nazione, chi riporta
indietro scrigni di pietre preziose, casse d’oro, bauli
d’argento desidera ricevere una parte del bottino. Non
sarebbe permesso dalle leggi, che prevedono la consegna
allo Stato di ogni indennità di guerra, però il Senato, i comizi
centuriati, l’Assemblea sono disposti a chiudere un occhio,
visto che ce n’è in abbondanza per tutti.
Naturalmente Catone l’occhio non vuole neppure
socchiuderlo. Egli si vanta di aver sempre consegnato, da
generale, l’intero bottino alla Repubblica, tranne la libbra
d’argento concessa in premio a ogni soldato. E allora Catone
vuol sapere da Publio Cornelio e da suo fratello Lucio se
hanno versato al Senato tutti i tributi pagati da Antioco. Lo
vuol sapere pur conoscendo l’assoluta integrità morale del
vincitore di Zama e l’enorme popolarità che lo circonda. Lo
muove il desiderio di riaffermare la supremazia del Senato?
O, più probabilmente, l’antipatia per una dinastia apertasi
alle mode ellenizzanti e che contribuisce a diffonderle grazie
all’enorme prestigio da cui è circondata?
È la prima controversia giudiziaria, che coinvolge il
Senato e lo spacca. Il rifiuto di Lucio Scipione a consegnare
le carte e quello di Scipione l’Africano, come oramai lo
chiamano tutti, a farsi interrogare segnano il momentaneo
appannamento della potentissima famiglia. Catone intona
un’altra orazione delle sue, forse la migliore, in cui individua
nel culto della personalità e nell’individualismo i mali che
corromperanno la democrazia di Roma, che mineranno la
compattezza sociale, finora le sue armi vincenti. Catone è
atterrito dal dilagare della cultura greca, del suo gusto
estetizzante, dei suoi libri – dove la ragione dileggia le
credenze religiose e le divinità – perfino delle sue sculture,
che gli appaiono indecenti e troppo laiche. Nel giudizio
dell’incallito conservatore, il console Flaminio, che adorna la
casa con le statue di Fidia e Prassitele, il console Emilio
Paolo, che dopo aver battuto il re Perseo di Macedonia a
Pidna si è impossessato della sua biblioteca e su di essa
educa i figli, sono l’annuncio di una rovina imminente. Lo
stesso predominio assunto da Giove gli pare
un’imperdonabile mancanza di rispetto nei confronti degli
altri dei dell’Olimpo, che così tanto hanno fatto per Roma.
In effetti la supremazia assegnata a Giove, signore
dell’Olimpo, serve a semplificare la vita religiosa. Vengono
stabilite rigide gerarchie, copiate dalle usanze greche:
attorno a Giove si muovono la moglie Giunone e gli dei di
primaria importanza, Mercurio, Diana, Marte, Venere,
Nettuno, Minerva. Costoro pian piano assommeranno nella
propria persona le funzioni e le peculiarità in precedenza
esercitate da una moltitudine di divinità. L’erudito del I
secolo a.C. Marco Terenzio Varrone si prende la briga di
contarle e arriva fino a trentamila.
Pur non immaginando che l’avvento di un numero uno
come Giove apra la strada verso le religioni monoteistiche,
Catone avverte che Atene rappresenta la negazione della
romanità, la modernità immorale contro la tradizione
bacchettona: in tempi recenti capiterà agli inglesi con
l’americanismo. Ma l’anziano senatore non ha bisogno di
predicare contro la Grecia giacché le sue città e i suoi
cittadini proseguono da soli nell’opera di autodistruzione. La
rivolta di Perseo, sventata dal figlio del console ucciso a
Canne, ha prodotto la distruzione di settanta città, la
devastazione dell’Epiro, di Rodi, il trasferimento di migliaia
di greci a Roma in qualità di schiavi. La Grecia quale entità
politica cessa definitivamente di esistere. Prospera invece
quale entità culturale, a tal proposito viene coniata una
frase, che fotografa alla perfezione la sua influenza: Graecia
capta ferum victorem cepit (la Grecia conquistata conquistò
il barbaro vincitore). La conquista avviene con i manoscritti,
con le opere d’arte, con le mode esistenziali, ma avviene
anche attraverso l’opera dei letterati. A Livio Andronico era
succeduto un altro prigioniero di guerra napoletano, quindi
di cultura greca, Cneo Nevio, giudicato però troppo
irriguardoso. Dopo alcuni scialbi imitatori fu il turno di un
pugliese di padre italiano e madre greca, Quinto Ennio. È lui
con gli Annales ad avviare la storiografia di Roma, a
camuffare il passato con la leggenda di Enea, che serve a
dare qualche quarto di nobiltà lì dove si erano aggirati
contadini e pastori. Poi si presentò sulla scena un umbro,
che i greci li aveva solo letti: Tito Maccio Plauto. Tito ‘il
pagliaccio dai piedi piatti’ fu il vero trionfatore delle scene,
l’inventore della commedia leggera, il primo autore
autenticamente romano. Se non vi è capitato, vi capiterà
senz’altro di assistere a un suo lavoro, il Miles gloriosus, che
si continua a mettere in scena con immutabile successo da
ventidue secoli.
Insomma l’ellenismo è una finta preoccupazione o, se
volete, preoccupa le coscienze e neppure tutte. Viceversa
Cartagine è una preoccupazione vera, è il nemico sconfitto,
ma non domato. Per questo Catone ha preso l’abitudine di
concludere i discorsi in Senato con un ammonimento
destinato anch’esso a gloria imperitura: Delenda Carthago
(Cartagine è da distruggere). È il chiodo fisso su cui batte e
sul quale, forse, influiscono le difficoltà che il suo commercio
di olio incontra sui mercati a causa dell’olio cartaginese. Gli
altri lo ascoltano con la stessa considerazione con cui si
ascolta il nonno lunatico finché il quasi novantenne
Massinissa non fornisce un grazioso aiuto. Massinissa ha
continuato a fare figli, l’ultimo a ottantasei anni, almeno così
gli fanno credere, e a sfruculiare i cartaginesi, forte della
protezione romana. Ogni protesta degli odiati rivali è caduta
nel vuoto. Senonché, pagata l’ultima delle cinquanta
annualità dovute quali risarcimento di guerra, Cartagine
decide di farsi giustizia da sola: attacca Massinissa.
L’ammonimento di Catone trova per una volta orecchie
attente. Il Senato dà l’alt a Cartagine, le chiede in ostaggio
trecento bambini, che partono in mezzo alle urla, alla
disperazione delle madri, alcune delle quali si lanciano a
nuoto nel folle desiderio di seguire le navi e annegano.
Ormai però si è messo in moto un meccanismo infernale, lo
stesso che ha portato alla distruzione degli etruschi. Roma
cerca un motivo per scatenare la guerra. Non lo trova
chiedendo la consegna della flotta, delle armi, di gran parte
del grano perché tutto ciò le viene consegnato. Lo trova
pretendendo che la città venga rasa al suolo, che la
popolazione si ritiri dieci miglia più indietro. Gli ambasciatori
cartaginesi offrono la loro vita; sostengono, a ragione, che
non si è mai visto tanto accanimento nel solo nome della
forza. A Cartagine scoppia una rivolta popolare contro i
maggiorenti, che hanno ceduto i bambini, contro i cittadini
romani in città per affari. È la guerra agognata dall’Urbe. In
otto mesi i fenici danno la prova estrema di che cosa siano
capaci. Vengono costruite centoventi navi, diciottomila
spade, trentamila lance, ottomila scudi. Tutti i quartieri sono
fortificati.
Il Senato sceglie Publio Cornelio Scipione Emiliano per
guidare la spedizione punitiva. È il nipote dell’Africano
essendo figlio adottivo di Cornelio Scipione jr. Suo padre
naturale era Emilio Paolo, il vincitore di Pidna. Come vedete
girano sempre gli stessi nomi – da qui la necessità degli
appellativi – e le stesse famiglie, che hanno fatto e faranno
la storia della Repubblica fino ad Augusto. Per condurre a
termine la missione di morte affidatagli, Scipione impiega
tre anni. Cartagine dev’essere espugnata casa per casa. Alla
fine brucia per diciassette giorni e diciassette notti. Del
mezzo milione di persone che l’abitavano ne rimangono in
vita meno di un decimo. Il territorio diventa provincia con il
nome di Africa. È il 146: una delle civiltà più fiorenti
dell’antichità sparisce per il capriccio di un popolo.
Nello stesso anno viene liquidato ciò che resta della
pratica greca. La Lega achea ha indotto le altre città alla
sollevazione contro Roma sperando di approfittare della
guerra in corso. L’esercito del console Mummio s’abbatte su
Corinto, passa gli uomini a fil di spada, deporta le donne
come schiave, fa incetta di tutto quanto può trasportare. Il
resto viene dato alle fiamme. L’Ellade, Macedonia compresa,
diventa provincia con una leggera autonomia per Sparta e
Atene. Di Grecia non si parlerà più per duemila anni.
Cartagine dev’essere espugnata casa per casa. Alla fine brucia per diciassette
giorni e diciassette notti.

Roma improvvisamente senza nemici deve fare i conti


con i dissidi interni, frutto di quanto accumulato in un secolo
di successi. A pagare il prezzo dell’Impero (anche se
ufficialmente non si chiama ancora così) sono proprio coloro
che l’hanno costruito: i piccoli proprietari agrari, dalle cui file
sono usciti i legionari, che hanno consentito a Roma di
annientare Cartagine. Il loro grano non può competere con
quello dei latifondi in Sicilia, in Sardegna, in Spagna, in
Africa, frutto del lavoro gratuito degli schiavi, di
conseguenza messo in vendita a un costo bassissimo. Della
crisi approfittano i senatori, che per legge devono investire
nell’agricoltura i capitali accumulati in guerra. È la
consacrazione della grande proprietà. Ai patrizi si
aggiungono coloro che, in possesso di cospicui patrimoni
liquidi, hanno prestato denaro allo Stato e ne sono ripagati
con sconfinati appezzamenti requisiti ai popoli sconfitti. Alla
rabbia di quanti hanno perso la terra si accoppia
l’esasperazione degli schiavi, costretti a lavorare in
condizioni disumane. La tratta di questi sventurati non ha
niente da invidiare alla tratta dei neri in età moderna.
Finché, stanchi di vivere da bestie e di morire peggio degli
animali rognosi, il loro furore non esplode, nel 136, in Sicilia.
Il capo della rivolta, Euno, raccoglie oltre settantamila
uomini, devasta Enna e Agrigento, per sei anni tiene in
scacco l’esercito.
La ribellione è domata nei mesi in cui viene eletto tribuno
Tiberio Gracco. Il primo grande difensore del popolo, che
però, come succederà spesso nella Storia, con il popolo non
ha nulla da dividere. Oggi di Tiberio si direbbe che è un vip,
un nato bene, un ragazzo allevato tra gli agi, pronto per i
suoi ideali a buttarsi nella sinistra più estrema. Sua madre è
Cornelia Scipione, la figlia dell’Africano; suo padre è Tiberio
Sempronio Gracco, che da tribuno aveva salvato Lucio
Scipione nella famosa controversia sollevata da Catone: il
suo veto ne aveva impedito la condanna per evasione
fiscale. Tiberio è cresciuto in una famiglia con un senso dello
Stato fortissimo, tra una madre che gli ha inculcato il culto
della tradizione e dei doveri, che uno Scipione ha in misura
maggiore di chiunque altro, e un precettore greco che l’ha
plasmato nei valori assoluti della democrazia. Tiberio
spasima per la politica, più ancora per la grandezza di
Roma: la vede minacciata dalla sparizione dei piccoli
possidenti, dal crescente potere dei latifondisti. La sua
prima proposta all’Assemblea è un’ampia riforma agraria in
tre punti: 1) nessuno può possedere più di 125 ettari, che
possono raddoppiarsi se si hanno figli; 2) i terreni dati in
affitto dallo Stato devono sempre tornare in suo possesso;
3) in tal caso le terre saranno divise e ridistribuite fra i
cittadini nella misura di 500 iugeri con ridotta tassazione e
impegno a non venderle.
Nella riforma di Tiberio e nel tono con cui la sostiene, il
Senato intravede un tentativo di delegittimazione. Convince
l’altro tribuno Ottavio a porre il veto. Tiberio a sua volta
convince l’Assemblea a espellere Ottavio. In un’atmosfera
incandescente, Tiberio scavalca la norma della non
rieleggibilità: si candida di nuovo, nel timore di essere alla
mercé dei patrizi una volta terminata l’immunità di tribuno.
Per catturare il consenso della plebe promette leggi sempre
più demagogiche: la riduzione della leva, l’abolizione del
monopolio senatoriale nelle giurie dei tribunali, la
concessione di aiuti gratuiti ai piccoli proprietari. Tiberio
capisce di essersi spinto troppo avanti. Il giorno del voto si
presenta vestito a lutto per spiegare che la mancata
elezione significherebbe per lui la condanna a morte. Ma i
senatori non vogliono neppure giungere alla conta delle
schede: irrompono nell’Assemblea guidati da Scipione
Nasica e con un colpo di randello spaccano il cranio a
Tiberio. Subito dopo vengono massacrati un centinaio di
suoi sostenitori, i cadaveri buttati nel Tevere.
Liberatisi di Tiberio, i senatori non hanno il coraggio di
liberarsi della sua riforma. Questa funziona per i romani, ma
produce la protesta dei latini e degli italici, che ne sono
esclusi. Contrarissimi rimangono i grandi proprietari. Nel
tentativo di farla abrogare si rivolgono a Scipione l’Emiliano,
il distruttore di Cartagine, che di Tiberio era cognato
avendone sposato la sorella Cornelia, nonostante fosse
deforme. La mattina in cui trovano l’Emiliano assassinato
nel suo letto, viene puntato l’indice contro la moglie: tutti
sanno che il loro è stato un matrimonio d’interesse, che i
rapporti si sono deteriorati. In mancanza di prove,
rimangono le dicerie, i pettegolezzi. Quella che fu la famiglia
più potente dell’Urbe è adesso guardata con odio, con
sospetto. Caio, il fratello minore di Tiberio, volendone
ripercorrere la carriera e gl’insegnamenti, deve muoversi
con la massima prudenza. Diventato tribuno si guadagna il
favore dei militari fissando a spese dello Stato
l’equipaggiamento e riesce a fare stabilire un prezzo politico
per il grano. Sulla spinta di questi successi strappa un
secondo tribunato (123). Ritiene, allora, di poter varare una
serie di riforme radicali, ma si scontra con il Senato, che
convince il suo collega Druso a presentare una serie di
proposte ancora più radicali. In tal modo Druso diventa il
campione dell’Assemblea. Presentatosi per un terzo
mandato, Caio viene bocciato. A questo punto il suo destino
è segnato, sebbene l’Assemblea capisca che le
rivoluzionarie promesse di Druso non saranno mai attuate.
Per sfuggire agli sgherri del Senato, Caio ordina a un suo
servo di ucciderlo. Il popolo ne approfitta per saccheggiargli
la casa. Alla madre Cornelia, che ai tempi belli aveva
definito Tiberio e Caio ‘i miei gioielli’, viene negato di
osservare il lutto. Di dodici figli che ebbe, ne rimane soltanto
una, la vedova dell’Emiliano.
Il sacrificio dei due fratelli non è del tutto inutile. La
riforma agraria viene abolita; rimangono, invece, il calmiere
del grano e l’abolizione del monopolio senatoriale nelle
giurie dei tribunali. Non bastano però a rasserenare i
rapporti tra le classi sociali. Il magico equilibrio, che li ha
retti dalla fondazione di Romolo, si è spezzato: ciascuna
guarda l’altra con malevolenza e rancore. Ad esempio,
perché il console Quinto Metello si oppone a essere
sostituito dal suo validissimo braccio destro Caio Mario?
Forse perché Mario non è un aristocratico? E l’Assemblea lo
vota compatta pur non conoscendolo. Mario, d’altronde,
niente ha fatto per avere una qualche fama. Viene da
Arpino, sconosciuto paesino del frusinate, è stato sempre un
soldato. Ha costruito la carriera sul valore e sulla disciplina.
Ha avuto l’intelligenza di contrarre un buon matrimonio, che
l’ha imparentato con la famiglia Giulia. Il fratello di sua
moglie si chiama Caio Giulio Cesare, è padre di un altro Caio
Giulio Cesare, del quale le cronache, e non soltanto esse,
dovranno occuparsi.
Mario, e soprattutto Quinto Metello, sono saliti alla ribalta
a causa del solito regno di Numidia, che da cento anni è il
prezzemolo delle vicende cittadine. Sul trono africano siede
Giugurta. Dovrebbe fungere da reggente e tutore dei
legittimi eredi, ma ne accoppa uno e dichiara guerra all’altro
domandando contemporaneamente il sostegno del Senato.
La commissione giunta dall’Urbe per districare il caso si
lascia corrompere dal suo oro e lo stesso avviene dei
senatori, che in seconda istanza l’hanno convocato a Roma.
Insomma sembra che nessuno dei ‘padri della patria’ resti
insensibile agli argomenti di Giugurta. L’eccezione è Quinto
Metello, dipinto come un personaggio grigio: forse in virtù di
tale grigiore respinge le lusinghe del desposta numida. Le
legioni romane sbarcano per l’ennesima volta in Africa,
prima della battaglia decisiva scoppia però nell’Urbe la lite
tra Quinto Metello e Mario. Al console in carica, espressione
del solito ristretto club di famiglie che si dividono le
magistrature più importanti, non va giù che un plebeo possa
ambire a sostituirlo. Ed è il motivo per cui la plebe regala
una schiacciante maggioranza a Mario.
Il neoconsole rimpiazza subito Quinto Metello alla testa
delle truppe. Giugurta viene sbaragliato. È il principale
trofeo dietro il carro di Mario in un trionfo senza pari
decretatogli dal popolo. Mario diventa l’uomo della
provvidenza (sebbene allora la provvidenza si chiamasse in
un altro modo), il primo di una lunga serie. È ritenuto
talmente insostituibile da vincere per quattro anni, contro
ogni regola, le elezioni. Gli danno una mano le micidiali
scorrerie di galli, cimbri e teutoni oltre le Alpi. A Orange
centomila soldati, e tra essi il fior fiore della gioventù dorata
di Roma, rimangono sul terreno per la pessima condotta di
due generali aristocratici, Servilio Cepone e Manlio Massimo,
più interessati a litigar fra loro che a occuparsi del nemico. È
il quinto esercito perso da Roma contro coloro che con
sommo disprezzo definisce i barbari (stranieri che, non
sapendo parlare la lingua, balbettano). In queste condizioni
a chi rivolgersi se non all’uomo della provvidenza?
Mario ha la fortuna dalla sua. Le orde vincitrici anziché
puntare sull’Italia si dirigono verso la Spagna. Lui ha così il
tempo di preparare un nuovo esercito, che non è più di leva,
ma di professionisti. Sparisce l’esercito popolare costruttore
dell’Impero, nasce l’esercito mercenario alla lunga
affossatore dell’Impero. Ad arruolarsi sono spesso i peggiori
elementi della società, quelli che inseguono nelle armi
l’ultima chance. Mario stabilisce paghe mensili, dividendi di
terre e di bottino in caso di vittoria. L’esordio dei soldati di
mestiere è sfolgorante. In due battaglie ad Aix (102), in
Provenza, e a Vercelli (101) sono sterminati prima i teutoni,
poi i cimbri. Roma impazzisce di gioia. Per sdebitarsi lascia
al console l’intero bottino e lo rielegge per la sesta volta.
Mario diviene uno degli uomini più ricchi della Repubblica.
Tuttavia vincere in pace gli risulta molto più difficile che
vincere in guerra. Le eccessive promesse rivolte ai soldati, il
bisogno di tenere le classi più umili legate a sé ne
appannano in due anni il carisma. Un ennesimo
abbassamento del prezzo politico del grano – l’invenzione
romana della ruota idraulica ha aumentato la quantità del
macinato – suscita la giusta reazione del Senato e dei
moderati del partito popolare. Per salvare la pelle Mario
deve abbandonare i più estremisti dei suoi sostenitori, che
vengono lapidati a morte. Egli stesso, pieno di astio e di
vino, parte per un volontario esilio in Oriente.
6. Un playboy di nome Cesare

Roma vive anni di accesa tensione. L’unico desideroso di


una soluzione pacifica è il figlio di quel tribuno, Livio Druso,
che pur di fermare Tiberio Gracco aveva avanzato una serie
di proposte talmente estremiste da essere inattuabili. Marco
Livio Druso, invece, ha più senso politico. I tre progetti di
legge, che nel 91 a.C. presenta all’Assemblea, potrebbero
dare una risposta alle grandi inquietudini del momento: 1)
distribuire nuove terre ai poveri; 2) raddoppiare il numero
dei senatori con trecento membri elettivi e conferire loro il
monopolio nelle giurie; 3) concedere la cittadinanza romana
a tutti gli italiani liberi.
L’Assemblea approva le prime due riforme. Prima che sia
messa in discussione la terza, Druso è assassinato. Non avrà
la gioia di vedere la figlia sposare un giovane, Caio Ottavio,
destinato a essere, nella sostanza, il primo imperatore. La
mancata approvazione della terza legge fa scoppiare nella
Penisola il serpeggiante malcontento di quanti sono costretti
a pagare le tasse, a rimpinguare l’esercito, ma non godono
di alcuna rappresentanza. Anzi, dal 125 non possono
neppure emigrare nell’Urbe e nel 95 chi già vi si trovava ne
è stato scacciato. Ad alzare il vessillo della rivolta sono i
marsi, i sanniti, i piceni; in seguito si aggregano le città della
Lucania, dell’Apulia, della Campania meridionale. Con
l’eccezione dell’Umbria e dell’Etruria, la protesta coinvolge
tutti gli ex alleati, che, in cambio dell’assoluta fedeltà
dimostrata in mille circostanze, hanno ricevuto sonori
ceffoni e adesso affidano la loro rabbia alle armi. Divampa
così la ‘guerra sociale’ (da socium, alleato). Si trasforma
nella seconda ‘guerra servile’ quando vi si uniscono gli
schiavi, di nuovo alla ricerca di una vita meno infame.
All’inizio queste bande male armate, peggio condotte, forti
soltanto di una furente disperazione sbaragliano legioni su
legioni. Roma sente un brivido correrle lungo la schiena e
richiama l’‘uomo della provvidenza’.
Mario non chiede di meglio. Arruola un altro esercito di
mercenari, largheggia nelle promesse di bottino, stronca
l’insurrezione coadiuvato da due generali, Pompeo Strabone
e Silla, già ai suoi ordini in Numidia e anzi determinante
nella cattura di Giugurta. Alle armi si accoppia un’efficace
azione diplomatica. Con la legge Iulia viene concessa la
cittadinanza romana dapprima agli umbri e agli etruschi, poi
a quanti hanno accettato di giurare nuovamente fedeltà
all’Urbe. Ne restano esclusi i popoli al di là del Po: si devono
accontentare della cittadinanza latina. Ma anche quella
romana, benché venduta al meglio, resta un riconoscimento
di serie B: i nuovi ‘cittadini’, inquadrati in dieci tribù,
voteranno infatti dopo le trentacinque romane, quindi
nell’impossibilità di esercitare un’effettiva influenza.
Mario ha salvato per la seconda volta Roma, che però
non si ributta ai suoi piedi. Magari i popolari lo farebbero, gli
aristocratici invece sono stufi delle bizze dell’anziano
generale, della sua accresciuta superbia, del suo sentirsi
ormai un gradino sotto Giove. Se ne vogliono liberare.
Ritengono di avere il candidato giusto da contrapporgli,
Lucio Cornelio Silla. L’hanno individuato con la stessa
casualità con cui il proletariato aveva individuato Mario e
questo la dice lunga sulla serietà dei tempi e sulla moralità
dei personaggi che l’incarnano. Mario e Silla sono pari per
ambizione, avidità, spregiudicatezza, ferocia. Non è un caso
che per tre lustri abbiano filato d’amore e d’accordo.
Al termine di una giovinezza dissoluta – si era anche fatto
mantenere da una prostituta – Silla aveva deciso che la
carriera militare avrebbe appagato la sua propensione per
l’avventura e per il rischio. Dietro questi gusti forti si
nascondono una profonda cultura, un affinato senso
estetico. Silla ha servito da questore con Mario in Numidia. È
stato lui a condurre l’operazione d’intelligence che ha
convinto Bocco, re dei mori, a consegnare Giugurta. Per
l’occasione Bocco gli ha regalato un bassorilievo d’oro in cui
era impresso l’episodio. Mario non l’ha mai perdonato a
Silla: non lo rode il valore economico dell’opera, bensì il
ruolo da protagonista che vi recita il suo sottoposto. Del
quale ha però bisogno nelle campagne contro i barbari. Per
coraggio e intelligenza Silla figura tra i migliori capitani
dell’esercito, la truppa lo segue a occhi chiusi. Lontano da
spade e scudi, Silla è attratto soltanto da una vita randagia
in mezzo a vino, donne, avventurieri. Che abbandona
all’improvviso per buttarsi in politica. È bocciato da pretore,
vince da edile. Si fa un nome allestendo al Circo Massimo il
primo combattimento fra leoni. Sulla scia di una crescente
popolarità viene eletto pretore e posto al comando della
spedizione in Cappadocia, dove c’è da restituire il trono ad
Arziobane, scacciato da Mitridate.
Silla sbaraglia gli usurpatori, Arziobane lo ricompensa
con un bottino immenso, del quale soltanto una parte viene
versata nelle casse dello Stato. Stanco di barcamenarsi tra
debiti e ristrettezze, così povero da essere snobbato dagli
altri patrizi, Silla si premia da solo per le sue vittorie: non
dovrà più dipendere da nessuno. Quando nell’88 si presenta
per il consolato, lo fa un po’ in odio a Mario, un po’ per
guidare l’esercito che dovrà recarsi in Asia Minore e
risolvere definitivamente la pratica Mitridate. La precedente
esperienza in Cappadocia gli ha insegnato che laggiù si
possono mettere le mani su cospicui tesori, e le belle cose
delle quali lui ama circondarsi costano parecchio. Per essere
eletto Silla investe molto perché molto gli costa il divorzio
dalla terza moglie Clelia. Un passo inevitabile prima di
sposare una ricca vedova, Cecilia Metella, il cui padre è il
numero uno del Senato. La parentela acquisita gli procura il
favore degli aristocratici, soprattutto gli consente di vincere
scavalcando le tappe obbligatorie (cursus honorum) per tutti
i candidati. La smaccata irritualità induce il tribuno Sulpicio
Rufo a battersi affinché le nomine siano revocate, il potere
affidato al settantenne, ma non ancora sazio Mario. L’odio
accumulatosi tra patrizi e popolari è pronto a sommergere le
strade dell’Urbe.
Silla si precipita a Nola, annuncia alle falangi, alle coorti,
alla cavalleria in attesa d’imbarcarsi per l’Asia che prima
occorre fare una piccola deviazione su Roma. Le
raccogliticce truppe di Mario sono sbaragliate, Mario esiliato
in Africa. Ancor oggi si discute se il primo esercito ad aver
calpestato il sacro suolo della Capitale sia stato quello di
Mario, che a modo suo la difendeva, o quello di Silla, che a
modo suo la liberava. Di sicuro i trentacinquemila
dell’esercito ufficiale si accampano al foro. Sostenuto dalle
loro lance, Silla proclama che si torna all’usanza serviana
dei comizi centuriati. Dunque il Senato ridiventa arbitro: non
si potrà presentare alcun progetto di legge all’Assemblea
senza il suo preventivo consenso.
Sistemata la costituzione e sistemato Sulpicio Rufo
(ucciso da uno schiavo prezzolato, che prima riceve il
premio della libertà e poi il castigo della morte), Silla può
finalmente dedicarsi alla pratica che più gli sta a cuore. Si fa
confezionare una nomina su misura di proconsole per l’Asia
Minore; in sua assenza l’ordinaria amministrazione verrà
sbrigata da due consoli. Secondo prassi, sono scelti uno tra i
patrizi, Cneo Ottavio, uno tra i plebei, Cornelio Cinna. La
rivalità tra le due classi si è, però, fatta insanabile, la guerra
civile inevitabile. Bande delle due fazioni si affrontano sulla
pubblica via, i cadaveri non si contano, l’ordine e le garanzie
civili sono stravolti. Gli aristocratici prevalgono, Cinna fugge.
Ma dall’Africa è rientrato Mario, ancora alla ricerca di una
personale rivalsa. Mette insieme alcune migliaia di uomini,
in gran parte schiavi; con essi irrompe a Roma. I diecimila
morti fatti dalle squadracce di Ottavio sono una bazzecola di
fronte al massacro compiuto dagli irregolari di Mario e dal
tribunale plebeo, che per un anno emette sentenze capitali.
Cadono tutti gli amici di Silla, cadono molti senatori e
altrettanti aristocratici, scappa la sola Cecilia, che riesce a
imbarcarsi verso la Grecia. Per fermare la strage dei liberti,
Cinna è costretto a usare reparti di soldati galli: così per la
prima volta appaiono a Roma truppe straniere.
Mario viene eletto console per la settima volta – forse un
record – ma muore pochi giorni dopo (86 a.C.). Gli succede
Valerio Flacco. Cinna lo incarica di raggiungere Silla con
dodicimila uomini e deporlo. Stretto tra le legioni romane, le
truppe avanzanti di Mitridate, le città elleniche in rivolta,
Silla dà il meglio di sé. Conquista Olimpia, Epidauro, Delfi,
infine Atene, il cui saccheggio rappresenta la ricompensa
per i suoi uomini senza paga. Batte e volge in fuga
Mitridate, incanta Flacco, doma un suo luogotenente che
vorrebbe rispettare gli ordini, e con ottanta navi ricevute da
Mitridate sbarca a Brindisi. Formalmente è ancora il
proconsole dell’Urbe, per accattivarsela Silla comunica di
voler consegnare il bottino più ingente dell’epoca:
quindicimila libbre d’oro e centomila d’argento. Ma Roma in
mano a Mario il Giovane, figlio dell’altro Mario, lo proclama
nemico pubblico inaugurando una moda che non passerà
mai. È ancora guerra. Alla Porta Collina l’esercito dei
popolari è decimato, migliaia di prigionieri trafitti, le teste
dei loro generali mozzate e condotte in gaia processione.
Quando Silla vi entra nel gennaio 81 Roma è davvero
prostrata: i seguaci di Mario prima di soccombere hanno
eliminato l’intera classe patrizia. Il nuovo padrone si erge a
pacificatore, pretende onori in precedenza mai concessi ad
alcuno. La sua statua equestre in bronzo dorato è la prima
del genere: rompe la tradizione di rappresentare i
benefattori della patria al massimo in piedi.
Silla inaugura il culto della personalità: dalle monete con
il suo profilo a una ricorrenza speciale nel calendario per
festeggiare le sue vittorie. Ma soprattutto ripulisce Roma di
quanti considera nemici. La città, che pensa di essersi
messa alle spalle gli eccessi mariani, conosce quelli sillani,
che niente hanno da invidiare ai precedenti. Queste stragi
consentono a Silla di modificare il tessuto connettivo del
sistema. La cittadinanza viene estesa ai galli e agli spagnoli,
che hanno militato nel suo esercito. Oltre centomila veterani
sono trasformati in contadini con la distribuzione gratuita di
terra. Trecento dei più ricchi borghesi entrano in un Senato
rimesso al centro del potere dopo l’abolizione delle riforme
graccane. Rinsanguata dalle recenti nomine, allargata alle
classi emergenti, l’aristocrazia torna a prevalere. Prima di
ripristinare le funzioni dei consoli, Silla decreta che
dovranno passare almeno dieci anni per chi desidera
concorrere a una seconda elezione. È l’ultimo atto, che
precede le dimissioni.
Nessun altro dittatore nei duemila anni a venire
rinuncerà spontaneamente al potere. Silla si ritira nella villa
di Cuma, dove si è trasferita gran parte dei suoi veterani, e
lì trascorre i due anni che gli restano da vivere tutto preso
dalle grazie della quinta e giovane moglie, Valeria.
Nella Capitale rimangono gli eredi di Silla, tra i quali
svettano Cneo Pompeo, che ne ha sposato una figlia, e
Marco Licinio Crasso. Il primo proviene dalla grande
borghesia, il secondo dall’aristocrazia. Il primo ha avuto il
merito di abbandonare Roma per unirsi, alla testa di un
personale reggimento, a Silla appena sbarcato a Brindisi. Il
secondo è figlio di un famoso luogotenente di Silla, che
aveva preferito uccidersi piuttosto che arrendersi a Mario.
Pompeo moltiplica le proprie sostanze con la lunga
campagna di Spagna contro un ufficiale di Mario, Sertorio.
Crasso, già beneficiato da Silla, organizza il primo corpo di
pompieri e speculando sul suo impiego diventa il più grosso
proprietario d’immobili. D’altronde sono anni in cui a Roma
tutto ha un prezzo: le nomine nella magistratura, le
assoluzioni nei tribunali, le arringhe degli avvocati (che
dovrebbero essere gratuite per legge), i comandi militari,
gl’incarichi nelle lontane province. Soprattutto comandi e
incarichi sono molto ambiti per gli stratosferici guadagni che
consentono.
Verre governatore in Sicilia ha talmente abusato del
proprio ruolo da esser condotto in giudizio. Pensa di poterla
sfangare perché protetto dall’aristocrazia e difeso da
Ortensio, l’incontrastato dominatore del foro. Ma dall’altra
parte c’è Marco Tullio Cicerone, giovane e benestante
avvocato di Arpino, che aveva conquistato la ribalta
sconfiggendo in aula un favorito di Silla. Dopo aver
prudentemente trascorso tre anni in Grecia a studiare
l’oratoria di Demostene, Cicerone è rientrato, si è arricchito
con un calcolato matrimonio d’interesse e ora è pronto a
soddisfare le sue smisurate ambizioni. Il processo contro
Verre, che ha afflitto generazioni e generazioni di studenti
ginnasiali, si risolve in un trionfo per Cicerone e per quella
borghesia in espansione che mal tollera lo strapotere
patrizio. Lo scontro non si fonda sugli ideali, bensì su forti
interessi economici. Roma campa di ciò che riesce a
spremere dai domini, e per quanto questi siano infiniti, le
pretese di aristocratici e cavalieri lo sono ancora di più. La
posta in palio è lo sfruttamento del mondo allora conosciuto:
agli occhi dei contendenti giustifica ogni inganno, ogni
corruzione, ogni bassezza, persino che i senatori si
dedichino, attraverso prestanome, all’usura.
Non ci sono marmi, pietre preziose, legni pregiati,
sculture, manoscritti rari bastevoli a soddisfare le voglie di
siffatti personaggi. I tuguri di un tempo sono stati sostituiti
da ville sfavillanti, al cui interno, oltre alle statue e ai monili
saccheggiati in Africa e in Asia, a volte campeggiano
immense biblioteche composte da testi unici. Dalle tavole
sono spariti l’impasto di acqua e frumento, il farro, il cacio,
le olive. Ora assieme alle leccornie di cacciagione, assieme
al pasticcio d’ostrica e ai frutti di mare dominano i pavoni di
Samo, le pernici di Frigia, lo storione di Rodi, le murene di
Gabes. I ricevimenti di Lucullo, un ex generale che gli
intrighi hanno innalzato sulla vetta prima di relegarlo in una
prematura pensione, sono passati alla Storia e ancor oggi si
dice ‘luculliano’ di un pasto sfarzoso e abbondante. Messi da
parte la timidezza e il pudore di un tempo, le donne
gareggiano nel numero dei mariti e degli amanti, sono
spesso al centro di complessi giochi di potere, si vantano
dell’influenza che esercitano, accettano di essere strumento
di potere. Pompeo passerà dalla figliastra di Silla alla figlia di
Cesare, Giulia. Il poeta più apprezzato dell’epoca, Catullo,
spande versi irati nei confronti di Clodia, che lui chiama
Lesbia, moglie di Quinto Cecilio Metello, signora del più
ambito e invidiato salotto della città. La stessa cultura è in
mano agli abbienti perché costa la pergamena e costa il
mantenimento degli schiavi adibiti a riempire le pagine e
pagine dei volumi (in latino, rotola). Il miglior letterato,
Lucrezio, autore del famosissimo De rerum natura, altra
croce e delizia degli studenti, è un aristocratico talmente
ricco e depresso da consentirsi il lusso di vivere in totale
isolamento. Terenzio Varrone e Sallustio scrivono i loro saggi
e le Storie nel tempo libero dalle incombenze politiche.
Asinio Pollione, cui Roma deve la prima biblioteca pubblica,
è quello che si definirebbe un borghese illuminato.
A pagare il prezzo di tanto lusso sono le province, le
colonie, i popoli assoggettati e quasi sempre trasformati in
schiavi. I più sventurati di costoro vengono costretti a fare i
gladiatori, scoperte recenti hanno appurato che fra loro
compaiono anche donne. Per il sollazzo degli spettatori
devono scannarsi o affrontare i leoni. Hanno una sorte
segnata, di conseguenza nulla da perdere nel seguire un
tracio (bulgaro) di nome Spartaco, che li guida nella fuga
dalla scuola di Capua. I settantotto evasi diventano in breve
decine di migliaia. Spartaco si rivela un condottiero astuto.
Ottiene importanti successi, ma non riesce a convincere i
suoi a mettersi in salvo superando le Alpi. Alla fine è
costretto ad affrontare un’imponente armata al comando di
Crasso: non ha scampo. I seimila schiavi sopravvissuti al
massacro sono crocefissi lungo la via Appia (71 a.C.)

I tuguri di un tempo sono stati sostituiti da ville sfavillanti.

Per meglio gestire il successo, Crasso si allea con


Pompeo di ritorno, anch’egli vittorioso, dalla Spagna.
Nonostante una legge di Silla proibisca a qualsiasi esercito
di bivaccare in Italia, i due condottieri lo fanno. Superano la
personale inimicizia per affrontare l’ostilità del Senato, che
vorrebbe negare a Pompeo il trionfo e soprattutto la
distribuzione di terre ai veterani. Paradossalmente i due
diventano i pupilli del proletariato e della solita frangia
borghese alla ricerca di altre occasioni di guadagno. Eletti
consoli nel 70, cancellano i capisaldi della riforma sillana:
sono ripristinate le competenze dei tribuni e con la
riammissione dei cavalieri è sottratto ai patrizi il monopolio
nelle giurie dei tribunali. Soddisfatte in tal modo le attese
degli elettori, passano a dividersi le sfere d’intervento.
Pompeo diventa comandante in capo delle operazioni di
terra e di mare per sbarazzarsi definitivamente dell’inquieto
Mitridate e dei pirati che infestano il Mediterraneo. Crasso fa
in modo che l’apertura dei mercati asiatici volga a beneficio
dei banchieri suoi sostenitori.
Il Senato si oppone a questi piani, con l’eccezione del
giovane Giulio Cesare. Pur essendo di piccola famiglia
patrizia, il trentenne e già pelato Cesare ha appoggiato lo
zio Mario ed evitato la vendetta di Silla per l’intercessione di
numerosi parenti, che hanno convinto il rancoroso dittatore
a spedirlo in esilio. Cesare torna dunque a schierarsi con la
plebe, tuttavia a niente servirebbe il suo sostegno se
l’Assemblea non approvasse la nomina di Pompeo. Lo fa
trascinata da Cicerone. Sembrerebbe la definitiva sconfitta
del patriziato, ma l’alleanza tra borghesia e proletariato
dura poco. A disfarla ci pensa Catilina, anch’egli
aristocratico, spinto però dal carattere su posizioni più
estremiste dei Gracchi. Catilina propone la cancellazione dei
debiti privati. Basta e avanza per spaventare senatori e
cavalieri gettando gli uni nelle braccia degli altri.
Nell’elezione a console Catilina è sconfitto da Cicerone,
bravo a proporre la santa alleanza, da lui denominata
‘concordia degli ordini’, tra le due classi, che sarebbero
rovinate dalla perdita dei propri crediti. Messo all’indice,
Catilina è battuto anche nella successiva elezione. I suoi
nemici l’avevano già tante volte accusato di congiurare
contro il Senato, adesso lui lo fa per davvero. Cicerone per
tre giorni e tre notti pronuncia in Senato la più celebre delle
sue orazioni, al termine della quale viene spiccato un
mandato d’arresto per i più in vista dei congiurati. Anche in
questo caso l’unica voce contraria appartiene a Cesare,
appena rientrato dalla missione militare in Spagna e sempre
fedele al partito di Mario.
Giulio Cesare.

Proprio le insegne del vecchio ‘popolare’ sfoggia


l’esercito rivoluzionario di Catilina nella battaglia di Pistoia.
È la fine del folle progetto, l’inizio dell’autocelebrazione di
Cicerone, che si giudica più importante di Romolo e ottiene
il titolo di padre della patria. La sua stella però s’offusca.
Accanto agli affermati Pompeo e Crasso, cresce Cesare, che
è militarmente più bravo e politicamente più astuto di
Pompeo, parla meglio di Cicerone, sfrutta con sapienza i
soldi di Crasso. La sua esistenza è già piena di avventure. A
sedici anni era in Asia, cocco di Nicomede, re di Bitinia; a
diciotto, di ritorno nella Capitale, ha soggiaciuto al volere
paterno e ha sposato Cossuzia; l’ha poi ripudiata in favore di
Cornelia, nipote di Cinna, il successore di Mario. Da
‘progressista’ ha schivato i fulmini di Silla: si è
orgogliosamente tenuta la moglie, da cui gli era stato
ingiunto di divorziare, ma ha perso la cospicua dote. Nel suo
andirivieni da Roma è finito in mano ai pirati, dei quali si è
poi ferocemente vendicato. Nel 68 è così carico di debiti che
l’unica soluzione gli appare la candidatura a questore. I soldi
per comprare i voti glieli dà Crasso, lui per riconoscenza ne
seduce la moglie, Tertulla. Ottenuto un comando in Spagna,
conquista la prima gloria sul campo contro i ribelli. Nel 65 è
eletto edile. Allestisce magnifici spettacoli, che gl’ingraziano
gli elettori, non i creditori, i quali tra l’altro borbottano per la
sua decisione di ricollocare in Campidoglio i trofei di Mario
epurati da Silla. Nel 62 è nominato propretore per domare
gli iberici di nuovo in subbuglio. I tanti che avanzano soldi
minacciano di non farlo partire se prima non saranno
soddisfatti. È ancora Crasso a prestare l’equivalente di
svariati miliardi di oggi necessari a Cesare per mettersi in
pari. La Spagna rappresenta per Cesare una parata militare.
È anche l’occasione propizia per rinsanguare le finanze,
saldare il debito con Crasso. Ma pure il Tesoro ha la sua
parte ed è tale da indurre il Senato a tributargli il trionfo. O
forse è soltanto una manovra dei rivali per bloccare la sua
candidatura al consolato, la quale presuppone la presenza
del candidato, mentre il trionfatore, secondo la legge, deve
attendere lontano da Roma la cerimonia. Cesare rompe gli
indugi: si presenta da solo alle porte della città. Riceve
l’appoggio di Pompeo e Crasso, cioè dei rappresentanti
dell’aristocrazia e della borghesia. I due stringono un patto
con colui che è ormai il candidato dei popolari. Nasce così il
Triumvirato, in spregio al Senato, da cui Crasso e ancor più
Pompeo sono stati delusi. Pompeo e Crasso dispongono di
tali sostanze – il primo ha riportato dall’Asia un centinaio di
miliardi attuali – da garantire l’elezione di Cesare. Questi da
console assegna ai soldati di Pompeo le terre e garantisce a
Crasso e ai suoi amici gli appalti desiderati.
Con il Senato in difficoltà, neppure la continua
opposizione dell’altro console, Bibulo, impedisce a Cesare di
far approvare dall’Assemblea una serie di riforme sociali ed
economiche ricalcanti quelle dei Gracchi. E se gli dei sono
ogni volta contrari, come s’affanna a dire Bibulo, peggio per
gli dei. Da consumato politico, Cesare ottiene una nomina
quinquennale di proconsole nella Gallia cisalpina e
narbonese. Nel 58, quando se ne allontana, Roma è sotto il
suo ferreo controllo. A fare buona guardia sono rimasti due
consoli da lui scelti, di cui uno è il suo nuovo suocero, Pisone
padre di Calpurnia, l’altro un tribuno, Clodio, che gli deve
tutto e l’ha già aiutato a sbarazzarsi della terza moglie,
Pompea. Crasso e Pompeo per il momento fanno gli
spettatori. Crasso è pago dei tanti affari conclusi e da
concludere, Pompeo rimugina sulle tante occasioni nelle
quali avrebbe potuto instaurare una personale dittatura, se
non fosse stato così ligio alle regole. Perfino il Senato è in
crisi: Cesare ha dimostrato che si può governare senza. Per
sovrammercato ha ordinato che quanto avviene al suo
interno venga giornalmente pubblicato. Nascono gli Acta
diurna, il primo esperimento di quotidiano, non in vendita,
ma appeso sui muri in modo che chiunque possa leggere e
controllare le parole e gli atti dei propri governanti. La
democrazia ha compiuto un altro passo avanti.
In Gallia Cesare ha per la prima volta un esercito,
seppure modesto, alle proprie dipendenze: quattro legioni,
meno di trentamila uomini. Lui a proprie spese li raddoppia
per affrontare i centocinquantamila germani, venuti a dar
man forte al confratello Ariovisto nelle Fiandre, e i
quattrocentomila elvezi, inoltratisi dalla Svizzera nella Gallia
narbonese. Nonostante la sproporzione delle forze in campo,
Cesare rispedisce gli elvezi a casa, dopo averli ridotti al
rango di vassalli, e sbaraglia i germani. La morte di Ariovisto
gli lascia campo libero. Al termine di un’altra veloce
campagna comunica al Senato che il paese, e che paese, è
sottomesso. Per lui è tempo di volgere lo sguardo a Roma. In
sua assenza lo scontro tra popolari e aristocratici si è
incarognito. Clodio imperversa, i patrizi per contrastarlo
hanno arruolato un tipaccio della sua stessa fatta, anche se
di nobili natali, Annio Milone. La città annichilita assiste a
violenze d’ogni tipo. Ne fa le spese persino Cicerone,
costretto a riparare in Grecia per salvare almeno la pelle,
dopo averci rimesso l’ingente patrimonio. Ed essendo Clodio
un protetto di Cesare, è contro il conquistatore della Gallia
che Cicerone, al ritorno dalla Grecia, indirizza la propria
oratoria. Cicerone interpreta da par suo lo scontento dei
conservatori nei confronti di uno dei loro, qual è Cesare,
militante per motivi di opportunità nel campo avverso. I
patrizi sembrano indifferenti all’enorme regalo che
quell’incallito donnaiolo trasformato in straordinario
stratega ha fatto all’Urbe con la Gallia. Li intriga molto di più
l’abolizione delle leggi agrarie: contro di esse impostano la
campagna elettorale del 56.
Ma Cesare, Pompeo e Crasso sono di parere opposto. Un
incontro a Lucca serve a rinforzare l’antico Triumvirato.
Viene stabilito che con l’aiuto economico di Cesare, i due
vecchi compari concorrano per il consolato. Una volta
ottenutolo, prolungheranno per altri cinque anni il
governatorato del loro socio in Gallia. Ma Pompeo e Crasso
vogliono anch’essi un esercito, dunque alla scadenza del
mandato il primo avrà il controllo militare della Spagna, il
secondo della Siria. Grazie all’ingente disponibilità di fondi,
le elezioni vanno secondo previsioni. In tal modo Cesare può
precipitarsi oltre le Alpi e domare l’ennesima rivolta. La sua
curiosità è attratta dalla Gran Bretagna, dove nessuno si è
mai spinto. Ci va due volte, arriva fino al Tamigi, sconfigge
un esercito indigeno, è però richiamato indietro dalla
consueta ribellione dei galli, che stavolta hanno in
Vercingetorige un capo abile a stuzzicarne l’orgoglio
nazionalista. Cesare compie prodigi di tattica, giostra con
sagacia le esigue legioni di cui dispone, ma verrebbe alla
fine schiacciato dalla superiorità numerica dei nemici, se
questi non si mettessero a litigare fra loro ritirandosi il
giorno prima di sfondare.
Sarebbe il momento di cogliere il meritato trionfo,
tuttavia dietro quello che Roma gli concede si consolida il
mai sopito proposito della nobiltà di regolare i conti. Ucciso
Crasso dai parti in Siria, Pompeo gode finalmente dei favori
del Senato. Tocca a lui liquidare l’ingombrante Cesare, con il
quale dopo la morte di Giulia non ha più vincoli di parentela.
L’abituale mercato delle nomine fa sì che Pompeo rimanga
proconsole fino al 46 e possa quindi mantenere un esercito,
che Cesare perderà da lì a poco, nel 49, allorché scadrà il
suo incarico. E Cesare non può nemmeno partecipare alle
elezioni dei consoli perché gli rifilano il solito impedimento
della obbligatoria presenza in città, dalla quale lui però
dev’essere obbligatoriamente assente a causa del trionfo.
Cesare stavolta è all’angolo: o accetta di disfarsi dei pochi
uomini che ha con sé e diventa una facile preda o li tiene e
diventa un nemico della Repubblica. Quando il 10 gennaio
del 49 si presenta sulla sponda del Rubicone, confine fra la
Gallia cisalpina e l’Italia, dove la legge sillana impedisce a
chiunque di condurre le truppe, i fatti hanno già scelto per
lui. Al momento di guadare quello sconosciuto fiumiciattolo,
il cinquantunenne condottiero pronuncia la celeberrima
frase: « Il dado è tratto » intendendo dire che ormai non può
più tornare indietro. Al suo seguito marcia la legione
preferita, la tredicesima. Sono seimila veterani forgiati da
decine di campagne vittoriose, capaci di prendere in giro il
loro generale per i capelli con il riporto o per l’inveterata
abitudine di correre dietro ogni gonnella, ma verso il quale
hanno un trasporto e una fiducia totali.
Durante la marcia sulla Capitale in molti accorrono sotto
le insegne di Cesare. Gli capita, infatti, di coagulare il diffuso
malumore di parecchie città contro il Senato, soprattutto dei
galli del Piemonte e della Lombardia, che costituiscono il
nerbo della tredicesima e sono i soldati più efficienti di
Roma. Nell’Urbe guardano con simpatia a lui i rampanti
degli equites. Cesare infatti rappresenta la rottura definitiva
con la Roma polverosa e catoniana: la Roma che lui incarna
vuole aprirsi al mondo, soprattutto alle delizie del mondo.
All’avanzata di Cesare corrisponde l’arretramento di
Pompeo fino a Brindisi, con al seguito i senatori, un codazzo
di clienti e di famigli. Cesare entra in Roma senza problemi.
Questi, viceversa, cominciano quando deve fronteggiare tre
eserciti: in Spagna, in Sicilia e in Albania, estremo rifugio di
Pompeo. Tra sconfitte e mezze vittorie, Cesare si
barcamena, anzi gioca d’anticipo e sbarca vicino a Durazzo.
Cleopatra.

Pompeo non sfrutta la notevole superiorità di uomini e


mezzi, rimane incerto sul da farsi finché non accetta lo
scontro nella piana di Farsalo. I suoi cinquantasettemila fanti
e cavalleggeri sono sbaragliati dai ventunomila di Cesare. A
Pompeo non resta che la fuga. Essa finisce in Egitto per
mano di un sicario del locale re, Tolomeo XII. Cesare piange
davanti alla testa mozzata del compagno-rivale di una vita.
Ma il dolore svanisce quando gli si presenta Cleopatra, la
maliarda più famosa d’Africa. Cleopatra si fa sistemare sul
trono al posto del fratello Tolomeo, regala un figlio a Cesare,
il piccolo Cesarione, lo trattiene un anno ad Alessandria in
un susseguirsi di congiure, di sollazzi, di conflitti: durante
uno dei quali viene danneggiata dalle fiamme la celeberrima
biblioteca.
Con buona pace della quarta moglie Calpurnia e degli
sdegnati senatori, Cesare porta Cleopatra a Roma.
L’attendono altre guerre in Africa e Spagna contro
gl’irriducibili pompeiani. Ha sempre il sopravvento. Vorrebbe
finalmente dedicarsi al riordino della città ormai a pezzi e di
un sistema che gli pare peggio combinato. Punta sulla
provincia, sui concittadini dei suoi legionari giudicandoli
moralmente più affidabili dei propri. La cittadinanza romana
viene estesa all’intera Italia. Non è l’unico boccone amaro
che il Senato deve inghiottire. È anche costretto a offrire
all’imbattibile condottiero il titolo di dittatore dapprima per
dieci anni, poi a vita. Cesare vi aggiunge quello di prefetto
dei costumi per tre anni e di detentore della potestà
tribunizia. In pubblico può sfoggiare la veste trionfale e la
corona di lauro buona a mascherare la calvizie. Roma, che
da tempo ha l’Impero, adesso ha pure un imperatore
sebbene i formalismi della Repubblica non consentano di
chiamarlo così.
La rivoluzione di Cesare comincia con la retrocessione del
Senato a organo consultivo. I componenti sono portati da
seicento a novecento, tra i nuovi oltre ai borghesi di
provincia vi sono alcuni suoi ufficiali figli di schiavi. È
l’umiliazione più cocente che Cesare infligge al nemico
storico, ma le resistenze più strenue le incontra
nell’applicazione della riforma agraria. Cesare fatica a
conquistare la collaborazione dell’alta borghesia industriale
e di quella parte dell’aristocrazia, cui si rivolge dopo averle
perdonato la militanza con Pompeo. Tra i tanti graziati
figurano Cassio e Bruto, un tempo suoi acerrimi avversari,
ora governatori di provincia. L’attivismo di Cesare è
irrefrenabile: segue passo passo la redistribuzione delle
terre, ordina una lunga serie di opere pubbliche, mette
ordine al calendario (il settimo mese è tuttora chiamato
luglio da Giulio). Ed è il calendario che continua a essere
applicato da tutto il pianeta con l’anno di
trecentosessantacinque giorni e sei ore più l’aggiunta di un
giorno ogni quattro anni.
Non dimenticando di essere Cesare, mette in cantiere
due spedizioni militari: una per punire i parti dell’assassinio
di Crasso, l’altra per ampliare i confini dell’Impero alla
Germania e alla Scizia. Viene fermato, il 15 marzo del 44,
dai pugnali dei congiurati, tra i quali Bruto, cui Cesare
rivolge una frase presente in ogni libro di storia: « Anche tu,
figlio mio... » ed è probabile che figlio suo lo fosse davvero.
L’animatore della congiura è stato Cassio. Sostiene di
essersi mosso per salvare gli ordinamenti repubblicani: ha
infatti sparso la voce che il Senato stesse per nominare
Cesare re, giacché la Sibilla avrebbe predetto che soltanto
da un re i parti sarebbero stati sconfitti. Ma è più probabile
che la molla siano stati il desiderio di vendicarsi dopo tante
sconfitte e la speranza di mantenere all’aristocrazia i
privilegi irrimediabilmente perduti.
Il popolo non accoglie gl’inviti a festeggiare il tirannicidio,
anzi piange il morto comprendendo che con lui è stata
uccisa la possibilità di uno Stato più giusto. Lo stesso
Cicerone, sempre bravo nel fiutare il vento, preferisce
tacere: è la prima volta che gli succede. Quanti aspettano la
vendetta di Marc’Antonio, il fedelissimo luogotenente di
Cesare, rimangono esterrefatti dal suo invito a Bruto e a
Cassio di cenare assieme. Cicerone appronta un disegno di
legge per un’amnistia generale, il Senato viene invitato ad
approvare i progetti lasciati in sospeso da Cesare,
Marc’Antonio si preparara a ricevere l’eredità del defunto.
Cesare, però, anche da morto sconvolge i piani della
controparte. Il testamento, aperto dopo il funerale più
solenne mai celebrato, nomina beneficiari delle sue
sostanze i cittadini ed erede un pronipote, Caio Ottavio.
7. L’Impero contro Gesù

La designazione di Cesare ha due effetti: indurre il


diciottenne Caio Ottavio a modificare il nome in Caio Giulio
Cesare Ottaviano; far credere che il defunto abbia sbagliato
nel nominare erede un ragazzino, per di più di esile
corporatura e di malcerta salute. Marc’Antonio e gli
aristocratici gareggiano nel sottovalutare quell’intruso
sconosciuto, che per eseguire il testamento si è precipitato
dall’Illiria, dove lo zio gli aveva affidato un comando con due
legioni. Marc’Antonio si giudica l’unico degno successore.
Suo padre era il console alla testa delle divisioni, che
avevano sconfitto Catilina a Pistoia; lui è stato il
luogotenente più bravo di Cesare, che però non avrebbe
dovuto fargli lo scherzetto d’ignorarlo nel testamento. Ma
Cesare forse aveva capito di che pasta era fatto. Una pasta
non buona, che l’induce ad appropriarsi d’ingenti fondi del
Tesoro, a brigare per esser nominato governatore della
Gallia cisalpina in modo da mantenere un esercito in Italia. Il
Senato si oppone: a malincuore benedice l’accordo tra
Ottaviano e i due consoli in carica, Irzio e Pansa. Le loro
forze riunite battono quelle di Marc’Antonio a Modena. A
Ottaviano riesce il colpo di essere l’unico sopravvissuto
dell’improvvisato Triumvirato. Che è presto seguito da un
altro molto più solido formato da Ottaviano, da un ex
generale di Cesare, Lepido, e da un Marc’Antonio divenuto
molto disponibile dopo la batosta militare.
L’accordo viene siglato sulla pelle del Senato. Ottaviano
ha ottenuto che sia cancellata l’amnistia ai congiurati delle
Idi di marzo e che a costoro venga inflitta la pena di morte.
Le vittime sono migliaia, la più illustre è Cicerone, cui danno
la caccia gli sgherri di Marc’Antonio. Questi non gli ha
perdonato le violente filippiche (dalle orazioni del greco
Demostene in odio a Filippo il Macedone), che l’anziano
avvocato ha pronunciato contro di lui e contro gli eccessi
della sua vita privata. Cicerone aveva ancora una volta
fiutato bene il vento, aveva puntato sul cavallo giusto,
Ottaviano, ma senza metterne nel conto l’estrema
spregiudicatezza. Una clamorosa ingenuità tipica di un
personaggio che si amava, si sopravvalutava e si riteneva
migliore degli altri solo perché da governatore della Cilicia
aveva rubato meno dei predecessori. Ciò non toglie che
ancora oggi se chiedete a un romano il motivo del suo
disincanto, egli vi risponderà di abitare nell’unica città al
mondo che ha avuto come consiglieri comunali Cicerone e
Cesare...
La punizione degli assassini di quest’ultimo si conclude a
Filippi nel 42 a.C. Le armate dei triumviri sconfiggono gli
eserciti di Cassio e Bruto. Entrambi preferiscono il suicidio
alla resa. Li imitano molti dei patrizi unitisi a loro nella
speranza di riaffermare attraverso la supremazia del Senato
la propria. La spartizione del bottino conferisce l’Europa a
Ottaviano, l’Africa a Lepido, l’Egitto, la Grecia, il Medio
Oriente ad Antonio, che vi trova anche la preda femminile
più ambita di quegli anni: Cleopatra, sopravvissuta a ogni
sconquasso e a ogni cambiamento. La seduttrice è ancora
nel pieno delle grazie: le basta far svolazzare i veli di cui è
solita ricoprirsi per avere anche Marc’Antonio ai propri piedi.
La nuova coppia folleggia, si gode le esotiche bellezze dei
luoghi, ma non dimentica che lo scontro con il silenzioso e
introverso ventunenne, in possesso della sagacia e della
saggezza di un sessantenne, è solo rinviato.
Ottaviano approfitta degli svaghi di Marc’Antonio per
riorganizzare le disastrate finanze e vincere le resistenze del
Senato. Ci riesce con la collaborazione di un bravissimo
ministro della Guerra, Marco Agrippa, e del più brillante
economista del tempo, Gaio Cilnio Mecenate, la cui
generosa protezione nei confronti degli artisti trasformerà il
suo nome in un sostantivo. Nonostante un tentativo di
compromesso attraverso il matrimonio di Antonio con la
sorella di Ottaviano, Ottavia, il duello finale è inevitabile. La
battaglia decisiva avviene sul mare di Azio nel 31. La
genialità di Agrippa è vincente, benché la flotta di
Marc’Antonio e Cleopatra sia più potente. Il resto delle
operazioni è un preambolo della caduta di Alessandria e del
suicidio dei due amanti: Antonio si uccide alla notizia, falsa,
che Cleopatra sia morta; questa lo fa dopo aver invano
provato a sedurre, ormai è anzianotta, l’esangue vincitore.
Ottaviano per sicurezza fa eliminare sia Cesarione, il figlio di
Cesare, sia il maggiore dei figli di Antonio. A soli trentun
anni colui che era stato liquidato come un innocuo ragazzino
si ritrova padrone del mondo. Lo guida l’ambizione di
lasciarci un’impronta.
Ottaviano non tocca formalmente le istituzioni, però
riforma la macchina burocratica. Accetta il titolo di
imperator nei confronti dei duecentomila soldati rimasti,
dopo che ne ha mandati a casa con adeguata ricompensa
circa quattrocentomila. Da questo piedistallo crea un
gabinetto ministeriale, nomina venti senatori portavoci del
Senato, che in pratica scompare, riduce l’Assemblea a cassa
di risonanza delle proprie decisioni. Nel 27, al termine di un
congegnato scambio di convenevoli con i senatori,
acconsente a ricevere tutti i poteri fin lì divisi tra le diverse
magistrature. Tali poteri vengono condensati nell’appellativo
di Augusto, letteralmente l’‘aumentatore’, e Ottaviano li usa
con moderazione. Trova la quiete familiare con la terza
moglie Livia, madre già di Tiberio e Druso. La sua condotta
privata è a prova di pettegolezzo, i suoi costumi sono
moderati essendo troppo cagionevole di salute per
concedersi eccessi, il suo stile ha una misura che diverrà
proverbiale. Non prende decisioni negli accessi di rabbia e
per farsela passare ripete in continuazione l’alfabeto.
L’unica sua debolezza è per il proprio culto: la cura con una
serie di monumenti e di ritratti (ce lo mostrano carico di
pensieri e di serietà) inauguranti una campagna
d’immagine, che è la prima della Storia e forse la più
spettacolare.
Pignolo com’è, vuol sovrintendere alla vita delle
istituzioni e a quella dei suoi cari. Riordina le province, fonda
un gran numero di colonie, che poi saranno importanti città
– Torino, Aosta, Brescia, Rimini, Benevento –, abbellisce
Roma dotandola di un piano regolatore e dividendola in
quattordici quartieri, riunifica l’Italia e designa undici
regioni: Latium e Campania, Apulia e Calabria, Lucania e
Brutii, Samnium, Picenum, Umbria, Etruria, Aemilia, Liguria,
Venetia e Histria, Transpadania, che così ha la cittadinanza
romana promessale da Cesare. Dell’Italia attuale, a parte
taluni aggiustamenti geografici, mancano soltanto la Sicilia
e la Sardegna mantenute nel ruolo di province. Agli ottimi
risultati pubblici – si vanta di aver trovato Roma di legno e di
lasciarla di marmo – fanno da contraltare le cocenti
delusioni del patriarca. Non riesce a mettere il guinzaglio
all’unica figlia, Giulia, avuta da Scribonia. Giulia è la signora
più allegra di Roma, tutti i matrimoni combinatile dal padre
(di solito con uomini già sposati) per predisporre la
successione si rivelano un disastro dopo aver disastrato
famigliole felici.
Ad alleviarne le pene provvedono i poeti e gli scrittori.
Glieli presenta Mecenate ed essi gareggiano nel dedicare
alla sua maestà i propri componimenti. Il primo è Virgilio, il
quale per riavere la fattoria paterna sequestrata nei pressi
di Mantova si ritrova a vergare l’Eneide. Poi seguono Ovidio,
Orazio, Tito Livio cantori posticci di una Roma agreste e
virtuosa esistente soltanto nell’immaginazione di Ottaviano
e nei versi, nelle storie degli autori. Augusto spera di fare un
uso politico di queste elegie e di queste odi, ma ormai i suoi
concittadini hanno contratto una mentalità imperiale, quelle
virtù le aborriscono, desiderano vivere ancora più
comodamente e lavorare ancora di meno. Anche la religione
non funge più da freno inibitore. A cominciare da Giove gli
dei sono compagni di bisboccia e di avventure. I romani
dell’epoca sono quelli descritti senza veli da Orazio nelle
Satire, che difatti rappresentano l’opera migliore dell’età
augustea. Ottaviano Augusto muore nel 14 d.C., cinque anni
dopo che Roma ha conosciuto una terrificante sconfitta:
l’annientamento delle tre legioni di Varo nella foresta di
Teutoburgo. Stavolta non ci sono rivincite, non ci sono
esemplari punizioni, bensì l’arretramento del confine
dall’Elba al Reno e l’oscuro presagio che sotto quei tetri
boschi si annidi un pericolo ineliminabile. La successione
tocca all’unico parente disponibile, Tiberio, il figlio di Livia.
Ha cinquantacinque anni e scarsa voglia di fare
l’imperatore. Prima di esser richiamato a Roma da
Ottaviano, si era ritirato a Rodi. Tiberio è stato un grande
generale, un bravo governatore, un politico onesto, ma ha la
stoffa del secondo pur essendo il primogenito. L’eredità di
Ottaviano era destinata a suo fratello minore, Druso: Tiberio
lo amava al punto da essersi fatto quattrocento miglia a
cavallo quando aveva saputo che Druso era stato
mortalmente ferito in Germania. Tiberio giunge al potere
provato perfino negli affetti domestici: per accontentare
Ottaviano, e soprattutto le ambizioni di sua madre Livia, ha
dovuto sacrificare la tranquilla e appagante unione con
Vespania per prendere in moglie la straripante Giulia.
L’Impero mostra le prime crepe. Roma è una città priva di
morale, culla di parecchi vizi. Tiberio governa bene, migliora
l’amministrazione, affronta una grave crisi finanziaria.
Augusto, infatti, gli ha lasciato una forte inflazione con
prezzi alle stelle. Egli tenta di stopparli limitando la
circolazione di danaro liquido. Ne deriva una grave crisi con
molte banche costrette a chiudere e piccoli risparmiatori
ridotti sul lastrico. Anche se allora nessuno parlava di
finanza globale, il fallimento delle banche romane contagia
le banche di Alessandria, di Lione, di Treviri, di Bisanzio.
Assieme ai prezzi crollano molte imprese. Per venirne a
capo, Tiberio fa stampare dal Tesoro una grande quantità di
carta moneta: l’ordine è di prestarla per tre anni senza
interesse. L’imperatore coglie un bel successo di popolarità,
ma ha il torto di trasferirsi a Capri, di lasciare mano libera a
Seiano, il capo dei pretoriani, una sorta di polizia segreta
costituita da Ottaviano e che tante responsabilità avrà nella
futura decadenza. Un vortice di congiure, di morti sospette,
di esecuzioni avvelena gli ultimi anni.
In un simile clima a chi può interessare che nella lontana
Giudea, o Palestina, il procuratore romano Ponzio Pilato
abbia acconsentito alla crocefissione di un presunto
estremista inviso alle locali classi dominanti? Conquistata da
Pompeo e bastonata da Augusto, la Palestina è stata ridotta
a provincia di seconda classe, dipendente dalla Siria, a
causa dei tanti grattacapi procurati nell’ultimo secolo.
L’abitano i nipotini dei fenici, un po’ di greci insediatisi nei
secoli, qualche siriano e i discendenti di tal Eber, per
l’appunto gli ebrei, domiciliati nelle campagne più che nelle
città. Ma la città dove forse se la sono passata meglio è
stata la Roma di Cesare, che li ha protetti e del quale sono
diventati i massimi sostenitori. In quei secoli popolati da
mille divinità, gli ebrei hanno mantenuto la caratteristica di
credere in un unico Dio, il cui nome – Jeovah – non osano
neppure pronunciare. Sono sicuri che un giorno apparirà
sulla terra per salvare il popolo eletto, cioè loro, dalle forze
del Male, in quel momento Roma. E secondo uno dei profeti
più ascoltati, Isaia, questo salvatore che chiamano Messia
(‘unto dal Signore’) sarà un Figlio di Uomo. È ciò che negli
ultimi anni della sua esistenza ha sostenuto di essere Gesù
di Nazareth, figlio di Giuseppe, falegname, e di Maria,
casalinga.
Venerato da dodici apostoli (coloro che sono inviati) e da
settantadue discepoli, Gesù aveva percorso la Palestina in
lungo e in largo. Le sue ispirate parole, gli eventi prodigiosi
(in latino, miracula), che promanavano dalla sua persona,
l’assoluto disinteresse per tutto quanto non riguardasse il
Padre che sta in Cielo ne avevano fatto un caso nazionale. Il
giorno in cui gli abitanti di Gerusalemme, la capitale dello
Stato, lo avevano acclamato come il Salvatore, i
settantadue componenti del Consiglio degli anziani (il
Sinedrio) lo additarono quale pericoloso sovversivo, che
mirava alla sollevazione contro Roma. Il tradimento
dell’apostolo Giuda rese possibile il suo arresto. Pilato
avrebbe fatto a meno di confermare la condanna a morte,
se Gesù avesse ritrattato qualcuna delle sue affermazioni.
Ma egli le confermò una a una, cominciando da quella
politicamente più pericolosa, di essere il re dei giudei. Tre
giorni dopo il seppellimento, il cadavere non era più nella
tomba e lui prese ad apparire in carne e ossa ai discepoli.
Quaranta giorni dopo la sua morte, ascese al Cielo, secondo
la più ortodossa tradizione, mentre apostoli e discepoli
andavano per il mondo a diffondere la lieta novella della sua
resurrezione e di un suo ritorno. La Storia non sarebbe più
stata eguale a prima, sarebbe cambiato pure il modo di
contare gli anni: non più ab urbe condita, ma dalla nascita
del Cristo, che diventa l’anno uno (quando si diffonderà
quest’uso, lo zero non sarà stato ancora inventato), lo
spartiacque tra il prima e il dopo.
La moria di parenti verificatasi attorno a Tiberio fa sì che
alla sua scomparsa – lo soffocano alcuni cortigiani nel 37
d.C. – venga designato un lontanissimo congiunto, il cui
merito principale è di esser vivo, sebbene con qualche
rotella fuori posto. Si chiama Gaio, ma per via della
calzatura militare i soldati l’hanno soprannominato Caligola
(stivalino). Ha vissuto in Germania conquistando la stima e
l’ammirazione delle truppe. Il trasferimento a Roma coincide
con la sua follia. Sono quattro anni di regno in cui la Capitale
sprofonda ancor più nella paranoia e nell’amoralità. Caligola
impone ai senatori di baciargli i piedi; fa nominare console il
cavallo preferito, Incitato; pretende, secondo la moda
egiziana, di sposare le proprie sorelle. Il tutto con il solito
contorno di tradimenti, di delitti. Di uno di essi rimane
vittima lo stesso Caligola: viene tolto di mezzo dal capo dei
pretoriani, Cassio Cherea. E visto che il popolo lo ritiene un
ennesimo trucco dell’imperatore per spiare chi
eventualmente gioisce della sua scomparsa, Cherea fa fuori
anche l’imperatrice e la figlioletta.

Pilato avrebbe fatto a meno di confermare la condanna a morte, se


Gesù avesse ritrattato qualcuna delle sue affermazioni. Ma egli le
confermò una a una cominciando da quella politicamente più
pericolosa, di essere il re dei giudei.
I pretoriani sono entrati di prepotenza negli affari di
Roma e tendono ad accrescere la propria influenza.
Scelgono, dunque, il successore di Caligola orientandosi
verso un suo anziano zio, Claudio, di cui si dice che soltanto
l’imbecillità l’abbia mantenuto in vita. Se è vero, bisogna
ammettere che per una volta l’Impero serve da straordinario
tonificante; se è falso, tanto di cappello a questo consumato
attore, capace di recitare per decenni una parte che gli vale
il trono. A cinquantacinque anni, sciancato e balbuziente,
Claudio si mette a regnare davvero e lo fa con perspicacia.
Punisce gli assassini del nipote, per chiarire che non si
accoppa impunemente un imperatore; rinvigorisce il Senato
con i provinciali; chiama i cavalieri e i liberti alle più alte
cariche burocratiche; impiega trentamila operai e undici
anni per il prosciugamento del lago Fucino. Fa scavare un
canale dove far defluire le acque, e quando tutto è pronto
regala ai romani una straordinaria battaglia navale dal vero.
La combattono ventimila condannati a morte, i quali, prima
di scannarsi, lanciano il famoso saluto: « Ave Cesare! I
morituri ti salutano ». Una strage senza giustificazione, della
quale nessuno si cura. Il simbolo di un’epoca totalmente
dedita alla soddisfazione dei propri bisogni materiali, che più
vengono esauditi più aumentano. Si crea l’illusione di un
benessere infinito grazie ai più moderni ritrovati: la
rotazione delle colture e l’uso dello sterco di vacca come
concime – fin lì erano stati impiegati sangue e farina di ossa
– garantiscono un cospicuo incremento dei raccolti.
Una sola abitudine Claudio mantiene del periodo in cui
era considerato uno stralunato: quella di collezionare
conquiste femminili. Gli è fatale il passaggio dalla quarta
moglie, Messalina, additata nei secoli quale esempio di
scostumatezza, alla quinta, Agrippina. Ha fama di donna
seria, ma ha già un figlio, Nerone, e lei lo vuole a capo
dell’Impero sicura di rimanere sempre a capo di lui. Così
l’astuto Claudio, sopravvissuto a Caligola, ai pretoriani, alla
conquista della Britannia, è destinato a soccombere tra le
mura familiari. Essendosi stufato degli intrighi di Agrippina e
del suo protetto Burro, capo dei pretoriani, decide di
eliminarli, ma viene preceduto dalla moglie, che gli
somministra un piatto di funghi avvelenati (54).
La via per Nerone è spalancata. Egli all’inizio lascia fare
alla madre, a Burro e a Seneca, un miliardario spagnolo con
l’hobby della filosofia, arruolato quale suo precettore.
Seneca è un cultore dello stoicismo, cioè di una serena
accettazione del bello e in special modo del brutto che la
vita riserva. La sua esistenza, tuttavia, non è stata
propriamente quella di uno stoico: si è arrangiato sotto
Caligola e sotto Claudio, si è vieppiù arricchito praticando
l’usura. I suggerimenti che propina a Nerone consentono al
nuovo imperatore di strappare un generale consenso.
Purtroppo, la sfrenata ambizione di Agrippina induce gli altri
due compari a rompere il sodalizio. Chiamato in causa per
distribuire torti e ragioni, Nerone ne approfitta per fare di
testa sua. Comincia cambiando moglie: sostituisce la
giudiziosa Ottavia con l’appariscente Poppea, un’altra che
ritiene di poter guidare l’Impero guidando Nerone. È
talmente bella che all’inizio vi riesce: Nerone la segue come
un cucciolone. La prima a farne le spese è Agrippina: evita
un tentativo di avvelenamento, ma nulla può di fronte ai
pretoriani inviatile dal figlio. Il secondo è Seneca, ma se la
cava autoesiliandosi nella villa in Campania. Essendo
deceduto anche Burro, Nerone è libero da ogni controllo:
esibisce il peggio di sé e della famiglia, la Claudia,
evidentemente preda di qualche tara ereditaria. Si crede un
artista di vaglia, uno sportivo imbattibile, si fa consacrare
dio e medita che nella sua nuova veste avrebbe bisogno di
un tempio tutto suo, meglio ancora se fosse d’oro. Ma dove
trovare lo spazio edificabile in una Roma già allora
brulicante di palazzi?
Di conseguenza l’incendio che nel 64 d.C. devasta la città
è attribuito dal popolo a Nerone, alla sua fissazione di rifare
da cima a fondo l’impianto urbanistico. Sia o non sia
l’autore, egli coglie al volo l’occasione di rimodellare l’Urbe.
Capisce, però, che deve placare la pubblica opinione
additando i presunti responsabili della catastrofe. Punta
l’indice contro la sparuta setta dei cristiani. Sono tutti ebrei
di prima o seconda generazione e sono molto divisi
sull’apertura della loro fede ai gentili (i non ebrei). In
assenza dei Vangeli, non ancora scritti, credono alla
predicazione degli apostoli e dei discepoli: il caso vuole che
in quel periodo siano a Roma l’erede di Gesù, Pietro, e il suo
più importante propagandista e ideologo, Paolo. I cristiani si
rifiutano di riconoscere e di adorare altri all’infuori di Gesù,
meno che mai l’imperatore. Ma di questo a Nerone è
importato ben poco finché non ha necessitato di un capro
espiatorio. Per i cristiani è il martirio, ma anche l’inizio di un
diffuso consenso. Fino a quel momento il cristianesimo non
aveva fatto presa, anche per propria scelta, sui gaudenti e
amorali abitanti della Capitale, tesi soltanto a esaudire ogni
pulsione, a sgusciare tra i capricci e i trabocchetti del
potente di turno. Quando, invece, i romani vedono quei loro
simili, magari il vicino di casa o di bottega, affrontare con
serenità la crocifissione, il rogo (vengono usati come torce
viventi per illuminare i giardini imperiali), i leoni del circo, il
sadismo di torture che si concludono con la morte, il loro
sarcastico cinismo s’incrina, avvertono un senso
d’inquietudine. Cui presto subentra il rispetto per le vittime
e ancor più per il Gesù che hanno in bocca al momento del
trapasso. La leggenda vuole che lo stesso giorno in cui
Pietro viene crocifisso (a testa in giù perché non si sente
degno di morire nella stessa posizione di Cristo), Paolo
venga decapitato. La differenza del trattamento sta nella
cittadinanza romana che Paolo ha eredita to dal padre, un
borghese ebreo di Tarso. E nei luoghi dove i due campioni
della fede cadono saranno erette la Basilica di San Pietro,
centro mondiale della cattolicità, e la Basilica di San Paolo
fuori le Mura. Che probabilmente Paolo sia morto anni dopo
in Spagna è stato sempre ritenuto un dettaglio ininfluente...
La leggenda vuole che lo stesso giorno in cui Pietro viene crocifisso (a
testa in giù perch´e non si sente degno di morire nella stessa posizione
di Cristo), Paolo venga decapitato.
La strage dei cristiani è l’anticipazione di un altro
massacro, stavolta diretto contro presunti cospiratori. Tra le
tante vittime c’è pure Seneca, che anticipa verdetto ed
esecutori dandosi la morte, da perfetto stoico. A Roma la
vita di chiunque è appesa a un filo. Da più parti si aspetta
l’occasione per liberarsi di questo folle sanguinario, che va
dietro soltanto ai propri capricci. L’insurrezione della Gallia,
cui presto si unisce la Spagna, dà il destro al Senato di
nominare imperatore il proconsole iberico Galba. Grazie
all’ottima rete stradale il messaggero lo raggiunge in
trentasei ore pur dovendo percorrere cinquecento
chilometri. Nerone prova a scappare, si rifugia nella villa di
un amico: qui non gli riesce di ammazzarsi finché non lo
aiuta un segretario. Galba concede alla nutrice e alla prima
amante di seppellirlo. Da quel dì, a dispetto della
cancellazione pubblica della sua memoria, viene tagliata la
testa a ogni statua e dipinto che lo raffigura, e a dispetto di
quanto sta scritto nei libri, i romani ne parlano con simpatia.
Nerone chiude il breve periodo della famiglia Claudia,
capace in poco più di mezzo secolo di far definire l’epoca di
Ottaviano un’età dell’oro e di mutare la natura stessa
dell’Impero. Nella nomina del monarca i soldati acquisiscono
un’importanza crescente nei confronti del Senato.
L’accentramento dei poteri nelle mani dell’imperatore
favorisce la formazione di una poderosa burocrazia e di
funzionari parecchio influenti. Provengono dalla classe dei
cavalieri, ai quali sono riservati i gradi più alti nelle quattro
principali prefetture (Pretorio, Egitto, Annona e Flotta). Le
province orientali si distaccano da quelle occidentali, sotto
l’influsso persiano vedono nell’imperatore un dio da
venerare più che un capo di Stato. L’esercito diventa
stanziale sia quando le legioni sono composte da soldati del
luogo, il che favorisce il decentramento da Roma, sia
quando il presidio è affidato a reparti di opposta estrazione
geografica. Vicino Vienna si accampano truppe egiziane,
viene costruito un santuario della dea Iside e l’odierna città
di Ybbs ne tramanda il ricordo. Nelle metropoli delle
province, da Colonia a Treviri, da Ratisbona a Salisburgo, da
Arles a Bath, la presenza costante di truppe sviluppa un
tenore di vita che ha poco da invidiare a quello di Roma. Gli
ufficiali, i funzionari, inviati dalla Capitale o che sono stati
nella Capitale, pretendono gl’identici conforti, gl’identici
privilegi. Questo significa costruzione di terme, di teatri, di
ville, di strade imponenti. Sulla sicurezza dei confini
continua a pesare l’incognita dei popoli al di là del Reno e
del Danubio: sono ciò che erano i romani al tempo dei sette
re. Conducono esistenze stentate tra fatiche e sacrifici. Non
avendo nulla da perdere, nulla temono.
Galba dura tre mesi. I suoi propositi di risanamento non
piacciono ai pretoriani. Lo fanno letteralmente a pezzi nel
foro tra il disinteresse dei passanti. Il suo posto vien preso
da Otone: essendo un banchiere fallito garantisce di non
nutrire alcuna voglia di moralizzare un ambiente, che non
conosce vergogna. Contro Otone prendono le armi Vitellio
con l’armata di stanza in Germania e Vespasiano con quella
di stanza in Egitto. Per motivi di distanza giunge prima sul
trono Vitellio, che lo trova vuoto essendosi Otone tolta la
vita. Anche il suo successo ha il respiro corto. A Cremona è
battuto da Vespasiano. L’Urbe assiste impassibile alla
consueta caccia all’uomo, che si conclude con il ludibrio di
Vitellio trascinato nudo in strada e ucciso al termine di
efferate torture. Il mare di sangue versato in un solo anno fa
sì che l’ascesa di Vespasiano nel 69 sia accolta con un
generale sospiro di sollievo. Da lui s’inizia la dinastia Flavia.
8. L’adozione dei migliori

Tito Flavio Vespasiano proviene da una famiglia equestre


della Sabina. È nato a Rieti, ma la sua vera casa è stata la
caserma. Nell’esercito ha svolto una brillante carriera fino a
esser promosso comandante di quello dislocato in Africa.
Quando sale sul trono ha sessant’anni e poca fiducia nel
genere umano. Più che a cambiarlo, pensa a limitarne i
danni. Riordina la struttura militare scegliendo ufficiali di
estrazione provinciale, riassesta le finanze mettendo in
vendita le cariche più importanti. È il suo personalissimo
modo di sfruttare a fini istituzionali la corruzione, giudicata
irrefrenabile. Usa l’identico sistema per la riscossione delle
imposte. L’affida a esattori di pessima fama, che spremono
ogni popolo dell’Impero, ma una volta rientrati alla base è
lui a confiscare i loro beni. Pareggia in tal modo il bilancio e
riesce persino a risarcire le vittime. Per aumentare le
entrate fa costruire in ogni città i gabinetti pubblici, che
hanno preso il suo nome e la cui usanza si è tramandata
fino a pochi decenni orsono. Impone una tassa a chi se ne
serve e una ancora più alta a chi non se ne serve preferendo
muri e marciapiedi. Alla fine vende l’urina ai proprietari di
lavanderie, che ne hanno bisogno per procacciarsi
l’ammoniaca. È evidente che un uomo così pratico e
disincantato abbia un approccio difficile con quanti usano la
penna e le parole. Sotto di lui filosofi, astrologi se la passano
male, vengono addirittura banditi. Eppure, secondo uno di
quei felici paradossi della Storia, è Vespasiano il primo a
istituire scuole pubbliche e a far sì che l’istruzione non resti
un monopolio delle classi abbienti, in grado di sborsare i
quindici-venti milioni attuali di costo per l’intero corso
scolastico. È una mezza rivoluzione perché spodesta del
ruolo di protagonisti gl’insegnanti di estrazione greca
dominatori delle aule e delle materie attraverso i magistri
alle elementari, i grammatici al liceo, i retori all’università.
Ignoriamo se l’intento di Vespasiano fosse di togliere il
monopolio a docenti espressione di una cultura, ai suoi
occhi, troppo astratta; in ogni caso la sua è una sterzata
verso la riforma romano-latina dell’insegnamento.
Vespasiano ha due figli, Tito e Domiziano. Nutre un
debole per il primo, diversissimo da lui, sopporta il secondo
che gli somiglia in tanti aspetti del carattere. Tito è un
puritano, un convinto assertore dello Stato ideale. Tuttavia,
quando viene inviato in Palestina a sedare l’ennesima rivolta
dei giudei, i suoi metodi hanno poco da invidiare a quelli dei
più spietati massacratori. Per abbattere la resistenza di
Gerusalemme la dà alle fiamme: viene distrutto anche il
Tempio. Il conto delle vittime oscilla sul milione, una cifra
enorme per i tempi. I pochi sopravvissuti scappano per il
mondo. Comincia la diaspora (il termine è greco, significa
dispersione), che si concluderà dopo quasi millenovecento
anni.
Tito viene ricompensato con il trionfo. L’inorgoglito
genitore lo fa addirittura sfilare sotto l’arco costruito
appositamente in suo onore. Alla morte per una violenta
colica renale del settantenne imperatore (79) è l’erede
designato. Ma non gliene va bene una. Ha appena ricevuto il
titolo che un’eruzione del Vesuvio seppellisce Pompei ed
Ercolano. Le due cittadine sono ricoperte da un manto di
lava, dal quale riemergeranno nel diciottesimo secolo,
stupende ambasciatrici di quel tempo. I morti per fortuna
non sono tantissimi, circa duemila. Tra essi una delle
personalità più interessanti del tempo, Plinio il Vecchio,
militare, filosofo, erudito. Comandava la base navale di
Miseno, nel golfo di Napoli, era accorso per portare aiuto
alle popolazioni e per studiare da vicino quel fenomeno
senza precedenti. L’eruzione ha un effetto raggelante sulla
Capitale: la Campania, con Napoli, Pozzuoli, Cuma, Sorrento,
Capri, è il luogo di villeggiatura preferito dai romani; vi
hanno costruito fior di ville, di terme con piscine, vi
trascorrono lunghi periodi di vacanza. Ma i guai non sono
finiti. All’eruzione segue un devastante incendio di Roma e
per finire un’epidemia fa strage in ogni regione della
Penisola. Tito va tra i malati, ne resta contagiato. La sua
prematura scomparsa è pianta da tutti. I romani non hanno
nostalgia dell’uomo di Stato, bensì del munifico
organizzatore di passatempi. È ancora vivo il ricordo
dell’inaugurazione del Colosseo con il prodigio della pista
che s’abbassava ricoperta dalle acque e si rialzava ricoperta
dalla sabbia del deserto. Erano sfilati circa diecimila animali
esotici, molti dei quali sconosciuti al pubblico: pantere,
coccodrilli, ippopotami, giraffe. Le bestie avevano poi lottato
fra di loro e la metà era stata sopraffatta e mangiata. Era
stata allestita perfino una corrida, importata da Cesare, che
l’aveva scoperta a Creta. I tori non avevano bisogno
d’imparare, ma i toreri sì: per evitare recriminazioni, li
avevano scelti fra i condannati a morte.
L’eruzione del Vesuvio.

Pur fra tante disgrazie sono lacrime vere quelle che


accompagnano la dipartita di Tito. L’unico ad astenersene è
suo fratello Domiziano, da due anni teso a scalzarlo. Gli inizi,
nell’81, sono incoraggianti, sebbene la sua principale
ossessione, controllare i costumi dei sudditi, appaia agli
stessi un’indebita intrusione nella privacy. Il neoimperatore
vorrebbe dedicarsi alle opere d’ingegneria, delle quali è un
esperto, ma le ricorrenti incursioni dei daci oltre il Danubio
lo costringono a una spedizione militare. Mentre è sul punto
di domarli, l’inattesa ribellione di Antonino Saturnino,
governatore di Germania, lo obbliga a siglare una pace per
dedicarsi agli affari interni. L’aver scoperto che il pericolo si
annida anche all’interno cambia Domiziano. Vede insidie e
congiure dietro ogni angolo, si mette a tagliar teste,
soprattutto dei cristiani, riprende la persecuzione dei filosofi.
Instaura un tale regime del terrore da indurre i funzionari di
palazzo a tendergli un agguato in combutta con la moglie
Domizia. Lo assalgono di notte, lo fanno fuori al termine di
una mischia selvaggia. Con lui finisce la breve era dei Flavi.
Uno storico come Tacito e un memorialista come Plinio il
Giovane ne dicono peste e corna con particolare riferimento
a Domiziano, che viene invece lodato da Marziale, il poeta
dai versi mordaci e graffianti.
Da quanto avviene al vertice si potrebbe pensare che
questo primo secolo sia una sciagura per Roma. A parte le
devastazioni naturali, tipo incendi ed epidemie, è viceversa
uno dei suoi periodi migliori. Mai la qualità della vita è stata
così elevata. Naturalmente chi dispone dei quattrini se la
passa meglio di chi deve industriarsi ogni mattina di trovarli.
Nell’Urbe di lavori regolari se ne svolgono pochi, la tendenza
generale è quella di arrangiarsi a ogni livello. I romani
sfruttano già la presenza dei ministeri, degli enti, degli
organismi, da cui dipendono le province dell’Impero.
Immaginate che per le signore dell’alta borghesia
l’occupazione del mattino consiste nel trucco e quella della
sera nell’aprire i salotti ai beniamini del momento. Gli
uomini non sono da meno, la cura del corpo li assorbe
completamente: palestra, tre tipi diversi di piscina riscaldata
con la novità del sapone, da poco importato dalla Gallia
insieme alle pellicce, e per riattivare la circolazione una
nuotata nell’acqua ghiacciata. A quel punto si è pronti per la
vita di società. I costumi sono liberi, gli obblighi coniugali
inesistenti da ambo i lati. Le case trasudano ricchezza, le
tavole sono imbandite d’ogni bendidio: le immagini
dell’epoca ci mostrano romani e romane in abbondante
sovrappeso. Non esistono preoccupazioni morali, la religione
langue. Giove e gli altri dei dell’Olimpo hanno fatto il loro
tempo, ciascuno ritiene di aver diritto a una fettina di felicità
terrena, non avendo alcuna illusione o pretesa sull’aldilà.
Di conseguenza perché non avere imperatori all’altezza?
Dietro questo legittimo rovello, si nasconde il desiderio di
abolire il principio ereditario. Con qualche eccezione, i
rappresentanti delle dinastie Claudia e Flavia avevano per lo
più stufato. L’opportunità del cambiamento la offre
l’eliminazione di Domiziano, che non ha figli. Il Senato
riafferma le proprie prerogative scegliendo Marco Cocceio
Nerva, un settantenne giurista malandato in salute. Forse
viene nominato per questo, ma Nerva mostra che a volte il
ruolo fa miracoli. Si oppone con grande dignità all’ultimatum
dei pretoriani, indispettiti dall’esser stati esautorati; ha la
mano felice nell’adottare quale successore Traiano. È un
generale quarantenne nato a Italica in Spagna da una
famiglia romana di funzionari statali. Incarna il civis vecchio
stile, capace di essere un avveduto politico e uno
sperimentato soldato. Trascorrono due anni prima che
Traiano lasci le incombenze militari in Germania e si presenti
nell’Urbe per ricevere la corona. Qui lo aspetta un accorto
discorso d’investitura con cui Plinio il Giovane gli ricorda il
suo debito nei confronti del Senato. Traiano lo riconosce, da
quell’istante non assumerà una decisione senza aver prima
consultato, con loro immenso stupore, i senatori. E la prima
decisione è d’ingaggiare Plinio il Giovane quale
ambasciatore di fiducia.
Il saggio governante cede il passo al soldato dinanzi alle
rinnovate minacce dei daci (i rumeni) sulla Germania. In due
campagne Traiano s’impone. Il re Decebalo è
definitivamente debellato con una manovra aggirante resa
possibile dalla costruzione in pochi giorni di un ponte sul
Danubio, opera di un geniale ingegnere greco di nascita e
siriano di studi, Apollodoro. Con la vittoria Traiano
s’impossessa delle miniere d’oro in Transilvania. Ha quindi i
fondi necessari per regalare quattro mesi di giochi al Circo,
con le corse dei cavalli, al galoppo e al trotto, che tanto
appassionano i romani capaci di scommetterci anche la
camicia che non posseggono. Una volta saziate le voglie dei
concittadini, Traiano si dedica alle imponenti opere
pubbliche. Il nuovo porto di Ostia, altre quattro grandi
strade, che si aggiungono alle trecento già esistenti nella
Penisola e tutte pavimentate (l’Impero ne ha per centomila
chilometri), l’anfiteatro di Verona, infine quel capolavoro di
forza e di equilibrio che è il Foro.
Traiano coglie il cambiamento in atto nell’economia,
sempre di tipo rurale, ma molto più articolata rispetto al
passato. Tramonta la monocoltura a favore di una rotazione
delle sementi. I contadini sanno come selezionarle e quale
sia l’alternanza più proficua. Non è più un affare, invece,
l’allevamento del bestiame, nonostante sia invalso l’uso da
parte delle signore della buona società di possedere
mandrie di mucche dalle quali rifornirsi per il quotidiano
bagno nel latte. È la moda instaurata da Poppea: secondo
Plinio il Giovane induce le più capricciose a viaggiare con le
vacche al seguito. Si registra un massiccio ritorno
all’agricoltura nel senso più ampio: i campi da seminare; le
stalle dove allevare gli animali prima di macellarli e
insaccarli; la fornace per cuocere i mattoni; la conceria per
trattare le pelli di mucche, di capre, di pecore, di vitelli, di
agnelli; un angolo in cui confezionare le scarpe; una piccola
filanda per tessere la lana con cui, poi, cucire i vestiti. Nello
sviluppo delle attività collaterali, gli astuti contadini hanno
un occhio di riguardo per tutto ciò che può finire nei
banchetti, divenuti il vero luogo di culto della civiltà
contemporanea. Spuntano così gli allevamenti di aragoste
rosse, di oche ingrassate con i fichi per produrre il paté de
fois gras.
Per quanto artigianale, questa prima forma di
sfruttamento industriale ha bisogno di capitali. Traiano
istituzionalizza i prestiti ai municipi ed essi se ne servono
per concedere mutui ai piccoli proprietari impegnati a
espandere le proprie aziende. Il governo centrale lascia
gl’interessi dei mutui ai municipi a patto che vengano
impiegati per allevare i bambini orfani. Il Senato gli concede
l’inusitata qualifica di Optimus, ma a Traiano prudono le
mani. L’uzzolo del guerriero ha la meglio su quello del
politico. Dopo aver consolidato le fondamenta dell’Impero,
perché non provare ad accrescerlo? Il sogno è quello di
raggiungere l’oceano Indiano. Ci riesce attraversando una
bella fetta di Asia. S’inoltra a fatica in terre spesso
sconosciute non sapendo che basterebbe appendere un
pezzo di metallo magnetico a un filo per ottenere
l’indicazione del Nord, come hanno da poco scoperto in
Cina. Le insegne romane vengono conficcate in Arabia, in
Mesopotamia, in Assiria, in Armenia. Traiano vorrebbe
puntare verso l’India, l’Estremo Oriente, fa costruire la flotta
del mar Rosso, ma gli anni incalzano (ha superato i
sessanta) e i popoli da poco assoggettati rialzano già la
testa. L’ambizioso progetto viene rinviato. L’Europa e il resto
del mondo, che vi orbita intorno, perdono l’opportunità di
entrare in contatto con quello stupendo laboratorio d’idee e
d’invenzioni, che è la Cina. Abbiamo detto della prima
rudimentale bussola, ma ci sarebbe addirittura la carta. Tsai
Lun vi è arrivato utilizzando materie prime poco costose
come il legno e gli stracci. Questo appuntamento mancato
farà sì che la carta giunga in Europa soltanto nel 1320. Alla
morte di Traiano (117) Roma ha raggiunto l’apogeo. Ora può
solo regredire. La designazione dell’erede è agevolata
dall’accoglienza che il defunto ha dato in casa a un giovane
conterraneo, Adriano, originario anch’esso d’Italica. I
genitori l’hanno chiamato così per ricordare il luogo
d’origine della famiglia, Adria. Amico del padre e suo tutore,
Traiano se l’era fatto anche parente concedendogli in sposa
una nipote. E il ragazzo, brillante, estroverso, dai mille
interessi, aveva in breve conquistato anche l’imperatrice,
Plotina. Alla morte del marito è lei la più autorevole sponsor
di questo quarantenne attratto dal canto, dalla pittura, dalla
musica, dalla medicina, dall’arte, dall’ingegneria, ma come
intervallo dell’unica vera passione che lo infiamma, la cura
dello Stato. Gli storici riconosceranno in lui il migliore degli
imperatori; i letterati, anche in tempi recenti, ne faranno
oggetto delle loro opere. Se lo merita. Adriano è un
esemplare unico nella storia dell’antichità. Non ama le
guerre, esercita il potere con tatto, sa essere carogna
quando serve, non assilla i sudditi, ha il gusto dell’ironia. È
curioso, gli piace viaggiare. Utilizza i ventun anni di regno
per percorrerlo da cima a fondo con assenze lunghissime
dall’Italia. Si garantisce la continuità del governo istituendo i
quadrumviri consolari con il compito di guidare la Penisola in
sua vece. In tal modo l’Italia viene sottratta al Senato e
quasi parificata a una provincia, tuttavia nessuno se ne
lamenta. In Adriano è riposta la fiducia generale. Egli la
ricompensa controllando di persona l’amministrazione di
ogni regione; quando capita, però, indossa l’armatura per
spegnere i focolai d’insurrezione. Sua la decisione di
ispessire il limes (la fortificazione della frontiera) avviato da
Augusto e di costruire in Inghilterra un vallo per proteggere i
domini romani dalle incursioni scozzesi. Negli intendimen ti
di Adriano il vallo e il limes dovrebbero garantire la
sicurezza a un esercito in sosta nell’attesa di riprendere la
marcia. Ma l’esercito non ha più voglia di marciare. Il
vecchio fortino augusteo piano piano si è trasformato in
cittadella e questa, a sua volta, in villaggio.
Alla morte di Traiano (117) Roma ha raggiunto l’apogeo.

Nei brevi soggiorni romani Adriano fa costruire la villa di


Tivoli, ancora oggi fonte di meraviglia, riedifica il Pantheon,
innalzato da Agrippa, preferendo lo stile greco a quello
romano. La grandiosità del monumento continua a essere
sotto gli sguardi di ogni visitatore, benché papa Urbano VIII
ne abbia smantellato alcune parti. Adriano si mostra
all’altezza della sua fama fino in fondo. Allorché cade nelle
grinfie della depressione, anticipo di una malattia incurabile,
predispone i lavori del suo mausoleo, Castel Sant’Angelo, e
adotta Lucio Vero per indottrinarlo sui compiti che
l’attendono. L’improvviso decesso di Lucio Vero lo obbliga a
individuare un altro successore. È ancora più illuminato
perché la preferenza cade su un ricchissimo avvocato di
oltre cinquant’anni, Tito Elio Antonino. Gli viene assegnato il
titolo di Cesare: da quel momento servirà a indicare l’erede
al trono.
La villa di Tivoli oggi.

A differenza dei predecessori, Antonino, cui in postuma


riconoscenza sarà aggiunto l’appellativo di Pio, crede negli
dei: nel compito affidatogli scorge quasi un’investitura
divina. Dal giorno dell’incoronazione (138) prova a essere
degno di quanto ricevuto. L’esordio sbalordisce i sudditi.
Antonino è stramiliardario di famiglia, con vaste proprietà in
Etruria e in Umbria. Versa tutte le sue sostanze nelle casse
del Tesoro, che mai più sarà tanto rigurgitante di danaro. Pur
prolungando l’opera di Traiano, abolisce i quadrumviri e
restituisce il governo dell’Italia al Senato. Verso di esso
mostra la massima deferenza. Ne conquista il consenso per
varare alcune leggi sul momento rivoluzionarie: la parità dei
diritti e dei doveri tra i coniugi, la quasi abolizione della
tortura, la condanna per l’uccisione degli schiavi. Ammesso
che possa esistere un’età dell’oro, i ventitré anni del regno
di Antonino sono quelli che più le si sono avvicinati. La sua
fama di buon papà valica i confini, si parla di ambasciatori di
lontani paesi venuti a Roma per chiedere l’annessione
all’Impero. Gli unici che non apprezzano, che anzi
vorrebbero staccarsene, sono i germani in perenne
subbuglio. Pur di non aver problemi, Antonino largheggia
nelle concessioni.
È lo stesso comportamento che tiene in famiglia di fronte
ai disinvolti comportamenti della moglie Faustina.
Anche il congedo è fuori dalla norma. Antonino convoca
suo genero Marc’Aurelio – che ha sposato una delle due
figlie, quella, purtroppo per lui, che dalla mamma non ha
preso soltanto il nome – e gli consegna il trono assieme alla
statua d’oro della fortuna. Il principio dell’adozione ha fatto
di nuovo centro, stavolta però la probità di Antonino ha
avuto un peso ridotto. Il successore gli era stato indicato da
Adriano. Pure Marc’Aurelio proviene dalla Spagna. I suoi
antenati si sono conquistati per l’onestà il soprannome di
Veri. Rimasto orfano in giovane età, è stato allevato dal
nonno, il quale, nel timore di fargli mancare qualche basilare
insegnamento, gli ha affibbiato diciassette precettori.
Cresciuto in mezzo alla migliore cultura dell’epoca,
Marc’Aurelio avrebbe voluto dedicarsi alla filosofia e alla
corrente più rigorosa di tutte, lo stoicismo. Finché non ha
avuto un ruolo pubblico, ne ha seguito scrupolosamente le
indicazioni: dormiva sul pavimento, si atteneva a una dieta
di puro sostentamento, non ha toccato una donna fino alla
maggiore età. La sua ascesa al vertice è salutata con
tripudio dagli intellettuali, sicuri che stia per avverarsi
l’antico sogno di Platone della città ideale. Marc’Aurelio si
ricorda di Lucio Vero (figlio del mancato successore di
Adriano): era stato adottato assieme a lui da Antonino e poi
messo in disparte per la sua vita spericolata. Lo associa
nella gestione del potere, gli dà in sposa la figlia Lucilla.
Tanta generosità non è ricompensata. Inviato con un
esercito in Oriente per rintuzzare le punzecchiature dei
persiani, Lucio perde la testa per una bellona locale e si
ferma ad Antiochia. L’imperatore deve fare appello a tutta la
sua visione stoica della vita per far finta di nulla e inviare un
dettagliato piano militare con il quale i generali di Lucio,
sempre più perso nei palazzi di Antiochia, mettono a posto i
persiani. Contemporaneamente Marc’Aurelio deve occuparsi
dei britanni e dei germani, tornati a farsi minacciosi sui
confini. Benché le sue inclinazioni siano di tutt’altro genere,
come traspare dai Ricordi che ci ha lasciato, si rivela un
bravo stratega. Eppure nulla in lui fa indovinare l’uomo
d’armi. L’ulcera, l’insonnia, una sottile depressione si
riverberano sull’aspetto: pallido, infiacchito, con le spalle
ingobbite per i pensieri e per l’insoddisfazione. Marc’Aurelio,
tuttavia, sa come trascinare la truppa, come ottenere il
massimo impegno dai suoi uomini. Purtroppo, più si sbatte
per il bene di Roma e dei sudditi, più sbatte contro le
avversità. Accoglie come un trionfatore quel cialtrone di
Lucio, ma questi con le prede di guerra porta il più insidioso
dei nemici: la peste. L’intera Penisola ne è contagiata, si
parla di un milione di morti, dei quali duecentomila a Roma.
E già sapete che questi sono numeri mozzafiato per quel
periodo. Marc’Aurelio si prodiga a tal punto tra i malati da
far sorgere il sospetto che cerchi la morte, la quale, per
dispetto, lo evita. Non così le disgrazie, le quali sembrano
prediligerlo. Perde una figlia e un figlio, gli restano una
femmina che è la moglie infelice di Lucio, e un maschio che
è Commodo: non è il perfido buono a nulla descritto dal film
Il gladiatore, però neppure l’erede ideale. Marc’Aurelio lo
adora, cerca d’insegnargli il mestiere, ma Commodo ha
cuore e mente soltanto per il Circo, per i duelli con le bestie
e con i gladiatori.
Il sempre più rassegnato imperatore trascorre gli ultimi
anni tra accampamenti e battaglie. Deve combattere contro
i germani, contro i sarmati, contro un luogotenente di Lucio,
che intanto ha tolto il disturbo. Incarna una virtù romana di
cui si sono perse le tracce. L’antico e orgoglioso civis è stato
cancellato con la piccola proprietà terriera. I campi
trasformati in latifondo non riescono più a sfamare quelli
che li lavorano e costoro, di conseguenza, si rifiutano di
pagare le tasse. Per rimediarvi Marc’Aurelio ritorna
all’amministrazione dell’Italia secondo il modello di Adriano,
con quattro responsabili, ma ottiene poco. L’esercito è
diventato un miscuglio di razze, d’idiomi: ci sono legioni e
generali che combattono indifferentemente a favore o
contro, dipende da chi paga di più, dalle migliori promesse
di bottino.
Possiamo immaginare che per Marc’Aurelio l’unica pausa
serena sia stata una tappa ad Atene, dove ha potuto
discorrere dell’amata filosofia con i più accreditati esperti.
Ma è, appunto, una pausa. Deve correre a Vienna perché i
germani sono sul punto di sfondare. Alla vigilia della vittoria,
il suo fisico crolla o forse sarebbe meglio dire che crolla la
sua volontà di vivere. Rifiuta il cibo e l’acqua per cinque
giorni, al sesto designa Commodo, poi si tira il lenzuolo sul
volto. Vista la situazione, Commodo sembrerebbe l’uomo
giusto al posto giusto: deve soltanto cogliere il trionfo
costruito dal genitore, che gli ha raccomandato di riportare i
confini sull’Elba. Invece, pur di tornare nella Capitale, ai
passatempi preferiti, accorda ai germani una pace, che li
salva e che alla lunga condannerà Roma. Commodo si rivela
subito inadeguato al ruolo. Fa rimpiangere il ritorno del
diritto ereditario al posto del principio dell’adozione. Delle
responsabilità, dei doveri gl’importa pochissimo, trascorre il
suo tempo al Circo Massimo finché le voci di un presunto
complotto non ne scatenano la paranoia. Allora sono sangue
ed esecuzioni. I romani, che hanno dimenticato che cosa
significa vivere con il terrore, si rivoltano. Commodo pensa
di chetarli dando loro, in senso letterale, la testa del capo
pretoriano, ma il successore di questi ritiene che sia più
conveniente per tutti tagliare la testa di Commodo. Prima
l’avvelenano con la complicità dell’amante, Marzia – il suo
unico, vero amore, che essendo cristiana ha risparmiato ai
correligionari un po’ di persecuzioni – poi lo strangolano.
È il 31 dicembre del 192. Gli abitanti dell’Urbe
festeggiano, non sanno di aver avviato un’infernale giostra
di sangue. Il Senato infatti reputa di essere nuovamente
l’ago della bilancia: nomina Pertinace, il quale ha il torto di
prendere sul serio l’incarico. Dura due mesi. Dopo averlo
liquidato, i pretoriani mettono all’asta il trono. Quello che
offre di più – una cinquantina di milioni a testa – è Didio
Giuliano, un banchiere senza problemi di liquidità. Ma è
troppo ricco anche per la classe patrizia vogliosa di
rimettere le mani sul potere. Per liberarsene vengono
interpellati alcuni generali. In tal modo succede che le
legioni della Siria acclamino Pescennio Nigra, quelle della
Britannia Albino Clodio, quelle dell’Illiria Settimio Severo, un
africano di origine ebrea, proveniente da quelle terre che
hanno visto il fiorire della civiltà fenicia. Alla fine, tra
battaglie, tradimenti, passaggi di campo, la spunta Settimio
Severo.
9. L’inizio del declino

L’affermazione del capostipite dei Severi sancisce da un lato


l’importanza delle legioni, dall’altro le crescenti difficoltà del
Senato e della classe che lo esprime. La nobiltà segna il passo,
mentre i cavalieri assumono un’incidenza sempre maggiore
nelle vicende di governo. Settimio comunque è bene attento a
che nulla sfugga alla sua autorità. L’esperienza da generale gli
suggerisce che gli italiani si sono troppo rammolliti per essere
ancora affidabili con le armi: li esenta dal servizio militare, che
diventa, invece, obbligatorio per tutte le province dell’Impero.
Voi, magari, penserete che quest’esenzione fosse un bene per
i giovani di Roma e del resto della Penisola, ma in quei secoli
soltanto la carriera nell’esercito consentiva di farne poi
un’altra nell’amministrazione o addirittura di poter concorrere
al trono. La conseguenza peggiore, tuttavia, si avvertirà nei
secoli a venire: la mancanza di milizie nazionali, la
desuetudine a impugnare le armi renderà il nostro Paese terra
di conquista.
Ma a Severo poco interessa dell’Italia. Se ne occupa perché
qui è collocato il cuore del potere, di cui lui ha bisogno per le
sue mire d’espansione, e lo fa con il piglio del conquistatore.
Trasforma quello che formalmente è ancora un principato in
una monarchia ereditaria. Col grande senso pratico dei suoi
avi, si tiene strette le legioni con ricorrenti elargizioni di
danaro. Conosce le umane debolezze e le sfrutta: ogni
qualvolta gli dicono che una città o una regione è in subbuglio
ne compra il favore facendo distribuire medicinali e viveri. Usa
il pugno di ferro contro i cristiani, arriva a proclamare un
delitto il battesimo per far contento il popolino, le cui
maldicenze e superstizioni hanno preso di mira i fedeli di una
religione che definisce Roma la ‘nuova Babilonia’. Severo è a
modo suo un pacificatore. Nella realtà non vuole grattacapi
che lo distraggano dalle campagne militari. Interroga gli astri
prima di cominciarle, dev’essere o molto fortunato o un bravo
interprete giacché non conosce sconfitte e mantiene intatti i
confini. Muore durante una spedizione in Britannia:
probabilmente è la fine che agognava.
Lo stesso non si può dire di Roma. Si era lamentata
dell’indifferenza, del pugno di ferro di Settimio, ma le va anche
peggio con i due eredi, che si ritrova addosso nel 211. Aurelio
Antonino Bassiano, detto Caracalla dal nome dell’aderente
veste gallica con cappuccio e maniche che ha l’abitudine
d’indossare, e Geta non sono migliori di quel Commodo, che
Severo aveva giudicato una sciagura addebitandola all’amore
paterno di Marc’Aurelio. Nella gara a chi è peggio, vince
Caracalla, il quale decreta la soppressione di Geta e di
ventimila presunti sostenitori. I suoi gusti sono singolari sotto
ogni aspetto: gli attribuiscono l’abitudine di dormire
abbracciato a un leone, di allenarsi al mattino con un orso, di
volere per commensale una tigre. Dal ritratto che ci hanno
trasmesso, viene fuori un giovane viziato, in lotta contro la
noia, alla continua ricerca di emozioni. Degli affari correnti non
si cura, ne lascia il disbrigo alla madre, Giulia Donna. Al pari
del padre snobba i senatori. Forse è in odio a loro che
promulga un editto con cui viene concessa la cittadinanza
romana a quasi tutti i popoli dell’Impero. Ma se la motivazione
del provvedimento è incerta, è certo il fine: aumentare il
gettito della tassa di successione, che i cives sono costretti a
pagare. Questi soldi servono in gran parte al mantenimento
dell’esercito, la cui imponenza ha aumentato a dismisura i
costi.
Per gli italiani è la perdita dell’ultimo privilegio. Le
magistrature, la stessa ammissione al Senato si aprono ai
provinciali, fin lì chiamati peregrini (stranieri). Eppure non si
leva alcuna voce di protesta. Niente è rimasto del carattere,
della fierezza, che avevano fatto di Roma una macchina
invincibile. I suoi abitanti s’accontentano di vivere a sbafo, di
assiepare le gradinate del Circo Massimo e del Colosseo senza
pagare il biglietto. Senatori, cavalieri, popolani sono ridotti al
rango di spettatori rassegnati dei complotti che puntano a
conquistare la supremazia nella loro città, ancora caput mundi.
Ma a questa centralità politica non ne corrisponde più una
eguale negli affari e nella produzione. La mirabile rete di
strade che collega la Manica alle pianure della Mesopotamia
ha introdotto usi e costumi identici dappertutto; questi, a loro
volta, hanno sviluppato un commercio e un capitalismo in
grado di coinvolgere tre continenti. L’olio, il vino, i minerali, il
legno, il cuoio, la lana europei si mescolano ai tappeti, ai
tessuti, ai profumi, agli utensili, ai vetri africani e asiatici. I
siriani fungono da intermediari. A facilitare i contatti e gli
scambi sono l’universalità del denario d’oro, equiparabile al
dollaro odierno, e la diffusione delle due lingue – il latino in
Occidente, il greco in Oriente – che hanno soppiantato i dialetti
regionali.
L’Impero raggiunge per sviluppo naturale
quell’abbattimento di confini e barriere doganali che è
l’obiettivo degli stati moderni. I miliardi di consumatori dei
nostri giorni equivalgono ai centotrenta milioni di persone che
popolano il territorio imperiale. Ma di questi, meno di sei
stanno in Italia. Sono numeri che ormai contano perché
registrano la posizione di debolezza degli antichi conquistatori.
E per di più la smania di godere dei conforti della città ha
svuotato le campagne con tutto quel che ne consegue in
termini di produttività. Roma vive bene non più su ciò che
produce, ma su ciò che rosicchia. Ne deriva un progressivo
adattamento al peggio. Nessuno sopporta Caracalla, ma
nessuno alza un dito finché i soldati da lui trascinati in Persia
per imitare Alessandro il Grande non si stufano della sua
vacuità e lo pugnalano. Secondo prassi, viene spazzata via la
corte, la madre confinata ad Antiochia, dove si lascia morire di
fame. Tuttavia un ramo della famiglia Severa sopravvive grazie
a una sorella di Giulia Donna, Giulia Mesa. Costei ha due
nipoti: li gioca per spodestare uno sconosciuto, Macrino,
acclamato da alcune divisioni.
Giulia Mesa fa circolare la notizia che il maggiore di questi
suoi nipoti, Vario Avito, sia in realtà un figlio di Caracalla. Il
ragazzo ha quattordici anni e il soprannome di Eliogabalo, dio
sole, con cui fa il sacerdote di una sua personale religione in
Siria. Sono le legioni di stanza laggiù a designarlo e a scortarlo
nell’Urbe. Eliogabalo si presenta bistrato, adorno di braccialetti
di smeraldi e di collane di perle ai polsi, alle caviglie, al collo.
Ma niente sembra smuovere l’apatia dei romani. Applaudono
Eliogabalo come hanno applaudito i suoi predecessori, come
applaudiranno i successori. Le redini le tiene in mano nonna
Mesa, tanto spregiudicata da essere pronta a sacrificare il
nipote e la figlia quando le innocenti manie dell’imperatore
sembrano mettere a rischio il casato dei Severi. Come succede
spesso ai fanciulli, Eliogabalo è volubile, la sua psiche risente
del ruolo nel quale l’hanno imprigionato sin dalla tenera età. Il
giorno in cui propone a ebrei e cristiani il riconoscimento
ufficiale della loro religione se accettano di sostituire Dio e
Gesù con un pezzo di meteorite che il suo bisnonno venerava
in Siria, Mesa interviene. Convince Eliogabalo a fare del
cuginetto Alessiano il proprio Cesare; questi assume
l’impegnativo nome di Marco Aurelio Severo Alessandro. Con
l’erede già bell’e pronto, Mesa non ha scrupoli nel fare
sopprimere Eliogabalo e la madre, che è poi una delle sue
figliole.
Roma e l’Italia posseggono uno stomaco di ferro e
digeriscono ogni malefatta, anche che una madre per brama di
potere decreti la morte della figlia e del giovane nipote. In quel
deserto di valori, la fede cristiana saldamente mescolata a
quella ebraica rappresenta una sorgente di vita. La sua
diffusione è incessante soprattutto tra la media e alta
borghesia, disposta anche a tirar fuori i soldi necessari per le
funzioni e il mantenimento. Grandi intelligenze quali
Tertulliano e Origene ne codificano il pensiero, i dogmi; le
comunità eleggono il proprio vescovo e a Roma uno come
Callisto la guida con mano ferma. I suoi inizi sono circondati da
una cattiva fama, viene descritto come un ex schiavo,
campione d’opportunismo, arricchitosi con mezzi illeciti fino al
punto di trasformarsi in banchiere disonesto e per questo
condannato e costretto alla fuga. Ma il Callisto che si converte
è una benedizione per i cristiani. Il suo annuncio – su cui c’è
forse il riflesso dei comportamenti passati – che il pentimento
cancella qualunque peccato, anche mortale, conquista nuovi
ammiratori.
Seppur confusamente, Eliogabalo con il proposito di un
accordo generale, ha anticipato i tempi. Severo Alessando si
muove nella sua scia quando decide di far scolpire sui pubblici
edifici un fondamentale precetto cristiano: ‘Non fare agli altri
ciò che non vuoi che sia fatto a te’. Il nuovo imperatore non è
cristiano, non è ebreo, sebbene qualcosa abbia respirato in
famiglia, però è attraversato da un forte senso del dovere.
Conduce un’esistenza da asceta; sotto la spinta della madre,
Mammea, guarda con simpatia a quei fedeli di Cristo, che gli
paiono i più vicini alle sue concezioni. Anche lui è più occupato
dalle questioni teologiche che da quelle di governo. Queste le
sbrigano con polso fermo Mammea e il suo consigliere Ulpiano.
I due cercano di venire a capo del marasma in cui è precipitato
l’Impero: aggiustano i conti del Tesoro, si appoggiano al
Senato per limitare lo strapotere dei generali.
Quello di Severo Alessandro potrebbe essere un buon regno
se non durasse soltanto quattro anni. Nel 235 lo interrompe
una congiura dei legionari in Gallia contrari al tributo che
Severo Alessandro è disposto a pagare ai germani in cambio
della pace. Il ragazzo non è un codardo, l’ha dimostrato nella
vittoriosa guerra contro i soliti irrequieti persiani, ritiene però
che le guerre ostacolino la riforma dello Stato e la sua
personale ricerca di equilibrio. In realtà neppure la casta
militare è vogliosa di battaglie, insegue solo una scusa valida
per liberarsi di un regime che, a sua volta, tende a liberarsi di
essa. Infatti non appena Severo Alessandro, Mammea e la
corte sono trucidati, i soldati acclamano imperatore un
generale di origine germanica, Giulio Massimino il Trace, alla
guida dell’armata in Pannonia (più o meno l’Ungheria). A
questo punto comincia una sarabanda di nomine e di
assassinii. Molti di coloro che ascendono al trono sono soltanto
una riga nel grande libro della Storia. Massimino non riesce
neppure a recarsi a Roma. Egli prova a far convergere tutte le
energie dello Stato in funzione della guerra. Incontra la fiera
resistenza dei cristiani, già attratti dal regno di Dio più che da
quello dell’uomo, e delle classi più abbienti, soffocate da tasse
per pagare i costi delle armate. Massimino combatte per due
anni contro i rivali aizzatigli dal Senato, ottiene importanti
vittorie, ma viene liquidato dai pretoriani. Nella ridda
d’imperatori che si susseguono si arriva al primo di
ascendenza araba, Filippo. Contro di lui viene proclamato un
altro imperatore, il senatore d’origine pannonica Messo Traiano
Decio. Nella battaglia di Verona s’impone quest’ultimo,
l’Impero è suo. In un certo senso è una rivincita del Senato,
della tradizione: si scatena una feroce persecuzione contro i
cristiani, accusati di sostenere pericolose e rivoluzionarie
teorie e per di più molto protetti da Filippo. Vengono dichiarati
nemici pubblici, ma essi imperterriti proseguono nell’affermare
l’incompatibilità del servizio militare con la fede, la necessità
di abbattere questo Stato corrotto e pagano. Contro di essi
rifiorisce addirittura il vecchio culto degli dei dell’Olimpo.
Per mettere i cristiani in cattiva luce, Traiano Decio
addebita al loro dio la responsabilità di un’epidemia di peste
che si abbatte su diverse regioni nel 250. Forse un segno del
Signore sono la sconfitta e la morte che subisce dai goti.
Costoro sono partiti molti secoli prima dalla Svezia, dove una
provincia porta ancora il loro nome: Gotland. Attraversando il
Baltico sono approdati in Germania, da qui con una lunga
marcia hanno raggiunto le sponde del mar Nero. Si sono divisi
in tre tribù, visigoti, ostrogoti e gepidi. Sono alti, biondi, con gli
occhi azzurri, l’incarnato chiaro, ma gli abitanti dell’Impero li
chiamano barbari, inconsapevoli di ripetere lo stesso errore dei
greci, che chiamavano barbari i romani. Il passato avrebbe
dovuto insegnare a Decio e ai suoi che i barbari sono quasi
sempre portatori di una linfa e di una carica vitali.
I goti vincitori annunciano che per Roma è cominciato il
conto alla rovescia. Per tenerli buoni imperatori e governatori
instaurano la tattica dell’ingaggio, di quello che essi chiamano
sussidio e i barbari tributo. Spesso riescono ad arruolarli nelle
armate imperiali, ma appena scade il contratto o tarda il
pagamento della cinquina questi vigorosi guerrieri, che
ricordano i romani di un tempo, si danno alle incursioni.
Vogliono rifarsi con le razzie dei mancati guadagni e, sotto
sotto, indurre il governo a comprarsi la tranquillità con un altro
vitalizio.
A Traiano Decio subentra Gallo, a questi Emiliano, infine
Licinio Valeriano. Con lui, nel 253, il trono ritorna in mani
italiane. L’occasione, però, non è delle migliori. L’Impero è
assediato da goti, alemanni, franchi, sciti, persiani. Sono quasi
tutte ex truppe mercenarie – chiamate con pudore ‘federate’ –
che vengono a battere moneta. Valeriano si trasferisce sui
campi di battaglia orientali, lascia il figlio Gallieno a
guerreggiare in Europa. La cattura di Valeriano fa di Gallieno il
nuovo imperatore. È un tipo in gamba, un brillante stratega,
ma ha troppi nemici da fronteggiare. Gli antichi confini di
Traiano e di Marc’Aurelio hanno ceduto: anche l’Italia è
esposta alle invasioni. Gallieno tiene a bada i franchi, batte gli
alemanni a Milano nel 258, tuttavia si ritrova i goti in
Dalmazia, i persiani in Siria, gli sciti in Asia Minore. Per quanti
successi gli eserciti imperiali colgano, non riescono a bloccare
le invasioni.
Sono alti, biondi, con gli occhi azzurri, l’incarnato chiaro, ma gli abitanti dell’Impero li
chiamano barbari.
È in subbuglio anche il fronte interno. La questione cristiana
è più che mai ribollente. Aumenta il numero degli adepti,
aumenta l’insofferenza del vertice verso una religione che
predica la pace. Chi difende l’integrità dell’Impero è convinto
che il suo mantenimento sia conseguibile soltanto con la
restaurazione di Giove e dei suoi scombinati compari. Eppure
l’Impero è considerato cristiano dai popoli che l’aggrediscono.
Il giudizio non è avventato. Molti dei soldati di Roma sono
ormai seguaci di Gesù. Usano le spedizioni nelle province più
lontane per far opera di proselitismo e proseguono
quest’opera quando cadono prigionieri degli ex alleati. È
benzina che si aggiunge al fuoco perché in quelle zone, che
sono spesso di confine e più esposte alle scorrerie dei barbari,
serpeggia una voglia di secessione o almeno di maggiore
autonomia. Ci sono generali che si ergono a proconsoli, a volte
si formano regni indipendenti legati a Roma da pure formalità.
In uno di questi trova spazio una donna, Zenobia, forse l’unica
nel mondo antico che per comandare non ha bisogno né della
seduzione né dello schermo di un congiunto maschio.
Gallieno lascia fare, troppo impegnato a passare da un
accampamento all’altro. Nel nome di Roma e dell’Impero va
contro la sua classe. Allontana i senatori dal servizio militare,
escludendoli in tal modo dalla corsa al trono, cancella la
prerogativa del Senato di battere le monete di rame utilizzate
dalla plebe. Era stata una concessione di Ottaviano per
compensare l’emissione di monete d’oro e d’argento riservata
all’Augusto. Gallieno taglia le unghie ai suoi pari confidando
che in questo modo cessino le sollevazioni dei militari a favore
di questo comandante o di quell’altro. Naturalmente la sua è
un’illusione: la paga sulla propria pelle. Dopo aver fermato
un’ennesima invasione degli sciti e dei sarmati, viene ucciso
da una congiura dei generali. Il suo successore è uno dei
congiurati, Aurelio Valerio Claudio, che è pure il comandante
del nuovo corpo istituito da Gallieno, la cavalleria. Nei due
anni di regno Claudio se la deve vedere con gli sciti, con i
sarmati, con gli alemanni bloccati sul Garda. Suscita grandi
speranze, ma muore di peste, che ormai s’accompagna alle
campagne militari, eredità di quei popoli in movimento con
donne, bambini, animali e incuranti di ogni forma d’igiene. I
soldati designano un altro comandante della cavalleria,
Domizio Aureliano, chiamato ‘mano sulla spada’, figlio di un
povero contadino illirico. È una conferma della centralità
dell’Illiria in questa fase storica. È dovuta alla sua
fondamentale posizione geografica: è qui che si combatte la
guerra di resistenza essendo ormai la Tracia, la Dacia, la
Pannonia terre di nessuno. Questi generali illirici che si
succedono sul trono mostrano una ferrea volontà di salvare
l’unità dell’Impero. La loro è una lotta di sopravvivenza, che ha
il merito di prolungare l’agonia di alcuni decenni.
Aureliano si muove con realismo e spregiudicatezza.
Esaspera la tassazione dei sudditi, ma consente i pagamenti in
natura, a volte con giornate di lavoro. Tenta di ripristinare
l’unità religiosa senza però rompere con i cristiani, la cui
espansione giudica irrefrenabile. Accetta il culto di un solo dio,
ma secondo una consolidata tradizione dell’esercito lo
identifica con il Sole, da cui fa discendere la propria autorità:
nasce così il principio delle monarchie assolutistiche, quelle
che in futuro accamperanno la pretesa di esistere per ‘grazia
di Dio’. Al pari di Gallieno, anche Aureliano sacrifica qualcosa
del proprio orgoglio riconoscendo una realtà sotto gli occhi di
tutti: bisogna scendere a patti con gli ex federati. Tratta con
quelli considerati più pericolosi, i goti. Ne compra l’accordo
cedendo la Dacia. Poi ordina a ogni città di contornarsi di mura
e di creare milizie cittadine – l’ha già fatto Atene contro gli
stessi goti – per difendersi da sole.
Il provvedimento è inevitabile: prende atto di ciò che
diverse città hanno già predisposto, però rifila un colpo
mortale all’idea centralistica del potere, stuzzica le voglie
autonomistiche dei municipi. Si riproduce lo stesso fenomeno
sviluppatosi in Grecia, che ha condotto alla dissoluzione della
nazione ellenica. Quelle mura sono sì una difesa dai nemici,
ma rappresentano anche una barriera nei confronti di Roma. Si
spezza l’unità dell’Impero. Se vogliamo, è l’inizio del Medioevo,
almeno in Europa. Dall’altra parte dell’emisfero, in Cina, nello
stesso periodo viene approntata la polvere da sparo, utilizzata
per i fuochi d’artificio. Giungerà da noi tra mille e passa anni,
servirà per altri fuochi.
Roma abdica alla propria missione imperiale. Forse non può
comportarsi diversamente tanto è vero che ad Aureliano viene
attribuito il titolo di Restitutor. Tali benemerenze non gli
evitano la consueta congiura di palazzo, che lo toglie di mezzo
nel 275. Il Senato è velocissimo nell’eleggere un Tacito
discendente del famoso storico: spera di strappare ai militari la
nomina dell’imperatore. Ma il solito gruppetto di generali
elimina Tacito dopo soli otto mesi di regno. Al suo posto è
piazzato un comandante di Aureliano acclamato dalle truppe
di Siria e d’Egitto, Aurelio Probo. Costui ha lasciato dietro di sé
una scia di consensi: lo ricordano come un personaggio di
caratura superiore. Ma se era davvero probo, lo era in sintonia
con i tempi. Convoca infatti a tavola i congiurati, che gli
avevano spianato la strada accoppando Aureliano e Tacito, e li
fa sopprimere. Tranquillizzatosi sul versante interno, si dedica
alle consuete guerre di contenimento. Le vince tutte: contro i
burgundi, contro i franchi che scorrazzano nel Mediterraneo,
contro i vandali, contro i sarmati, contro i briganti isauri in
Oriente. Commette, però, l’errore di pretendere dai suoi
soldati, abituati a una vita di privilegi quando non c’è da
combattere, lavori ai quali non sono adusi e che, soprattutto,
non vogliono svolgere. Per esempio bonificare una palude.
Nelle intenzioni di Probo si dovrebbe trasformare in terra fertile
da assegnare ai veterani, ma questi trovano molto più
conveniente la paga dell’esercito, i ricchi bottini delle vittorie.
Di conseguenza non ci pensano due volte a uccidere Probo
sostituendolo con un suo prefetto, Caro, lesto a promettere
nuove imprese belliche. È di parola, però ci lascia le penne al
termine di una fulminea campagna contro i persiani. Gli
subentrano i figli Carino in Occidente, Numeriano in Oriente.
Per la prima volta si profila la divisione dell’Impero, ma il solito
impasto di ambizioni e di complotti porta all’uccisione di
Numeriano, all’ascesa del capo dei pretoriani, Valerio Diocle.
Le sue mire sembrano concludersi quando è sconfitto
dall’armata di Carino. Ma il vincitore viene ammazzato dai suoi
legionari, che passano con lo sconfitto. In tal modo il figlio di
un liberto dalmata entra con il nome di Diocleziano nella
Storia: sarà l’ultimo, vero imperatore romano.
A differenza dei predecessori illirici, Diocleziano non punta
all’unità del regno, ma al suo mantenimento attraverso una
divisione. Con la scusa delle esigenze militari egli fissa a
Nicomedia, quarta città dell’Impero dopo Roma, Alessandria e
Antiochia, la residenza ufficiale. È la dimostrazione di una
preferenza accordata all’Oriente, che non verrà mai meno.
Diocleziano vi trattiene la maggior parte dell’esercito; il resto
lo assegna al più bravo e ignorante dei suoi comandanti,
Massimiano, con il compito di proteggere l’Occidente. Gli
conferisce il titolo di Augusto, lo spinge a scegliersi, al pari di
lui, un Cesare. Il suo diventa Galerio, che elegge a propria
sede Mitrovizza, nell’Illiria. Massimiano s’installa a Milano e
nomina Costanzo Cloro (per via del colorito pallido), che si
piazza in Renania, a Treviri. Per meglio legarsi gli uni agli altri,
Diocleziano e Massimiano danno le loro figlie in spose ai due
Cesari con la promessa di abdicare dopo vent’anni. Da questa
spartizione, che prende il nome di Tetrarchia, esce
definitivamente umiliata Roma. Essa conserva la qualifica
formale di capitale, rimane la città più bella e popolosa, ma le
decisioni ormai si prendono altrove.
L’Impero stavolta è davvero diviso in due, tuttavia la
riforma avviata da Diocleziano lo coinvolge nella sua interezza.
È la prima forma di socialismo di Stato. Il punto di partenza è
una diversa applicazione delle tasse: un lavoratore equivale
alla fetta di terreno che lavora. In tal modo gli agricoltori sono
legati per sempre alla terra come gli artigiani lo sono al loro
mestiere. Per effettuare i calcoli necessari, la superficie
dell’Impero è ripartita in dodici diocesi e cento province.
Neppure l’Italia e Roma sfuggono a questo processo, che
completa quello già avviato da Aureliano. Sulla scia di esso
cambia il sistema monetario, il denario è vincolato all’oro,
viene stabilito un calmiere dei prezzi e delle derrate,
l’economia subisce una totale pianificazione con la
nazionalizzazione delle principali industrie e un aumento
esponenziale dei dipendenti statali. Un simile assetto
influenzerà il futuro dell’Europa per mille anni, qualcosa di
questa politica annonaria giungerà fino a noi.
Diocleziano non è ancora soddisfatto. Capisce che la
sopravvivenza dell’Impero deve legarsi a un’autorità capace di
domare la soldataglia, di toglierle la pretesa di nominare
gl’imperatori. Anche Diocleziano insegue un riconoscimento
superiore e se lo assegna da solo: sancisce il culto della
propria persona (l’adorazione), per meglio prestarsi assume il
nome di Giove mentre Massimiano si deve accontentare di
quello di Ercole. Naturalmente la ‘nuova’ religione ha un rivale
temibilissimo, il cristianesimo, che le classi borghesi usano per
riconquistare antichi privilegi. Diocleziano emana quattro editti
contro di esso, ma non riesce a venirne a capo. Le condanne a
morte, le chiese rase al suolo, i libri bruciati, le confische dei
beni ottengono l’effetto opposto: diventano un formidabile
strumento di propaganda per il trionfo della Chiesa. Qualche
sbandamento si verifica soltanto in Africa e in Medio Oriente,
dove nei decenni a venire fioriranno diverse eresie.
Paradossalmente ad arrendersi non sono i perseguitati per la
fede, bensì quanti si ritengono angariati dal fisco. La
cittadinanza romana agognata per secoli è adesso vissuta
come una cappa dalla quale liberarsi: l’unico modo è di
rifugiarsi tra i cosidetti barbari, dove l’agente delle imposte
non si può presentare.
Alla scadenza dei vent’anni (305) Diocleziano e
Massimiano, suo malgrado, sono di parola: abdicano in favore
dei Cesari, nonché generi. Diocleziano si ritira nella
meravigliosa villa di Spalato, dove si dedica a coltivare cavoli,
Massimiano invece si stabilisce nel salernitano. Ritiene, o
spera, che ci possa esser bisogno di lui e non si sbaglia.
10. La dissoluzione

In assenza del suo inventore, la Tetrarchia non regge.


L’Augusto di Nicomedia, Galerio, pretende di esercitare nei
confronti dell’Augusto di Milano, Costanzo Cloro, una sorta
di primazia così come aveva fatto Diocleziano con
Massimiano. Per andare sul sicuro Galerio arruola nel proprio
esercito un figlio di Costanzo Cloro, Flavio Valerio
Costantino. La madre era una cameriera orientale, assurta
al rango di concubina prima che Diocleziano ordinasse a
Costanzo di liberarsene e di sposare una figlia di
Massimiano. Costantino è dunque cresciuto in caserma, è
molto popolare tra i soldati e Galerio gli procura una facile
carriera, sebbene il suo scopo sia di tenerlo in ostaggio. Ma
Costantino evade, raggiunge il padre impegnato in Bretagna
nella solita guerricciola di contenimento. Alla morte di
Costanzo Cloro scoppia il finimondo. Augusti e Cesari
s’accapigliano nel reclamare la loro fetta d’Impero. A quelli
di diritto s’aggiungono quelli di autonomina: quando il
vecchio Massimiano abbandona la villa salernitana per
rimettersi in gioco ci sono sei Augusti che si contendono il
potere. Quello d’Oriente, Licinio, sfrutta la sua posizione
decentrata per restarsene in disparte.
Come in un torneo di calcio cominciano le eliminatorie:
Massimiano dà la figlia Flavia in sposa a Costantino e
s’appoggia a lui contro il proprio figlio Massenzio. Si muove
anche Diocleziano: lascia la villa di Spalato e la cura dei
cavoli per tentare una mediazione in extremis. Ogni
tentativo di accordo fallisce. Lo stesso Diocleziano prende
atto che la sua creatura è soffocata da troppi pretendenti,
che assieme a essa sta crollando la complessa riforma delle
istituzioni da lui varata. Nell’impossibilità di ridestarlo, ha
ingessato l’Impero con norme e lacciuoli, che ne hanno
spento l’antico soffio vitale. Non gli resta che rientrare a
Spalato nella speranza di salvare almeno i cavoli.

La Tetrarchia.

Sul campo restano i veri pretendenti. Al di là delle


qualifiche, sono Costantino e Massenzio. Li uniscono il
desiderio di unificare l’Impero, l’apertura, che ne è quasi
una conseguenza, fatta da entrambi al cristianesimo e
soprattutto ai cristiani. Costantino si aggiudica i preliminari
a Torino e a Verona, ma a decidere sarà la finalissima. Si
disputa a Roma, che così ritrova la centralità del proprio
ruolo. Il luogo dello scontro è il Ponte Milvio, una ventina di
chilometri a nord dell’Urbe. La notte Costantino ha una
visione, in cui egli crede di scorgere un incoraggiamento da
parte del dio dei cristiani: la famosa frase in hoc signo
vinces (nel nome di questo simbolo, vincerai). Ne trae il
rafforzamento della propria missione, che nei suoi racconti
gli si era già manifestata anni prima con l’apparizione di un
simbolo solare. Al mattino fa aggiungere il monogramma
cristiano ( ) sugli scudi dei soldati e fa innalzare un labaro
con una croce intrecciata recante le iniziali di Gesù. In tal
modo Costantino è sicuro di regalare ai soldati la certezza di
una vittoria. L’andamento della battaglia lo conferma. Con
abili mosse le divisioni di Costantino stringono verso le
sponde del Tevere quelle di Massenzio, che sulle bandiere
hanno il dio Sole di Aureliano. Il fiume inghiotte le migliaia di
cadaveri degli sconfitti, tra i quali lo stesso Massenzio. È il
27 ottobre del 312. Muore l’Impero pagano, nasce l’Impero
cristiano.
La notte Costantino ha una visione.
L’anno seguente viene riconosciuta con l’editto di Milano
libertà di culto a tutte le religioni. Nella sostanza il
provvedimento riguarda quella cristiana, l’unica
perseguitata negli anni di Galerio e di Costanzo Cloro. I suoi
adepti non devono più nascondersi, rientrano in possesso
dei beni sequestrati. Pur mantenendo una posizione
distaccata – rifiuta infatti il battesimo – Costantino diventa il
campione della Chiesa cattolica (espressione greca che
significa universalmente riconosciuta): a lui si rivolgono i
fedeli, che ormai costituiscono la stragrande maggioranza
dei suoi sudditi, quando l’Augusto d’Oriente, Licinio, si
mette a perseguitarli. Licinio, l’ultimo dei rivali, lo fa per
intaccare il carisma di Costantino, di cui peraltro ha sposato
una sorella. Mal gliene incoglie perché viene prima domato
e poi liquidato. Costantino rimane il solo imperatore, il
cristianesimo diventa quasi una religione di Stato.
Fin qui Costantino ha tenuto una posizione ambigua. È sì
il difensore della fede, però tra le proprie attribuzioni
conserva quell’antica e pagana di pontefice massimo e
l’iscrizione del suo arco afferma che la vittoria su Massenzio
è stata raggiunta per ‘volere della divinità’. All’interno della
sua stessa corte ci si sforza di trovare un apparentamento
tra il culto di Dio, ‘luce da luce’, e quello del Sol invictus, che
rimanda alle tradizioni degli imperatori illirici. A far pendere
la bilancia dalla parte dei cristiani è la loro superiore
organizzazione. Alle prese con gli immensi problemi
dell’Impero, Costantino si accorge che spesso le funzioni dei
governatori di provincia vengono esercitate dietro le quinte
dall’arcivescovo e che nelle città l’autorità morale del
vescovo ha soppiantato quella del prefetto.
Quasi tre secoli di durissima lotta per la sopravvivenza
hanno affinato la dottrina e la struttura del cristianesimo.
Sono il compendio della tradizione ebraica, della teologia e
metafisica greca, dell’organizzazione e codificazione
romana: senza le strade consiliari, senza l’universalità del
latino i suoi sacerdoti non avrebbero potuto divulgare il
verbo di Gesù in lungo e in largo. Alla Chiesa è rimasto
attaccato qualcosa persino dai culti pagani: la
denominazione e il ruolo del pontefice massimo, la stola,
l’incenso, le candele accese davanti all’altare, l’architettura
delle basiliche, il culto dei santi, che riecheggia alla lontana
quello degli dei dell’Olimpo. Ma oltre i riti e i formalismi,
viene a galla la sostanza. Nel vuoto prodotto dal crollo delle
vecchie divinità, il cristianesimo offre risposte a domande da
troppo tempo in attesa. Cristiane sono le classi emergenti,
cristiana è l’unica morale che si oppone all’amoralità
dell’epoca. Quest’insieme di motivi induce Costantino a
guardarla con un occhio di riguardo fino al punto di abolire
l’editto di Milano e con esso la parità tra tutte le religioni:
d’ora in avanti ci sarà posto per l’unica religione
universalmente riconosciuta, cioè la cattolica.
Nel momento in cui vince, il cristianesimo è però al
centro di accanite dispute fra i suoi stessi seguaci. L’esser
usciti indenni dalle persecuzioni ha scavato un solco tra i
massimalisti e quanti si sono barcamenati. La disputa è
feroce: per individuare un punto d’intesa Costantino assume
l’iniziativa di convocare nel 325 un concilio ecumenico
(universale) a Nicea, presso Nicomedia. L’imperatore paga
viaggio, vitto e alloggio ai partecipanti, tra i quali
trecentodiciotto vescovi, pur di riunire i litiganti attorno a un
tavolo. Il vescovo di Roma, Silvestro (il numero uno della
gerarchia, il primus inter pares), in cattive condizioni di
salute, si fa rappresentare dal teologo più brillante, Atanasio
vescovo di Alessandria. È lui a vincere la competizione
ideologica con Ario, che contesta la consustanzialità di
Cristo con Dio, e con i donatisti, gli adepti del vescovo di
Cartagine Donato, fautore del pugno di ferro contro i
sacerdoti, i quali per opportunismo avevano abiurato, e
contro coloro che da essi erano stati battezzati. Il Concilio
sancisce il successo della Chiesa di Roma, Costantino si
adegua: mette fuori legge i sostenitori di Ario e quelli di
Donato; esenta le proprietà clericali da ogni tassazione;
dedica alla Vergine la capitale che ha in animo di fondare
nei pressi dell’antica colonia greca di Bisanzio, sul mar Nero:
la chiama Nuova Roma, i posteri la chiameranno
Costantinopoli. Tanto rigore ufficiale si accompagna a una
tiepidezza privata: Costantino continua a benedire le armate
secondo il codice pagano, si battezzerà soltanto in punto di
morte.
Costantino adopera il cristianesimo per quello che ritiene
il suo compito terreno: preservare l’Impero. Un obiettivo
perseguito con la spregiudicatezza dei suoi peggiori
predecessori: per banali sospetti manda a morire una
moglie, un figlio, alcuni nipoti. Quando capisce che la difesa
del potere d’acquisto del denario può causare una grave
crisi economica, l’abbandona a favore dell’oro e non si
preoccupa dei tanti artigiani e piccoli proprietari in rovina.
Vara modifiche di così ampio respiro da conquistarsi presso
gli storici moderni l’etichetta del « più violento rivoluzionario
della storia romana ». Attribuisce a quattro prefetture
(Gallie, Italia-Illiria, Africa e Oriente) il disbrigo degli affari
correnti facendo sì, tuttavia, che ciascuna sia di contrappeso
all’altra. Interviene sulle decisioni dei prefetti al pretorio,
quasi sempre provenienti dalla nobiltà senatoria. Affretta la
sparizione della casta dei cavalieri, per secoli antesignana
con le sue pretese e i suoi umori della borghesia così come
la s’intende ai giorni nostri. La sostituisce con quella dei
funzionari, dei burocrati, da allora cruccio e caratteristica di
ogni organismo statale. Tra questi i più odiati sono gli
agentes in rebus, un corpo di spioni, incaricati di appurare la
ricchezza dei sudditi per poi tassarli. Erano stati usati da
Diocleziano, prima che il coro delle critiche lo costringesse a
liquidarli; Costantino li rimette in pista quasi con gusto.
Affida a loro il compito d’instaurare un clima di terrore
indispensabile, nel suo giudizio, per tenere a bada un
impero così vasto. La sua mano tocca anche l’esercito. Per
meglio controllarlo separa le cariche militari da quelle civili:
viene incontro al desiderio dei cittadini di essere esentati
dal servizio, ma accentua la dipendenza delle forze armate
dalle milizie straniere. Esse innervano in gran parte l’armata
di campagna dislocata sui confini, così a contatto con i
barbari ai quali dovrebbe opporsi da stabilire spesso
rapporti di buon vicinato, che poi magari inducono a un
arruolamento semiclandestino. E queste nuove leve sono
fedeli al comandante da cui sono state ingaggiate, non certo
al lontano governo da cui nominalmente dipendono.
Diventano quasi un esercito privato dei generali, che infatti
cominciano a usarlo per le proprie ambizioni.
In trent’anni di governo Costantino riesce nella missione
impossibile di salvaguardare l’integrità dello Stato, di tenere
unito l’Occidente al prediletto Oriente. Tuttavia è egli stesso
ad attentare alla propria creatura lasciandola divisa in
cinque fra tre figli e due nipoti. La sua morte (337) diventa
la morte dell’Impero. Le avvisaglie si scorgono già quattro
mesi dopo. Ci mette lo zampino l’esercito. Acclama come
Augusti i tre figli del defunto, Costantino II, Costanzo e
Costante II. Alla ratifica del Senato comincia la caccia
all’uomo nei confronti degli altri due eredi, Dalmazio e
Annibaliano, figli dei fratellastri di Costantino. È una strage.
Viene eliminato il ramo collaterale della famiglia, si salvano
soltanto due bambini, Gallo e Giuliano.
Colui che è indicato come il regista occulto del bagno di
sangue, Costanzo, convoca a Smirne una riunione con i
fratelli. Viene stabilita la nuova mappa dell’Impero.
Costanzo si assegna la prefettura d’Oriente e la diocesi della
Tracia. A Costantino II vanno le Gallie. A Costante II vengono
date l’Italia, l’Africa e la diocesi macedone, ma a causa della
giovane età la sua parte è posta sotto la tutela del fratello
maggiore nonché vicino di regno, Costantino II. Nonostante
le apparenze, il piano di Costanzo è riuscito soltanto per
metà. La suddivisione geografica lo premia rispetto agli altri
due, ma mortifica il suo tentativo di far crescere l’ideologia
ariana, che, nonostante la messa al bando, si era diffusa
negli ultimi tempi. Costantino II, infatti, impone il punto di
vista della Chiesa occidentale e del Concilio niceno. Il
simbolo di quest’affermazione diventa il ritorno ad
Alessandria di Atanasio, posto dal vecchio imperatore agli
arresti domiciliari.
Ma Costantino II ha poco di che gloriarsi. I rapporti con
Costante II si guastano subito. Nel 340 è guerra tra i due
fratelli. Ha la meglio il più giovane, che si ritrova padrone
dell’intero Occidente. Riceve anche l’appoggio della Chiesa
ufficiale, preoccupata dalle tendenze scismatiche
dell’Oriente e dal favore crescente accordato da Costanzo ai
seguaci di Ario. La Pasqua celebrata nel 345 da Costante II
ad Aquileia con Atanasio, di nuovo espulso da Alessandria,
pare il suggello di una crociata da lanciare contro l’Oriente,
dunque contro Costanzo, alle prese tra l’altro con il re di
Persia, Sapore. Il regno di Costante è però in fibrillazione a
causa della politica economica. Le classi più umili, i
contadini in special modo, vedono i loro sudati risparmi
bruciati dal conio di una nuova moneta. Il malcontento
s’allarga assieme alla tassazione e alla miseria. Nel clima di
contestazione vengono presi di mira i costumi e le mire
guerresche dell’imperatore. Nelle Gallie, il territorio più
provato, si solleva un generale semibarbaro, Magnenzio.
Costante è dichiarato decaduto e ucciso sui Pirenei mentre
tenta di passare in Spagna (350).
Costanzo ha una valida scusa per condurre le sue armate
in Occidente. A Roma trova un appoggio prezioso nella
sorella Costanza, la fondatrice della famosa basilica di via
Nomentana. Grazie a sapienti manovre diplomatiche e a
importanti accordi militari con alcuni comandanti d’Illiria e
d’Italia, Costanzo doma la rivolta. Magnenzio è battuto a
Mursa, sulle rive della Drava, bagnate dal sangue di 54.000
morti, una cifra spaventosa per l’epoca (351). Esulta più di
tutte l’Urbe. Tanto non sopportava Costantino, tanto mostra
di gradire Costanzo, che la ricambia con l’allestimento di
giochi straordinari, con la continua distribuzione di pane e
porchetta. Arriva a donarle l’obelisco egiziano che potete
ammirare nella piazza di San Giovanni in Laterano,
inizialmente destinato dal genitore a Costantinopoli. Gesti di
cortesia, piccole soddisfazioni formali, Roma però è sempre
più ridotta a un ruolo di comparsa: il suo destino si decide a
chilometri e chilometri di distanza, ben oltre le Alpi. Per
spiegarne la progressiva decadenza bisognerà spesso fare
riferimento a ciò che accade nel resto d’Europa e in Oriente.
Al pari di papà, Costanzo ha riunito, forse suo malgrado,
l’Impero. Ma non sa che farsene per via del temperamento
tristanzuolo, privo di slanci, di grandi visioni. Teme anzi di
essere sopraffatto dai focolai di crisi, che s’accendono a est
come a ovest. Gli si pone subito il problema religioso:
conciliare le esigenze teoretiche degli ariani, da lui
sostenuti, con l’intransigenza della curia romana, che egli
non vuole inimicarsi dopo l’avvenuta unificazione. Ne
consegue una serie di concili in contraddizione l’uno con
l’altro finché la Chiesa di Roma non trae profitto dalle
continue scissioni dell’arianesimo.
Nonostante tre matrimoni, il povero Costanzo è afflitto
dalla mancanza di eredi. Per salvare la continuità nomina
Cesare Gallo, scampato alla strage dei parenti nel 337
assieme al fratellino Giuliano. I due sono stati allevati in una
piccola città della Cappadocia dal vescovo ariano Eusebio.
Ma dell’ascetismo e della carità di Ario nulla si trasmette in
loro, anzi i severi metodi di Eusebio li dispongono male nei
confronti del cristianesimo. Gallo è il primo a salire al
potere, ma dura poco. Costanzo, però, ha bisogno di un
Cesare, soprattutto adesso che i franchi e gli alemanni,
ingaggiati per sconfiggere Magnenzio, minacciano le Gallie,
il cuore dell’Occidente. La scelta cade sul ventiduenne
Giuliano. Questi niente sa di esercito e di strategie, la sua
passione è la cultura ellenistica maturata sui testi di Omero
e dei filosofi greci. Impara in fretta. Nel 357 batte gli
alemanni a Strasburgo. L’ammirazione per il mondo
spirituale dei greci lo induce a migliorare le condizioni dei
contadini: riduce la tassazione e l’affida alla curia
sottraendola alla burocrazia imperiale. Il provvedimento gli
cattura la simpatia delle campagne e delle legioni.
Nel 359 le rifiorenti velleità di Sapore in Persia inducono
Costanzo a chiedere l’invio di alcune divisioni di stanza in
Gallia. Giuliano acconsente riconfermando la propria
sottomissione all’imperatore, tuttavia accetta di essere
proclamato Augusto dai soldati. Per quanto scriva a
Costanzo che tutto è avvenuto a sua insaputa, Giuliano quel
titolo non lo molla. L’imperatore muore (361) mentre è in
marcia contro il cuginastro, che nel suo testamento figura
unico erede. A ventinove anni Giuliano si ritrova a capo di
uno stato che non gli piace e che pensa di riformare.
L’intenzione di restaurare le divinità greche a scapito del
cristianesimo gli ha guadagnato il titolo di Apostata
(rinnegatore del proprio credo), ma il suo interventismo non
si ferma al campo religioso, straripa pure in quello tributario.
Pensa di ricopiare il modello romano favorendo un nuovo
equilibrio tra gl’interessi dei latifondisti, della borghesia
cittadina, del proletariato urbano. Riesce a scontentare tutti.
Alla stessa maniera la sua avversione per la Chiesa,
accusata di ogni vizio, si scontra con la profonda religiosità
delle masse. La chiusura delle scuole cristiane,
l’allontanamento dalle cariche pubbliche di quanti non
abiurano gl’inimicano i tre quarti della popolazione. A parole
Giuliano non abbandona la religione ufficiale, il suo intento è
di mostrarsi imparziale e tollerante nei confronti di ogni
fede. La sua speranza, però, è di propagare i culti pagani,
della cui superiorità intellettuale si è nutrito. Per spuntarla fa
loro adottare la gerarchia della Chiesa e quella ‘economia di
carità’, che attraverso l’elemosina e la beneficenza si pone
quasi in contrapposizione con l’economia ufficiale.
È una restaurazione bell’e buona. A bloccarla ci pensa
l’indomabile Sapore, voglioso di allargamenti. Per risolvere
definitivamente la questione persiana, Giuliano allestisce un
esercito e lo carica su millecento navi che discendono il
Tigri. Partendo da Antiochia ha il presentimento che non vi
tornerà. Ha presentito bene. Dopo un avvio favorevole, la
spedizione sbatte contro i bastioni di Ctesifonte, in Iraq.
Bruciate le millecento navi, comincia l’inseguimento di un
nemico che adotta la tattica della terra bruciata, che sfugge
al combattimento in campo aperto. Una lancia persiana
chiude l’avventura di Giuliano (363). I suoi ufficiali eleggono
subito il successore, tale Gioviano, il quale, pur di tornare a
casa, conclude una pace vergognosa con Sapore. Gli cede
l’Armenia e la Mesopotamia. La sorte più tragica tocca alla
città di Niside, nei secoli inespugnabile raccoforte della
romanità e della cristianità. I suoi abitanti, che hanno
avversato Giuliano nel nome di Dio, che hanno gioito per la
sua morte, pagano un prezzo altissimo alla loro doppia fede.
O riconoscersi sudditi del re persiano o emigrare, come
fanno in larga parte. È uno degli esodi più massicci e
strazianti dell’umanità: malattie, suicidi, impazzimenti,
perdita di ogni bene.
L’improvvisa morte di Gioviano porta a un’altra sbrigativa
elezione. Viene nominato Valentiniano, figlio di un cordaio
della Pannonia. Si era scontrato con Giuliano per non aver
voluto rinnegare la propria religione, ora la rimette al posto
che le compete. Si fa aiutare dal fratello Valente, destinato
al trono di Costantinopoli. Per i due sono anni travagliati.
Valente seda una rivolta degli ultimi seguaci di Giuliano,
Valentiniano si sbarazza dell’incombente minaccia degli
alemanni. Tra decessi improvvisi e cooptazioni, nelle quali
viene coinvolta l’estrema progenie di Costantino, si giunge
al regno di Graziano, figlio di Valentiniano, il quale sceglie
per sé l’Occidente, con capitale Milano, e affida l’Oriente, in
posizione subordinata, a Teodosio, figlio di un valente
generale spagnolo.
Nel 379 una congiurona di palazzo elimina a colpi di
pugnale Graziano, accusato di eccessivo servilismo nei
confronti dei cattolici. Il governatore della Britannia, Magno
Massimo, che ne ha tirato le fila, propone a Teodosio un
patto di non belligeranza. L’imperatore finge di accettare
perché ha da dirimere una questione molto più impellente: i
goti. Queste turbolente tribù, a volte stipendiate e a volte
combattute, in perenne subbuglio ai confini orientali,
avevano chiesto asilo politico a Valente per sfuggire alla
pressione di rivali della loro stessa pasta e anche peggio, gli
unni provenienti dalle regioni russe. L’accordo tra i goti e
Valente era finito presto: nella battaglia di Adrianopoli i
barbari avevano sconfitto l’esercito imperiale. Tocca a
Teodosio sbrogliare la matassa. Lo fa ridando ai goti lo
status di federati e una sede stabile in Illiria. A quel punto
può volgersi contro Magno Massimo e liquidarlo. L’Impero è
di fatto riunito, sebbene a Milano l’Augusto sia il
giovanissimo Valentiniano II, il cui merito principale è di
esser fratello della più bella ragazza in circolazione, Galla,
che Teodosio prende subito in moglie. Tutto ciò che ha
combinato, Teodosio dice di averlo combinato nel nome di
Dio e a sua maggior gloria. Appena finisce di dirlo volge
l’occhio e l’orecchio verso Milano. Nell’austera capitale
d’Occidente svolge la sua missione il vescovo Ambrogio, che
è la più forte e ascoltata autorità morale di quegli anni.
Nella carriera clericale Ambrogio ci si è trovato per caso.
Fino al 374 è stato governatore della Liguria e dell’Emilia, in
questa veste aveva fatto da arbitro nelle ricorrenti dispute
tra cattolici e ariani. Se l’era cavata così egregiamente da
essere acclamato vescovo dagli uni e dagli altri. Una prassi
inusitata per la Chiesa con l’aggiunta non piccola che
Ambrogio non era neppure battezzato. A regolarizzare una
designazione tanto irregolare aveva provveduto lo stesso
imperatore Valentiniano I, che del suo funzionario aveva una
notevole stima. Valentiniano I, filo-ariano, contava di
ottenere un valido aiuto dal neovescovo. Si era, invece,
ritrovato sul gobbo il più fervente, autoritario difensore
dell’ortodossia. E dopo di lui era toccato sorbirselo a
Graziano, a Valentiniano II, a Teodosio. Questi non osa
sfidare Ambrogio neppure da padrone dell’Impero. La
proclamazione del cristianesimo, così com’era stato
modellato dal Concilio niceno, quale unica religione
riconosciuta costituisce in realtà la definitiva affermazione
del cattolicesimo (380). L’unità dell’episcopato si specchia
nella fede praticata a Roma e ad Alessandria.
Il secondo Concilio ecumenico, convocato nel 381 a
Calcedonia, chiude i conti con le correnti del cristianesimo,
bollate come eresie e colpite da anatema, e sancisce la
supremazia del vescovo di Roma su quelli delle altre sedi
patriarcali, Alessandria, Antiochia, Costantinopoli e
Gerusalemme. È il passo iniziale verso il Papato. L’assetto
della Chiesa assume una forma verticistica, mentre all’inizio
del suo cammino aveva avuto uno sviluppo orizzontale con
le ecclesie guidate da un presbitero liberamente scelto dai
fedeli e assistito da diaconi, suddiaconi, accoliti, lettori ed
esorcisti, i quali, allora come oggi, curano ossessi ed
epilettici. La moltiplicazione delle ecclesie ha poi portato
all’elezione di un vescovo. A questi si sono aggiunti e
sovrapposti gli arcivescovi, i metropoliti e i primati fino alla
creazione dei patriarchi nelle cinque città più importanti
dell’Impero. Con la scelta, un po’ forzata, di Roma si spezza
l’equilibrio delle origini. L’Urbe designata da Pietro e Paolo
quale sede delle loro predicazioni e della prima ecclesia
diventa il cuore del cattolicesimo. Il vescovo dell’Urbe
comincia a esser chiamato pontefice.
Ambrogio e ciò che rappresenta sono oramai così forti da
resistere a un ordine di esilio di Valentiniano II e da proibire
l’accesso in chiesa a Teodosio per la sanguinaria repressione
di Tessalonica. Il giorno in cui l’imperatore invoca il perdono
viene composto il Te Deum laudamus: saluta il trionfo del
potere spirituale su quello temporale. Ma un trionfo forse
maggiore Ambrogio lo coglie lontano dal grande
palcoscenico della Storia, nell’intimo di una coscienza
inquieta, quella di Agostino. È un trentenne algerino in cui
l’ingegno e la cultura sono impegnati a superarsi
reciprocamente in una corsa infinita. La sua prima fede
manichea (divisione del mondo tra Bene e Male) l’ha fatto
prendere a benvolere da importanti funzionari imperiali
paganeggianti. Gli hanno procurato la cattedra di retorica a
Milano, confidano di averlo alleato nelle dispute teologali.
Ma il contatto e il confronto con Ambrogio spingono
Agostino a una conversione, che per la Chiesa è
un’autentica manna.
In Europa, infatti, serpeggia un sottile spirito
anticristiano. Funge da collante un condottiero franco, il
barbaro Arbogaste. Attorno a lui si coagulano tutti gli
oppositori dell’Impero: gli indomabili seguaci
dell’arianesimo, la blasonata nobiltà romana, gli irriducibili
cultori delle sorpassate divinità greche. Ma Arbogaste,
l’usurpatore Flavio Eugenio che egli ha collocato sul trono, e
le statue di Giove che accompagnano il loro esercito,
vengono spazzati via nel 394 sul fiume Isonzo. Nel nome di
Teodosio vince un altro barbaro, il grande generale Stilicone,
un germanico della tribù dei vandali. L’imperatore ha
appena il tempo di assaporare il successo: muore
improvvisamente a Milano. Non lascia né Cesari né Augusti,
bensì due figli, il diciottenne Arcadio e l’undicenne Onorio, i
quali dovrebbero guidare assieme l’Impero dalle due sedi di
Costantinopoli e Milano. A far da guardiano e protettore il
fedelissimo Stilicone.
Ambrogio e ciò che rappresenta sono oramai
così forti da resistere a un ordine di esilio di
Valentiniano II e da proibire l’accesso in chiesa
a Teodosio.

Che da buon tedesco ha preso molto sul serio l’incarico.


Stilicone si batte per la romanità come nessuno pensa di
fare a Milano e, soprattutto, a Costantinopoli. Arcadio,
infatti, è disposto a cedere la Grecia ad Alarico, ex ufficiale
di Teodosio e re dei visigoti, venuto a presentare il conto
della sua alleanza contro Argobaste. L’intervento delle
truppe di Stilicone è provvidenziale. Quelle di Alarico sono
strette in una morsa, ma Arcadio impone a Stilicone di
mollare la presa giacché l’Illiria appartiene all’Oriente e lui è
un generale dell’Occidente. È l’annuncio dei tormenti che
attendono Stilicone. Corre da una regione all’altra per far
fronte a insurrezioni e invasioni, con assoluta fedeltà mette
il suo talento al servizio di un’idea che non gli appartiene.
Ha due problemi. Il primo è lo sfaldamento dell’antico
orgoglio romano: il Senato ha assunto una funzione
decorativa, qualcuno dei suoi componenti davanti
all’incombere di Alarico, cui l’Illiria va stretta, propone di
trasferirsi in Sardegna e fondare un’altra Urbe. Il secondo
problema è la carenza di truppe. Su Roma e sull’Italia pesa
l’antico divieto di Gallieno, in ogni caso i suoi abitanti hanno
perso qualsiasi consuetudine con le armi e ne hanno
acquisito troppa con la dolcezza del vivere. Gli abituali
fornitori, i popoli federati, hanno compreso che è più
redditizio giocare in proprio nelle vaste pianure europee. Di
conseguenza quando nel 402 Stilicone sconfigge di nuovo
Alarico a Verona anziché distruggerlo preferisce cercare un
accordo giacché le divisioni gote sono le sole utilizzabili. Nel
406 la situazione degenera. Stilicone ferma gli ostrogoti a
Fiesole, ma vandali, alemanni, svevi e burgundi hanno
sfondato dappertutto. Nella Gallia si è levato un usurpatore,
dal suggestivo nome di Costantino, a pretendere il trono. Per
fronteggiare il pericolo bisogna sguarnire l’Italia di truppe,
per sguarnire l’Italia bisogna prima comperare la neutralità
di Alarico. Stilicone gli offre il grado di maresciallo per l’Illiria
se liquiderà Costantino.
Il terrorizzato Onorio e la sua imbelle corte, trasferitisi a
Ravenna – ritenuta più difendibile di Milano per le paludi
malariche che la circondano – accusano Stilicone di voler
provocare una guerra con Arcadio, ne ordinano l’arresto.
Con stoico rispetto per l’autorità, il generale non si oppone
benché i pochi soldati rimasti sarebbero prontissimi a
sollevarsi. La sua uccisione nei pressi di una chiesa di
Ravenna mette la parola fine all’Impero d’Occidente. Quanti
smaniano d’aggredirlo sanno che non ha più difese e che
non vale la pena di cercare un’intesa. Il più lesto è Alarico.
Mentre Onorio si guarda bene dall’abbandonare Ravenna, il
re dei visigoti penetra in Italia. Scopre che nessuno la
difende perché i ‘barbari’ che vi hanno fin lì provveduto se
la sono squagliata e gli italiani di tutto hanno voglia tranne
che d’impugnare una spada. Alarico si accontenterebbe di
un ‘posto’ a corte, di un insediamento stabile per i suoi.
Onorio però s’intende soltanto di polli e niente sa e ha
imparato di politica. È ancora convinto di comandare e che
ai federati basti far sentire la voce di un romano per
impaurirli. Rifiuta le numerose offerte di Alarico, quasi lo
spinge verso Roma. La prima volta Alarico trattiene
l’esercito fuori dalle mura, preferisce trattare. Il suo prezzo
sono 5.000 libbre d’oro, 30.000 d’argento, 3.000 di pepe e
4.000 tuniche di seta: anche i gusti e i costumi dei barbari si
sono evoluti. La seconda lo porta dentro con grande stupore
dei contemporanei e dei suoi stessi soldati cresciuti nel mito
dell’imbattibilità di Roma. È il 410, una data che farà epoca
più per la caduta della città che per il presunto ‘sacco’. La
preda più eclatante, più ancora dell’oro, dell’argento, dei
gioielli, è la bellissima Galla Placidia, figlia di Teodosio,
sorellastra di Onorio e di Arcadio. Alarico se la porta
appresso fino in Calabria, dove muore durante i preparativi
di una spedizione in Africa.
Alarico ha dimostrato che Roma è alla portata di ogni
esercito. L’Urbe ha seguito la stessa parabola delle città
greche. Per i ricchi è il posto migliore dove vivere, per i
poveracci, la stragrande maggioranza, è una Caienna.
Lusso, raffinatezza, cultura – si parla il latino più classico
che sia mai uscito dalla bocca di un romano – passatempi
esclusivi vanno a braccetto con corruzione, crudeltà,
miseria. La plebe continua a richiedere panem et circenses,
sebbene il panino lo pretenda imbottito con la porchetta e i
giochi nel Circo siano vietati per evitare ignobili carneficine.
Il resoconto dell’ultima esibizione di gladiatori, che erano
prigionieri sassoni, racconta che i morituri pur di non usare
la spada preferirono strangolarsi a mani nude. E l’edificante
spettacolino era costato alcuni miliardi. Gli esponenti
dell’aristocrazia e quelli del proletariato sono ormai
insensibili a ogni interesse politico, a ogni palpito. Chiedono
soltanto di sopravvivere, non più di vivere.
11. La provincia Italia

Galla Placidia è la protagonista di questi anni tormentati.


Nelle peregrinazioni al seguito dei visigoti, ha conosciuto il
fratello di Alarico, Ataulfo: ne è nata una storia d’amore.
Onorio l’osteggia fino al giorno in cui l’armata di Ataulfo
sconfigge in Francia l’ennesimo usurpatore, che mira al suo
trono. Il matrimonio tra i due innamorati corona in fondo il
sogno di Teodosio, di Stilicone, dello stesso Alarico di
giungere a un’integrazione fra latini e tedeschi. Come tutte
le belle storie, dura poco. Ataulfo muore in Spagna mentre
tenta di mettere ordine tra svevi, alemanni e vandali. Cade
vittima di un attentato, Ravenna perde un fedele amico.
Dopo alcune vicissitudini, Galla torna a casa e trova un
secondo marito già pronto: è Flavio Costanzo, il miglior
generale di Onorio, l’ultimo romano a comandare l’esercito.
Da quest’unione nasce Valentiniano III. Nel 425 diventa
imperatore, ma ha sette anni, dunque la vera imperatrice è
sua madre. Galla viene descritta come una donna di
carattere, di sani principi. Purtroppo poco sa e ancor meno
le importa della politica. L’attraggono le dispute spirituali, la
difesa accanita dell’ortodossia cattolica, più che la difesa del
territorio esposto alle incursioni dei franchi, dei vandali,
degli alemanni. Per tali incombenze si affida a un
fedelissimo del fratello, Bonifacio, valido uomo d’armi e
singolare corrispondente di Agostino, rientrato in Algeria
come vescovo d’Ippona a far opera di proselitismo tra i
donatisti e i seguaci di altre eresie. Attraverso queste lettere
Bonifacio scopre di condividere la visione religiosa di
Agostino e lo raggiunge. Per l’occasione gli viene
confezionato su misura il titolo di conte d’Africa, che si
assomma a quello di vir spectabilis (uomo di rispetto), una
sorta di factotum di corte.
Partito Bonifacio, crescono a Ravenna le quotazioni di
Ezio, un comandante barbaro ambizioso e spregiudicato,
come vogliono i tempi. Anche Ezio diventa vir spectabilis.
Tuttavia due ‘uomini di rispetto’ sono troppi anche per un
ambiente pronto a qualsiasi arrangiamento come lo sono
Ravenna e il suo giro imperiale. Scoppia una sorda rivalità a
distanza, intessuta di ossequio e riverenze. Gl’intrighi di Ezio
hanno la meglio. Bonifacio si sente abbandonato: si rivolge
a Genserico. Lo invita in Africa assieme ai suoi vandali, ai
quali la Spagna va stretta. È un tale voltafaccia che la
stessa Galla abbandona il suo empireo e cerca di riprendere
in mano i fili dell’imbrogliata vicenda. Appura che Bonifacio
è più vittima che traditore, lo sollecita a salvare i
possedimenti africani, ma è troppo tardi. Genserico è ormai
imbattibile. L’assedio d’Ippona da parte dei vandali è
l’emblema del vecchio che cede il passo al nuovo. Qui
muore (430) Agostino. L’eccelso professore di retorica,
l’accanito difensore dell’ortodossia si sacrifica per una
causa, la romanità, che sa persa. È stato uno dei primi a
cogliere nel sacco di Roma i segni di una crisi irreversibile.
Allora ha scritto il suo capolavoro, La città di Dio
contrapposta al fallimento della città degli uomini. Eppure
Agostino rimane al suo posto fino in fondo. Non così
Bonifacio: riesce a salire sull’ultima nave per Ravenna, dove
l’aspetta una miniguerra civile con Ezio, dalla quale uscirà
sconfitto.
Alla caduta d’Ippona esultano i donatisti. Avevano accolto
i vandali, ariani, alla stregua di liberatori nel comune segno
dell’opposizione a Roma e alla sua Chiesa. Neanche loro se
la passeranno tanto bene. Cinque anni dopo Ravenna
riconosce a Genserico il possesso di questa fetta d’Africa,
sebbene le sue navi partano proprio da qui per saccheggiare
la Sicilia. Nel 442 Genserico baratta la Mauritania (Marocco)
e la Numidia (Algeria) con l’Africa proconsolare (Tunisia).
V’instaura la prima società feudale. La compongono due
sole classi: i vandali, esentati da ogni lavoro e titolari di ogni
diritto, e gli altri, antesignani dei servi della gleba (zolla di
terra, in latino), tenuti a lavorare e a morire in silenzio.
Genserico rimane un nemico dichiarato di Ravenna, appena
può si riprende Mauritania e Numidia. In Europa, invece,
alcuni popoli accettano il simbolico riconoscimento delle loro
conquiste offerto da Valentiniano III. Ma dietro le apparenze
e i rituali, si smembra l’Impero d’Occidente. Al suo posto si
vanno formando i nuclei di alcune nazioni. In Gallia viene
riconosciuto il regno dei visigoti con i burgundi signori della
Savoia; in Spagna s’insediano gli ostrogoti mischiati agli
svevi; nella Britannia gli angli e i sassoni. Un caso a parte
rappresenta l’Irlanda, mai invasa dai romani, ma talmente
pervasa dalla cultura romano-cristiana da costituire nei
secoli bui il caposaldo della cattolicità, la salvaguardia di
gran parte della cultura antica. Un autentico miracolo reso
possibile dall’indefessa opera di copiatura dei manoscritti da
parte dei monaci. Tanto fervore è suscitato da un inglese
romanizzato, Patricius. Sedicenne, nel 401, l’anno in cui
Agostino pubblicava un altro suo libro fondamentale, Le
confessioni, era stato catturato da pirati irlandesi e condotto
nella loro isola. In lunghi e duri anni di prigionia e di lavoro si
è avvicinato alla religione. Quando è finalmente riuscito a
tornare in Britannia ha scelto il sacerdozio. Nel 431 è
sbarcato da vescovo in Irlanda: per trent’anni ne sarà guida
spirituale. Dopo la morte diverrà il santo protettore
dell’Irlanda e degli irlandesi sparsi per il mondo e uno dei
santi più venerati della cattolicità.
In Ungheria dominano gli unni. Probabilmente hanno
origine mongola, forse vi sono arrivati dopo esser stati
cacciati dalla Cina. Sono piccoli, tozzi, dai lineamenti
marcati, di colorito giallognolo. Vivono in simbiosi con i loro
cavalli. Non piacciono neppure agli altri barbari benché
pratichino le stesse usanze di caccia, razzia, nomadismo.
Sono fermi da una settantina d’anni; pochi ormai ricordano il
passaggio del Volga, che li ha condotti nelle pianure
magiare. Il ceppo originario si è mescolato con i popoli vinti,
in gran parte di origine tedesca. Ne è venuto fuori un frutto
misto di colori e stature, un po’ come succederà ai siciliani.
Dal 444 il re è Attila, vuol dire piccolo padre: da subito è un
appellativo che non porta bene ai figli, esposti alle sue
bizze. Attila stabilisce con l’Impero d’Oriente un modus
vivendi, che gli consente di taglieggiarlo a piacimento. Nel
447 per richiedere un adeguamento va fin sotto le mura di
Costantinopoli: Teodosio II gli triplica il tributo. Tuttavia la
morte dell’accomodante imperatore e un irrigidimento della
corte bizantina lo inducono a volgere lo sguardo verso
Occidente. Non che Attila abbia bisogno di pretesti per
muovere le sue schiere, ma in questo caso vanta una
presunta offerta di nozze da parte di Onoria, la sorella di
Valentiniano III. Costui, però, inorridisce all’idea di vederla
moglie di un marito che non si lava, che vive in una capanna
circondata da una palizzata, che della poligamia fa un
costume oltre che un vanto. E dunque, nonostante sia stata
Onoria a far giungere un anello ad Attila come promessa di
matrimonio, non se ne fa nulla. Tale rifiuto può essere al
massimo la scusa di una migrazione, che è nei geni degli
unni e viene dettata dal bisogno di reperire spazi adeguati
alla crescita della nazione. Quella che si mette in
movimento verso la Gallia, considerata la terra promessa
dell’epoca, è una massa di oltre settecentomila persone,
dove i combattenti sono sì e no un decimoe di questo gli
unni formano la temutissima cavalleria. I fanti provengono
dalle tribù germaniche spazzate via durante l’avanzata del
secolo precedente e sono cugini alla lontana di quelli che si
stanno azzuffando da un bel po’ di anni per accaparrarsi le
fette migliori del suolo francese. Intendiamoci,
nominalmente la Gallia appartiene ancora all’Impero
d’Occidente, ma è un’appartenenza che si riduce a qualche
guarnigione e a qualche rappresentante amministrativo. I
prefetti e i governatori di Ravenna svolgono, quando la
svolgono, una funzione culturale, come insegnare il latino e
tutto quel che ne consegue agli occupanti, ma sono tagliati
fuori dai giochi.
L’incombere di Attila costringe le tribù barbare a
sospendere momentaneamente le loro ostilità e l’Impero a
cercare un abboccamento con esse. Teodorico, re dei
visigoti, e Valentiniano stipulano un’alleanza nella quale
l’uno non si fida dell’altro, ma l’uno reputa l’altro meno
pericoloso del ‘pericolo giallo’ rappresentato dagli unni. Per
Attila è già una sconfitta diplomatica in quanto le sue
profferte d’amicizia sono state respinte. Quella militare
matura nella cruentissima mischia ai Campi Catalauni
presso Troyes (451). Sotto le insegne romane del
generalissimo Ezio combattono visigoti, ostrogoti, burgundi,
franchi, alemanni. Non stupitevi per simile mescolanza: tra
le file di Attila prega Dio per la sua vittoria il vescovo di
Troyes, Lupo. Ha ottenuto la salvezza della sua città a patto
d’impetrare dal Padreterno un miracolo a favore del pagano.
Che, però, non viene. Sul campo rimangono circa 170.000
caduti, tra i quali lo stesso Teodorico. Attila è respinto, ma
non battuto. L’Europa è salva, l’Italia un po’ meno.
Attila, infatti, si riprende presto dalla sconfitta. L’anno
seguente punta sulla Penisola. L’unico ostacolo militare che
gli si para innanzi è Aquileia. L’ex colonia fondata alla foce
dell’Isonzo nell’Adriatico è diventata la città più cosmopolita
della Penisola. Vi abitano italiani, tedeschi, galli celti e
profughi di tutti i popoli sconfitti nei secoli. Aquileia è
l’esempio più bello della pacifica convivenza tra uomini e
donne di origine diversa, accomunati dal desiderio di
progredire assieme in pace. L’opulenza raggiunta da
Aquileia è testimoniata dalla magnifica cinta di mura
edificata dai cittadini a spese proprie e che ha procurato alla
città il soprannome di fortezza vergine perché nessun
nemico l’ha mai conquistata. Attila vi sbatte la testa per
mesi, le cronache raccontano che era sul punto di ritirarsi,
ma poi la superstizione lo induce a un estremo assalto,
purtroppo per Aquileia vincente. Di essa non rimangono
neppure le pietre. L’esempio di Roma con Cartagine ha fatto
scuola. I pochissimi sopravvissuti si rifugiano nelle isolette
della Laguna. Lo ignorano, ma danno il la alla fondazione di
quella che diverrà Venezia. Sono talmente scioccati da ciò
che hanno subito, talmente terrorizzati dal possibile ritorno
di colui che viene ormai definito il flagello di Dio da ridurre
al minimo i contatti con il resto del mondo. Per anni la loro
presenza su quei lembi di terra asciutta in mezzo al mare
costituirà più una leggenda che una certezza.
La marea unna raggiunge Milano. Attila s’insedia nel
palazzo in cui Costantino ha firmato il famoso editto. Non si
muove per settimane e settimane pur non avendo più
ostacoli sulla strada. Valentiniano, orfano di Galla, ha
abbandonato Ravenna, si è trasferito con Ezio a Roma,
medita, addirittura, di fuggire dall’Italia. Che cosa blocchi
Attila è un mistero. Ogni motivo è buono, anche il ricordo
della cattiva sorte di Alarico dopo l’ingresso a Roma. A
smuoverlo è la notizia che si sta avvicinando una singolare
ambasceria, guidata da un uomo interamente vestito di
bianco. È il pontefice Leone I, un’altra formidabile tempra di
cattolico, la cui autorità morale è cresciuta sullo
sbriciolamento dell’autorità civile. Sulle rive del Mincio
avviene un evento prodigioso. Il comandante dell’esercito
più potente incontra il capo di una religione a lui
sconosciuta e accetta di fare marcia indietro. Forse Attila
sente avvicinarsi la fine e non osa sfidare quel vecchio
indomito, che lo minaccia di castighi ultraterreni pur avendo
dietro di sé solo uomini disarmati. L’anno dopo, in effetti,
Attila muore la notte in cui festeggia l’ennesimo matrimonio.
Con lui nel volgere di pochi anni spariscono un regno e un
popolo che parevano destinati a ben altro futuro. La sua
dipartita è una rovina anche per Ezio, ucciso dalla spada di
Valentiniano, il quale ritiene di non aver più bisogno
dell’invadente comandante in capo. L’imperatore spera di
restaurare il potere e il prestigio del casato, ma i suoi sogni
vengono spezzati dai pugnali di due ex soldati di Ezio: lo
ammazzano mentre cavalca al Campo Marzio. Roma, che ha
digerito l’eliminazione dell’unico generale in grado di
difenderla, digerisce pure quella dell’imperatore. Anzi rialza
la testa il Senato. Dopo decenni di muta e servizievole
presenza, prova a riappropriarsi degli antichi privilegi. Il suo
numero uno, Petronio Massimo, assume l’Impero per sé e
per il figlio Palladio. Insegue una legittimazione nel
matrimonio forzoso con la vedova di Valentiniano, Eudossia.
Ma questa, giovane, bella e corteggiata, non vuole saperne.
Per sfuggire all’unione con l’anziano Massimo, invoca
l’intervento di Genserico, cui non pare vero di proporsi come
il vendicatore del defunto imperatore.

Il comandante dell’esercito più potente incontra il capo di una religione


a lui sconosciuta e accetta di fare marcia indietro.

Il signore dei vandali possiede un’ottima flotta, grazie


alla quale ha aggiunto Corsica e Sardegna ai possedimenti
africani, dove i cattolici subiscono una sistematica
persecuzione. Ora la usa per sbarcare sulle coste italiane.
Prima ancora che le navi di Genserico attracchino a Ostia,
Petronio Massimo è impiccato dalla sua stessa guardia
d’onore. Così a ricevere l’invasore e a intavolare una
trattativa per evitare il peggio non rimane che Leone I. Ma
Genserico non è Attila, non ha i dubbi e le lune dell’unno. È
un ignorantone avido, astuto, fiducioso soltanto nel proprio
istinto. Il pontefice ottiene il minimo, la salvaguardia della
città e delle abitazioni, in cambio di un saccheggio
regolamentato (455 d.C.) In due settimane di furti e di
rapine, i vandali danno al loro nome il significato che
conosciamo. Depredano Roma di tutto ciò che riescono a
portar via e a caricare sulle navi. Nel novero sono inclusi
Eudossia, le due figlie, migliaia di artigiani, ingegneri,
architetti. In Africa lavoreranno, da schiavi, per accrescere la
potenza del nuovo signore.
Il vuoto creatosi sul trono imperiale spinge Teodorico II, re
dei visigoti, a favorire l’elezione di un vecchio amico, Avito,
discendente da antica famiglia, e che nelle Gallie ha
ricoperto importanti cariche pubbliche. Roma scopre di
avere un nuovo imperatore quando Avito si presenta alle
porte e s’informa sulla via più breve per raggiungere il
Campidoglio. Uno più, uno meno, che differenza fa? Molto
più preoccupante per i romani la notizia che Genserico ha
ordinato alla flotta di salpare per la seconda volta verso
l’Italia. Avito affida le sue navi al conte Ricimero, l’ennesimo
comandante barbaro. Nei pressi della Corsica le triremi
vandale sono accerchiate e affondate. Lo scampato pericolo
induce l’Urbe a tributare un fantasmagorico trionfo al
vincitore. Questi depone Avito nominandolo vescovo. Al suo
posto colloca un ex ufficiale di Ezio, Maggioriano. Per sé
Ricimero si ritaglia il titolo di patrizio, cioè di grande elettore
del monarca.
Per oltre tre lustri Ricimero è il deus ex machina. Fa e
disfa imperatori secondo il proprio capriccio: Maggioriano,
Libio Severo, Antemio, Olibrio sono volti senza anima.
L’Impero è una pura parvenza, l’Italia sempre più terra di
conquista. Le navi di Genserico continuano ad angariare il
Meridione: i vandali devastano la Sicilia fornendo nuove
prove della cattiva fama che li precede. Nel 472, alla morte
di Ricimero, il patrizio da lui prescelto, Gundobando, designa
Glicerio. La sua eccessiva cedevolezza nei confronti del re
ostrogoto Teodemiro, venuto a batter cassa, induce
Costantinopoli ad appoggiare un proprio candidato, Giulio
Nepote, signore dellaDalmazia. Ma Giulio prima consegna
l’Alvernia ai visigoti, poi compra il favore di Genserico alla
propria nomina. Il suo assenso costa la cessione di Sicilia e
Baleari.
L’Impero d’Occidente è ridotto alla povera e depredata
Penisola. Le casse sono vuote. Giulio Nepote ordina a
Oreste, il patrizio del momento, di combattere i visigoti di
Gallia. Ma i soldati, da mesi senza paga, si ribellano. Oreste
ne assume la guida e nomina imperatore il figliuolo Romolo
Augustolo (piccolo Augusto). Il vero imperatore, quello
d’Oriente, Zenone però non lo riconosce. Le stesse milizie
sono divise. Il capo degli eruli, Odoacre, chiede un terzo del
territorio in cambio del proprio sostegno. In seguito al rifiuto
di Oreste, lo attacca a Pavia e lo ammazza. Romolo
Augustolo viene confinato a Castel dell’Ovo a Napoli. Siamo
nel 476, considerato per tradizione l’inizio del Medioevo. La
storia di Roma finisce con gli stessi nomi con cui era
incominciata e si era ingigantita. Ma i nomi da soli non
significano alcunché.
Odoacre chiarisce subito di non nutrire mire particolari.
Invia a Zenone le insegne dell’Impero, gli chiede di poter
governare l’Italia con la qualifica di patrizio. Zenone gliela
riconosce con molte difficoltà dopo qualche tempo. Gli eruli
si prendono il terzo di terre, che rappresentava il loro
obiettivo, togliendolo ai proprietari romani. In cambio
assicurano un minimo di tranquillità agli italiani estenuati
dalle infinite dispute e guerricciole, delle quali sono stati
spettatori passivi e spesso vittime. All’apparenza è cambiato
soltanto il padrone. Le città conservano le terme, gli
spettacoli del circo, il foro, gli acquedotti, le chiese, ma sono
sempre più disabitate. Rimangono in vita pure le antiche
istituzioni, sono però etichette prive di qualsiasi contenuto.
Vessati dal fisco, i piccoli proprietari hanno venduto gli
appezzamenti ai latifondisti: o sono rimasti in qualità di
contadini, privi dei più elementari diritti, o sono andati a far
la fame nei centri abitati. Ma di questi soltanto Milano,
Torino, Ravenna e Pavia sviluppano un minimo di attività, il
resto langue al pari delle campagne, che nessuno lavora. Il
vistoso calo demografico fa avvertire più le braccia
mancanti che il minor numero di bocche da sfamare. Al
declino della città corrisponde il sorgere di piccoli borghi
attorno all’antica villa del latifondista, spesso un nobile.
L’insicurezza dei tempi, la mancanza di una qualsiasi
autorità inducono chi può a provvedersi di una personale
milizia, a circondare prima di palizzate, poi di muri l’ampio
caseggiato ospitante i padroni e la servitù. Prende forma il
castello, che diventa il rifugio di quanti lavorano nei dintorni.
In tanta desolazione il pontificato si afferma come l’unico
potere su cui l’Italia può fare affidamento. E dato che la sua
sede è Roma, essa ne vive di luce riflessa benché sia stata il
maggiore caposaldo della tradizione pagana, l’ultima a
cedere davanti al verbo di Dio. È con il quinto secolo che
l’adesione di Roma al cattolicesimo assume dimensioni di
massa. Si converte dapprima la plebe, poi seguono alcune
importanti famiglie senatorie come i Paolini e i Bassi. La
morte di Ambrogio (397) ha liberato i pontefici del tempo da
una figura ingombrante lasciando campo libero alla loro
azione. Innocenzo I è già un grande pontefice, ma il
protagonista indiscusso è quel Leone che blocca Attila, che
tratta con Genserico, che si sostituisce dove può all’Impero
in crisi. I suoi ventuno anni di pontificato (440-461)
suggellano la totale conversione dell’Italia. Leone, infatti,
appartiene alla nobiltà della Toscana, una regione seconda
soltanto a Roma nella difesa degli antichi dei pagani, prima
di rivolgersi anch’essa alla protezione del Signore in cielo
constatato che quelli in terra sono spariti.
Il Paese è diviso in un Nord già vagamente industriale e
in un Sud – comprendente, fino ai longobardi, anche la
Toscana – stretto a Roma e di scarsissime risorse, legate
all’agricoltura e all’allevamento. L’unità politico-geografica è
malmessa: Odoacre riesce a riprendere il controllo della
Sicilia, ma Sardegna e Corsica restano in mano ai vandali.
La signoria di Odoacre è un lento trascorrere di stagioni
finché alle frontiere non viene annunciato Teodorico. È il
nuovo re degli ostrogoti. Con alcune campagne fortunate ha
condotto il proprio popolo dalla Pannonia in Macedonia e in
Scizia sulle rive del mar Nero. Per l’Impero d’Oriente è una
spina nel fianco. L’imperatore Zenone gli ha proposto
d’annettersi l’Italia con l’intento di mettere un bel po’ di
chilometri tra lui e quel condottiero, che gli ha dato parecchi
grattacapi. Teodorico accoglie l’invito. In cinque anni, dal
488 al 493, abbatte la resistenza di Odoacre: per
sopprimerlo aspetta il banchetto di conciliazione, che segue
la firma dell’armistizio.
L’insicurezza dei tempi, la mancanza di una qualsiasi autorità inducono
chi può a provvedersi di una personale milizia, a circondare prima di
palizzate, poi di muri l’ampio caseggiato ospitante i padroni e la
servitù. Prende forma il castello, che diventa il rifugio di quanti
lavorano nei dintorni.

Nonostante l’entusiastica accoglienza riservata da Roma


a Teodorico (come vedete ha origini lontane la nostra
abitudine di acclamare quali liberatori gli stranieri che
c’invadono), quest’ennesima guerra ha dato il colpo di
grazia al Paese. Alla devastazione degli eserciti si sono
aggiunte pestilenze e carestie. Ma, per fortuna, Teodorico
dimostra di saperci fare pure con le leggi oltre che con la
spada.
12. L’impero della Chiesa

Teodorico lascia intatta la struttura amministrativa della


Penisola. Le nove regioni (Liguria, Lombardia, Veneto,
Toscana, Lazio, Campania, Lucania, Calabria, Sicilia)
rimangono divise in diciassette province, guidate da un
preside, che è anche il giudice e l’intendente di finanza. In
quelle di confine, dove bisogna far la guardia al regno,
s’installa un conte, cioè un generale ostrogoto, dotato di un
robusto contingente. Il governo risiede a Roma. È molto
ristretto. Comprende il ministro delle Poste (maestro degli
Uffici), il ministro delle Finanze (conte delle Largizioni) con
potestà anche sul commercio, il ministro della Corona (conte
degli Affari Privati), al quale è affidata la cura del registro
civile. Ci sono poi un questore – che funge da ministro per i
Rapporti con il Senato, cui Teodorico conserva le antiche
prerogative e il prefetto dell’Urbe, una sorta di
luogotenente, l’autorità civile più importante della Capitale.
A Ravenna, sede del re, opera il prefetto del Pretorio con
funzioni da ministro degli Interni e capo della compagine
governativa. Tutti costoro hanno il titolo di illustri e
percepiscono uno stipendio di circa cinquanta milioni attuali
al mese. Spesso sono funzionari di carriera, che hanno già
servito con Odoacre e vengono cooptati nel nuovo sistema.
All’inizio della scampagnata in Italia gli ostrogoti erano
circa 250.000, facendo rientrare nel conto vecchi, donne,
bambini. A conquista avvenuta non ne rimangono più di
200.000. Un numero esiguo per le necessità belliche, eppure
Teodorico continua a esentare gli italiani dalla leva. La
mobilitazione riguarda soltanto i suoi. Ognuno deve
provvedere all’equipaggiamento: corazza, elmo, scudo,
lancia, giavellotto, spada, pugnale, arco, frecce. I soldati
ricevono stipendio e vitto, che in realtà dev’essere
assicurato assieme all’alloggio dalle popolazioni locali.
Hanno il divieto di saccheggio e di stupro. Concluse le
operazioni militari, tornano a coltivare il podere, come
facevano i veterani di Roma, e così si mettono alle spalle il
nomadismo, che li aveva caratterizzati.
Nel 500 Teodorico avverte il bisogno di fissare in un
editto di centoquarantaquattro articoli le linee guida del
regno. Nei pochi anni trascorsi dal suo arrivo ha compreso il
valore della tradizione romana e a essa si rifà. Vengono
divise le competenze fra tribunali militari, presieduti dai
conti, e tribunali civili, presieduti da magistrati locali. È
anche il modo di tenere divisi i due popoli davanti alla
giustizia. Soltanto se litiga con un ostrogoto, un italiano
finisce al cospetto di un conte, il quale nell’occasione è
assistito da un magistrato di carriera. All’inizio i due popoli
tendono a vivere separati. A unirli sono le tasse. Le casse
dissanguate dell’erario producono un considerevole numero
d’imposte. Il pagamento avviene sempre in natura: olio,
grano, vino, bestiame. Il Paese è allo stremo, i suoi abitanti
necessitano di tutto. Teodorico si adopera per salvaguardare
dalla spoliazione gli antichi edifici pubblici, i teatri, i
monumenti. Poi, essendo un tipo pignolo, nomina un
sovrintendente alle cloache e una commissione di vigilanza
sui vespasiani.
La riforma agraria assegna un terzo delle terre agli
ostrogoti, i quali in pratica subentrano agli eruli. Di soldi ne
girano pochissimi, le ricchezze sono concentrate nelle mani
di qualche senatore e dei grandi esponenti della burocrazia.
Teodorico sa che i suoi sono ottimi guerrieri, ma
completamente a digiuno di amministrazione pubblica.
Quindi usa personale italiano. Sono quasi sempre esponenti
di antichi casati, cresciuti nei ranghi dell’imponente
apparato imperiale. Essendo anche detentori di cospicui
patrimoni hanno il tempo di dedicarsi alla cultura. Lo storico
di quest’epoca è Cassiodoro, figlio di un governatore, e lui
stesso questore, patrizio, console. I due intellettuali di punta
sono Simmaco e Boezio, ministri e collaboratori di Teodorico
fino al 523. In quell’anno il regno è sconvolto da una torbida
vicenda, in cui si mescolano invidie, gelosie, affari sporchi,
rivalità interne. Sullo sfondo la strisciante avversione della
Chiesa per un re, che da un lato ha convocato un concilio in
difesa del pontefice Simmaco ingiustamente accusato, ma
dall’altro ha privato il clero di parecchie immunità, anche
fiscali, e ha preteso che parroci e vescovi si dedicassero
esclusivamente alla cura delle anime. Insomma il potere
temporale acquisito dal clero con la decadenza dell’Impero
e mantenuto per tutto il quinto secolo viene cancellato dagli
ordinamenti di Teodorico e non perché questi, da ariano,
abbia rivincite da cogliere, ma nel nome di una divisione dei
compiti, che diventerà il vessillo delle moderne democrazie.
Proprio però perché ariano, Teodorico è malvisto
dall’imperatore d’Oriente, Giustino, cattolico. La sua ascesa
al trono sana il dissidio con la Chiesa di Roma sul
monofisismo (un’eresia che nega la doppia natura umana e
divina di Cristo) in rapida diffusione nel mondo orientale.
Giustino si atteggia a implacabile difensore dell’ortodossia:
fa sapere a Teodorico che ogni chiesa consacrata al culto di
Ario rappresenta un ostacolo nel mantenimento dei buoni
rapporti tra Ravenna e Bisanzio.
Il re prende quindi sul serio le accuse a un patrizio di aver
inviato a Giustino una lettera piena di calunnie nei suoi
confronti. Boezio difende il patrizio e rivolge l’indice contro il
suo accusatore. Nello stupore generale, Teodorico si rivolta
contro il ministro: lo deferisce al Senato per un processo che
fa epoca. Boezio è condannato a morte, la stessa pena
viene estesa a Simmaco, che lo ha appoggiato essendone
pure il suocero. Nell’anno di detenzione Boezio compone
un’opera, il De consolatione philosophiae, cui il Medioevo
tributerà un largo successo. La doppia esecuzione coincide
con l’editto di Giustino contro gli eretici e i manichei, esclusi
da ogni funzione. Ma un capoverso è dedicato all’Italia:
ordina la riconsacrazione delle chiese ariane al culto
cattolico. È il segnale di una crisi insanabile.
Teodorico ingiunge al pontefice Giovanni I di recarsi a
Bisanzio per far cancellare l’editto, o quanto meno la
disposizione riguardante l’Italia, e per strappare, addirittura,
il consenso imperiale alla riconversione all’arianesimo di
quanti si erano prima convertiti al cattolicesimo. Giovanni è
vecchio e malato. Per lui è già stata una fatica raggiungere
Ravenna, chiede di essere esentato dal lungo e travaglioso
viaggio. Teodorico è irremovibile, Giovanni si rassegna. Il
suo arrivo a Costantinopoli è un’apoteosi per lui e per ciò
che rappresenta: Giustino gli s’inginocchia davanti, imitato
da tutto il seguito. La città e la corte tributano immensi
onori, Giustino però non accetta di cambiare l’editto. Al
ritorno in Italia, Giovanni è accusato di tradimento,
incarcerato. Muore in prigione qualche mese prima di
Teodorico. Il re ha salvato l’integrità del proprio popolo
impedendo che venisse assorbito dai vinti, però il futuro gli
appare buio. Prima di chiudere gli occhi a Pavia, dove ha
trasferito la residenza, convoca i conti e la figlia
Amalasunta: a lei toccherà di reggere il regno fino alla
maggiore età del figlioletto Atalarico.
Il Mausoleo di Teodorico.

La permanenza in Italia ha fatto di Amalasunta una


donna colta. Ha studiato, parla latino e greco, legge i
classici, ama discorrere di filosofia. Il suo salotto è il più
ambito ed ella lo riempie di notabili. A differenza del padre,
non teme la commistione tra gli ostrogoti e gli italiani, anzi
si adopera per appianare le divergenze sorte dopo la messa
a morte di Boezio e Simmaco. Restituisce ai loro figli i beni
confiscati, promette al Senato di non violarne più le antiche
prerogative. Poi compie il gesto che dovrebbe sancire la
ritrovata armonia tra i due popoli della Penisola: sceglie un
precettore romano per Atalarico con l’intento di fare del
prossimo re un prodotto della civiltà latina. I disincantati
abitanti dell’Urbe rimangono freddi, gli ostrogoti, invece, lo
prendono come un affronto alle proprie tradizioni. I conti
cominciano una sorda opposizione nei confronti di
Amalasunta fino al punto di sottrarle Atalarico per educarlo
secondo i loro principi. L’educazione ostrogota mira a
temprare il soldato piuttosto che a preparare il politico. Le
prove di forza, di resistenza, di destrezza ne costituiscono la
base. Atalarico è stato allevato in ben altra, e più riposante,
maniera. Il suo fisico delicato risente subito degli sforzi ai
quali viene sottoposto. A diciotto anni, nel 535, la tisi lo
stronca.
Per riempire il trono, Amalasunta eleva a suo pari il
cugino Teodato. Lo ritiene in linea con le proprie idee perché
ha studiato filosofia a Roma e ha pure scritto un saggio su
Platone. Ma le belle letture non hanno indirizzato la sfrenata
ambizione di Teodato: per soldi e potere è disposto a tutto.
Quando Amalasunta se ne accorge, è troppo tardi. La sua
fuga a Costantinopoli viene bloccata. La imprigionano nella
torre sul lago di Bolsena. Una notte è strangolata nel sonno.
L’uccisione di colei che avrebbe desiderato essere la regina
di un sol popolo scava un solco tra ostrogoti e italiani. La
Chiesa risolleva la testa, trova una sponda nell’imperatore
succeduto a Giustino, il nipote Giustiniano, originario di
Skopje, in Macedonia, e figlio di un pecoraio.
Giustiniano è un asceta con la passione delle leggi. Dopo
un solo anno di regno ha tirato fuori il suo codice, destinato
a fama millenaria, in cui ne sono raccolte ben quattromila
cinquecento. A esso sono seguite le Pandette, summa delle
opinioni dei più grandi giuristi romani, e le Institutiones,
destinate agli studenti. Con il codice Giustiniano detta
regole su tutto a tutti nella certezza di avere dalla sua la
Santissima Trinità. Arriva a chiudere l’Accademia e il Liceo di
Atene perché ritiene quegli insegnamenti influenzati dal
paganesimo. La moglie Teodora è di simpatie monofisite, lui
invece è più intransigente dello zio. Non lo muove tanto il
richiamo della fede quanto il desiderio di trasformare il
cattolicesimo nel pilastro dell’Impero. Gli riconosce un
primato universale, sottoposto però al suo giudizio. Ne
favorisce i lasciti e le donazioni, ma proibisce al clero le
speculazioni finanziarie e lo obbliga a una condotta di vita
rigorosa. Nessuna indulgenza con gli eretici, per i quali sono
previste la pena capitale e la confisca dei beni.

Giustiniano.

E gli ostrogoti sono ariani, si sono rifiutati di ottemperare


all’editto di Giustino, hanno governato l’Italia in totale
autonomia. Giustiniano reputa l’assassinio di Amalasunta
l’occasione ideale per riaffermare l’autorità imperiale sulla
lontana provincia. Lui non è un guerriero però ha un
generale, il trentenne Belisario, che si è appena ricoperto di
gloria in Africa. Anche lì i vandali si comportavano da
padroni, il loro dominio durava da quasi un secolo. Con una
campagna lampo Belisario ne ha ottenuto la resa. Assieme a
Marocco, Algeria e Tunisia sono cadute la Corsica, la
Sardegna, le Baleari. Rimane la Penisola. Belisario sbarca in
Sicilia nell’autunno del 535. Ha un contingente ridotto,
ottomila soldati, ma gli bastano per conquistare le città
siciliane e superare lo stretto. Le guarnigioni ostrogote sono
poche e malviste dalla popolazione, che subito parteggia
per i bizantini, certa che la nuova invasione sarà migliore
della precedente. Neppure i saccheggi le fanno cambiare
idea.
La caduta di Napoli fa suonare l’allarme tra i conti.
Teodato, giudicato non all’altezza, viene sostituito da Vitige.
Il suo primo provvedimento consiste nel far arretrare le
truppe fino a Ravenna lasciando pochi uomini a presidiare
Roma. La conquista dell’Urbe da parte di Belisario è resa
ancora più facile dalla collaborazione della Chiesa. I cittadini
della Capitale non hanno però il tempo di abbandonarsi alle
consuete scene di esultanza. Vitige ha ordinato una leva
straordinaria, s’avvicina con un esercito di centomila soldati.
Gli ottomila scarsi di Belisario non avrebbero scampo se
anche i romani non contribuissero alla resistenza della città.
Va avanti per un anno. Una pestilenza e l’annuncio che da
Bisanzio sta giungendo un’altra armata inducono Vitige a
proporre una tregua, immediatamente accettata.
I rinforzi bizantini sono condotti dal gran ciambellano di
corte, Narsete. Ha più di sessant’anni, è digiuno di cose
militari. Eppure Giustiniano lo ha appaiato a Belisario nel
comando delle operazioni. Forse l’imperatore è preoccupato
dalla crescente popolarità di Belisario, forse è Teodora a
essere preoccupata dalla crescente popolarità dell’allegra
moglie di Belisario, in ogni caso la decisione ha effetti
deleteri sulla guerra. Narsete e Belisario si bloccano a
vicenda, gli ostrogoti ne approfittano per cogliere alcuni
successi. Espugnano Milano (539), la distruggono e passano
a fil di spada i trentamila abitanti. Provvidenziale è stato
l’aiuto ricevuto dai franchi, che così per la prima volta si
affacciano in Italia. I franchi dominano mezza Germania e
tre quarti della Francia, cui hanno dato il nome. Tra i barbari
sono gli unici a essere nominalmente cattolici avendo il re
Clodoveo (nipote di un certo Meroveo, dal quale discende la
dinastia dei Merovingi) guidato un battesimo generale nel
498 a Reims.
Giustiniano passa sopra alle fobie sue e della moglie:
restituisce il comando a Belisario. Gli effetti si vedono
subito. Con uno stratagemma il generale s’introduce a
Ravenna, cattura Vitige. La sua deportazione a Bisanzio
dovrebbe, nei giudizi dell’imperatore, chiudere la partita,
giacché se ne annuncia un’altra molto più inquietante sul
confine orientale: i persiani sono di nuovo in ebollizione. Ed
è lì che viene spedito Belisario. Re Baduila, detto Totila,
succeduto a Vitige, sfrutta l’apertura del nuovo fronte per
riorganizzare lo sbrindellato esercito ostrogoto. Poi con abile
mossa si rivolge ai servi della gleba, che vengono liberati e
danno ai conti quel po’ di favore popolare fin lì
completamente mancato. Così accanto alla guerra tra
ostrogoti e bizantini si accende una guerra sociale tra le
classi più umili, attratte dalla nuova politica di Totila, e
l’accoppiata latifondistiChiesa, che affida al successo degli
imperiali la salvezza dei propri possedimenti. Gli italiani in
lotta tra loro si appoggiano a due potenze straniere:
diventerà una costante della storia patria fino agli anni
recenti della Repubblica.
Per i bizantini la situazione volge al peggio: Giustiniano
rimanda in Italia Belisario. Ma stavolta il generalissimo si
deve accontentare di limitare i danni. La vittoria appare
lontana, la lunga guerra ha sfinito l’Impero e per di più
continua a distogliere mezzi e soldati dal fronte persiano.
Richiamato per la seconda volta Belisario in Oriente,
Giustiniano rispolvera l’ultrasettantenne Narsete con il
compito di chiudere in qualsiasi modo la questione italiana.
Il vegliardo stupisce tutti, forse anche se stesso, infliggendo
due dure sconfitte a Totila e al successore, Teia. Gli ostrogoti
sono alle corde (553). Chiedono soltanto di potersi
allontanare dalla Penisola con i tesori che hanno
accumulato. Narsete accetta. Dopo diciotto anni l’Italia è
pacificata, ma allo stremo. La disperata ricerca di cibo
comporta l’abbandono delle zone interne, lo spostamento di
considerevoli nuclei verso la costa. Per sopravvivere si torna
alla caccia, di animali però ne girano pochi. Le ghiande
diventano un surrogato del pane. Decimata dalle pestilenze,
la popolazione non supera i quattro milioni. Le campagne
sono devastate, la produzione ridotta al minimo per
mancanza di commercio. Non avendo a chi vendere, i
contadini coltivano soltanto ciò che serve a sfamare la
propria famiglia, ma al primo raccolto che salta si trovano
nell’indigenza e obbligati a cedere l’appezzamento al
latifondista, del quale diventano essi stessi proprietà con
moglie e figli. Assieme all’obbligo di versargli un terzo del
raccolto, ricevono tuttavia quella protezione militare che lo
Stato non riesce più a garantire. Non è una generosità
disinteressata. Il signorotto ha tutto l’interesse a difendere
una manodopera, che è il bene più prezioso in un paese
spopolato.
Le città si sono accartocciate, la stessa Roma tocca
appena i 40.000 abitanti. Molti dei monumenti, dei palazzi,
delle opere dell’età imperiale sono lesionati o addirittura in
rovina. Gli artigiani, i mastri, i tecnici, che ne avevano reso
possibile la grande fioritura tra il primo e il quarto secolo,
sono spariti. La crisi economica cominciata nel quinto secolo
ha fatto mancare le commesse. Tanti mestieri all’improvviso
sono apparsi superflui, di conseguenza non hanno più avuto
praticanti. I centri urbani si ritrovano abbandonati a se
stessi, il principale assillo di chi ci vive non è di curarsi del
passato, bensì di alzare muri contro i mille nemici esterni. È
sparita ogni traccia di vita sociale, di classe dirigente, di ceti
dominanti. Spesso l’unico punto di riferimento diventa il
vescovo. Nel turbinio di padroni che fino all’anno Mille si
alterneranno in Italia, egli rimarrà sempre al suo posto e
questo lo porterà ad assumere responsabilità anche civili. La
cattedrale si trasforma nel polo attorno al quale gravita la
vita cittadina. Lì si riceve il battesimo, lì ci si sposa e ci si
congeda dalla vita mentre sul sagrato ci si riunisce per le
feste, per le fiere, per i processi. E quando bisogna
spostarsi, quando bisogna affrontare lunghi viaggi, l’unico
rifugio è il monastero, dove si ricevono un piatto di minestra
e un letto. In quegli anni le sole costruzioni che sorgono
nella Penisola sono i monasteri e le abbazie.
L’iniziatore del monachesimo (dal greco, vivere solitario)
in Occidente è stato Benedetto, che con la sua esistenza
ascetica svolge una fondamentale propaganda. A lui si deve
la principale comunità religiosa dell’epoca e un motto che
ha scavalcato i secoli e ancor oggi racchiude l’essenza dello
spiritualismo: ora et labora (prega e lavora). L’abbazia di
Montecassino è la culla del pensiero e dell’opera di
Benedetto. In Italia i conventi e i monaci rappresentano la
salvezza sia della cultura classica, i cui capolavori trovano
nelle loro biblioteche scampo alla distruzione, sia dei poveri,
che vi rimediano sempre un pasto e un giaciglio. In pochi
anni i monasteri diventano l’unico baluardo contro la
violenza, la carestia, le pestilenze. In cambio
dell’accoglienza, i contadini offrono le braccia per lavorare
gli appezzamenti lasciati in eredità da quanti sperano in
questo modo di salvare l’anima. Ben presto gli abati,
abbastanza indipendenti da Roma, restano i soli a
contrastare il potere dei signorotti locali, bizantini o
ostrogoti che siano, e spesso li sovrastano. Purtroppo
finiscono con il mutuarne alcuni difetti.
La supremazia della Chiesa riceve un riconoscimento nel
554 dalla Prammatica Sanzione emanata da Giustiniano e
con la quale si concede una larga autonomia ai vescovi
italiani. A essi vengono ufficialmente affidate molte
responsabilità amministrative, le quali sottintendono
un’accentuata indipendenza da Costantinopoli. È la stessa di
cui gode Narsete.
Ne fa però un uso così maldestro da indurre alcuni
romani a scrivere all’imperatore chiedendo un rimedio
contro il suo luogotenente, che li tratta peggio degli schiavi.
Sul trono di Bisanzio non siede più Giustiniano, morto nel
565, ma Giustino II, il quale non vede l’ora di sbarazzarsi dei
personaggi del precedente regime e ordina
all’ottantacinquenne dignitario di togliere le tende per far
posto al prefetto Longino.
La deposizione di Narsete coincide con l’ingresso in Italia
dei longobardi e tale concomitanza ha fatto sospettare che
possa esser stato il vendicativo vicerè a solleticare le mire
della tribù più barbara mai affacciatasi dalle Alpi. I
longobardi, che devono il nome all’impiego di una lunga
ascia (la barda), sono originari della Svezia meridionale.
Sbarcati in continente nel terzo secolo avanti Cristo, hanno
seguito la consueta trafila toccando prima il mar Nero e poi,
sotto la spinta della marea unna, la Pannonia. Si sono
convertiti per convenienza all’arianesimo, ma lo utilizzano
quale paravento per il saccheggio e le stragi indiscriminate.
Gli sporadici contatti con la civiltà imperiale non hanno
influito sui loro costumi di nomadi. Hanno una cultura
poverissima racchiusa nelle saghe, il racconto orale di
leggende che si tramandano di padre in figlio. Vivono di ciò
che catturano, sono refrattari a qualsiasi norma, il loro
concetto di giustizia risiede nella faida (vendetta privata). I
loro capi sono i duchi, la cui assemblea sceglie il re. È
Alboino quello che li conduce in Italia nel 568 attraverso le
Alpi Giulie.
Immaginate quali apprensioni deve aver creato questa
sterminata carovana di circa trecentomila persone,
preceduta dalle greggi che aprono la strada e chiusa da
villosi e muscolosi uomini a cavallo con i lunghissimi capelli
biondi. I longobardi non incontrano resistenza. Occupano il
Veneto tranne le isole della Laguna. Si dirigono in Liguria,
poi ritornano sui propri passi per espugnare Milano. La città
capitola nel settembre del 569. Alboino s’incorona signore di
un’Italia devastata dall’ennesima pestilenza, cui segue una
carestia più micidiale delle altre perché non c’è nessuno che
mieta il grano, che governi il bestiame, che raccolga la
frutta dagli alberi. Le truppe di Longino assistono da
Ravenna alla capitolazione di tutto il Nord. Due anni più
tardi i longobardi superano gli Appennini, conquistano la
Toscana, Spoleto, Benevento. La caduta di Pavia e di
Mantova nel 572 ne sancisce il dominio, ma la loro allergia
al mare lascia ai bizantini Ravenna, le isole, una parte di
Calabria e di Puglia, la nascente Venezia, la cosiddetta
Pentapoli (Ancona, Fano, Pesaro, Rimini e Senigallia) e poi il
territorio di Roma, Perugia, Modena, Piacenza, Cremona,
Padova.
Tra i due contendenti si stabilisce una pace armata.
Longino punta sui sotterfugi e sugli agenti segreti per
seminare l’odio tra i longobardi. Probabilmente ha buon
gioco con la moglie di Alboino, Rosmunda, costretta durante
i banchetti ufficiali a bere nel teschio del padre, re dei
gepidi, ucciso in Ungheria. Rosmunda avvelena il marito,
fugge a Ravenna con l’amante, un certo Elmichi, e con gran
parte del tesoro. Usando lo stesso sistema tenta di
sbarazzarsi anche dell’amico, per sposare magari Longino,
ma ne viene uccisa. Ad Alboino succede Clefi, che si vendica
delle manovre bizantine annettendosi l’Emilia e parte
dell’Umbria. Dura due anni, prima di cadere vittima di una
congiura, la cui matrice stavolta dovrebbe essere interna: i
duchi non sopportano a lungo colui che eleggono re. Nel 574
durante l’assise generale di Pavia l’accordo non viene
proprio raggiunto: nasce una confederazione nella quale
svettano il duca di Pavia, quello del Friuli, quello di
Benevento e quello di Spoleto. Per dare subito un segno
della loro superiorità, costoro aggiungono l’aggettivo
gloriosissimus al sostantivo dux.
Al di là degli aggettivi, ciascuno continua a perseguire
una personale politica di espansione. Eliminato ciò che resta
delle antiche dinastie romane, il duca di Benevento e il duca
di Spoleto assediano Roma nel 578. Il pontefice Pelagio deve
sborsare tremila libbre d’oro per convincere i due a togliere
il disturbo. Da Ravenna l’esercito bizantino non ha mosso un
passo sebbene Longino sia stato sostituito da Smaragdo e
l’imperatore, per indurlo a darsi una smossa, lo abbia
insignito del titolo di esarca e gli abbia conferito pieni poteri
in ogni campo, persino in quello religioso: può infatti
convalidare o annullare l’elezione del pontefice da parte del
clero e del popolo romani. Sono sempre i soldi promessi da
Pelagio, cinquantamila monete d’oro, a convincere
Childeberto re dei franchi a portare un’armata in Italia. Sotto
tale minaccia i duchi superano gelosie e invidie: assegnano
la corona di re ad Autari, figlio di Clefi. Il sovrano se ne
mostra degno. Blocca l’invasione dei franchi, che ritornano
oltre le Alpi mantenendo soltanto il controllo di Aosta e
Susa, allarga il territorio settentrionale con una fetta di
montagne e, infine, conquista la Calabria.
I longobardi sono allo zenith, non la disastrata Italia, per
la quale piove letteralmente sul bagnato. Un diluvio la
sommerge. Vengono distrutti villaggi e coltivazioni. I
principali fiumi straripano, il Tevere inonda i quartieri bassi
di Roma. All’acqua segue la peste di cui è vittima anche
Pelagio: per la Chiesa non è una perdita grave. Gli subentra
Gregorio, che passerà allo Storia con l’appellativo di Magno.
È nato nel 540 da una ricca famiglia patrizia, ha studiato
nelle migliori scuole, si è laureato in grammatica e in
retorica, ha compiuto una prestigiosa carriera
nell’amministrazione pubblica fino a diventare praefectus
urbis. A poco più di trent’anni ha abbandonato gli agi e i
lustrini per intraprendere la carriera ecclesiastica. I maligni
sostengono che a spingerlo sia stata l’ambizione più che la
fede. Comunque Gregorio distribuisce ai poveri un terzo
dell’enorme patrimonio ereditato dai genitori, finanzia la
fondazione di sei monasteri e adibisce a convento il palazzo
avito sul Celio. Qui nel 578 lo raggiunge la nomina del
pontefice Benedetto a settimo diacono, deve cioè distribuire
le elemosine. Dopo sei anni in qualità di nunzio apostolico a
Costantinopoli, torna a Roma in posizione critica nei
confronti della politica curiale di netta contrapposizione ai
longobardi. Se ne rimane sul Celio finché la morte di Pelagio
non libera il soglio.
All’apparenza Gregorio vorrebbe scansare la nomina, ma
ci pare che il personaggio fosse troppo determinato ad agire
per rinunciare all’unica carica che desse potere reale a un
italiano. I suoi atti iniziali sono di grande valenza. Guida un
corteo fino al Mausoleo di Adriano per implorare la fine della
pestilenza. Il buon Dio l’accontenta e il Mausoleo cambia
nome in Castel Sant’Angelo per ricordare l’angelo
anticipatore del miracolo. Subito dopo Gregorio si dà a
cercare un’intesa con i longobardi. Sul trono siede una
regina cattolica, Teodolinda, sposa nel 590 di Autari e un
anno dopo, alla sua scomparsa, di Agilulfo, il duca di Torino,
che estenderà il dominio del casato a Padova, Mantova,
Cremona, Camerino, Perugia. Teodolinda e Agilulfo sono
sensibili alle aperture di Gregorio, tuttavia nemmeno loro
possono bloccare le iniziative dei duchi. Il tentativo di Autari
di limitarli con la designazione dei gastaldi, prefetti reali
incaricati di sovrintendere all’amministrazione, non ha
funzionato. In special modo da Roma in giù l’autorità dei
duchi è immensa. Quello di Spoleto, Ariulfo, nel 592
espugna Napoli e mette a repentaglio la zona più
importante del dominio bizantino.
Gregorio intavola subito trattative per scongiurare il
pericolo di un’altra guerra. Qualcosa, però, va storto: Ariulfo
marcia su Roma. Gregorio invoca la mobilitazione generale.
È la guerra. Le truppe del duca di Spoleto radono al suolo
villaggi e chiese in Toscana e in Emilia. Gregorio accetta di
comprare la salvezza di Roma. Il conto è esoso, ma la
Chiesa è il massimo proprietario terriero d’Italia. Le
donazioni hanno ingrandito i suoi possedimenti, Gregorio vi
ha posto ordine sostituendo il personale civile con quello
ecclesiastico e disciplinando l’uso delle ingenti risorse. Sono
state aumentate le elargizioni ai bisognosi, versato un
regolare stipendio alle monache, distribuito il pranzo a
domicilio ai malati e ai poveri, garantito il vitto ai nobili
decaduti. Ci sono benefici pure per gli ebrei se abiurano. È
in virtù di questo vasto interventismo sociale che il
pontefice è diventato il signore di Roma, in grado di dare
ordini al Senato e di arruolare e armare la milizia. Ecco
perché è lui a trattare con Ariulfo e a soddisfare le sue
pretese. Siamo nel 595: dall’altra parte del globo, in India,
comincia a essere impiegato quel sistema numerico, il
decimale posizionale, che avrebbe conquistato il pianeta e
che noi usiamo ancora oggi.
Gregorio vorrebbe estendere l’accordo con Ariulfo agli
altri duchi e coinvolgere anche il viceré bizantino. Deve
aspettare la morte dell’esarca romano, che arroccato a
Ravenna non vuole saperne di negoziati. I colloqui
preliminari sfociano nella pace del 599. L’Italia viene divisa
in tre zone d’influenza: quella longobarda, quella pontificia,
quella bizantina. Ce n’è di che intonare in ogni chiesa i canti
gregoriani. L’instancabile pontefice ha difatti trovato il
tempo di comporre quei brani musicali che portano il suo
nome e di riformare la liturgia della messa.
Dopo aver tessuto i fili della pace, Gregorio intraprende
con la collaborazione di Teodolinda la missione più delicata:
convertire i longobardi. I duchi borbottano, per loro il
cattolicesimo è la religione dei vinti, ma Agilulfo lascia fare.
Lui rimarrà ariano fino all’ultimo, tuttavia la ragion di Stato
gli suggerisce di non ostacolare gli incontri della moglie con
i vescovi e l’opera di persuasione avviata dal clero di Roma.
Agilulfo ha capito che l’Italia si regge su equilibri precari. La
stessa influenza dell’imperatore s’affievolisce di giorno in
giorno. La figura del pontefice assume lo spessore di
garante nei confronti dell’Impero e dei popoli stranieri ormai
aderenti alla fede ‘universalmente riconosciuta’. La nascita
nel 603 di un erede a lungo atteso, Adaloaldo, sancisce la
conversione dei longobardi: coincide con il battesimo del
futuro re. In premio Gregorio adopera le sue sperimentate
doti diplomatiche per instaurare una tregua tra il suo nuovo
gregge e i franchi. Un anno dopo può chiudere gli occhi
soddisfatto: ha dato spessore e validità al titolo di pontefice
oramai riconosciuto al vescovo di Roma, il cui popolino per
mostrargli il proprio attaccamento comincia a chiamarlo
papatus (buon papà). Una qualifica, quella di papa, che
diverrà ufficiale a metà dell’undicesimo secolo, ma noi per
comodità del lettore l’adottiamo da subito.
Con Gregorio la Chiesa ha aggiunto il potere temporale a
quello spirituale. La storia del mondo volta pagina. E per
essere certi che non sia possibile tornare indietro, alla
Mecca, in Arabia, il figlio di un notabile, Mohammed (in
arabo, altamente lodato), obbligato a fare il capo carovana
perché i cinque cammelli ricevuti in eredità non gli bastano
per vivere, ha una visione. Così come i suoi confratelli arabi,
Mohammed (Maometto) ha a lungo creduto negli astri e in
una pietra caduta dal cielo, di cui la sua famiglia si prendeva
cura presso il santuario di Kaaba. Tuttavia i frequenti
contatti con gli ebrei delle città-oasi e con i cristiani della
vicina Abissinia lo hanno portato a riflettere sulla dottrina
dell’unico Dio (Allah). Il giorno della visione l’arcangelo
Gabriele ingiunge per tre volte di leggere a lui che non sa
leggere. Maometto rimane scosso dalla visione, ci rimugina
su tre anni finché non ne ha un’altra in cui Gabriele gli
ordina di alzarsi, di avvisare il suo popolo e di rendere gloria
al suo Signore. Maometto riconosce il messaggio di Dio, che
gli intima di mettere in guardia gli altri uomini dall’inferno e
di annunciare la sua grandezza. È il 610, Maometto diventa
il ‘messaggero’ del Dio unico e invisibile, che lo ha scelto
per propagandare la sua dottrina.
13. Qui non si fa l’Italia

Alla morte di Agilulfo (616), Teodolinda governa da sola in


attesa della maggiore età di Adaloaldo. Le ricorrenti
frequentazioni con i vescovi le scavano intorno un solco
d’incomprensione. I duchi la soffrono come un’usurpatrice, che
per di più pretende di stravolgere le loro consuetudini
imponendo un re cattolico. L’incoronazione di Adaloaldo è mal
vista, egli stesso mal sopportato fino alla sua eliminazione (625)
da parte del duca di Torino, Arioaldo, con cui riprende la
tradizione ariana. A Teodolinda rimane la consolazione della
fede: lei la foraggia con generosità consentendo la costruzione
di molte chiese, tra le quali la basilica di San Giovanni Battista a
Monza: ancora oggi potete ammirarvi la corona ferrea dei re
longobardi.
Chissà se in quell’Italia prona e miserabile, in cui le beghe di
corte sembrano racchiudere i problemi e le ansie del mondo,
giunge notizia di due avvenimenti che avranno un
ragguardevole riflesso sulle vicende della Penisola. Nel
medesimo anno, 622, Maometto fugge dalla Mecca, dove il
clima per lui e i suoi seguaci si è fatto insopportabile, e si rifugia
a Medina, mentre il re dei franchi Dagoberto, che dopo le
conquiste del padre Clotario regna su una Francia molto più
estesa dell’attuale, nomina maestro di Palazzo lo sconosciuto
Pipino, il cui merito principale è di essere ricco. Nel declino della
dinastia merovingia, i maestri di Palazzo acquisteranno un
rilievo sempre maggiore e questo Pipino darà inizio a uno dei
casati più importanti nella storia d’Europa.
Ma torniamo alle vicende nostrane. Ad Arioaldo succede
Rotari, il duca di Brescia. La sua designazione suona come la
risposta unitaria dei duchi del Nord alle voglie indipendentiste
del Centro (Spoleto) e del Sud (Benevento). Rotari comunque
comprende che questo suo popolo ha bisogno di passare dalle
tradizioni orali a una legislazione scritta, dalla faida a un codice
delle pene. Nel 643 promulga un editto in 388 capitoli. È la
migliore dimostrazione di quanto la tradizione romana abbia
influito sui longobardi nonostante il loro esplicito intento di
salvaguardare la purezza originale con ogni mezzo, razzismo
compreso. Nell’editto compare il ‘guidrigildo’, la somma cioè
che il reo deve pagare per compensare il danno compiuto, che
non riguarda soltanto gli uomini, ma anche le proprietà, dal
cavallo alla casa. La riparazione monetaria assolve gran parte
dei reati. Il codice longobardo non prevede la detenzione: si
passa dal guidrigildo alla condanna capitale per le mogli che
tradiscono o uccidono i mariti, per gli ammutinati, per i
disertori, per gli schiavi che ammazzano i padroni.
Questi sono soltanto longobardi. Si dividono in due caste: i
nobili o adelingi, discendenti dalle antiche tribù germaniche e in
posizione preminente (a esse appartengono i duchi e quindi il
re); e i guerrieri o arimanni. A nobili e guerrieri appartengono i
terreni ricevuti al momento della conquista, ma nobili e
guerrieri in tempo di pace si dedicano esclusivamente alla
caccia, delle coltivazioni si occupano gli aldii, in origine barbari
prigionieri, e gli schiavi. Gli aldii sono uomini liberi privi dei
diritti politici. Non vanno in guerra, però non partecipano
neppure alle assemblee elettive, dunque non possono far
carriera. Gli schiavi sono quasi sempre italiani, che hanno
perduto il loro piccolo podere e per sopravvivere si sono dovuti
vendere assieme alle famiglie. Le donne longobarde, in quanto
libere, hanno il divieto di sposare i servi, cioè gli italiani. Se
disobbediscono rischiano il bando, i loro mariti il collo.
La trasformazione da tribù nomade in popolazione stanziale
comporta per i longobardi la scoperta dell’agricoltura e del
commercio. Ma come non si curano in prima persona della
prima, così non si curano del secondo e lo lasciano nelle mani
degli aldii. Nonostante le alluvioni, le guerre, le carestie, la
Pianura padana fornisce ogni genere di prodotti per gli uomini e
per le bestie d’allevamento. Si tratta di radi animali domestici,
di maiali, di cavalli, il cui valore è superiore a quello dei servi. Il
mercato più rinomato si svolge a Milano. Il luogo deputato è
dove ora sorge piazza Cordusio, nelle cui vicinanze c’è la Loggia
dei Mercanti. Vige il baratto, i soldi li detengono i guerrieri e i
nobili, che li tirano fuori per acquistare i prodotti sui quali non
possono allungare le mani e che provengono quasi sempre da
Bisanzio e dall’Oriente. Cresce l’importanza di Venezia. È ancora
un insieme d’isolotti, ma qui sbarcano le spezie, le sete, le
pietre preziose, da qui s’imbarcano gli schiavi diretti nei
possedimenti dell’Impero. Lo sviluppo di Milano e di Venezia non
rappresenta un’eccezione. Benché le città abbiano perso
d’importanza e si siano svuotate, alcune di esse – Roma,
Ravenna, Pavia, Torino, Spoleto, Benevento – sono una luce nel
buio di questi secoli e attraggono gli ambiziosi e gli affaristi. Per
la stragrande maggioranza dei cittadini l’esistenza è grama. Le
poche ricchezze rimangono ben custodite nei castelli e nei
conventi.
L’unico campo in cui Rotari nell’editto si rifà alla tradizione
tribale è quello giudiziario. Il processo si svolge secondo rituali
atavici: il giuramento, l’ordalia (giudizio di Dio), il duello. Il
giuramento è più una premessa, da parte dell’accusatore e
dell’imputato, che la dimostrazione delle proprie tesi. Sono
considerati tali, invece, l’ordalia, spesso consistente in prove ai
limiti della sopravvivenza, e il duello. Chi sopravvive è
innocente, chi soccombe è colpevole. Oggi queste procedure
possono strappare un sorriso di compatimento, ma per i
longobardi rappresentarono un’autentica rivoluzione. Tant’è
vero che Rotari è considerato uno dei grandi re dell’epoca e la
sua scomparsa (652) avvia un periodo di gravi turbolenze, che
sembrano lo specchio di altre e più gravi turbolenze. Appena un
anno prima Abu Bakr e i suoi collaboratori hanno dato forma
compiuta al Corano (‘lettura’ o »discorso’), il Vangelo dei
musulmani (‘coloro che hanno fatto pace con Dio’). Il principale
precetto lasciato da Maometto quando nel 632 si è avviato
verso i giardini di Dio – il premio che nell’aldilà spetta a chi si è
ben comportato nell’aldiquà – era di convertire gli infedeli.
Essendo, però, scettico sulla natura umana, il Profeta ha
suggerito di puntare più sulle armi che sulla parola, com’è già
avvenuto nel 642 con Alessandria d’Egitto e le conseguenze
sono state tragiche: è stato distrutto ciò che restava della
famosa biblioteca. Può dunque avviarsi la grande espansione
dell’Islam (‘pace in Dio’): camminerà sulle lance dei suoi
provetti cavallerizzi. Coincide con una grave crisi nei rapporti
tra il Papato e l’Impero.
Nel 648 l’imperatore Costante II, d’accordo con il patriarca di
Costantinopoli, ha bandito un editto, il ‘Tipo’, che, con la scusa
di mettere ordine nelle dispute religiose, ha preso di mira i
monaci giudicati una nequizia. Ma i monaci costituiscono in quel
momento l’ossatura della Chiesa. Colpire loro significa colpire il
pontefice e infatti è ciò che vogliono sia l’imperatore, al quale
non aggrada la sua eccessiva indipendenza, sia il patriarca, che
vorrebbe annullare gli esiti del concilio del 381 e ristabilire la
parità tra Roma e Bisanzio, come dire tra il papa e se stesso.
Naturalmente Martino, il pontefice del momento, non ci sta.
Convoca duecento vescovi e fa scomunicare il patriarca.
Costante ordina all’esarca Olimpio di assassinare il pontefice.
Olimpio si muove, ma nella Capitale è accolto male dal popolino
e il suo killer non riesce a colpire Martino, intento a celebrare
messa in Santa Maria Maggiore. Costante, però, non demorde.
Ci riprova nel 653 con il nuovo esarca, Calliopa, cui riesce di
catturare l’anziano papa e di caricarlo su una nave. Martino
rimane in pratica prigioniero dell’imperatore fino al giorno del
decesso, nel 655. La Chiesa lo ricompensa con la qualifica di
santo. Al soglio viene designato Eugenio, che prosegue nella
contrapposizione con Costante. Va peggio, invece, a papa
Vitaliano. L’imperatore gli comunica che ha deciso di
trasportare la capitale a Roma. L’abbandono di Bisanzio è frutto
della paura scatenata dall’offensiva musulmana. Costante
sbarca a Taranto all’inizio del 663, in luglio è accolto con tutti gli
onori nell’Urbe, ne riparte dopo due settimane portando con sé
le tegole di rame che ricoprono la cupola del Pantheon. Sarà
assassinato in Sicilia da un servo. Prima di entrare a Roma,
Costante ha tentato una sortita nel territorio del duca di
Benevento, ma ne è stato respinto. Il suo sconsiderato gesto ha
convinto i longobardi a interrompere le loro dispute, ma, una
volta allontanato il pericolo, re e duchi hanno ripreso a
disputare. Sul trono di Pavia, dopo la brevissima apparizione del
figlio di Rotari, Rodoaldo, si è seduto per nove anni Ariperto,
appassionato costruttore di basiliche, e dopo di lui per altri nove
anni regna Grimoaldo. Gli subentra Pertarito, il cui fanatismo
cattolico lo porta a perseguitare gli ebrei e a scatenare una
lunghissima guerra contro i duchi, che non accettano né il suo
estremismo religioso né le sue pretese di unificare la Penisola. Il
piano viene proseguito dal figlio Cuniperto, ma urta contro
l’opposizione del Papato – che sta liberandosi dall’opprimente
tutela dell’imperatore ed è contrarissimo alla nascita di una
forte nazione in grado di condizionarlo – e di quei duchi che
sull’assenza di un potere centrale fondano i propri capricci.
È un vero peccato che le invidie e le gelosie di questi
signorotti facciano perdere il favore di circostanze irripetibili. Si
potrebbe costruire uno stato, mentre i suoi nemici esterni sono
in crisi. L’Impero è assorbito dalla resistenza agli arabi, che
assediano per due volte Bisanzio. I minacciosi e incombenti
franchi sono dilaniati dalla rivalità tra i maestri di Palazzo e i
sovrani merovingi. Insomma chi volesse unificare la Penisola
avrebbe mano libera. Invece prevale la miopia di quanti non
comprendono che la loro presunta autonomia li espone al
pericolo di essere asserviti dal primo serio conquistatore che si
affacci sulle Alpi, come capiterà nel nono secolo.
L’ottavo s’inizia in Persia con l’invenzione dei mulini a vento
e in Cina con la diffusione delle foglie da tè (i primi giungeranno
in Europa nel 1200, le seconde nel 1600). L’Italia si deve
accontentare di Ariperto, un re famoso per la sua taccagneria.
Gli succede nel 712 Liutprando. La Storia sarà generosa con lui
giudicandolo più dalle intenzioni che dai risultati conseguiti.
Liutprando è un buon cattolico, le modifiche che apporta
all’editto di Rotari sono improntate alle leggi della Chiesa:
inasprisce le pene per la bigamia e l’adulterio, sostituisce il
guidrigildo con la confisca dei beni del colpevole, impedisce ai
padri di far sposare le figlie prima dei dodici anni. Tuttavia
Liutprando sa che l’unità del Paese passa attraverso lo
smantellamento di quello che ancora non si chiama Stato
pontificio, ma che lo è già in nuce. Le sue mire sono favorite da
una ventata antibizantina, che attraversa l’Italia nel 726.
L’imperatore Leone III promulga un editto contro il culto delle
immagini, l’iconoclastia. Si è parlato di decisione presa sotto
l’influsso delle altre due religioni monoteistiche, l’ebraismo e
l’Islam, ma probabilmente Leone, che ha sbaragliato la flotta
musulmana nel Bosforo, è mosso soltanto dal desiderio di
eliminare un motivo d’inquietudine sociale. Il culto delle
immagini era degenerato in superstizione e in affarismo, con i
monaci in prima linea a trarne i maggiori guadagni. Le strade di
Bisanzio erano spesso terreno di battaglia tra i sostenitori dei
diversi santi, come capita con i tifosi delle squadre di calcio.
Prosperavano i ‘fan club’, terreno di coltura per ogni forma di
protesta ammantata da motivi religiosi. Nella sua campagna
l’imperatore trova il sostegno dei prelati d’alto rango, ma deve
fronteggiare la dura opposizione dei parroci e dei monaci pronti
a sobillare una mezza rivolta. A Roma papa Gregorio II coglie
l’occasione per marcare vieppiù le distanze da Costantinopoli.
Convoca l’immancabile concilio, che scomunica Leone ed
esenta i romani dal pagargli le tasse.
Anche a quei tempi la prospettiva di evadere il fisco è molto
seducente. Camuffata da desiderio di libertà si propaga
nell’Italia in teoria dipendente dall’Impero. Liutprando giudica il
momento propizio e muove le sue truppe. Invade il ducato
romano, annuncia di voler puntare sull’Urbe. Il pontefice gioca
la carta del sentimento. Va incontro a Liutprando dopo essersi
assicurato che i duchi di Benevento e di Spoleto armino i loro
eserciti contro un re animato da troppi progetti. Insomma il
Liutprando che incontra Gregorio si sente militarmente
minacciato sui fianchi e spiritualmente imbarazzato di fronte al
suo papa, che lo tratta da figliol prodigo. I cronisti della Chiesa
garantiscono che Liutprando si prostra ai piedi del papa, gli
offre la corona e l’indomani entra a braccetto con lui a Roma.
Anche se niente di tutto questo fosse avvenuto, a cambiare le
sorti dell’Italia basta quello che di certo avviene: Liutprando
dona a Gregorio il territorio di Sutri strappato ai bizantini. Poco
importa se lo fa per tacitare la propria coscienza di cattolico,
importa che in questo modo Liutprando sancisce la nascita dello
Stato della Chiesa. Contraddizione non piccola per un re che ha
pensato alla nascita di uno stato unitario. E curiosamente
continua a pensarci. Nel 739 Liutprando invade per la seconda
volta il ducato romano, espugna alcune città, ma nel 742 le
restituisce al pontefice. Stavolta non lo fa per scrupoli, bensì
per evitare guai peggiori. Sempre più lontano e disinteressato
l’imperatore, il Papato s’appoggia all’uomo della provvidenza, il
francese Carlo (Karl nella lingua franca significa ‘maschio’), un
maestro di Palazzo, erede di Pipino, che nel 732 a Poitiers ha
bloccato l’onda araba in arrivo dalla Spagna, già conquistata dai
guerrieri di Allah. Sette giorni e sette notti d’ininterrotta
battaglia. Uno scontro campale, che ha pochi eguali: salva
l’Europa da un’invasione capace di cambiarne il futuro. Il
trionfatore dimostra di avere un cervello oltre ai muscoli, che gli
hanno procurato l’appellativo di Martello. Approfitta della guerra
santa, sebbene allora non si chiamasse così, per obbligare alla
conversione i germani arruolati a Poitiers, ma non si esibisce nel
bacio della pantofola papale. Alle proprie prerogative ci tiene.
Così quando il Santo Padre lo prega di dare una lezione a
Liutprando, lui si limita a inviare una missione diplomatica, che
comunque ottiene lo scopo.
I buoni rapporti tra franchi e longobardi risentono di questo
terzo incomodo, il Papato. Il successore di Liutprando, Rachis
duca del Friuli, non ha mire unioniste: persegue una politica
clericale, che sfocia nella sua deposizione. Diventa re il fratello
Astolfo e lui sì che ricomincia da dove Liutprando ha finito. Anzi,
punta subito al bersaglio grosso, Ravenna. La prende nel 751. È
la fine della presenza bizantina in Italia. A guisa di frutti maturi
cadono pure la Pentapoli e l’Esarcato. Il progetto di riunificare la
Penisola appare possibile. Ma da Roma il pontefice Stefano II
lancia l’anatema. Affermando che la Chiesa è la naturale erede
dell’Impero, reclama quei territori e minaccia di scomunica
quanti si oppongono ai superiori disegni. Astolfo si oppone e
viene scomunicato. In risposta lui perseguita i cattolici fin
dentro il ducato romano, dov’è cresciuto un agguerrito partito
filolongobardo. Stefano ottiene una tregua, che dovrebbe
durare quarant’anni, ma non dura quattro mesi. Conscio di non
esercitare alcuna influenza su Astolfo e privo di armate, il papa
scrive un’accorata lettera a Pipino, detto il Breve per la sua
statura, da qualche anno sul trono francese. Pipino deve alla
Chiesa la sua investitura. Dal padre Carlo Martello aveva
ereditato tutti i poteri, dapprima a mezzadria con il fratello
Carlomanno, poi da solo, avendo deciso Carlomanno di ritirarsi
nell’abbazia di Montecassino. Era il dominatore indiscusso di
quella Francia immensa, comprendente larghe fette del
territorio germanico. Il monarca merovingio, Childerico III,
valeva meno di un’ombra e appunto per questo Pipino riteneva
che fosse giunto il tempo di apporre il sigillo reale alla sua
potestà. Ma non poteva nominarsi re da solo, aveva bisogno di
una legittimazione, che soltanto la Chiesa gli poteva fornire.
Così, dopo uno scambio di messaggi con Roma, il vescovo di
Soissons, Bonifacio, lo aveva incoronato re dei franchi.
Per quanto Pipino abbia un debito di gratitudine nei confronti
dell’istituzione cattolica, la sua risposta è cauta. Invita il papa a
raggiungerlo in Francia. Stefano parte subito, lungo il tragitto si
ferma a Pavia per un estremo tentativo di mediazione con
Astolfo. Nonostante le lacrime e i regali del papa, il monarca
longobardo non cede la Pentapoli e l’Esarcato. Acconsente però
a far transitare la pia carovana. All’inizio del 754 Stefano e
Pipino s’incontrano nei pressi di Ponthion. Il sovrano si prosterna
ai piedi dell’ospite e qualche motivo ce l’ha, considerato il po’
po’ di usurpazione che la Chiesa gli ha già benedetto e che
Stefano gli ribenedice. Anzi, in cambio della promessa di
ricevere gli ex territori bizantini, il pontefice incorona anche
moglie e figli di Pipino, il maggiore dei quali è il quattordicenne
Carlo. E per spianare la strada al suo intervento, ne scomunica i
nemici: in testa alla lista non può che esserci Astolfo.
Ma non tutti i generali franchi sono convinti dell’utilità di una
guerra contro i longobardi. Astolfo, da parte sua, briga a destra
e a manca per raggiungere un accordo: fa persino uscire
Carlomanno da Montecassino affinché difenda le sue buone
ragioni. Alla fine, però, Pipino la spunta. La battaglia avviene a
Susa e non ha storia. Astolfo s’arrocca per qualche mese a
Pavia, prima di accettare la pace dettata da Pipino:
naturalmente comporta la cessione di Esarcato e Pentapoli al
Papato. Tuttavia, appena Pipino volge le spalle, Astolfo straccia
il trattato e conduce il suo esercito verso Roma, deciso a
risolvere la questione una volta per tutte. Stefano stavolta si
sente davvero perduto. Invia messaggi disperati a Pipino, alla
moglie, ai figli, ai vescovi, alcuni li firma addirittura san Pietro e
vi garantisce il paradiso per tutti coloro che accorreranno ad
aiutarlo contro un invasore, che nelle sue parole è peggio del
diavolo: violenta le suore, distrugge le chiese, profana ogni
simbolo della religione. Pipino riattraversa le Alpi, ribatte
Astolfo, gli impone una pace con la solita clausola dei territori
da cedere a Stefano. Anche se il papa preferisce il verbo
‘riconsegnare’: per dimostrare che le sue pretese sono
sacrosante esibisce un atto, denominato Donazione di
Costantino, che sostiene esser stato vergato e firmato da quel
famoso imperatore. In esso vengono riconosciuti la supremazia
del vescovo di Roma sui patriarchi di Alessandria, Antiochia,
Gerusalemme, Costantinopoli; il suo buon diritto a esibire le
insegne imperiali; la sua indipendenza da ogni potere
temporale con in più l’autorità di consacrare l’imperatore
d’Occidente.
La Donazione di Costantino è un volgare falso, redatto forse
dallo stesso Stefano poche settimane prima di morire. Tuttavia
per smascherarlo occorreranno sette secoli. Quando ciò avverrà
la posizione della Chiesa sarà oramai inscalfibile: fino a Lutero,
re e imperatori non potranno prescindere dal papa. In quel 757
la clamorosa patacca serve a Stefano per farsi confermare da
Desiderio, successore di Astolfo, quella cessione che gli sta
tanto a cuore. Sulla grande mappa dell’Europa la striscia di
terra che va dal Tirreno all’Adriatico con il nome di Stato
pontificio è ben piccola cosa, però le sue implicazioni
riguarderanno l’intero continente e per oltre mille anni
spaccheranno in due, non solo geograficamente, l’Italia.
D’altronde Desiderio ha accolto la richiesta del pontefice,
avendo bisogno dell’appoggio della Chiesa e dei franchi per
salvare il trono dalle congiure interne. Alla morte di Stefano, cui
subentra il fratello Paolo, il re rialza la testa e cerca di rimettere
in discussione quanto concordato. Ma l’incombere di Pipino e
l’inaffidabilità di alcuni duchi limitano le sue impennate. La
scomparsa di Pipino nel 768 coincide con l’elevazione al soglio
di Stefano III. Il nuovo papa gestisce assieme alla vedova di
Pipino, Bertrada, la difficile eredità tra Carlo, il futuro Carlo
Magno, e Carlomanno. Il padre ha diviso il regno, i due fratelli
però non si amano. Serve tutta l’autorità della madre per
scongiurare la guerra civile. Bertrada cerca una riconciliazione
anche con i longobardi attraverso una serie di matrimoni
incrociati. A Carlo Magno tocca la figlia di Desiderio,
Ermengarda, mentre alla sorella dodicenne, Gisela, tocca il figlio
di Desiderio, Adelchi. Essendo Carlo Magno già maritato, il
nuovo sposalizio passa attraverso il ripudio della prima moglie.
La benedizione papale viene acquistata con la cessione di
alcune città.
La situazione è troppo idilliaca perché possa durare.
Comincia Ermengarda che non riesce a dare un erede a Carlo,
prosegue questi ripudiandola, poi scompare in circostanze
misteriose Carlomanno, infine muore Stefano. Gli succede un
papa, Adriano I, che ha dovuto superare l’opposizione del
partito longobardo. Ai rapporti già tesi tra Aquisgrana, capitale
del riunito regno dei franchi, e Pavia, si aggiunge un’improvvisa
rottura tra questa e Roma. Desiderio gioca d’anticipo: occupa
Faenza, Ferrara, Comacchio. Il re longobardo non è pazzo, punta
sui malumori creati tra i franchi dalla recente unificazione.
Immagina che Carlo sia troppo impelagato nelle sue vicende
interne per occuparsi dell’Italia. E per giunta Desiderio ha il
rospo della figlia ripudiata. Ma tutti i rapporti matrimoniali tra le
due corti si sono imbastarditi giacché dalla Francia è giunta la
giovanissima vedova di Carlomanno, Gerberga, con i due bimbi,
per la quale Adelchi ha preso una sbandata a tutto danno di
Gisela.
Nell’autunno del 772 i longobardi occupano la Pentapoli.
Adriano rivolge un accorato appello a Carlo, che in prima
battuta si spende per una soluzione economica. Giunge a offrire
un cospicuo risarcimento economico a Desiderio se restituirà al
pontefice le città conquistate. Desiderio rifiuta, alle spalle però
trama il solito duca di Spoleto, per il quale i nemici del suo re
sono i suoi amici. S’inizia una guerra lunga e complessa.
L’armata di Carlo Magno è bloccata sulla Dora dall’armata di
Desiderio, ma l’altra armata francese sbaraglia quella di Adelchi
e punta a marce forzate su Pavia.
Carlo Magno.

Qui è costretto a rifugiarsi Desiderio, mentre il figlio si chiude


a Verona. Le due città cadono. Con esse finisce quel processo di
assimilazione dei longobardi, che sarebbe potuto sfociare in una
nazione italiana. Nel 774 Carlo Magno diventa re pure dei
longobardi. Dopo un iniziale idillio con i duchi li azzera allorché
si accorge delle loro nostalgie nazionalistiche. I duchi vengono
sostituiti da conti e marchesi di origine franca. Per la Penisola
comincia il lunghissimo travaglio dei protettorati stranieri.
L’unico interlocutore di Carlo Magno è Adriano. Dopo il primo
incontro in San Pietro nel 774, i due comunicano attraverso un
fitto epistolario in latino. Si rivedono nelle occasioni in cui hanno
bisogno di sostenersi a vicenda. Nel 781 Carlo è nuovamente a
Roma per far battezzare il figlioletto. Adriano impone al bimbo il
nome di Pipino e lo proclama anche re di un’Italia della quale lui
si sente sempre più il signore disponendo, all’occorrenza, delle
divisioni franche. Come capita, nel 787, durante la terza visita
del re nell’Urbe. Il papa ne approfitta per fargli invadere il
ducato di Benevento, dov’è asserragliato uno degli ultimi nobili
longobardi, Arechi. Al duca non resta che arrendersi e accettare
tutte le condizioni del vincitore: fra queste pure il taglio della
barba ai propri sudditi, secondo la moda dei franchi. Nonostante
la morte di Arechi, i longobardi conservano un atteggiamento
ostile: non sfocia in una guerra dichiarata solo perché sono una
pulce di fronte a un gigante qual è il regno che Carlo sta
mettendo assieme con una serie di campagne vittoriose contro i
sassoni e le altre tribù germaniche. Proprio in quegli anni tutte
queste vengono per la prima volta indicate con una parola
riferita alla loro lingua: thiudisk.
Padrone di quasi tutta l’Europa, Carlo ne insegue il
riconoscimento formale. Glielo può conferire soltanto il papa:
non è più Adriano, ma Leone III, accusato di adulterio e
spergiuro dai sostenitori del predecessore. Scansato un
agguato, il pontefice ripara in Sassonia. È probabile che qui
raggiunga un accordo con il suo protettore: la corona imperiale
in cambio della riconferma sul soglio di Pietro con la
conseguente cancellazione delle accuse. In effetti la
commissione d’inchiesta nominata da Carlo giudica infondate le
imputazioni sollevate dalla fazione adrianea. Nel Natale dell’800
Leone impone sulla testa del sovrano la corona d’oro e
pronuncia tre volte la formula con cui fa rinascere l’Impero
d’Occidente. A nulla sono valse le note di protesta
dell’imperatore d’Oriente. Fino al giorno della morte, nell’814,
Carlo trascorrerà il tempo a mettere in riga qualche nobile
germanico, poco attratto dall’unità dei tedeschi, e a ricomporre
il mosaico della propria successione, scompaginato dai decessi
improvvisi dei figli Pipino e Carlo. Rimane Ludovico, detto il Pio,
in realtà bigotto e malinconico.
In Italia il regno di Pipino passa quasi inosservato, non così
l’organizzazione franca costretta dalla decadenza delle città a
puntare sul feudo: da qui la nascita del feudalesimo. È una
costruzione piramidale alla cui testa c’è il feudatario,
proprietario di un latifondo; sotto di lui, i valvassori, i valvassini
e i vassalli. L’edificio è tenuto assieme dalla fedeltà del signore
al sovrano – che per sincerarsene ricorre alle ispezioni dei missi
dominici, alti dignitari del regno, a volte gli stessi vescovi – e
dall’autosufficienza, che questi microcosmi raggiungono in
tempi di grande miseria. La mancanza di danaro circolante ha
difatti prodotto il collasso dell’economia europea. A esso il
latifondo rimedia producendo tutto ciò che serve al
mantenimento di coloro che lo abitano: il grano diventa pane
nel mulino, le olive diventano olio nei frantoi, gli allevamenti
forniscono la carne da mangiare e le pelli per vestiti e utensili, il
fiume dà il pesce, i vigneti il vino. C’è un prete per i bisogni
spirituali e per dispensare i sacramenti. All’amministrazione
della giustizia provvede lo stesso feudatario, che si occupa
anche della incolumità dei propri sudditi. Ed essi si sentono
molto più legati a lui che a un re, del quale spesso ignorano
l’esistenza e che magari nel corso della loro vita non vedono
neppure una volta.
Abbiamo già detto che ai ducati sono state affiancate le
contee, grandi come una provincia o anche una regione. Sopra
stanno le marche, un assieme di contee, con compiti di presidio
militare, soprattutto alle frontiere. Marchesi, conti e duchi sono
gli unici abilitati alla potestà e al comando. Costituiscono, però,
un’esigua minoranza, mentre cresce il bisogno di braccia
abilitate a impugnare un’arma. Si rimedia estendendo il
privilegio della proprietà ai vassalli. A loro viene assegnato un
feudo, che alla morte ritorna al feudatario. Si tratta, infatti, di
una donazione temporanea in cambio di servigi militari. Il
vassallo dà il feudo in conduzione a un colono e ne ricava di che
consentirsi un cavallo, un equipaggiamento adeguato, il tempo
libero per allenarsi in vista dei futuri cimenti. L’estremo bisogno
di guerrieri fa sì che il feudo si trasformi da provvisorio in
definitivo. In tal caso il figlio l’eredita dal padre assieme al
titolo. In cambio anche lui, appena raggiunta la maggiore età,
viene nominato cavaliere ed entra a far parte di quella milizia
segno distintivo della nobiltà.
Ma si tratta di una nobiltà in gran parte spiantata,
ignorantissima, la cui esistenza è un continuo addestramento
prima per diventar cavaliere, poi per sopravvivere nei
combattimenti e nei duelli. Tuttavia questa pratica militare crea
un’etica del dovere e dell’onore, che costituisce l’ossatura su
cui crescerà l’Europa, con una sola eccezione: l’Italia.
L’idiosincrasia per le armi continua: assieme a essa si sviluppa
la propensione per il compromesso, per l’esercizio del comando
attraverso un’arte obliqua. Così ci affacceremo nell’Europa delle
nazioni privi di un esercito nazionale e, secondo gli altri, di una
rigorosa morale.
14. Tra arabi e tedeschi

Il primo atto di Ludovico imperatore è di togliere la corona di


re d’Italia dalla testa di Bernardo, il figlio di Pipino. Alla morte
del padre, Bernardo è stato convinto dei suoi presunti diritti
dagli arcivescovi di Milano e di Cremona, i quali non si sono
curati della posizione ufficiale della Chiesa favorevole
all’erede designato da Carlo Magno. Stefano V ha infatti
preso Ludovico sotto la propria ala, dopo che questi ha
accettato di ripetere nell’816 a Reims la cerimonia
dell’incoronazione fatta in precedenza dal padre: in questo
modo il papa ha ribadito che la sovranità imperiale discende
da lui. Ora, però, gli tocca sostenere il monarca che ha
benedetto. Contro Bernardo marcia un esercito catechizzato
dal primo nucleo di cappellani militari, i quali brandiscono il
crocefisso in una mano e lo spadone nell’altra. La parola
dell’alto clero italiano non basta a dissuadere le truppe di
Bernardo dal tradirlo passando con gli imperiali di modo che
al re senz’armata non resta che affidarsi alla clemenza dello
zio. Ci rimette la testa assieme ai fratelli e ai sostenitori laici;
ci rimettono, invece, soltanto il posto gli arcivescovi di
Milano e di Cremona e gli altri prelati, che hanno appoggiato
il sovrano defenestrato. Le violente guerre di spartizione e di
successione funestano una larga fetta d’Europa, ma lasciano
in pace l’Italia grazie alla sua collocazione periferica. In
mezzo alle liti continua invece a trovarsi il Papato. Ciascuno
dei contendenti cerca di tirare dalla propria parte Gregorio
IV, come capita per altro a gran parte dei vescovi. Il
pontefice si schiera con il primogenito di Ludovico, Lotario. I
suoi traffici portano alla deposizione del vecchio imperatore
che, comunque, non ne serba rancore. Tant’è vero che nel
testamento conferma le donazioni del padre e del nonno alla
Chiesa e vi aggiunge la Sicilia. Ma questa da una decina
d’anni è un protettorato arabo ben felice di esserlo.
Le prime apparizioni di quelli che sull’esempio greco
vengono chiamati i saraceni (gli uomini dell’Oriente)
risalgono al 625, allorché la flotta musulmana ha distrutto
quella bizantina davanti ad Alessandria. Dalle sponde
dell’Egitto i vascelli arabi raggiungono l’isola, che
nominalmente appartiene all’Impero d’Oriente, e per gli
abitanti son dolori. Siracusa è saccheggiata, le donne
stuprate, le chiese depredate. Identico destino viene
riservato a tanti altri centri sulla costa. Le incursioni si
estendono alla Sardegna, alla Corsica, ma è la Sicilia a
rimanere la meta preferita al punto tale che tra invasi e
invasori si stabiliscono rapporti di cordialità. Quindi non
dovete stupirvi se nell’827 i siracusani in rivolta contro il
governo bizantino chiedano aiuto proprio ai musulmani e
siano accontentati con l’arrivo di settanta vascelli, mille
cavalleggeri, novemila fanti. Siracusa è il trampolino di
lancio verso la parte occidentale della Sicilia, che riveste un
alto valore strategico per le avanguardie del califfo di
Baghdad, il vicario di Allah in terra, la più alta personalità
religiosa e civile dell’Islam.
Conquistati Algeria, Tunisia e Marocco, gli arabi si sono
installati da oltre un secolo in Spagna. La loro espansione è
stata sì stoppata a Poitiers, però anche le mire di Carlo
Magno sulla penisola iberica sono miseramente fallite sul
colle di Roncisvalle con la retroguardia dell’esercito franco
accerchiata e distrutta. È stata l’epopea di Orlando, duca di
Bretagna, che tanta materia fornirà ai poemi di Ariosto, di
Tasso e alle ballate dei cantastorie. Per i musulmani delle
due sponde è fondamentale poter disporre di una base nella
Sicilia che guarda verso l’Atlantico. Significherebbe
l’incremento dei commerci e un piede in quella parte
d’Europa da cui sono stati respinti.
Centocinquant’anni di guerre e di conquiste hanno
cambiato profondamente gli arabi. Gli analfabeti cammellieri
dell’epoca di Maometto hanno scoperto la cultura greca, i
grandi autori del passato: li hanno tradotti e studiati. Sul
modello dell’Accademia ateniese di Platone, a Baghdad è
sorta la Casa della Sapienza. Dalle scuole escono fior di
scienziati, di medici, di matematici, di fisici. Capiscono
l’importanza dei numeri indiani, la fondamentale scoperta
dello 0, che facilita l’uso della matematica, fin lì complesso
come complessa era la numerazione romana. Uno studioso
iraniano, al-Khuwarizmi, scrive un libro il cui titolo, Algiabr,
dà origine all’algebra, da cui discende tutta la matematica
moderna. Sfruttando simili intelligenze, i musulmani in pochi
mesi costruiscono nei pressi di Trapani il ‘porto di Allah’, cioè
Marsala. E da qui possono puntare su Palermo, che cade
nell’831.
I siciliani accolgono con gioia l’insediamento di un
governatore arabo nella capitale e di un prefetto, un
questore e un alto magistrato, chiamato cadì, in ogni città.
Avevano mal sopportato i bizantini, soprattutto il loro
sistema fiscale, adesso sperano di pagare meno tasse con i
seguaci di Maometto e poi sono abbagliati dall’eleganza
delle vesti, dalla raffinatezza dei costumi, dalle prelibatezze
della pasticceria, dall’uso dell’harem, che convince molti
maschi dell’isola a convertirsi all’Islam. La Sicilia diventa un
emirato, teoricamente sottomesso al lontanissimo califfo di
Baghdad, ma soprattutto un giardino di delizie. Tra moschee,
minareti, basse palazzine dall’intonaco bianco, parchi adorni
di palmizi, di platani, di cipressi, con in mezzo laghetti pieni
di cigni, di anitre, di pavoni, convivono senza problemi
musulmani, cattolici, ebrei. Ciascuno con le sue competenze
e le sue predilezioni. L’unica delusione dei siciliani riguarda
ancora le tasse: anche il fisco dell’emiro non scherza, i
privilegi sono riservati ai seguaci di Allah. Pur di
approfittarne, molti abitanti dell’isola sarebbero indotti a una
conversione di massa, ma per essere esentati dalle imposte
bisogna avere un lungo curriculum di fede religiosa e allora
gli entusiasmi si raffreddano.
Mentre il resto dell’Italia vive nel terrore delle
scomuniche, in mezzo a divieti d’ogni genere (in taluni giorni
della settimana è proibito persino ridere), sotto lo sguardo
occhiuto di monaci che spronano alla penitenza e al digiuno,
in Sicilia si approntano spettacoli di spogliarello, protagoniste
giunoniche ragazze indiane, ed esibizioni di corpi di ballo
formati da splendide artiste di colore. Sorgono saloni di
bellezza per uomini e donne. È tale l’importanza attribuita
all’aspetto che alcuni ragazzi si guadagnano la vita girando
per le strade con uno specchio: i signori possono così
controllare se abbigliamento e capigliatura sono a posto. Di
specchi sono piene anche le case assieme a tappeti, sofà,
candelabri d’argento. In attesa di bere il caffè, arriverà alla
fine del secolo, i nobili bevono già il tè, importato dalla Cina,
e praticano il gioco degli scacchi, giunto dall’India al pari
della tavola reale: assieme ai dadi è il passatempo preferito
di plebe e borghesia. In questo clima di dolce tolleranza
persino l’antico divieto di Maometto nei confronti degli
alcolici viene superato grazie al contrabbando esercitato da
ebrei e cristiani.
Nello stesso periodo in cui Ludovico lascia la Sicilia al
papa, gli arabi si allungano fino a Bari. Formano un altro
emirato, per trent’anni lo mantengono grazie alle rivalità che
dilaniano la dinastia carolingia. Benché i figli di Ludovico
abbiano firmato un’intesa nell’843 a Verdun, ciascuno
guarda di traverso l’altro. L’Impero è stato diviso in tre stati,
corrispondenti all’incirca alla Germania, alla Francia e
all’Italia, assegnata a Lotario, il quale conserva anche la
qualifica d’imperatore. E gli riesce più facile che essere re
d’Italia. I problemi maggiori risiedono nelle troppe norme
giuridiche, figlie dei tanti potentati che hanno dominato la
Penisola. Per risolvere i primi e uniformare le seconde, con la
consueta esclusione delle regole ebraiche, Lotario apre
scuole di diritto in nove città: Pavia, Torino, Ivrea, Cremona,
Verona, Vicenza, Cividale, Firenze e Fermo. I suoi poteri
continuano, però, a essere contrastati dal Papato e dai
grandi feudatari, il cui numero è aumentato con la
spartizione del ducato di Benevento nei principati di
Benevento e di Salerno e nella contea di Capua. Tuttavia
questi italiani rissosi e restii a riconoscere la supremazia del
sovrano sono capaci nell’849 di armare una flotta: Amalfi,
Napoli, Gaeta mettono le navi; il pontefice i soldi, più una
speciale benedizione. Il tutto frutta una vittoria contro una
spedizione araba davanti a Ostia.
A Lotario succede Ludovico II, il cui merito principale è di
cacciare i saraceni da Bari. Alla sua morte, il fratello Carlo il
Calvo, re di Provenza, raggiunge Roma con una piccola
schiera di armati e compra dal papa Giovanni VIII il titolo di
re d’Italia. In tal modo riconosce alla Chiesa il diritto di
assegnare pure questa corona. Eliminato nell’877 Carlo il
Calvo, il regno di Carlo il Grosso annuncia una crisi profonda.
Le incursioni dei normanni, l’ennesima tribù di guerrieri
giunta dalla Scandinavia, seminano il panico nei territori
continentali dell’Impero. In Italia la tensione cresce assieme
alle ambizioni, alle quali fa da contraltare una sostanziale
impotenza, di duchi, conti e marchesi, che a volte sono
longobardi, a volte sono franchi, a volte persino bizantini. A
far da miccia è la deposizione in Francia di Carlo il Grosso: al
di là delle Alpi finisce la dinastia carolingia, al di qua è il
caos. Nella mischia degli aspiranti re emergono Berengario
marchese del Friuli, discendente per parte di madre da
Ludovico il Pio, e Guido duca di Spoleto, più franco che
longobardo nonostante il titolo. I due non puntano sulla forza
delle armi, modesta per entrambi, bensì sull’intrigo, sulla
corruzione, sull’appoggio del papa e se questo non è
possibile, su quello di vescovi e abati, i quali mirano a
conservare la prerogativa di dispensare incarichi e qualifiche.
Ed essendo quello della Chiesa l’unico, vero potere ormai
rimasto in Italia, si spiega perché tra le sue file più che
uomini e donne di fede accorrano intrighini e maneggioni
d’ambo i sessi, pronti a ogni bassezza, incuranti delle tavole
dei Dieci Comandamenti. Le vesti bianche e le tonache sono
spesso lo schermo di passioni e comportamenti che hanno
ben poco d’ispirato e di religioso.

Le incursioni dei normanni, l’ennesima tribù di guerrieri giunta dalla


Scandinavia, seminano il panico nei territori continentali dell’Impero.

Su questo sfondo s’inizia un periodo denso di avvenimenti


e di personaggi, che sarebbero comprimari, ma aspirano al
ruolo di protagonisti. Pur avendo cercato di semplificarlo al
massimo, siamo coscienti che è zeppo di nomi e di vicende.
Immaginiamo che davanti a quest’orgia di papi e di aspiranti
re sarà forte la tentazione di passare avanti, ma suggeriamo
di prestare un minimo di attenzione: vi accorgerete come tra
quel lontano ieri e l’oggi esistano legami molto stretti,
soprattutto nei vizi pubblici e privati. Dopo mille anni e più,
ci sembra che l’Italia, e soprattutto gli italiani, siano rimasti
gli stessi.
Mentre il duca di Spoleto, Guido, concorre in Francia alla
corona d’imperatore, il marchese del Friuli, Berengario, si
accontenta di quella di re d’Italia a Pavia. Ma a mettergliela
in testa sono soltanto i conti lombardi contro i quali marcia
Guido, rientrato in patria senza alcun riconoscimento.
Nell’889 batte Berengario alla Trebbia e ne prende il posto.
La nomina stavolta proviene da un sinodo dei vescovi
nordisti, che non dovrebbero avere voce in capitolo e se la
prendono in cambio del riconoscimento dei loro privilegi. Non
sta con i suoi sulbalterni papa Formoso. Appoggia
Berengario, chiuso a Pavia, e gli procura l’alleanza di Arnolfo
re di Carinzia. Sono però schieramenti in balia degli umori e
degli eventi. Basta che Arnolfo non raggiunga Roma perché
Formoso incoroni in San Pietro il figlio di Guido, Lamberto. Il
partito spoletino domina nella Capitale fino al punto
d’imprigionare il pontefice. Accorre Arnolfo, libera Formoso e
riceve in premio la nomina a imperatore. Appena però torna
a casa, Lamberto ritesse la tela. Lo aiuta la morte di
Formoso, sostituito da Stefano VI così vicino agli spoletini da
intentare un processo a Formoso, il cui scheletro viene
riesumato e addobbato per assistere al processo. Si consuma
uno degli episodi più rabbrividenti nel lungo magistero della
Chiesa: Formoso è condannato a una deposizione postuma, i
suoi atti e le sue nomine disconosciute (i vescovi ordinati da
lui devono farsi riconsacrare), il cadavere vilipeso con
aberranti mutilazioni. E il popolo di Roma applaude. Lo
stesso popolo che accetta l’esistenza e i vizi terreni, molto
terreni dei successori di Pietro purché distribuiscano vino e
frumento e purché dopo il funerale di ogni pontefice sia
consentito il saccheggio della sua principesca residenza.
Stefano VI viene assassinato nell’897. Al termine di un
breve interregno, Lamberto deve subire l’elezione di un
benedettino di origine tedesca, Giovanni IX, che riabilita
Formoso e convoca un sinodo a Ravenna per trovare un
rimedio alla grave crisi economica delle casse vaticane. In
declino nell’Urbe, Lamberto cerca di rifarsi all’esterno.
Stringe un accordo con Berengario, al quale va bene tutto
pur di rientrare nel gioco. Fin qui è stato l’eterno secondo,
costretto a passare da un rifugio all’altro. L’assassinio di
Lamberto, camuffato da incidente, lo rimette al centro della
scena. Una dieta di conti e vescovi riunita a Pavia accetta le
sue offerte di donazioni e immunità per riaffidargli la
svalutata corona. Berengario non riesce, però, a godersi la
qualifica cui tiene così tanto. Un’invasione di mercenari
ungheresi lo costringe ad allestire in fretta e furia un’armata
d’italiani, che viene travolta sul fiume Brenta. Lui si salva a
stento. I grandi elettori non hanno più fiducia nelle sue doti
di comandante e, come succede adesso agli allenatori di
calcio, lo cacciano dal trono. Per sostituirlo ci si rivolge anche
allora al mercato estero. Il presunto regno d’Italia è offerto a
Ludovico re di Provenza. Obbligato a rifugiarsi in Baviera,
Berengario si dà a ordire trame, a cercare nuovi alleati. Li
cerca soprattutto a Roma. Dopo tre papi dei quali si è persa
la memoria, gli spoletini sono riusciti a piazzare sul soglio
Sergio III, amicissimo della bellissima dama Marozia, che li
comanda.
Marozia è la figlia prediletta del conte longobardo
Teofilatto e di sua moglie Teodora. In famiglia sono tutti
analfabeti, ma papà e mamma, autoinsignitisi del titolo di
senatore e di senatrice, dominano l’Urbe. Sono essi che
consentono a Sergio III di far ammazzare coloro che hanno
assolto Formoso e sono sempre essi che probabilmente
suggeriscono al vescovo di Verona di appoggiare Berengario.
Questi s’infiltra nella città con un manipolo di fedelissimi,
cattura Ludovico, lo rispedisce in Provenza. Berengario è per
la terza volta padrone del campo, ma gli alleati di un tempo,
i conti lombardi, lo abbandonano e sollecitano l’intervento
del solito straniero, Rodolfo re di Borgogna, per contrastare il
papato e i nobili del Centro Italia. Marchesi, conti, duchi
preferiscono vivere da sottomessi piuttosto che veder
trionfare uno della confraternita.
Berengario, che non dev’essere un gran condottiero,
perde nei pressi di Firenze anche questa battaglia ed è la
terza. A Roma quasi non se ne accorgono, sono troppo
impegnati nelle manovre per eleggere papi, i quali, per un
motivo o per un altro, muoiono sempre troppo presto. In
pochissimi anni se ne succedono tre. Con Giovanni X la
famiglia di Teofilatto riesce a piazzare un altro protetto, lo
sponsorizza infatti la senatrice, Teodora. A Berengario non
resta che scappare e organizzare da Verona la rivincita
contro il cognato lasciato da Rodolfo in qualità di
luogotenente. Neanche fosse il presidente dell’Inter,
Berengario compra all’estero i campioni che non trova in
Italia. Cinquemila ungheresi gli regalano il successo, che
comporta la distruzione di Pavia, il massacro di donne e
bambini. Ma già allora su certi massacri vigeva il silenzio
della Storia. Da nessun pulpito, da nessun trono giunge la
più piccola condanna per quei poveri morti. I principi e i conti
del Meridione sono impegnati a far sloggiare gli arabi dal
campo trincerato allestito sul Garigliano e papa Giovanni è
forse troppo preso dai preparativi per il matrimonio di
Marozia con il conte spoletino Alberico, dal quale nasce
Alberico jr. Alla scomparsa del marito, Marozia combina un
matrimonio politico con Guido, fratellastro di Ugo di
Provenza, che ha già manifestato un certo interesse per le
vicende italiche.
Nello stesso periodo, aprile 924, una mano anonima salda
il conto con Berengario assorto in preghiera dentro una
chiesa di Verona. Niente e nessuno si oppone più a Rodolfo,
ma il suo cervello va in acqua per l’amore che non gli
corrisponde la vedova del marchese d’Ivrea, Ermengarda,
definita la Cleopatra dell’epoca, più semplicemente
l’equivalente nordista di Marozia. Ermengarda, per la quale si
dice che abbia perso la testa più di un pontefice, si adopera
per favorire le mire del fratellastro, che è il biondo, atletico,
baffuto Ugo di Provenza, gran bevitore, gran mangiatore,
gran cacciatore di gonnelle. Lo incorona re a Pavia
l’arcivescovo di Milano, Lamberto, il notabile più influente
della Lombardia. Agisce in combutta con Giovanni X in gravi
difficoltà a Roma. Per difendere il partito spoletino, di cui è
espressione, ha avversato il matrimonio di Marozia con
Guido, leader riconosciuto del partito toscano, che vorrebbe
sostituirsi agli spoletini. La coppia di sposi gliel’ha giurata, lui
cerca un protettore nel re d’Italia, che è anche re di
Provenza, ma ha pochi armati e non se la sente di sfidare
l’immancabile alleanza, che sorgerebbe contro di lui se
osasse puntare su Roma.
Giovanni X viene deposto, incarcerato, fatto morir di
fame. Il suo posto è preso da Giovanni XI, il quale altri non è
che il figlio illegittimo di Marozia e di papa Sergio e, fatto
ancora più grave, ha soltanto dodici anni. Voi pensate che
qualcuno abbia protestato contro questa sconcezza? Che ci
sia stato un nobile o un vescovo che si sia opposto?
L’immoralità dei tempi non si cura neppure delle apparenze:
pur mancando sei secoli a Machiavelli, il fine già giustifica
ogni mezzo. Il papa-ragazzino diventa lo strumento e il
confessore di sua madre. Eliminato Guido, ormai un peso,
Marozia punta al colpo definitivo: farsi regina e, se le
circostanze aiutano, imperatrice. Il suo obiettivo è Ugo, che
re lo è già e imperatore lo può diventare in quella roulette
che è la corsa al trono più ambito. A Ugo va bene la dote di
Marozia: Roma, il Papato, il ducato di Spoleto e i suoi alleati
meridionali. E poi lui ha un titillante ricordo della bellezza di
Marozia.
Il matrimonio confezionato a tavolino incontra un ostacolo
nelle leggi canoniche: vietano ai cognati di sposarsi.
Aggirarle però è facile per chi ha il papa in tasca. Giovanni XI
accetta la versione di Ugo che Guido non era suo fratello di
sangue, bensì il frutto di uno scambio in culla. E sebbene
Ugo abbia la brutta sorpresa di scoprire che gli anni sono
passati pure per Marozia, lo sposalizio viene celebrato con
grande sfarzo dal pontefice. Ma l’atmosfera nell’Urbe non è
delle migliori: i provenzali che accompagnano il re sono
malvisti. Ugo e Marozia si chiudono a Castel Sant’Angelo, qui
dopo qualche mese vengono assediati da un migliaio di
romani arringati da Alberico jr. Il figlio del conte spoletino
non sopporta la madre e odia il patrigno, che per di più lo ha
pubblicamente umiliato. Con la scusa di cacciare gl’invasori,
il popolino dell’Urbe va a caccia di un po’ di bottino. Ugo
scappa verso Pavia, Marozia finisce in prigione, Giovanni XI
viene posto agli arresti domiciliari. È il 932: per mancanza di
papi e di sovrani, a Roma non resta che tornare a essere una
sorta di repubblica, sebbene Alberico aggiunga il titolo di
principe a quello di senatore.
Alberico è giovane, ma ha la saggezza di chi è vissuto sin
dall’infanzia negli intrighi, nei complotti e per
sovrammercato ha avuto Marozia come madre. Stuzzica
l’orgoglio dei romani, abbonda nelle elargizioni, ridisegna
l’assetto urbano dividendo la città in dodici circoscrizioni,
ciascuna con il proprio reparto militare: lo paga lui di tasca
propria come il piccolo esercito arruolato per difendere il
ducato. In tal modo Alberico resiste a un’offensiva di Ugo,
che nel 936 si rassegna a stringere un patto con il figliastro.
Il suggello è dato dal matrimonio del principe di Roma con
una figlia di Ugo, Alda. Ma per evitare tentazioni e colpi di
testa, il re d’Italia non è invitato alle nozze. Alberico è ben
saldo in sella. La morte, forse procurata, del fratellastro
Giovanni XI gli offre il destro di collocare sul trono di Pietro
uomini fidati.
Nel 941 Ugo, ancora respinto da Alberico, è messo alle
corde da un’iniziativa dei conti del Nord-Ovest. Vorrebbero
sostituirlo con Berengario marchese d’Ivrea, ma la sua
pronta reazione obbliga Berengario a chiedere asilo al re di
Germania, Ottone. Costui è un trentenne di bell’aspetto, che
dal padre ha ereditato quello Stato formatosi sulle rovine
dell’impero carolingio e comprendente Sassonia, Franconia,
Svevia, Baviera e Lotaringia. Ottone si mostra molto ospitale
nei confronti di Berengario. Nel 945 gli fornisce un piccolo
contingente per tornare in Italia a sostenere la rivolta dei
conti lombardi contro Ugo. La contesa finisce in pareggio.
Ugo accetta di ritirarsi in Provenza a patto che la sua corona
vada al figlio Lotario. Tuttavia l’eminenza grigia è ormai
Berengario, che quando si sente ben saldo in sella fa
avvelenare Lotario e gli succede in associazione con il
proprio figliolo Adalberto.
Oltre al trono Adalberto vorrebbe ereditare anche la
moglie di Lotario, la bellissima Adelaide, ma la signora è di
diverso parere. Viene rinchiusa in una torre sul lago di Garda,
da dove fugge per raggiungere Canossa. Da qui invia un
messo fidato a Ottone chiedendogli di liberare l’Italia e se
stessa. Non sappiamo quale dei due inviti solletichi di più
Ottone. Non crediate che la mancanza dei moderni mezzi di
comunicazione impedisse la circolazione delle piccole notizie
e dei pettegolezzi. Anche a Ottone sono giunte voci e
informazioni sulla straordinaria avvenenza di Adelaide,
sull’irresistibile magia delle sue arti seduttive. Ottone non
solo libera Adelaide, ma la sposa seduta stante. Poi si dedica
alla sistemazione dell’Italia. Incassa il rifiuto di Alberico a
un’alleanza con il papa, convoca una dieta ad Augusta (952),
dove è lui a porre sul capo di Berengario e di Adalberto la
corona di re d’Italia. Stacca, però, le marche di Aquileia e di
Verona per aggregarle al ducato di Baviera e assicurarsi una
presenza stabile in Italia. Questo smembramento comporta
la riduzione di Berengario e di suo figlio a vassalli di Ottone e
la retrocessione del regno italico, che perde la parità con
quello germanico e con quello francese.
Marchesi e conti del Settentrione non aprono bocca. A
differenza degli altri pretendenti, Ottone ha dietro di sé un
esercito molto più numeroso di quello che qualsiasi lega
italiana può mettere in campo. E poi non tutti vedono di
traverso la sua ingerenza. Alberico, ad esempio, ne è
contento: confida che la sottomissione di Berengario
salvaguardi il proprio ducato. Alla morte di Alberico avviene
una singolare successione. Il sedicenne Ottaviano, il figlio
che ha avuto da Alda, viene nominato papa con il nome di
Giovanni XII. Roma torna a essere dominata da un pontefice,
che è tale soltanto nei paramenti non certo nella spiritualità.
Il presunto Santo Padre ha nei geni la stessa
spregiudicatezza e la stessa immoralità di nonna Marozia.
Assieme a lui entrano in Vaticano le sue numerose amiche e
i suoi compagni nelle battute di caccia e nel gioco dei dadi.
La città sprofonda nel vizio e nel disordine. L’unica legge
sembra essere quella dell’abuso. Giovanni piace ai romani
perché si macchia dei loro stessi peccati e quindi ritengono
che il buon Dio come li perdonerà al suo vicario, li perdonerà
anche a essi.
Roma torna a essere dominata da un pontefice, che `e tale soltanto nei paramenti
non certo nella spiritualità. Il presunto Santo Padre ha nei geni la stessa
spregiudicatezza e la stessa immoralità di nonna Marozia. Assieme a lui entrano in
Vaticano le sue numerose amiche e i suoi compagni nelle battute di caccia e nel
gioco dei dadi. La città sprofonda nel vizio e nel disordine.
Nei rari momenti che non dedica ai piaceri della carne, il
papa accarezza sogni di grandezza. Si risolvono in colossali
fiaschi. Una spedizione militare nel Sud viene travolta dalle
schiere del principe di Salerno. Sfida Berengario sui
possedimenti della Chiesa in Emilia e Romagna, ma deve
chiamare in soccorso Ottone. La terza discesa (962) del re
germanico in Italia decreta la fine delle velleità nazionali.
Ottone infatti regola i conti con Berengario spedendolo in
esilio e in San Pietro, assieme alla corona imperiale, riceve il
giuramento di fedeltà da parte di Giovanni a nome dei
romani. Viene stabilito che il regno di Germania, l’Italia e
l’Impero costituiranno un’unica entità (Sacro Romano Impero
germanico) e che al monarca eletto dai principi tedeschi
spetteranno anche le altre due corone. Per addolcire la fine
della ricreazione Ottone conferma le antiche donazioni
carolingie. Nell’autunno del 963 viene però informato che
Giovanni briga con Adalberto per provocare una sommossa
antitedesca. Sono gli stessi romani a spalancare le porte
all’imperatore venuto a riaffermare la propria autorità. Nel
sinodo riunito in San Pietro Ottone sancisce che nessuno
d’ora in avanti potrà essere eletto papa senza il suo
beneplacito. Per chiarire il senso delle sue parole fa
designare un laico, il capo degli archivisti lateranensi:
diventa Leone VIII.
Su di esso e sul suo protettore piomba la scomunica di
Giovanni, rifugiatosi in un castello laziale con due amiche e
uno scrigno di gioielli. Tra un papa perbene scelto da uno
straniero e un papa debosciato e pubblicamente accusato
dai suoi subalterni di ogni ignominia, il popolo dell’Urbe non
ha dubbi. Dimentico di aver acclamato poche settimane
prima Ottone liberatore, scende in piazza per rivendicare il
diritto ad avere voce in capitolo nell’elezione pontificia:
un’impuntatura improvvisa su cui pare che influiscano alcuni
agenti di Bisanzio. La cavalleria tedesca massacra i
contestatori. Tuttavia, partito Ottone verso Spoleto, dove
conta di mettere a posto anche Adalberto, i romani fanno
rientrare Giovanni e gli riservano un’accoglienza trionfale.
Leone riesce a raggiungere l’imperatore a Camerino, i suoi
sostenitori invece subiscono una severa punizione. Per Roma
sono mesi di sangue e di terrore. Finiscono il giorno in cui un
marito geloso accoppa Giovanni.
Il suo posto è preso da Benedetto V, un campione di
umana sopravvivenza, bravissimo a transitare da una
fazione all’altra. Dura poco perché Ottone si ripresenta in
compagnia di Leone e nessuno osa più protestare. Anzi, alla
morte del papa, un’ambasciata di Roma si reca
dall’imperatore per conoscerne le indicazioni. Il prescelto è il
figlio del vescovo di Narni, Giovanni XIII. Non dovete stupirvi
che un vescovo abbia un figlio, vi abbiamo già anticipato che
in quell’Italia la carriera ecclesiastica è simile a tutte le altre,
anzi è la più remunerativa e dunque la più attraente per
quanti ambiscono al comando. La spinta religiosa,
soprattutto nelle alte sfere del clero, è quasi inesistente. La
designazione di Giovanni XIII fa parte di un piano molto
sottile. Ottone s’appoggia ai vescovi per sostituirli ai grandi
feudatari. In tal modo pensa di eludere l’ereditarietà di
immensi feudi, che alla morte del vescovo ritornano nella
potestà dell’imperatore. E nel caso non insolito che il
vescovo abbia un figlio, questi non può aspirare alla
proprietà essendo essa ascritta ai santi protettori della città
o della regione e per loro conto affidata al titolare della
carica ecclesiastica. Quindi a Ottone va benissimo che
diventi pontefice il figlio di un vescovo: gli consente un
maggior controllo sull’investitura di chi è destinato a essere
un suo importante feudatario. Giovanni XIII, viceversa, non
va affatto bene alla nobiltà romana, che sul finire del 965 lo
chiude in carcere. Per Ottone è un affronto personale, lo lava
col sangue. I rivoltosi cadono a centinaia. Al termine della
carneficina, il pontefice con una solenne cerimonia definisce
l’imperatore il ‘liberatore della Chiesa’.
Ormai signore incontrastato dello Stivale, Ottone nel 967
fa incoronare imperatore il figlio quindicenne, Ottone II, e
usa il suo sfarzoso matrimonio con una principessa bizantina
per risolvere il contenzioso sui territori del Sud. Su questa
strada si muove lo stesso Ottone II allorché succede al
padre. I fratelli della moglie però non soltanto dimenticano le
promesse di abbandonare il Meridione, ma addirittura si
servono dei saraceni per tenere le guarnigioni imperiali sotto
tiro. Ottone II spera di risolvere ogni problema con una
bellicosa spedizione in Italia. Non ha problemi nel liquidare a
Roma gli oppositori di papa Benedetto VII, ne ha, viceversa,
molti con i musulmani dell’emiro Abul Kasem. Nel luglio del
982 l’esercito imperiale viene maciullato in Calabria, il
sovrano si salva a stento dentro le mura di Capua. Alla sua
morte il potere passa nelle mani della moglie Teofania,
reggente per conto del piccolo Ottone III. L’imperatrice
preferisce Roma ad Aquisgrana e vi regna da imperatore.
Sedotti dal suo ascendente anche i più riottosi dei romani
stanno buoni e zitti. L’inattesa scomparsa di Teofania nel 991
lascia campo aperto al partito nazionalista, guidato dalla
famiglia Crescenzio, discendente da Marozia. Il papa
‘tedesco’, Giovanni XIV, un ex funzionario imperiale, è
costretto ad abbandonare la Capitale. I suoi sostenitori
richiedono l’intervento del quindicenne imperatore, cui
l’Urbe riserva la solita festosa accoglienza. Accanto a lui
cavalca il cugino Bruno: nonostante la giovane età, 22 anni,
è già il suo confessore. Pochi mesi dopo (996) diventa
pontefice con il nome di Gregorio V.
Il nuovo papa è un uomo integerrimo, ha tuttavia la colpa
di non esser nato dentro il ducato romano; come il suo
predecessore viene cacciato appena le truppe imperiali
escono dalla Capitale. La punizione inflitta da Ottone a Roma
e ai Crescenzio è così severa da indurlo, in seguito, a un
pellegrinaggio di penitenza. Il giovane sovrano mescola
buoni sentimenti e improvvisi scatti d’ira, vorrebbe essere
amato dai romani, in mezzo ai quali preferisce vivere, ma
non ne sopporta le voglie autonomiste. Si sente un
incompreso, perennemente combattuto tra la necessità di
governare i suoi indocili sudditi germanici e l’ambizione di
riunificare tutta l’Italia. A spingerlo su questa strada è anche
il pontefice, Silvestro II, che egli sceglie alla prematura
dipartita di Gregorio: un famoso monaco francese, Gerberto,
suo precettore ed ex insegnante del padre.
Silvestro II ascende al soglio un anno prima del fatidico
anno Mille. Secondo profeti e veggenti dovrebbe segnare la
fine del mondo. È un’attesa spasmodica e terrificante, che
attanaglia nobili e servi, letterati e ignoranti, laici e credenti.
Non si parla d’altro che delle gioie in attesa di là e delle
miserie che insozzano di qua. È un richiamo continuo alla
morte imminente, ai peccati da espiare, alle penitenze da
scontare. Viene tramandato che l’ultima notte del 999 è
illuminata dalla luna: dopo aver ricevuto l’estrema
benedizione papale, i romani alzano il capo per vedere il
cielo aprirsi e gli angeli suonare le trombe del giudizio
universale. Non essendo avvenuto niente di tutto ciò, i
feudatari laici del Nord, ostili alla politica filovescovile di
Ottone III, ritengono che sia giunta l’ora di riaffermare i loro
diritti: eleggono re Arduino d’Ivrea. L’imperatore si limita alle
minacce verbali: deve, infatti, dedicarsi alla rivolta di Tivoli
contro un proprio governatore e all’insofferenza dei romani.
La guidano due famiglie che finora si sono odiate: i redivivi
Crescenzio e i Tuscolo.
La sera in cui Ottone e Silvestro si mettono in viaggio per
raggiungere Ravenna e raccogliere truppe fresche, Gregorio
di Tuscolo guida l’ennesima rivolta dell’Urbe. Per alcuni mesi
tiene in mano la situazione, soprattutto impedisce a Ottone
di rientrare. Questi si trova preso tra due fuochi. Anche in
Germania ce l’hanno con lui. Sono stufi sia della sua
assenza, sia del suo continuo stare in mezzo a preti,
quaresime, digiuni. Ecco perché il suo improvviso decesso a
soli ventidue anni, nel 1002, non suscita rimpianti, tranne
che nel papa: gli consentono di rientrare a Roma, ma lo
mettono sotto tutela. L’anno seguente Silvestro toglie il
disturbo.
Lotte, congiure, alleanze, tradimenti si dipanano attorno
ai castelli, nei quali vivono i protagonisti di questi decenni
accidentati. E allora diamo un’occhiata da vicino
all’imponente costruzione, che di solito sorge in cima a una
collina, spesso attraversata da un fiume. Le possenti mura di
pietra sono precedute da un fossato d’acqua protetto da una
palizzata di legni aguzzi: costituisce la prima difesa contro gli
assalitori. Ma la fiducia maggiore è riposta nella resistenza
dei bastioni, intessuti di merli, torrette, bocche di leone, torri
laterali collegati da minuscoli ponti levatoi interni. Quello
principale, che unisce il castello al mondo esterno, ogni notte
viene sollevato. Esso è agganciato a un massiccio portone di
ferro, presidiato da un corpo di guardia. Dopo il portone, una
fitta grata divide dall’enorme spiazzo, dove si svolgono le
attività lavorative della comunità. Vi si affacciano casupole e
botteghe, la chiesa, l’immancabile fontana con lavatoio.
Sullo sfondo risalta il maniero del nobile proprietario: un
castello in formato ridotto, dotato anch’esso di merli e
torrette e soprattutto della torre squadrata, detta maschio,
che spesso costituisce l’ultima ridotta in cui rifugiarsi. Il
maschio può essere alto fino a quaranta metri, normalmente
si sviluppa su tre piani fuori terra e due sotto. Quelli sopra
servono alla vita del signore, il primo sotto è per gli ospiti e i
malati, il secondo, le famigerate segrete, per i prigionieri.
Il castello è autosufficiente. Produce il poco di cui ci si
contenta per vivere, ospita un prete e una chiesa per tutte le
funzioni. Il signore, spesso chiamato barone, è la sola e
inappellabile autorità. La vita nel maniero gira attorno ai suoi
interessi e alle sue abitudini. Per entrare nelle sue stanze
bisogna esser convocati, alle donne è concesso sostare in
una sala dove bruciano i ceppi nel camino, ma il locale più
invidiato è la cucina in perenne attività per arrostire le carni
sullo spiedo. I capricci e le bizze del signore vengono
sopportate in cambio della protezione garantita, in caso di
pericolo, dai suoi armati e dai bastioni. La sua esistenza è
priva di reali incombenze, che non siano quelle legate alla
guerra, al complotto. Sin dalla nascita viene preparato per
l’investitura a cavaliere, un riconoscimento al quale in teoria
può aspirare chiunque, ma che è più facile raggiungere da
figli di nobili o di cavalieri.
A sette anni il fanciullo viene affidato a un tutore per
imparare a cavalcare, a giocare a scacchi e a dama, a
leggere e a scrivere con l’aggiunta di qualche nozione di
grammatica, di musica, di geometria. Ma tutto quanto
riguarda la cultura è ritenuto un di più, contano la valentia e
il coraggio. A dieci anni con la qualifica di paggio incomincia
il tirocinio presso un castello amico: fa da piccolo cavalier
servente per le damigelle. A quattordici assapora la pratica
delle armi servendo da scudiero presso un cavaliere. È il
periodo decisivo per acquisire l’agognata qualifica, che
coincide con i ventun’anni. La cerimonia si tiene a scelta il
giorno di Natale, di Pasqua, della Pentecoste, dell’Ascensione
o di San Giovanni. Trascorsa la notte in chiesa, il giovane
viene nominato cavaliere dal proprio signore, che lo colpisce
tre volte sulla spalla con il piatto della spada. Dopodiché
riceve un elmo, una lancia e un cavallo, sul quale balza al
volo e galoppa via. Da questo momento può portare la spada
al fianco, entrare armato in chiesa, sedere con gli altri
cavalieri.
Anche se non riconosciuto, i cavalieri appartengono a una
sorta di ordine superiore e sono obbligati a proteggere il
clero, la religione, le vedove, gli orfani. Ma a sospingerli
verso l’azione è spesso la dedizione per una donna da loro
idealizzata. A essa dedicano imprese, vittorie, versi d’amore.
A tale incombenza provvedono soprattutto menestrelli e
trovatori. I primi fioriscono in Provenza e da lì esportano in
tutte le corti d’Europa l’amor cortese (dal provenzale,
significa raffinato e convenzionale). L’esempio più celebre,
quello cantato e illustrato in decine di poemi e di film, è la
passione di Lancillotto per Ginevra, moglie di re Artù. Artù e
Lancillotto appartengono alla leggendaria Tavola Rotonda,
l’associazione dei migliori cavalieri dell’epoca, mossi soltanto
dalla generosità e dall’altruismo. Pur non essendo mai
esistito, questo mitico regno di Camelot verrà spesso
evocato come irraggiungibile punto d’arrivo di ogni società
moderna.
15. Le vie del mare

Il nuovo millennio comincia per l’Italia allo stesso modo in


cui si era concluso il vecchio. Dietro le apparenze, tuttavia,
qualcosa si muove. Un soffio di vitalità spira in alcuni piccoli
centri, che hanno sfruttato la loro posizione geografica sul
mare per emanciparsi da re, marchesi, duchi, conti. In un
mondo privo di strade, sono quelle sull’acqua le più sicure e
le più veloci. Il Po e l’Arno rappresentano le autostrade
dell’undicesimo secolo, ma ogni fiume viene adoperato. La
guerra commerciale tra Pavia e Milano si svolge sul Naviglio
e per il suo sfruttamento. Quando manca il concorso della
natura, si provvede con canali artificiali e arterie fluviali
costruite ad hoc. Venezia, Genova, Pisa, Amalfi, Gaeta,
Napoli svettano sul mare mettendo a profitto l’esperienza e
le flotte allestite per proteggersi dai pirati. La necessità di
una difesa ha sortito il formarsi di un’associazione cittadina:
per i tempi la novità è straordinaria. Amalfi è la prima ad
avere un suo quartiere sul Bosforo e a mettere per iscritto le
famose Tavole amalfitane – un codice di diritto commerciale
marittimo.
Venezia si è allungata sull’acqua: da Eraclea, in
terraferma, a Malamocco fino a Rivo Alto (l’odierno Rialto).
Sventate le ambizioni egemoniche di alcune famiglie
(Partecipazio, Tradonico, Candiano, Orseolo), dal 1026 si
rafforza il potere del doge (dal dux bizantino). La sua carica
è elettiva: egli risponde al Gran Consiglio, l’assemblea degli
aristocratici commercianti. Siamo alle viste della repubblica
oligarchica, che segnerà i prossimi secoli. La forza di
Venezia è racchiusa nella straordinaria flotta mercantile e
nel monopolio dei traffici tra l’Europa e l’Oriente. Sono i suoi
capitani e i suoi mercanti a spingersi sul Bosforo e sul mar
Nero in attesa di far rotta fino all’oceano Indiano e ai mari
della Cina. In un misto di coraggio, d’incoscienza, di ansia
del nuovo, questa generazione di avventurosi si scrolla di
dosso il torpore dei secoli bui, riapre la via della conoscenza
e del progresso. Concluderanno affari di grande rilevanza,
consentiranno all’intero Continente di sfruttare i prodotti
realizzati da cinesi e indiani grazie a una crescita culturale e
materiale, che nel lontano Oriente non si è mai fermata.
Assieme alle altre meraviglie arriva la bussola magnetica da
impiegare sulle navi.
In un misto di coraggio, d’incoscienza, di ansia del nuovo, questa
generazione di avventurosi si scrolla di dosso il torpore dei secoli bui,
riapre la via della conoscenza e del progresso. Concluderanno affari di
grande rilevanza, consentiranno all’intero Continente di sfruttare i
prodotti realizzati da cinesi e indiani grazie a una crescita culturale e
materiale, che nel lontano Oriente non si `e mai fermata. Assieme alle
altre meraviglie arriva la bussola magnetica da impiegare sulle navi.

Genova, Pisa, Amalfi, Napoli, Gaeta non sono a livello di


Venezia. Le loro navi si muovono nel Mediterraneo,
raramente osano attraversare i Dardanelli o lo stretto di
Gibilterra per paura degli arabi. In queste città, guidate da
magistrati eletti dal popolo, non si accumulano le ricchezze
della Laguna, però si sviluppa egualmente l’orgoglio del
campanile. L’esempio migliore lo fornisce Genova. In origine
vi comanda la nobile famiglia degli Obertenghi, dai suoi
rami provengono gli Spinola, i Vento, i Castello, i Doria, che
forniscono ammiragli e visconti. L’anima terriera e l’anima
mercantile si fondono in una compagna (dal latino
maccheronico ‘con pane’), che con il consenso generale
assume la guida della città e ne indirizza lo sviluppo.
Il comune comincia a essere un po’ ovunque il capolinea
di svariati interessi, l’unica realtà politica della quale ci si
occupa. L’Italia, il suo regno, la sua ventilata unità sono
discorsi e progetti ignoti quasi a tutti. L’ultimo che avete
visto rivendicarne la potestà è Arduino marchese d’Ivrea, di
ascendenze tedesche. Un soldataccio pronto a ogni bravata.
Prima di mettersi in testa la corona di re ha raso al suolo
Vercelli, ucciso il vescovo a lui ostile. Agli occhi del basso
clero e dei vassalli piemontesi diventa il campione
dell’indipendenza dal Papato e dall’Impero. Gli riesce anche
di sconfiggere un contingente inviato da Enrico II di
Sassonia, ma quando il sovrano si presenta con il suo
esercito deve farsi da parte, sebbene non smetterà mai di
punzecchiare gli amici del suo nemico.
Pure Roma vive una fase molto autonomista. Domina
Giovanni Crescenzio: dopo la scomparsa di Silvestro II, fa e
disfa i papi. Alla sua morte, la supremazia ritorna ai Tuscolo.
Il capostipite conia per sé la definizione di ‘Senatore di tutti i
romani’, il fratello diventa pontefice con il nome di
Benedetto VIII. È lui nel 1014 a benedire imperatore Enrico II
ed è sempre lui a guidare l’esercito e la flotta capitolini
contro i saraceni, ormai spintisi fino all’alto Tirreno dove,
però, sbattono contro Pisa. I capitani della Repubblica
riescono addirittura a sloggiare gli infedeli dalla Sardegna
(1016). Sulla spinta di questo successo, da più parti s’invoca
un intervento risolutore contro gli arabi di Sicilia, ma il
Meridione è in preda al solito caos tra signorotti bravi nel
pretendere tasse esose, non certo nel contrastare i raid dei
musulmani. Enrico spera di ristabilire un minimo di ordine e
di ricevere il bacio della pantofola presentandosi con
cinquantamila armati. Il suo obiettivo è di spazzare via
definitivamente i rappresentanti di Bisanzio: ci riesce al
termine di una lunga campagna. La sua truppa contrae però
il colera e il ritorno in Germania si trasforma in un calvario.
La morte di Enrico II rinfocola i sentimenti antimperiali
del Nord. Si accende una mezza rivolta a Pavia, coincide con
la dipartita di un altro protagonista del nuovo millennio,
Benedetto VIII. Gli succede il fratello, quello che si è
autodefinito ‘Senatore di tutti i romani’. Con il nome di
Giovanni XIX consacra imperatore Corrado II. Durante
l’attraversamento della Penisola il monarca ha ricevuto
accoglienze contraddittorie. Chi lo avversa vede in lui il
garante del latifondo nei cui confronti comincia a
serpeggiare il malcontento dei piccoli feudatari, i quali
aspirano all’ereditarietà del terreno avuto in concessione.
Anche nella Capitale si ripete questa duplicità di
atteggiamento: la nobiltà gli sorride, ma i popolani
scannano un bel po’ di soldataglia tedesca. Ne deriva una
rappresaglia sanguinaria come le successive fino ai nostri
giorni.
La protesta dei valvassori di campagna e delle
corporazioni di città contro i ‘signoroni’ ha per epicentro
Milano. Vi spadroneggia l’arcivescovo Ariberto d’Intimiano:
ha ricevuto l’investitura in ricompensa dell’appoggio fornito
a Corrado prima nella sua elezione imperiale, poi nella
disputa con un nobile ribelle. Ariberto è un aristocratico
tedesco, ma diventa il campione dei grandi feudatari laici ed
ecclesiastici, che non vogliono cedere una zolla dei propri
possedimenti. Come le capiterà tante altre volte nella storia
del Paese, Milano diventa lo snodo cruciale degli interessi in
lotta. Abbandonata la città, i rivoltosi formano la Lega della
Motta. Ne segue una cruenta battaglia campale, che
ciascuno dei due schieramenti sostiene di aver vinto. Per
risolvere la questione, Corrado convoca una dieta a Pavia, al
termine ordina l’arresto di Ariberto: ha capito che è dalla
parte del torto. Per l’arcivescovo è un momento
delicatissimo. Da Roma Benedetto IX ha ordinato la sua
deposizione. È il papa che ha preso il posto di Giovanni XIX: i
Tuscolo l’hanno scelto in quanto nipote del defunto e il fatto
che avesse soltanto dodici anni non è stato ritenuto un
impedimento.
Ariberto gioca con spregiudicatezza la carta del
nazionalismo, che in quei tempi s’identifica con il nascente
spirito cittadino. Così lui suddito germanico si erge a
difensore dei diritti di Milano contro l’imperatore germanico.
Il carroccio, un grande carro a quattro ruote pavesato con i
colori del comune e idoneo a ricoverare i feriti e a dir messa,
assurge a simbolo della resistenza. Ariberto riesce ad
attirare il proletariato meneghino, che non si accorge di
battersi per coloro che l’affamano. Ma a risolvere la contesa
è un editto emanato dall’imperatore nel 1037, la Constitutio
de feudis. Vi si stabilisce che anche i feudi minori sono
ereditari; che nessun valvassore può esserne spogliato, se
non da un tribunale di parigrado e fatto salvo l’intervento
del monarca; che le concessioni non sono revocabili. È la
fine del latifondo. Dalla sua polverizzazione fiorirà un ceto
medio agrario e cittadino: la struttura imperiale non sarà in
grado né di controllarlo né di dirigerlo ed esso troverà lo
sbocco finale nell’indipendenza del comune.
Ma non pensiate di scorgere in tale ribaltone un
sentimento ideale o d’identità nazionale. A muovere gli
animi è soltanto il movente economico: lo dimostra la
singolare pace tra Milano e Ariberto alla morte di Corrado,
dopo che l’arcivescovo, spiazzato da un’alleanza di
valvassori, artigiani e commercianti, era stato espulso dalla
città. I milanesi si erano allora rivolti al nuovo imperatore
Enrico III per riceverne il suggello. Davanti, però, alla
proposta di ospitare un presidio tedesco permanente con
l’immancabile seguito di balzelli, hanno preferito
raggiungere un accordo con l’odiato Ariberto.
Ha miglior esito l’intervento di Enrico sul bailamme del
Papato. Nel 1044 una sommossa popolare ha costretto alla
fuga Benedetto IX. Tra i Crescenzi, che per l’occasione
manifestano sentimenti antitedeschi, e i Tuscolo, che di
conseguenza diventano filoimperiali, la disputa si è risolta in
una girandola di papi eletti e deposti. Se ne contano cinque
in due anni finché Enrico non impone un vescovo tedesco,
Sigieri di Bemberg, Clemente II. Si tratta di un religioso
animato da un forte spirito moralizzatore, espressione della
voglia riformistica maturata nel monastero benedettino di
Cluny. Nei decenni dei preti sposati, dei pontefici con le
amanti, dei vescovi che usano la fede per i propri bassi
scopi, i monaci cluniacensi sono un faro di ortodossia e di
osservanza delle regole cristiane. In un’epoca di scarse gioie
terrene, tutta intrisa di visioni apocalittiche e di terrori, il
loro integralismo fa proseliti. Le prediche dai pulpiti delle
chiese infiammano i cuori e inducono molti peccatori a
rifarsi un’anima con ingenti donazioni. Ma la ricchezza dei
monasteri non influisce sulla spietata denunzia dei mali
dell’alto clero. Ai cluniacensi si aggiungono i camaldolesi e i
vallombrosani. Rappresentano un modello di vita e spesso di
pensiero. I loro cervelli costituiscono l’élite intellettuale della
Chiesa. E c’è una spiegazione. In questa fase storica
d’insuperabili barriere sociali, la carriera ecclesiastica è
l’unica via aperta a chi è nato povero, a chi sarebbe
condannato a un’esistenza chiusa dentro un piccolo
appezzamento, a chi ha intelligenza e curiosità di
apprendere. La lingua della Chiesa, il latino, è la lingua dei
libri che si conservano nelle abbazie e nei monasteri. Un
servo della gleba non potrà mai diventare imperatore, ma
pontefice sì.
La scelta di altri tre papi tedeschi, Damaso II, Leone IX,
Vittore II, conferma la volontà di rompere con il passato.
Sono anni di aspre battaglie: contro la simonia (la vendita
delle cariche ecclesiastiche nella quale sono coinvolti i
successori di Pietro e i sovrani di ogni nazione europea) e a
favore del celibato, riaffermato in diversi concili, ma
regolarmente smentito nei fatti. Le battaglie di fede
s’intersecano con quelle terrene perché il Papato ha da
affrontare un altro avversario venuto dal profondo Nord, i
normanni. Di origine tedesca, trapiantati nella regione della
Francia che ha preso nome da loro, la Normandia, hanno
sciamato per tutta l’Europa. Li chiamano vichinghi, che vuol
dire guerrieri: un appellativo quanto mai calzante per questi
instancabili cavalieri di ventura. Conquistano l’Inghilterra, la
Russia e giungono in Italia probabilmente convocati da
qualche nobilotto del Meridione, sempre dilaniato da lotte
intestine. Il caporione che li ha guidati alla ricerca di un
ingaggio, Rainulfo Drengot, ottiene da Sergio duca di Napoli
la contea di Aversa in pagamento dei servigi resi contro
Pandolfo di Capua.
I normanni tengono famiglia e anche numerosa. Ci sono
fratelli, cugini, nipoti da sistemare. A ognuno Rainulfo offre
un titolo e un po’ di terra, a ognuno chiede la fedeltà del
braccio e dello spadone. La contea di Aversa si allarga a
principato, cadono le roccheforti vicine, da Capua a Gaeta.
In tale espansione, si presentano un giorno sei fratelli. Dal
villaggio d’origine, Hauteville, hanno preso il cognome, che
poi italianizzeranno in Altavilla. Impiegano pochi anni per
diventare i signori di Melfi, di Ascoli Piceno, di mezzo
Tavoliere delle Puglie. Ed è in questa regione che Roberto
detto il Guiscardo e Ruggero Altavilla cambiano la Storia.
Nell’annettersi borghi e territori sconfinano in quello
pontificio e non si danno pena di restituire il maltolto. Leone
IX cavalca alla testa del proprio esercito, ma viene battuto e
preso prigioniero. Roberto ha però la stoffa del politico.
Ricolma di gentilezze il papa e lo rimanda a Roma.
Leone IX capisce che quegli scatenati guerrieri possono
fare al caso suo per tenere a distanza i due imperi,
soprattutto adesso che con Costantinopoli è giunta a
maturazione la lunga schermaglia religiosa. Michele
Cerulario, appena eletto patriarca, ha fatto preparare una
puntigliosa critica delle innovazioni introdotte da Leone:
l’eucarestia con pane non lievitato, l’obbligo del celibato,
perfino la proibizione della barba. Nulla d’insanabile, se non
la voglia di riaffermare la sostanziale parità tra patriarca e
papa. Leone s’adopera per ricomporre il dissidio, sembra
che l’imperatore d’Oriente lo assecondi, ma probabilmente
anch’egli ha conti da saldare con l’istituzione, che da secoli
consacra gli scomodi, per lui, imperatori d’Occidente.
Insomma si arriva allo scontro. Leone scomunica Michele e i
suoi prelati, i quali rispondono con un rifiuto di qualsiasi atto
provenga da Roma. È il grande scisma tra la Chiesa cattolica
e la Chiesa ortodossa. Non sarà più recuperato e in quel
1054 consiglia al pontefice di riconoscere le conquiste di
Roberto il Guiscardo. Ed è anche a nome del suo garante
che Roberto marcia contro le guarnigioni bizantine in Puglia
fino alla caduta di Bari, 1071. Fine della presenza in Italia
dell’Impero d’Oriente.
Ma già prima che le truppe di Roberto ripuliscano il tacco
dello Stivale, papa Nicola II ha sancito la nuova realtà
meridionale nominando il Guiscardo duca di Calabria, titolo
un po’ riduttivo giacché Roberto controlla anche la Puglia e
la Campania con l’eccezione di Napoli. Resta da sistemare
l’ultimo dei sei fratelli, Ruggero, e l’unica terra da annettersi
è quella, in teoria, più pericolosa di tutte, la Sicilia araba. Ma
proprio le continue beghe dei califfi isolani offrono il destro a
Ruggero e ai suoi cento cavalieri di giungere fino a Siracusa
per aiutare il locale emiro contro quello di Agrigento. È la
vecchia tecnica già adoperata dai normanni nei decenni
precedenti: funziona anche nell’Isola, ma a costo d’eroismi e
di imprese talmente fuori dalla norma da innervare fino ai
giorni nostri i mirabolanti racconti dei cantastorie.
Ruggero e i suoi continuano ad alzare il vessillo del
cattolicesimo. Stavolta la missione è formalmente ancora
più sacra perché il nemico è l’Islam, che però resiste molto
più dei bizantini. Dopo la caduta di Palermo nel 1072,
occorreranno altri vent’anni prima di buttare a mare i
musulmani. Le imprese dei cavalieri di Ruggero sono seguite
con occhio affettuoso dalla Chiesa, che ha bisogno di potenti
alleati. Il sinodo del 1059, fortemente voluto da Nicola II, ha
infatti strappato all’imperatore l’elezione del pontefice da
parte del solo collegio dei cardinali, con successiva
approvazione di clero e popolo romani, e ha condannato
definitivamente la simonia e il concubinato. Per rendere
ancora più marcata la presa di distanza dal potere laico,
viene vietato a ogni religioso di accettare feudi da
chicchessia, fosse pure il sovrano. Su questa intransigenza
di Nicola II pesa la volontà del suo brutale protettore,
Goffredo di Lorena detto il Barbuto, sposo di Beatrice,
vedova del marchese di Toscana. Nuovo signore del Centro
Italia, grazie ai possedimenti della moglie, Goffredo era
stato messo in disparte dall’imperatore Enrico III, successore
di Corrado II.
Ma la scomparsa dell’imperatore, la nomina di un erede
di sei anni, Enrico IV, e la morte improvvisa del pontefice
Vittore II hanno consentito al Barbuto di rientrare in gioco.
È stato l’incombere dei suoi sgherri a far eleggere Nicola
II contro l’opposizione della nobiltà romana, che aveva
scelto uno dei suoi con il nome di Benedetto X. Ed è stato
sempre il Barbuto a consigliare al papa di cambiare le regole
dell’elezione in modo da tagliar fuori l’imperatore e i nobili
romani. Nel difendere gli interessi di chi lo ha condotto al
soglio, Goffredo, e di chi militarmente lo protegge, i
normanni, Nicola è intransigente. Scomunica l’arcivescovo
di Milano, che parteggia per Enrico IV, e nella scelta dei
vescovi preferisce quelli della propria parte. Cosicché dopo
di lui il pontificato tocca a un altro prelato vicino al partito
tosco-normanno, il vescovo di Lucca, Anselmo da Baggio,
(Alessandro II). Enrico IV e sua madre, Agnese di Poitiers,
indicono una dieta a Basilea che sconfessa l’elezione di
Alessandro e nomina Onorio II. Ma Alessandro ha dietro di sé
le truppe del Guiscardo e del Barbuto in grado di
sconfiggere le raccogliticce schiere di Onorio. La vittoria dei
due potentati allarma Milano e il resto del Nord. La città, che
si era sollevata contro Corrado II, torna a guardare con
simpatia verso l’Impero. Non stupitevi di questo continuo
cambio di alleanze: s’insegue soltanto il proprio tornaconto.
Pur di raggiungerlo, il nobile e il comune sono pronti a
sacrificarvi la coerenza o a perdervi la faccia.
Dopo Alessandro II, preti e popolani non hanno dubbi
nell’acclamare pontefice colui che da trent’anni guida da
dietro le quinte la politica vaticana, il monaco toscano
Ildebrando di Soana. Ha esordito nel 1044 quale cappellano
di Gregorio VI, uno dei cinque papi in lizza in quel ridicolo
bienno, ha soggiornato a Cluny, infine è rientrato nella
Capitale al seguito di Leone IX. Da quel giorno l’influenza di
Ildebrando si è estesa a ogni pontefice. Nelle più importanti
decisioni vaticane si avvertono la sua mano e la sua
intelligenza. È il paladino di una Chiesa rigorosa, inflessibile,
alla quale qualsiasi potere terreno deve sottostare. Nel
momento in cui diventa Gregorio VII egli ha lo strumento
idoneo per l’applicazione letterale di ogni sua idea, che
finisce con il convergere nel primato di una Chiesa infallibile,
autorizzata a mettere becco in ogni campo, spirituale e
pratico. Nei confronti del proprio magistero riconosce agli
altri la sola libertà di obbedire. Che poi questa Chiesa pensi
e parli attraverso di lui, gli appare un dettaglio trascurabile,
del quale anche gli altri non si devono curare. In tempi più
recenti si sarebbe chiamato culto della personalità, allora si
parlò di investitura divina.
Nel breve volgere di poche stagioni clero e nobiltà
assaggiano l’assolutismo religioso e la ferrea
determinazione di Gregorio VII. La minaccia di scomunica
riguarda il clero, che stenta a votarsi al celibato, e la grande
nobiltà, che continua a nominare vescovi e arcivescovi, del
tutto indifferente alle ultime disposizioni del sinodo. Tra
quanti vengono messi sotto scopa c’è anche il
venticinquenne Enrico IV, cresciuto nell’avversione per
questo papato voglioso di limitare le prerogative imperiali in
Italia. Enrico e Gregorio posseggono un caratterino sulfureo
e basta un semplice scambio epistolare per giungere alla
rottura. Ma mentre i vescovi italiani e francesi si stringono
attorno al pontefice, i principi tedeschi approfittano della
contesa per ridimensionare l’imperatore. Convocano una
dieta ad Augusta, vi invitano Gregorio con l’evidente scopo
di ergersi ad arbitri nei confronti di Enrico.
Il papa non è il solo a partire: lo fa anche Enrico con
l’intenzione di raggiungere il suo nemico a metà del viaggio
e stipulare un’intesa che gli permetta di presentarsi ad
Augusta ben saldo in sella. È il famoso incontro di Canossa
(1077), divenuto col tempo un modo per indicare chi va a
domandare perdono. Gregorio accoglie Enrico dopo averlo
lasciato per tre giorni davanti alla porta scalzo e in abiti
dimessi: essendo in gennaio non dev’essere stata un’attesa
piacevole. L’incontro ha un vincitore, il papa, il quale scrive
ai principi tedeschi di aver perdonato l’imperatore in seguito
alla sua penitenza. Di ben diverso tenore la versione di
Enrico: spiega che è stato autorizzato da Gregorio VII a
punire quanti gli sono stati ostili dentro i confini germanici.
Insomma siamo punto e daccapo. La causa del nuovo
scontro è fornita dalla nomina di un altro imperatore,
Rodolfo di Svezia, da parte di alcuni principi ribelli. Gregorio
ha il torto d’inviare il proprio suggello quando Rodolfo perde
la vita in battaglia.
Assetato di vendetta, Enrico riunisce tre concili di vescovi
tedeschi, che in pratica esautorano Gregorio accusandolo di
ogni malefatta. Con questo avallo l’imperatore muove verso
l’Italia per deporre il papa e sostituirlo con il più
accomodante arcivescovo di Ravenna. Roma assediata
resiste per due anni. Soltanto il giorno di Pasqua del 1084
Enrico riesce a farsi porre la corona in testa dal suo papa,
Clemente III. Gregorio però non si arrende. Asserragliato in
Castel Sant’Angelo lancia un appello a Roberto il Guiscardo.
Il vecchio condottiero normanno accorre con un esercito
reso numeroso dai mercenari saraceni arruolati in Sicilia,
dove da vent’anni sono in lotta contro il fratello minore di
Roberto, Ruggero. Per evitare le insidie dello scontro, Enrico
fa dietrofront. Purtroppo per Roma, le truppe del Guiscardo
la vogliono liberare a ogni costo: con questa scusa
saccheggiano, uccidono, stuprano. È tale la violenza subita
che i romani si rivoltano contro Gregorio, lo obbligano a
partire assieme al suo liberatore. Solo e abbandonato
Gregorio muore a Salerno.
Le vicende di quegli anni portano alla ribalta una donna e
una città. La donna è Matilde, la figlia di Beatrice di Toscana,
la padrona di casa dell’incontro di Canossa. La città è
Firenze, cresciuta da piccolo borgo sulle rive dell’Arno a
centro di commerci talmente espansi da giustificare, intorno
al 1050, la creazione di un servizio postale a cavallo. Nella
sua marcia verso Roma, Enrico avrebbe voluto vendicarsi
dell’affronto subito a Canossa espugnando sia il castello, sia
Firenze, assurta ormai al ruolo di città principale dell’odiata
nemica. Ma Canossa e Firenze hanno bellamente resistito e
Matilde ha continuato a battersi per Gregorio, che è stato il
protettore della madre e che ha vegliato su di lei. Al termine
di un matrimonio finito presto e male, Matilde si vota anima
e corpo alla causa della Chiesa. È una delle pochissime
donne ad assumere un ruolo di rilievo in anni assolutamente
maschili ed è l’unica donna che per farlo non usa le arti
della seduzione. A Matilde basta e avanza il proprio
temperamento di guerriera, qual si dimostra quando alla
testa dei suoi armati scompagina una spedizione di lombardi
fedeli a Enrico.
La scomparsa di Gregorio la lascia priva di una guida
spirituale, ma bramosa di rivincita nei confronti dell’Impero,
che prima aveva inflitto l’umiliazione dell’esilio alla madre e
a lei bambina e poi avvelenato l’esistenza del suo mentore.
Tutti gli sforzi della contessa sono protesi a scalzare
Clemente III, il papa di Enrico. Gregorio ha lasciato una lista
di papabili, ma il primo, il vescovo Anselmo, proveniente
anch’egli da Cluny, è morto. Il secondo, l’abate di
Montecassino, Desiderio, tenta fino all’ultimo di respingere
l’offerta. Allorché viene eletto con il nome di Vittore III è
restio ad accettare la tiara. Vittore III è per un anno un
pontefice che ambisce soltanto a rientrare nel vecchio
monastero. Alla fine ci riesce. Il suo posto viene preso dal
vescovo francese di Ostia, Ottone di Langery, altro prodotto
della fucina cluniacense. Diventa Urbano II e diventa,
soprattutto, il principale alleato di Matilde nella
contrapposizione senza quartiere a Enrico.
Il primo impegno del nuovo papa è comunque la
propaganda della crociata per la liberazione del Santo
Sepolcro. Nel 1088, di ritorno dalla Terrasanta, Pietro
l’Eremita ha portato al pontefice una lettera di Simeone, il
patriarca di Gerusalemme. In essa si lamentavano i soprusi
e le persecuzioni dei musulmani turchi contro i pellegrini
cristiani. Urbano comprende che la missione di cacciare gli
infedeli dalla terra di Gesù può ridare slancio alla pretesa di
farsi baciare il piede, in senso letterale, da ogni sovrano
d’Europa. Proprio in quei mesi la contessa Matilde ha
attratto nella sua tela Corrado, il figlio di Enrico. Con la
promessa di nominarlo re d’Italia e di salvaguardare la
continuità della dinastia, lo ha indotto a raggiungere
Canossa. Nel 1093 si svolge a Monza la cerimonia
dell’incoronazione di Corrado, celebrata dall’arcivescovo di
Milano, non dal papa. Ma l’unico risultato dell’improvvido
ragazzetto è di trasformarsi in rivale del padre. Per Enrico la
situazione si fa drammatica quando la seconda moglie,
Prassede, lo abbandona e raggiunge il figliastro in Italia.
Ringalluzzito dalle sventure dell’imperatore, Urbano può
sostenere nel Concilio di Piacenza le richieste di aiuto contro
i turchi avanzate dall’imperatore d’Oriente, Alessio. Per
Urbano è uno straordinario successo: gli scismatici
ortodossi, che non sono riusciti a preservare Gerusalemme
dagli infedeli, implorano l’intervento armato della cattolicità.
Sul piano dell’immagine – anche se non era stata inventata,
esisteva già – il papa ha vinto. Adesso non resta che farlo
sul campo per riequilibrare le conquiste musulmane. ‘Dio lo
vuole’ è il grido di guerra che nel 1095 da Piacenza si
espande a tutto il Continente. Il coinvolgimento è totale. A
parte i grandi sovrani (Guglielmo II d’Inghilterra, Filippo I di
Francia ed Enrico IV) impossibilitati a parteciparvi dalle
scomuniche, la mobilitazione è di massa e di masse, che
tutto hanno da guadagnare: servi della gleba, artigiani in
arretrato con il fisco, mercanti alla ricerca di nuovi mercati,
delinquenti comuni. Non è un caso che tra i fautori più
accesi vi siano le città marinare capeggiate da Venezia.
Inseguono uno sbocco nel basso Mediterraneo. Ma gli scopi
commerciali sono ben mascherati dietro l’impegno di
liberare Gerusalemme e il Santo Sepolcro.
L’alto comando di questa Prima crociata, l’unica che
raggiungerà l’obiettivo, è affidato a un francese, Goffredo di
Buglione. Tra i luogotenenti, due ‘italiani’. Manco a dire sono
normanni: Boemondo di Taranto, figlio del Guiscardo, e suo
nipote Tancredi d’Altavilla, che poi figurerà da protagonista
nella Gerusalemme liberata del Tasso. I normanni sono alla
ricerca di nuovi spazi: hanno già provato nel decennio
precedente ad annettersi Durazzo e Corfù, ma le truppe
veneziane condotte dal doge Vitale Faliero li hanno
estromessi. Nel 1099 Gerusalemme cade. I crociati si
abbandonano a eccessi simili a quelli che sono venuti a
combattere. Nasce il regno latino di Gerusalemme, affidato
a Goffredo. Boemondo e Tancredi naturalmente ci ricavano il
proprio: il primo la signoria su Antiochia, il secondo sulla
Galilea. Sennò che normanni sarebbero?
Nel 1099 Gerusalemme cade.

La crociata cambia il volto dell’Europa e quindi dell’Italia.


La nobiltà ne ha sostenuto il peso maggiore e per finanziarlo
ha dovuto alienare gran parte delle proprietà. Le terre sono
state vendute ai banchieri e ai commercianti, i soli a
possedere denaro, oppure sono state assegnate ai servi
della gleba quale paga dell’arruolamento: torna in tal modo
il colonato sparito da secoli. La Chiesa ha ottenuto dai
sovrani il diritto a riscuotere le tasse per affrontare le spese
organizzative ed è un’abitudine che sotto il nome di ‘obolo
di San Pietro’ non perderà più. Anzi, il felice esito, militare e
commerciale, dell’impresa, la possibilità di ottenere dalle
milizie un giuramento di fedeltà, da contrapporre a quello
abituale verso il signore, farà nascere nella curia romana
una sorta di nostalgia della crociata.
La cultura si solleva dalle miserie e dalle distruzioni che
l’avevano afflitta. I grandi pilastri della classicità greca,
scoperti e assimilati dai musulmani, giungono di nuovo in
Europa. I capolavori del pensiero, fin lì sperduti nelle
inaccessibili biblioteche dei monaci, tornano ad affacciarsi
nelle traduzioni dall’arabo. Per la Chiesa sorge subito il
dilemma di come conciliare Aristotele con Gesù. In singolare
coincidenza con questa rinascita classica, Bologna si
afferma come culla del diritto romano. La sua scuola, non
ancora chiamata università, soppianta quella di Ravenna e
convoglia in città giovani di svariate nazioni. I mutamenti
sono notevoli anche nel quotidiano. Nei cinque anni passati
a stretto contatto con la civiltà musulmana i crociati hanno
scoperto quanto questa sia più avanti non solo
tecnicamente, ma, soprattutto, nella qualità della vita. Sete,
profumi, spezie, aromi, broccati, tappeti entrano
stabilmente nell’esistenza giornaliera assieme al compasso
e ai vetri. Ci sarebbe anche la forchetta, che nel 1071 ha
fatto la sua apparizione nel Nord Europa, ma occorreranno
secoli prima che si rinunci alle mani e alla punta del coltello.
I fondachi e le rappresentanze istituite da Venezia e da
Genova al seguito dei crociati diventano la base di partenza
per una penetrazione nei ricchissimi e sconosciuti mercati
orientali. L’avventura può cominciare.
16. Si torna a vivere

Dopo secoli d’invasioni, l’inizio del millennio ha coinciso per


l’Italia con la fine delle invasioni straniere. L’unica avvenuta,
quella araba in Sicilia, ha contribuito a migliorare la qualità
della vita. La maggiore sicurezza e la conseguente crescita
demografica hanno favorito una nuova cura del territorio:
vengono bonificate diverse paludi della valle padana. A
rifiorire, però, sono le città. Diventano il polo di attrazione
degli ex servi della gleba, che con la partecipazione alla
crociata hanno conquistato la libertà e non sono più legati
alla terra. I veri protagonisti della crescita sono, tuttavia, i
ceti artigiani e i ceti mercantili. L’importanza che rivestono
si desume dal nome tuttora conservato dalle strade in cui
avevano bottega. Con loro tornano a girare i denari, da loro
provengono quei primi banchieri lesti ad acquistare le
proprietà messe in vendita dall’aristocrazia. Assieme al
latifondo tramonta definitivamente il baratto, sostituito dal
luccichio delle monete d’oro e d’argento. Si vende, si
compra, si guadagna, s’investe.
Sebbene l’industria tessile assuma da subito una
struttura vagamente capitalistica, è il commercio a garantire
gli introiti migliori. Per sfruttarlo le famiglie danarose, sulla
spinta di quanto accaduto a Genova, si associano in una
compagna o commenda, che finanzia il mercante e ne
riceve una parte degli utili. Le fiere più importanti si
svolgono in primavera e in autunno, hanno sede in città
dotate di un fiume perché facili da raggiungere e ideali per il
traffico. Il corso del Po diventa un grande mercato a cielo
aperto; Piacenza, Bologna, Ferrara le capitali del commercio
italiano. Gli ardimentosi, che hanno il coraggio di valicare le
Alpi, puntano su Bruges, su Colonia, su Reims. I problemi
sono gli alloggi, lo stato delle strade, la sicurezza. Al primo
provvedono i conventi e qualche locanda. Al secondo i
comuni, ma ciascuno nel proprio territorio senza raccordarsi
con gli altri; cosicché da Roma in su incomincia a operare la
confraternita dei ‘fratelli pontifici’, volontari adibiti alla
manutenzione delle strade e all’apertura di nuove vie. Al
terzo problema non esiste soluzione, a meno di non
muoversi sotto adeguata scorta. È però una precauzione che
in pochi si possono consentire, mentre cresce la necessità di
dover disporre di somme sempre più cospicue. La soluzione
viene escogitata dalla Banca di Venezia: nel 1171 istituisce
la lettera di credito, che annulla il bisogno di viaggiare con
molto denaro. Banche, quattrini, affari e rischi comportano
la diffusione dei prestiti: sullo sfondo riappare l’usura, nei
tempi grami appannaggio degli uomini di Chiesa. Adesso
che non ne hanno più l’esclusiva, vescovi e parroci la
condannano, preconizzano l’inferno per quanti la attuano.
Ma i banchieri pensano di salvarsi l’anima riparandosi dietro
la commenda, che risulta l’intestataria del prestito elargito.
E una commenda l’anima non ce l’ha, come per altro
confermano alcuni alti prelati.
Accanto alle repubbliche marinare, accanto ai grandi
centri come Milano, Pavia, Torino, Brescia, Firenze (la quale
intorno al 1100 vara l’Intendenza delle Belle Arti), Napoli,
Bari, non c’è comune che non abbia tratto giovamento dalla
lotta per le investiture e dalla contrapposizione tra Papato e
Impero. L’autogoverno delle città è raggiunto al termine di
una dura battaglia, a volte anche militare, con il signore e
con i suoi rappresentanti, chiamati gastaldi (il termine è
longobardo, indica l’amministratore di beni reali).
Inizialmente viene esercitato in forma assembleare: i
cittadini si riuniscono sul sagrato della chiesa attorno
all’olmo, che ne diventa il simbolo. L’usanza deriva
dell’adunata in campagna dei piccoli proprietari per
affrontare e risolvere i problemi all’insegna della solidarietà.
Con l’aumento della popolazione il regime assembleare
diventa sinonimo di caos, allora è obbligatorio ricorrere alle
forme rappresentative. Si torna ai consoli e all’elezione di
due consigli, il maggiore e il minore, per il disbrigo degli
affari correnti. Il principale è decidere se appoggiare
l’imperatore o il pontefice, quantunque le città siano
governate in nome e per conto del sovrano dal visconte
(letteralmente, il viceconte). Nella disputa la Chiesa prende
il sopravvento grazie al vescovo: da un lato appoggia le
mire espansionistiche dei suoi fedeli, dall’altro gioca in
proprio per sé e per il Papato. Esaurita questa ‘politica alta’,
la contesa si rivolge verso il comune vicino: riguarda il
possesso di strade, di ponti, di valichi, di porti, di fiumi, di
laghi, di campagne, di villaggi, di tutto quanto, cioè, possa
favorire l’espandersi delle attività economiche e dunque il
benessere della città e dei suoi abitanti. Il tasto dolente è
quello delle tasse, della loro riscossione anche al di fuori
delle mura in cambio del diritto di ricovero al di dentro
riconosciuto, in caso di pericolo, a quanti vivono nel
contado. Come vedrete, i balzelli saranno alla base di ogni
fermento politico.
Non meno accanite delle dispute esterne sono quelle
interne. Si forma una classe di nuovi nobili e una di ricchi
borghesi, il popolo grasso: si avversano e si alleano a
seconda dei bisogni. In opposizione a entrambi sono i ceti
artigiani (il popolo grasso), quelli delle arti minori (il popolo
minuto): non vogliono essere esclusi dal gioco e sono tesi
alla conquista di benefici e diritti, che li apparentino in tutto
e per tutto ai ‘nemici di classe’, per quanto il concetto sia
allora sconosciuto. Nella ricerca di garanzie assolute, di un
esercizio del potere equidistante dagli interessi in
competizione, le figure dei consoli saranno accantonate a
favore del podestà (dal latino, potestas), di cui in teoria ci si
fida di più perché spesso proviene da fuori.
Queste città sono ancora casupole addossate alla chiesa
e al castello attorno ai quali è stato innalzato un primo
recinto di mura. La grande porta in legno è chiusa alla sera
e aperta al mattino per far entrare i contadini del
circondario venuti a vendere i prodotti del campo. Le vie
sono quelle che potete ammirare nei borghi della Toscana e
dell’Umbria: strette, a saliscendi, tortuose. Si cammina sul
fango quando piove, dentro nuvole di polvere d’estate.
Come avviene ancora adesso in qualche paesino del
Meridione, bambini e animali domestici vi razzolano
assieme. Su questi vicoli si sporgono case senza pretese.
Basse, disadorne, con i tetti di paglia prima dell’adozione
dei mattoni, scarse di luce, esposte al freddo, all’acqua, al
vento, al caldo, prive di servizi igienici. Soltanto i più ricchi
hanno un buco per le necessità fisiologiche. Gli altri si
arrangiano nell’orto, in campagna, in recipienti acconciati
all’uso e per lo smaltimento si usa la strada.
La casa fa da bottega e da dormitorio, ci si sdraia in
promiscuità e senza distinzione nei pochi letti disponibili:
d’inverno coperti da ogni indumento per mancanza di coltri
e lenzuola, nudi d’estate. L’arredamento è ridotto
all’essenziale: panche, tavole, sedie, cassettone, credenze,
in legno così come gran parte degli utensili. Per ognuno c’è
una scodella, un tozzo bicchiere, un cucchiaio; i lembi della
tovaglia servono per pulirsi la bocca.
Quando Milano raggiunge le trentamila anime fa la
stessa impressione d’alveare di una moderna Tokio. Con
cinquemila abitanti si è considerati una metropoli. La vita
media non supera i cinquant’anni, le ragazze sono da
matrimonio già intorno ai dodici, con eccezioni ancor più
precoci. Il divieto di un concilio a monaci e chierici di
esercitare la professione di medico la lascia in appannaggio
ai laici, per i quali nasce a Salerno la prima università,
basata già sui sei anni di studio. Ai frequentatori è rilasciato
un attestato, che consente loro di esser chiamati maestri,
dottori sono soltanto gl’insegnanti. I chirurghi costituiscono
una categoria a parte, quando non sono i barbieri a
esercitare. Ma se esistono i medici, non esistono le
medicine: nel migliore dei casi sono infusi d’erbe. Benché la
professione sia tra le meglio ricompensate, le malattie si
curano soprattutto con talismani e formule magiche dando
spazio a una genia d’imbonitori in perpetuo trasferimento
da città in città per vendere i loro intrugli miracolosi. È
un’epoca di maghi, di alchimisti, di stregoni. Siccome, però,
un po’ tutti si danno a sperimentare pozioni e misture, ci
guadagna la chimica.
Il vitto si basa sul poco che si produce. Nonostante la
povertà, si mangia carne in discreta quantità. Non esiste
famiglia che non abbia il suo allevamento di bestie, fra cui il
porco, e a esso si aggiungono i bottini della caccia. Per i
nobili è un passatempo di grande distinzione sociale, con la
smania di possedere e allevare i falconi; per i poveri la
selvaggina rappresenta il modo più economico d’integrare i
pasti. Il pane è l’ingrediente principe di ogni tavola: bianco e
nero, di farina, di orzo, di spelta. E poi verdure, lardo,
minestre, un po’ di formaggio. Una botticella di vino non
manca mai, la frutta è una prelibatezza da signori, a meno
che non la si possa rubare dagli alberi. La pasticceria
introdotta dai saraceni rimane esclusiva di pochi finché i
reduci dalla seconda crociata non diffonderanno lo zucchero.
Essendo identici gl’ingredienti dei pasti, la differenza più
consistente tra le classi è racchiusa nel numero delle
portate. Soltanto nelle feste pubbliche e private i ricchi
tirano fuori il vasellame d’argento, d’oro, di peltro, che nei
restanti giorni viene custodito dentro bauli con lucchetto.
Nei banchetti ufficiali si esibiscono acrobati, saltimbanchi,
illusionisti alla perenne ricerca di un ingaggio. La loro
esistenza è dura, si dispiega tra fiere e sagre paesane. Per
molti il sogno è di essere accolti nella corte di un castellano.
Sulla moda musulmana, c’è la corsa a chi può esibire il
buffone più scurrile, il giocoliere più abile o il nano più nano
mai visto. Comincia così quella tradizione di ballerine, di
ruffiani, di lecchini in cui l’italica natura continua a
esprimere al meglio il peggio.
Ci si veste per ripararsi dal freddo e dalle intemperie. I
capi d’abbigliamento sono identici per ogni censo, differenti
sono i tessuti e gli ornamenti. Gli uomini portano pantaloni
aderenti fino al ginocchio, calze colorate che arrivano alla
coscia, una blusa stretta in vita da una cintura, dalla quale
pendono chiavi, pugnali, borselli e quegli aggeggi che poi
avrebbero trovato posto nelle tasche. Mancano i bottoni,
sostituiti da fibbie e cordoni. D’inverno appare una
mantellina di lana, in testa quei buffi copricapi, che ancora
oggi si ammirano nelle rievocazioni storiche. Ai piedi scarpe
dalla punta rialzata per non inciampare a ogni passo. I ricchi
sfoggiano ricami, pizzi, baveri di pelli pregiate. Compaiono
le pellicce, i guanti, che hanno il valore di un’investitura
feudale, i gioielli, tra i quali l’anello con il sigillo
indispensabile per convalidare una firma. Le donne
indossano tuniche di panno in inverno, manti di lino in
estate: tuniche e manti scendono fino ai piedi e sono fissati
sulle spalle da una fibbia. Sia queste che quelli hanno la
caratteristica di ampie scollature, che suggeriscono l’uso del
velo, soprattutto per partecipare alle numerose funzioni
religiose. Le popolane portano sandali di cuoio, buoni per
tutti gli usi, le signore comode calzature su misura guarnite
di seta e di broccato. In seguito giungerà la moda dei
soprabiti foderati di pelliccia. Pur essendo tempi grami,
appena un marito guadagna, la moglie si concede
acconciature ricercate, usa tinture per i capelli (il biondo è
considerato chic), creme per la pelle, rossetto per le labbra,
carboncini per gli occhi. I crociati hanno portato indietro i
profumi, il cui impiego è immediato, ma costano tanto e ci
sono ragazze che diventeranno vecchie continuando a
sognare il possesso di una di quelle preziose boccettine.
Anche quando odorano di essenza, le dita servono per
soffiarsi il naso o per nettarselo, visto che nessuno ha
ancora pensato al fazzoletto.
Tra preghiere e funzioni, con monaci e predicatori sempre
pronti a promettere l’inferno, i passatempi non abbondano.
L’equivalente del campionato di calcio sono i tornei e le
giostre, che impegnano i cavalieri nell’intermezzo delle
guerre e raccolgono, per l’epoca, folle oceaniche. Si
svolgono nei giorni festivi e attorno al campo, come oggi
attorno allo stadio, è un pullulare di venditori ambulanti, di
baracchini, di avventurieri, di famiglie in libera uscita, di
giovani d’ambo i sessi, famelici di conoscere, di guardare, di
sognare. Chi ama l’azzardo si diletta con i dadi e con la
tavola reale. Dopo le crociate, gli scacchi conquistano
proseliti nonostante le proibizioni e i fulmini del clero. Il
teatro è defunto, ma viene sostituito dai drammi liturgici e
dalle sacre rappresentazioni. Tuttavia il vero spettacolo è
l’esistenza quotidiana, che si svolge in pubblico: dalla
nascita alla morte, passando per ricorrenze, matrimoni,
fidanzamenti, anniversari, si ride, si piange, si litiga, si
spettegola assieme ai vicini. È una vita in comunità, priva di
segreti.
Al di fuori di essa, prosegue la feroce contrapposizione
tra Papato e Impero. Corrado muore nel 1101 liberando
Enrico IV di un peso, che, purtroppo per lui, viene presto
sostituito dal voltafaccia del secondogenito, anch’egli di
nome Enrico, il quale, con la scusa di sentirsi oppresso dalle
conseguenze della scomunica, passa nel campo della
Chiesa. Forte della nuova protezione, prima costringe il
genitore a cedergli il titolo, poi lo imprigiona. Una sommossa
popolare restituisce la libertà a Enrico IV, ma ormai le
delusioni lo hanno minato. La sua morte nel 1106 non mette
però fine alla disputa. Da imperatore Enrico V adotta la
stessa politica paterna e contesta la prerogativa papale
delle nomine vescovili. Il pontefice Pasquale II chiede aiuto
ai nobili d’Italia e al re di Francia. Tre concili riconfermano
che si può diventare vescovi soltanto per volere dell’erede
di Pietro. La risposta di Enrico è una marcia verso Roma con
trentamila armigeri. Al suo passaggio le città aprono le
porte. Persino la contessa Matilde invia una missione di
pace. L’unica resistenza la fa Arezzo, ma per un motivo
opposto a quello che potreste immaginare. La città si è
liberata del proprio vescovo e vorrebbe che Enrico
riconoscesse il fatto compiuto. L’imperatore, viceversa, non
vuole guastarsi da subito con il papa e si rifiuta. Arezzo
chiude le porte, Enrico la rade al suolo.
L’equivalente del campionato di calcio sono i tornei e le giostre,
che impegnano i cavalieri nell’intermezzo delle guerre e
raccolgono, per l’epoca, folle oceaniche. Si svolgono nei giorni
festivi e attorno al campo, come oggi attorno allo stadio, `e un
pullulare di venditori ambulanti, di baracchini, di avventurieri, di
famiglie in libera uscita, di giovani d’ambo i sessi, famelici di
conoscere, di guardare, di sognare.
La trattativa con Pasquale II sembra sfociare in un
accordo: la nomina dei vescovi rimane al papa, le eminenze
però perdono i privilegi, di cui erano state investite.
L’incoronazione del 12 febbraio 1111 dovrebbe sancire la
ritrovata armonia. Tuttavia nel bel mezzo della cerimonia, al
momento di firmare i patti, Enrico se ne astiene, chiede il
parere dei propri dignitari, che fanno pollice verso, bene
interpretando la volontà dei vescovi tedeschi per nulla
convinti di dover rinunciare ai latifondi, alle città e alle altre
donazioni ricevute. Il povero Pasquale finisce in carcere. Ne
esce allorché si rassegna a riconoscere a Enrico il diritto di
nomina. Per la Chiesa è una sconfitta cocente ed è quanto
fanno notare, alla partenza di Enrico, gli orfani di Gregorio,
ancora potenti in Vaticano. Il papa fa marcia indietro mentre
monaci e preti scatenano in Germania una rivolta religiosa.
Dopo averla repressa, Enrico si volge nuovamente verso
l’Italia. Il suo esercito è così mastodontico che non c’è
comune che non l’ossequi. Essendo morta Matilde, Enrico
nomina conte di Toscana un suo funzionario per chiarire che
la Penisola è soltanto una provincia dell’Impero. Pasquale
fugge a Benevento e qui comincia la solita tiritera di papi
dell’uno e dell’altro fronte fino all’elezione dell’ennesimo
prodotto di Cluny, l’arcivescovo Guido di Borgogna, Callisto
II. È lui che nel 1122 sigla il concordato di Worms.
L’imperatore accetta l’investitura della Chiesa, ma ottiene
che in Germania abati, vescovi e arcivescovi siano eletti dal
clero e in mancanza di un risultato netto la scelta spetti a un
rappresentante imperiale.
La quasi contemporanea scomparsa dei due firmatari di
Worms consente alla Chiesa di passare al contrattacco.
Enrico V non ha lasciato eredi, i duchi tedeschi pretendono
che al principio dinastico si sostituisca quello elettivo.
Lotario di Sassonia, che l’accetta, viene subito incoronato,
ma contro di lui insorge Corrado di Svevia, del potentissimo
casato degli Hohenstaufen. Il papa Onorio II capisce che gli
conviene appoggiare Lotario, che è un imperatore
dimezzato, contro Corrado, che ambisce a una titolarità
piena del ruolo e che si è già fatto incoronare re d’Italia a
Milano. In tale occasione vengono coniati i due termini
destinati a entrare nel frasario italiano, guelfi e ghibellini. I
guelfi sono all’origine i sostenitori di Lotario e per la
proprietà transitiva verranno identificati come sostenitori
del papa; i ghibellini sono i sostenitori di Corrado e
diventeranno i sostenitori dell’imperatore. Guelfo deriva da
Hi Welf, con cui s’inneggia al principale alleato di Lotario, un
nobile bavarese; ghibellino da Hi Weibeling, con cui
s’inneggia al castello da cui provengono gli Hohenstaufen.
Le beghe germaniche lasciano in pace l’Italia, ma non
Roma. Nel 1130 l’Urbe si divide sulla scia delle due famiglie
in lizza per scegliere il successore di Onorio II. I Frangipani
appoggiano Innocenzo II, i Pierleoni Anacleto II. I loro
cognomi derivano da attività o qualità del casato (i
Frangipani sono noti per distribuire pane al popolino, i
Pierleoni per il coraggio, che li apparenta al re della foresta):
questo modo di appellare le famiglie – da Piccolomini a
Boccadoro – è comune all’intero Paese e in esso potete
cogliere l’inizio della nostra anagrafe.
Ha il sopravvento Anacleto. Innocenzo scappa in Francia,
da dove convince Lotario a riportarlo a casa. L’impresa
riesce tra incomprensioni di ogni tipo sfociate in
un’incursione del duca di Baviera nelle terre dei normanni.
La loro resistenza e un’epidemia di tifo petecchiale
costringono i tedeschi alla ritirata. Lotario muore a Trento,
Anacleto lo segue a Roma. Rimane Innocenzo, ma nelle
mani dei normanni. Per liberarlo, Ruggero II pretende il
riconoscimento del Regno, che egli ha unificato da Cassino
alla Sicilia sfruttando l’estinzione dei casati del Guiscardo e
dei Drengot.
Sono anni nei quali l’Italia è dilaniata da guerricciole
d’ogni tipo. Pisa, alleata di Lotario, ha inviato le sue navi al
seguito del duca di Baviera per piegare l’accanita resistenza
di Amalfi, la cui flotta non si riprenderà più dalla batosta del
1137. Poi Pisa si volge contro Lucca in un conflitto infinito;
Firenze respinge un assalto di Siena; Modena e Bologna si
affrontano per il controllo della valle del Reno; Genova
strappa Sardegna e Corsica a Pisa lasciandole soltanto la
Gallura; Venezia litiga con Genova per il predominio nei
traffici verso l’Oriente e cerca di allungare la sua ombra su
Padova, Verona, Vicenza, Ravenna. Anche Roma ribolle,
stavolta di umori anticlericali. I Pierleoni, mezzi ebrei,
rispolverano l’antico Senato, di cui diventa capo Giordano,
fratello di Anacleto. Rendono così impossibile l’esistenza a
una schiera di papi fatti eleggere dai Frangipani. L’ultimo,
Eugenio III, cacciato in esilio, ha un colpo d’ala: bandisce
una seconda crociata (1147), per espellere i saraceni dal
regno cristiano di Gerusalemme.
Corrado III, imperatore, ma inviso a gran parte della
nobiltà germanica, se ne infervora. Lo stesso succede a
Luigi VII re di Francia. Il resto d’Europa rimane freddo, anzi
pensa di sfruttare la partenza dei due sovrani per meglio
complottare. L’esito purtroppo è negativo, la ritirata dalla
Palestina catastrofica. Appena rientrato in Germania,
Corrado riceve un curioso invito: la ridestata repubblica
romana dei Pierleoni – il cui ispiratore è un singolare abate,
Arnaldo da Brescia, che predica la netta separazione fra
Stato e Chiesa – lo prega di raggiungere l’Urbe per essere
incoronato imperatore nel nome di Roma. Corrado muore
prima di potersi muovere: sul trono sale il trentenne nipote
Federico, il futuro Barbarossa. I romani replicano l’invito,
Federico l’accetta, ma con una variante: la corona in testa
vuol farsela cingere da papa Eugenio III, che così può
rimettere piede a Roma nel 1152. Eugenio riconosce la
Repubblica, ma spira prima di poter accogliere Federico I.
Gli succede Anastasio e a questi Adriano IV, figlio di un prete
e solo pontefice inglese della Storia. Si guarda in cagnesco
con il Senato, espelle Arnaldo, ormai giudicato un eretico, e
dopo l’omicidio di un cardinale e una sommossa popolare
scomunica Roma. Avrete già notato che l’anatema è uno
strumento religioso, ma il cui uso è squisitamente politico. Si
basa sulla suggestione e sul timor panico dell’inferno da
parte di masse bigotte e superstiziose, che i pontefici
sobillano contro i loro nemici.
La scomunica di Adriano non ha precedenti. Il basso clero
e le donne si rivoltano, il Senato vacilla. Per ottenere dal
papa il ritiro dell’interdizione, i patrizi accettano di cacciare
Arnaldo. L’abate finisce nelle mani di una pattuglia
imperiale, la sua impiccagione serve all’alleanza tra
Federico, ormai giunto a Viterbo, e Adriano. Federico ne ha
bisogno perché nella sua marcia verso la Capitale ha
assaggiato le velleità autonomiste di Milano e di altri
capoluoghi del NordOvest. Imperatore e pontefice fanno un
ingresso congiunto nell’Urbe, ma anche qui spira un’aria
minacciosa. In San Pietro, nel giugno 1155, avviene
un’incoronazione semiclandestina. Scoppiano disordini.
Frotte di romani d’ogni censo assalgono la residenza del
papa, poi si dirigono sull’accampamento tedesco e
ammazzano un bel po’ di soldati. Scatta la tipica
rappresaglia germanica: vengono trucidati migliaia di
abitanti. Una serie di problemi, tra cui un’epidemia,
suggeriscono a Federico di andar via da Roma. Lo segue
Adriano con grande gioia del Senato, che rimane padrone
incontrastato della città. Il papa dirige le sue poche truppe
verso il Sud dei normanni. Viene sconfitto in battaglia, ma
vince la pace giacché il re Guglielmo lo accompagna
nell’Urbe per sostenere le sue ragioni contro quelle della
Repubblica, che s’acconcia a riconoscere il potere spirituale
della Chiesa.
Barbarossa.
La bonaccia dura poco. Federico si batte per ripristinare
un’assoluta autorità imperiale. Ci riesce in Germania, in
Austria, in Boemia, nella Francia, che gli compete, al punto
da spostare la sua capitale a Besanc¸on. Rimane però il
nodo dell’Italia. Il Barbarossa pensa di scioglierlo
piombandovi sopra con un’agguerrita armata, nella quale
militano soldati di ogni nazione del suo regno. L’obiettivo è
Milano, che non soltanto fa orecchio da mercante – e mai
frase è stata più calzante – ai suoi ammonimenti, ma cerca
anche di sottomettere due città fedeli all’Impero, Pavia e
Lodi. Le truppe di Federico sciamano nella pianura
lombarda. Dopo un mese di assedio prendono Milano per
fame: pavesi e lodigiani vorrebbero spianarla, tocca a
Federico bloccarli. Ringalluzzito da questo successo,
l’imperatore raduna una dieta a Roncaglia, nei pressi di
Piacenza, per cercare un riconoscimento giuridico alle
proprie pretese. Si rivolge ai quattro più famosi professori
dell’università di Bologna (Bulgaro, Martino Gosia, Jacopo
Ugolino, Ugo di Porta Ravennate) e questi, traendo
addirittura spunto dal diritto romano, gli riconoscono tutti i
diritti affibbiando ai sudditi tutti i doveri.
Esultano i partigiani dell’imperatore (Pavia, Lodi, Como,
Novara, Cremona, Bergamo, il marchese di Monferrato),
rinserrano le fila gli avversari. Anche la Chiesa scende in
campo. La morte di Adriano mette di fronte il candidato pro
Federico, il cardinale romano Ottavio Monticelli, e quello
anti, il cardinale senese Rolando Bandinelli. Il conclave nel
1159 acclama Bandinelli, i sostenitori di Monticelli
sguainano le spade: la basilica di San Pietro diventa un
campo di battaglia con morti e feriti. Alla fine ci si ritrova
con gli immancabili due papi, quello legittimo, Alessandro III,
e quello che piace all’imperatore, Vittore IV. Lo scisma non
viene sanato né da un concilio convocato da Federico né da
un altro convocato a Tolosa con la benedizione di Francia e
Inghilterra, un po’ sospettosi sulle mire del Barbarossa. Il
quale, per tagliare l’erba sotto i piedi di Alessandro, rade al
suolo Crema e Milano, fatta eccezione per le chiese, e
nomina podestà di sua fiducia in ogni città del fronte
avverso. Si schierano con Federico anche Pisa e Genova
mentre Venezia rimane neutrale. Ma il ritrovarsi dalla stessa
parte pone le premesse del futuro contrasto fra le due
potenze marinare. Pisa, i cui fondachi spaziano dalla Spagna
al Levante, ottiene l’assegnazione della costa tirrenica sulla
quale già s’appuntano i desideri di Genova.
Neppure la scomparsa di Vittore IV, nel 1164, serve a
ricucire i rapporti tra i due contendenti. Anzi la designazione
imperiale del cardinale Guido da Crema, Pasquale III, induce
Alessandro a incitare i comuni alla rivolta. Il pontefice tenta
di coinvolgere nel suo piano persino l’imperatore d’Oriente,
Manuele Comneno. Un aiuto decisivo giunge dai normanni,
che dalla Francia lo trasportano a Messina e gli danno la
copertura militare per raggiungere Roma. La festosa
accoglienza della città è vissuta da Federico come uno
sfregio. Sul finire del 1166 allestisce una spedizione contro
la Penisola. Espugna Ancona per sottrarre una possibile base
a Comneno, lancia un’avanguardia verso la Capitale.
Sconfitto un esercito allestito in tutta fretta dal papa,
sebbene il rapporto sia di uno a dieci, i tedeschi irrompono
in San Pietro, ultimo rifugio di Alessandro. Il pontefice
vorrebbe resistere, ma alla fine è costretto a un’altra fuga
(1167).
Anche se Roma è caduta, i comuni non demordono. Li
spingono i soprusi dei podestà e l’impossibilità di Federico di
restare in Italia il tempo necessario a darle la pace dei
cimiteri. A Pontida nell’aprile del 1167 Milano, Cremona,
Brescia, Bergamo e Mantova costituiscono la Lega
lombarda, il cui primo compito è la riedificazione di Milano.
La difficoltà di Federico a spegnere l’ennesimo fuoco di
rivolta, perché trattenuto in Germania dalla ribellione di
principi e vescovi, facilita l’adesione alla Lega di Venezia,
dei normanni, di altre città e persino di Comneno. Con
l’immancabile benedizione di Alessandro nasce la Lega
italica, che il Barbarossa per ora mette al bando dall’Impero.
La punizione tarda fino al 1174 e non riesce nemmeno per
intero giacché Alessandria resiste. Sembra il momento
adatto per giungere a un accomodamento generale, sono
tutti consenzienti tranne Alessandro. La parola passa alle
armi.
Il 29 maggio del 1176 i dodicimila soldati della Lega, da
cui ha defezionato Cremona, sconfiggono l’armata, che
Federico per eccesso di foga ha condotto loro in bocca. È un
successo così inatteso da trasformarsi nell’epopea del
Carroccio e nella leggenda di un comandante, Alberto da
Giussano, del quale non si è mai trovata traccia. È la vittoria
dopo lunghissimo tempo di un esercito composto
interamente da italiani, che, tuttavia, non hanno combattuto
per la patria, bensì per difendere le autonomie dei singoli
comuni e soprattutto per pagare meno tasse. A Legnano,
insomma, non si fa l’Italia. In compenso si comincia a disfare
il regno di Germania. La sconfitta di Federico fa rialzare la
testa ai nemici interni. L’imperatore firma a Venezia la resa
con Alessandro, il quale si guarda bene dall’informare gli
altri componenti della Lega. Per loro fortuna Federico ha
troppi problemi in casa e preferisce accordarsi pure con i
comuni. È la pace di Costanza, 25 giugno 1183. I comuni
non ottengono niente di più degli antichi, piccoli diritti, in
difesa dei quali hanno combattuto per quasi trent’anni. Tali
diritti però significano una sostanziale autonomia
dall’Impero.
Giunto a 65 anni Federico ha capito che il vero nemico
non sono i comuni, ma il Papato con le sue pretese
universalistiche: e allora cosa di meglio che aggiungere
all’Impero il regno del Sud e stringere il pontefice in una
morsa militare? Guglielmo re dei normanni ha un’unica
erede, sua zia Costanza: va in sposa di Enrico, il figlio del
Barbarossa, nella basilica di Sant’Ambrogio a Milano. A
chiarire quali nubi si addensino sul pontificato di Urbano III
sono sufficienti la celebrazione del matrimonio assegnata
agli arcivescovi di Vienna e di Aquisgrana e la corona ferrea
di re d’Italia, posta dai due sul capo di Enrico VI. Manovre e
progetti sono però bloccati dalla notizia della caduta di
Gerusalemme in mano ai musulmani. Urbano ne muore,
Federico si lancia a capofitto nella terza crociata: ai suoi
occhi dovrebbe permettergli di riguadagnare le simpatie e le
posizioni perdute. Non va così. L’esercito turco logora la
spedizione sbarcata in Siria. Di centomila ne sopravvive un
terzo. Lo stesso Federico perisce nel guadare un
fiumiciattolo della Cilicia. La ritirata è inevitabile. Eppure la
somma di tanti disastri porta Enrico VI, il figlio del
Barbarossa, al coronamento del sogno paterno. Al titolo
d’imperatore può aggiungere quello di re di un’Italia
finalmente unificata essendo spirato da un anno Guglielmo.
A sorpresa i feudatari di Sicilia, Calabria e Puglia offrono
la corona a un bastardo degli Altavilla, Tancredi. Fattosi
consacrare imperatore a Roma, Enrico punta contro
l’usurpatore. Tra pestilenze e marce indietro non ha bisogno
di battere Tancredi: questi toglie il disturbo da solo nello
stesso anno, il 1194, in cui l’attempata Costanza dà alla
luce, nella piazza di Jesi, Federico II. Il padre muore che il
bimbo ha due anni ed è in una posizione scomoda. I baroni, i
duchi, i conti, dei quali Enrico aveva distrutto castelli e città,
adesso puntano a una rivincita nel nome di Ruggero e di
Tancredi. La madre Costanza, per quanto normanna, è
ritenuta inaffidabile avendo sposato un tedesco, che ha
riempito di roghi e di macerie il Meridione. La vogliono
addirittura espellere da Palermo, ma lei si rivolge al nuovo
pontefice, Innocenzo III. Questo papa mezzo germanico e
mezzo romano accetta di proteggerla. Ha già chiaro in testa
il disegno di dividere quell’unica, minacciosa corona. Da
subito gli riesce di trasformare il regno di Sicilia in proprio
feudo. Poco prima di morire, infatti, Costanza nomina il papa
tutore del piccolo Federico e per salvargli il trono siciliano
accetta di rinunciare ai privilegi conquistati dai suoi
antenati. Così dopo centocinquanta anni finisce l’era
normanna nel Sud. Sotto i discendenti del Guiscardo e di
Ruggero in Sicilia hanno felicemente convissuto e lavorato
cattolici, musulmani, ebrei. Nei secoli a venire si conteranno
purtroppo pochi esempi di simile gioiosa mescolanza.
17. Una lingua invece di una patria

Di padre germanico e di madre romana, Innocenzo III (il


cardinale Giovanni Lotario), con laurea in scolastica a Parigi
e in giurisprudenza a Bologna, è lo statista più eminente
mai asceso al trono pontificio. La sua opera, tesa a collocare
la Chiesa su un piedistallo dal quale dominare uomini e
cose, conosce successi irripetibili. Tra questi rientra pure il
ponte sospeso sul Gottardo: l’approntano i ‘fratelli pontifici’
e il papa se ne appropria i meriti. È un’opera senza
precedenti, riempie di meraviglia i racconti dei viandanti,
che lo utilizzano risparmiando giorni e giorni di cammino.
Affidato Federico a una schiera di brillanti educatori,
capeggiati dal cardinale Savelli, Innocenzo si dedica alle
questioni politiche, che così tanto lo intricano. Il primo atto
riguarda il varo della quarta crociata: non libera
Gerusalemme, trasforma l’Impero d’Oriente in Impero latino
d’Oriente e scava un solco tra europei e bizantini mai più
colmato. La crociata si rivela un fiasco per tutti tranne che
per Venezia, la quale sotto la guida del doge novantenne
Dandolo riprende il possesso di Zara, della Dalmazia e vi
aggiunge le isole Ionie, Candia, Negroponte, Gallipoli e le
zone vicine. Colei che all’inizio viveva di pesca e di sale è
adesso la prima potenza commerciale del Continente, forse
la città più bella per merito degli splendidi palazzi costruiti
sull’acqua, di sicuro la più ricca. L’oligarchia al potere ne è
la fedele espressione: per concorrere alla carica di doge non
basta essere abili statisti e bravi ammiragli, bisogna
coltivare le amicizie di rango e possedere vaste ricchezze.
Venezia dipende nominalmente da Costantinopoli, ma sono
sue le navi (le agili triremi chiamate galee e i mastodontici
dromoni), che trasportano i crociati all’assalto della capitale
bizantina, difesa tra l’altro da duemila mercenari pisani. Da
Costantinopoli provengono i quattro cavalli di bronzo con cui
viene addobbato nel 1204 il portale della magnifica basilica.
Dal nono secolo essa custodisce le reliquie di San Marco,
acquistate in Egitto da due mercanti. In questi decenni
Venezia è un’anticipazione di New York: l’ombelico del
pianeta, il luogo dove la vita è più dolce, al riparo delle
scomuniche e delle invettive del clero. Nelle calli e nei
palazzi le feste impazzano, il carnevale dura all’infinito. Sui
ponti privi di parapetto torna in auge il pugilato cantato da
Omero, la gioventù s’appassiona alle gare con la balestra, la
prima arma meccanica, costruita in Francia nel 1050. Nel
1227 viene progettato il camino a muro, che rivoluziona il
modo di riscaldare le case.
La tutela d’Innocenzo su Federico si conclude nell’anno
(1209) in cui il pontefice decide di separare le due corone –
quella imperiale e quella italiana – riunificate da Enrico VI. In
San Pietro consacra imperatore Ottone di Brunswick, al
quale gli Hohenstaufen oppongono Filippo di Svevia, un
fratello di Enrico. La sanguinosa guerra civile divampante in
Germania ha come conseguenza uno scambio di favori tra
Ottone e Innocenzo. Il papa nomina l’imperatore anche re
dei romani e questi riconosce allo Stato pontificio tutti gli
antichi domini, compreso il regno di Sicilia. A Palermo però è
pronto a entrare sul palcoscenico della Storia il sedicenne
Federico: ha già messo in mostra le qualità per le quali sarà
definito stupor mundi. Federico aveva meravigliato i suoi
maestri imparando a quattro anni a leggere e a scrivere, il
resto è venuto da sé. È dotato di un’intelligenza vorace,
affamata di ogni sapere e desiderosa di provare tutto. Parla
sette lingue, tra le quali l’arabo, il greco, l’ebraico, e non
esiste campo dello scibile umano che lo lasci indifferente.
Innocenzo lo usa per contrastare Ottone in rivolta e
scorazzante in quei possedimenti del Mezzogiorno, che
aveva riconosciuto appartenere al pontefice. L’immancabile
scomunica fa il vuoto attorno all’imperatore, le città del
Nord hanno la scusa per chiudergli le porte in faccia e
arroccarsi in difesa delle proprie autonomie. Il diciottenne
Federico diventa il braccio armato di Innocenzo. Al loro
primo incontro, nel 1212, il papa gli promette la corona
imperiale a patto che tenga separati il regno di Sicilia da
quello di Germania e riconosca alla Chiesa i privilegi e le
terre di cui ha bisogno. Inutile dire che Federico, avendo
tutto da conquistare e nulla da perdere, è pronto a ogni
accordo. Innocenzo non chiede di meglio per potersi
dedicare ad altre due crociate, che sono poi il mezzo per
estendere il suo potere nel nome di Cristo (« Dio lo vuole »).
Ne fanno le spese i musulmani di Spagna e gli albigesi, o
catari, della Francia meridionale, accusati di eresia.
Il fuoco della guerra divampa presto nell’intera Francia a
causa del conflitto con l’Inghilterra. La sconfitta inglese
trascina nella polvere anche Ottone. Federico rimane
padrone incontrastato. A poco più di vent’anni ha
raddrizzato le sorti degli Hohenstaufen. Ma la Germania non
l’attira, il suo cuore è rimasto in Sicilia, le mille luci di
Palermo lo riempiono di nostalgia e non vede l’ora di
rimirarle. Comincia il rapporto di odio-amore con l’Italia. Il
nuovo papa, Onorio III, è il suo vecchio tutore, il cardinale
Savelli: lo incorona imperatore e riconosce il figlio Enrico re
di Germania e di Sicilia.
Onorio è ultranovantenne, però di scorza dura. Non si
nasconde davanti alle inquietudini, che solcano la fede. Le
eresie dei catari e dei valdesi sono l’estremizzazione di un
malessere profondo. Monta la protesta contro i costumi dei
vescovi, contro la corruzione del clero. Per assecondare
questo desiderio di riforma Onofrio arruola un frate
spagnolo, Domenico, lo autorizza a fondare l’ordine dei Frati
Predicatori, dai quali proverranno le teste pensanti, i
missionari e gli implacabili funzionari dell’Inquisizione. Ma a
ideare quest’inconcepibile, per noi, processo indiziario, con
cui sono perseguiti e torturati quanti sospettati di aver
deviato dalla dritta via, non è la Chiesa, ma il laico e
tollerante Federico II. Per calcolo politico e per motivi
d’ordine pubblico nel 1220 il neoimperatore ordina il bando
dei presunti eretici e la confisca dei loro beni. Quattro anni
più tardi aggiunge il rogo. Il Papato non fa che copiarlo.
Onorio è attratto dalla cultura e dalla preparazione dei
domenicani. Ne apprezza anche l’estrema modestia di vita,
ma su questo versante deve fare i conti con l’altro grande
ordine, quello dei francescani. Francesco è un agiato figlio di
commerciante folgorato dalla voce di Dio al culmine di una
giovinezza spensierata. Il suo approccio alla dimensione
monastica è totale: rinuncia a ogni suo avere, diventa da
subito il Poverello d’Assisi, la cui vita è scandita dal lavoro
più umile, dalla preghiera più intensa. È un’esistenza
impregnata di spirito e di estasi. Attrae molti conversi, alla
cui totale dedizione interiore corrisponde una costante
allegria esteriore. Li chiamano i ‘giullari di Dio’. Tuttavia la
rinuncia di Francesco a ogni suggestione terrena, lo
scomodo specchio che lui e i suoi adepti costituiscono per
una parte del clero li porta in rotta di collisione con il
Vaticano. Innocenzo III fatica a riconoscere la Regola, Onorio
III obbliga Francesco ad attutirla. Ma l’ordine, chiamato con
somma modestia da Francesco dei Fratelli Minori, è
inarrestabile nella propria missione. Vi contribuisce lo
straordinario Cantico delle Creature composto dallo stesso
Francesco. Questa poesia, destinata a una fama immortale,
segna l’esordio della lingua italiana volgare (da vulgus,
popolo) per distinguerla dal latino, la lingua dei dotti.
Francesco muore nel 1226, cinque anni dopo Domenico e
un anno dopo la nascita di Tommaso, figlio di un conte
tedesco, imparentato con il Barbarossa e residente ad
Aquino, a metà strada fra Roma e Napoli. Tommaso è colui
che affronta la riforma della Chiesa sul piano filosofico-
speculativo cercando di mettere d’accordo Aristotele con
Gesù e raggiungendo vette teologiche che ancor oggi
sostengono l’intera impalcatura religiosa. La sua Summa –
mai titolo fu più azzeccato – occupa diciannove volumi e
contiene l’intero scibile umano. Con il massimo della
sincerità e dell’onestà Tommaso affronta e risolve ogni
questione dal punto di vista di Dio. L’enciclopedico sapere e
il brillantissimo ingegno gli consentono di passare in
rassegna che cosa sostiene la Bibbia, che cosa sostengono i
Padri della Chiesa, che cosa sostiene la Ragione. È talmente
imparziale da rasentare l’accusa di eresia per le sue
affermazioni sulla mancanza di corporeità degli angeli e
sull’importanza della materia. Però, quando la cristianità
sarà spaccata in due dal protestantesimo, la sua Summa
verrà equiparata per importanza ai Vangeli.

Francesco.
Domenico, Francesco e Tommaso danno risposte diverse
all’esigenza di un profondo rinnovamento interiore del clero.
Tanto diverse che nel prossimo secolo parecchi francescani
saranno arsi sui roghi perché accusati d’eresia dai
domenicani. D’altronde i ‘giullari di Dio’ fanno più proseliti
fuori che dentro la Chiesa: le ansie e i tormenti che li
agitano si rispecchiano nella costruzione (1228) della
cattedrale gotica di Assisi. Nel cuore della cattolicità
continuano a considerarli degli esagitati da maneggiare con
cautela e da usare in funzione anti Federico, il cui
imperversare inquieta il crepuscolo di Onorio.
Pur essendo l’ultimo gigante del Medioevo, Federico
precorre i tempi. Nel privato coltiva abitudini da satrapo:
trasforma il suo genetliaco, 26 dicembre, in festa nazionale
con generose elargizioni ai poveri; alimenta il proprio culto e
gli piace esser trattato da semidio; si sposta con una
folcloristica e innumerevole corte di consiglieri, di artisti, di
animali esotici. Ma per quanto assolutista, Federico ha
un’idea di Stato molto moderna: attua una straordinaria
tolleranza religiosa, istituisce a Napoli la prima università
pubblica – le altre tre, Bologna, Vicenza e Padova sono
private – concepisce un forte governo centrale, ben
disegnato nelle Constitutiones Melphitanae, le leggi del
regno. Il centralismo conduce Federico allo scontro con i
comuni del Settentrione, i quali trovano nel sostegno al
papato il motivo per opporsi al disegno di uno Stato unitario.
Federico lo coltiva per i propri tornaconti, ma se l’avesse
conseguito avrebbe fatto guadagnare seicento anni all’Italia.
E sarebbe rientrato nella norma che fosse un tedesco a
unificarla. Di conio germanico è infatti l’Europa delle nazioni
da Carlo Magno in avanti. Francia, Inghilterra, la stessa
Russia non sarebbero esistite senza i tedeschi. Purtroppo,
tra Federico e il suo progetto ci sarà sempre di mezzo un
pontefice, mosso dal solito desiderio di salvaguardare il
proprio potere temporale.
Comincia Gregorio IX (il conte Ugo di Segni) con una
scomunica. Il motivo? La tiepidezza di Federico nell’onorare
l’improvvida promessa, pronunciata dinanzi al sarcofago di
Carlo Magno, di allestire la quinta crociata. Ma Gregorio IX
agogna davvero la liberazione di Gerusalemme o è alla
perenne ricerca di una scusa per impedire a Federico di
essere riconosciuto re d’Italia da comuni e signorie? Gli
emissari del papa spingono gli italiani alla rivolta contro il
‘traditore’ Federico. La sua colpa è di aver ottenuto dal
sultano palestinese la cessione di Acri, Giaffa, Sidone,
Nazareth, Betlemme e Gerusalemme con una pacifica
trattativa (1229), senza spargere una goccia di sangue.
Purtroppo al pontefice amante dell’Inquisizione non va a
genio una crociata priva del consueto massacro d’infedeli.
Federico deve correre in Italia per domare il Mezzogiorno
e poi puntare sulla Germania per debellare una congiura di
principi addirittura in accordo con Enrico, il figlio. Nei suoi
confronti Federico è spietato: lo fa accecare e rinchiudere
fino alla morte in un castello pugliese. In Italia la rivolta si
propaga al Settentrione: la ricostituita Lega è intenzionata a
sbarrare il passo all’imperatore di ritorno dalle province
tedesche. Ma l’esercito di Federico è troppo superiore per
numero e armamento: a Cortenuova (1237) le schiere dei
comuni sono severamente battute. Tuttavia Milano e Brescia
non demordono. La strenua resistenza di Milano spinge
l’irriducibile papa Gregorio a bandire una sorta di crociata
contro il monarca scomunicato per la seconda volta. Genova
e Venezia accettano di farsi coinvolgere. Rispetto alle altre
città italiane hanno la flotta e un’invidiabile posizione
geografica, che le mette al riparo dalle offensive nemiche.
Federico, infatti, si limita a bandirle dall’Impero, senza
pensare d’invaderle come, invece, fa con il Lazio. Il suo
obiettivo è Roma, dove i Frangipani lavorano per lui, ma
Gregorio ha dalla sua i quattrini degli Orsini e dei Colonna:
riesce ad arrangiare una milizia cittadina, che induce
Federico a un veloce dietrofront. È una guerra di proclami e
di dispetti. Il pontefice punta a un provvedimento risolutivo
e convoca per il 1241 un concilio con il disegno di deporre
Federico.
Per evitare un viaggio zeppo d’insidie attraverso gli
Appennini, i vescovi s’imbarcano a Genova. Niente da fare:
nei pressi della Meloria le navi sono aggredite da una flotta
siculo-pisana. La città toscana si è schierata con
l’imperatore in odio a Genova, che le ha sottratto il Tirreno.
La vittoria di Federico è completata dal decesso di Gregorio.
Il successore, Innocenzo IV, è un prelato ligure, Sinibaldo
Fieschi, fin lì in posizione defilata. Sembrerebbe l’occasione
giusta per una pace ormai agognata da entrambi i fronti. Ma
ci pensa Viterbo con un’insurrezione guelfa a rinfocolare il
conflitto. Il papa teme per la propria sicurezza, si rifugia a
Lione. Qui un concilio protetto dai francesi dichiara
decaduto l’imperatore. Federico ha l’intelligenza di lanciare
un appello agli altri sovrani invitandoli ad allearsi con lui per
sconfiggere la pretesa papalina di poter deporre i monarchi
a proprio piacimento. In Europa sono mesi d’inesausti
conciliaboli, di trame, di congiure. Minacciati di scomunica
da Innocenzo, i principi e i re traccheggiano. Non
traccheggiano, viceversa, i nobili tedeschi e siciliani vogliosi
di liberarsi dal giogo federiciano. Il colpo di grazia è inflitto
nel 1248 da Parma: assediate da mesi, le abborracciate
milizie cittadine con una sortita disperata travolgono
l’esercito imperiale. Poco dopo, a Fossalta, sono i bolognesi
a vincere: tra i prigionieri figura Enzo, un altro figlio di
Federico.
Lo stupor mundi è ormai un vecchio in disarmo, sebbene
abbia soltanto cinquantaquattro anni, un’età in cui suo
nonno battagliava ancora sui campi. Il progetto politico è
fallito, la famiglia e il ‘partito’ sono a pezzi. Oltre al figlio
Manfredi, accanto gli sono rimasti in pochissimi. La pretesa
della Chiesa di non avere rivali nella Penisola ha dato fiato
agli egoismi e agli interessi spiccioli degli italiani, ben felici
di conservare ciascuno il proprio spicchio di sole, noncuranti
della tempesta all’orizzonte. A modo suo pure Federico
rende onore al grande nemico vittorioso: spira nel 1250
confessato e comunicato dopo aver indossato la tonaca dei
monaci cistercensi.
Con lui tramonta il primo germe della lingua italiana – un
misto di latino, germanico e arabo – fiorito alla corte
palermitana sull’esempio dei menestrelli provenzali, i
trovatori. Sono giunti in Italia dopo la crociata contro gli
albigesi, hanno soggiornato nel Monferrato e nella Lunigiana
prima di essere invitati nel regno di Sicilia. La Chanson de
geste alla quale s’ispirano, l’equivalente della moderna soap
opera, canta tra sospiri e languori l’amore puro e platonico
per una donna. Imitandone l’arte e i convenevoli, Sordello,
Pier delle Vigne, Jacopo da Lentini, Ciullo d’Alcamo e Guido
delle Colonne hanno composto i loro versi in quel volgare,
che s’appresta a soppiantare il latino. Lo stesso imperatore
l’ha usato per i componimenti poetici di cui si dilettava
assieme ai figli Enzo e Manfredi in un’attrazione per la
cultura, che nessuna cura dello Stato ha mai attenuato.
Palermo, Foggia, Lucera ne hanno ospitato il meglio
senza distinzione tra arabi, cristiani, ebrei. Davanti
all’eccellenza, Federico non aveva pregiudizi: all’università
di Napoli ha insegnato Pietro d’Irlanda, maestro di Tommaso
d’Aquino; a Palermo ha tenuto banco Michele Scoto,
eccellente traduttore di Aristotele e straordinario astrologo.
Questa doppia eredità di Federico non andrà perduta: il
mecenatismo e la protezione dei grandi artisti saranno la
prerogativa delle corti d’Italia, il brodo di coltura del
Rinascimento; l’uso della lingua volgare si trasferirà in
Toscana dove le arrabbiature politiche stimoleranno un
geniale poeta, Dante, a darle forma compiuta.
Nello sbandamento suscitato dalla dipartita di Federico,
papa Innocenzo cerca di trarne giovamento. Abbandona la
Francia, s’installa a Napoli, dichiara l’annessione del regno
di Sicilia agli Stati pontifici. Ma la dinastia degli
Hohenstaufen non è ancora domata. Sul trono di Germania
si è insediato un ennesimo figlio di Federico, Corrado IV: gli
basta valicare le Alpi per intestarsi i possedimenti
meridionali. Innocenzo prova a bandire un’altra santa
alleanza, stavolta i comuni si rifiutano: non c’è da difendere
la propria autonomia dalle ingerenze di un monarca, bensì
appoggiare le pretese di un papa-re, che qualora si
annettesse il Sud diventerebbe lui stesso una minaccia
all’indipendenza comunale. Innocenzo viene lasciato a
sbrigarsela da solo con Corrado e muore dal dispiacere. Da lì
a poco lo segue anche il re tedesco, cui succede Manfredi. A
differenza di padre e fratelli, Manfredi si disinteressa della
Germania: punta a diventare il regolo dell’Italia. Il pontefice
Alessandro IV (un secondo conte di Segni, Rinaldo) chiama
gli antichi alleati alle armi, ma le truppe regie, composte in
gran parte da mercenari saraceni, la cui abilità non teme in
quegli anni confronti, sbaragliano il raccogliticcio esercito
papalino.
La volontà di Manfredi di non farsi coinvolgere in vicende
lontane lo priva, però, del suo principale alleato, il cognato
Ezzelino da Romano. Rimasto isolato nelle sue terre venete,
questi viene sconfitto e lasciato morire in una segreta,
mentre al resto della famiglia è riservato un lungo ed
efferato supplizio. L’eliminazione di Ezzelino ha l’effetto di
rinsaldare i ghibellini attorno a Manfredi sempre nel timore
che l’altra parte diventi troppo forte. Timore coltivato
soprattutto dalle città toscane davanti al crescere della
guelfa Firenze. La battaglia di Montaperti, nel 1260, con la
rotta delle schiere fiorentine, ridà a Manfredi la supremazia.
Tocca a papa Urbano IV (il cardinale Jacques Pantaléon)
preoccuparsene: dopo quarant’anni di lotta, gli
Hohenstaufen sono considerati peggio del diavolo. Per
liberarsene non trova di meglio che rivolgersi all’ennesimo
straniero. Essendo lui stesso francese offre la corona del
regno di Sicilia al cattolicissimo re di Francia, Luigi IX. Il
sovrano la dirotta sul fratello Carlo d’Angiò. L’aspirante
monarca si presenta con un esercito ingente, trentamila
uomini. Tra saraceni e tedeschi Manfredi ne mette assieme
meno della metà. Eppure nella piana di Benevento (1266) è
sul punto di vincere, alla fine però soccombe. Due anni dopo
(1268) tocca a suo nipote, il quindicenne Corradino di
Svevia, figlio di Corrado, essere sconfitto a Tagliacozzo e
decapitato a Napoli. Di Hohenstaufen in Italia non si parlerà
più.
L’Italia cambia fisionomia. I comuni del Nord hanno
esaurito il loro ciclo. Le popolazioni, stanche di una feroce
contrapposizione, che non accenna a diminuire e che da
quella classica tra ghibellini e guelfi si sposta a volte tra le
fazioni di uno stesso partito, come avviene a Firenze,
chiedono forme di governo più tranquille e più stabili. Pur di
ottenerle, rinunciano alle istituzioni democratiche: ci si avvia
verso la signoria. La incarna o il capo del clan vittorioso o il
podestà chiamato da fuori per mettere fine alle dispute. Al
signore si riconoscono doti d’imparzialità e di maggior
attenzione all’interesse generale: viene ripagato con un
potere quasi indiscusso. L’esempio più calzante è Milano:
Pagano Della Torre, che dopo Cortenuova ha salvato i resti
dell’esercito della Lega, instaura un dominio personale con
l’appoggio dei borghesi e degli artigiani. È il trionfo delle
corporazioni, che si dotano di feste, di bandiere colorate e di
una disciplina ‘sindacale’. Si parla infatti di solidarietà fra gli
iscritti, di proibizione della concorrenza scorretta, di etica
commerciale, si stabiliscono orari e tariffe per apprendisti e
garzoni: purtroppo rimarranno quasi sempre a livello
d’intenzioni.
Due anni dopo (1268) tocca a suo nipote, il quindicenne Corradino di Svevia,
figlio di Corrado, essere sconfitto a Tagliacozzo e decapitato a Napoli. Di
Hohenstaufen in Italia non si parlerà più.

Accanto a quelle di nuovo conio, resistono le antiche


signorie feudali, le contee e i marchesati di origine
longobarda e franca. L’epicentro è in Piemonte. La locale
realtà agraria e militare aveva soffocato sul nascere le
velleità del comune. L’eccezione era stata Torino,
affrancatasi dai conti di Savoia nel 1136, ma in perenne
pericolo fino alla sua definitiva caduta nel 1280. E dire che i
Savoia sono soltanto la terza forza dopo i marchesi del
Monferrato e quelli di Saluzzo. Tra le Alpi e il Ticino si
sviluppa una casta chiusa con rari contatti esterni, assorbita
dalle piccole beghe locali, da piani d’espansione che non
vanno oltre la conquista di un podere o di un castello.
Nobili, signorotti e podestà, che in difesa della propria
indipendenza hanno avversato con ogni mezzo il casato
degli Hohenstaufen, gareggiano ora nel procacciarsi il
favore degli Angiò. Da un capo all’altro, la Penisola si prende
una sbornia francese, dalla quale la rinsaviscono i soprusi e
la cattiva amministrazione di Carlo. Per sovrammercato
muore papa Clemente IV (Guy Folques), transalpino come il
suo predecessore. Le beghe e i complotti per eleggere un
pontefice durano tre anni. Il fronte antifrancese porta alla
scelta del cardinale piacentino Tebaldo Visconti, Gregorio X.
Questi tesse una trama in grado di liberare il Vaticano
dall’asfissiante abbraccio della Francia. Ci riesce in maniera
paradossale: ridestando la corrente ghibellina e assegnando
la corona d’imperatore a un antico alleato degli
Hohenstaufen, Rodolfo d’Asburgo. La svolta nazionale passa
ancora da Milano. Per arginare Della Torre, fedelissimo dei
d’Angiò, il seggio arcivescovile è assegnato a un cugino del
papa, Ottone Visconti: imprigiona i Della Torre e favorisce
l’ascesa del nipote Matteo a delegato del popolo e a vicario
dell’imperatore. Con questi poteri illimitati Matteo Visconti
trasforma Milano nello strumento della propria ambizione.
Sotto di lui la città impone la propria guida all’intera
Lombardia.
L’improvvisa scomparsa di Gregorio (1276) riporta su gli
Angioini: dopo un quadriennio di papi eletti e subito defunti,
sale al soglio di Pietro un altro francese, Simon de Brie,
Martino IV. Carlo è di nuovo in sella, ma il malumore della
Sicilia esplode nel marzo 1282 a Palermo, scalzata da Napoli
nel ruolo di capitale. Sono i famosi Vespri. La ribellione è sì,
una volta tanto, contro lo straniero, tuttavia non avviene né
in nome dell’Italia né in nome della Sicilia. A suscitarla è lì
per lì la mancanza di rispetto di un sergente francese nei
confronti di una donna, però a covarla sono state le
vessazioni del fisco e il clima da occupazione imposto dalla
soldataglia degli Angiò. Secoli dopo in quest’esplosione d’ira
verrà visto l’esordio pubblico della mafia: la tesi è meno
peregrina di quanto si possa immaginare.
Alla ricerca di alleati per salvarsi dalla scontata reazione
di Carlo, i siciliani si rivolgono invano al papa. Trovano
invece ascolto presso gli Aragonesi, il cui reame in Spagna è
in grande sviluppo. La flotta di Pietro III d’Aragona sorprende
e distrugge quella angioina nelle acque di Messina. Il
pontefice francese Martino IV, succube degli Angiò,
scomunica gli Aragona e i siciliani, ma i tempi sono ormai
mutati. L’interdetto papale non è più in grado di smuovere
le masse. E poi comuni e signorie sono troppo assorbiti dalle
proprie guerricciole per potersi dedicare a quelle del
pontefice. Eccone un piccolo campionario.
Genova ha da regolare i conti con Pisa, non del tutto
rassegnatasi a essere esclusa dai pingui traffici del Tirreno.
Nel 1284 alla Meloria, fatale quarant’anni prima alla flotta
ligure, le navi genovesi sbaragliano quelle rivali. Pisa deve
definitivamente rinunciare a ogni residua velleità su Corsica
e Sardegna. Ma i suoi guai non sono finiti. Sulla terraferma
l’alleanza tra Firenze e Lucca, eternamente fedeli al papa,
minaccia di soffocarla. Dopo decenni di militanza imperiale,
Pisa si rassegna a mutare indirizzo, tranne poi ricambiarlo
nel 1288 sulla spinta di un arcivescovo ghibellino. È di
nuovo guerra con Firenze e Lucca fino alla pace del 1293:
segna la fine della gloriosa Repubblica e la consacrazione di
Firenze.
La città, da sempre guelfa nel solco tracciato dalla
contessa Matilde, ha avuto un’esistenza travagliata, ma ha
restituito colpo su colpo ai sovrani, che hanno attentato alla
sua indipendenza. Compatta all’esterno, Firenze non lo è per
nulla all’interno. I nobili venuti ad abitarvi, e che l’hanno
riempita di fortezze eufemisticamente definite palazzi, si
sono divisi in altrettante consorterie. A esse si oppongono le
arti dei mercanti e dei banchieri, decisissime a non mollare
il controllo dell’amministrazione. Ma non esiste rivalità tra le
famiglie più in vista e tra le consorterie e le arti, che possa
comunque intaccare la vitalità di Firenze, la sua capacità di
resistere a ogni rovescio. Firenze riallaccia i contatti con
Lucca e Pistoia, tiene a bada Pisa e nel 1289 a Campaldino
sconfigge i ghibellini del Centro Italia capitanati da Arezzo.
Ormai, però, le coloriture politiche (guelfi = papalini;
ghibellini = imperiali) sono sbiadite, si combatte per la
supremazia della propria città, che vuol dire supremazia dei
commerci, delle banche, degli affari. Il fiorino (moneta d’oro
zecchino con su impresso il giglio di Firenze) gareggia con il
ducato d’oro e d’argento coniato da Venezia in onore del
proprio duca, il doge. I banchieri di Firenze si apprestano a
invadere l’Europa, i banchieri di Venezia le terre d’oltremare.
Sull’acqua Venezia deve tuttavia vedersela con Genova.
Padrone di flotte, che hanno stracciato ogni concorrenza, le
due repubbliche sono impegnate in una competizione
economica, la quale ha per teatro quasi l’intero mondo.
Anche l’Estremo Oriente è meno lontano dal giorno del 1261
in cui Niccolò e Matteo Polo hanno lasciato i campielli
veneziani per portare le loro merci fino in Cina. Qui li
raggiunge il giovane Marco, figlio di Niccolò, al termine di un
lunghissimo viaggio a piedi, che l’ha condotto anche in
Giappone. Le sue fantastiche avventure sono raccolte nel
Milione: vorrebbe essere un libro di viaggio, ma è molto di
più. Porta il profumo e le conoscenze di un grande popolo,
che ha appena costruito il cannone e la cui invenzione della
polvere da sparo suscita da un bel pezzo curiosità e
interrogativi nel Continente.
Genova e Venezia istituiscono dappertutto fondachi,
rappresentanze, uffici di cambio. I genovesi importano lo
sconosciuto cotone dalla Spagna, i vetrai di Murano rendono
trasparente il vetro e lo mettono alle finestre, comodità da
cui il vivere civile non saprà più prescindere. Ma finite le
crociate, che per entrambe sono state una manna,
esauritosi il dualismo Papato-Impero, sparita Pisa, le
schermaglie tra Venezia e Genova crescono d’intensità fino
all’inevitabile scontro. Un raid in Adriatico di settantotto
galee genovesi procura un importante successo all’isola di
Curzola contro cento galee veneziane. È il 1298, s’inizia un
conflitto lungo e sanguinoso, nel quale si capisce subito che
l’egemonia sarà decisa da chi ha le finanze più floride. E la
solidità economica di Venezia non ha eguali.
Pure il confronto tra gli Aragona e gli Angiò si decide in
mare. Le navi spagnole sorprendono quelle francesi nella
baia di Napoli e infliggono loro una seconda scoppola. La
divisione della Sicilia dal resto del regno è ormai cosa fatta,
nonostante la morte di Pietro e di Carlo produca un
guazzabuglio di eredi, di alleanze, di capovolgimenti. Si
concluderanno nel 1302: verrà riconosciuto il regno di
Federico d’Aragona con l’intesa che alla sua morte la Sicilia
sarà restituita agli Angiò. Ma l’immanenza di questo casato
nelle vicende italiane è in declino dal momento in cui ha
perso il controllo del Concilio. Dopo quattro papi
d’ispirazione francese, vince un conte Caetani, grande
manovratore di curia, che ha preso l’abito talare soltanto
per soddisfare ogni ambizione. Diventa Bonifacio VIII e non
stupitevi che un tal pontefice avido, miscredente, blasfemo
sia il più convinto assertore del potere temporale della
Chiesa: gli serve per affermare il proprio. Ha però davanti
l’ostacolo insuperabile del re di Francia, Filippo il Bello, che
gli è pari nella spregiudicatezza: blocca l’invio a Roma dei
tributi (le decime) raccolti nei suoi territori mandando in
crisi le casse dello Stato pontificio.
Per rinsanguarle e per lucidare il blasone, Bonifacio
indice il Giubileo. Lo prende dalla legge mosaica, che
prevede la celebrazione di ogni cinquantesimo anno, e lo
trasforma in un’assoluzione a pagamento. Quello del 1300 è
il primo nella storia della cattolicità, il banco di prova di ciò
che in seguito si sarebbe chiamata pubblicità. Voglioso di
un’affermazione che ne riconfermi l’autorità, il pontefice usa
ogni mezzo e ogni prete per indurre i pellegrini a viaggiare
fino all’Urbe. In cambio della gita, che a causa
dell’insicurezza dei trasporti è una temibile avventura, e
dell’offerta viene garantito l’accesso al paradiso senza
transitare per il purgatorio (l’indulgenza plenaria). Il Giubileo
conosce un successo insperato. La media dei visitatori è di
circa trentamila al giorno. Nella Roma angusta di quegli anni
è una folla straripante: tra i provvedimenti adottati per
contenerla appare anche la circolazione a destra. Il papato
guadagna una cifra strabiliante, anche i romani registrano
ottimi introiti: non c’è casa che non si trasformi in locanda
per farsi pagare profumatamente dagli stremati ospiti un
giaciglio e un po’ di cibo. È una festa per molti: prostitute,
bari, artisti da strada, imbonitori.
Il clima giubilare contagia cinquecento chilometri più a
nord il ricco banchiere Enrico Scrovegni. Ha acquistato un
terreno intorno alle rovine dell’arena romana di Padova e ne
fa una cappella votiva alla Vergine per riparare al peccato di
usura, di cui la sua famiglia si è più volte macchiata (il padre
è anche finito in galera). La necessità di farsi perdonare dai
concittadini i suoi spregiudicati trascorsi lo induce a non
lesinare nelle spese. Scrovegni ha bisogno di dare il nome a
un’opera unica e si rivolge al numero uno dei pittori: nel
febbraio del 1300 chiama il trentaquattrenne Giotto. Il
maestro fiorentino sta rivoluzionando la pittura: il suo
pennello rimette l’uomo e le donne al centro del mondo,
dall’esaltazione divina si passa ai personaggi in carne e
ossa. Lo si è già visto con le Storie di san Francesco nella
basilica di Assisi: storie molto umane anche quando trattano
temi trascendentali. Gli affreschi della cappella (Vita di
Maria e di Cristo, il Giudizio Universale) confermano in modo
definitivo questa innovativa e rivoluzionaria concezione
dell’arte. Non per nulla l’influenza di Giotto sarà simile a
quella del prossimo mattatore della lingua italiana, Dante.
Nel 1300 il bilioso fiorentino è tra quanti accorrono a
Roma. Lui è sospinto dalla curiosità e forse dall’idea di un
poema che gli frulla in testa. Un suo concittadino, invece, è
andato per domandare una grazia particolare: si chiama
Corso Donati, desidera rientrare a Firenze, da dove è stato
espulso essendo il capo dei Neri sconfitti dai Bianchi. Sono
le due fazioni guelfe in contrapposizione, ma il papa e
l’imperatore c’entrano ben poco. C’entrano molto di più
l’arroganza, la vanità, la superbia di due grandi casati, i
Donati, per l’appunto, di antico blasone terriero, e Vieri
Cerchi, esponente dell’imprenditoria, che ha fatto i soldi con
il commercio e li ha moltiplicati con le banche. Bonifacio VIII
appoggia Donati nella speranza di annettersi Firenze grazie
a un esercito francese comandato dal fratello di Filippo il
Bello, Carlo di Valois. Il principe francese ha poche centinaia
di armati, Firenze ne ha migliaia, eppure apre le porte.
Incomincia la faida. Carlo è stato nominato dal pontefice
‘paciere per la Toscana’, ma lascia spazio alle vendette di
Donati e dei Neri, che condannano al rogo gli ostinati
nemici. Tra quelli da bruciare figura pure Dante, tra i
massimi esponenti Bianchi. Per fortuna è scappato in tempo,
ci rimette soltanto la casa.
La salvezza di Firenze si deve all’ennesimo litigio tra
Bonifacio e Filippo. La scomunica dell’uno e la deposizione
dell’altro evolvono in una missione segreta di un commando
francese: nel settembre del 1303 sequestra il papa nei suoi
appartamenti di Anagni. Un gruppo di fedelissimi lo libera
giusto in tempo per consentirgli di morire a Roma tra le
invettive della plebe.
18. Il divino poeta

Quando Dante prende la via dell’esilio è in prossimità dei 37


anni e ritiene di avere un grande avvenire dietro le spalle.
Fin lì è stato un marito per caso, un poeta per convenzione
sociale, un politico per passione. I versi che ha composto
sono nel solco del dolce stil novo, l’adattamento italiano
della scuola provenzale, la quale ha sostituito all’amor
sensuale per la donna desiderata, e dunque anonima per
motivi di convenienza, l’amor platonico e svenevole per una
donna stavolta ben identificata con tanto di nome. Quella di
Dante è la famosissima Beatrice, da lui incontrata allorché
erano entrambi bambini, rivista molti anni dopo e da allora
rimirata a distanza. Eppure questa conoscenza appena
accennata basterà a Beatrice – probabile figlia del banchiere
Folco Portinari, morta di parto nel 1290 – per entrare nella
Storia. Lei figurerà da guida e ispiratrice di Dante in quella
Divina Commedia croce e delizia da secoli degli studenti
italiani.
Dante la comincia a Firenze e la finisce quando ormai ha
perso ogni speranza di rientrare nella città, che ama di un
amore tale da sconfinare spesso nell’odio. Guelfo per
vocazione, soldato nella battaglia di Campaldino, che ha
regalato a Firenze il controllo dell’Italia centrale, Dante si
era poi imbrancato con Vieri Cerchi, il leader e finanziatore
dei Bianchi, sebbene avesse trascorso buona parte della
giovinezza in compagnia di un cugino di Corso Donati, il
capo dei Neri. E una Donati era addirittura la moglie,
Gemma, di Dante. L’esilio imposto dai Bianchi a Donati, la
pretesa di Bonifacio VIII di assoggettare Firenze e la Toscana
avevano condotto Dante, ormai tra i capi dei Bianchi, su
posizioni estreme: si era indignato con il papa, non aveva
condiviso la nomina di Donati a governatore di una provincia
e la chiamata di Carlo di Valois in Italia. In quel frangente
Dante aveva accettato la carica di priore, la più importante
nella nomenclatura comunale. Di conseguenza era stata sua
la responsabilità oggettiva del massacro dei Neri di Pistoia,
che si opponevano alla politica dei Bianchi di Firenze.
All’ingresso di Donati e dei suoi sgherri a Firenze, Dante
figurava tra i primi nella lista nera: gli erano stati comminati
la condanna a morte in contumacia e l’esilio perpetuo.
Non potendo vendicarsi dal vivo dei suoi nemici, si
rassegna a farlo sulla carta: l’indignazione civile unita al
talento produce un’opera, grazie alla quale nel 1999 un
referendum inglese per designare i maestri della letteratura
nel millennio lo ha piazzato al secondo posto dietro
Shakespeare. La Divina Commedia ha già una struttura da
mozzare il fiato. È costruita con lo stesso rigore di una
cattedrale gotica, tutta ruotante attorno al 3, il numero
magico per eccellenza secondo Dante, e ai suoi multipli
come il 9: 3 cantiche in 33 canti di terzine in endecasillabi e
poi i 9 gironi dell’inferno (in cui si risente l’influsso etrusco),
i 9 balzi del purgatorio, i 9 cieli del paradiso. Il tutto
preceduto dal canto di presentazione per fare 100, numero
perfetto. Dante si fa guidare dalle viscere, simpatie e
antipatie sono soltanto sue. I personaggi vengono promossi
o bocciati non per le loro azioni, ma per come Dante li ha
vissuti. Tutto preso da questa sua ansia di rivalsa forse
neanche si accorge di aver scritto un poema immortale e di
aver consegnato una lingua agli italiani. Il pensiero di Dante
è fisso su Firenze, su ciò che le ruota intorno, su un ritorno,
che nei primi anni d’esilio spera possibile.
Al pari di Filippo il Bello anche Dante apprende con gioia
la scomparsa di Bonifacio. E forse condivide il processo
postumo del re francese al pontefice, colpevole di averne
contrastato i piani. Di tutt’altra pasta è Benedetto XI
(Niccolò Boccasini), eletto con il determinante concorso dei
cardinali francesi. Il nuovo papa prova a ritagliarsi uno
spazio. Tergiversa sul processo contro il predecessore, cerca
di sottrarre a Filippo, agli Angiò e ai cardinali transalpini il
principale alleato che hanno nella Penisola: i Neri di Firenze.
Muore però prima di sottomettere la fazione di Donati. Il
successore è l’arcivescovo di Bordeaux, Bertrand de Got,
Clemente V: viene sancito il trionfo della nazione in quel
momento più forte nella Penisola. Ma neppure Clemente è
un tipo arrendevole. Risponde picche a Filippo, che vorrebbe
la corona d’imperatore per quel mezzo incapace di Carlo di
Valois. Il papa preferisce lo sconosciuto Enrico di
Lussemburgo. Dopo di che non può opporsi alle pressioni dei
connazionali, che gli suggeriscono di trasferirsi al di là delle
Alpi. Il malinconico e malaticcio Clemente sceglie Avignone
(1309), territorio degli Angiò. Spera che Enrico marci contro
di loro scendendo in Italia per cingere la corona: promette di
posargliela personalmente in testa in San Pietro.
L’Italia alla fine del XIII secolo.

L’arrivo di Enrico spacca l’Italia. A suo favore si


pronunciano i marchesi di Savoia e quelli di Monferrato, i
Visconti di Milano, i Della Scala di Verona, i Gonzaga di
Mantova, gli Este di Ferrara, i Malatesta di Rimini, i Polenta
di Ravenna. Contro sono i Neri ancora padroni di Firenze e
gli Angiò, il cui potere ha impedito lo svilupparsi delle
signorie nel Meridione. Dante bazzica nei pressi di Firenze,
speranzoso che sia la volta buona di rientrare e cacciare i
Neri. L’ennesima delusione produce una feroce invettiva nei
confronti dei concittadini e questi se la legano al dito. Per il
più illustre dei fiorentini sarà esilio fino al giorno della morte,
nel 1321. Sulla disfatta dei Bianchi uno sconosciuto
faccendiere costruisce le proprie fortune, si chiama
Averardo de’ Medici e riceve l’incarico di liquidare i ricchi
patrimoni degli esiliati. Lui in pratica li incamera, con essi
avvia un’attività da banchiere.
L’imperatore non ha le forze che sarebbero necessarie
per piegare Firenze, Napoli e le altre città comprate dai
fiorini. Ricevuta a Milano la corona di re d’Italia, Enrico è
costretto a un viaggio in mare per raggiungere Roma. Ma il
papa non si presenta, lo consacrano tre cardinali (1312).
Clemente non è andato perché così ha deciso Filippo, il
quale stoppa anche la flotta fornita da Genova e Pisa per
consentire all’ormai screditato Enrico di attaccare Roberto
d’Angiò. L’Italia si trasforma per il povero imperatore in una
maledizione: il colera gli ammazza la moglie, una febbre
improvvisa manda al Creatore lui e le residue speranze di
costruire nel Paese un’opposizione politica alla Chiesa. La
quale, per altro, vive uno dei periodi più controversi. Gli
storici definiranno quello avignonese la ‘cattività di
Babilonia’, eppure pontefici e cardinali non sembrano dolersi
della nuova sede, che per molti di essi ha il profumo di casa.
Con la vendita a caro prezzo di ogni incarico riempiono le
casse e trasformano Avignone in una lussuosa e spensierata
enclave, benché la monarchia francese abbia intrapreso una
secolare guerra con l’Inghilterra per riappropriarsi dell’intero
territorio nazionale.
Da Roma e dal resto della Penisola giungono gli echi
lontani delle baruffe, delle polemiche. All’apparenza ci si
combatte ancora fra ghibellini e guelfi, ma sono semplici
etichette, dietro si celano le pretese di alcuni signori di
allargare i propri possedimenti a scapito dei vicini. Gli strali
di Clemente si appuntano sugli Estensi. Discendono da un
feudatario di Ottone I, si sono barcamenati tra i due poteri,
hanno puntato all’opulenza, di cui ha beneficiato in massima
parte Ferrara ed è la città a difenderli dal decreto di
espulsione pronunciato dal papa. In tal modo vengono
salvate anche due future e prestigiose dinastie di sovrani,
che germoglieranno dagli Estensi: gli Hannover e i
Brunswick.
Il primo a muovere davvero le acque è Matteo Visconti.
La Lombardia non gli basta, si estende a est verso il
Piemonte e a sud verso l’Emilia. Questa in teoria fa ancora
parte degli Stati pontifici, per difenderla si mobilita il solito
Roberto d’Angiò. Si proclama braccio armato del Papato, in
realtà protegge gli interessi di suo cugino, il re di Francia,
del quale ha bisogno per salvaguardare il proprio trono. Si
forma una ragnatela di tornaconti, di opportunismi, d’intese
sotterranee: avviluppa le città e le regioni, rende i nemici di
ieri gli amici di domani e viceversa, espone le città più
piccole a essere merce di scambio delle più grandi. L’unica
tagliata fuori è proprio quella che su alcuni muri reca la
sbiadita iscrizione Caput Mundi. Roma è soltanto una
passerella di nobili pomposi, privi di sostanza; lo Stato della
Chiesa è terra di conquista dei dittatorelli, che
l’amministrano nel nome di un papa troppo lontano per
intervenire. In sua assenza, l’Urbe è relegata a periferia
d’Europa, per di più con grossi problemi economici. Abituata
a vivere di donazioni, estorsioni e mance, non ha sviluppato
né una classe imprenditoriale né un’industria. Dunque, in
mancanza di una corte, non sa come tirare avanti.
Le ambascerie inviate ad Avignone per convincere i
pontefici a rientrare non sortiscono effetti, allora nobili e
popolino accolgono a braccia aperte Ludovico il Bavaro
venuto nella Capitale per esser nominato imperatore (1328).
La speranza di riavere comunque una corte e quindi di
riassaporare un po’ di benessere svanisce alla notizia che il
solerte Angiò è pronto a ristabilire i diritti papali. Ludovico
se la dà a gambe. Al suo posto si presenta un altro sovrano
straniero, Giovanni di Lussemburgo, re di Boemia. Agisce in
sintonia con l’Angiò e con un cardinale francese, Bernard du
Pojet, giunto da Avignone al comando di un modesto
contingente di truppe. Per una decina d’anni divampano
guerricciole coinvolgenti tutto il Settentrione. All’inizio ha la
meglio il re di Boemia, segue una ripresa dei Visconti, poi
s’accende la stella del veronese Mastino della Scala. Il Nord-
Est orbita attorno a lui, ma un accordo fra Milano, Venezia,
Mantova e Ferrara ne blocca l’ascesa.
Da questo piccolo gioco politico-militare continua a
essere esclusa Roma. Per non essere cancellata, si mette a
organizzare eventi socio-culturali. Il principale è
l’incoronamento in Campidoglio nel 1341 del massimo poeta
dell’epoca. Fortunatamente la scelta cade su un nome
destinato all’immortalità, Francesco Petrarca. È il
trentasettenne figlio di un notaio fiorentino, che nel 1302
prese la via dell’esilio assieme a Dante. A differenza del
padre, Francesco non è attratto dall’ideologia, ancor meno
dal potere: il suo unico, totalizzante amore è la letteratura.
Lui la coltiva in mezzo alle gioie terrene, che non si farà
mancare fino all’ultimo giorno. È un mondano gaudente,
dotato di uno straordinario senso della misura, capace di
non sbagliare mai un’amicizia, un’adulazione. Da sacerdote
degli ordini minori vive di rendite ecclesiastiche, che si è
procurato ad Avignone assieme a un’amante e a due figli.
Ne ha ricevute pure in Italia dai suoi protettori, i fratelli
Colonna, uno cardinale, l’altro a capo del Senato romano. Ed
è loro l’iniziativa del riconoscimento capitolino. Petrarca ha
scritto un Canzoniere sulla moda dei versi danteschi. Lì
c’era Beatrice, qui c’è Laura destinataria degli stessi sospiri
convenzionali. L’autore ci compone sopra duecentosette
poesie, molte delle quali straordinarie per grazia, per
profondità, per una purezza di stile raramente eguagliata.
Questa Laura dovrebbe essere la marchesa francese De
Sade, antenata di un famoso marchese dalle cui
romanzesche perversioni deriverà il termine sadismo.
Nonostante lo sfarzo della cerimonia, la consacrazione di
Petrarca non può soddisfare le aspettative di una città come
Roma, la quale chiede che le siano restituiti i suoi pontefici
per risentirsi al centro delle attenzioni. Fallite le missioni dei
senatori e dei cardinali, gli abitanti si affidano al giovane
notaio Nicola di Rienzo. Appena giunto ad Avignone punta
dritto su Petrarca, forse conosciuto due anni prima in
Campidoglio. Cola, così lo chiamano nella natia Trastevere,
rappresenta i malumori della povera gente, l’esasperazione
per le miserie attuali, il rimpianto per la grandezza passata,
l’odio per i nobili. Stranamente, vista la sua abilità nel non
esporsi, Petrarca si lascia convincere da quegli arruffati
discorsi sugli immancabili destini e sui colli fatali, che
saranno, molti secoli dopo, i più famosi argomenti di
Mussolini. Presenta Cola al papa Clemente VI (il cardinale
Pietro Roger), uno scettico interessato a non turbare
l’ordine, nel quale lui sta da pascià. Il giovane tribuno
romano torna indietro portando la benedizione pontificia e
un po’ di fiorini necessari per conquistare il controllo di
Roma.
All’inizio Cola si comporta con un minimo d’intelligenza.
Fa davvero credere ai propri concittadini di essere il
‘Liberatore della Sacra Repubblica Romana’, poi il successo
gli dà alla testa. Esagera nel desiderio di ripulire l’Urbe da
ogni peccato e di ritenersi l’Unto dal Signore. Lo stesso
Clemente se ne preoccupa: emana una bolla nella quale
annuncia che i comportamenti di Cola mettono a rischio il
Giubileo del 1350, sul quale nobili e popolino contano per
intascare qualche palanca. Il destino del presunto Liberatore
è segnato. Si salva squagliandosela. La notizia della sua
fuga blocca a Genova Petrarca, accorso da Avignone per
sostenerne la causa. Visto che si trova in Italia, Petrarca
accetta l’ospitalità del signore in quel momento sugli scudi,
Iacopo II da Carrara. Il padre, Iacopo I, era stato chiamato a
Padova affinché la salvaguardasse dalle mire di Cangrande
della Scala: per salvaguardarla al meglio se l’era intestata.
Quella dei Carrara si rivela un’asfissiante dittatura, eppure
la città prospera, l’università gode di una fama
internazionale, vi circola senza problemi l’aristotelismo nella
versione diffusa in Europa dal grande filosofo islamico
Averroè.
Passando da una festa di corte a un seminario
universitario, Petrarca trascorre a Padova un anno
spensierato mentre intorno sono morte e lutti. Mosche e topi
hanno trasportato in Italia la peste nera, che ha già
devastato l’Asia, l’Arabia, l’Africa settentrionale. Si
manifesta in due forme, una accoppa in tre giorni, l’altra in
cinque. Quando il contagio finisce, Petrarca si reca a Firenze.
L’infezione ha quasi dimezzato la popolazione, facendo circa
cinquantamila vittime. Tra quanti l’hanno scampata, c’è
l’amico da cui Petrarca è diretto, Giovanni Boccaccio, figlio
illegittimo dell’amore parigino di un mercante di Firenze.
Poco versato negli studi e nel commercio, Boccaccio ha
tentato all’inizio di percorrere la solita carriera dei poeti
stilnovisti. E se Dante aveva avuto Beatrice e Petrarca
Laura, lui si è acceso per una Fiammetta napoletana. Ma a
differenza dei maestri, non si accontenta di un ideale
femminile, fonte d’ispirazione per i suoi versi. Boccaccio
spasima per Fiammetta in carne e ossa, più carne che ossa,
e compone, compone, compone finché l’oggetto del
desiderio non dice sì. Naturalmente mal gliene incoglie:
prende una sbandata, che s’incupisce in depressione
allorché Fiammetta lo molla.
La cocente delusione amorosa e la forte impressione
lasciata dalla peste, spingono Boccaccio verso il capolavoro,
il Decamerone. Il titolo è frutto di quella fissazione per i
numeri e le simmetrie, già notata in Dante: dieci narratori
(tre uomini e sette donne), dieci giorni di convivenza, dieci
novelle al giorno, dieci pagine per novella. Il Decamerone
rappresenta un inno alla vita vittoriosa sulla morte; racconta
l’esistenza quotidiana nei suoi aspetti più insoliti e a volte
triviali; esalta il gusto irriverente dello sberleffo e del
proibito al punto che l’aggettivo ‘boccaccesco’ è ancor oggi
usato per indicare una situazione piccante. Con il
Decamerone la prosa irrompe sulla scena e comincia a
contendere il primato alla poesia.
In mezzo secolo Firenze ha il vanto di aver sfornato il
meglio di entrambe, Dante, Petrarca e Boccaccio. Una
fioritura non casuale giacché la città e il contado conoscono
uno stupefacente rigoglio in ogni attività, ma al contempo
inspiegabile con gli scontri, le purghe, le vendette, le
congiure che li segnano. I fiorentini sono magari convinti di
attraversare una fase selvatica, viceversa non sanno di
vivere l’inizio di quello che sarà chiamato il Rinascimento,
da una definizione del primo storico dell’arte, il Vasari, il
quale definirà Rinascenza il periodo dal principio del
Trecento alla fine del Cinquecento.

In mezzo secolo Firenze ha il vanto di aver sfornato il meglio di


entrambe, Dante, Petrarca e Boccaccio.

Alla continua rissa tra nobili e banchieri, tra le arti


maggiori e le arti minori, tra popolo grasso e popolo minuto
si accompagna un’incontrastata supremazia nell’economia e
nell’industria. Con le sue ottanta banche Firenze è la
cassaforte d’Europa, funge da Tesoro per il re di Francia e
per il re d’Inghilterra, i due massimi sovrani dell’epoca.
Quando Edoardo III non pagherà il milione e mezzo di fiorini
(duecento miliardi attuali) che deve ad alcuni banchieri,
questi riusciranno comunque a cavarsela. D’altronde sono
loro ad avere inventato gli assegni, le polizze, i buoni del
tesoro, la partita doppia; ad aver perfezionato le lettere di
credito, grazie alla diffusione della carta. Peruzzi, Strozzi,
Bardi sono nomi noti e apprezzati in ogni capitale europea,
in ogni centro commerciale. I banchieri investono una parte
dei guadagni nell’industria, ne finanziano la crescita. La
continua disponibilità dei capitali consente di sfruttare sia il
genio commerciale dei mercanti, sia la scoperta di un
pigmento violetto per colorare i tessuti. I tintori di Prato
allargano gli stabilimenti, le lane subiscono fino a trenta
lavorazioni successive, le maestranze acquisiscono una
specializzazione, che fa di molti di essi i futuri imprenditori.
Le lane di Firenze assieme a tante altre merci invadono
Avignone, tramutano la residenza dei papi in una
succursale. A Firenze si litiga, si lavora, si produce senza
guardare l’orologio (quello meccanico inventato all’inizio del
’300), tesi a un benessere economico, che poi si traduce in
un’esplosione di mecenatismo. Le dinastie del fiorino
gareggiano nel commissionare agli artisti più bravi quelle
opere immortali che fanno della Firenze odierna la meta
degli appassionati d’arte di tutto il mondo. Giotto affresca
Santa Croce e disegna il campanile; a decorarlo provvederà
Andrea Pisano, incisore anche di un portale bronzeo del
Battistero.
Firenze ha così tanti soldi da versare centomila fiorini a
Carlo IV di Boemia, giunto in Italia per farsi dare la corona
imperiale, in cambio della propria tranquillità. È la sola,
grande signoria a star fuori dalle guerricciole di conquista
aventi i due poli in Milano e Venezia. La resurrezione dei
Visconti con Luchino e Giovanni frutta la conquista di mezzo
Piemonte, di Parma, di Bologna e soprattutto di Genova. Il
predominio del casato viene ufficializzato dal
riconoscimento dell’ereditarietà da parte del Consiglio
generale di Milano. Si conclude per sempre l’era
democratica dei comuni, comincia quella delle famiglie. Un
ducato milanese comprendente pure la regina del Tirreno
potrebbe benissimo portare a un dominio sulla Penisola. I
Visconti, invece, hanno altre mire, Venezia se ne preoccupa
egualmente. Prima, però, deve fronteggiare i bellicosi
propositi dei Carrara, alleatisi con gli ungari, e un tentativo
di colpo di Stato da parte del doge Marin Faliero. Grazie al
Consiglio dei Dieci, che dall’inizio del secolo guida la
Repubblica con poteri illimitati, il golpe è sventato. La
Serenissima salva la propria struttura oligarchica, ma perde
la guerra e con essa la Dalmazia (1358).
Venezia ha trasmesso le preoccupazioni sull’invadenza di
Milano al Papato, già messo in allarme dalle convulsioni nel
proprio Stato. Innocenzo VI (Stefano Aubert, l’ennesimo
transalpino) capisce che Avignone è troppo fuori mano e che
i suoi ammonimenti valgono poco dal giorno in cui le armate
del re di Francia sono state volte in rotta dagli inglesi e a
Napoli è salita sul trono angioino una regina, Giovanna, che
concepisce la politica alla stregua di un ballo di corte. Le sue
continue avventure amorose la inducono a far accoppare il
marito, Andrea. Ma il fratello, Luigi re d’Ungheria, non la
prende bene. Voglioso di vendetta invade il regno e Napoli.
La città evita un doloroso saccheggio per l’epidemia, che
consiglia la fuga all’esercito nemico. Giovanna cambia mariti
e amanti con la stessa frequenza con cui si cambia la
biancheria intima e in tal modo priva il Papato del più
importante alleato in Italia.
A Innocenzo preme ricondurre Roma sotto il patronato
della Chiesa. Tira fuori dalla naftalina Cola di Rienzo, finito al
termine di un lungo vagabondaggio ad Avignone, e lo
spedisce nell’Urbe. Non da solo, però. Lo fa accompagnare
da Alvarez Carrillo de Albornoz, un cardinale di estrazione
domenicana per il quale la fede è la prosecuzione della
guerra, dove lui ha già rifulso. Con i quattrini dei banchieri
fiorentini, Albornoz organizza un esercito, apre trattative con
i dittatorelli locali e quando meno se lo aspettano li attacca.
In pochi anni il cardinale riconquista i territori perduti dallo
Stato pontificio, compresa Bologna, e occupa Roma, dove in
precedenza Cola di Rienzo è stato linciato. Preoccupato dal
potere assunto dai Colonna, dagli Orsini, dai Caetani,
Albornoz muta gli ordinamenti per evitare guai futuri.
Nascono così le costituzioni egidiane in auge fino all’inizio
dell’800.
Niente ormai osta al ritorno del pontefice. Assieme ai
romani, lo invocano in molti, tra cui una giovane mistica
senese, Caterina. È l’equivalente femminile di Francesco,
diventeranno infatti i patroni d’Italia. Dalla celletta in cui
vive di digiuni e preghiere, ma già circondata da un alone di
santità e dalla venerazione generale, anche lei si batte per
una riforma della Chiesa, che cancelli vizi e privilegi.
Finalmente nel 1367 Urbano V (Guillaume de Grimoard)
sbarca a Roma. Lo accolgono il popolo in delirio e alcuni
signorotti – Savoia, Malatesta, Este – venuti a riconoscerne il
potere temporale. Pure l’imperatore Carlo IV annuncia di
rinunciare ai propri diritti sull’Italia centrale purché Urbano
vi risieda. Ma atterrito dalle rovine in cui sono ridotti i luoghi
simbolo dell’Urbe, il pontefice preferisce la quiete e la
sicurezza di Avignone. Vi muore subito (1370). Il successore
è un nipote di Clemente VI, Pietro Roger de Beaufort
(Gregorio XI). Dallo zio ha ereditato il gusto per la bellezza e
per la comodità. Gli appelli di Caterina cadrebbero nel vuoto
se i legati francesi inviati da Gregorio non procurassero la
ribellione di 64 delle 65 città appartenenti agli Stati pontifici.
E a guidare la rivolta è la più guelfa di tutte, Firenze.
Per domarla Gregorio pronuncia una dura scomunica. In
tal modo dà carta bianca alla Francia e all’Inghilterra nel
sequestro degli ingenti patrimoni accumulati in quei paesi
dai banchieri e dai mercanti fiorentini. Firenze resiste,
restituisce colpo su colpo. Confisca i beni della Chiesa,
manda alla forca i preti troppo zelanti, distrugge gli edifici
dell’Inquisizione. Per vincere avrebbe bisogno dell’appoggio
di Roma, ma Gregorio gioca d’astuzia: promette di ritornare
se la Capitale rimarrà fedele. Nel 1377, dopo che Caterina è
andata ad Avignone per difendere Firenze e per invitarlo a
rientrare, mantiene la parola. Stavolta non si verificano le
entusiastiche manifestazioni del ’67: il pontefice trova musi
lunghi e dolore per la distruzione e le lacrime seminate dalle
sue bande di mercenari. Roma è ridotta a una larva. La
popolazione non supera le sessantamila anime, le vestigia
del passato cadono a pezzi: i Fori, il Colosseo, lo stesso
Campidoglio sono colmi d’immondizia, invasi dalle
baracche, tuttavia le famiglie eccellenti continuano a
scannarsi per il dominio di quei poveri resti.
La cattività di Babilonia è terminata, il Papato è sfuggito
alla tentazione del re di Francia di adibirlo a parrocchia
personale, ma deve riconquistare la fiducia degli antichi
sudditi. La morte di Gregorio fa precipitare gli avvenimenti.
L’opinione pubblica pretende che sia elevato al soglio un
italiano, i romani tumultuano dinanzi al Laterano. I sedici
cardinali si lasciano condizionare benché quattordici siano
stranieri, in maggioranza francesi. Prevale l’arcivescovo di
Bari, Bartolomeo Prignano: con il nome di Urbano VI si dà
subito a fustigare i costumi del clero e dei laici. Sistema le
questioni interne con l’istituzione di una capillare polizia e
quelle esterne con un’infornata di cardinali italiani, che
abbattono la centenaria superiorità della Francia (nel
periodo avignonese ne erano stati nominati 113 su 134). Il
re non gradisce, sobilla la contestazione. Sfocia nell’elezione
ad Avignone di un altro pontefice, Clemente VII (Roberto di
Ginevra). Sulle dispute della Chiesa s’intersecano quelle
delle nazioni. Francia, Scozia, la Spagna aragonese e Napoli
riconoscono Clemente; l’Inghilterra, i principi tedeschi,
l’imperatore, la Svezia e gli altri monarchi europei si
stringono attorno a Urbano. Purtroppo la stessa divisione si
riflette nel mondo cattolico. Non è il primo scisma della
Storia, però ai contemporanei appare il più pericoloso: non
si fronteggiano, come in passato, alcune famiglie italiane e
un imperatore, bensì due agguerriti schieramenti con tanto
di eserciti nazionali. Siamo nel 1378, un anno cardine per la
storia del nostro Paese. Guardate un po’ che cosa succede
in quei dodici mesi. Venezia si deve difendere dall’assalto di
Genova, Padova e Ungheria. Due anni dopo nelle lagune di
Chioggia i dromoni veneti imbottigliano le galee genovesi e
le mandano a picco. Con esse cola a fondo l’ultima rivale di
Venezia sul mare. Tuttavia soltanto nel 1382 la Serenissima
– che si compiace del titolo di Dominante – riuscirà a
debellare in extremis l’agguerrito fronte avversario, ma ci
rimetterà Trieste passata con gli Asburgo. In quegli stessi
anni Nizza e la Savoia diventano possedimento del Savoia,
che risiede a Torino.
A Firenze i salariati dell’arte della Lana si rivoltano contro
l’opprimente potere del popolo grasso. È il ‘tumulto dei
Ciompi’, il più grave dei torbidi scoppiati fin lì, se volete
l’annuncio delle future sommosse proletarie. Il popolo
minuto s’impossessa del potere, però lo usa per cogliere le
proprie vendette non per modificare le regole. Lo perde. La
repressione è sanguinaria.
La successione a Milano di Gian Galeazzo Visconti al
padre Galeazzo manda per aria il fragile equilibrio tra i due
rami della famiglia, che alla morte di Giovanni si erano divisi
i possedimenti. A Gian Galeazzo bastano cinquecento armati
per deporre lo zio Bernabò e ricompattare la signoria. A
modo suo vagheggia di unificare sotto il suo scettro il
maggior numero possibile di province, ma non per farne una
nazione, sull’esempio di quanto accade oltre le Alpi, bensì
un dominio personale. E in parte ci riesce. Alleandosi con i
Carrara batte i Della Scala; alleandosi poi con Venezia batte
i Carrara. Si estende così a Padova, Vicenza, Belluno. E
quando la Serenissima aizzandogli contro un altro Carrara
gli sottrae Padova e Vicenza, lui si annette Bologna, la
Lunigiana, Perugia, Assisi, Pisa, Siena. Nel 1395 compra
dall’imperatore Venceslao di Lussemburgo i titoli di duca di
Milano e di conte di Pavia conferendo una legittimazione
reale alle sue acquisizioni.
Gian Galeazzo è un ipocondriaco, usa il pugno di ferro
per governare. Sospettoso e spietato abbatte i privilegi dei
feudatari. Si mostra un accanito difensore del cattolicesimo:
fa intonare il Te Deum dopo ogni successo e nel 1383
stanzia i fiorini necessari ad avviare la costruzione del
Duomo. Serve a suggellare la stupenda rinascita della città.
I numeri di Milano sono da record: 250.000 abitanti, 14.000
case, 200 chiese, 15 ospedali e altrettanti conventi, 40
medici, 150 chirurghi, 1500 notai, 400 macellerie, 300
panifici, oltre 1000 negozi di ogni genere. È il più grande
emporio commerciale d’Italia, uno dei più importanti
d’Europa. Attrae merci e mercanti da ogni parte del
Continente. Sebbene il Visconti in carica abbia conquistato i
favori del popolo promettendo di abbattere le tasse imposte
da Bernabò, i milanesi pagano salati balzelli sui loro
guadagni e le altre città del ducato non sono da meno. È
tale disponibilità economica che suggerisce a Gian Galeazzo
un’ideuzza da nulla: conquistare Firenze, le sue banche, i
suoi opifici.
Firenze è fuori dalle schermaglie militari, non si sa
muovere in quel mercato di capitani di ventura e di
mercenari, che infestano l’unico paese refrattario alle armi.
Viceversa qui Gian Galeazzo è un mago. Alla stregua di un
presidente di calcio non sbaglia un acquisto, i migliori
capitani servono sotto le sue bandiere. A stopparlo nel 1402
è la peste riapparsa in Europa subito dopo il Giubileo. Il caso
ha voluto che pure questo Giubileo sia stato gestito da un
altro Bonifacio, il IX (Pietro Tomacelli), successore di Urbano
VI. Lo ha celebrato superando l’ostilità di Francia, Scozia e
regno di Napoli, dove i Durazzo hanno soppiantato con una
congiura di palazzo gli Angiò. Giovanna è stata deposta e
strangolata (1382). Ha preso il suo posto Carlo Durazzo, cui
è subentrato dal 1386 Ladislao, desideroso di espandersi a
nord essendogli la Sicilia preclusa dagli Aragona. Ladislao ha
compiuto molteplici puntate su Roma, sicuro di avere le
spalle protette. Anche il papa di Avignone, Benedetto XIII
(Pedro Martinez de Luna), non ha riconosciuto il Giubileo
romano, anzi, d’accordo con i sovrani suoi sostenitori, ha
impedito la partenza dei pellegrini. Bonifacio ha dribblato
l’ostacolo con la promessa di rimettere i peccati a chi, pur
non intraprendendo il viaggio, avesse versato la cifra
equivalente nelle casse del Vaticano. Di conseguenza sono
piovuti su Roma meno credenti del Giubileo del ’300, ma gli
stessi quattrini sui quali si sono appuntate le voglie dei
Colonna. Con il sotterraneo favore dei francesi, hanno
reclutato ottomila mercenari. Bonifacio si è asserragliato in
Sant’Angelo finché il popolo non è accorso a liberarlo.
Il Papato non è mai stato così debole. Ma i tre eredi di
Gian Galeazzo sono troppo impegnati a litigare sulla loro
parte geografica d’eredità per proseguire nei piani
d’espansione del padre. La madre, addirittura, accetta di
restituire Bologna al pontefice Innocenzo VII (Cosimo de’
Migliorati). È il segnale di via libera per i rivali dei Visconti.
Firenze acquista Pisa e Livorno (1406), mentre Venezia
liquida dapprima i Della Scala, poi i Carrara: il Veneto è suo.
Vi aggiunge il Friuli, la Dalmazia, la parte costiera
dell’Albania. La Serenissima si sente ormai una potenza di
terra e alza gli occhi sul ducato milanese.
19. Divisi e contenti

Nell’Europa spaccata dall’interminabile guerra tra Francia e


Inghilterra, le inquietudini sullo scisma della Chiesa
serpeggiano in entrambi i fronti. I dubbi e le impuntature di
Gregorio XII (Angelo Correr), succeduto a Innocenzo VII, e di
Benedetto XIII vengono sormontati dai cardinali, che, dall’una
e dall’altra parte, spingono per un concilio in grado di ricucire
lo strappo. Probabilmente le alte gerarchie di Roma e di
Avignone sono allarmate dalle voci dei fedeli, che invocano
un proprio coinvolgimento nelle decisioni del clero;
comprendono che se non viene raggiunta un’intesa, sarà
molto difficile per loro conservare intatto il potere. Gli Stati
generali della Chiesa vengono convocati nel 1409 a Pisa,
quasi a metà cammino tra le due sedi in lotta. Il Concilio è
definito canonico ed ecumenico, può, cioè, deliberare e
legiferare, ma lo scopo più sentito è di raggiungere un’unità,
che riconfermi l’autorità e l’autoritarismo della struttura
ecclesiastica. L’assenza dei due papi è la scusa per deporli e
nominare al loro posto Alessandro V (Pietro Filargo). Questi,
purtroppo, muore quasi subito. Viene allora eletto il cardinale
Baldassare Cossa, Giovanni XXIII, con un passato da
sciupafemmine e da uomo d’armi, che vorrebbe perpetuare
anche da pontefice. Un simile stato di servizio fornisce a
Gregorio XII e Benedetto XIII la scusa per non dimettersi.
Il Concilio di Pisa, la contemporanea presenza di tre papi prolungano la debolezza
della Chiesa.

Il Concilio di Pisa, la contemporanea presenza di tre papi


prolungano la debolezza della Chiesa. A scapito dei suoi
possedimenti, Ladislao Durazzo accarezza il sogno
d’ingrandire il proprio Regno del Sud. Fa delle puntate verso
l’Umbria e verso la Toscana, ma qui, per fortuna dello Stato
pontificio, c’è a fare da argine Firenze, ormai scampata alle
mire dei Visconti, dilaniati dalle beghe dinastiche. A Milano la
morte di Caterina e l’assassinio di Giovanni Maria hanno
liberato il campo per Filippo Maria, il cui compito è facilitato
dalla scomparsa di Facino Cane, il mercenario italiano più
rinomato d’inizio secolo, al servizio di Giovanni Maria. Il
Visconti in carica ricompatta buona parte dell’antico ducato,
da Bellinzona a Parma, da Vercelli al lago di Garda con
l’aggiunta di Genova (1421), che in un quarto di secolo è
stata dominio del regno di Francia e del marchese di
Monferrato prima di riuscire a instaurare per qualche anno
una repubblica.
I quattro pilastri della Penisola – Venezia, Milano, Firenze e
Napoli – inseguono un equilibrio, che ciascuno immagina a
danno degli altri. Dal loro punto di vista le difficoltà del
Papato sono manna giacché tengono fuori dai giochi un
temibile interlocutore. Il concilio convocato nel 1414 a
Costanza ha rappresentato la più importante assemblea
generale della Chiesa dai tempi di Nicea. I partecipanti si
sono sbarazzati dei tre papi (Giovanni, che non si voleva
dimettere, è stato mandato sotto processo, condannato e
incarcerato), hanno ricucito le divisioni e designato un
pontefice, Martino V, già autorevole di suo essendo un
Colonna cardinale. Roma, però, è un tale sfacelo e il suo
territorio è così spezzettato in decine di piccole tirannie che
Martino non può rientrare nell’Urbe fino al 1420. Una volta
rimesso piede in Vaticano, la sua incombenza principale
consiste nel rifare il disastrato volto della città e soprattutto
delle chiese. Per affrescare Santa Maria Maggiore e San
Giovanni in Laterano ingaggia Pisanello e Masaccio.
La prematura scomparsa di Ladislao obbliga Napoli a
ripiegare dentro i confini naturali. Sul trono gli succede la
sorella Giovanna, la quale dalla famosa zia oltre al nome ha
ereditato pure le abitudini. Il Regno è coinvolto in un’altra
‘telenovela’ di amori, di amanti, di complotti. Per rinvigorire
la monarchia, la sovrana prende mariti di gran nome,
passando da un Asburgo a un Borbone, senza però cancellare
il malumore dei sudditi. Per di più è costretta a subire il
definitivo distacco della Sicilia a opera degli Aragona, già
titolari della Sardegna.
Firenze conosce un’altra straordinaria fioritura nel campo
delle arti figurative. Anche in questo caso non esistono
spiegazioni convincenti per un simile germogliare di talenti,
che, assieme a quelli del secolo seguente, riempiono metà
della storia dell’arte mondiale. Possiamo immaginare che
l’assenza di carestie e di guerre devastanti, il risveglio dei
costumi, lo straripante vitalismo dopo il lungo sonno dei
secoli bui, l’inesauribile disponibilità economica dei signori
abbiano favorito l’esplosione di tanto genio. E vediamoli
all’opera questi maestri.
Brunelleschi sostituisce le cupe linee dell’architettura
gotica con forme dalla geometria solare: la sua cupola di
Santa Maria del Fiore attraversa i secoli suscitando sempre
l’identico stupore. Donatello è il papà del David, dei possenti
monumenti equestri, degli apostoli, che sembrano predicare
all’umanità. Riscopre il nudo e avvia il filone del realismo, che
dalla scultura trasmigrerà alla pittura. Beato Angelico (fra’
Giovanni da Fiesole) e Botticelli portano nei dipinti un tocco di
soavità, le loro donne rappresentano il trionfo della
morbidezza, del languore, della gioia di vivere, che, tra l’altro,
è la caratteristica di quella Firenze. Masaccio in un solo
quinquennio (muore a 28 anni) fa muovere tutto un secolo:
dalla Vergine, il Bambino e Sant’Anna degli Uffizi alla Trinità
di Santa Maria Novella è un trionfo di corpi che prendono
possesso dello spazio. Da lui imparerà perfino Michelangelo.
Piero della Francesca, a differenza di Masaccio, propone
un’umanità meno tesa verso l’azione: nella Leggenda della
Croce i personaggi assorti e meditabondi preconizzano la fine
di un’era ottimistica quale fu il Rinascimento. Questi sono i
capostipiti, ma poi ci stanno Alberti, Lippi, Paolo Uccello, che
da soli darebbero lustro a un’epoca, ma hanno la sfortuna di
nascere in quella sbagliata.
La città dei banchieri, dei mercanti, degli artisti è assorbita
dai profumi, dai sapori, dalla vivacità dei suoi giorni. Le
interessa coniugare i quattrini con la bellezza, non ingrandire
i propri domini a patto, beninteso, che i fastidiosi vicini,
Milano e Venezia, non lo facciano a suo danno. Tra baruffe e
congiure, le istituzioni fiorentine reggono. La democrazia è di
facciata, vota soltanto il cinque per cento dei cittadini, il
popolo minuto non si sente rappresentato in maniera
adeguata, ma l’aristocrazia del fiorino è attraversata da
troppe invidie per trasformarsi in oligarchia. Almeno finché
(1421) non assurge a gonfaloniere di Giustizia Giovanni de’
Medici, pronipote di quell’Averardo arricchitosi con le
epurazioni dei Bianchi. Il gonfaloniere è l’esecutore delle
decisioni prese dagli otto Priori (il consiglio dei ministri), che a
loro volta rispondono al Consiglio del popolo (il Parlamento).
Niente dunque lascia presagire il colpo a sorpresa di
Giovanni: la prima tassa sul capitale, un’imposta del sette per
cento, denominata catasto, che oggi strapperebbe
acclamazioni di gioia e che tra i ricconi fiorentini strappa,
viceversa, ululati di rabbia. Basta questo provvedimento,
dettato dal bisogno di quattrini per la macchina statale e non
dal desiderio di una più equa ridistribuzione del reddito, a far
di Giovanni il beniamino del proletariato, l’ennesimo
miliardario di riferimento: magari sembrerà una storia già
nota, simile a tante altre dei nostri giorni.
Firenze sulle prime non s’inquieta per i successi di Filippo
Maria Visconti, resta alla finestra guardando che cosa
combina Venezia. I magnifici palazzi sulla Laguna, mirabile
sintesi dell’arte gotica e dell’arte bizantina, costituiscono la
rappresentazione visiva dello sfarzo e del benessere della
Serenissima. Le dinastie dei Gritti, dei Loredan, dei Tiepolo
gareggiano nell’arredare le loro magioni con quanto di meglio
si trova nelle botteghe d’Asia, d’Europa, del Medio Oriente:
sete, damaschi, arazzi, ori, diamanti, legni pregiati. La
decorazione delle residenze viene affidata a Mantegna e ai
tre Bellini, Jacopo, Gentile, Giovanni. Nel 1423 è nominato
doge Francesco Foscari, rappresentante di un’altra eccelsa
famiglia. Foscari capeggia il nascente partito di quanti
vorrebbero accoppiare all’espansione marittima quella di
terraferma. I mercanti e i diplomatici hanno colto i pericoli
insiti nella crescita dell’impero turco, giunto ormai a
minacciare da vicino Costantinopoli. I governanti della
Repubblica intuiscono che il Mediterraneo orientale non sarà
più quella miniera d’oro che è stato e pensano di sostituirlo
allargandosi verso il Nord-Ovest, cioè Milano.
È la guerra. Al fianco di Venezia si schierano Firenze e il
duca di Savoia. Il peso militare ricade sulla Serenissima, che
realizza un colpo magistrale: ingaggia il comandante in capo
delle forze viscontee, il Carmagnola. Ha meno di trent’anni, e
prima di assumere il nome del villaggio nei pressi di Torino in
cui è nato si chiamava Francesco Bussone. Era destinato ad
allevare maiali, ma la passione per le armi e per l’avventura
l’ha spinto ad arruolarsi nelle milizie mercenarie di Facino
Cane. Alla sua morte, ne ha preso il posto. È stato lui a
riconquistare per conto di Filippo Maria i territori perduti. Ne
ha ricevuto il titolo di conte e l’odio viscerale dei cortigiani
lombardi, gelosi della sua crescente popolarità. Il matrimonio
con la sorellastra del duca lo ha reso un rivale pericoloso pure
agli occhi di Visconti. È stato rimosso dal comando
dell’esercito, la moglie e i figli imprigionati. Al Carmagnola
non è rimasto che trovarsi un’altra bandiera.
Nell’Italia delle piccole patrie, pervase e assorbite dal
gusto della bella vita, il servizio militare è sempre più
appannaggio di pochi professionisti, contesi alla stregua di
moderni calciatori. Questi capitani di ventura sono dotati di
personale coraggio e di un attrezzato ufficio di leva: offrono
paga e protezione ai masnadieri, ai disperati, ai falliti, a chi
vuol evadere dalla noia e dalla miseria quotidiane. I loro
emissari girano l’Europa alla ricerca dei migliori specialisti
nelle singole armi (alabarda, spadone, mazza, lancia,
balestra) e alla ricerca dei primi esemplari delle armi da
fuoco: la polvere da sparo ha cambiato il corso delle
battaglie, inglesi e francesi hanno mostrato quale impatto
possono avere i cannoni. I capitani prosperano coi continui
dispetti che si fanno Milano, Venezia, Firenze, Napoli;
prosperano con le manie di grandezza e con la paura di
congiure dei signorotti; prosperano anche in tempo di pace
minacciando essi stessi di violarla, se non saranno satollati
con una lauta elargizione. Come hanno insegnato nel secolo
precedente i due antesignani del mestiere, il tedesco Alberto
Sterz e l’inglese John Hawkwood (italianizzato in Giovanni
Acuto), non c’è niente di più fruttuoso che cominciare una
guerra su un fronte e finirla sull’altro. È ciò che si appresta a
fare il Carmagnola riempito di soldi e di onori dal doge
Foscari. Il Carmagnola espugna subito Brescia, dopo alcuni
mesi d’indugi sbaraglia nella piana di Maclodio l’armata
lombarda (1427). La Serenissima gli tributa feste trionfali,
che non ne cancellano però l’ombra di malinconia sul volto:
pensa alla famiglia lontana. I segreti dispacci, inviatigli da
Visconti per allettarlo a ripassare con lui, lo mettono in serio
imbarazzo agli occhi eternamente sospettosi del Consiglio dei
Dieci. Gl’inaspettati rovesci dell’esercito veneziano sono
attribuiti a sue intese sotterranee con il nemico. Attirato in
trappola, è decapitato nel 1432. Un anno dopo viene siglata
la pace in virtù della quale la Repubblica si allarga fino a
Brescia e a Bergamo, mentre il ducato di Savoia arriva fino a
Vercelli.
Coincide con il suo massimo splendore. La città coniuga ricchezza e
bellezza, una dolce Londra dei suoi tempi.

L’onda della vittoria investe anche Firenze. Accompagnato


da una calda raccomandazione dell’oligarchia veneziana vi
rientra Cosimo de’ Medici. È il figlio di Giovanni ed è pure
l’uomo più ricco della Penisola. Alla morte del babbo ne ha
continuato la politica di timida apertura sociale. La sua
popolarità è andata alle stelle quando ha finanziato di tasca
propria la campagna contro Lucca. Gli altri capitalisti
fiorentini hanno cominciato a guardarlo storto. Cosimo è
stato falsamente accusato di nutrire mire dittatoriali. I suoi
avversari puntavano a mandarlo sul patibolo, si sono dovuti
accontentare dell’esilio. Cosimo si è rifugiato a Venezia: vi è
stato accolto alla stregua di un capo di Stato. D’altronde ha
fatto investimenti cospicui in Laguna, molte imprese gli sono
legate a doppio filo, i suoi quattrini hanno contribuito al
successo contro Visconti. Una volta tornato a Firenze, Cosimo
ha la saggezza di non cercare vendette sanguinarie. Rifiuta
ruoli di primo piano, gli piace comandare dietro le quinte
facendo leva sul controllo dei portafogli altrui attraverso le
proprie banche. È il prototipo degli straordinari banchieri che
nei secoli a venire segneranno la storia di molte nazioni. Con
lui ha inizio la signoria medicea su Firenze. Coincide con il
suo massimo splendore. La città coniuga ricchezza e bellezza,
una dolce Londra dei suoi tempi. Artisti, letterati, uomini
d’affari e uomini di mondo vi ricevono attenzioni e capitali.
Idee e talento vengono premiati. La consacrazione di Firenze
avviene nel 1439. Cosimo si offre di ospitare il Concilio in
svolgimento a Ferrara. I delegati stanno cercando un’altra
sede a causa di un’improvvisa epidemia di peste. È un
concilio di rilevanza storica giacché vi partecipano
l’imperatore d’Oriente, Giovanni, e il patriarca Giuseppe.
Hanno proposto di superare le divisioni del vecchio scisma,
quello fra cattolici e ortodossi, per far fronte alla minaccia
degli ottomani guidati da Maometto II e sul punto di
sommergere i rimasugli dell’impero bizantino.
Papa Eugenio IV (Gabriele Condulmer) ha accolto al volo la
richiesta. Sfuggito a una congiura dei Colonna, da otto anni
risiedeva a Bologna inviso sia ai cardinali italiani, che l’hanno
eletto, sia al cattolicesimo straniero. L’inaspettato invito degli
orientali è servito a Eugenio per tirarsi fuori da un grosso
impaccio: a Basilea infatti un concilio orchestrato dal clero
francese ha emanato una ‘prammatica sanzione’ con la quale
le cariche ecclesiastiche sarebbero state affidate ai preti di
ogni diocesi e costoro avrebbero dovuto tener conto delle
raccomandazioni del re. E siccome anche il resto dell’Europa
fibrillava contro il centralismo della Chiesa, la stessa era sul
punto di frantumarsi. Ma lo sbarco in Italia dell’imperatore
Giovanni e del patriarca Giuseppe ha rovesciato l’esito della
contesa. Avendo i due rifiutato di recarsi a Basilea, il
pontefice è ritornato arbitro della situazione. Appaltato alla
splendida munificenza di Niccolò III d’Este, che ha regalato a
Ferrara alcuni decenni di gaia spensieratezza, il concilio si è
trasformato in un assise mondiale del cristianesimo. Il meglio
dell’intellettualità laica ed ecclesiastica vi ha sciorinato le
proprie tesi.
Un simile sfavillio d’intelligenza e di cultura produce però
risultati modesti. A Firenze il concilio conclude faticosamente
i propri lavori, l’unità è solo di facciata. In Santa Maria del
Fiore, sotto la cupola appena montata da Brunelleschi, il
comunicato finale letto in latino e in greco riconosce una
generica e teorica superiorità del papa riconfermando,
tuttavia, i privilegi acquisiti dalla Chiesa ortodossa. Eugenio
rientra in una Roma festante, mentre Giovanni e Giuseppe
vengono ricevuti malissimo a Costantinopoli e tacciati di
tradimento. Lo scisma cancellato nelle parole rimarrà nella
sostanza. L’effetto più concreto dei lavori fiorentini lo si ha
proprio in riva all’Arno. Gli studiosi italiani hanno riassaporato
Platone e la sua scuola, della quale avevano perso le tracce.
Ne sono conquistati, alcuni di essi dedicheranno l’intera
esistenza alla ricerca dei libri antichi. Platone, i suoi discepoli,
l’umanesimo greco riprendono posto accanto ad Aristotele,
già fatto riscoprire dai grandi filosofi dell’Islam. Pure Cosimo
subisce tale fascino e apre l’Accademia platonica. Mette a
dirigerla il giovane figlio del suo medico, Marsilio Ficino, ne
segue con passione la continua crescita: vi giungono dotti ed
eruditi da ogni stato europeo. L’Accademia dà il via a
parecchi dibattiti e ad altrettante mode, in breve entra in
concorrenza con la celeberrima Scuola della Sapienza di
Baghdad e con le principali università del continente.
Cosimo vorrebbe dedicarsi soltanto alla banca e allo
spirito, ma i suoi sforzi per mantenere la precaria pace tra
Napoli, Firenze, Milano, Venezia rischiano di saltare a ogni
decesso d’alto rango. La scomparsa di Giovanna ha aperto un
conflitto fra Renato d’Angiò e Alfonso d’Aragona, detentore
del trono di Sardegna e Sicilia. In tempi successivi i due erano
stati indicati come eredi dalla capricciosa regina, la quale è
morta senza lasciare precise indicazioni. La superiore
organizzazione aragonese ha la meglio: Alfonso V può
coronare il sogno della riunificazione del regno del Sud
(1442). Il sovrano è l’autore della rinascita di Napoli, della
sua trasformazione in capitale di smagliante bellezza.
L’ingrandimento del Maschio Angioino ne è l’emblema.
Tuttavia i napoletani non lo amano, gli rimproverano di
circondarsi di funzionari, ministri, ufficiali spagnoli e di
privilegiarli nell’assegnazione di cariche e prebende.
Alfonso ha rapporti problematici con papa Eugenio, però
riesce a riceverne l’investitura ufficiale, che gli serve per dare
sostanza alle sue ambizioni. Controlla quasi un terzo della
Penisola, pretende di metter voce in ogni questione e,
soprattutto, in ogni successione. Il decesso di Filippo Maria
Visconti sembra capitare apposta per scatenare un bel po’ di
appetiti. Il duca non ha eredi diretti: allora si fanno avanti un
cognato, Ludovico di Savoia, e un nipote, Carlo d’Orleans,
duca d’Asti. Assieme ai due parenti avanzano pretese la
Repubblica veneziana e Alfonso in virtù di una legge molto
semplice: quella del più forte. A Milano regna la confusione.
Un gruppo di nobili ha proclamato la repubblica ambrosiana e
conquistato il favore delle classi più umili con la solita
promessa di abolire le tasse, ma i maggiorenti si rivolgono al
genero di Visconti, Francesco Sforza, signore di Cremona e
gran generale, figlio di un famoso capitano di ventura, Muzio
Attendolo, che ha servito al soldo di Firenze, di Venezia, della
stessa Milano.
A far pendere la bilancia dalla parte dello Sforza è
l’appoggio di Cosimo de’ Medici. La sua idea di equilibrio e
l’indipendenza di Firenze hanno bisogno di un ducato
lombardo che non sia vassallo né della Serenissima né del
regno del Sud. Le vittorie dello Sforza contro i veneziani e la
conquista di Milano s’incastonano con il disegno di Cosimo.
La pace di Lodi (1454) ne rappresenta la sintesi. Tutto è
rimasto inalterato con gli Sforza al posto dei Visconti. Milano
si trasforma in una metropoli europea, la costruzione del
Castello e dell’Ospedale Maggiore fa da suggello. La
repubblica veneta riceve qualche piccola compensazione
territoriale, che non alleggerisce le preoccupazioni per la
caduta di Bisanzio l’anno prima. Possedimenti e
rappresentanze d’oltremare sono a repentaglio. La politica di
Venezia da espansiva dovrà farsi di contenimento.
Per l’Italia sono anni di assoluta tranquillità. Vi contribuisce
la stessa morte di Alfonso V: il regno del Sud viene
smembrato. Il trono di Napoli tocca al figlio naturale
Ferdinando, la Sicilia e la Sardegna passano al re d’Aragona,
Giovanni II. Al contrario del genitore, Ferdinando, da tutti
chiamato don Ferrante, non ha pretese di etichetta, di sfarzo:
si concentra sullo sviluppo industriale. Per favorirlo adotta
una politica di agevolazioni commerciali nei confronti degli
imprenditori genovesi, veneziani, catalani. Apre anche agli
ebrei e cerca d’indurre i contadini a trasferirsi in città. Le
ambizioni paterne gli risultano estranee: non ha i mezzi e la
voglia per dedicarsi a una politica d’espansione.
I due grandi protagonisti delle antiche dispute, cioè
l’imperatore e il papa hanno ben altro in mente. L’Impero è
diventato una macchina per far soldi: Federico III d’Asburgo
accorda titoli di nobiltà a chiunque sia disposto a pagare, con
l’eccezione di Francesco Sforza. Il pontefice Niccolò V
(Tommaso Parentucelli) rivolge ogni impegno e ogni danaro al
rifacimento di Roma. Con gli introiti del Giubileo del 1450
ingaggia il meglio dell’epoca, dall’Alberti al Beato Angelico;
restaura Santa Maria Maggiore, San Giovanni in Laterano,
San Paolo e San Lorenzo fuori le Mura; apre corte in Vaticano
convocando i massimi esponenti della cultura ai quali affida
la traduzione d’importanti opere dal latino e dal greco. Il suo
collegamento con la realtà italiana è Cosimo de’ Medici, che
ha avuto la lungimiranza di sovvenzionarlo quand’era
soltanto il vescovo di Bologna. Niccolò lo ricambia facendone
una sorta di ministro ombra delle finanze vaticane e
lasciandosene guidare nei piccoli stratagemmi adottati da
Cosimo per mantenere in bilico la situazione.
Anche il successore di Niccolò, il senese Enea Silvio
Piccolomini, Pio II, appartiene all’ambiente e alla tradizione
fiorentina con in più un uso di mondo e una passione per
tutto ciò che di bello esiste, dalle donne ai testi classici. È
approdato al sacerdozio in età matura; nonostante lo stuolo
di figli illegittimi vi ha percorso una fulminante carriera fino al
soglio. Tenta di ridestare lo spirito delle crociate contro
Maometto II, le cui armate musulmane incombono sui
Balcani. La riunione convocata a Mantova è però disertata da
quasi tutti i monarchi e i principi. Gli riesce molto meglio la
sistemazione in Vaticano di cugini, nipoti, zii, cognati. È forse
il primo a lanciare il motto ‘tengo famiglia’: il nepotismo da
cui l’Italia è ancora afflitta discende da questi augusti lombi.
Pio II cala nella tomba nello stesso anno (1464) di Cosimo.
Il cardinale ligure Francesco Della Rovere diventa Sisto IV.
Anche lui tiene famiglia e non ha scrupoli nel privilegiare i
propri parenti, che poi usa per domare l’aristocrazia romana,
insofferente di perdere le cariche più remunerative. Prima del
pontificato, il cardinale è stato contagiato dal clima artistico-
letterario circolante per il Paese. Le ingenti ricchezze lasciate
dai predecessori gli servono per restaurare palazzi,
monumenti, strade, università. Ma la sua opera principale è
la Cappella Sistina: ne fa decorare le pareti ai pittori più in
vista (Pinturicchio, Ghirlandaio, Botticelli, Perugino). L’oro che
gli avanza lo impegna nella riorganizzazione della Biblioteca
Vaticana: l’arricchisce di oltre mille volumi. L’invenzione dei
caratteri tipografici mobili da parte di Gutenberg (1454) ha
dato una considerevole spinta alla diffusione dei capolavori
dell’antichità; da Venezia un umanistatipografo laziale, Aldo
Manuzio, ha riempito le corti di libri rari e preziosi, che
costituiscono la passione, e spesso la rovina economica, di
accaniti collezionisti come Sisto, il quale, però, non paga di
tasca propria.
A Firenze durano poco la vita e il primato di Piero de’
Medici. Ha le buone qualità di una buona educazione, ma gli
mancano il talento e la spregiudicatezza paterni. Da Cosimo
ha ereditato la gotta, che lo conduce nella tomba molto
presto. Sono secoli nei quali chi supera i cinquant’anni deve
sopportare malanni d’ogni genere, dei quali i più ricorrenti
sono la gotta, le affezioni respiratorie, i disturbi epatici.
Cosimo, previdente, aveva dedicato gli ultimi anni della sua
esistenza a indirizzare Lorenzo, il figlio maggiore di Piero. Gli
aveva trasmesso il meglio della sua esperienza, aveva
compreso che sarebbe stato il suo vero erede. Non si è
sbagliato. Quando nel 1469 subentra al padre, Lorenzo ha
soltanto vent’anni, ma già la lungimiranza del nonno e come
lui tenta di salvaguardare l’intesa con le altre capitali che
contano. Nel 1471 riceve con tutti gli onori Galeazzo Maria
Sforza. Tra i due giovani eredi di quei grandi casati si
stabilisce una corrente di simpatia, sebbene lo Sforza per
essere all’altezza dell’ospite faccia un tale sfoggio di lusso da
esser poi costretto ad aumentare le tasse nel ducato.
Lorenzo in pochi anni assurge a Magnifico, l’attributo con
cui i posteri lo ricorderanno. Il suo amore per l’arte è
sconfinato, tuttavia il mecenatismo non gli basta, ha bisogno
di un contatto fisico con gli esponenti delle belle lettere:
Poliziano e Pico della Mirandola diventano i suoi compagni di
giornata. Il primo incarna alla perfezione il ruolo del poeta di
corte, sebbene sia molto altro; il secondo viene ancora citato
quale esempio di conoscenza sterminata e in effetti di cose
ne sapeva e soprattutto ne ricordava in virtù di una memoria
strepitosa, però era soprattutto lui a vantarsi, a creare il mito
della propria infinita erudizione. L’Accademia platonica e
Palazzo Medici rappresentano l’attrazione e il punto d’arrivo
di artisti, scienziati, letterati. Vi passa un giovane curioso di
tutto, che arriva da Vinci e si chiama Leonardo; verrà a darvi
una sbirciatina un altro enfant prodige in cerca d’ispirazione,
Michelangelo Buonarroti.
Alla stregua del nonno, Lorenzo guida le mosse di Firenze
da dietro le quinte. Nonostante l’estrema prudenza con cui
agisce, commette l’imprudenza di adocchiare Imola. Siamo in
terra di nessuno, in quella Romagna su cui desidera allungare
le mani anche Sisto IV, alla perenne ricerca di beni da
assegnare ai parenti. Lo scontro s’ispessisce, il pontefice
toglie ai Medici la concessione delle finanze vaticane e la
trasferisce ai Pazzi, che a Firenze sono la famiglia più ostile a
Lorenzo. Le nuove entrate, la sicurezza di contare
sull’appoggio del papa inducono i Pazzi a dare scacco. La loro
congiura ricalca quella che due anni prima a Milano ha
mandato al creatore Galeazzo Maria Sforza, pugnalato in
chiesa da tre nobili. Alla messa del Sabato Santo del 1478 gli
stiletti dei Pazzi infieriscono su Lorenzo e sul fratello Giuliano.
Il primo è salvato dalla fortuna e dagli amici guidati dal
Poliziano, il secondo muore. Il popolo si schiera con i Medici. I
Pazzi e i loro sostenitori finiscono sul patibolo. Siccome tra
questi c’è pure l’arcivescovo Salviati, che in chiesa anziché
sollevare l’ostia ha sollevato l’arma, papa Sisto lancia
l’anatema contro Lorenzo e i magistrati fiorentini.
Ne deriva un piccolo conflitto nel quale l’esercito
ingaggiato da Firenze è sconfitto da quello del pontefice e del
suo alleato, Ferdinando, re di Napoli. La città mugugna, teme
di perdere l’autonomia, di dover sostenere il costo di una
guerra. Il Magnifico gioca d’astuzia: s’imbarca a Pisa,
raggiunge Napoli. I suoi soldi e il suo fascino conquistano don
Ferrante. Le milizie napoletane e Lorenzo tornano ciascuno a
casa propria lasciando il pontefice a far la guerra da solo. Per
cancellare la scomunica, Sisto ottiene i quattrini necessari a
equipaggiare quindici galere con le quali ricacciare i
commandos turchi sbarcati a Otranto. Anche don Ferrante ha
una minaccia da cui guardarsi: l’atteggiamento ostile dei
baroni terrieri alla perenne ricerca di nuove concessioni. Nel
1485 li farà letteralmente a pezzi dopo un loro tentativo di
defenestrarlo. Lorenzo ha comunque capito la lezione e si
regola. Bene o male controlla l’economia di amici e nemici,
dunque gli basta chiudere o allargare il rubinetto per
convincere papa Innocenzo VIII (il genovese Giambattista
Cybo), lo Sforza e re Ferdinando a formare una lega che
garantisca la pace. Venezia non aderisce, però da sola non
può fare danni.
Lorenzo è finalmente libero di dedicarsi ai passatempi
preferiti, ma a guastargli l’umore e gli ultimi scampoli di vita
provvede un frate ferrarese di forte personalità e di
pronunciata vena oratoria, Girolamo Savonarola. Uno di quei
personaggi che si ergono ad arbitri di uomini e cose
collocando le proprie passioni, i propri egoismi a metro di
giudizio. In quella Firenze felice e spensierata, dove è
rientrato dalla Lombardia per volere del Magnifico,
Savonarola diventa il castigatore dei costumi, della
corruzione che dalla società si propaga al clero. Nelle sue
sferzanti denunce colano a picco la filosofia, la ragione, gli
uomini e, soprattutto, chi non è d’accordo con il suo giudizio
apocalittico sul mondo. La sua difesa dei poveri, dei
diseredati, dei tartassati dalle tasse è giusta, ma la sua
visione comunista della società è troppo in antitesi con i
tempi e con il benessere che comunque si è sparso sugli
abitanti di Firenze.
I contemporanei ovviamente non lo sanno, ma Savonarola
annuncia la conclusione di una fase serena, in cui gli italiani
hanno potuto dare libero sfogo all’estro, ancora padroni a
casa propria, intimiditi più dalle epidemie che dalle guerre. Il
Rinascimento durerà un altro secolo, è invece vicinissima a
terminare l’autonomia degli stati e degli staterelli proliferati
nella Penisola. Come spesso accade, le apparenze ingannano:
la fine è preceduta da un’esibizione di sfarzo, di gioia, di
bellezza senza precedenti. Quanti nel 1491 si accalcano nelle
lussuose sale del Castello Sforzesco per applaudire le nozze
di Ludovico Sforza – detto il Moro per aver impiantato vaste
coltivazioni di gelso (in latino, morum) – con la
quattordicenne Beatrice d’Este sono convinti che la loro
epoca beata continuerà all’infinito. Al matrimonio sono
invitati teste coronate, futuri eredi al trono, rampolli dorati di
tutta Italia; fanno ala ambasciatori delle principali monarchie
europee, artisti d’eccelsa fama, cardinali e arcivescovi.
Milano, che dal Moro è stata dotata d’immensi viali e di
sfolgoranti palazzi, si sente più che mai al centro
dell’attenzione.
Ludovico ha quasi quarant’anni, da quindici governa con
buonsenso e lungimiranza accompagnando la crescita della
città. Agricoltura e commercio si sono sviluppati assieme al
numero dei milanesi, che ha raggiunto la cifra record di
centotrentamila. In una simile prosperità nessuno a Milano
mostra di ricordarsi che in teoria Ludovico è solo il reggente,
che titolare del ducato è Gian Galeazzo, il figlio di Galeazzo
Maria. Lo zio lo tiene in un castello di Pavia, quasi agli arresti
domiciliari. A lui, che si diverte con gli animali, andrebbe
anche bene, non così alla moglie Isabella d’Aragona, nipote di
don Ferrante e figlia di Alfonso erede al trono di Napoli. Dalla
capitale in riva al Golfo proviene anche la giovanissima
Beatrice: vi ha trascorso gli ultimi anni e ha voluto che la
cerimonia nuziale fosse una ripetizione di Fuorigrotta, tanto a
pagare è Ludovico. Gli Este possono garantire amicizie e
rapporti privilegiati, non certo soldi.
Passano pochi mesi e cambia tutto. Muore Lorenzo il
Magnifico, muore Innocenzo VIII. L’Italia perde di colpo il più
lucido cervello politico e il pontefice, che ne ha saputo
assecondare i disegni nel mantenimento dello status quo. Per
di più un altro italiano, Cristoforo Colombo, partito per
circumnavigare il Globo e raggiungere l’India, scopre le
Americhe e allontana dall’Italia il baricentro di svariati
interessi. Il nuovo continente probabilmente è stato toccato
secoli prima dai normanni, ma questi non se n’erano accorti e
non avevano diffuso la notizia. Il merito è, dunque, di questo
genovese quarantenne, triste, con il cruccio di non esser
apprezzato per quanto vale. Colombo è vissuto sulle navi fin
dalla pubertà, nel 1471 ha abbandonato Genova, dov’era
nato e dove la famiglia, forse ebrea, era giunta dalla Spagna.
Nel 1477 ha visitato la Scandinavia, vi ha appreso alcune
leggende vichinghe. Colombo è convinto che quegli
spericolati marinai abbiano individuato la via occidentale
verso l’India, verso la Cina. La dissoluzione dell’Impero
d’Oriente ha consegnato ai turchi il controllo del basso
Mediterraneo, da qui la necessità di trovare nuove vie
d’acqua per raggiungere le terre rigogliose, di cui Colombo
ha letto nel Milione di Marco Polo.
Lui vorrebbe arrivarci sotto la bandiera del re del
Portogallo, ma i geografi di corte giudicano il suo progetto
irrealizzabile. Prendono Colombo per pazzo, mentre
probabilmente lui prende da loro le fondamentali carte
nautiche sulle quali è segnata la possibile rotta. Nazioni e
repubbliche marinare ritengono queste mappe il bene più
prezioso, da proteggere come si fa oggi con i segreti
industriali. Possederle può cambiare la vita ed è ciò che si
propone Colombo. Cerca finanziatori anche in Italia: Genova e
Venezia, però, respingono il suo progetto. Alla fine lo sposano
i sovrani di Spagna, Ferdinando e Isabella impegnati nella
liberazione della Penisola iberica dalle ultime sacche
dell’Islam. Il 31 marzo dello stesso 1492, i due sovrani hanno
firmato un editto di espulsione dalla Spagna di ogni ebreo
che non si fosse convertito. In circa duecentomila fuggono
per tutta Europa e nel Nord Africa. La maggior parte sceglie il
Portogallo, da dove però verranno nuovamente cacciati
quattro anni dopo. Alcuni trovano ospitalità a Venezia, dove
già esiste una comunità ebraica. Ma nel 1516 le autorità
veneziane seguono il dilagare dell’antisemitismo nel mondo
cristiano e decidono di confinare gli ebrei in una zona distinta
della città. Nasce così il primo ghetto (che in veneziano
significa fonderia, la sede in cui furono confinati),
un’istituzione che si diffonderà per tutto il continente e
durerà fino agli orrori del nazismo.
È sempre del 1492 l’invenzione dell’uso del punto, poi
sostituito dalla virgola come segno decimale, da parte del
matematico italiano Francesco Pellos. Ma l’anno diventa
storico per le tre mitiche caravelle, la Pinta, la Nina, la Santa
Maria, salpate da Palos il 3 agosto. Il 12 ottobre Colombo
tocca terra a Santo Domingo. Gli ci vorranno mesi per
accorgersi che non è l’Asia, ma un continente inesplorato. Il
mondo volta pagina. Niente sarà più come prima.
20. Il curioso e il tormentato

Il posto del Magnifico è rilevato dal figlio Piero. Ha soltanto


vent’anni, è cresciuto alla scuola del Poliziano, possiede un
fisico da atleta che lo porta a eccellere nella scherma e nel
calcio fiorentino, però non ha la misura e, soprattutto, il
carisma del padre. Ma anche se li avesse, potrebbe
combinare poco. A sorreggere i settant’anni di signoria dei
Medici hanno provveduto le banche e le industrie, delle
quali Lorenzo negli ultimi tempi si era sbarazzato. Così Piero
ha ereditato sterminati latifondi di scarsa rendita proprio nel
momento in cui le casse della famiglia sono vuote a causa
della prodigalità del Magnifico e le incombenze esterne si
fanno più pressanti. Durante il suo dominio Lorenzo è stato il
regolo della politica italiana: indipendente, ma sempre
pronto ad appoggiare il più debole per pareggiare i conti con
il più forte. Piero, viceversa, decide di allearsi a colui che gli
pare il più agguerrito, Ferdinando re di Napoli. Lo fa pure per
rafforzarsi dentro Firenze, dove spirano i primi venti di
contestazione. Nella sua scia anche Venezia e il Papato
stringono un accordo con il regno del Sud.
A Roma hanno nominato pontefice il cardinale spagnolo
Rodrigo Borgia, Alessandro VI. È stato il grande elettore dei
cinque papi che l’hanno preceduto, sa maneggiare il
conclave come nessun altro, le sue promesse e la sua
generosità tacitano tutti gli avversari, tranne uno, il nipote
di Innocenzo VIII, quel cardinale Della Rovere avviato dallo
zio verso le massime cariche. Borgia è un perfetto
esemplare del Rinascimento, un esteta raffinato: per lui la
fede, i sacramenti, le preghiere, i precetti sono le pratiche
da adempiere per avere libero accesso alle ricchezze e ai
privilegi del soglio. Nel quarto di secolo trascorso in Vaticano
ha affinato le qualità diplomatiche e raddoppiato il numero
dei figli. Da una signora molto in vista ne ha avuti quattro
(tre maschi e una femmina) e di un paio sentirete parlare.
Per accontentare loro e gli altri parenti, Alessandro conduce
alle estreme conseguenze il nepotismo, che per la Chiesa
non è una novità, ma con i tempi che si annunciano sarà
una iattura. Così il preferito dei maschi, Cesare, viene subito
designato arcivescovo di Valenza.
Alessandro si comporta come un signore dei suoi tempi,
preoccupato di salvaguardare la continuità della dinastia e il
potere, che s’identifica con la vastità dei possedimenti.
Perciò si accorda con don Ferrante, che alle frontiere
meridionali rumoreggia. Ma questa ragnatela d’intese
comporta l’isolamento di Milano. Il Moro vi legge una
dichiarata ostilità nei suoi confronti essendo in perenne
conflitto con la Serenissima e avendo in casa la nipote del re
di Napoli, che reclama il rispetto dei diritti del marito Gian
Galeazzo. Ludovico ritiene che gli rimanga da giocare una
sola carta, un aiuto dall’esterno. Si rivolge a Carlo VIII, re di
Francia. Trova orecchie interessate. I progetti di Carlo verso
il Reno sono stati stoppati dalla bellicosità dei nobili
germanici: l’Italia gli appare un boccone più digeribile e
dalle sue sponde pensa di lanciare la crociata per liberare
Gerusalemme e Costantinopoli. La fantasia di Carlo vola
verso un futuro di gloria e di santità. Immagina di essere il
vendicatore di quel Luigi XI, che alla Terra Santa aveva finito
con il sacrificare la propria esistenza.
Con queste premesse, le lusinghe del Moro vanno a
segno. Forse non si rende conto di aprire le porte della
Penisola a un invasore, ma quand’anche se ne rendesse
conto, per lui, come per gli altri, l’Italia non è neppure
un’entità geografica. Dunque, di che preoccuparsi? Egli
punta soltanto a salvare la poltrona: per farlo sceglie un
monarca, che potrebbe avanzare pretese sul ducato di
Milano attraverso l’antica parentela tra i Visconti e la propria
famiglia (gli Orleans) e che appunto per questo Ludovico
indirizza verso un boccone molto più ghiotto, il regno del
Sud. Carlo ha infatti ereditato i diritti degli Angiò sul trono
degli Aragona. Il Moro lo convince che per farli valere
basterà farsi una passeggiata fino a Napoli. A premere sul
sovrano sono anche i fuoriusciti napoletani in odio a
Ferdinando, quelli fiorentini in odio ai Medici, il cardinale
Della Rovere in odio ad Alessandro. Ciascuno di essi vede
nello straniero, tanto per cambiare, il mezzo per scalzare il
rivale casalingo e impossessarsi dei suoi beni.
Nonostante le resistenze dei ministri, Carlo VIII nella
primavera del 1494 valica le Alpi alla testa di un esercito di
quarantamila armati. Da parte italiana è un accorrere per
ingraziarselo. Comincia il Moro, prosegue Piero de’ Medici,
che per essere più convincente gli consegna duecentomila
fiorini e alcune fortezze, infine gli emissari del papa.
Alessandro e il monarca francese non si piacciono, però
hanno bisogno l’uno dell’altro. Alle festose accoglienze non
si sottraggono neppure i napoletani, sebbene con gli
Aragona non se la siano passata male. Assieme a Federico,
successore di Ferdinando, ci rimette il figlio del Magnifico,
cui Firenze rimprovera l’arrendevolezza nei confronti di Carlo
e gli chiude le porte in faccia. Un gruppo di saggi viene
incaricato di stilare la nuova costituzione, tra loro figura
Savonarola. Il frate diviene il punto di riferimento, il modello
che insegue è quello della Repubblica veneta, ma con
l’intento di creare una teocrazia. Il papa ne comprende la
carica eversiva, tuttavia la premura del momento riguarda
Carlo. I metodi arroganti, la mancanza di rispetto nei
confronti degli uomini e più ancora delle donne gli hanno
alienato a Napoli l’iniziale favore popolare. Anche i nobili del
reame, che l’avevano sostenuto, adesso temono di esser
spogliati dei loro feudi a favore degli angioini. Il pontefice
organizza una trama nella quale entrano Ferdinando il
Cattolico, re di Spagna, l’imperatore Massimiliano, Venezia e
persino il Moro, indispettito dall’arrivo in Lombardia di Luigi
d’Orleans, che non fa mistero delle sue pretese. A Fornovo
nell’estate del 1495 gli alleati, per quanto numericamente
superiori, non riescono a sconfiggere i francesi. Carlo ripara
oltre le Alpi, a Napoli rientra Federico, mentre a Firenze la
repubblica voluta da Savonarola ottiene un consenso
plebiscitario.
I fiorentini e le fiorentine sembrano impazziti per le
preghiere e le penitenze che il frate impone prima e dopo i
pasti. Intendiamoci: le sue filippiche contro la corruzione dei
costumi, in special modo quella del clero, sono
inoppugnabili; la tassa sugli immobili è giusta finché
colpisce le rendite parassitarie dei latifondisti, ma è iniqua
allorché riduce sul lastrico contadini e mezzadri; il desiderio
di far intendere che la vita non può essere soltanto giochi,
feste, innamoramenti è legittimo, però Savonarola e i suoi
seguaci, appropriatamente definiti i Piagnoni, profondono un
puntiglio, uno zelo da mettere a dura prova la pazienza di
Firenze. Che infatti si esaurisce in coincidenza con l’alt
giunto dal Vaticano. Dopo Fornovo, Alessandro è sicuro di
sé, non ha più voglia di tollerare che dal pergamo di Santa
Maria Novella tuoni contro i suoi comportamenti un uomo la
cui semplice condotta è uno schiaffo a lui e al Papato. La
scomunica è il mezzo che consente ai rivali di Savonarola
d’incarcerarlo, di torturarlo, infine d’impiccarlo (1498).
La scomunica `e il mezzo che consente ai rivali di Savonarola
d’incarcerarlo, di torturarlo, infine d’impiccarlo (1498).

Firenze saluta con esultanza la fine della quaresima e


l’avvento del carnevale, ma il vero vincitore appare il
pontefice. Si è liberato del nemico più pericoloso, può
dedicarsi a ricompattare il suo Stato, dove in tanti fanno la
voce grossa. Alessandro non è neppure sfiorato dal sospetto
che le critiche di Savonarola anticipino le inquietudini
morali, che tra vent’anni esploderanno nella Riforma di
Lutero. E come può coglierle se per lui ciò che conta è
ripulire i bassifondi di Roma, imbrigliare i Colonna, gli Orsini,
i Della Rovere? Con la consueta vendita delle cariche
impingua le casse e fornisce i mezzi necessari a suo figlio
Cesare per armare un esercito pontificio in grado di
ristabilire l’ordine. Assieme alla bellissima sorella Lucrezia, i
cui diversi sposalizi rispondono sempre alla ragion di Stato,
Cesare Borgia è il cocco di casa. Ha fatto un gran
matrimonio con l’erede del ducato di Valentinois, lo
chiamano infatti il Valentino, è sempre impigliato in qualche
congiura, ma resta il più valente generale di Alessandro. È
forse il primo a capire l’importanza di una milizia nazionale,
però se la cava bene anche con i mercenari. In pochi anni
spodesta con le armi e con l’inganno quasi tutti i tirannelli
del Centro-Nord, allarga i confini del dominio paterno, che in
pratica è il suo. Cesare è favorito dalla momentanea intesa
tra Papato e Francia, su cui adesso regna l’Orleans. Luigi XII
ottiene il ducato lombardo, in cambio dà mano libera alle
truppe papali. Alessandro e il Valentino sono sempre più
legati a doppio filo, l’uno dipende dai successi dell’altro.
La morte improvvisa del padre (1503) mette Cesare in
ambasce. Riesce a impedire l’elezione del nemico storico
dei Borgia, il cardinale Della Rovere, ma la repentina
scomparsa del pontefice appena eletto, il cardinale
Piccolomini, è un colpo mortale. Nessuno osa più opporsi
alla designazione di Della Rovere, Giulio II. Dopo un
brevissimo periodo di finta bonaccia, il Valentino è costretto
a mollare le fortezze e il titolo di duca di Romagna. Fugge da
Roma verso un’esistenza errabonda da capitano di ventura:
sarà stroncata in combattimento da lì a qualche anno.
Nell’abbandono dell’Urbe Cesare è stato preceduto da un
ingegnere militare ingaggiato dal padre, Leonardo da Vinci.
È un cinquantenne curioso della vita, divorato dall’ansia
di sapere, capace di essere pittore e patologo, botanico e
scultore, scienziato e architetto. Un visionario che anticipa
gli aerei e interpreta i fossili. È nato in provincia di Firenze,
ha girovagato in Italia, ha già dipinto la Vergine delle rocce e
l’Ultima cena. Ora che è rientrato a Firenze, la signoria gli
propone di affrescare una delle due pareti della Sala dei
Cinquecento a Palazzo Vecchio. Per l’altra viene incaricato
un giovane scultore mai misuratosi con il pennello,
Michelangelo Buonarroti. Anch’egli è stato a Roma durante il
pontificato di Alessandro e ha scolpito la Pietà. Tornato a
casa ha partorito il Davide. Sono opere dalle quali traspare il
tormento di una coscienza inquieta, turbata dalla morte e
terrorizzata dalla dannazione eterna.
A suggerire l’ingaggio di Leonardo e di Michelangelo è
stato Niccolò Machiavelli, segretario comunale, ma già
autore del libriccino che gli regalerà fama eterna Il principe.
Leonardo e Michelangelo hanno avuto rapporti aspri, il
confronto ravvicinato non li migliora. La signoria desidera
celebrare due vittorie della Repubblica. Leonardo sceglie
quella di Anghiari, Michelangelo quella di Cascina. Nessuno
dei due riesce a completare l’opera. Leonardo paga una
tecnica d’affresco innovativa e l’uso dell’olio di lino;
Michelangelo riceve una chiamata da Giulio II. Parte a
malincuore per Roma portando però con sé lo schizzo di un
cavallo impennato che ha ricavato dallo studio del lavoro di
Leonardo. Non era il solo a curiosare fra i cartoni
leonardeschi. Spesso gli ha fatto compagnia un giovane
pittore di nome Raffaello.
Leonardo si consola della delusione di Palazzo Vecchio
con un incarico accettato mesi prima: il ritratto di monna
Lisa Gherardini, moglie di tale Francesco del Giocondo. Il
Pianeta potrà così impazzire per l’enigmatico sorriso della
Gioconda. Michelangelo, da parte sua, avvia una
straordinaria collaborazione di quasi mezzo secolo con una
schiera di munifici papi. Da essa sgorgheranno le
sbalorditive decorazioni della volta della Cappella Sistina, il
Giudizio Universale, la cupola di San Pietro. Leonardo e
Michelangelo rappresentano lo zenith del Rinascimento, le
vette ineguagliate dell’arte italiana.
E se a noi resta il rimpianto di quali prodigi avrebbe
potuto sortire la sfida mancata di Palazzo Vecchio, i
contemporanei si accendono per un’altra disfida molto più
prosaica. Si svolge nel 1503 a Barletta, tredici francesi
contro tredici italiani. Costoro per una volta si ricordano di
avere una patria comune, riscoprono l’orgoglio nazionale in
risposta a uno sberleffo transalpino. Le due rappresentative
s’affrontano secondo le regole dei tornei cavallereschi, una
sorta di eliminazione diretta. Vincono gli italiani guidati da
Ettore Fieramosca. Esauritasi quella parentesi, i tredici
tornano a militare sotto le bandiere dell’esercito spagnolo in
guerra con quello francese. Ferdinando il Cattolico, dopo
aver accettato di liquidare i cugini napoletani per spartirsi il
Regno con Luigi, ha cambiato idea. Lo pretende per sé e ci
riesce. Assieme alla Sicilia lo unisce alla corona spagnola.
L’Italia è divisa in due grandi protettorati: i francesi al
Nord, gli spagnoli al Sud. Anche il genio di Leonardo finisce i
suoi giorni al castello di Blois, nella Loira, al servizio del re di
Francia.
Le uniche eccezioni al vassallaggio sono Venezia e lo
Stato pontificio, ma Giulio II vorrebbe eliminare dalla scena
la Serenissima con cui non si è mai inteso. Nel 1508 le vara
contro la Lega di Cambrai con i tre pesi massimi europei,
Luigi, Ferdinando e l’imperatore Massimiliano, più il
contorno dei Savoia, dei duchi di Mantova e Ferrara. I
mercenari della Serenissima sono sbaragliati ad Agnadello
(1509), il Consiglio dei Dieci deve rinunciare ad ampie fette
del territorio. Con la sua parte di bottino Giulio II ha i denari
sufficienti per pagare Michelangelo e gli altri artisti che
convoca a Roma con veri e propri diktat. Uno di questi è il
Raffaello che abbiamo visto spiare Leonardo. All’epoca era
già un sicuro talento, ma capiva quando c’era da imparare.
Parliamo di un genio del pennello, di un maestro nel
crescere allievi assieme ai quali soddisfa le molteplici
commissioni che gli piovono sul capo. Raffaello giunge
nell’Urbe già famoso, ma gli affreschi delle Stanze di Giulio
rappresentano forse il suo capolavoro e comunque la
consacrazione. Nella Scuola di Atene si sbizzarrisce a
ritrarre, sotto forma di filosofi greci, i massimi geni
dell’epoca. Dopo averlo visto lavorare, Raffaello aggiunge
all’ultimo momento anche Michelangelo.
Giulio II appartiene alla razza dei Borgia. Il soglio
pontificale è la scala verso una potenza senza limiti e senza
controllo, è lo strumento per circondarsi dei migliori pittori,
scultori, architetti, letterati, è la manna dal cielo per figli,
nipoti, cugini con i quali garantire il futuro del casato. Sono
papi troppo assorbiti dalla voglia di vivere per capire che la
scoperta dell’America – dal 1507 un cartografo tedesco ha
così battezzato il nuovo continente in onore dell’esploratore
Amerigo Vespucci – ha spostato il baricentro degli affari e
che il Mediterraneo è destinato a trasformarsi in lago
periferico. A differenza di Michelangelo, sempre più
pessimista nei confronti del genere umano, Raffaello
esprime questo gusto del bello, questa voluttà dei sensi, la
quale, per altro, lo porterà a soli trentotto anni (1518) nella
tomba.
Ma in Italia si muore soprattutto per le campagne militari,
che si susseguono incessantemente. Un’alleanza dura
giusto il tempo di concludere una guerra. La Lega di
Cambrai si dissolve il giorno in cui Giulio giudica che i
francesi limitano le sue ambizioni territoriali. Stavolta è Luigi
a trovarseli tutti di fronte e deve mollare Milano, dove
rientra Massimiliano Sforza, figlio del Moro, e Firenze, dove
rientrano i Medici. La potente famiglia allunga le mani pure
sul Vaticano: Giovanni, un altro figlio di Lorenzo, s’aggiudica
a sorpresa la tiara con il nome di Leone X. Vorrebbe
occuparsi di Ovidio e di Cicerone, dialogare con Raffaello e
Michelangelo, arricchire la biblioteca, mantenere a corte gli
intelletti più promettenti, invece ha da parare il desiderio di
rivincita del nuovo re di Francia, Francesco I. Non bastano i
venticinquemila svizzeri, considerati i più valenti e costosi
fanti d’Europa, ingaggiati dallo Sforza e dagli Asburgo, suoi
protettori: l’esercito transalpino trionfa a Melegnano (1515)
dopo un bagno di sangue durato due giorni e una notte.
Milano cambia padrone, la seguono Genova, Parma e
Piacenza. Leone ha bisogno di tutta la consumata abilità
diplomatica, ereditata dal padre, per preservare Firenze ai
suoi.
Le casse di Roma sono state però svuotate dal suo
mecenatismo e dalla guerra persa. Per riempirle Leone
ricorre al vecchio sistema: la vendita delle indulgenze. E
dato che i re e l’imperatore sono sempre meno contenti di
veder drenare dalla Chiesa il danaro dei propri sudditi,
Leone concede a ciascuno di essi una parte degli introiti. La
massiccia raccolta può dunque cominciare e probabilmente
filerebbe liscia come nelle precedenti occasioni se un fedele
tedesco di Wittenberg non mostrasse il certificato
d’assoluzione ricevuto in cambio dell’obolo a un famoso
professore di teologia, nonché monaco agostiniano, Martin
Lutero. Questi, sfruculiato dai domenicani, ci costruisce
sopra un trattato diviso in 95 tesi, le quali vertono
sostanzialmente su due punti. 1) Con l’indulgenza si
possono evitare i castighi inflitti dal clero, non certo quelli
inflitti da Dio. Il pontefice non può esentare i peccatori dal
purgatorio, può solo pregare il Padreterno nella speranza
che questi lo ascolti. 2) Anche chi non compra la
‘raccomandazione’ papale può beneficiare del perdono
divino grazie al martirio di Gesù.
Le tesi di Lutero sono in linea con il Vangelo, egli stesso
le circonda di massimo rispetto nei confronti di Leone e della
religione. Ma da Roma giunge una risposta rabbiosa: Lutero
viene accusato di riflettere le accuse rivolte alla Chiesa da
altri eretici. Da buon Medici, il papa è per circoscrivere
l’episodio, per ridurlo a una disputa dottrinaria. È però
scavalcato dall’ala oltranzista della curia, che pretende un
atto di sottomissione da Lutero. Ma il monaco non si reca a
Roma, anzi chiede la protezione del proprio duca: la sua
diventa la battaglia di quanti sono stanchi sia della
supremazia temporale del Vaticano, sia di quella tassa, sotto
forma di obolo, ritenuta iniqua. Per non parlare dell’uso che
del danaro viene fatto: cioè la bella vita di papi, cardinali,
vescovi, molto più interessati al proprio benessere e a quello
dei familiari che al rispetto dei Dieci Comandamenti.
La fiammata di protesta – da qui la definizione di
protestanti – divampa, si tramuta in incendio. La reazione
ecclesiastica vanifica qualsivoglia tentativo d’accordo.
Circondato da un consenso crescente, Lutero ispessisce le
sue richieste di radicale cambiamento della Chiesa, di
limitazione del potere papale. Lo fa usando la lingua tedesca
anziché il latino e in tedesco si mette a tradurre la Bibbia,
fin lì disponibile soltanto in latino. In tal modo Lutero rende
partecipi e tifosi della ribellione i connazionali e questi fanno
giungere il loro sostegno fino all’orecchio dei nobili. I principi
di Germania scorgono nella contrapposizione sempre più
acuta la possibilità di un consolidamento personale,
soprattutto ora che il re di Spagna Carlo I è stato incoronato
imperatore con il nome di Carlo V. Appena ventenne questo
monarca tacitur-no e malinconico si trova a dover gestire
una delle svolte più importanti nella storia del mondo. In
trent’anni di regno, di dispute e di battaglie si dimostrerà
all’altezza del compito fino all’epilogo più amaro:
l’impossibilità di tenere tre quarti d’Europa e il continente
americano sotto un’unica corona. Dietro i motivi religiosi,
dietro il malcontento per gli allegri costumi romani, palpita
nella popolazione germanica il senso di appartenenza a uno
Stato, la voglia crescente di delimitare l’ingerenza della
Chiesa. Lo scontro ormai è anche politico. La scomunica
promulgata da Leone nel 1520 ne è la logica conclusione. La
Dieta di Worms, convocata da Carlo V nella speranza di una
improbabile rappacificazione, sancisce lo scisma.
L’imperatore riconosce una certa libertà di culto ai sudditi
delle province tedesche, d’altronde il suo assillo principale
non è Lutero, ma Francesco I, il re di Francia, che gli ha
conteso la corona e che cerca di sottrargli i protettorati
italiani.

L’imperatore riconosce una certa libertà di culto ai sudditi delle


province tedesche, d’altronde il suo assillo principale non `e Lutero, ma
Francesco I, il re di Francia, che gli ha conteso la corona e che cerca di
sottrargli i protettorati italiani.

Milano, a cui è stata tolta Lugano, è l’epicentro di


tradimenti e voltafaccia dai quali Carlo esce rafforzato. A
Roma con l’elezione di Adriano VI (l’arcivescovo di Utrecht,
Adriano Dedel) lo spirito torna a prevalere sulla carne.
Rinasce la speranza di un papato che lasci la corte per
occuparsi delle anime, ma dura poco, quanto la vita di
Adriano: tredici mesi. La scelta del conclave cade su Giulio
de’ Medici, Clemente VII. È il figlio di Giuliano e il nipote di
Lorenzo, è stato anche il grande elettore di Adriano: la
fazione italiana gli ha addebitato il periodo penitenziale
vissuto nella Capitale e nelle altre parrocchie dello Stivale.
Clemente riprende le abitudini dei suoi parenti, coltiva
l’ambizione di avere un ruolo tra Carlo e Francesco. Mal
gliene incoglie giacché sceglie il re di Francia poco prima
che questi venga sconfitto e imprigionato a Pavia (1525). È
un periodo di ripicche e di schermaglie tra il papa e
l’imperatore, che ha pure l’assillo del sultano turco Solimano
giunto fino a Budapest.
La punizione di Clemente è solo rinviata. Arriva nel 1527
ed è doppia. Da un lato viene riconosciuto ai principi
tedeschi il diritto di scegliere la confessione più gradita,
dall’altro lato viene lasciata mano libera a un contingente di
ventimila mercenari simpatizzanti di Lutero – i famosi
lanzichenecchi (da Landsknecht, ‘servo della regione’) – di
marciare su Roma dopo aver devastato una bella fetta di
Penisola. L’Urbe subisce un sacco peggiore di quello di
Alarico e Genserico. Il pontefice, i cardinali, le famiglie più in
vista sono obbligati a comprare con moneta sonante la
propria incolumità. Nello stesso anno matura la scissione
della Chiesa anglicana. Re Enrico VIII ne fa per motivi politici
e di letto un dominio personale. Clemente è il grande
sconfitto. Ogni sua iniziativa ha coinciso con una rotta. Gli
riesce soltanto di riconsegnare alla famiglia Firenze, che se
n’era nuovamente sbarazzata. La conquista della città da
parte delle truppe imperiali è il cadeau di Carlo al papa, con
cui si è formalmente rappacificato e che lo ha incoronato e
benedetto.
Domate le velleità vaticane, l’Italia è sotto l’egida
spagnola. Milano ha perso smalto, quattrini, quel ruolo di
mercato europeo, che con le rotte americane si è spostato
verso le città della penisola iberica e del Nord Europa. Ha
ancora il suo duca, Francesco Maria Sforza, secondogenito
di Ludovico, però è un fantoccio di Carlo, che alla sua morte
vi piazza un governatore. A Napoli dall’inizio del secolo
comanda già un viceré nominato da Madrid. Uno di essi
importa la corrida e il Monte dei Pegni. Napoli si è
ingrandita: inurbandosi i baroni hanno costruito quartieri, vi
hanno imposto la propria ribalderia alla quale fa da
contraltare quella dei genovesi e dei fiorentini, giunti per
aprire alcuni empori commerciali. A pencolare tra gli uni e
gli altri, un popolino chiassoso, sempre disponibile a ogni
avventura, che faccia balenare la prospettiva di una mancia.
È in questo periodo che i napoletani prendono ad
ammassarsi nei bassi, quelle squallide abitazioni a
pianterreno, che ricevono luce e aria dalla porta d’ingresso
posta a livello della strada.
Pure Genova dal 1528 alza lo stendardo imperiale. È il
suo più celebre ammiraglio, Andrea Doria, a pilotarne i
destini verso un po’ d’autonomia, legata, però, alla sua
persona più che a un effettivo riconoscimento di Carlo. I
banchieri della Superba (modesto soprannome della città)
diventano comunque i banchieri degli Asburgo, i mercanti
s’impossessano del commercio iberico, nelle principali città
spagnole sorgono depositi genovesi.
Rientrato all’ombra dei cannoni spagnoli, Alessandro de’
Medici governa Firenze con pugno di ferro. I fautori della
Repubblica si agitano, ma sono nell’impossibilità di
muoversi. A spedire Alessandro nella tomba provvede la
solita congiura familiare. Tuttavia il suo posto non viene
preso dai repubblicani, bensì dal ventenne Cosimo de’
Medici, figlio di un famoso capitano di ventura, Giovanni
dalle Bande Nere (vestiva a lutto per la morte di Leone X),
spirato dieci anni prima per sbarrare il passo ai
lanzichenecchi. La signoria di Cosimo sarà lunga, porterà
alla conquista di Siena e al formarsi di un solido Stato.
Torino e Venezia cercano di far da soli. La Francia ha
sempre considerato i duchi di Savoia alleati naturali.
Francesco I addirittura li assorbe assieme al loro staterello
(1536) con immediata replica di Carlo. Il conflitto in sordina
si prolungherà per vent’anni. Lo risolverà Emanuele Filiberto
di Savoia schierandosi con il figlio di Carlo, Filippo II: a San
Quintino, da comandante dell’esercito spagnolo, infliggerà a
quello francese la sconfitta più disastrosa del secolo.
Venezia con il 1530 abbandona qualsiasi pretesa di
allargarsi in Italia. I suoi sforzi si concentrano nella difesa
dei domini d’oltremare dai turchi. Occupando l’Egitto i
magnifici soldati del sultano hanno interrotto i collegamenti
di terra con l’Oriente; come se non bastasse, le
circumnavigazioni dei portoghesi Vasco De Gama e
Ferdinando Magellano hanno portato alla scoperta della via
per le Indie lungo il Capo di Buona Speranza, estrema punta
meridionale dell’Africa. La Serenissima ha perso il
monopolio nel commercio delle spezie, delle perle, dei
diamanti, eppure continua a essere la città più elegante e
più cosmopolita d’Europa. Le calli, la gioiosa atmosfera che
vi si respira, le feste, gli splendidi palazzi attraggono
visitatori d’ogni tipo, energie e talenti smisurati.
Tre pittori dalla notevole produzione determinano i
contorni dell’epoca: Giorgione, Tiziano e Tintoretto. La
scoperta della natura, l’uso dei colori, la maestria nei ritratti
li collocano al vertice. Anticipano i grandi paesaggisti
fiamminghi e la bravura di raccontare un personaggio
fissandolo sulla tela. Senza gl’imponenti ritratti di Tiziano,
non avremmo colto l’essenza di Carlo V, ci saremmo fermati
all’idea di un poveraccio martoriato dalla gotta e che a poco
più di quarant’anni non aveva un dente in bocca. È
attraverso la maestria di Tiziano che capiamo l’imponenza
del personaggio inversamente proporzionale al suo aspetto
fisico.
Nell’Italia politicamente in declino pulsa con intatta
vigoria il cuore dell’umanesimo. Le minuscole realtà della
Penisola sono insignificanti nel gioco dei giganti europei,
però rappresentano quanto di più vivo ci sia in campo
artistico e letterario. Ognuna di esse ha un gioiello da
esibire. La Urbino dei duchi di Montefeltro regala Raffaello,
la Mantova dei Gonzaga produce Mantegna, la Ferrara degli
Este offre a Ludovico Ariosto la tranquillità necessaria
affinché la sua fantasmagoria si scateni nei quarantasei
canti dell’Orlando Furioso. È una tale fucina d’invenzioni
d’aver strappato intere generazioni di studenti alla noia
delle lezioni. La passione ideologica della Firenze in bilico tra
Medici e repubblica trova un’espressione compiuta in
Niccolò Machiavelli. È l’iniziatore della politologia intesa
come dottrina, il suo Principe, grazie a una prosa lucida e
moderna, solca i secoli circondato da un’ammirazione
infinita. Ha nomea di cinico pronto a tutto per il potere
essendogli stata attribuita un’affermazione – « il fine
giustifica i mezzi » – mai scritta o pronunciata, ma ser
Niccolò è ben altro: è uno dei cervelli più lucidi e più alti di
questo sbrindellato paese. In lui l’ideale riscatta qualsiasi
bassezza. E il suo ideale si chiama Italia. Chiunque sia in
grado di darle una dignità di nazione, diviene il suo
campione, perfino Cesare Borgia, in cui Machiavelli ha
lungamente confidato prima di rinchiudersi nelle sue
rassegnate riflessioni. Ma che sugli italiani non ci sia da
confidare, che in loro l’interesse per il proprio particolare
prevarrà sempre sul bene della collettività lo scrive con
lucida premonizione Francesco Guicciardini. È un coevo di
Machiavelli, alla ricerca di un padrone da servire, prono con
il papa e con i Medici, autore di una Storia d’Italia scritta con
i piedi, ma essenziale per le testimonianze.
Tra balli e ricevimenti, persi dietro una congiura o una
sottana, e a volte le due cose collimano, nel Belpaese non ci
si è quasi accorti di Lutero e della sua Riforma. D’altronde
gli aneliti profondamente religiosi che permeano la
Germania sono sconosciuti alla culla della cattolicità. Più che
accesi credenti gli italiani si mostrano scettici praticanti, il
culto è disseminato di santi protettori, le Sacre Scritture
sono sconosciute, il rapporto con Dio è una vuota formula
da esibire per l’occhio pubblico. Vi sembra che la differenza
rispetto a oggi sia tanta? Il Vaticano ci mette del suo. Al
disastroso Clemente, sul quale sono ricadute pure le
responsabilità dei predecessori, segue un altro gran
mondano, colto, raffinato, dissipato, afflitto da una schiera
di parenti da sistemare, Alessandro Farnese, Paolo III. Per un
po’ prova a ritagliarsi uno spazio fra Carlo V e Francesco I,
riesce a farli sedere allo stesso tavolo, ma alla fine, sotto le
pressioni dell’imperatore, che ha bisogno di ridare pace ai
sudditi tedeschi, si rassegna a occuparsi dello scisma. A
Roma ha preso piede una corrente moderata. Essa vorrebbe
attingere dalla Riforma protestante il buono che c’è: la forte
spinta verso una Chiesa più sollecita nei confronti del
povero che del ricco, più attenta ai bisogni dell’anima che a
quelli del corpo. Proprio ai moderati Paolo affida l’incarico di
una trattativa con gli emissari di Lutero.
L’incontro si svolge nel 1541 a Ratisbona. Gli esordi sono
promettenti, si giunge alla stesura di un documento
comune, ma Lutero da una parte e l’ala ortodossa della
curia romana dall’altra lo disconoscono. A soffiare sul fuoco
della divisione sono anche Francesco I e quanti temono che
una rappacificazione farebbe di Carlo V un primattore
incontenibile sulla scena europea. Tra i contrari figura un
monaco spagnolo, che sognava di essere un invincibile
condottiero militare. Ha sostituito le armi con il Vangelo, ha
formato un ristretto, selezionatissimo gruppo di discepoli e
con essi si dice pronto ad andare per il mondo a predicare il
Verbo di Dio e le decisioni del pontefice. È Ignazio di Loyola.
La sua Compagnia di Gesù fornirà alla Chiesa i cervelli
più sottili, i teologi più preparati, le menti più aperte,
prontissime, tuttavia, ad anteporre la prudenza allo zelo. I
gesuiti costituiranno la punta di diamante della propaganda
cattolica, talmente determinati da suscitare in taluni paesi
un’ombra di eversione nei confronti dell’autorità statuale.
21. La Cenerentola d’Europa

Quello che sarà ricordato come il concilio più importante


viene convocato da Paolo III per accontentare Carlo V.
L’imperatore accarezza il progetto di eliminare nei propri
stati le differenze religiose, dalle quali scaturiscono litigi e
scannamenti. Il papa ne farebbe a meno, ma visto che non
si può esimere, spera almeno di strappare il ducato di
Milano per il nipote Ottavio. La sede è frutto di un
compromesso: Trento, popolazione di lingua italiana, però
nei domini di Carlo. I lavori incominciano nel 1545. Sin
dall’inizio s’accende lo scontro fra i sostenitori del pontefice
e quelli dell’imperatore, le cui truppe stanno infliggendo
sonore batoste ai luterani. Insomma il concilio nato per
raggiungere una pace continentale produce subito divisioni
e incomprensioni.
Neppure la morte di Lutero (1546) favorisce il
riavvicinamento tra i due credi. I protestanti perché devono
difendersi dall’offensiva armata di Carlo, i cattolici perché
divisi tra ghibellini e guelfi, con quest’ultimi impegnati a far
saltare le timide intese fiorite a Ratisbona. La punta di lancia
della dottrina sono i gesuiti. Dall’alto della loro sapienza si
battono con furore per far piazza pulita dei cardini di Lutero:
la fede che prevale sulle preghiere, il rapporto diretto con
Dio senza l’intermediazione del sacerdote. I gesuiti hanno
buon gioco nel dimostrare che una rinuncia a preghiere e
sacerdoti minerebbe l’autorità della Chiesa al punto da
renderla inutile. I più contenti di questa disputa dottrinaria
sono la curia e Paolo: temevano che i delegati fedeli a Carlo
trasformassero il concilio in una trappola, che imponessero
riforme strutturali ben al di là di una generica condanna
della corruzione del clero.
Il più deluso del nulla di fatto è Carlo. La conseguenza di
questa delusione è l’assassinio del figlio del papa, Pier Luigi
Farnese, al quale le manovre paterne avevano garantito il
ducato di Parma e Piacenza. Dal dolore Paolo ne muore. Gli
subentra Giulio III, il cardinale Dal Monte, ritenuto vicino alle
posizioni imperiali. Ma il suo primo atto non va nel senso
sperato dal monarca: Giulio dapprima riconferma il
miracoloso potere del prete di trasformare il pane e il vino
nel corpo e nel sangue del Signore, dogma contro cui Lutero
si era scatenato, poi rigetta le condizioni poste dai luterani
per partecipare al concilio. Ma a sospingere di nuovo il
pontefice tra le braccia dell’imperatore provvede l’alleanza
tra Enrico II, succeduto al padre Francesco I a Parigi, e i
luterani tedeschi. In Italia si accodano i Farnese per riavere
la perduta Piacenza. Una serie di voltafaccia conduce Carlo
a una sconfitta impensabile fino a poco prima. Ai luterani
viene ufficialmente riconosciuta quella libertà di culto finora
affidata alle lune dell’imperatore e dei principi. Con grande
gioia della Chiesa, possono pronunciare un no definitivo al
concilio.
È la vittoria dell’ala tradizionalista, la quale nel 1555
manda il suo campione, il cardinale Carafa, sul soglio con il
nome di Paolo IV. È l’anno in cui Carlo, stanco e disilluso,
scende dal trono: il suo immenso impero viene diviso tra il
figlio Filippo II, cui vanno la Spagna, l’America, le Fiandre,
Milano, la Sardegna, il regno del Sud, e il fratello
Ferdinando, cui vanno l’Austria, l’Ungheria, la Boemia e il
titolo d’imperatore, che conferisce una generica autorità sui
rissosissimi stati germanici. Questa scissione degli Asburgo
accompagnerà e condizionerà la storia europea fino alla
prima guerra mondiale. Sul momento rinfocola le velleità del
partito antispagnolo, che nella Penisola ha il suo tessitore
nel papa: per anni aveva visto in Carlo una sorta di
anticristo, ora è convinto di potersi rivalere. Paolo IV mira a
impossessarsi di Napoli, ma le sue truppe vengono battute.
A salvare lui e Roma dall’ennesima invasione è l’ennesimo
conflitto tra Francia e Spagna: per conto di Filippo II lo
risolve Emanuele Filiberto a San Quintino. Il monarca
asburgico ha tolto di mezzo il fastidioso rivale, l’influenza
spagnola si estende all’intera Penisola giacché anche chi,
come Venezia e Roma, detiene uno spicchio d’autonomia
non può prescindere dalla realtà europea.
Sebbene delusa nelle sue ambizioni italiane, con i domini
del Mediterraneo e dell’Egeo erosi dai turchi pezzo dopo
pezzo, Venezia è l’unico luogo dove si pratica una parvenza
di tolleranza religiosa. Sul resto della Penisola è calata la
cappa del puritanesimo e dell’ortodossia estrema. Ha
assunto le forme di un’Inquisizione occhiuta, che perseguita
e manda al rogo. È stato Paolo IV a scatenare il Santo Uffizio
creato da Paolo III. Sotto la guida dei domenicani, con i
gesuiti lesti a prenderne le distanze, il sospetto diventa
l’anticamera della verità. Ci vanno di mezzo perfino un paio
di cardinali. La reazione a tali eccessi è l’elezione quale
successore di Paolo IV di un cardinale da lui emarginato. Si
chiama Angelo Medici (Pio IV), ma non appartiene alla
dinastia fiorentina.
È un milanese di umili origini, ha compreso che il rilancio
spirituale della Chiesa transita dalla conclusione del concilio.
A questo compito si vota supportato da un giovanissimo
nipote, subito asceso al cappello cardinalizio: per fortuna del
papa è Carlo Borromeo, che santo lo appare perfino a quegli
invidiosi della curia.
I progetti del pontefice sul concilio s’innestano nel clima
creato dalla pace di Cateau-Cambrésis tra Spagna e Francia
(1559). Il desiderio generale è di togliere ogni possibile
causa di scontro e la fede ne è stata madre fin troppo
prolifica: le vittime più recenti si sono avute proprio in Italia.
Emanuele Filiberto in Piemonte e gli spagnoli in Calabria
hanno massacrato i primi convertiti di una chiesa
protestante, i valdesi (seguaci del mercante lionese Valdo). I
lavori di Trento si chiudono nel dicembre 1563. La gerarchia
ecclesiastica ha ottenuto il duplice scopo d’impedire
qualsiasi accordo con i luterani e di salvaguardare le
prerogative papali dalle limitazioni, che avevano proposto i
vescovi di Spagna, di Francia e di Germania. Sotto
l’incalzante stimolo dei gesuiti, è sancita l’infallibilità del
pontefice con la tendenza a trasferirla dal campo religioso a
quello terreno. Vengono riaffermate le parti di dottrina
messe in dubbio o confutate da Lutero: a riscaldare le
coscienze più tiepide provvedono i roghi dell’Inquisizione.
Ma proprio la necessità di confrontarsi alla pari con i
protestanti obbliga la Chiesa a rivedere la selezione e
l’allevamento dei propri quadri: soprattutto le impone un
radicale cambiamento dei costumi. Preti, vescovi, cardinali
tornano a volgersi allo spirito, abbandonano le lusinghe del
mondo. È la Controriforma, della quale si fa carico Pio IV:
con lui il papa torna a essere l’erede di Pietro, il
rappresentante di Dio in terra, non più un ambizioso e
spregiudicato capo di Stato, interessato alle lusinghe del
potere e preoccupato di garantire la successione.
I savi propositi di Pio IV s’incontrano con la realtà politica
di un’Italia ormai inesistente sullo scacchiere continentale. Il
concilio trentino ha inaugurato l’usanza delle consultazioni
ad altissimo livello tra Roma-Madrid-Parigi-Vienna. È
soprattutto con la Spagna, dominatrice della Penisola, che il
Vaticano instaura un rapporto fortissimo. Il cupo,
misantropo, bigotto Filippo II da un lato mette la propria
spada al servizio del cattolicesimo, dall’altro se ne serve per
tenere sotto controllo i nemici interni, per reprimere i moti
d’indipendenza delle Fiandre, avviate verso il
protestantesimo. La Riforma luterana s’insinua in ogni
angolo d’Europa tranne in Italia. All’apparenza è un bene, in
quanto preserva il Paese dalle guerre e dai massacri, ma
tale bene comporta il mancato formarsi di una coscienza
nazionale. È ciò che è avvenuto in Germania, seppure in
senso di rigido nazionalismo, è ciò che avviene altrove
grazie all’interpretazione volontaristica della salvezza eterna
data da Jean Cauvin (Calvino). È il figlio del segretario
amministrativo della diocesi di Noyon in Francia. È stato
avviato al sacerdozio, ma le simpatie per i luterani lo
costringono a rifugiarsi a Basilea, dove perfeziona il suo
credo. Questo fustigatore di ogni peccato, questo
suscitatore di ogni energia conferisce al protestantesimo
quei caratteri – fiducia nel proprio operato, orgogliosa
affermazione dell’individualità, ricerca del successo in
quanto prova del favore divino – che produrranno il
tumultuoso sviluppo del capitalismo, degli Stati Uniti, della
rivoluzione industriale.
L’Italia delle parrocchie, della Controriforma,
dell’Inquisizione e del preservativo (viene inventato
sfruttando le budella della pecora) s’abitua, invece, a essere
accomodante con il protettore di turno. Disavvezza a fare i
conti con la coscienza, refrattaria al principio della
responsabilità individuale, s’inchina. Per tre secoli non sarà
padrona del proprio destino accontentandosi di far parte del
panorama. L’italiano suonatore di mandolino,
azzeccagarbugli, bravo nel servire a tavola, « sempre pronto
ad accorrere in aiuto del vincitore » (mirabile battuta di
Ennio Flaiano) spunta in questo contesto. « Franza o Spagna
purché se magna » diventa la frase simbolo di una
condizione intramontabile. E dato che tutto si tiene, assieme
al Paese declina anche quella che è stata la sua massima
espressione, il Rinascimento. Due lutti lo testimoniano. Nel
1564 muore Michelangelo. Ha ottantanove anni, è stato
definito ‘sommo’ da Paolo III, ma pessimismo e angosce
erano aumentati con gli acciacchi e con la vecchiaia. Nessun
altro artista riuscirà più a trasmettere una forza così
vibrante. Sette anni dopo lo segue un altro fiorentino,
Benvenuto Cellini. Ha avuto Michelangelo per idolo, ma con
una concezione della vita profondamente diversa. Cellini se
la spassa fino all’ultimo giorno grazie a una mano mirabile
con lo scalpello, con il pennino, con lo stiletto. La sua
esistenza è piena di risse, di delitti, di capolavori, culminanti
nella statua del Perseo e nella splendida autobiografia.
Il 1571 è pure l’anno della battaglia di Lepanto. Papa Pio
V (Antonio Ghislieri) e Filippo II hanno deciso che la Chiesa
della Controriforma deve bloccare l’espansione del turco. La
Spagna ci mette i capitali, Venezia la flotta; Genova, Roma,
il Papato, i Savoia, l’imperatore quel poco che possono. Dei
grandi paesi cattolici, è assente la Francia: in odio agli
Asburgo confida in un successo dell’Islam. Francesi sono
però i cavalieri di Malta immolatisi anni prima nella difesa
dell’isola dagli ottomani (da Othman I, capostipite di
un’importante dinastia turca). La Serenissima è la più
interessata all’alleanza: ha appena perso Cipro e sente il
fiato dell’Islam farsi sempre più pressante. Il comando
dell’armata è assegnato a don Giovanni d’Austria,
fratellastro di Filippo. L’adunata avviene a Messina, di cui in
quegli anni scrive il più grande commediografo di tutti i
tempi, l’inglese William Shakespeare: vi ambienta uno dei
suoi capolavori, Molto rumore per nulla.

Lepanto / Lega Santa.


Otto secoli dopo Poitiers, l’Europa si mobilita, accorrono
volontari da ogni parte: soldati protestanti si affiancano ai
soldati cattolici per salvare la civiltà cristiana. In mezzo a
loro si muove Miguel de Cervantes, il papà del futuro e
immortale Don Chisciotte. La superiore abilità degli
ammiragli italiani conduce a una netta vittoria. Per
completarla bisognerebbe accompagnarla con operazioni di
terra, ma Filippo ha bisogno di ogni uomo per fronteggiare la
rivolta nelle Fiandre, dove la resistenza dei calvinisti
olandesi cresce di giorno in giorno. Per di più gli Asburgo,
volendo congiungere i territori imperiali con la Lombardia,
non hanno accantonato la speranza d’impossessarsi di
Venezia. Di conseguenza ritengono utile che la Repubblica si
dissangui in una continua guerra di mantenimento contro il
sultano.
Nonostante le difficoltà militari e commerciali, la
Serenissima è l’unico Stato italiano a cercare in qualche
modo di sottrarsi all’influenza iberica. Napoli, Milano e la
Sicilia fanno parte del regno. A Madrid opera dal 1563 un
Supremo consiglio d’Italia composto dagli spagnoli e dai
rappresentanti delle tre colonie. Per coordinare l’attività di
governo occorrerebbero però un valido servizio di polizia e
una sana amministrazione della giustizia. Nobili, clero e
mercanti godono di troppi privilegi perché ciò accada. Le
dépendance vengono spremute da un fisco sempre più
esoso. Milano prova a salvarsi con le vecchie organizzazioni
di arti e mestieri e accoglie con entusiasmo l’arrivo del
nuovo arcivescovo, Carlo Borromeo. La Sicilia, amministrata
da un altro viceré, si rinchiude in se stessa volgendosi alla
mafia, di cui cominciano a parlare nei loro rapporti i
funzionari governativi. Napoli vede un proliferare di avvocati
pronti a copiare l’usanza spagnola della paglietta, il piccolo
copricapo di paglia foderato di taffetà nera. La città è
apertissima alle mode in arrivo da Madrid. L’esibizione di ori
e gioielli nelle scarpe e nei vestiti, il trionfo di pizzi, trine,
merletti vorrebbero far dimenticare l’estrema indigenza del
popolo. Napoli e la Campania vivono di sussidi. L’agricoltura
e il commercio languono, il latifondo vegeta, il banditismo
appare a molti l’unica soluzione alla fame e alla miseria.
Non va meglio al ducato sabaudo e alla Toscana.
Emanuele Filiberto ha compiuto una fondamentale scelta di
campo: ha trasferito la capitale da Chambéry a Torino, si
orienta verso l’Italia pur non controllando neppure il
Piemonte. Il marchesato di Saluzzo appartiene, infatti, alla
Francia e quello del Monferrato ai Gonzaga di Mantova. In
compenso Emanuele Filiberto si è procurato uno sbocco a
mare dalla contea di Tenda fino a Nizza. Deve vedersela con
il calvinismo dilagante dalla Svizzera e compie un gesto di
grande tolleranza concedendo la libertà di culto ai pochi
valdesi sopravvissuti. Nel 1580 gli succede il figlio
diciottenne Carlo Emanuele I: regnerà per mezzo secolo, si
butterà a capofitto in ogni avventura, ma i risultati saranno
inversamente proporzionali alle ambizioni.
In riva all’Arno Cosimo, elevato a granduca da Pio V, è
stato bravo nel preservare un minimo di autonomia da
Madrid. L’insabbiamento del litorale di Pisa gli sollecita la
costruzione del porto di Livorno. È un’idea vincente, lui la
sfrutta al meglio aprendo le porte a ebrei, calvinisti, luterani:
garantisce libertà religiosa e incolumità. I nuovi arrivati lo
ripagano diventando il motore dello sviluppo. Il figlio
Francesco, malaticcio e lontano dalla politica, si mantiene
sulla stessa rotta; poi tocca al fratello Ferdinando, l’ultimo
della dinastia degno del nome: sposa la figlia di un’altra
Medici, la terribile Caterina, moglie, madre e suocera dei re
di Francia, e si sposta sotto l’ombrello protettivo di Parigi.
Firenze ha ancora banchieri e imprenditori, ma non è più la
città di Dante, Boccaccio, Leonardo, Michelangelo.
Anch’essa deve fare i conti con l’inflazione e con il rialzo dei
prezzi provocati dall’afflusso dell’oro e dell’argento
dall’America. Le merci prodotte a Firenze, come nel resto
d’Italia, costano troppo per i mercati del Nord. L’unico
mercato possibile è la Spagna con tutti i guai del caso.
Se ne accorge a Genova l’imponente Banca di San
Giorgio, di proprietà delle famiglie più in vista, Grimaldi,
Spinola, Doria. Per tener dietro alle inesauribili richieste dei
sovrani iberici, la banca spreme peggio di un limone la
Corsica, di cui detiene il possesso. Una sanguinosa rivolta
dei locali induce i maggiorenti genovesi a cedere l’isola alla
Repubblica in modo da proseguire nel controllo, ma
scaricando i problemi sulla collettività. La recessione aleggia
nel Paese, nessuno però ne coglie i segni premonitori.
L’esistenza delle corti piccole e grandi è ancora scandita da
avemarie e gelosie. Ci si estasia per i prodotti giunti dal
Nuovo Mondo – il tabacco, il cacao, il peperone, la zucca, il
mais, l’umile e fondamentale patata – nella convinzione che
la cuccagna non finirà mai. I Farnese, i Gonzaga, gli Este, i
Della Rovere ritengono che la sola cura degna di essere
affrontata riguardi gl’ingrandimenti territoriali. Nemmeno si
accorgono che la loro economia si è concentrata sulla
proprietà immobiliare e che questo comporta una fuoriuscita
dalla finanza internazionale. Ritengono di non aver perso un
grammo dell’antica sostanza e si esaltano per i versi della
Gerusalemme liberata di Torquato Tasso.
Anche Venezia è persuasa di essere immortale. La
scoperta dell’America, l’importanza assunta dall’Atlantico, la
crescita dei commerci olandesi, tedeschi, inglesi non
scalfiscono gli usi e i costumi della sua classe dirigente. La
Dominante domina sempre meno, tuttavia spende e spande
senza problemi. Lo fa per deviare il corso di tre fiumi (Piave,
Brenta, Sile), che minacciano la laguna, e l’opera strappa
tutt’ora ammirazione; lo fa per fronteggiare il perenne
assalto dei turchi; lo fa per abbellire le facciate, le stanze, gli
arredi dei palazzi. Venezia è la città più cosmopolita
dell’epoca, la più visitata. I suoi ritmi, i suoi comodi, le sue
abitudini suscitano l’invidia generale. Uomini e donne
amano essere all’avanguardia di una moda zeppa di colori,
di tessuti pregiati, di fantasia, di gioielli. La gonna
pieghettata, il corpetto con la gorgiera increspata, le
maniche a sbuffi delle donne; le calze di seta, le scarpe con
fibbia strette e appuntite, il giustacuore, le camicie di lino
degli uomini per diffondersi devono passare l’esame sui
ponti. Molte delle invenzioni che oggi vi fanno sorridere sono
spesso un’imitazione di quanto già visto per calli e campielli.
L’esuberanza dei veneziani rappresenta l’eccezione. Nel
resto del Paese la morsa della Chiesa e del suo braccio
armato spagnolo si fa ogni giorno più asfissiante. Aumenta il
lavoro per l’Inquisizione, s’ammassano fascine per i roghi.
Pio V è morigerato, vive da asceta, tiene lontani i parenti,
ma più che Dio scorge in ogni luogo il peccato: gli manca la
duttilità politica per accordarsi con Elisabetta d’Inghilterra.
La sua intransigenza consegna l’isola e la monarchia
britanniche al protestantesimo. Gli subentra Gregorio XIII
(Ugo Boncompagni), al quale dobbiamo la riforma del
calendario di Cesare. Ha compreso le ragioni dei matematici
nel sostenere che quel conteggio corre troppo: nel 1582
ordina di tagliare undici giorni in ottobre, dal 4 al 15.
Dapprincipio piovono accuse da ogni dove, poi persino i
protestanti s’accodano alla riforma. Sisto V (Felice Peretti) è
un campione del principio d’autorità. Perseguita tutto ciò
che dirazza dai Dieci Comandamenti. Scomuniche e
condanne capitali scandiscono il suo pontificato. Ce l’ha con
tutti, tranne che con i propri parenti. Colui che fa le pulci
anche alle pulci si mostra un tenerone davanti ai richiami
del sangue. Inventa la figura del cardinale-nipote. La
definizione è già esauriente: il prediletto fra i nipoti viene
innalzato al rango di principe della Chiesa con l’incarico di
mantenere il parentado. Si parlerà di ‘piccolo nepotismo’,
ma il danno per il Vaticano sarà enorme.
Nell’entourage di Sisto si è messo in vista il cardinale
Ippolito Aldobrandini. Possiede due qualità importanti: la
discendenza da una nobile famiglia fiorentina bene
ammanigliata con i Farnese, che hanno pagato i suoi studi, e
la fama di filo-spagnolo. È un predestinato alla tiara
sebbene debba aspettare tre elezioni di altrettanti papi, che
hanno il buon gusto di durare pochissimo. Quand’è il suo
turno, con il nome di Clemente VIII, concilia la tempra di
uomo di Stato con una sincera pratica religiosa. Nel 1594,
essendosi esaurita la stirpe dei Valois, ha l’acume di
accogliere la conversione di Enrico IV e di benedirlo quale re
di Francia. La decisione suscita la vibrata protesta dei suoi
amici spagnoli, ma lui non molla: i fatti gli daranno ragione. I
Borboni, cui il nuovo sovrano appartiene, saranno un valido
acquisto per la Chiesa. L’unico caso in cui Clemente si
mostra intransigente riguarda un ex frate domenicano
nativo di Nola, in frenetica peregrinazione tra Parigi, Londra,
Praga, Zurigo, Francoforte: Giordano Bruno. È un
megalomane con il pallino della provocazione, un vanesio
innamorato del plauso altrui, un arruffone che cita a
sproposito dai libri letti. La sua oratoria magniloquente
s’addice ai tempi, miete consensi specialmente fra il gentil
sesso, tant’è vero che abbandona la tonaca per le gonnelle.
In polemica con chiunque minacci di fargli ombra, entra nel
cono d’ombra della magia, dell’occultismo, della
superstizione. È un venditore di fumo, che, purtroppo per
lui, finisce negli occhi degli antichi colleghi domenicani, cioè
l’Inquisizione. Bruno la sfida accettando l’invito di un nobile
veneziano. Confida nella tolleranza della Serenissima, la
quale, però, deve ogni tanto accondiscendere agli umori di
Roma. Bruno viene estradato. La condanna a morte lega il
nome della Chiesa alla nequizia dei suoi organismi e
assicura un trionfo postumo al malcapitato demagogo. Nel
momento decisivo Bruno trova la forza di non ritrattare una
riga dei suoi sproloqui, di avviarsi con la schiena dritta al
rogo in Campo dei Fiori. Quelle fiamme lanciano un riverbero
di morte sul ’600 che è cominciato da quaranta giorni e in
cui prevarrà il nero dei vestiti e dell’atmosfera di casa
nostra. Cominciata con il Concilio di Trento, la moda degli
abiti neri, o scuri, per le cerimonie ufficiali resiste da cinque
secoli. In questo ambiente s’accende la stella di
Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio dal paese natio. Un
furfante capace, con il pennello, di trasformarsi in un genio.
I suoi quadri raccontano l’umanità dolente, che scorge
intorno a sé. Con lui pure i temi a sfondo religioso – il
Martirio, la Morte della Vergine – sono pervasi di una
drammaticità terrena. La sua lezione contagerà prima
l’Italia, poi l’intero Continente.
Eccezion fatta per l’arte, la Penisola è sempre più lontana
dal resto d’Europa, le sue sono dispute per il possesso di
qualche castello e di qualche fattoria. Il Papato si è
impadronito di Ferrara. Carlo Emanuele I si annette Saluzzo,
ma deve cedere a Enrico IV i possedimenti al di là del
Rodano e fallisce la conquista di Ginevra. La vera guerra
viene sfiorata per una questione di puntiglio. A fronteggiarsi
sono Venezia e Roma. Sotto l’abile regia del cardinale-nipote
Pietro Aldobrandini, il posto di Clemente, dopo un
brevissimo interregno, viene preso da Camillo Borghese,
Paolo V. L’indole mite fin lì dispiegata sembra anticipare un
pontificato sotto traccia, invece l’elezione scatena una
concezione assolutistica. Paolo s’intriga di tutto e s’inalbera
per tutto. La decisione di Venezia d’incarcerare due
sacerdoti per violazione del codice penale lo manda in
bestia. La Repubblica è nel mirino a causa di quel minimo di
tolleranza religiosa e di un prelievo, quasi pro forma, sulle
entrate delle parrocchie venete. Inoltre due leggi recenti – il
divieto di costruire chiese e di cedere beni al clero senza
una preventiva autorizzazione – hanno fatto drizzare il pelo
alla curia e ai gesuiti, i quali, pur non volendo niente da
spartire con l’Inquisizione, sono imbattibili nel fornire
pretesti e capri espiatori.
Paolo V insegue un riconoscimento formale della propria
incontestabile autorità, il doge Leonardo Donà è, però, fatto
della stessa pasta. Non solo respinge le richieste, ma
addirittura cerca chi possa contestarle sul piano giuridico. Lo
trova in un frate servita, Paolo Sarpi, che non è stato
promosso vescovo a causa delle consulenze prestate alla
Repubblica. Sarpi non delude il committente: spiega che la
sovranità di uno stato non può vacillare neppure davanti al
Vaticano e che alle sue leggi non possono sottrarsi neppure i
preti. È la crisi.
Paolo scomunica Venezia, il Consiglio dei Dieci fa muro,
alcuni ordini ecclesiastici abbandonano la Laguna, dove
giungono di gran carriera gli emissari d’Inghilterra e Olanda,
speranzosi in un pronunciamento protestante della città. Le
lettere che Sarpi scambia in quel periodo con gli amici
calvinisti riflettono tale possibilità: il frate servita è il solo
nell’Italia di allora a dire e a scrivere che le libertà civili non
si conciliano con le regole oscurantiste della Controriforma.
Il confronto militare tra Roma e Venezia sembra
anticipato dall’agguato cui Sarpi sopravvive per un
miracolo, ma Paolo intravede nella guerra una trappola:
teme un passaggio di Venezia nel campo protestante e
l’inserimento sulla scena di un ospite sgradito, Enrico IV. Si
trova un compromesso, la pace è salva, l’intera Penisola
respira. Svanita la minaccia, agli italiani non pare vero di
udire, anziché il rombo del cannone, un dolce canto con
accompagnamento musicale. La rappresentazione dell’Orfeo
a Mantova apre nel 1607 l’inesauribile stagione del
melodramma. L’autore è Claudio Monteverdi, un cremonese
col perenne problema di combinare l’estro e la pagnotta. Il
genere prende origine dalle ormai lontane composizioni
gregoriane e dalle rappresentazioni sacre. Nei secoli però la
componente religiosa si è affievolita a vantaggio di quella
mondana. Con Monteverdi siamo alla canonizzazione. Il
melodramma diventa il passatempo preferito del Paese,
senza distinzione di classi, e ne rappresenta al meglio la
natura: l’amore per la sceneggiata, per i mezzi toni, per i
sentimenti in piazza. Il bel canto unisce ciò che la politica
continua a dividere benché la pubblicazione a Firenze del
primo vocabolario (1612) dovrebbe ricordare la comune
identità.
Quanti però sono in grado di leggerlo? La Riforma ha
obbligato i protestanti ad alfabetizzarsi avendo ciascuno di
essi l’obbligo di leggere e interpretare la Bibbia. La
Controriforma ha viceversa coltivato l’esigenza opposta. Ad
arcivescovi, duchi, governatori, viceré non dispiace che le
masse restino ignoranti, che abbiano bisogno di ‘lor signori’
per qualsiasi atto pubblico. Il perdurante ricorso al latino,
non soltanto da parte della Chiesa, è sintomatico della
voglia di ampliare il fossato tra i pochi sapienti e i tanti
ignoranti. Insomma, ora che il vocabolario c’è, non ci sono
gli utenti. E questi continuano a mancare. Anche nel nuovo
millennio l’Italia è in coda nella lettura dei giornali e dei libri.
Ma ritorniamo al vocabolario editato dalla più benemerita
delle accademie sorte negli ultimi duecento anni: la Crusca
sinonimo di cultura ad alto livello. Queste accademie
esprimono il desiderio di circoscrivere il sapere alle élite, di
farne uno strumento di potere. Come succederà con le
università e con i baroni, le accademie e i loro componenti
anticipano la pretesa tutta nostrana di detenere un
monopolio e di servirsene per bassi fini di bottega.
Non a caso il più dotto e conosciuto professore
universitario del tempo, Galileo Galilei, è guardato storto dai
suoi colleghi. Ha insegnato tra Pisa e Padova, è già famoso
per aver intuito la legge sulle oscillazioni del pendolo e per
aver costruito il telescopio; Cosimo II granduca di Toscana
l’ha nominato Primo Matematico e Filosofo di Corte. Eppure i
suoi metodi, tesi a coinvolgere gli studenti nell’osservazione
diretta dei fenomeni, vengono giudicati eretici al pari delle
sue teorie, che riprendono quelle copernicane. Il Sole al
centro dell’universo anziché la Terra è considerato una
bestemmia dai custodi del dogma. Il cardinal Bellarmino ne
è l’esponente più in vista. Ha trasbordato dai gesuiti
all’Inquisizione, è animato da furori moralistici, vorrebbe una
Chiesa dedita sì allo spirito, ma nel nome di una disciplina
rigidissima. All’inizio ha tenuto rapporti d’amicizia con il
Sarpi, poi le loro strade si sono divise e lo sono ancor più ora
che il frate, in concomitanza con le affermazioni di Galilei,
sostiene esser il Papato la rovina del cattolicesimo. Paolo V
lo ha scomunicato, ma Venezia lo protegge, gli consente di
scrivere una storia del Concilio, che manda in estasi
luterani, anglicani e calvinisti.
In un clima così incandescente Bellarmino non fa sconti a
Galileo, però gli offre una via di scampo. Il cardinale è
considerato il miglior polemista cattolico di ogni tempo,
eppure nei confronti dello scienziato mantiene un
atteggiamento conciliante, deplora che abbia usato l’italiano
(accessibile a molti) e non il latino (accessibile a pochi), lo
invita a fermarsi alle ipotesi senza trasformarle in tesi.
Galileo non lo fa e viene chiamato a risponderne a Roma.
Davanti alla minaccia del carcere, nel 1616 abiura dalla
verità. Il Santo Uffizio può così pubblicare il famoso editto in
cui conferma che il Sole ruota intorno alla Terra. La polemica
ha interessato una minima parte del Paese, è stata molto
più seguita all’estero: l’insofferenza fra protestanti e
cattolici è giunta all’acme, ogni intervento dell’Inquisizione
non fa che ispessirne i contrasti. Ma a rendere irrespirabile
l’aria europea non sono soltanto i contrasti religiosi. Sotto
l’astuta guida del cardinale Richelieu, la Francia ha rialzato
la testa e mal sopporta il primato spagnolo.
Prima che l’Europa entri in guerra, il campo di confronto
è il Piemonte in preda ai sussulti inferti dall’ondivago Carlo
Emanuele di Savoia. Continua a dimenarsi tra Francia e
Spagna nella speranza di ricevere il sostegno necessario alle
sue conquiste: lui si accontenterebbe del Monferrato, in
mano ai Gonzaga, ma ogni volta ne esce con le ossa rotte,
con gli eserciti nemici che gli bivaccano sotto il naso. Anche
Venezia è inquieta per le ricorrenti mire degli Asburgo sul
Veneto. L’esercito della Serenissima ferma sull’Isonzo
l’arciduca d’Austria, che ha già occupato Gorizia, mentre la
flotta sgomina il naviglio degli uscocchi, corsari slavi a libro
paga degli imperiali. Poco dopo la Spagna finanzia un golpe
a piazza San Marco: il suo ambasciatore corrompe le milizie
mercenarie, il complotto però è scoperto. I veneziani se ne
vendicano aiutando i protestanti dei Grigioni a respingere la
sollevazione cattolica della Valtellina, pagata anch’essa
dagli agenti iberici.
Ma è già scoppiata la Guerra dei trent’anni con i
protestanti scandinavi, cechi e tedeschi alleati della
cattolicissima Francia, il cui capo di governo è addirittura un
cardinale, contro le truppe congiunte degli Asburgo
benedette dal papa. È un conflitto che coinvolge e
sconvolge il Continente.
La sola Italia ne è immune, qui al massimo si cambiano
alleati. Il protagonista è l’incontenibile Carlo Emanuele. In
maniera confusa insegue il sogno di una unificazione della
Penisola, anche se la vede in funzione del proprio Regno. La
predestinazione dei Savoia a far l’Italia, possibilmente senza
morirne, comincia con lui. Al momento, però, gli rimane
ostica la conquista del Monferrato, per non parlare di
Genova. Il richiamo delle armi contagia pure lo Stato
pontificio. Siede sul trono Urbano VIII, il cardinale Barberini,
scelto dal conclave per il suo distacco dai due grandi partiti
in lizza, quello francese e quello spagnolo. Ci si
aspetterebbe che si adoperi per la pace, ma il suo modello è
Giulio II: ordina la costruzione di fortezze, impianta una
fabbrica d’armi. Sogna un ruolo che non appartiene più alla
Chiesa: stringe un inutile patto con il protestante Gustavo
Adolfo re di Svezia nell’illusione di ricevere i vescovadi persi
in Germania; inutilmente bussa alla porta dell’imperatore
Ferdinando II.
Delle furiose battaglie che devastano l’Europa giunge in
Italia un’eco lontana malgrado il Piemonte stia con il fucile
al piede per seguire le evoluzioni di Carlo Emanuele e
malgrado nei due viceregni del Sud i funzionari di Madrid
bandiscano una leva dopo l’altra: saranno circa
sessantamila i campani, i siciliani, i calabresi, i pugliesi
arruolati dalla Spagna. Il Savoia è vecchio e deluso, però
non demorde: magari insegue la bella morte sul terreno,
viceversa viene stroncato da una broncopolmonite alla testa
del suo piccolo esercito in marcia contro le truppe inviate da
Richelieu a occupare Saluzzo e Pinerolo. E se la guerra non
dilaga, lo fa invece la peste: da anni vengono segnalati
focolai in Piemonte, l’esplosione tuttavia avviene in
Lombardia. La testimonianza più bella è nel libro mastro
della letteratura italiana, I promessi sposi. Alessandro
Manzoni ci fa rivivere il dramma, la disperazione di quei
mesi, l’opera indefessa del cardinal Federigo Borromeo,
parente di Carlo, il manto di morte e di miseria che si stende
su Milano.
Ma il 1630 non è soltanto l’anno della peste, è pure
l’anno della pubblicazione da parte di Galilei del Dialogo
sopra i due massimi sistemi del mondo (quello tolemaico e
quello copernicano). Nella forma di pacata discussione fra
tre battibeccanti, sorretto dalla mirabile padronanza della
lingua già dispiegata nelle precedenti pubblicazioni, l’autore
consacra la validità della rivoluzione copernicana. Il Dialogo
è uno dei libri che hanno cambiato il corso dell’Uomo, ma la
Chiesa lo ritiene un attentato alle verità. Bellarmino non c’è
più, ci sono, però, i gesuiti. Hanno con Galilei un antico
conto da saldare, ispessitosi dopo la pubblicazione del
Saggiatore. Non basta che l’anziano professore abbia
dedicato il nuovo lavoro a Urbano VIII, anzi i gesuiti
convincono il pontefice che è una corbellatura in più. Nel
1632 il libro è messo all’indice. Un anno dopo, alla prima
seduta del processo intentato dall’Inquisizione, Galilei è
dichiarato eretico e in stato di arresto. Per scampare ai tre
anni di carcere, e ai sette salmi quotidiani di penitenza, non
gli resta che abiurare per la seconda volta. Ciò avviene in
concomitanza con la fama universale che comincia a posarsi
sul Dialogo tradotto in ogni lingua.
Il calvario di Galilei oscura quello di un ex frate
domenicano, Tommaso Campanella. È acceso da sincera
passione civile, ma l’Italia che lui immagina nella Città del
Sole è un concentrato di comunismo ed eugenetica (la
selezione della razza di stampo nazista) sotto l’egida
religiosa, incarnata dal Dio-sole. L’Inquisizione non ha dato
tregua a Campanella: una lunga serie di processi si è
conclusa con una condanna a ventisette anni di carcere
scontati fino all’ultimo giorno. In prigione Campanella ha
scritto il suo libro e in prigione ritorna perché, a differenza di
Galilei, sommo genio ma personalità arrendevole, il
carattere non gli consente cedimenti. A liberarlo provvede
Urbano VIII, un papa che, quando non è preda di smanie
belliche, si mostra molto più tollerante della curia: spedisce
Campanella a Parigi e non firma la condanna di Galilei.

La peste nel 1630.

Vorrebbe piuttosto firmare, dopo averlo scomunicato, la


deposizione di Odoardo Farnese. Il pontefice è in rotta con i
nipoti di Paolo III per il feudo di Castro. La lite si estende,
coinvolge il ducato di Parma e Piacenza. Il Farnese viene
spalleggiato da Venezia e dal granduca Ferdinando. La
spedizione nordista assedia Roma, il conflitto, però, si
esaurisce per l’impossibilità finanziaria dei contendenti di
sostenere le spese. Ne sa qualcosa Venezia chiamata in
quegli stessi anni a parare l’ennesima incursione turca: è
presa di mira la perla dell’Egeo, Creta. La strenua resistenza
di Candia e delle esigue guarnigioni sparse nell’isola
necessita di rinforzi: servirebbe una flotta adeguata, ma
costa tanto. Il Consiglio dei Dieci dà fondo al Tesoro,
contemporaneamente gli ambasciatori veneti provano a
suscitare un’altra Santa Alleanza.
Napoli, lo Stato pontificio, il granducato di Toscana
inviano qualche galera, la Francia promette molte navi e
centomila ducati. Darà soltanto i soldi. Un po’ perché vive
una fase politica agitata: sono scomparsi Luigi XIII e
Richelieu, si è affacciato un giovanissimo Luigi XIV con il suo
mentore abruzzese Giulio Mazzarino, giunto a Parigi in
qualità di nunzio apostolico. Un po’ perché le conviene che
gli staterelli italiani si dissanguino. Probabilmente non esiste
un progetto organico, la Francia, comunque, è tornata ad
allungare lo sguardo sulla Penisola. La guerra civile
piemontese tra la reggente Cristina e i suoi cognati, i
principi Maurizio e Tommaso di Savoia, aveva consentito a
Richelieu di ergersi ad arbitro. La composizione del dissidio
ha collocato la monarchia transalpina in posizione
predominante: i suoi reparti occupano per qualche tempo
Casale, le sue navi Piombino, l’Elba, i presidi della
Maremma. Genova e la stessa Milano sono sotto tiro. I
sussulti interni consigliano alla Francia di ritirarsi da Casale
e Piombino, ma la situazione rimane incandescente.
La Spagna fatica a controllarla. Napoli e Palermo sono
l’epicentro dello scontento. Il neofeudalesimo ha stremato le
popolazioni sottoposte a un fisco esoso, a latifondisti
sanguisughe, a un’assoluta penuria di lavoro. Napoli ha
duecentomila abitanti, è la città più popolosa d’Italia e fra
quelle più popolose d’Europa. Se la passano bene il migliaio
di nobili e il migliaio di avvocati, magistrati, funzionari del
governo, gli altri fanno la fame. Nel popolino è cresciuta
l’influenza della camorra e non è difficile indovinare il suo
mestolo nella rivolta che segue il ripristino della gabella
sulla frutta. A capo dei lazzari (dallo spagnolo lazaro,
povero) si pone un giovane pescivendolo, Masaniello. Si
proclama generalissimo, instaura un singolare rapporto con
il vicerè, duca d’Arcos, avoca a sé ogni incombenza
amministrativa. La sua iniziativa ha successo. Abolita la
tassa sulla frutta, i ribelli chiedono l’abolizione degli altri
balzelli. A questo punto, però, il cervello di Masaniello,
sottoposto a uno stress per lui inusuale, va in tilt, sragiona.
L’ex pescivendolo perde i sostenitori più fidati. Quattro colpi
d’archibugio mettono fine alla sua avventura, ma non alla
protesta della città.
Il nuovo caporione viene individuato in un fabbro,
Gennaro Annese. Guida lui la resistenza ai cannoni della
flotta inviata da Filippo II di Spagna. Napoli domanda aiuto
al duca di Guisa. Questi accorre, spadroneggia, entra in urto
anche con una squadra navale francese, cui Luigi XIV ha
chiesto di volgere il caos partenopeo a proprio favore. I
napoletani concludono che la soluzione migliore consiste
nell’aprire le porte ai vecchi protettori. Comincia la
restaurazione degli Asburgo. L’anno successivo si estende a
Palermo. Un altro popolano, Giuseppe Alessi, capeggia la
sommossa contro l’ottusità di una gestione, che punta
soltanto a prosciugare senza pensare minimamente a
investire. Anche la Sicilia viene domata. A Napoli e a
Palermo le masse si sono paradossalmente sollevate nel
nome del re di Spagna, ritenuto il solo in grado di rimediare
ai guasti dei suoi rappresentanti. Un clamoroso errore di
prospettiva giustificabile con l’arretratezza del Paese, di cui
il Meridione rappresenta il punto più basso, con la mancanza
di mezzi di comunicazione. Nel resto d’Europa, invece, si
stampano già i giornali, palestra degli intellettuali e della
borghesia. Le due classi, che nel continente hanno fatto e
ancor più faranno la differenza, in Italia sono prive di
qualsiasi spinta propulsiva: l’unica che esprimono è nel dar
la caccia a privilegi e regalie. E adesso che la pace di
Westfalia (1648) ha bloccato la distruttiva Guerra dei
trent’anni ci apprestiamo a pagarne le conseguenze.
22. Da un padrone all’altro

La Controriforma da un lato, la dominazione spagnola dall’altro


convogliano l’Italia verso la decadenza. La Chiesa e gli Asburgo di
Madrid sono avversi a ogni progresso. La prima vuole il Paese
asservito alla parrocchia e al prete, timoroso dell’inferno e
preoccupato soltanto di recitare le penitenze, che ve lo possono
strappare. I secondi hanno prosperato con le conquiste, ma privi di
una mentalità e di una classe imprenditoriali non hanno curato né
la trasformazione del latifondo né uno sviluppo industriale
sprecando, in ultimo, anche gli incalcolabili tesori delle Americhe.
L’Italia del Rinascimento è uno sbiadito ricordo. Il cambiamento,
cominciato con la decisione di Lorenzo il Magnifico di passare dalle
banche alla terra per avere più tempo da dedicare alla politica, è
definitivamente maturato dopo il Concilio di Trento. Le proprietà,
pagate tantissimo a causa dell’inflazione, si deprezzano con la
Guerra dei trent’anni. Le poche aziende attive scontano sia la
mancanza di capitali per gl’investimenti, sia il costo della
manodopera tenuto alto dalle corporazioni delle arti e dei mestieri.
Queste avevano rappresentato un motore d’espansione nella
Milano e nella Firenze del Quattrocento mentre ora sono un freno.
Assomigliano agli odierni sindacati, tesi alla spasmodica protezione
di vetusti interessi.
I prodotti italiani risultano troppo cari nel momento in cui
l’economia della Spagna, il principale mercato della Penisola,
boccheggia e lo sviluppo dei paesi protestanti s’impenna. La
diversa concezione del lavoro introdotta dalla Riforma, la ventata di
democrazia o di minor asservimento all’assolutismo dei sovrani e
della Chiesa, di cui l’Inghilterra e l’Olanda sono i portabandiera,
danno il la a una crescita straordinaria. Nello stesso periodo in cui
telai e tintorie si riducono in Italia a poche unità quelli inglesi
aumentano e filano a tutto spiano. La flotta mercantile e i vascelli
pirati di Sua Graziosa Maestà riversano sull’isola britannica ogni
bendidio. Genova e Venezia sono costrette ad attuare una politica
dei noli, che ha il solo risultato di aumentare le difficoltà del
commercio locale. L’Inghilterra è una spaventosa macchina da
guerra in tempo di pace: ha commercializzato il pepe, il caffè, la
gomma; ha costruito il water; i suoi medici sono all’avanguardia
nella sperimentazione e ora sta migliorando il modello iniziale della
macchina a vapore, destinata tra meno di cent’anni a rivoluzionare
il lavoro industriale.
La Penisola deve invece fare i conti con il difficile sfruttamento
della terra. Il maggior proprietario è il clero, esentato da qualsiasi
tassa al pari del nobile, per cui il fisco si scatena sui poveri
mezzadri. Costoro hanno a malapena di che sfamare la famiglia:
sopravvivere è già un’impresa, figurarsi se qualcuno pensa alle
migliorie dei campi e degli allevamenti. Il declino coinvolge anche i
porti, che per secoli hanno dettato legge e adesso sono legati alle
bizze del naviglio angloolandese. L’unica sicurezza diventa
l’impiego pubblico. Nasce la leggenda del posto fisso, la sua difesa
serrata, il tentativo di passarlo al figlio, la prassi di trasformarlo in
una fonte suppletiva di guadagno con la corruzione e con la
concussione. Vi suggerisce qualcosa?
Delle grandi famiglie solo quelle genovesi mostrano di
possedere il bernoccolo degli affari. Gli Spinola, i Grimaldi, i
Pallavicino, i Serra hanno privilegiato la Spagna investendo nelle
colonie d’America e d’Italia. Sono diventati proprietari di giacimenti
auriferi e di sterminate tenute agricole. Se ne liberano al momento
opportuno e impiegano il ricavato nei mercati di Parigi, Londra,
Amsterdam. Dentro l’angusto cortile di casa nostra, gli altri
potentati non s’accorgono di aver imboccato la parabola
discendente. Sono angosciati dalla continuità dinastica.
Nell’illusione d’irrobustire o di salvaguardare i possedimenti, i
troppi matrimoni fra consanguinei hanno tarato la progenie,
l’handicap genetico si riflette sulle incombenze di governo. Tutto
congiura contro l’Italia. Non si arrende all’evidenza il Papato, il cui
titolare, Innocenzo X (cardinale Giovambattista Pamphili), si è
invano battuto contro gli accordi stipulati a Westfalia. Per reazione
ha ispessito il legame con Madrid. Lo cementa la comune fede
cattolica e la reciproca speranza d’impiegare l’altro per i propri
disegni. Hanno entrambi fatto i conti senza l’astro nascente del
firmamento europeo, Luigi XIV, detto il re Sole. Luigi e il suo primo
ministro Mazzarino portano la Francia al ruolo di protagonista. E
poco importa se per avere ragione delle truppe spagnole di Filippo
IV e dell’opposizione interna debbano allearsi con il più estremista
dei protestanti, per di più repubblicano convinto, l’inglese
Cromwell. La pace dei Pirenei nel 1659 ridimensiona
definitivamente il ruolo della Spagna.
Il Piemonte di Carlo Emanuele II guadagna un po’ di territori, ma
deve rassegnarsi all’occupazione francese di Pinerolo. Da
quest’avamposto Luigi XIV spera di preparare le mosse per
sottrarre la Penisola all’influenza iberica. Comincia autorizzando la
partenza di quattromila volontari per Creta in aiuto alle guarnigioni
veneziane, che da sedici anni contendono l’isola ai turchi. La
Serenissima profonde ogni energia e ogni ducato nella difesa di
Creta. La flotta di Lorenzo Marcello distrugge quella ottomana
nell’Ellesponto; la flotta di Lazzaro Mocenigo forza i Dardanelli,
mette il blocco a Costantinopoli. Sono imprese straordinarie, ma
costano più di quanto rendono. I due grandi ammiragli ci perdono la
vita, i vascelli affondati non sono più sostituiti. Nel 1669 Venezia
capitola, i suoi soldati abbandonano Creta con l’onore delle armi. È
una ritirata drammatica: dopo aver sacrificato centomila uomini e
duecentocinquanta navi, a Venezia rimane soltanto una fetta di
Mediterraneo. La batosta non può non riverberarsi sugli altri stati
italiani, tuttavia nessuno di essi mostra di badarci. Il duca di Savoia
è impegnato nell’abbellimento di Torino e nell’eterna persecuzione
dei valdesi: sono immonde carneficine alle quali seguono periodi di
esile bonaccia. Il granducato di Toscana partecipa ai travagli
matrimoniali dello svogliato e bigotto erede Cosimo. La sua unica
debolezza è la gola, la sua ossessione sono i peccati della carne. Li
combatte con tutti i mezzi: ammende, frustate, editti. A Firenze
dominano preti e frati. A loro Cosimo concede benefici e immunità;
ai sudditi, viceversa, riserva un fisco esigentissimo, i cui introiti
servono per erigere chiese e conventi. Nel nome di uno zelo
eccessivo vengono sottratte importanti risorse agli investimenti.
L’Italia vegeta. Non fa eccezione il Vaticano. Si susseguono papi
di buona moralità, ma troppo legati al carro spagnolo. Hanno
scrupoli encomiabili e scarso senso della realtà. Per riparare ai
danni arrecati dai Chigi, parenti del suo predecessore Alessandro
VII, Clemente IX (il cardinale Rospigliosi) limita le concessioni ai
propri nipoti e non si accorge che l’aristocrazia capitolina ha
rialzato la testa, che gli Orsini, i Colonna, i Caetani tornano a
infestare l’Urbe con le loro manovre. Clemente è il primo pontefice
che non si spende contro le tesi simil-calviniste del teologo
olandese Cornelio Jansen (Giansenio): la sua dottrina assertrice
della predestinazione, del valore assoluto della grazia, della
fallibilità papale ha sollevato accanite discussioni in Francia.
Nell’atteggiamento vagamente permissivo di Clemente il partito
spagnolo della curia vede l’influenza dei gesuiti. La Compagnia è
l’unico tra gli ordini a essere filo-francese. Più che una
manifestazione di autonomia è uno schermo dietro il quale i soldati
di Gesù nascondono una profonda involuzione: preferiscono
adeguarsi al mondo anziché combatterlo. Per i gesuiti si apre un
lungo periodo di guerra ideologica. Di pari passo s’inasprisce il
confronto tra la curia e la corte di Versailles. Le rappresaglie del re
Sole prendono di mira i beni del clero, le prerogative pontificie in
terra di Francia.
A salvaguardare il buon nome dell’Italia è come al solito l’arte. In
un paese povero, privo di ricchi imprenditori, gli unici committenti
sono i nobili d’alto rango e gli ecclesiastici, i quali non lesinano nel
loro mecenatismo. I pontefici Urbano VIII, Innocenzo X e Alessandro
VII, e il cardinale Scipione Borghese regalano a Roma un secolo
d’oro: quello del Barocco. Così come è capitato nel Rinascimento, il
Barocco (il termine deriva probabilmente dal nome portoghese
delle perle deformi, dalle dimensioni innaturali e sorprendenti)
straripa dalle arti figurative al costume, conferisce l’impronta a
un’era. E come Firenze per il Rinascimento, Roma ne è il centro
mondiale. È il trionfo della fantasia, dell’esuberanza, della
magniloquenza, a volte a scapito della sostanza. In piena
Controriforma, i fini propagandistici della Chiesa vanno serviti con
grande dispiego di effetti speciali. Il mago di questi effetti, il George
Lucas dell’epoca, è Gian Lorenzo Bernini, pittore, scultore,
architetto, scenografo dal talento mozzafiato e dalla produzione
torrenziale. Ai suoi giochi di prospettive, ai suoi virtuosismi di
marmo, alle sue forme sempre inattese è affidato il look della
Chiesa: nel 1624 crea il baldacchino dell’altare di S. Pietro; cinque
anni dopo è architetto della cattedrale; nel 1656 comincia i lavori di
Piazza S. Pietro, col celebre colonnato a rappresentare le braccia
della Chiesa che accolgono i fedeli. La sua fama è tale che persino
Luigi XIV, pur impegnato nella costruzione di un’arte nazionale
francese, è costretto a chiamarlo per disegnare la colonnata del
Louvre: Bernini va in Francia con tutti gli onori, ma il suo progetto
non verrà approvato.
A tenergli testa in Italia prova un architetto forse ancora più
rivoluzionario, ma di indole opposta: l’inquieto, crepuscolare e
depresso Francesco Borromini. I suoi capolavori sono S. Ivo della
Sapienza e S. Carlo alle Quattro Fontane, due chiesette di
dimensioni minuscole (S. Carlo starebbe tutta dentro uno dei
pilastri di S. Pietro) ma dalle invenzioni architettoniche
fantasmagoriche. La sua sventura sta nel fatto di non piacere a
Bernini (a quanto pare, trovandosi a costruire la Fontana dei
Quattro Fiumi in Piazza Navona davanti alla chiesa di Sant’Agnese,
del Borromini, atteggia uno dei personaggi come chi si aspetti un
crollo imminente dell’edificio) e nella depressione che lo porta a un
cruento suicidio alla stregua di un samurai giapponese.
Alla risonanza artistica l’Urbe sogna di unire un rinnovato
prestigio politico con il patrocinio dell’immancabile Lega Santa.
Dopo decenni di permanenza in Ungheria, l’esercito ottomano ha
assediato Vienna. L’ha liberata l’armata polacca di Giovanni
Sobieski. Innocenzo XI (cardinale Benedetto Odescalchi) ne
approfitta per bandire una crociata, che cacci dall’Europa l’incubo
musulmano. Aderiscono la Polonia e l’Austria, desiderosa di
riappropriarsi dell’Ungheria, aderisce Venezia, la cui flotta è
giudicata indispensabile per fronteggiare sul mare i turchi. Nei dieci
anni trascorsi la Serenissima ha allargato le iscrizioni al Libro d’Oro,
da sempre riservato al patriziato lagunare. Con la stratosferica
spesa di centomila ducati anche centotrentadue nobili di terraferma
si sono potuti iscrivere soddisfacendo la propria vanità e
rinsanguando le casse della Repubblica. Viene così allestita una
potente squadra navale al comando dell’ex doge Francesco
Morosini, l’ultimo gigante della Laguna.
L’esercito imperiale ottiene una lunga serie di vittorie. Sono
riconquistate l’Ungheria, la Transilvania, Belgrado. I vascelli di
Morosini sbaragliano quelli turchi a Mitilene, bombardano Atene
colpendo anche il Partenone. La cattolicità coltiva la speranza di
liberare la Grecia, ma non ha fatto i conti con il ‘re cristianissimo’,
Luigi XIV. In perenne dissidio con il pontefice e in odio agli Asburgo,
che gli appaiono molto più temibili degli infedeli, il monarca
francese invade il Palatinato. L’imperatore Leopoldo è costretto a
spostare una parte delle truppe, quelle che restano sono per
fortuna sufficienti a sbaragliare l’esercito del sultano. L’eroe è un
apolide di ascendenze italiane, Eugenio di Savoia, la cui madre è
una nipote di Mazzarino. A causa di tale parentela Luigi ne ha
respinto i servigi e ora se lo trova nel fronte avverso, compattato
dalla Lega di Augusta. Tutta l’Europa vuol dare una lezione al re
Sole, si unisce pure l’Inghilterra in nome di quell’equilibrio fra le
potenze, che nei due secoli a venire sarà il suo regolo e soprattutto
il mezzo per divenire il guardiano del mondo.
Tra gli aderenti alla Lega figura Vittorio Amedeo II. Il suo è un
autentico voltafaccia, di cui i Savoia sono specialisti e lo
dimostreranno in tutte le guerre fino al tragico 8 settembre 1943.
Vittorio Amedeo si è infatti prodigato per compiacere Luigi XIV, ne
ha condiviso le bizze religiose bandendo un’altra persecuzione dei
valdesi, poi però gli si è palesata la possibilità di riprendere Pinerolo
e non ha avuto dubbi. Ne paga pesanti conseguenze giacché le
armate francesi lo castigano più volte al punto da indurlo a un altro
giro di valzer. Il duca pianta gli alleati e firma un accordo con Luigi,
che acconsente finalmente a cedergli Pinerolo e Casale. La pace di
Rijswijk del 1697 è l’antecedente di quella di Carlowitz due anni più
tardi. Con la prima Luigi XIV accetta di ridimensionare le pretese
continentali, con la seconda la Turchia lascia una fetta d’Europa.
Venezia ha il contentino del Peloponneso, però deve dire addio a
Creta e a Cipro.
Per brindare al nuovo secolo c’è a disposizione un particolare
vino frizzante appena approntato da un frate francese, Dom
Perignon. È lo champagne destinato ad allietare banchetti e
accordi. Ma le capitali europee non lo gustano fino in fondo, sono in
subbuglio per l’imminente decesso di Carlo II di Spagna. Il re
asburgico non ha eredi diretti, dunque il suo trono solletica gli
appetiti di tutte le case regnanti, i cui interessi sovrastano gli
interessi delle nazioni che governano. Alla morte di Carlo il conflitto
divampa per una decina d’anni. I trattati di Utrecht (1713) e
Rastadt (1714) fissano il nuovo equilibrio dell’Europa. Ne escono
trionfanti tre paesi (Inghilterra, Olanda, Austria) e una dinastia, i
Borboni. Inghilterra e Olanda hanno rinsaldato il dominio sui mari,
l’Austria ha allargato i confini dell’impero alle Fiandre e all’Italia,
Luigi ha piazzato il nipote Filippo sul trono di Madrid, tuttavia
questo successo dinastico è stato pagato dalla Francia con un
ridimensionamento delle colonie d’oltremare, Canada e l’isola di
Terranova. Ha perso anche la Spagna, costretta a rinunciare ai
possedimenti europei, e hanno perso gli Asburgo, che non sono
riusciti a salvare la corona iberica.
L’imperatore Carlo VI ha però di che consolarsi. Vienna contende
ormai a Parigi il ruolo di capitale del Continente. Dalla fastosa
reggia di Scho¨nbrunn il sovrano può stendere lo sguardo e la
volontà su una larga fetta d’Europa. In questa fetta rientra l’Italia.
Utrecht e Rastadt hanno infatti sovvertito l’ordine stabilito dal
lontano trattato di Cateau-Cambrésis (1559). Dopo un secolo e
mezzo, l’Austria subentra alla Spagna in qualità di proprietaria della
Penisola. Dipendono direttamente da essa il ducato di Milano, lo
stato dei Presidi (Orbetello e dintorni), il regno del Sud e la
Sardegna. Per un curioso gioco di compensazione la Sicilia è stata
assegnata a Vittorio Amedeo assieme al sospirato titolo di re, che si
aggiunge a quello di duca di Savoia e principe di Piemonte.
Proseguendo nella plurisecolare politica di famiglia, Vittorio
Amedeo si era lanciato nella guerra. L’ha addirittura finita dalla
stessa parte in cui l’ha cominciata pur traballando sotto i colpi
assestatigli da tre eserciti francesi. Assediata per quattro mesi,
Torino è stata salvata dal sacrificio di Pietro Micca (un soldato che
ha bloccato un’incursione nemica facendosi saltare per aria
assieme alla galleria che custodiva) e dall’arrivo dell’armata
austriaca, guidata da Eugenio di Savoia.
Le condizioni della città suggeriscono al neosovrano di
convocare l’architetto più in voga, il messinese Filippo Juvara. È lui
l’artefice di quella fusione tra il classico e il barocco, che fa di Torino
uno splendido prototipo urbanistico. Viene rilanciata l’università,
Vittorio Amedeo finanzia la fondazione della biblioteca. Assieme
alla distribuzione di terre e blasoni ai borghesi distintisi, sono i soli
cambiamenti in una capitale in cui le porte vengono chiuse all’Ave
Maria. Nel Paese nessun altro ha seguito il suo interventismo e il
Savoia ne raccoglie i frutti. Oltre al riconoscimento formale, ricava
un po’ di terre: Bardonecchia, Alessandria, Valenza, alcune zone del
Monferrato. Il problema per lui è la Sicilia, di cui l’hanno nominato
re: non sa che farsene, come capiterà ai suoi successori nel 1860, e
le spese del mantenimento superano i ricavi.
Il resto dell’Italia rimane nelle mani dei vecchi proprietari: a
Genova una pericolante repubblica, pronta a soccombere alle
voglie degli spregiudicati vicini; a Parma e Piacenza i Farnese; a
Modena gli Este; in Toscana i Medici, con esclusione di Lucca retta
da un ordinamento locale. Venezia rinnova le proprie ambizioni: il
far parte di una coalizione vincente, l’esser riuscita a battere i
turchi dopo tanti smacchi le fanno credere di poter riacquistare
l’antico ruolo di Dominante. L’Austria riprende la campagna contro
gli ottomani: le strepitose imprese di Eugenio di Savoia obbligano il
sultano a un accordo, che, però, taglia fuori la Serenissima. Nelle
mire del vincitore, Carlo d’Asburgo, rientra un salasso di Venezia
per facilitare una sua futura annessione all’Impero. La Repubblica
perde il Peloponneso da poco acquistato e i residui capisaldi
dell’Egeo.
Il successo austriaco e la delusione di Venezia s’innestano in una
confusa situazione europea. La agitano i disegni della Spagna per
recuperare quanto perduto in Italia. A Madrid la scena è dominata
da due italiani. Il re Filippo V ha sostituito la defunta moglie Maria
Luisa di Savoia con Elisabetta Farnese, il cui matrimonio è stato
favorito dal primo ministro Giulio Alberoni. Costui da sconosciuto
prelato di campagna, figlio di un ortolano di Piacenza, si è assiso tra
i grandi trasformando una spregiudicata ruffianeria in sottile arte
diplomatica. Elisabetta è l’unica erede del ducato di Parma e
Piacenza: da questa base punta a inglobare quasi tutta l’Italia per
assegnarla ai due figli avuti da Filippo. Alberoni si sforza di attuare i
piani della sua regina. L’ostacolo da eliminare è l’Austria: per
riuscirci allacciano contatti, che spaziano dal re di Svezia allo zar di
Russia. Quando sono sul punto di cantare vittoria e di passare alla
cassa per intascare un ricco bottino (Napoli e la Sicilia a Filippo;
Parma, Piacenza e il granducato di Toscana a Carlo, primogenito di
Elisabetta) la disinvoltura assurta a furbizia li sgambetta.
L’invasione della Sardegna e della Sicilia da parte di un corpo di
spedizione iberico scatena le potenze europee contro la ‘strega di
Spagna’, eloquente nomignolo di Elisabetta. Lei e il suo arrendevole
consorte sono costretti ad accettare le drastiche decisioni del
Congresso di Cambrai (1722): Parma e Toscana a Carlo, il resto
all’Austria. Per tutti paga l’Alberoni, espulso dall’oggi al domani.
Sembra quasi pleonastico dire che in simile guazzabuglio Vittorio
Amedeo ci nuota da par suo. Promette amicizia a chiunque,
mercanteggia ducati e confini. Nel 1720 gli danno la Sardegna per
la Sicilia, lui rilancia proponendo uno scambio clamoroso: rinuncia
al Piemonte e alla Sardegna per Napoli e Palermo. Il continuo farsi e
disfarsi di alleanze muta più volte la carta geopolitica dell’Italia.
Con il trattato di Vienna del 1738 il granducato di Toscana, defunto
l’ultimo dei Medici, Gian Gastone, è definitivamente assegnato a
Francesco di Lorena, mentre a Napoli si è seduto sul trono nel 1733
Carlo di Borbone, ma sa già di avere nel destino la corona di
Spagna.
La bonaccia, tuttavia, non dura. A Vienna la successione di Maria
Teresa a Carlo VI sul trono imperiale coinvolge la diplomazia
internazionale. Federico di Prussia, discendente degli antichi
Hohenzollern, è impegnato a ritagliarsi uno stato in mezzo ai
litigiosi principi tedeschi. A differenza dei Savoia le sue ambizioni
poggiano su una possente macchina bellica; anche per lui il nemico
sono gli Asburgo di Vienna. La sua occupazione della Slesia
rimescola le carte, soprattutto rimette gli eserciti in movimento. Il
primo ad agitarsi è Carlo Emanuele III di Savoia. Di sconfitta in
sconfitta, volteggia da un amico all’altro. Nel 1746 sta con l’Austria
e questo induce Genova, che ne teme le mire, a mettersi, ma solo a
parole, con la Francia. Un esercito imperiale dilaga in Liguria, i
maggiorenti della città sono disposti a qualsiasi umiliazione pur di
non imbracciare le armi. Le angherie degli occupanti sono però tali
da suscitare la reazione dei genovesi. Il sasso lanciato da un
ragazzino – Giovan Battista Perasso, chiamato Balilla – accende la
vittoriosa rivolta. A spegnere i fuochi provvedono la morte di Filippo
e l’ascesa di Ferdinando VI. A Madrid l’Italia non interessa più. Il
trattato di Aquisgrana mette la parola fine a cinquant’anni di guerre
e guerricciole. A Vienna l’imperatrice Maria Teresa festeggia
assistendo a un’opera del Metastasio, al secolo Pietro Trapassi,
l’artista italiano più noto in Europa, ammirato da un precocissimo
compositore, Wolfgang Amadeus Mozart. Metastasio è il re del
melodramma, il poeta dal verso facile e musicale, ma anche l’acuto
autore del saggio sul teatro greco per l’Enciclopedia curata dal
letterato francese Diderot.
Metastasio è andato a Vienna come c’era già andato Eugenio di
Savoia, Mazzarino ha scelto Parigi e lo stesso farà Goldoni. La
mancanza di una patria e dunque di un palcoscenico costringe gli
italiani di talento a cercare ingaggi all’estero. Nell’Italietta amorfa e
semibuia di quegli anni non c’è spazio per le ambizioni, ci si
barcamena e basta. I Savoia hanno al solito sgraffignato qualche
briciola, Voghera, Vigevano, l’alto Novarese: devono però arrendersi
alla preponderanza austriaca, che si estende dalla Lombardia a
Firenze, ormai proprietà dei Lorena. Confinata in un cantuccio, la
‘strega di Spagna’ può comunque sorridere: i figli sono stati
sistemati. Riconfermato Carlo a Napoli, il fratello Filippo ottiene,
grazie ai buoni uffici del suocero Luigi XV di Francia, il ducato di
Parma e Piacenza. Il territorio si allarga con la cessione da parte di
Maria Teresa del ducato di Mantova e Guastalla. I Gonzaga si sono
estinti, così pure gli Estensi a Modena.
Genova ci rimette la Corsica: all’inizio va in appalto alla Francia,
dopo dieci anni (1768) diventa un dominio transalpino. Venezia vive
un’umiliante agonia. Ha prevalso finché in Europa non c’erano
potenze, al loro avvento ha dovuto cedere il passo. La crescita
dell’Austria le ha affibbiato il colpo decisivo. Si è dovuta aggregare
agli Asburgo per contrastare i turchi, ma ne è stata allontanata
allorché Vienna ha risolto il proprio contenzioso. L’Austria ha
bisogno del Veneto per raggiungere la Lombardia, deve liquidare
Venezia per non avere concorrenza nell’Adriatico. La Serenissima
subisce, s’adegua per non scomparire. La sua mitica flotta è
un’ombra, eppure prosciuga l’erario. La contrazione dei commerci
allarga il fosso tra patriziato e popolo. L’oligarchia difende con i
denti il posto pubblico perché spesso non ha altre fonti di reddito, la
corruzione dilaga. Accedere al Libro d’Oro costa molto poco, ma
ancora meno sono i nobili di terraferma che vi sono attratti. La
classe dirigente è troppo ottusa per aprirsi alla ricca e produttiva
borghesia di Padova, di Vicenza, di Belluno, di Bergamo, di Brescia.
Tessuti, agricoltura, fabbriche d’armi potrebbero regalare nuovo
splendore, ma per Venezia esiste soltanto la laguna, le sue
tradizioni, le sue abitudini. Anziché trasformarsi in un piccolo, ma
vitale stato insegue il passato. I suoi governanti hanno ancora la
capacità di progettare e di portare a termine i sei chilometri di
murazzi, che sbarrano l’aggressione del mare, ma falliscono nella
trasformazione economica della Repubblica.
Gl’investimenti sulla terra si rivelano fallimentari, povertà e
disoccupazione riducono il numero degli abitanti. Chi resiste cerca
soddisfazione nell’estrema libertà dei costumi, contraltare di un
regime poliziesco. È una festa continua.
Il tabarro (la nera cappa lunga fino ai piedi) e la bautta (il fitto
velo che dal tricorno ricade sulla faccia coprendola) offrono la
garanzia di ogni licenza. Il gioco, l’azzardo sostituiscono le
avventure di una volta. Nei tanti casinò tutti siedono ai tavoli di
‘faraone’ e forniscono i principali introiti al fisco. La stessa passione
contagia Genova e l’accomuna alla decadenza della vecchia rivale.
Le analogie non finiscono qui. Anche la Superba è controllata da
una oligarchia nobiliare, che occupa i posti a disposizione e non
vede al di là del proprio naso, avveduta negli investimenti privati,
ma catastrofica nelle scelte pubbliche.
In entrambe le città l’atmosfera è quella che in seguito sarà
definita da ultimo ballo sul Titanic. Tuttavia tra calli e campielli si
genera un’esplosione di vitalità. Canaletto, Guardi, Longhi, Tiepolo
la dipingono al meglio: un’umanità gioiosa e spensierata, felice di
vivere il presente sapendo che il futuro è molto incerto. La stessa
che serve da ispirazione a un prolifico autore teatrale, Carlo
Goldoni. Scrive per vivere, a getto continuo, oltre duecento
commedie, a volte copiando, a volte arrabattandosi, ma alcuni
lavori hanno il dono di fissare caratteri immortali, primo fra tutti
Arlecchino. In mezzo ad amori, viaggi, tournée conquista quasi a
sua insaputa Parigi. L’essere immerso nel giorno per giorno gli
regala la levità con cui affrontare i creditori e i colpi maligni del
gioco. La Venezia pettegola e ciarliera tiene a battesimo i primi
esperimenti di giornali. Risentono dell’influsso di quelli inglesi,
hanno però avuto un padre e una madre negli ‘avvisi’, con i quali
nel Cinquecento si dava conto delle attività commerciali. E come
tale nasce nel 1735 la ‘Gazzetta di Parma’, tutt’ora in edicola.
L’esordio ufficiale di una stampa, che si rivolge ai lettori e di essi ha
bisogno per vivere giacché non è mantenuta né dalla Chiesa né da
un signore, avviene nel 1760 con la ‘Gazzetta Veneta’: il nome
viene da una monetina, gazeta, di scarsissimo valore, usata per
pagare i primi ‘avvisi’. Seguirà la ‘Frusta letteraria’ e sarà l’inizio di
un genere.
È una festa continua. Il tabarro (la nera cappa lunga fino ai piedi) e la bautta (il
fitto velo che dal tricorno ricade sulla faccia coprendola) offrono la garanzia di
ogni licenza. Il gioco, l’azzardo sostituiscono le avventure di una volta. Tutti
siedono ai tavoli di ‘faraone’.

Eppure il più grande giornalista del secolo non scrive su


quotidiani e riviste, fa semplicemente altro: il baro, il biscazziere, la
spia, l’imbroglione, l’informatore dell’Inquisizione, il gigolò. È
Giacomo Casanova figlio genuino della Venezia decadente, ma
vitalissima. Aiutato da un fisico fuori dalla norma, in special modo
per l’Italia – un metro e ottantanove di fusto con spalle da lottatore
e vitino femminile – inventa il mestiere di playboy internazionale.
Un seduttore impenitente, che ha nel cuore soltanto la propria città,
un avventuriero pronto a militare sotto ogni bandiera per mancanza
della propria, un curioso della vita disposto a ogni azzardo con le
carte, con l’alchimia, con l’occultismo. Casanova incarna il prototipo
di un genere, l’italiano, che nessun altro italiano riuscirà mai a
eguagliare pur inseguendone il mito rappresentato da quel
cognome divenuto un’etichetta. A consacrarne la fama e il genio
giornalistico provvedono le Memorie (scritte naturalmente in
francese), precedute di qualche anno da un feroce pamphlet contro
il presunto conte Alessandro Cagliostro, al secolo il palermitano
Giuseppe Balsamo. È un falsario di talento, un ciarlatano suadente,
un visionario dotato di straripante energia. Anch’egli traffica con
alambicchi e formule magiche, con pietre filosofali ed elisir di lunga
giovinezza, con sfere di cristallo ed esoterismi. Casanova e
Cagliostro si sono annusati ad Aix-en-Provence e non si sono
piaciuti: hanno la stessa natura, ma come possono averla la seta e
la lana grezza.
Milano vive anni tribolati. L’Austria le fa pagare le simpatie
dell’aristocrazia prima per Carlo Emanuele poi per Filippo di
Borbone; ampie fette dell’antico ducato sono state mangiate dalla
Confederazione Elvetica, da Venezia, dai Savoia; l’avvilente apatia
in cui la città era sprofondata con il governatorato spagnolo
prosegue sotto gli Asburgo viennesi. A risvegliare la mitica
operosità meneghina è l’imposizione del catasto da parte di Maria
Teresa. Costretti a versare un tributo, i nobili s’industriano di far
rendere le proprietà immobiliari. Nascono le aziende agricole e un
abbozzo di attività industriale, prende forma una classe borghese,
che sulla rovina dei mezzadri costruisce le proprie fortune. Ed è una
fortuna anche per Milano la fioritura di un simile ceto medio in
grado di aggregarla all’Europa. Si guarda all’Inghilterra, alla sua
rivoluzione industriale, agli apporti di una scienza lesta a soccorrere
le necessità e i bisogni delle fabbriche: dagli altiforni ai ponti alle
navi in ferro, dalle strade ferrate a telai in grado di surclassare
quelli adoperati sul Continente è una corsa verso il moderno,
simboleggiato dal perfezionamento della macchina a vapore ad
opera di Watt con i capitali forniti da un industriale (1776).
Da questo punto di vista la Lombardia arranca nonostante
l’apparato amministrativo fornito da Vienna favorisca la crescita del
tessuto connettivo: le corporazioni vengono devitalizzate, i salari
bloccati, lo sciopero vietato. È soltanto un accenno di rivoluzione
industriale, ma basta a produrre vittime e scontento. Milano riesce
comunque ad acquisire strutture e mentalità europee. Vi arrivano i
refoli dell’Illuminismo francese, ci si entusiasma per Diderot,
Voltaire, Rousseau, viene inaugurato il Teatro alla Scala (1778).
Dall’aristocrazia provengono i fratelli Verri, Pietro e Alessandro.
Sono loro a rompere il circolo chiuso delle accademie, che con la
stucchevole Arcadia hanno toccato l’acme dell’inutilità, e a dare
una continuità ideale alle piccole battaglie intraprese dalla
‘Gazzetta’ e dalla ‘Frusta’ per costruirsi un pubblico e orientarlo
verso il progresso. Lo strumento dei Verri è la rivista il ‘Caffè’.
Diventa l’arena in cui battersi per un miglioramento della giustizia,
della legge, dell’economia, della burocrazia. Sono ancora richieste
riguardanti i settori più elitari della società, però rappresentano il
primo passo verso radicali riforme. In questo solco il merito
principale di Pietro Verri è di convincere Cesare Beccaria a scrivere
un libello senza pretese, Dei delitti e delle pene. Beccaria è un
intellettuale in pantofole, un nobile avvinghiato alle sue abitudini, al
suo palazzo, alle sue comodità. Nel libro però trova accenti tali
contro la pena di morte da scatenare una campagna internazionale:
l’Europa dei lumi trasforma quel saggio in un cavallo di battaglia.
Da Carlo III di Spagna a Caterina di Russia parecchie nazioni
aboliscono o rivedono le leggi sulla condanna capitale. L’unico a
non scomporsi è l’autore, refrattario ad accettare gli inviti che
giungono dalle principali capitali. Non ama il ruolo di protagonista,
che, invece, solletica Pietro Verri, il quale non si perdonerà mai di
avergli servito la gloria su un piatto d’argento.
In contrapposizione a Verri, cioè in contrapposizione all’intero
gruppo del ‘Caffè’, si pone la singolare figura di un prete
d’intonazione rinascimentale, Giuseppe Parini. Ha indossato la
tonaca per non rinunciare a una modesta eredità, ma essa non sarà
d’ostacolo alla sfrenata passione per le donne e per il gioco. La sua
esistenza è una lunga e tenace ricerca del favore di un’eccellenza,
che gli consenta di ricevere adeguati riconoscimenti economici. I
suoi componimenti poetici, spacciati come la prima forma di satira
e favoriti da un uso sapiente della lingua, sono il prodotto di chi è
stato opportunista fino all’ultimo giorno. Di ben diversa statura
morale Ludovico Antonio Muratori, che prete lo diventa per intimo
convincimento. La scelta però non gl’impedisce nei suoi libri di
storia d’individuare e fustigare gl’imbrogli, le convenienze, la
corruzione della Chiesa.
Il Vaticano vive una fase controversa. In bilico tra Francia e
Austria, ha appoggiato l’una quando prevaleva l’altra e viceversa.
Insegue il miraggio di un potere temporale, ma gran parte delle
nazioni sono restie a inviare le decime nell’Urbe. L’economia è allo
sfascio benché il clero possegga almeno un terzo dei terreni italiani,
tuttavia questi rendono pochissimo e quel pochissimo ingrassa i
beneficiari delle rendite. Disseminati qua e là, gli Stati pontifici
vivono di ciò che le città, le province riescono a produrre
spontaneamente. Manca qualsiasi tipo di programmazione,
d’investimenti. Anche il fisco è inesistente. Roma campa d’aria cioè
del suo dolce clima, che assieme ai fasti e alle vestigia del passato
attrae un numero enorme di visitatori. Il turismo, le mance, le
bustarelle sono il mezzo di sostentamento. Tuttavia a esser povero
è il convento, non i frati, la cui agiatezza desta invidia e i cui
costumi spregiudicati destano scandalo. Il sacerdozio è rimasta
l’unica carriera accessibile a chiunque e pure la via più breve per
accedere a uno stipendio sicuro. Di conseguenza l’abbracciano in
molti, tra essi sono pochissimi coloro che lo fanno per vocazione.
E se al soglio nel 1740 ascende un papa come Benedetto XIV, il
leggendario cardinale bolognese Prospero Lambertini, che del
rigore e della devozione fa le direttrici del proprio magistero, si
ritrova contro tutta la curia. Ma l’opposizione maggiore la riceve dai
gesuiti, sull’operato dei quali avvia un’indagine. Dal giorno della
fondazione la Compagnia è diventata l’architrave della Chiesa.
Gesuiti sono i più attenti studiosi delle Scritture, i più indomabili
polemisti, i più sospettosi custodi dell’ortodossia. E gesuiti sono gli
avversari di Voltaire, di Diderot, degli illuministi. Con loro sgomento,
però, l’opinione pubblica, di cui non si sono mai curati, sposa le tesi
dei ‘senzadio’, ne decreta il successo. La sconfitta sul terreno della
disputa verbale – dove erano considerati imbattibili e dove per
vincere non si sono fermati dinanzi alla calunnia, all’imbroglio, alla
falsificazione delle prove – è il prologo di un’altra molto più grave.
In parecchi stati l’operato della Compagnia ha prodotto una diffusa
insofferenza, la si accusa di comportamenti illeciti. Per salvarsi i
gesuiti concorrono all’elezione di Clemente XIII, il cardinale Carlo
Rezzonico. La sua campagna a favore dei soldati di Gesù suscita,
però, l’irata reazione di Spagna e Francia. Il nuovo papa, Clemente
XIV (cardinale Lorenzo Garganelli), è un francescano nel quale si è
consolidata l’antica avversione del suo ordine per quei sapientoni
rotti a ogni astuzia. È lui a firmare la bolla con cui nel 1773 viene
sciolta la Compagnia. I soli a darle asilo sono l’agnostico Federico di
Prussia e la scettica Caterina di Russia.
Anche il Piemonte si allinea, a malincuore, alla decisione della
Chiesa. Vittorio Amedeo III è appena salito sul trono e dei gesuiti,
dominatori nell’università e nei confessionali, ha una buona
opinione. La stessa che manifesta nei confronti della massoneria. È
sorta nel XIV secolo in Gran Bretagna: riuniva muratori (masons, in
inglese), capomastri, architetti specializzati nell’uso di una certa
pietra. Dal Seicento ha perso le caratteristiche di confraternita per
assumere quella di un’associazione più o meno segreta, che si
ritiene elitaria e votata ad altissimi compiti. Sono massoni molti
personaggi dell’Europa che conta; si professano massoni anche
alcuni sovrani come Federico e Caterina, che pure proteggono
coloro che in teoria ne sono i massimi avversari, i gesuiti. In Italia la
prima loggia è stata fondata a Firenze da ‘fratelli’ (tra loro si
chiamano così) inglesi intorno al 1736. Si spende molto anche
Cagliostro, sebbene l’astuto palermitano si sia confezionata una
loggia su misura e l’abbia definita di rito egiziano.
L’apertura ai massoni, portatori di una ventata riformista se non,
addirittura, rivoluzionaria, è in antitesi con il rigido conformismo
trionfante nella corte torinese e nella vita quotidiana. Il regno ha
ormai assunto un assetto geografico e burocratico. Dopo
Aquisgrana, Carlo Emanuele III non è più riuscito a ficcarsi in alcun
conflitto ed è stato giocoforza dedicarsi allo staterello. Lo ha
trasformato in una caserma, lo ha rivestito di grigio, ha dato spazio
all’agricoltura e alle manifatture. Le giornate sono scandite dalle
divozioni. Il suo stile sparagnino ha contagiato i sudditi: Torino è
forse tra le più belle città d’Europa, ma i palazzi restano bui e
chiusi, feste e mondanità ne sono banditi. A parte quella ufficiale,
l’unica religione è il lavoro. Ciò nonostante i conti economici
rimangono in dissesto a causa di un’antiquata amministrazione.
Vittorio Amedeo III non procede alla sospirata unificazione dei
cinque domini in cui il Regno è diviso (il Piemonte, composto da
marchesato di Saluzzo e ducato di Monferrato, il ducato d’Aosta, il
ducato di Savoia, la contea di Nizza, la Sardegna) e l’impalcatura
scricchiola. Da quest’ambiente chiuso fuoriesce, in tutti i sensi,
Vittorio Alfieri. Viene ricordato come drammaturgo giacché è l’unico
del Settecento italiano, tuttavia delle sue opere non una ha resistito
al giudizio del Tempo. Il personaggio – vanesio, egocentrico, in posa
perenne – è di caratura superiore all’artista. Per fuggire da se
stesso viaggia quanto nessun altro contemporaneo: con mentalità
ed educazione britanniche sarebbe potuto essere il Chatwin
dell’epoca.
Ben altra ripresa ha avuto Firenze. Gli ultimi Medici l’avevano
lasciata in braghe di tela e sotto la cappa di un clero scroccone e
presupponente, convinto di dover dettare regole e divieti, dal
buongiorno alla buonanotte. L’esaurirsi del casato, che ne aveva
segnato l’eccellenza e il declino, è stata una liberazione per la città
e per la regione. Al tavolo internazionale delle trattative, Firenze è
passata dal figlio della Farnese a Francesco di Lorena, principe
consorte dell’imperatrice Maria Teresa. Giunto in fuggevole visita
due anni dopo l’assegnazione, il granduca lascia quella
predisposizione alla massoneria, che farà della Toscana un
concentrato di logge, l’una contro l’altra armata, e porta via il
meglio del tesoro accumulato nei secoli dai Medici. Francesco
governa da Vienna attraverso un reggente, lorenese, come lorenesi
sono i funzionari. Sono terribili sanguisughe: con il metodo
dell’appalto ricavano quattrini da ogni incombenza pubblica,
spremono i fiorentini in modo tale da far rimpiangere gli stessi
Medici, maledetti fino al giorno della morte di Gian Gastone.
La situazione cambia con l’avvento (1765) di Pietro Leopoldo,
terzogenito di Francesco. Ha soltanto diciotto anni, e sua moglie
Maria Luisa, infanta di Spagna, ancor meno quando si presentano in
riva all’Arno. I fiorentini si entusiasmano per i giovani sposi, questi
li ripagano risollevando la città dall’abulia. Il nono granduca e
assoluto signore si divincola dalla cappa dell’ingombrante madre-
imperatrice. Gli piace governare. Davanti alle richieste
dell’imperatore, suo fratello Giuseppe, difende i diritti del
granducato, che poi si riducono a trattenere in Toscana una parte
dei tributi per finanziare i progetti di riforma. Leopoldo ha
l’accortezza di circondarsi di bravi collaboratori pescati
nell’università, nelle professioni. Assieme a essi rilancia il ceto
medio, rintuzza le velleità della Chiesa, mette in un angolo
l’aristocrazia, che aveva spremuto le campagne senza reinvestire
un soldo. In tal modo la bonifica della Maremma è vissuta come un
beneficio per chi lavora la terra, non per chi la sfrutta. Viene
reimpostata l’amministrazione pubblica, è varato un codice nel
quale hanno spazio i principi morali e questi anticipano i capisaldi
del pensiero giuridico moderno: sono aboliti i delitti di lesa maestà,
la confisca dei beni, la tortura, la pena di morte.
L’Europa illuminista applaude a questo esperimento di
assolutismo temperato. La Toscana è il primo esempio di Stato che
scioglie l’esercito e lo sostituisce con una milizia civica. Sparisce il
maggiorascato: d’ora in poi tutti i figli avranno diritto a ricevere una
parte dell’eredità. E per garantire vieppiù i diritti dei cittadini,
Leopoldo si spinge fino alla soppressione dell’Inquisizione e della
manomorta (diritto di proprietà perpetuo e intriso di privilegi da
parte del clero). Lo fa sotto l’influenza del suo consigliere spirituale,
Scipione de’ Ricci, vescovo di Pistoia e Prato, rappresentante in
Italia del giansenismo, fautore di una Chiesa toscana autonoma da
Roma. Leopoldo è un fervente cattolico, ma molto attratto dalle
venature calviniste del giansenismo. In combutta con Ricci arriva a
ipotizzare un concilio, al quale pure il pontefice debba sottostare.
La cocente sconfitta dei gesuiti, le conseguenze che essa comporta
nelle relazioni internazionali – fine delle interferenze vaticane nella
vita delle nazioni, fine della guerra fredda con i protestanti – fanno
immaginare a Leopoldo e a Ricci che anche l’infallibilità papale
possa essere, se non cancellata, mitigata. Nel 1786 è convocato a
Pistoia un sinodo diocesiano: nelle intenzioni di Ricci dovrebbe
essere una sorta di piccolo concilio, nel quale varare la riforma
giansenista. Ma dei quindici vescovi toscani soltanto due si
schierano con il loro collega, gli altri ubbidiscono alle direttive di Pio
VI (Giovannangelo Braschi), disposto a transigere sui gesuiti, ma
non sulle proprie prerogative.
L’avvento di Carlo di Borbone ha sottratto il regno del Sud alle
fauci degli affamati viceré spagnoli. Destinato in un primo tempo
alla Toscana, il sovrano vi ha scovato un professore di diritto
all’università pisana, Bernardo Tanucci, e lo ha portato a Napoli.
Tanucci mette mano alla titanica impresa di dare forma
all’ammasso informe di privilegi, esenzioni, rendite parassitarie,
lasciato in dono dal precedente sistema. Carlo ha l’intelligenza di
non intromettersi, preferisce occuparsi della magnifica reggia di
Caserta affidata al Vanvitelli e della fabbrica di porcellane a
Capodimonte. Malgrado l’opposizione di clero e nobiltà,
attaccatissimi ai loro benefici, Tanucci ristabilisce una parvenza di
ordine pubblico a Napoli e una parvenza di equità fiscale con la
creazione del catasto (inventario dei beni a fini fiscali). Prova anche
a suscitare un po’ d’imprenditoria, a riappropriarsi degli appalti e
dei monopoli, ma gl’interessi in ballo e gl’intrecci camorristici sono
troppo forti persino per lui, che rappresenta l’autorità costituita.
Carlo e Tanucci si fermano insomma alla facciata, eppure
bastano tali ritocchi per regalare al Regno un periodo di relativa
tranquillità, ma sullo sfondo permangono l’endemica miseria del
popolino, le condizioni da servi della gleba dei contadini.
Avviluppata nella sua etichetta stracciona, la società resta lontana
dagli standard europei, tuttavia al suo interno fermentano pensieri
e idee all’avanguardia. Vico canonizza che la Storia non fa altro che
ripetersi (corsi e ricorsi); Giannone rivendica l’autonomia dello
Stato da ogni richiesta della curia papale; Genovesi la libertà del
commercio dei grani, che poi si traduce nell’affermazione del libero
mercato; Galiani spiega il valore e la funzione della moneta;
Filangieri traccia le linee guida di una prossima carta costituzionale.
Paradossalmente le indicazioni del pensatoio napoletano
attecchiscono presso le altre corti più che a Napoli. Qui, anzi, il
passaggio di consegne tra Carlo, asceso al trono spagnolo, e il suo
giovane terzogenito Ferdinando riporta indietro le lancette della
Storia. Il matrimonio con Maria Carolina, una delle innumerevoli
figlie di Maria Teresa d’Austria, dopo gl’incoraggianti inizi si rivela
un disastro per i sudditi. L’indolenza di Ferdinando, il totale
menefreghismo per i suoi compiti lasciano spazio ai capricci e alle
mene della moglie, spesso in balia del suo amante, l’avventuriero
irlandese John Acton.
Pure l’immobile Sicilia entra in agitazione. Governata
nominalmente da un viceré, l’isola è in balia dell’aristocrazia: nella
sola Palermo si contano duemilacinquecento nobili. Posseggono
tutte le terre, usano il ricavato per pagarsi uno sfavillante
mantenimento in città, abbandonano i contadini alle angherie dei
gabellotti (gli affittuari dei campi). Questi costituiscono la faccia ora
feroce ora paternalistica della mafia. Assicurano al nobile una cifra
annua e in suo nome esercitano un comando condito di angherie e
prepotenze. Attraverso imbrogli e soperchierie, accumulano
considerevoli patrimoni, ma non si trasformano in borghesia: il loro
sogno è di copiare lo stile di vita dei baroni. Nel nome di un
malinteso orgoglio razziale, e l’equivoco perdura, la massa degli
sfruttati preferisce subire dai corregionali, piuttosto che uniformarsi
alle leggi di uno Stato lontano e per altro assente; preferisce che i
soldi che le vengono spremuti siano sperperati nelle luminarie e
nelle feste dei santi patroni, piuttosto che per migliorare le
fatiscenti strutture di una regione mancante di strade pavimentate,
di acquedotti, di scuole, di ospedali. In compenso la vanità dei
siciliani si specchia in un Parlamento a parole baluardo delle
‘libertà’ locali, nei fatti barriera delle classi privilegiate contro
qualsiasi interferenza del potere centrale, soprattutto in materia di
fisco e di rendite parassitarie. Così succede che la rivolta
palermitana del 1773, in seguito a una carestia più grave delle
altre, venga spenta dalla confraternita di negozianti e artigiani, le
maestranze, le quali senza i nobili e i loro tirapiedi non avrebbero
più clienti. Pure la riforma avviata qualche anno dopo dal viceré
Domenico Caracciolo è disattivata dall’asse clerico-aristocratico,
decisissimo nella difesa dei propri privilegi.
nucci si fermano insomma alla facciata, eppure bastano tali ritocchi per regalare al regno un
tranquillità, ma sullo sfondo permangono l’endemica miseria del popolino, le condizioni da se
i contadini. Avviluppata nella sua etichetta stracciona, la società resta lontana dagli standard
tuttavia al suo interno fermentano pensieri e idee all’avanguardia.
Nella sonnolenta penisola giungono echi lontanissimi
dell’insurrezione dei coloni americani. Nessuno immagina che dei
sudditi possano trasformarsi in cittadini, che uno di loro, Thomas
Jefferson, possa stilare una Dichiarazione d’Indipendenza in cui si
afferma che gli uomini nascono uguali e che ciascuno sin dalla
nascita ha un patrimonio di diritti inalienabili: il diritto alla vita, il
diritto alla libertà, persino il diritto alla ricerca della felicità. Il tempo
di attraversare l’Atlantico sulle navi del corpo di spedizione
francese, inviato da Luigi XVI in aiuto degli insorti per fare un
dispetto all’Inghilterra, e i semi lanciati dagli appena costituiti Stati
Uniti d’America germoglieranno nella rivoluzione francese.
23. Una bandiera, una patria

Nell’Italia dell’analfabetismo dilagante, dove pochissimi


sono in grado di leggere e dove i giornali e i libri sono merce
rarissima, oltre che scritti in una pessima lingua, soltanto
un’esigua minoranza sa dell’insurrezione parigina del 1789,
della rivolta dei borghesi contro l’assolutismo monarchico. E
quando le notizie provenienti dalla Francia comunque si
diffondono, ciò che viene colto è la possibilità di ridurre il
carico fiscale. La borghesia italiana in quanto classe sociale
è ancora in fasce, i suoi esponenti – ad esempio i Verri a
Milano – si sono battuti per una riforma interna dello Stato,
non per il suo annientamento. Ci si accorge, invece, che a
Parigi tagliano le teste ai sovrani, che la ghigliottina è un
mezzo per fare politica: a questo punto gran parte dell’ala
riformista, e stiamo parlando di una percentuale bassissima
della popolazione, fa un passo indietro, prende le distanze
da una rivoluzione, di cui non capisce il senso e il fine.
A sostenerne le buone ragioni rimangono alcune logge
massoniche. I ‘fratelli muratori’ hanno veicolato
l’Illuminismo in Europa, lo hanno propagandato tra gli
aderenti, che non sono più gli operai britannici specializzati,
ma intellettuali, nobili, a volte persino re, industriali,
professionisti, sacerdoti. In Francia alcuni di essi sono il
cuore della ribellione. Il loro contatto più prossimo al di qua
delle Alpi è con le logge piemontesi: da Asti a Novara il
verbo rivoluzionario serpeggia, ma fa pochi proseliti. La
polizia di Vittorio Amedeo III vigila, molti massoni finiscono
in prigione, alcuni sul patibolo ed egual sorte subiscono i
loro confratelli nel resto della Penisola. Pure tra i massoni
prevale la linea moderata, l’illusione che gli stati siano
migliorabili dall’interno senza abbatterne le fondamenta.
Il re sabaudo respinge l’offerta della Lombardia, avanzata
da Parigi in cambio di un’alleanza contro l’Austria. Tra i due
mali, Vittorio Amedeo sceglie quello che conosce e che, in
ogni caso, gli garantisce la continuità dinastica. Sul trono
imperiale siede infatti dal 1790 Pietro Leopoldo, l’ex
granduca di Toscana nonché fratello della defunta regina dei
francesi, Maria Antonietta. L’intesa austro-piemontese viene
spazzata via da Napoleone. È un generale ventisettenne,
nato nella Corsica appena francesizzata. La sua famiglia
(Bonaparte) ha lontane origine toscane. Lui ha conquistato i
gradi reprimendo i moti controrivoluzionari di Tolone e
legandosi a Robespierre, il teorico del Terrore fino al giorno
in cui gli hanno mozzato la testa. Napoleone, insomma, è
pronto ad abbracciare qualsiasi ideale pur di soddisfare la
propria ambizione. Oggi cittadino (il termine adoperato dalla
Repubblica per indicare che tutte le persone sono sullo
stesso piano: è l’antesignano borghese del comunista
compagno), domani console, dopodomani imperatore.
Nei piani francesi il peso della nuova guerra contro
Inghilterra, Russia e Austria dovrà essere sostenuto
dall’armata allestita ai confini con la Germania. A Napoleone
ne viene affidata una semistracciona, i cui effettivi,
trentamila uomini, sono la metà dell’esercito nemico, che lo
attende in Piemonte. Ma il genio del più grande comandante
di tutti i tempi e la fame di bottino dei suoi miserabili soldati
compiono il miracolo. Le truppe austriache, piemontesi,
napoletane sono ripetutamente sconfitte. Con la pace di
Cherasco Vittorio Amedeo ci rimette la Savoia, Nizza e
alcune piazzeforti.
L’Italia da secoli « premio del vincitore » – l’espressione è
di Voltaire – lo è anche di Napoleone. Alla spoliazione
spicciola dei reparti si aggiunge quella mirata – opere d’arti,
oro e argento – degli emissari del governo parigino.
Naturalmente Napoleone sa e approva. Il suo
comportamento raffredda gli entusiasmi di quanti avevano
creduto ai proclami di libertà da lui lanciati prima
dell’invasione. E soltanto di essa si occupa Napoleone:
insedia a Genova un comitato di salute pubblica giacobina
(il termine di provenienza francese indica la fazione più
intollerante); al vecchio Pio VI, che aveva condannato la
Rivoluzione, sottrae Ancona, Bologna, Ferrara; manda via da
Modena e Reggio il duca d’Este; trova un apparente accordo
con i due parenti del re di Spagna, il Ferdinando duca di
Parma e Piacenza e il Ferdinando re di Napoli. Il terzo
Ferdinando sulla scena, il granduca di Toscana, pur essendo
fratello dell’imperatore Francesco II, nemico giurato della
Repubblica, si prosterna davanti a Napoleone e per il
momento si salva.
Milano è fredda nell’accogliere il conquistatore. La giunta
cittadina, insediata dal viceré austriaco, si muove con
cautela. Molto più determinati i delegati di Modena, Reggio,
Bologna e Ferrara. Riuniti in congresso (ottobre 1796)
proclamano la nascita della Repubblica cispadana e di una
legione italiana di tremila volontari. È il primo vagito della
futura nazione. I congressisti sono di estrazione aristocratica
e borghese. Il popolo, nel cui nome dicono di deliberare, non
esiste: al suo posto vegeta una plebe tenuta dalla Chiesa,
dai granduchi e dai re nell’ignoranza e in servitù. Tuttavia, i
congressisti di Reggio hanno ricevuto una parvenza di
rappresentatività dal basso e la legione è il germe di un
esercito nazionale assente dai tempi dei romani. Nello
stesso periodo si sveglia Milano. Vi si sono raccolti esuli da
parecchie regioni, sono nati due giornali, è stata formata
un’amministrazione generale della Lombardia, dalla quale è
reclutata una legione lombarda di tremilacinquecento
soldati. La sua bandiera è bianca, rossa e verde. Sono
spuntati i colori del futuro tricolore.
Repubblica cisalpina, ciòe Lombardia e Cispadania con l’aggiunta della
Valtellina e delle ex province venete Bergamo e Brescia.

Tra novembre e gennaio gl’incontri tra emiliani e


lombardi s’infittiscono. In un’atmosfera di sincera emozione
è ideata l’unione interregionale. A Reggio il 9 gennaio 1797
il tricolore viene adottato dalla Repubblica cispadana. La
successiva riunione a Modena si trasforma in Costituente: vi
partecipano anche i delegati di Massa, Carrara e Imola.
Napoleone ha fin lì obbedito alle direttive parigine di non
irritare il papa con lo smembramento degli Stati pontifici,
però è proprio lui a battezzare la Repubblica cisalpina, cioè
Lombardia e Cispadania con l’aggiunta della Valtellina e
delle ex province venete Bergamo e Brescia. Ma
quest’embrione d’Italia egli lo concepisce in funzione dei
propri disegni. La costituzione ricalca quella francese, il
direttorio è nominato da Napoleone: i giacobini ne sono
esclusi a vantaggio dei moderati. Non è la sola delusione
per i democratici. Le loro richieste d’intervento in Piemonte,
dove Carlo Emanuele IV succeduto al padre Vittorio Amedeo
firma innumerevoli condanne a morte di rivoluzionari, non
sono ascoltate. Il colpo più duro arriva con la consegna di
Venezia all’Austria. La Serenissima sbandiera da mesi la
propria neutralità. Alla ripresa delle ostilità tra Parigi e
Vienna, Napoleone si è espanso dal Triveneto al Tirolo, ha
imposto la pace all’imperatore e usato il Veneto quale
merce di scambio. La sanguinaria reazione di Verona ai
continui soprusi della guarnigione francese è diventata la
perfetta scusa dell’ignobile baratto. L’agonizzante
repubblica cessa di esistere nella notte tra il 15 e il 16
maggio. Le delusioni non sono finite: Napoleone, che si è
disinteressato dei patrioti piemontesi perseguitati da Carlo
Emanuele, lascia che le guardie sabaude massacrino i
democratici lombardi introdottisi in Piemonte nella speranza
di unirlo alla Cisalpina. La Francia non vuole un forte Stato
italiano, soprattutto adesso che gli italiani si stanno
affezionando all’idea e dimostrano di esser pronti anche a
morirne. Inorridito dal troppo sangue versato, Carlo
Emanuele si dimette, abbandona Torino di notte. Viene
formata la Repubblica subalpina in diretta dipendenza da
Parigi.
L’ombra francese si stende sul resto della Penisola. A
Genova s’installa un governo amico, un contingente
raggiunge Roma e impone all’ottantenne Pio VI l’esilio, che
per lui sarà una sequela di umiliazioni fino alla morte.
Sull’Urbe in balia di una repubblica dedita al ladrocinio e al
saccheggio si allungano le voglie dei Borboni: non sono
tanto quelle di Ferdinando quanto quelle di sua moglie Maria
Carolina, del suo amico Acton, dell’ambasciatore inglese
Hamilton, dell’ammiraglio Nelson. Questi è l’amante
dell’ambasciatrice e si trova sotto il Vesuvio per ritemprarsi
dopo aver distrutto ad Abukir i velieri di Napoleone
impegnato nella campagna d’Egitto. L’esercito napoletano
ha cinquantamila uomini, ma lo comanda un generale
austriaco (Carlo Mack) bravissimo nel raccontare le battaglie
altrui, visto che lui non ne ha mai combattute. I francesi
hanno dodicimila soldati sparsi per il Lazio, tuttavia, appena
li riuniscono, mettono in fuga gl’invasori. Ferdinando per
esser sicuro scappa con la nave di Nelson fino a Palermo. È
la prima volta che re e regina vanno nell’isola.
A Napoli viene insediata una repubblica sostenuta dal
meglio dell’intellettualità meridionale. Il popolino resta però
lontano, sotto sotto attaccato a quel sovrano lazzarone, i cui
difetti sono anche i propri. Il vero pericolo per i democratici
è rappresentato dai briganti. Ferdinando ha nominato
colonnelli i due capi più malfamati: è il via alla guerriglia. A
trasformarla in guerra vera provvede il cardinale calabrese
Ruffo, che è anche principe e fin lì si è curato del tesoro
della Chiesa e del proprio. È Ruffo a organizzare l’armata
della Santa Fede: nel nome di un cattolicesimo intransigente
i peggiori elementi del Reame s’arruolano e trovano una
copertura a ogni crimine. Il contingente francese abbandona
Napoli e il governo rivoluzionario, che resta al suo posto fino
all’ultimo minuto. Alla resa seguono decine di condanne
capitali.
La Francia vacilla sotto l’incalzare di Austria, Russia e
Inghilterra. Il ritorno di Napoleone dall’Egitto la fa gioire, ma
l’esultanza è pagata con il colpo di Stato, che issa il
trentunenne condottiero al rango di primo console. Ce ne
sarebbero altri due, ma contano poco. Il fortunoso successo
di Marengo riconsegna l’Italia a Napoleone. Tranne la
Sardegna, rimasta a Vittorio Emanuele I di Savoia, e la
Sicilia, dove si rifugia di nuovo Ferdinando, la Penisola
diventa un protettorato del potente vicino, che sino
all’ultimo giorno ne rimescolerà a piacimento i territori e i
governanti. L’eccezione è il Piemonte per il semplice motivo
che i suoi dipartimenti dipendono direttamente da Parigi.
Con la fondazione dell’Impero l’ex Repubblica cisalpina
diventa Regno d’Italia e Napoleone, da che ne era
presidente (quanta fatica per costringere i delegati a
chiedergli il ‘favore’), cinge nel Duomo di Milano l’antica
corona ferrea dei re d’Italia: lo rappresenterà da viceré il
figliastro Eugenio di Beauharnais. I confini del regno
s’allargano fino al Veneto, allo stesso modo s’ingrandisce il
granducato di Toscana assegnato a Elisa Bonaparte, mentre
il fratello Giuseppe siede sul trono di Napoli in attesa di
essere dirottato a Madrid. Lo sostituirà un assatanato
generale convinto di poter prendere a sciabolate la vita
come fa con i nemici: Gioacchino Murat. Oltre ai servigi resi
sul campo, l’ambizioso figlio di un piccolo albergatore ha il
merito di aver sposato un’altra sorella di Napoleone,
Carolina.
In Italia Bonaparte incontra un solo avversario,
l’irriducibile Pio VII, il cardinale Gregorio Chiaramonti. È un
vecchietto dall’aria mite, ma sui diritti della Chiesa non
transige. Dopo la firma di un concordato molto favorevole,
Napoleone ritiene di averlo in tasca. Il pontefice invece si
rivela un osso durissimo. Il neoimperatore dei francesi e
neoré di quasi tutti gli italiani si è messo in testa con le
proprie mani le due corone, ha ottenuto la fedeltà di un
buon numero di eminenze, ha annesso gli Stati pontifici, ma
non riesce a ricevere da Pio VII né un atto di sottomissione
né il riconoscimento di una Chiesa gallicana autonoma. Anzi,
l’indomito papa promana una bolla di scomunica: anche se
non viene nominato, il primo della lista è Napoleone. La cui
risposta sono l’arresto e la deportazione del pontefice prima
a Savona, poi a Fontainebleau.
La caduta di Napoleone riporta indietro le lancette della
Storia. Tra la pace di Parigi (1814) e il Congresso di Vienna
(1815) l’Austria e il suo profeta, l’intelligentissimo principe
di Metternich, cancellano gli ultimi vent’anni. Il Piemonte
con l’aggiunta della Liguria, di Nizza, della Savoia viene
restituito a Vittorio Emanuele. Il granducato di Toscana a
Ferdinando III di Lorena. Gli Stati pontifici a Pio VII. Il Veneto
con Trento, l’Istria e la Dalmazia all’Austria. Modena a
Francesco IV, la cui madre è un’Este e riceve il minuscolo
principato di Massa e Carrara. Parma e Piacenza all’ex
moglie di Napoleone, Maria Luigia, figlia dell’imperatore
Francesco II: l’accordo prevede che alla morte di Maria
Luigia il ducato ritorni a Maria Luisa di Borbone e al
figlioletto Carlo Ludovico; nell’attesa i due si accontentano
del principato di Lucca. Ferdinando IV rientra a Napoli e
diventa I: il reame, infatti, cambia titolo, diventa il Regno
delle Due Sicilie. È una sorta di contentino all’isola in cui ha
vissuto per dieci anni e dove è riuscito a non introdurre
alcuna riforma nonostante gli sforzi e le richieste dei suoi
grandi protettori inglesi.
L’Austria ritorna padrona della Penisola. Metternich
pronuncia la frase destinata a infiammare gli animi dei
patrioti: « l’Italia è un’espressione geografica ». Non è una
bieca professione di cinismo, ma l’esplicito riassunto della
visione antistorica del principe, del modello al quale
uniformerà per trentatré anni il proprio operato: la
salvaguardia di quell’insieme di nazioni che compongono
l’Impero. Tuttavia la Rivoluzione francese, oltre alle
infrastrutture tecniche e a una radicale innovazione
legislativa, ha lasciato in Italia un’eredità fondamentale: il
sentimento patrio e la voglia di battersi per esso.
Naturalmente non appartiene alla massa analfabeta e
indifferente, che fatica a trasformarsi in popolo, ma alla
nascente borghesia restia a essere rimessa in un angolo, ad
alcuni settori della nobiltà, ai militari privi di eserciti e di
conquiste, a una classe intellettuale, che non guarda più alle
corti, bensì al pubblico. Nell’era napoleonica il
rappresentante di tali aspirazioni è stato Ugo Foscolo,
l’acclamato autore delle Ultime lettere di Jacopo Ortis, dei
Sepolcri e delle Grazie, e da lui proviene il rifiuto più vistoso
della restaurazione: sceglie l’esilio, che lo condurrà a una
morte anonima a Londra. Con Foscolo si propaga in Italia il
romanticismo, un movimento che mescola letteratura, arte
e vita, figlio delle aspettative di libertà destate da
Napoleone, ma che avrà bisogno della sua scomparsa per
diffondersi. Nel nome del romanticismo verranno condotte
in Europa le prossime battaglie per l’indipendenza dei
popoli.
In Calabria il plotone d’esecuzione fucila Murat, vittima
dei suoi sogni. L’ex re ha inseguito una rivincita personale
senza punti di contatto con i fremiti che attraversano i
diversi stati. Ne sono mezzo di diffusione le società segrete
sorte a imitazione della massoneria. La più importante è la
carboneria. Ha preso il nome, gli appellativi,
l’organizzazione e la gerarchia da una confraternita
transalpina di boscaioli, cacciatori, contrabbandieri. Vi
aderiscono borghesi, nobili, sacerdoti, ex ufficiali, studenti,
giovani professionisti prima delusi dal dispotismo
napoleonico, ora irritati dalla cecità della restaurazione.
Costituiscono un’esigua minoranza, sono un’avanguardia,
che nonostante i proclami e le speranze non avrà mai un
seguito popolare; però i loro ideali, la loro abnegazione si
trasformeranno nella valanga che travolgerà il dominio
austriaco in Italia.
L’insurrezione scoppia a Nola (1820) per contagio di
quanto avvenuto in Spagna. A Madrid il re Ferdinando VII,
nipote e genero di Ferdinando I, ha dovuto ripristinare la
costituzione. In Campania il tenente di cavalleria Morelli, alla
testa del suo reparto, la invoca anche per il Regno delle Due
Sicilie. L’insurrezione dilaga, Ferdinando acconsente. A
Napoli viene eletto il primo Parlamento italiano: è dominato
dai moderati, ai quali basterebbe una timida apertura
riformista. Gli stessi intenti coltivati dai carbonari
piemontesi, speranzosi di ricevere l’appoggio del principe
Carlo Alberto di Carignano, erede al trono dai sentimenti
altalenanti: a parole aperto a ogni novità, nei fatti pronto a
qualsiasi umiliazione pur di guadagnarsi il favore di chi
comanda. Il suo contraddittorio atteggiamento porta la
protesta al fallimento benché Vittorio Emanuele I si sia
ritirato e Carlo Felice, che dovrebbe succedergli, non si
muova da Modena.
In Campania e in Piemonte sono i reggimenti austriaci a
rimettere in sella la monarchia, per altro mai minacciata, ad
abolire ogni minima riforma. Metternich ha avuto carta
bianca dal Congresso di Lubiana (1821), davanti al quale
Ferdinando ha compiuto una mirabile giravolta invocando
l’aiuto degli imperiali per annullare la costituzione, che alla
partenza da Napoli aveva giurato di difendere. Le fregole
interventistiche del cancelliere austriaco sono state
facilitate dalla sommossa di Palermo per il ripristino della
costituzione. Le divisioni tra nobili e maestranze, ciascuno
dei due partiti vorrebbe una costituzione su misura, hanno
annacquato gli effetti della protesta, ma rinsaldato la
decisione di stroncare ogni iniziativa riformista. Interessato
a salvaguardare la propria anacronistica creatura,
Metternich teme che l’Italia sia alla vigilia di una generale
rivolta. Spinge per mandare sotto processo mandanti e
autori dei moti, ordina una caccia serrata ai componenti
delle associazioni segrete, soprattutto della carboneria.
Viene coinvolto anche il Lombardo-Veneto. Finora è rimasto
estraneo al clima insurrezionale, però la polizia ha messo gli
occhi su un gruppetto composito: i conti Confalonieri e Porro
Lambertenghi, il giovane musicista romagnolo Maroncelli,
l’intellettuale piemontese Pellico, trasferitosi a Milano per
respirare un’aria più vitale. I loro processi fanno epoca, le
condanne sono spietate: la pena capitale, poi commutata
nell’ergastolo da scontare allo Spielberg, una tetra fortezza
sulle alture di Brno.
Alla fine del 1821 l’Austria è diventata il nemico per
eccellenza. Pure quanti non pensano ancora all’unità vedono
nell’impero asburgico un ostacolo a qualsiasi cambiamento,
fosse anche il più insignificante. Al malcontento dei lombardi
e dei veneti, sudditi di Vienna, si è aggiunto quello degli altri
italiani, i quali hanno capito che i propri governanti si
faranno forti dello scudo austriaco per non attenuare il
rigore dei regimi. In tale atmosfera gli occhi di molti si
rivolgono al Piemonte. Da Vittorio Emanuele I a Carlo Felice
la situazione è addirittura peggiorata: il Regno sabaudo è
asfissiato da una cappa di divieti, però molti continuano a
puntare su Carlo Alberto, enigmatico erede designato, e
sulla inscalfibile ostilità dei Savoia all’Austria. La Lombardia
rimane il vecchio sogno dei re torinesi e il Ticino è un
confine che si può oltrepassare in un baleno.
Eppure c’è qualcuno più impopolare dell’imperatore
Francesco II: è il papa inteso quale emblema di una
teocrazia dispotica e spietata. Da Pio VII a Leone XIII
(Gioacchino Pecci) trionfa la più retriva Controriforma. Le
spinte moderatrici del segretario di Stato, cardinale
Consalvi, sono annullate dal partito curiale: ovunque
vengono visti pericoli e cospiratori. La repressione si abbatte
sulle classi medio-alte, i tribunali fanno gli straordinari, tra
gli imputati figura sempre qualche sacerdote, che ha invano
cercato di aprire gli occhi ai propri superiori. Alcuni settori
della carboneria emiliano-romagnola, la regione che paga il
prezzo peggiore all’oscurantismo di Roma, giungono a
ipotizzare un’annessione all’Austria o al granducato di
Toscana. Firenze è la città più accogliente del Paese. La
comprensiva politica di Ferdinando III ha spento sul nascere
ogni fuoco. Vi accorrono esuli da ogni regione, sicuri di
trovarvi quella tolleranza altrove sconosciuta. Gli
intellettuali si raccolgono nel ‘gabinetto scientifico-
letterario’, fondato da Giampietro Viesseux, un ligure di
origine svizzera. Nei saloni del gabinetto s’incontrano, si
danno la mano e non si piacciono Alessandro Manzoni e
Giacomo Leopardi. Sono il più grande scrittore e il più
grande poeta dell’Ottocento italiano. Non si vedranno più e
ciascuno dei due se ne farà una ragione. D’altronde hanno
una cifra letteraria troppo diversa per intendersi: Manzoni è
transitato dal matrimonio con un’accanita calvinista a una
fede intrisa di grande rigore, nella sua opera tutto discende
dalla provvidenza; Leopardi è un semiagnostico, cantore di
un dolore assoluto raccontato con le parole più comuni.
Manzoni è giunto a Firenze sulla scia del successo subito
conosciuto dai Promessi sposi. Ma l’introverso e taciturno
conte, figlio naturale di Giovanni Verri e di Giulia Beccaria,
discendente cioè dal meglio della cultura milanese
illuministica, è alla perenne ricerca di soluzioni stilistiche,
deve inventarsi una lingua inesistente: l’italiano. Un italiano
piano e scorrevole, alla portata di tutti: di quanti parlano il
dialetto, di quanti parlano il francese, di quanti parlano
ancora il latino, di quanti sono abituati ai barocchismi del
Settecento. Per raggiungere questo traguardo Manzoni è
andato a « sciacquare i panni in Arno » sancendo in tal
modo la superiorità della lingua che ebbe per padri Dante,
Boccaccio, Petrarca. Il conte lombardo lavorerà sul romanzo
fino al 1840: diciannove anni di ritocchi per consegnare al
Paese la lingua che parliamo tutt’oggi.
Se Leopardi non fosse stato figlio di un padre fuori dal
mondo, che fino a ventun anni lo tenne chiuso in casa,
sicuro che egli non desiderasse altro; se non si fosse
rovinata la schiena stando sin da bambino ricurvo sui libri
della ricca, ma antiquata biblioteca paterna; se sua madre
avesse avuto per lui la stessa cura che aveva per i conti
dell’economia domestica; se le donne non l’avessero
sfuggito per l’aspetto fisico e per il cattivo odore, il mondo
avrebbe forse avuto un grande poeta in meno e un annoiato
signorotto di provincia in più. Invece le circostanze e la
sfortuna si accaniscono contro Giacomo: la sua vita è un
calvario a malapena alleviato da quei versi, dove non brilla
neppure la più fioca fiammella di una speranza. Trentanove
anni di pene, tuttavia sufficienti per conoscere l’immortalità
con lo Zibaldone e con i Canti.
L’Italia è un pentolone in ebollizione. Le dure condanne,
l’opprimente vigilanza delle polizie, le pressioni dell’Austria
sui diversi governi, affinché intervengano al primo accenno
di protesta, comprimono, ma non debellano il crescente
malcontento. La borghesia è sempre più cosciente che
soltanto in uno Stato nazionale le sue aspirazioni potranno
essere soddisfatte. La speranza è di trovare un re, un
principe, un duca che ne diventi il paladino. Come capita in
Francia nel 1830: Carlo X è costretto ad abdicare in favore di
Luigi Filippo d’Orléans, ben visto dalle classi medie, che
hanno eretto le barricate e obbligato l’ultimo dei Valois a
farsi da parte. Parigi è in subbuglio, l’atmosfera a metà fra
una rivoluzione e una festa induce alla fuga l’italiano che da
alcuni anni ce l’ha ai piedi, il compositore Gioacchino
Rossini. L’enfant prodige pesarese è stato sospinto nella
capitale francese dai ricchi ingaggi. L’Europa della musica
stravede per la sua vena artistica: Il barbiere di Siviglia e La
gazza ladra hanno mandato in visibilio il pubblico di ogni
paese. L’anno prima la critica parigina ha gridato al nuovo
capolavoro per il Guglielmo Tell, tuttavia, davanti alle
richieste di libertà, Rossini preferisce l’aria immobile della
Spagna. Assieme a Rossini altri due maestri del belcanto,
Vincenzo Bellini e Giacomo Donizetti, hanno conquistato i
teatri d’Europa. Con essi il melodramma è il principale
prodotto d’esportazione del made in Italy e sta per
diventare l’unica forma d’arte veramente popolare prima del
cinema.
Ben altro è il riflesso che la sommossa francese produce
sulla situazione italiana. In contrapposizione all’Austria, Luigi
Filippo ha annunciato il principio della non interferenza nelle
vicende interne di un altro stato. È in pratica una museruola
per Metternich: lo percepiscono bene i carbonari, gli
aderenti alle altre società segrete. Agitato da un comitato
rivoluzionario formatosi a Parigi, il fermento della rivolta
corre da un capo all’altro della Penisola. Coagula nel ducato
di Modena, retto dall’opportunista Francesco IV, un rampollo
Lorena-Este, pronto a qualsiasi sotterfugio, a qualsiasi
mascalzonata per soddisfare smodate ambizioni. Avendo
sposato una nipote di Carlo Felice, ambisce al trono
sabaudo, inveisce contro l’usurpatore Luigi Filippo e la sua
pretesa di sottrarre le dinastie italiche alla protezione
austriaca, si presta al doppio e triplo gioco, ben attento a
non indispettire Vienna contro la quale, viceversa, si
sollevano i patrioti emiliani. Dopo aver inglobato Massa e
Carrara, antichi domini della madre, riesce ad attrarre,
attraverso un equivoco emissario, le locali sezioni della
carboneria. Il capintesta è un industriale di Carpi, Ciro
Menotti, che paga con la vita una fiducia malriposta. La
rivolta nata inneggiando a Francesco, e da questi domata
con ferocia, si diffonde a Reggio, a Parma (i sudditi
stravedono per Maria Luigia, ma detestano il suo ministro
austriaco), nelle legazioni pontificie.
A Bologna è convocata un’assemblea di rappresentanti
delle città insorte, Recanati manda Giacomo Leopardi. Il
destino della sommossa è tuttavia legato alla Francia.
Purtroppo la dottrina della non ingerenza di Luigi Filippo
viene scardinata da una furbata di Metternich: un giornale
pubblica la notizia che nell’insurrezione è coinvolto un
nipote di Napoleone, Luigi. Atterrito dalla prospettiva di
aiutare il parente di un fantasma scomodo, l’Orleans
restringe il veto d’intervento al Piemonte: nel resto d’Italia
dà carta bianca all’Austria. Il corpo di spedizione imperiale
in pochi giorni ristabilisce l’ordine dei cimiteri. Forche,
galere ed esilii attendono i patrioti. Prende la via di fuori
pure un giovane e austero avvocato genovese, Giuseppe
Mazzini (1831). Ha ventisei anni, da quattro è iscritto alla
carboneria, ma ha già compreso che quel velleitarismo non
produrrà frutti. Da Marsiglia Mazzini invia una lettera aperta
a Carlo Alberto, succeduto a Carlo Felice: lo invita a
sganciarsi dall’Austria e dalla Francia, a formare una Lega
italiana, ad alzare la bandiera con su scritto: « Unione,
Libertà, Indipendenza ».
Il re va dritto dritto dall’altra parte: liscia Luigi Filippo,
stringe un’alleanza militare con Metternich. Pensa più
all’Italia il Ferdinando grande e grosso giunto sul trono di
Napoli. È il figlio di Francesco: a differenza del padre non
ama la corte, i tristi figuri che la popolano. Con lui il Regno
conosce un periodo di tranquillità, di crescita economica.
Ferdinando odia la costituzione, però professa idee
avanzate: costruisce nel 1839 la prima linea ferroviaria,
Napoli-Portici, dota la capitale dell’avveniristica
illuminazione a gas, propone a Carlo Alberto di guidare
assieme una federazione di stati della Penisola. Il monarca
sabaudo non raccoglie l’invito. Ha già abbastanza grane a
individuare e contrastare le trame cospirative della Giovine
Italia, l’organizzazione fondata da Mazzini, capace in
pochissimi anni di soppiantare la carboneria. I rituali,
l’ossessione della segretezza, la stretta parentela con la
massoneria sono gli stessi, diverso è lo spirito. Mazzini mira
a una repubblica e punta sul popolo, si dice certo che le
masse sono pronte a esplodere, che è sufficiente accendere
la miccia. La sua parola è contagiosa, il suo ascetismo e il
suo esempio fanno proseliti in Italia e all’estero. Per Mazzini
la rivoluzione trionferà il giorno in cui i moti italiani saranno
collegati a quelli delle altre nazionalità oppresse dall’Austria:
a questo scopo crea a Berna la Giovine Europa.
Comincia in Savoia (1834) una lunga sfilza di tentativi
insurrezionali. Saranno altrettanti bagni di sangue,
costeranno il sacrificio di decine e decine di giovani idealisti,
non susciteranno mai l’attesa rivolta di popolo, però saranno
il banco di prova per la generazione che farà il
Risorgimento. In questo primo fallimento è coinvolto e
costretto a fuggire in Francia con il peso di una condanna a
morte un marinaio nizzardo ventisettenne, Giuseppe
Garibaldi. Seguono la sommossa di Bologna, i moti di
Cosenza e di Rimini, la sortita disperata dei fratelli veneziani
Attilio ed Emilio Bandiera, il cui padre è un fedele
contrammiraglio della marina imperiale. I Bandiera sbarcano
nel 1844 a Crotone convinti di poter indurre alla
sollevazione gli abitanti del luogo, ma si ritrovano da soli a
dover fronteggiare un’intera compagnia militare. Vengono
fucilati a Cosenza dopo uno sbrigativo processo. Nel Regno
delle Due Sicilie non è soltanto la Giovine Italia a fomentare
il dissenso. Il dispotico governo di Ferdinando II spinge alla
ribellione intere città: prima Enna, poi Messina, Catania,
Siracusa, Cosenza. Alla fine i fucili dell’esercito ristabiliscono
l’autorità regale, l’idea di una patria però cammina e agita
le coscienze.

Giuseppe Garibaldi.
Ma quale patria? Nel 1832 il libro autobiografico di Silvio
Pellico reduce dallo Spielberg, Le mie prigioni, è stato per
l’Austria « più catastrofico di una battaglia perduta »
(giudizio di Metternich). Il regime di Vienna è sempre più
mal sopportato, tuttavia molti lo ritengono, almeno al
momento, imbattibile e suggeriscono altre soluzioni a quello
che è ormai diventato, presso tutte le corti continentali, il
problema italiano. L’abate Vincenzo Gioberti propone una
federazione di stati sotto la presidenza del pontefice, ma dà
per implicito che il Lombardo-Veneto resti sotto l’Austria. Il
conte Cesare Balbo idea una soluzione settecentesca,
quando i re erano proprietari delle nazioni: il ritiro austriaco
dall’Italia in cambio della cessione a Francesco II dei
principati danubiani, attualmente in mano ai turchi. Con
Balbo una fetta della borghesia torna a guardare al
Piemonte, d’altronde nel 1846 Carlo Alberto pare ricordarsi
dei suoi trascorsi giovanili. Incontrando lo scrittore di
maggior successo del momento, Massimo D’Azeglio,
afferma che qualora se ne presenti l’occasione lui, i suoi
figli, i suoi beni, il suo esercito sono a disposizione della
causa italiana. In quello stesso anno il partito pontificio
riacquista vigore con l’elezione di Pio IX, il cardinale
Giovanni Maria Mastai Ferretti. L’amnistia ai condannati
politici, la creazione di una guardia civica e di una consulta
di stato, una moderata libertà di stampa gli guadagnano il
favore di molti democratici. Contro l’intransigenza dei
gesuiti (riammessi nel 1814: il Vaticano non sa fare a meno
di tanta intelligenza e di tanta spregiudicatezza), ostili a
ogni intesa con il liberalismo, e contro l’intransigenza dei
cattolici liberali, che si battono per una netta separazione
tra Chiesa e Stato, Roma e una certa Italia sono convinti di
aver individuato in Pio IX il campione dell’unità. Sui muri di
Milano, di Napoli, di Palermo appaiono scritte inneggianti a
lui. Un suo consigliere lancia il progetto di una lega
doganale tra lo Stato pontificio, il granducato di Toscana, il
regno di Sardegna. Ne rimane stizzosamente estraneo
Ferdinando, alle prese con i tumulti delle sue province.
L’ultimo si estende dalla Basilicata a Reggio Calabria e
culmina nella rivolta di Palermo, gennaio del ’48. Gli insorti
sono pochi e male armati, hanno un sostenitore eccellente
nel principe Ruggero Settimo, si fanno forti dell’irresolutezza
delle truppe borboniche. Ferdinando fa bombardare la città
dal forte di Castellammare, da qui il nomignolo di re Bomba,
ma per venire a capo dell’insurrezione dilagata in tutta la
Sicilia concede l’aborrita costituzione.
Al riformismo italiano si sovrappone l’ondata
rivoluzionaria europea, che alle richieste civili aggiunge seri
problemi economici. L’incendio divampato ancora a Parigi si
propaga a Berlino, a Budapest, a Vienna. Metternich è colto
di sorpresa dalla contestazione degli studenti e dei ceti
popolari. Lo stato d’assedio non placa la protesta. L’anziano
cancelliere capisce che il problema è la sua persona, si tira
in disparte. All’annunzio delle dimissioni i veneziani bruciano
i ritratti di Metternich, assaltano le prigioni, liberano Daniele
Manin, un avvocato ebreo, e Niccolò Tommaseo, letterato di
fama e autore di un celeberrimo dizionario della lingua
italiana: sono gli esponenti più in vista del movimento
antiaustriaco. A Milano la situazione è incandescente. La
città ha partecipato con entusiasmo allo sciopero del sigaro
indetto contro le tasse del monopolio. Lo scontro è
straripato dal campo economico a quello politico. I milanesi,
insomma, sono nello spirito giusto per accogliere un
proclama stilato nella notte tra il 17 e il 18 marzo da un
gruppo di patrioti. In conseguenza di esso una gran folla si
raduna al mattino tra le chiese di San Babila e San Carlo
decisa a ottenere dal viceré, già in fuga, una serie di misure,
che ne decurterebbe l’autorità. È l’inizio delle Cinque
Giornate, uno degli episodi più belli dell’intero Risorgimento
con il popolo protagonista accanto ai soliti idealisti. Strada
per strada sorgono barricate spontanee, costruite svuotando
i palazzi. Gli scontri rispondono alla sola logica di bloccare i
movimenti dei reparti austriaci. Il Consiglio municipale è
completamente esautorato, la guida della rivolta è assunta
da un laureato in legge, Carlo Cattaneo, lontano dalla
massoneria, dalla carboneria, dalla Giovine Italia. Cattaneo
è un repubblicano convinto, un federalista in anticipo sui
tempi. Si oppone a una richiesta formale d’aiuto a Carlo
Alberto, che ha fatto sapere di essere prontissimo a
intervenire, sostiene che Milano deve fare da sola. Il 22
l’anziano maresciallo Radetzky è costretto a sgombrare le
sue truppe, nelle stesse ore anche Venezia cade in mano
agli insorti guidati da Manin.
Il 23 un giornale torinese dal profetico nome ‘Il
Risorgimento’ pubblica un editoriale, in cui si afferma che
per la monarchia sabauda è suonata l’ora suprema. La firma
è di Camillo Benso, il trentanovenne conte di Cavour,
rappresentante dell’ala liberale, che guarda alle fertili
pianure del Lombardo-Veneto non certo all’Italia. L’esercito
piemontese si muove con lentezza. Radetzky ha l’agio di
chiudersi nel munitissimo ‘quadrilatero’ (le fortezze di
Peschiera-MantovaVerona-Legnago). Nel resto del Paese
cresce la frenesia dell’intervento. Dalla Toscana giungono
ottomila volontari, tra i quali la legione degli studenti pisani;
da Roma s’incammina e s’ingrossa lungo la via una schiera
di volontari; da Napoli Ferdinando invia un corpo di
diciassettemila uomini. Appena schierati in linea vengono
richiamati indietro per essere impiegati in Sicilia: l’Isola ha
infatti dichiarato decaduta la dinastia dei Borboni. Ma la
perdita più grave per Carlo Alberto è lo svelamento del
papa. Sottoposto a durissime pressioni dalla curia e con la
minaccia di una scissione nazionalista del clero austro-
tedesco, Pio IX scopre la sua anima di tenace difensore dello
status quo, del tutto insensibile alle richieste e alle illusioni
addensatesi sulla sua figura.
Il 29 maggio la Lombardia vota a schiacciante
maggioranza l’unione con il Piemonte. Mazzini, accorso a
Milano, non si oppone; si oppone invece Cattaneo. Sono
giorni di grande entusiasmo, di piccole vittorie, di piccole
sconfitte. L’eroico sacrificio degli studenti toscani a
Curtatone e Montanara impedisce a Radetzky una manovra
d’accerchiamento, cadono alcune città venete pronunciatesi
per il Savoia, si arrende la guarnigione imperiale di
Peschiera. In un clima di assoluta incertezza si giunge alla
tragica battaglia di Custoza. Fiaccato dalle divergenze tra i
generali e Carlo Alberto, l’esercito piemontese arretra prima
ancora di combattere. Radetzky vince senza fatica.
L’armistizio obbliga Carlo Alberto a ritirarsi oltre il Ticino. Il
re abbandona Milano di notte, Mazzini afferma che comincia
la guerra di popolo. Lo prende in parola Garibaldi: è rientrato
dal Sud America, dove ha combattuto per la libertà in
Brasile, Uruguay, Argentina. Si è portato appresso i
reumatismi e l’appellativo di ‘eroe dei due mondi’, gli vanno
dietro entusiasti millecinquecento volontari, che già
indossano la camicia rossa. Anche i democratici romani
prendono in parola Mazzini: il primo ministro Pellegrino Rossi
ci rimette la vita. Pio IX fugge a Gaeta, qui lo raggiunge il
granduca di Toscana. Avendo ristabilito un ferreo ordine nei
suoi domini, re Bomba offre le migliori garanzie di
protezione a quanti si sentono minacciati dalle novità.
Non molla Venezia, s’infiamma Roma per l’ostinazione
del pontefice a non voler trattare con un governo giudicato
illegittimo. Il suo atteggiamento spinge alla lotta anche i
tiepidi. Nel febbraio del 1849 viene eletta un’Assemblea che
proclama la repubblica. La Capitale torna a esser tale dopo
secoli. Accorrono patrioti da ogni regione, accorrono
Garibaldi e Mazzini, accorre la gioventù più determinata a
inseguire il sogno dell’Italia attraverso una guerra di popolo,
alla quale continua a mancare il popolo. Anche Carlo Alberto
desidera riprendere la guerra, ma le sue mosse sono
catastrofiche. Affida il governo a Gioberti, l’esercito a un duo
impresentabile, uno sconosciuto generale polacco,
Chrzanowsky, e un vecchio arnese dei tempi napoleonici,
Ramorino. Le manovre di Gioberti per tessere una tela di
alleanze falliscono. Le sue dimissioni costituiscono il
preludio allo scontro armato. Gli equivoci e le incertezze di
Carlo Alberto e di Chrzanowsky conducono alla disfatta di
Novara, all’immediata abdicazione di questo re, che ha fatto
del grigio il suo unico colore. Il giorno dopo Radeztky tratta
la pace con Vittorio Emanuele II. Le condizioni non sono
pesanti, a patto che Vittorio Emanuele liquidi, come
promette di fare, i democratici.
La disfatta piemontese comporta la caduta della
Lombardia, di Milano, dalla quale vanno via a frotte nobili,
borghesi, artigiani, operai. Brescia paga con un terribile
saccheggio la sua rivolta. Le truppe austriache riportano
Leopoldo a Firenze. Ferdinando revoca la costituzione e non
incontra più ostacoli in Sicilia. Ormai a resistere ci sono
soltanto Roma e Venezia. Nell’Urbe il triumvirato guidato da
Mazzini confida nel ‘fraterno aiuto’ della Francia, dove è
stato nominato presidente Luigi Napoleone. Ma sono proprio
i reparti transalpini del generale Oudinot a dare l’assalto a
Roma. I volontari di Garibaldi compiono prodigi, cedono però
al numero lasciando sul campo il fior fiore della gioventù.
Tra quanti spirano, il ventenne Goffredo Mameli, che ha
appena composto le parole del futuro inno nazionale. Dopo
la resa, Mazzini viene condotto dagli stessi francesi a
Ginevra; Garibaldi con un manipolo di ardimentosi
s’incammina verso il Nord. Nelle valli di Comacchio perde gli
ultimi fedeli e l’amata compagna Anita, una brasiliana, che
per seguirlo aveva abbandonato il marito calzolaio. Gli
austriaci occupano la parte settentrionale dello Stato
pontificio, assestano la spallata definitiva a Venezia. Sotto
l’ispirata guida di Manin, la Repubblica ha retto per mesi
togliendosi perfino lo sfizio di espugnare un paio di
munitissimi ridotti austriaci. Quando però alla scarsità di
viveri e di munizioni si aggiunge il colera, sul ponte di Rialto
alzano la bandiera bianca. Radetzky entra in città a fine
agosto: si deve a lui il comportamento corretto delle truppe
e la magnanimità dei vincitori. Il tragico ’49 si conclude con
la revoca generalizzata delle costituzioni. Il solo a
mantenerla è Vittorio Emanuele. A differenza del padre, è
tanto deciso quanto rozzo. Spesso le sue azioni vanno nella
direzione opposta dei suoi disegni, tuttavia ha il buon senso
di adeguarsi al corso della Storia.
Il giovane monarca trova in D’Azeglio un intelligente capo
del governo. Assieme si dedicano al riassesto delle finanze,
all’abolizione dei medievali privilegi ecclesiastici.
Nonostante la forte opposizione del clero locale e del
Vaticano, l’operazione riesce, attira l’attenzione e le
simpatie dei tanti patrioti, che in ogni parte d’Italia cercano,
dopo le scoppole più recenti, un nuovo punto di riferimento.
Lo diventano il Piemonte e Torino. Lo diventano le opere di
un musicista di Busseto, Giuseppe Verdi: il coro del suo
Nabucco (« Va’ pensiero, sull’ali dorate... ») assurge a
colonna sonora del patriottismo. Ogni volta che viene
intonato in un teatro fa scattare in piedi la platea. Verdi non
pensa al Risorgimento, non ritiene di averne scritto l’inno,
però la sua musica dai toni alti viene vissuta dal pubblico
come un annuncio di riscossa. Sui muri delle strade il ‘Viva
Verdi’ soppianta tutte le altre scritte perché quel Verdi è
l’acronimo di ‘Vittorio Emanuele re d’Italia’.
Tra un pasticcio e l’altro, anche il futuro re si agita. La
caduta di D’Azeglio, la designazione di Cavour accentuano
le mire di rivincita del Piemonte. Il conte è un liberale
capace di pensare in grande. Il suo accordo con Rattazzi,
leader dei democratici, regala al Regno un accordo tra
destra e sinistra in grado di reggere per dieci anni. Si apre il
filone dei compromessi politici, anche se allora lo chiamano
connubio: dureranno sino alla fine del Ventesimo secolo.
Cavour ha un’intelligenza politica fuori dal comune. Capisce
che le sorti del piccolo stato sono indissolubilmente legate a
quelle della Francia e che essa in questa fase è legata a
Luigi Napoleone, acclamato imperatore con il nome di
Napoleone III nel 1851 al termine di un golpe d’intonazione
borghese.
L’Austria mal digerisce il favore che la causa del
Piemonte guadagna fuori e dentro l’Italia. Il governo del
giovanissimo Francesco Giuseppe commette un clamoroso
errore d’immagine ordinando il sequestro dei beni degli
emigranti. A spingerlo è stata l’ennesima e non riuscita
insurrezione mazziniana a Milano. Per l’apostolo della
Giovine Italia il contraccolpo è durissimo, medita il suicidio.
Ormai anche le speranze dei repubblicani e dei rivoluzionari
si appuntano sul casato sabaudo. La sottile tessitura
diplomatica di Cavour conduce all’alleanza con Francia e
Inghilterra in guerra contro la Russia. In teoria significa star
dalla stessa parte dell’Austria e in molti gridano al
tradimento. Vittorio Emanuele briga per sbarazzarsi del suo
autoritario e incontrollabile primo ministro, ma l’esito
conclusivo è trionfale per Cavour. La partecipazione quasi
accademica di quindicimila bersaglieri alle operazioni in
Crimea gli consente nel 1856 di sedere al tavolo della pace
di Parigi. Il Piemonte è entrato nel grande gioco
internazionale. Persino la sfortunata spedizione calabrese di
Pisacane, un irriducibile mazziniano, e l’attentato parigino di
Orsini contro Napoleone III diventano tasselli nel mosaico
antiaustriaco.
L’agognata guerra – la seconda dell’epica risorgimentale
– scoppia per l’arroganza di Vienna. Il suo inutile e
sprezzante ultimatum al Piemonte spinge alle armi un
Napoleone propenso a spegnere i fuochi piuttosto che ad
accenderli. In due mesi (aprile-giugno 1859) l’esercito
franco-piemontese ottiene risicati, ma significativi successi
a Montebello, a Solferino, a San Martino. La via per il Veneto
è spalancata, Napoleone ha tuttavia perso l’entusiasmo
iniziale: teme un intervento della Prussia al fianco
dell’Austria; non gli piace il dilagare del movimento unitario,
che obbliga all’esilio il granduca di Toscana, il duca di Parma
e quello di Modena. Il monarca, per di più, è assillato dai
richiami della moglie Eugenia, fervente cattolica, a sua volta
pressata da Pio IX, il quale paventa che nel nome del
Piemonte si faccia l’Italia. Tutti questi motivi inducono
l’imperatore francese a chiedere e ottenere dal collega
austriaco la pace di Villafranca. Sulla carta al regno di
Sardegna andrà la Lombardia allargata fino a Parma. Il resto
rimarrà inalterato. Cavour per protesta si dimette, il re è
lietissimo di sbarazzarsene e di sostituirlo con la
maneggevole coppia La Marmora-Rattazzi.
Sono mesi di totale confusione, la situazione sfugge di
mano a tutti e porta ai plebisciti: la Toscana, Parma,
Modena, l’Emilia votano l’annessione al Piemonte. Il ritorno
di Cavour alla guida del governo, la cessione di Nizza e
Savoia alla Francia traducono in fatto compiuto la volontà
della borghesia italiana, in cui l’elemento massone fa da
volano. L’Austria può solo digrignare i denti: il concerto
europeo guidato dall’Inghilterra è favorevole alla formazione
nella Penisola di uno stato indipendente. Verso di esso
Leopoldo di Lorena ha vanamente sospinto il nipote
Francesco II detto Franceschiello, succeduto sul trono di
Napoli al re Bomba. Il granduca di Toscana aveva intuito il
corso delle cose, ma il suo piano di un’intesa borbonico-
sabauda ha trovato freddo il giovane re. Franceschiello
assiste impassibile al continuo ingrossamento del fiume
unitario senza sospettare che sta per straripare nel suo
regno. Non immagina che la rivolta scoppiata a Palermo
all’inizio dell’aprile 1860 possa dare modo al partito siciliano
degli esuli di perorare la causa con Cavour, restio però a
ficcarsi in un’altra avventura, e con Garibaldi. Il generale
attraversa una crisi sentimentale e politica: ha sposato una
giovane nobildonna già incinta di un altro, la cessione della
sua Nizza lo ha esacerbato contro la monarchia. Forse non
presterebbe l’orecchio se il suo entourage non esercitasse
una decisa opera di persuasione. Il più accanito è un
quarantenne avvocato agrigentino, Francesco Crispi, che
dalla Giovine Italia alla massoneria ha attraversato tutto lo
schieramento rivoluzionario.
Garibaldi si vota all’invasione. All’apparenza
sembrerebbe destinata al fallimento, ma tutto gioca per
essa a cominciare da due navi inglesi, che favoriscono lo
sbarco a Marsala dei leggendari Mille (per l’esattezza sono
1087 uomini più una donna, Rosalia Montmasson, la moglie
di Crispi). L’esercito di Franceschiello vanta una superiorità
numerica strabordante, eppure a Calatafimi è sconfitto.
Potrebbe essere soltanto un incidente di percorso, invece è
l’inizio della fine: la mafia si schiera e schiera le sue
agguerrite bande con i garibaldini, le strutture borboniche si
sfaldano. Il 15 maggio è conquistata Palermo, l’8 agosto i
Mille, ormai divenuti più di diecimila grazie ai rinforzi giunti
dal resto della Penisola, approdano in Calabria. È una
cavalcata trionfale fino a Napoli: Garibaldi la raggiunge in
treno. Così come ha fatto nei secoli precedenti con tutti i
conquistatori, san Gennaro non nega il proprio favore,
espresso dall’abituale miracolo della liquefazione del
sangue. Garibaldi a Napoli inquieta la corte di Torino. Il
generalissimo ha fin qui compiuto ogni passo e ogni atto in
nome di Vittorio Emanuele re d’Italia, ma il re teme che il
‘duce’ – così hanno cominciato a chiamare Garibaldi e
Manzoni consacrerà questa definizione – tiri dritto fino a
Roma: le conseguenze paiono gravissime per la nascente
Italia.
Provvede Cavour con l’invio di un corpo di spedizione. Per
salvare il papa dal ‘primo massone d’Italia’ (è la qualifica del
‘fratello’ Garibaldi) nonché anticlericale dichiarato, il conte
strappa allo Stato pontificio le Marche e l’Umbria. Prima di
essere accerchiato Franceschiello tenta l’ultima sortita, ma
sul Volturno i suoi cinquantamila soldati sono sconfitti dai
ventimila volontari, che si sono fatti esercito in cinque mesi
di campagna. A Taverna di Catena, nei pressi di Teano,
s’incontrano il re sabaudo e l’ex guerrigliero convertitosi alla
causa della monarchia nel nome dell’unità. Spazzando via le
attese dei repubblicani (anche Mazzini è accorso a Napoli
per spronarlo) Garibaldi rinuncia a marciare su Roma e su
Venezia e cede a Vittorio Emanuele il frutto dell’insperata
conquista. I generali piemontesi, Cavour, i ministri, lo stesso
sovrano non vedono l’ora di liberarsi del disinteressato
benefattore. Garibaldi non li delude neppure stavolta: dopo
aver rinunciato a un titolo di duca, a un castello, a
un’adeguata pensione, s’imbarca per il piccolo
possedimento di Caprera in compagnia di un sacchetto di
sementi, di alcuni barattoli di caffè e di zucchero, di una
balla di stoccafissi, di una cassa di maccheroni.
Le prime elezioni generali sono riservate ai cittadini
maschi, che hanno compiuto venticinque anni e pagano
almeno quaranta lire d’imposta. Vota il due per cento della
popolazione, trionfano i candidati legati a Cavour. La legge,
che sancisce la raggiunta unità, si compone di un solo
articolo: « Il re Vittorio Emanuele II assume per sé e per i
suoi successori il titolo di re d’Italia ». Nel Parlamento
plaudente vi sono Garibaldi, Manzoni, Verdi. Assieme a
Cavour sono stati ciascuno nel proprio campo la punta di
lancia delle generazioni, che con il sangue hanno
trasformato un sogno in realtà. Purtroppo nel momento in
cui l’Italia è quasi fatta, ma bisogna fare gli italiani, e anche
oggi vedete quanto l’impresa sia ardua, viene a mancare di
colpo, per una probabile malaria perniciosa, colui che
avrebbe avuto le migliori attitudini, Cavour.
24. Gli anni difficili

L’Italietta ha davanti problemi enormi. Pesa l’assenza di


Cavour, sostituito alla guida del governo dal toscano Bettino
Ricasoli, ma pesano vieppiù i soldi da versare all’Austria per
le ferrovie lombarde e i soldi da impiegare per la
costituzione dell’esercito e di una flotta, che necessita di
corazzate al posto delle navi di legno. Su un bilancio così
precario si abbattono le passività degli stati assorbiti,
mentre le rare industrie del Sud manifestano da subito
l’incapacità di stare al passo con quelle del Nord. Nel
Meridione boccheggia anche l’agricoltura, la miserrima
situazione economica fa esplodere il brigantaggio: da fattore
endemico del vecchio regime si trasforma in inquietante
fenomeno sociale del regno. A ingrossare le leve
provvedono molti soldati del disciolto esercito di
Franceschiello – pronto dall’esilio romano a soffiare sul fuoco
del malcontento – e molti ragazzi desiderosi di sfuggire alla
coscrizione obbligatoria.
Per il governo sono tutti delinquenti comuni e della
peggiore specie: ai ministri residenti a Torino, agli ufficiali
piemontesi inviati a reprimere sfugge il sottofondo
d’idealismo, di aspirazione a un minimo di equità, di rivalsa
contro i continui soprusi dei maggiorenti, che permea larghe
fasce del brigantaggio. D’altronde, coloro che potrebbero
spiegare tale complessità hanno interesse a schiacciare quei
fuorilegge, non a eliminare le cause da cui sono prodotti e
cioè le condizioni di semischiavitù in cui sopravvive la plebe,
priva di qualsivoglia diritto e spesso anche di un tozzo di
pane. In quelle regioni la borghesia è inesistente, al suo
posto si è formata una piccola classe di speculatori, di
professionisti, di funzionari pubblici, di proprietari terrieri. Si
autodefiniscono galantuomini, hanno immediatamente
aderito al movimento patriottico, ma il loro scopo è di
conservare gli antichi privilegi a scapito delle masse.
Purtroppo sono proprio i galantuomini a diventare
l’interfaccia dell’Italia, i rappresentanti di un potere
avvertito come ostile dal resto della popolazione. È l’inizio
dell’annosa questione meridionale, che da
centocinquant’anni affligge il Paese.
In concomitanza con la guerra civile in atto negli Stati
Uniti, ne esplode nel nostro Sud una non meno feroce. Alle
barbarie dei briganti l’esercito risponde con selvagge
rappresaglie. Si fronteggiano più uomini che sui campi del
Risorgimento: 120.000 regolari contro 80.000 fuorilegge.
Soltanto nel 1864 il generale Cialdini ha ragione delle
bande, ma il conto delle vittime nei due schieramenti
supera le dodicimila unità e il conto dei danni materiali e
morali è incalcolabile. Nello stesso periodo il governo ha
dovuto fronteggiare una spedizione abbozzata da Garibaldi
per puntare su Roma. Il generalissimo è stato ferito e
fermato sull’Aspromonte, i suoi volontari disarmati.
L’episodio scava un solco fra moderati e interventisti.
Nonostante le apparenze, il problema della Capitale e di
Venezia è il principale dell’agenda ministeriale. Per metà
potrebbe risolversi nel 1865 se Francesco Giuseppe
accettasse di cedere il Veneto in cambio di un miliardo di lire
(circa cinquemila miliardi di oggi) e della neutralità italiana
nell’imminente conflitto austro-prussiano. L’imperatore non
vuole saperne: pochi mesi dopo l’Italia entra in guerra
assieme alla Prussia del cancelliere Bismarck. L’esercito è
guidato da altezzosi imbecilli, la cui inadeguatezza è pari
soltanto all’ambizione. I litigi e la demenziale spartizione
delle divisioni tra La Marmora e Cialdini conducono al
disastro di Custoza; l’irresolutezza dell’ammiraglio Persano
conduce al disastro di Lissa, dove le antiquate navi
imperiali, manovrate con grande abilità da marinai veneti,
istriani e dalmati, hanno il sopravvento sulle moderne
corazzate italiane. I successi della Prussia obbligano
comunque Francesco Giuseppe a mollare il Veneto, ma non
il Trentino benché i cacciatori delle Alpi di Garibaldi siano
giunti in prossimità di Trento. Li ferma un telegramma di La
Marmora al quale il ‘duce’, che è l’unico ad aver sempre
vinto, risponde con il famoso « obbedisco ».
Al completamento dell’unità non resta che l’Urbe,
sebbene la capitale sia stata trasferita da Torino a Firenze
per dimostrare che nessuno nell’immediato pensa a Roma.
Garibaldi ci riprova nel ’67, ma i suoi volontari sono bloccati
a Mentana dai francesi, equipaggiati con i fucili Chassepot a
tiro rapido. La soluzione giunge da un’altra guerra europea.
La scatenano gli appetiti di Bismarck su territori di confine
appartenenti alla Francia. Napoleone è costretto a ritirare il
contingente di guardia da Roma. Qui il 20 settembre 1870
entrano i bersaglieri attraverso la breccia di Porta Pia. È una
conquista quasi pacifica, ma dagli ingarbugliati risvolti
politici. Pio IX, la cui infallibilità teologica è stata
recentemente proclamata dal Concilio, si definisce un
prigioniero: tenta di suscitare una ribellione delle cancellerie
internazionali, scomunica i responsabili dell’affronto, in testa
a tutti Vittorio Emanuele II. È il rabbioso declino di un
pontefice, che ha applicato fino all’ultimo la pena di morte,
che è stato promotore di odiose campagne contro gli ebrei
(li ha rinchiusi nel ghetto, li ha esclusi dall’università e
dall’economia), che in nome del personale tornaconto ha
osteggiato in ogni modo prima il formarsi della nazione, poi
il suo completamento.
Il governo vara la legge delle Guarentigie per sistemare i
rapporti con la Santa Sede: al papa e al Vaticano sono
garantiti possedimenti, prerogative, un appannaggio annuo
di tremilioniduecentocinquantamila lire, la massima
indipendenza dal governo, che la reciproca nei suoi
confronti. Trova così attuazione l’ultima volontà espressa da
Cavour sul letto di morte: libera Chiesa in libero Stato. La
soluzione però è attaccata sia da chi auspicherebbe una
totale separazione tra i due poteri, sia dallo stesso Pio IX. Il
pontefice continua a definire quella situazione figlia del
diavolo, giunge al punto di chiedere l’intervento della
Germania appena costituita. Il luterano Bismarck si dice
d’accordo a patto che Pio IX si trasferisca a Berlino: il
cancelliere confessa a un amico di essere sicuro che,
conosciuto da vicino il papa, i cattolici tedeschi si
convertiranno al protestantesimo. Privo di supporti esterni –
in Francia è stata proclamata una repubblica semiatea – Pio
IX si rifugia in uno sdegnato isolazionismo proibendo la
partecipazione dei fedeli alla vita pubblica. Purtroppo alcuni
settori lo ascoltano.
È un ostacolo in più sul cammino del governo. La Destra
ha avuto come incubo e come obiettivo il pareggio del
bilancio. L’ha perseguito con una spietata tassazione molto
più dura nei confronti dei poveri che dei ricchi. Ne è stata
emblema l’imposta sul macinato: ha colpito il grano e
l’avena, ha prodotto un gettito modesto, ma ha suscitato
nelle campagne un vasto moto di protesta con centinaia di
morti e di feriti. Il ministro delle Finanze Quintino Sella, un
industriale laniero di Biella, vara la politica della lesina: è
teso a un risparmio così oculato da eccepire persino sulle
matite in dotazione al ministero. Per fortuna giunge un aiuto
sostanzioso dalla vendita dei beni ecclesiastici. Le entrate,
però, non bastano mai. Il Paese ha bisogno d’investimenti
rilevanti: l’unico modo di unificarlo, di favorire i contatti e gli
scambi sono le costose strade ferrate.
Nella convinzione che il rilancio debba passare da una
netta rottura con il passato si opta per un centralismo
esasperato di stampo napoleonico. Ma il passato tramonta
da solo, per motivi anagrafici. Muore a Pisa nell’indifferenza
generale, da esule in patria, Giuseppe Mazzini. Pochissimi
assistono al suo seppellimento accanto all’adorata madre
nel cimitero genovese di Staglieno. Un anno più tardi, 1873,
se ne va Alessandro Manzoni. Stavolta il cordoglio è
profondo, unanime: Milano gli dedica subito una delle vie
più belle, Verdi compone quel capolavoro che è la Messa da
Requiem, l’Italia sente di aver perduto un padre fondatore,
pantofolaio abitudinario poco portato ad abbandonare la
poltrona e il tavolino, però realizzatore dell’unità linguistica,
che ha preceduto quella politica. La scomparsa di Manzoni
fa comprendere all’opinione pubblica che il genio italico
sonnecchia, d’altronde da sessant’anni le migliori energie
del Paese vengono rivolte alla causa nazionale e c’è stato
poco spazio per il resto. L’invenzione più recente è la pila di
Alessandro Volta risalente all’inizio dell’800. Per la verità un
eccentrico personaggio, Alessandro Meucci, sostiene di aver
ideato un oggetto con cui ci si si può parlare a distanza:
sarebbe il telefono, ma nessuno lo prende sul serio,
soprattutto nessuno gli fornisce i mezzi per perfezionarlo.
L’unica gloria internazionale è Verdi. Gli osanna si sprecano,
forniscono nuova linfa per comporre il Rigoletto, La traviata,
l’Otello, il Falstaff. Per festeggiare l’apertura del Canale di
Suez gli viene commissionata l’Aida, la cui prima è eseguita
in Egitto, suggestione di una moda ancor oggi resistente.
Due giorni dopo aver annunciato l’agognato pareggio del
bilancio, la Destra viene mandata a casa (1876) e sostituita
con la Sinistra, che al posto della camicia rossa ha indossato
il tight (l’abito scuro da cerimonia caratterizzato dalla giacca
a falde lunghe). Il cambiamento è più formale che
sostanziale. Il primo governo della Sinistra è presieduto da
Agostino Depretis, un ex cospiratore mazziniano. La lunga
permanenza in Parlamento gli ha fatto conoscere a fondo
l’animo dei suoi compatrioti, la propensione
all’arrangiamento, la disponibilità a superare dietro modesto
compenso le barriere ideologiche. I suoi governi si reggono
sull’apporto di voti dell’opposizione. Nelle elezioni lo
sostiene spesso la faccia più impresentabile del Sud: la
mafia, la camorra, la ’ndrangheta. Questa tecnica di potere
viene sprezzantemente definita trasformismo, ma non è
altro che il connubio di Cavour perpetuatosi fino ai nostri
giorni con la trasmigrazione continua di deputati e senatori
da un partito all’altro (di solito si passa con più facilità dai
sicuri perdenti ai possibili vincenti...)
Il programma della Sinistra – allargamento dei votanti
con la diminuzione dell’imposta da pagare per essere
elettori e con la diminuzione dell’età necessaria; istruzione
elementare gratuita; abolizione della tassa del macinato –
viene attuato, ma non migliora le condizioni generali. L’Italia
è povera di tutto, sottoposta al continuo spregio delle altre
nazioni. La morte di Vittorio Emanuele II nel 1878 la orba di
una guida, in cui quasi tutti si riconoscono. Quella di Pio IX le
lascia sul gobbo un’enciclica, il Sillabo, con cui la Chiesa
nega la libertà d’espressione, di religione, di culto e rigetta
molte conquiste scientifiche. La contemporanea scomparsa
dei due antagonisti spinge il governo a sancire la
conclusione del Risorgimento con lo spostamento della
capitale a Roma. Rimane irrisolta la crisi economica. Molti
scorgono un rimedio nelle annessioni coloniali praticate da
Gran Bretagna, Francia, Germania, Olanda, Belgio. Bismarck
ci mette su un piatto d’argento la Tunisia, verso cui aveva
già guardato lo stesso Mazzini. Ma il primo ministro Cairoli,
fortemente voluto dal nuovo re Umberto I, indugia e la
Francia ce la soffia.
Una violenta protesta di piazza manda a casa Cairoli. Il
nuovo governo stringe una triplice alleanza con Austria e
Germania (1882), nonostante i mugugni della massoneria. A
Trieste viene arrestato un giovane intellettuale, Guglielmo
Oberdan, pronto a lanciare una bomba contro l’imperatore
Francesco Giuseppe in visita nella città. Oberdan sale sul
patibolo gridando: « Viva l’Italia! Viva Trieste italiana! » Più o
meno le stesse parole con cui il 2 giugno spira a Caprera
Giuseppe Garibaldi: « Muoio nel dolore di non vedere
redente Trento e Trieste ». Il re non si reca al funerale, la
salma non viene inumata né al Pantheon né al Campidoglio.
Alla freddezza di una certa Italia ufficiale fa da contraltare il
dolore del popolo: capisce che con Garibaldi se n’è andato il
personaggio più specchiato e più disinteressato, assieme a
Mazzini, di un’epoca gloriosa e irripetibile. Proprio dall’area
mazziniana proviene il romagnolo Andrea Costa, eletto in
quel 1882 a Ravenna. È il primo anarco-socialista a entrare
in Parlamento. Suoi amici sono stati Carlo Cafiero, rampollo
di una ricca famiglia pugliese, e Michail Bakunin, un nobile
russo, figlio dell’ambasciatore dello zar presso il granduca di
Toscana. Nel decennio precedente i due, propagandisti
dell’idea anarchica, sono stati ritenuti gl’ispiratori di alcune
bombe esplose nella Penisola. Tuttavia per entrambi il
principale avversario è un ebreo tedesco, Karl Marx,
propugnatore della guerra di classe in tutta l’Europa, autore
di un illeggibile volumone, Il capitale, futura bibbia del
comunismo mondiale...
Questa contrapposizione fa sì che gli operai italiani siano
divisi da subito. E si comincia, per l’appunto, con
l’odioamore tra anarchici e socialisti. Uno strano miscuglio,
che non si amalgamerà mai, malgrado la compagna di Costa
sia una facoltosa ebrea di Odessa, Anna Kuliscioff,
ballonzolante di qua e di là, e malgrado uno dei suoi migliori
collaboratori sia il giovane avvocato milanese Filippo Turati.
La lite più grossa avviene sulla scelta socialista di
presentarsi alle elezioni. A dettarla sono stati motivi
ideologici (la possibilità di far propaganda dal cuore dello
Stato, il Parlamento) e motivi pratici (i viaggi gratis in treni,
che finalmente consentono di portare la bandiera rossa in
ogni zona del Paese). La coscienza proletaria si sviluppa al
Nord, favorita dall’avvento dell’industria pesante, non fa,
invece, proseliti al Sud. Qui alla sola forma di protesta
conosciuta, il brigantaggio, si unisce l’emigrazione verso le
Americhe, vissute alla stregua di un miraggio, di un viaggio
verso il paese di Bengodi (è stato appena pubblicato
Pinocchio), dove si realizzeranno tutti i sogni.
Alla generalizzata richiesta di lavoro, alla miseria
ancestrale del Mezzogiorno, la classe dirigente risponde con
reiterate velleità colonialistiche. Si continua a puntare verso
l’Africa. Dall’acquisto del porto di Assab all’occupazione di
Massaua matura la voglia di significative conquiste. Il
campione di tale orientamento è Crispi, giunto quasi
settantenne alla guida del governo. L’avvocato di Ribera,
una delle capitali mafiose dell’agrigentino, ha attraversato
parecchi schieramenti: è stato borbonico, antiborbonico,
massone, mazziniano, garibaldino, repubblicano,
monarchico. Ma l’uomo ha sempre influenzato il politico:
poligamo, sensibile alle donne e ai quattrini, tonitruante dai
banchi dell’opposizione, tuttavia disposto a conciliare se gli
fanno intravedere un adeguato ritorno. Il suo idolo è
Bismarck, lui però è rimasto un avventuriero di provincia e
l’Italia non ha i mezzi della Germania. Lo si coglie nella
pasticciata trattativa con il re dei re abissino, Menelik. Il
trattato in lingua italiana sostiene una cosa, quello in
aramaico un’altra. L’annuncio dato da Crispi nel 1889
dell’avvenuta intesa si rivela un fiasco. Al governo, anche a
causa di una grave recessione, gli subentra il taciturno
ministro delle Finanze, Giovanni Giolitti, un magistrato
piemontese cresciuto alla scuola di Sella.
L’emigrazione verso le Americhe.

Giolitti si dimostra un abile discepolo di Depretis: tra


senatori di fresco conio e ingerenze prefettizie conquista
una solida maggioranza, inciampa però nello scandalo della
Banca Romana. È un’anticipazione delle spregiudicate
manovre, che da sempre gli istituti di credito attuano sulla
pelle dei cittadini, taluni le chiamano truffe. Rimane, ahinoi,
uno dei rarissimi casi in cui il pentolone delle porcherie sia
stato scoperchiato. Negli altri casi si preferirà nascondere
ogni malefatta, magari accorpando le due-tre banche sotto
tiro in modo da coprire per sempre le responsabilità. Il
direttore della Banca Romana, Tanlongo, ha stampato carta
moneta a piacimento, tiene a libro paga diversi deputati e
senatori, coltiva contatti sospetti con la famiglia Crispi.
Tuttavia la denuncia di due deputati socialisti precipita nel
sospetto il meno colpevole di tutti, Giolitti per l’appunto. Gli
succede proprio Crispi, per il quale premono pure i
moderati, impauriti dalle recriminazioni dei lavoratori
siciliani. I minatori delle zolfare e i contadini dei latifondi,
schiavizzati spesso dallo stesso padrone, si sono iscritti ai
fasci, derivazione del Partito socialista nato a Genova
nell’agosto del 1892. La sua fondazione è stata una risposta
a quella, avvenuta l’anno prima in Svizzera, di un
movimento anarchico capeggiato da Enrico Malatesta.
Crispi doma scioperi e proteste con metodi drastici: un
centinaio di morti, scioglimento del Partito socialista e delle
organizzazioni operaie in Sicilia e in Lunigiana. Non riesce,
però, a infliggere in Parlamento il colpo del ko a Giolitti, anzi
viene fuori che la signora Crispi deve circa un milione alla
Banca Romana. Colui che si atteggia a ennesimo uomo della
provvidenza se la cava alle elezioni, ma è colato a picco
dalla scriteriata campagna d’Africa. Qualche piccolo
successo in Eritrea gli mette in testa che i tempi siano
maturi per un’azione a largo raggio. All’Amba Alagi il
distaccamento del maggiore Toselli è quasi annientato,
eppure un corpo di spedizione di sedicimila uomini si
avventura fino alla conca di Adua. Finisce in bocca a
centomila etiopi armati di fucili e munizioni italiani
acquistati con i quattro milioni concessi dal governo
crispino. I settemila caduti sono la pietra tombale delle
aspirazioni di Crispi. È il 1896: in quegli stessi mesi un
barone francese sognatore, De Coubertin, inaugura ad
Atene nell’indifferenza generale la prima Olimpiade dell’era
moderna.
Il governo presieduto dal marchese di Rudinì ripara ai
guasti etiopici: il nuovo trattato con Menelik conserva
Eritrea e Somalia all’Italia. Le ingenti spese sostenute per
l’avventura africana richiedono ulteriori sacrifici. Con il
ministro delle Finanze, Sydney Sonnino, la Destra rilancia
una seconda politica della lesina, ma c’è poco o niente da
raschiare in un paese ridotto quasi all’indigenza. Nel 1898
Milano festeggia il cinquantennale delle Cinque Giornate. Le
celebrazioni trascendono in scontri con la polizia, operai e
studenti manifestano in molte città. Nella metropoli
lombarda la tensione resta alta. In maggio l’arresto di un
manifestante, che distribuisce volantini dinanzi alla Pirelli,
origina una lunga serie d’incidenti. Le forze dell’ordine
sparano, la truppa carica alla baionetta. Il 7 maggio è
proclamato lo stato d’assedio: al generale Bava Beccaris,
reazionario piemontese tutto d’un pezzo, sono conferiti i
pieni poteri. Il giorno dopo il cannone tuona in più punti. La
pacificazione di Milano costa un centinaio di morti e
cinquecento feriti. Segue la repressione giudiziaria. Oltre ai
socialisti e agli anarchici, sono colpiti comitati diocesani e
parrocchiali. Sacerdoti e cattolici hanno ripreso, infatti, a
interessarsi di politica dopo l’enciclica Rerum Novarum di
papa Leone XIII (il cardinale Gioacchino Pecci). La Chiesa
non vuol lasciare la rappresentanza dei diritti del popolo ai
‘senza Dio’ della Sinistra estrema. I suoi rappresentanti
subiscono nei processi dure condanne: a Turati, benché si
fosse speso per placare gli animi durante le giornate di
maggio, sono inflitti dodici anni di reclusione, poi amnistiati.
Per difenderlo è giunto da Torino Edmondo De Amicis, autore
di un libro, Cuore, retorico e zeppo di buoni sentimenti,
breviario giovanile di parecchie generazioni.
Le inutili cannonate di Bava Beccaris producono la
vittima più illustre il 29 luglio del 1900. L’anarchico pratese
Gaetano Bresci, rientrato appositamente dagli Usa, spara tre
colpi di pistola a bruciapelo contro Umberto I. Il re muore
subito, Bresci s’impicca in carcere, almeno così recita la
versione ufficiale. L’Italia si affaccia al ventesimo secolo con
il trentunenne Vittorio Emanuele III, un nanerottolo
silenzioso e complessato, nel quale si specchiano i troppi
matrimoni tra consaguinei dei Savoia (il padre aveva
sposato una cugina). Per provvedere alla prole gli hanno
dato in moglie una bella e slanciata ragazza slava, figlia di
un principe del Montenegro. A Parigi l’inaugurazione della
Tour Eiffel racchiude la sfida dell’uomo ai tanti settori
inesplorati della tecnica e della scienza. In Italia due episodi
danno il senso di ciò che termina e di ciò che s’inizia. A fine
gennaio del 1901 l’ottantottenne Giuseppe Verdi muore a
Milano al Grand Hotel et de Milan (dove ancora conservano
la sua stanza). Nelle ultime settimane per non disturbare i
suoi sonni era stato ricoperto di paglia il selciato di via
Manzoni onde attutire il rumore delle carrozze. Verdi è
l’ultimo gigante del Risorgimento, l’Italia gli tributa un
commiato straripante d’affetto, ma l’‘Osservatore Romano’,
l’organo di stampa della Santa Sede, scrive che il suo
talento è stato « sfruttato dalla rivoluzione settaria per
compiere supremi attentati contro la Chiesa e il Papato ».
Qualche mese più tardi l’emiliano Guglielmo Marconi fa
viaggiare la voce dall’Inghilterra al Canada. È l’invenzione
da cui nasceranno la radio, la televisione, il radar. La sua
meravigliosa avventura è cominciata nei poderi paterni
approfondendo la scoperta di particolari onde compiuta dal
fisico tedesco Heinrich Hertz. Nel 1909 Marconi diventerà
uno dei più giovani premi Nobel della Storia.
Il ritorno di Giolitti al governo favorisce lo svilupparsi di
una coscienza sociale. S’avviano le prime intese con i
socialisti, viene riconosciuto il diritto allo sciopero,
migliorano i conti pubblici, si abbassa la rendita dei buoni
del tesoro dal 5% al 3,5%. A Leone XIII subentra Pio X, il
patriarca di Venezia, cardinale Sarto. È stato aiutato
dall’appoggio dell’imperatore d’Austria, che ha messo il veto
sul candidato designato dalla curia. Il primo atto del
pontefice è però di abolire il potere d’interferenza del
‘cattolicissimo sovrano viennese’. Il secondo è di consentire
l’ingresso dei credenti nell’agone politico pur ribadendo il no
nei confronti di ciò che puzza di moderno. Il traforo del
Sempione (1906) annuncia le meraviglie della scienza e
della tecnica. L’anno prima un geniale, giovanissimo
matematico ebreo tedesco, Albert Einstein, ha reso nota la
sua teoria della relatività.
Aumentano le attività industriali, si svecchia l’agricoltura.
Il progresso cammina sulle quattro ruote delle automobili, la
cui diffusione è vertiginosa. Una piccola azienda
piemontese, la Fabbrica italiana automobili Torino (Fiat), si
aggiudica larghe fette di mercato; uno dei soci fondatori, il
possidente terriero Giovanni Agnelli ne acquisisce in breve
tempo l’intero controllo. Il Paese reagisce con prontezza
all’immane tragedia abbattutasi su Messina e Reggio
Calabria. Il 28 dicembre del 1908 le due città e i paesi vicini
sono stati colpiti prima dal terremoto, poi dal maremoto. Le
vittime sono centomila, ma il numero è calcolato per difetto,
i danni ingenti, i soccorsi problematici: all’inizio di gennaio è
addirittura necessario proclamare lo stato d’assedio per
isolare gli sciacalli e meglio indirizzare gli aiuti. La
ricostruzione comincia quasi subito con il legno e il metallo
inviati dalle altre regioni, ma anche dalle Americhe, dalla
Svizzera, dalla Germania.
Ancora in lacrime per le sue vittime, l’Italia legge
stupefatta sulla prima pagina del quotidiano parigino ‘Le
Figaro’ il Manifesto del movimento futurista. L’ha redatto un
vulcanico intellettuale trentatrenne, Filippo Tommaso
Marinetti. I suoi arditi proclami rompono con l’ufficialità della
cultura per quanto le patrie lettere attraversino una
notevole fioritura: Giosuè Carducci e Grazia Maria Deledda
vengono insigniti con il Nobel; Gabriele D’Annunzio sciocca
mezz’Europa con i suoi versi e con il suo stile di vita; un
cupo professore siciliano, Luigi Pirandello, ha appena
pubblicato uno dei testi emblematici del Novecento, Il fu
Mattia Pascal. Tale rimescolio di costumi, di pensieri, di
modelli si converte nella più clamorosa iniziativa politica di
Giolitti: il suffragio universale agli elettori maschi. Nei piani
dell’algido primo ministro dovrebbe essere l’anticipazione di
una futura alleanza con i socialisti, ma le tacite intese
vengono frantumate dalla guerra alla Turchia, cioè la
spedizione in Libia alla conquista dell’immaginifica ‘quarta
sponda’ (1911). Il desertico stato africano è l’ultimo pezzo
del cadente impero turco ancora libero da prenotazioni.
Preparato dalla ritrovata armonia con la Francia, l’intervento
si conclude vittoriosamente. L’Italia ha finalmente vinto una
guerra e per di più da sola. Tranne una piccola ala
scissionista, fedele al governo, i socialisti si sono opposti
con ogni mezzo. Due giovani leader, Pietro Nenni e Benito
Mussolini, sono stati incarcerati per aver provato a bloccare
le tradotte militari. Giolitti apre ai cattolici, ma sulle povere
beghe italiane si propaga l’eco delle pistolettate sparate a
Sarajevo da un irredentista serbo contro l’erede al trono di
Vienna (1914). La Francia, l’Inghilterra e la Russia
intervengono in difesa del minuscolo stato invaso
dall’Austria, al cui fianco si è schierata la Germania.
L’Italia rimane neutrale. Lo consente il trattato della
Triplice in caso di guerra d’aggressione. Pur non essendo al
governo, Giolitti è contrario a un intervento e da lui dipende
la maggioranza in Parlamento. I costi della spedizione in
Libia hanno prosciugato le casse, quella piccola e facile
guerra ha però dato aria ai nazionalisti. Assieme a loro
urlano nelle piazze gli irredentisti trentini e giuliani, uno
scatenato D’Annunzio e l’ex socialista Mussolini,
antesignano di tutti i futuri voltagabbana. E forse nella
scelta di D’Annunzio e di Mussolini pesano i cospicui
contributi della Francia. Oltre ai soldi, da Parigi e da Londra
giungono allettanti offerte alle quali prestano orecchio il
presidente del Consiglio, Antonio Salandra, e il suo ministro
degli Esteri, Sonnino. Il 26 aprile del 1915 i due firmano a
Londra un protocollo segreto con il quale all’Italia sono
garantiti Trento, Trieste, l’Istria, la Dalmazia e ulteriori
territori in caso di altre spartizioni. Il Parlamento continua a
essere neutralista, ma gli interventisti godono di un
altissimo appoggio, Vittorio Emanuele. Il re impone la
dichiarazione di guerra all’Austria: la scusa è la sua
aggressione nei Balcani senza il previo consenso dell’Italia,
come richiesto da una clausola aggiunta nel 1887 al patto
della Triplice.
Per due anni le operazioni militari si trascinano sugli
altipiani veneti. Nel maggio 1916 fanti e alpini reggono alla
spedizione punitiva degli imperiali, tre mesi dopo entrano a
Gorizia. È una guerra di posizione, ci si ammazza da trincee
distanti poche centinaia di metri. A prezzo di durissime
perdite le armate di Cadorna, figlio del generale che aveva
portato l’assalto a Roma, conquistano l’altopiano della
Bainsizza, minacciano da vicino Trieste. L’Austria ha però
ricevuto l’aiuto di sette divisioni scelte tedesche, essendosi
conclusa la singolare neutralità tra l’Italia e il Kaiser. Il 24
ottobre 1917 una ficcante offensiva coglie del tutto
impreparati Cadorna e il suo stato maggiore. In poco più di
ventiquattr’ore un giovane capitano germanico raggiunge
con il suo battaglione Caporetto facendo quattromila
prigionieri: si chiama Erwin Rommel. Caporetto da quel
giorno diventa sinonimo di disfatta. L’Italia è sul punto del
tracollo. Ha perso trecentomila soldati, tremila cannoni,
parecchi depositi, Gorizia e Udine. L’artiglieria austriaca
minaccia Venezia.
È una guerra di posizione, ci si ammazza da trincee distanti poche
centinaia di metri.
Cadorna scarica le proprie colpe sulla viltà dei soldati e
sul disfattismo del governo. Viene sostituito da un generale
napoletano di buon senso, Armando Diaz, suo vice è
l’inaffondabile Pietro Badoglio: durante l’offensiva nemica gli
obici del suo corpo d’armata sono rimasti puntati verso le
cime mentre le truppe sciamavano a valle. Il re nomina
presidente del Consiglio un lacrimevole avvocato siciliano
votato dalla mafia, Vittorio Emanuele Orlando, e garantisce
agli alleati che l’Italia non si piegherà. Giungono in sostegno
sei divisioni francesi e cinque britanniche. Con esse viene
saldata una linea di resistenza sul Piave. L’ingresso degli
Stati Uniti nel conflitto coincide con la fase più critica per
Austria e Germania: sono logorate da quattro anni di
micidiali sforzi senza risultati e dai mugugni del fronte
interno. Neppure il ritiro della Russia, dove lo zar è stato
deposto da una rivolta popolare sfociata nell’affermazione
dei comunisti, ribalta le sorti della guerra. La resa di bulgari
e ungheresi impone a Diaz un attacco malcerto, che
rappresenta, però, il pugno del ko a un nemico ormai sfinito.
Il 29 ottobre 1918 è siglato l’armistizio. L’Italia ha pagato un
prezzo salatissimo: 650.000 morti, milioni di feriti e mutilati,
l’economia a pezzi.
Alla conferenza di Versailles Orlando e Sonnino ottengono
quanto stabilito a Londra. In Italia i nazionalisti hanno però
posto la questione della città di Fiume, che secondo gli
accordi dovrebbe andare alla Jugoslavia. Il presidente
statunitense Wilson obietta che se il patto di Londra non
vale più, allora tutte le condizioni devono essere ridiscusse.
Il linciaggio di nove soldati francesi a Fiume deteriora i
rapporti con i cugini. Nelle piazze si comincia a gridare alla
‘vittoria tradita’ ed è falso. I nazionalisti non sono più soli: si
aggiungono i seguaci del futurismo e i fascisti, così
battezzati da Mussolini nel marzo del 1919 durante una
riunione nella milanese piazza San Sepolcro. Si tratta di
reduci, soprattutto ufficiali e graduati, tornati dalle trincee
con il gusto del comando, con aspettative di ricompense e
di riconoscimenti sociali, che il sistema non è in grado di
soddisfare. La situazione precipita in settembre: alla testa di
trecento legionari, D’Annunzio, autoproclamatosi Vate
d’Italia, entra in Fiume, ne annuncia l’annessione.
Richiamato alla guida del governo, Giolitti ricuce il
pericoloso strappo internazionale. In seguito all’accordo
firmato con la Jugoslavia, D’Annunzio sgombra: per farlo si è
affidato al lancio di una moneta in aria, senza però
anticipare a quale segno collegava le sue decisioni. Essendo
uscita testa, spiega che sarebbe rimasto se fosse uscita
croce...
Il Paese non riesce a liberarsi dai fantasmi della guerra.
Le elezioni del 1919 annientano la vecchia maggioranza
liberale, nel Parlamento entrano in massa i socialisti, che
straparlano di rivoluzione, e i cattolici organizzati nel Partito
popolare da un sacerdote di Caltagirone, Luigi Sturzo. Le
difficoltà finanziarie s’ispessiscono, operai e contadini
pretendono aumenti salariali. Le notizie, sovente deformate
ed esaltate, che giungono dall’Unione Sovietica li spingono
su posizioni massimaliste. Gli scioperi si susseguono a
ondate, spesso senza motivazioni, con il solo scopo di creare
disagio e turbative. Le industrie e le campagne
boccheggiano. I ferrovieri bloccano i convogli sui quali
viaggiano i militari: l’aver combattuto diventa per alcuni
sindacati una vergogna. A tali esasperazioni rispondono le
squadracce fasciste. Il nucleo originario è stato ingrossato
sia dalla piccola borghesia, che ha avuto i risparmi bruciati
dall’inflazione, sia dai neoarricchiti – definiti dai sindacati i
pescicani – i quali vedono in pericolo le fortune accumulate
con speculazioni e ruberie effettuate negli anni del conflitto.
L’Italia si spacca.
Da un lato un proletariato ubriacato dal paradiso
promesso dal comunismo e dal racconto falso delle mirabilie
che esso sta ottenendo in Unione Sovietica grazie ai miracoli
del compagno Lenin. Dall’altro lato i ceti impiegatizi e
statali, i proprietari di terre e d’immobili, gl’industriali e i
banchieri atterriti dagli orrori e dalle miserie della
Rivoluzione russa. L’esistenza quotidiana è sconvolta da
disordini, spedizioni punitive, omicidi. Nella Pianura padana i
fascisti diventano il braccio armato degli agrari; le forze
dell’ordine quasi mai si oppongono ai loro eccessi. La guerra
civile pare dietro l’angolo, tuttavia ci sarebbe ancora il
tempo di recuperare. Nelle elezioni del 1921 il Partito
fascista raccoglie soltanto trentacinque deputati. Ma a
Livorno l’ala estremista dei socialisti dà vita al Partito
comunista. Lo capeggiano un sulfureo intellettuale
napoletano, Amedeo Bordiga, e un segaligno e ricurvo
autodidatta sardo, Antonio Gramsci, trasferitosi a Torino.
Gramsci in breve assume la guida della nuova formazione,
ne stila il programma, ne fissa l’azione. Per la gioventù di
sinistra assurge a maestro, ad asceta di una missione
impossibile, e il suo fascino ha resistito alla demolizione
della ideologia marxista; per il fascismo è un cervello da
annientare.
Gli strettissimi legami del Partito comunista con il
governo sovietico fanno temere un’imminente rivoluzione.
Servirebbe il polso saldo dello Stato, che invece latita.
Giolitti è convinto che il fascismo sia una febbre passeggera,
i suoi colleghi sono convinti di poterlo utilizzare per bloccare
l’onda rossa e poi di sbarazzarsene nel nome di un astratto
liberalismo. La vecchia classe politica non comprende che i
suoi elettori si sentono meglio garantiti dal manganello e
dall’olio di ricino dei fascisti, non comprende che l’eterna
anima intollerante dell’Italia ha preso il sopravvento sulle
belle maniere della democrazia. Eppure per intendere il
profondo rimescolio del Paese, la sua ricerca di nuovi
modelli sarebbe sufficiente guardare all’arte. Al teatro Valle
Pirandello manda in scena la sua opera più celebre Sei
personaggi in cerca d’autore. Nella pittura s’impongono gli
oggetti di Morandi, i soggetti futuristi di Balla e Boccioni, le
visioni oniriche di Savinio e De Chirico, tra l’altro fratelli, gli
affusolati colli femminili di Modigliani.
Anziché guidare il necessario cambiamento, i nipotini del
Risorgimento si arrendono al presunto uomo forte. La
decisione del re di non firmare lo stato d’assedio per
bloccare la marcia di trentamila camicie nere da Napoli alla
Capitale, spalanca le porte del governo a Mussolini. Per
facilitarsi l’accesso alle stanze dei bottoni, il duce ha
compiuto l’ennesima giravolta: dalla repubblica alla
monarchia. Lui insegue il potere, pur di raggiungerlo è
disponibile a ogni voltafaccia. Nella sostanza rimane
l’aspirante borghesuccio di Predappio: non per niente a
Roma ci va in vagone letto. Il 30 ottobre 1922 quella
masnada di esagitati, pronti a tutto soltanto a parole, in
realtà bramosi di vivere a sbafo, sfila sotto il balcone del
Quirinale. Mussolini li saluta in compagnia di Vittorio
Emanuele, del generalissimo Diaz, dell’ammiraglio Thaon di
Revel. L’esercito ha fatto la sua scelta. E la fanno anche i
notabili (Salandra, Orlando, il futuro presidente della
Repubblica Enrico De Nicola) accettando di figurare nel
listone, con cui Mussolini nell’aprile del 1924 trionfa alle
elezioni grazie alla legge, che garantisce un forte premio a
chi raccoglie il maggior numero di voti.
25. La quiete dopo la tempesta

Il Mussolini, che si sforza di tranquillizzare i bravi borghesi,


controlla le piazze attraverso la milizia fascista. È il suo
esercito privato, creato nel febbraio del 1923, cui si rivolge
per i compiti di bassa macelleria, quali ad esempio
l’intimidazione degli avversari politici. Con il deputato
socialista Giacomo Matteotti si va, invece, ben oltre.
Matteotti è un nemico implacabile di Mussolini e del
fascismo: alla Camera ha denunciato i brogli e gli abusi, che
hanno favorito il successo del listone, forse ha in mano le
prove degli illeciti arricchimenti di alcuni gerarchi. Viene
sequestrato e ucciso nel maggio del 1924, il cadavere è
casualmente ritrovato in agosto. Il Paese ha un soprassalto
di dignità, Mussolini è alle corde, ma l’opposizione non
capisce che bisogna contrastarlo con durezza. Uno dei suoi
leader, il liberale Giovanni Amendola, la convince ad
abbandonare l’aula di Montecitorio in segno di protesta. È
l’errore che consente a Mussolini di serrare le file, di
preparare le contromosse. Che il vento abbia ripreso a
soffiare in suo favore lo si arguisce da un’adesione
eccellente in un periodo in cui molti sono ancora dubbiosi:
prende la tessera Luigi Pirandello, ormai considerato il
massimo drammaturgo vivente. Lo fa nel nome del suo
radicato antiparlamentarismo e nella speranza di avere il via
libera per un teatro romano da regalare a un’attrice, che gli
sta molto a cuore.
Nel discorso inaugurale alla Camera del gennaio 1925
Mussolini annuncia che non c’è più spazio per i distinguo,
che si è con il fascismo o contro di esso e chi è contro sarà
perseguito con i mezzi dello Stato. È l’avvento della
dittatura, sancita dalla designazione a segretario del partito
di Roberto Farinacci. La massoneria è soppressa, il Partito
socialista sciolto, quello comunista messo fuorilegge, i
giornali piegati o chiusi. Dal Parlamento sono espulsi i
deputati popolari, poi tutti quelli dell’opposizione vengono
dichiarati decaduti. È istituita la Carta del lavoro: da essa
nasceranno le corporazioni, una scimmiottatura del passato,
che consente, però, di eliminare i sindacati, di chiudere in
una morsa impiegati, operai, liberi professionisti, contadini.
Gli attentati preparati contro di lui consentono a Mussolini di
spazzare via dagli ordinamenti le ultime tracce di
garantismo e di libertà. Deputati e senatori diventano figure
decorative, scelti ogni volta dal partito; il Gran consiglio del
fascismo si trasforma in organo statuale, dotato di ampi
poteri; al prefetto si affianca il federale, il sindaco eletto dal
consiglio comunale è sostituito dal podestà di nomina
verticistica. Il regime affida la propria sopravvivenza a una
polizia segreta, l’Ovra (Opera di vigilanza e di repressione
dell’antifascismo), e a un tribunale speciale autorizzato a
comminare la pena di morte per i reati politici. La
repressione si abbatte sugli oppositori. Bastonato a sangue
nel luglio del 1925, Amendola muore un anno dopo per le
conseguenze delle percosse. Identica fine attende il
giovanissimo padre del liberalismo italiano, Piero Gobetti.
Molti esponenti del Partito comunista entrato in
clandestinità, da Gramsci a Terracini, subiscono pesanti
condanne giudiziarie.
Piegate le strutture pubbliche al proprio volere, Mussolini
affronta la difficile situazione economica. Fissa d’imperio il
cambio con la sterlina – la moneta forte per eccellenza – e lo
mantiene durante la crisi mondiale del 1929 (prima verticale
caduta della borsa di Wall Street) facendone pagare il
durissimo conto al proletariato; lancia la battaglia del grano
per ridurre la dipendenza dagli approvvigionamenti
stranieri; intraprende la bonifica delle paludi pontine; sferza
le famiglie, soprattutto le donne, a concepire più figli con la
promessa di premi in danaro. L’Italia programmata dal
novello duce è rurale e patriarcale, attaccata a valori
antiquati. Alla dilagante importanza delle industrie, delle
banche, della finanza Mussolini non soltanto rimane
estraneo, ma anzi le avverte oscuramente rivali. Instaura
rapporti di facciata con Agnelli e Pirelli: in cambio di un
ossequio formale, non s’intromette nella gestione delle loro
fabbriche. Matura nella sua mente l’espressione con cui nel
decennio successivo bollerà le nazioni a lui ostili e
soprattutto le democrazie anglosassoni: il complotto
giudaico-plutocratico-massonico. Mussolini ridesta negli
italiani il mito di un’Italia capace di tornare ai fasti
dell’antica Roma.
A quest’Italia patriarcale e rurale abbisogna la
benedizione di un parroco, allo stesso modo in cui al regime
serve l’ultimo riconoscimento, quello della Chiesa. Arriva
l’11 febbraio del 1929: i Patti lateranensi sanano il dissidio
aperto dalla breccia di Porta Pia. Mussolini riconosce
un’indennità economica (un
miliardosettecentocinquantamilioni), il valore di religione di
Stato, il suo insegnamento nelle scuole, l’inserimento
dell’Azione cattolica a ogni livello, la funzione di ufficiali
civili ai sacerdoti nella celebrazione del matrimonio
religioso, la piena sovranità della Santa Sede sul Vaticano,
per il quale viene creata la dizione di Città del Vaticano. Il
papa, Pio XI (cardinale Achille Ratti), da parte sua dichiara
composta la questione romana, riconosce il Regno d’Italia
sotto la dinastia dei Savoia, il giuramento di lealtà da parte
dei vescovi allo Stato, al re, al governo. Il Concordato è
un’operazione di vertice dannosa per lo Stato e per la
Chiesa, una camicia di forza per i cittadini e per i credenti.
Siglati i Patti, Mussolini riceve uno speciale contentino
personale: il pontefice gli assegna il ruolo di ‘uomo della
provvidenza’, che molti fin qui si erano attribuiti, ma senza
un così eccelso avallo. Larghi settori della società scalpitano
per accorrere in soccorso del vincitore di turno. L’unico in
grado di fargli concorrenza sul piano della retorica e di
un’immaginifica verbosità, D’Annunzio, si è ritirato da dieci
anni nella principesca magione di Gardone Riviera, il
Vittoriale. Per tenerlo lì, ridotto a monumento di se stesso,
Mussolini ne carica sul bilancio statale il costoso
matenimento. Il fascismo padrone d’Italia, spesso
complimentato da eminenti personalità internazionali (il
francese Poincaré, i britannici Churchill e Chamberlain)
come un invalicabile baluardo contro il comunismo, fatica a
farsi largo in Europa. Mussolini dapprincipio è filofrancese,
ma quando Parigi comincia a concedere asilo politico agli
esuli, le sue simpatie cessano. Con l’Inghilterra il rapporto è
controverso da subito, per quanto il duce continui a essere
ritenuto un possibile alleato da ampi settori del partito
conservatore. Con la Germania si guarda in cagnesco: teme
un’annessione dell’Austria e le eventuali rivendicazioni
sull’Alto Adige. Nel 1931 Mussolini manda a monte un’intesa
economica tra i due vicini di lingua tedesca. In quell’anno
l’ascesa dello sconosciuto Achille Starace a segretario del
partito ingessa la Penisola in un rituale di gesti e di slogan.
Con il falso richiamo alla romanità dovrebbero cancellare il
passato borghese e conferire un’aura marziale, si risolvono,
viceversa, in una grottesca recita. Niente più stretta di
mano, il saluto avviene col braccio piegato a ombrello e il
palmo aperto; sparisce il ‘lei’ nella conversazione, sostituito
dall’antiquato ‘voi’, usato al tempo di Dante e resistente in
alcune regioni del Meridione. L’inesauribile fantasia di
Starace conia slogan a getto continuo per convincere gli
italiani che Mussolini è unico, insostituibile e ha sempre
ragione. Il risultato finale è la macchiettizzazione del
fascismo e del suo duce. Impastoiato in una bolsa retorica, il
movimento perde lo slancio e la voglia di fare che l’hanno
inizialmente caratterizzato.
Nei nuovi uffici di Palazzo Venezia la luce del suo studio
(la sala del Mappamondo) resta accesa notte e giorno, pure
quando Mussolini è altrove: gli italiani devono convincersi
che il Duce, da scrivere in maiuscolo come il Re, è
continuamente all’opera per il loro bene. Insomma, siamo
già alla burla, ma il pignolesco controllo di ogni settore
dell’informazione, la feroce vigilanza della polizia e dell’Ovra
impediscono di scoprire il grossolano bluff, sul quale si
reggono le istituzioni. Anzi, come non credere all’importanza
e al peso internazionale che il ‘Ducione’, lo chiamano ormai
così nella cerchia crescente degli adulatori, assegna a se
stesso e all’Italia se il Fu¨hrer appena acclamato dalla
Germania, Adolf Hitler, giunge in pellegrinaggio a Venezia
nel giugno del 1934 per incontrarlo? Mussolini, per altro, si
dimostra un maestro nel catturare il consenso popolare.
Intuisce l’importanza dello sport, trasformatosi da
passatempo di pochi in passione generale: gli azzurri
protagonisti nelle Olimpiadi di Los Angeles del 1932, Binda
mattatore nel ciclismo, la nazionale di calcio bicampione del
mondo nel 1934 e nel 1938 sono arruolati fra i testimoni del
regime. L’orgoglio nazionale è solleticato anche con le
trasvolate oceaniche delle squadriglie di Italo Balbo – la cui
popolarità infastidisce il duce – e con il record della
traversata atlantica stabilito dal Rex. Da profondo
conoscitore dei propri connazionali, Mussolini ne lusinga le
piccole vanità accordando pennacchi a iosa: da capo-
manipolo a capo-fabbricato chiunque può soddisfare la
voglia di un riconoscimento. È l’Italia in cui si dice che i treni
viaggiano in orario, e non è vero; è l’Italia in cui si dice che
si dorme con le porte aperte perché la delinquenza è stata
debellata, e neppure questo è vero. Di vero c’è soltanto che
la mafia è finita nell’angolo, ma non perché la repressione
del prefetto Mori, promosso e trasferito pochi giorni prima
che arrestasse il federale di Palermo, l’abbia piegata, bensì
per la mancanza di democrazia. In una dittatura priva di
libere elezioni, il principale strumento di Cosa Nostra, il
controllo dei voti, non è sfruttabile.
Nell’estate del 1934 quattro divisioni italiane sul confine
nordorientale dissuadono Hitler dall’annettersi l’Austria,
dopo l’assassinio del cancelliere Dollfuss nel corso di un
colpo di mano dei nazisti viennesi. Ma Mussolini ha chiaro
che è soltanto questione di tempo: la Germania ha avviato il
riarmo. L’ultima occasione per strappare il duce
dall’abbraccio con il Fu¨hrer viene persa da Francia e
Inghilterra con la guerra d’Etiopia. Mussolini la scatena per
trovare un sollievo all’economia ancora sofferente della crisi
del ’29. Neppure l’istituzione dell’Iri in soccorso delle
aziende in crisi ha rilanciato la grande industria: l’Italia
rimane un paese di agricoltori e di allevatori. Di
conseguenza che cosa meglio degli sconfinati altipiani
africani per sfruttarne l’operosità? Francia e Inghilterra
guidano a Ginevra la decisa opposizione della Società delle
nazioni (la mamma dell’Onu) all’avventura coloniale di
Mussolini. Sono varate le sanzioni, che la propaganda
fascista definisce inique. Il loro effetto concreto è limitato, in
compenso consentono al regime di chiamare il popolo a
raccolta: la ‘giornata della fede’, in cui tutte le mogli donano
alla patria la vera nuziale, assume il tono di un
pronunciamento corale contro lo straniero affossatore.
Nonostante l’inconsistenza delle truppe del negus Hailé
Selassié, il poderoso esercito italiano stenta a raggiungere
Addis Abeba. La sostituzione del mediocrissimo generale
Emilio De Bono, il prototipo del fascista perfetto, con un
militare di carriera come Badoglio e l’impiego di gas venefici
portano al felice esito dell’invasione. La sera in cui Vittorio
Emanuele III è nominato imperatore d’Etiopia tutti gli
italiani, anche i pochi antifascisti, sono nelle strade a
festeggiare. Nessuno si sottrae alla facile e ingannevole
suggestione di Roma tornata a essere caput mundi,
malgrado si tratti di un ‘piccolo mondo antico’. Le
vicissitudini diplomatiche della guerra etiopica hanno
avvicinato Italia e Germania. I legami si fanno ancor più
stringenti con l’aiuto che entrambe forniscono a un generale
spagnolo, Francisco Franco, impegnato a sovvertire in
Spagna il legittimo governo delle sinistre, vincitrici delle
elezioni e al cui sostegno muovono Francia e Unione
Sovietica. È la prova generale di una guerra, che tutti
avvertono nell’aria.

Tutti gli italiani, anche i pochi antifascisti, sono nelle strade a


festeggiare. Nessuno si sottrae alla facile e ingannevole suggestione di
Roma tornata a essere caput mundi.

Assecondato dalla sua natura romagnola, Mussolini


strafà. Agli aerei aggiunge un nutrito corpo di spedizione,
cinquantamila uomini al comando del generale Roatta. Nella
primavera del 1937 nei pressi di Guadalajara i soldati di
Roatta si fronteggiano con i volontari italiani del battaglione
Garibaldi. Sono fuoriusciti dei movimenti di sinistra accorsi
in Spagna nelle brigate internazionali, formatesi con il
concorso di quanti in Europa e in America hanno a cuore la
libertà e la democrazia. S’incontrano celebri personaggi e
anonimi individui. Un appassionato corrispondente di
giornali statunitensi è Ernest Hemingway: gli scenari della
guerra civile saranno il fondale del romanzo, che gli darà
fama immortale, Per chi suona la campana. Nel battaglione
Garibaldi militano alcuni futuri protagonisti della politica:
Pietro Nenni, Randolfo Pacciardi, Leo Valiani, Luigi Longo. In
Spagna giunge anche un comunista italiano da molti anni
trasferitosi a Mosca, al servizio di Stalin, Palmiro Togliatti.
Con la morte di Gramsci (i suoi stessi compagni si sono
mostrati molto tiepidi nel chiederne l’uscita dal carcere),
Togliatti si è liberato di un pericoloso rivale: ha così assunto
la guida del partito facendone un docile strumento degli
intrighi di Stalin. Tra Madrid e Barcellona, con lo pseudonimo
di Ercole Ercoli, Togliatti è il gelido esecutore degli ordini
sovietici: a volte la soppressione dei socialisti, degli
anarchici, dei comunisti dissidenti sembra interessare più di
quella dei franchisti.
Tra i massimi finanziatori e promotori del volontariato
antifascista in Spagna emergono due fratelli toscani, Carlo e
Nello Rosselli. Nel giugno del 1937 sono assassinati in
Francia, dove vivono, da estremisti locali al soldo di
Mussolini e del suo ministro degli Esteri nonché genero,
Galeazzo Ciano. Qualche mese dopo, il duce conia in un
discorso il termine ‘Asse’: indica il rapporto preferenziale
con la Germania, di cui comincia ad ammirare e a temere la
poderosa macchina bellica. La conseguenza di tale intesa è
nel marzo 1938 l’annessione dell’Austria al Terzo Reich (il
primo fu il Sacro Romano Impero medievale, il secondo la
Germania riunificata da Bismarck). Per Hitler è soltanto
l’inizio. Con la scusa di fantomatiche persecuzioni subite dai
tedeschi nei Sudeti, regione della Cecoslovacchia, il Fu¨hrer
accampa ulteriori pretese territoriali. Sulla carta Francia e
Inghilterra si frappongono, ma il Primo ministro britannico
Chamberlain, antico estimatore di Mussolini, corre da Hitler.
Andato male il colloquio, si giunge all’incontro di Monaco. Il
ruolo di primattore spetta a Mussolini: funge da
intermediario fra Hitler e l’accoppiata Chamberlain-Daladier,
presidente del consiglio francese. In realtà i due si
prosternano al Fu¨hrer concedendogli i Sudeti alle spalle
della Cecoslovacchia, neppure informata dell’accordo
raggiunto. Sbarcando dall’aereo a Londra, Chamberlain
agita l’inutile pezzo di carta del trattato: secondo lui
dovrebbe garantire « pace per il nostro tempo ».
Mussolini è circondato dall’aureola dello statista, ma è
succube del vecchio ammiratore, lo copia negli
atteggiamenti più ributtanti. Sull’esempio del dilagante
antisemitismo germanico, l’Italia adotta, alla fine del 1938,
le odiose leggi razziali. Gli ebrei sono circa cinquantamila,
molti inseriti nella media e alta borghesia, alcuni aderenti fin
dalla prima ora al fascismo: dall’oggi al domani sono esclusi
dagli incarichi pubblici, vengono privati di molti diritti,
costretti a cedere i propri beni per due soldi. Pochissime le
voci contrarie – tra queste Pio XI – al provvedimento; il resto
del Paese si adegua, come si è sempre adeguato: soltanto
undici professori universitari rinunziano alla cattedra pur di
non prendere la tessera fascista, divenuta obbligatoria dal
1932 nella pubblica amministrazione. Le conseguenze delle
leggi razziali sono catastrofiche per la cultura, per la
scienza, per la medicina, per l’economia. Emigrano fior
d’intelligenze. Si trasferisce negli Stati Uniti il fisico Enrico
Fermi, a capo di un avanzatissimo gruppo di ricerca,
conosciuto con il nome di ‘ragazzi di via Panisperna’ (dalla
via in cui è situato il laboratorio). Hanno già ottenuto
lusinghieri successi negli studi sulla scissione dell’atomo,
purtroppo una gran parte va all’estero: Pontecorvo, Amaldi,
Segre. Sparisce il più indecifrabile della brigata, Ettore
Majorana: l’enigma della sua fine intrigherà per parecchi
decenni a venire. Nel 1942 gli esperimenti condotti in via
Panisperna permetteranno a Fermi di giungere alla
produzione di energia nucleare e alla preparazione della
bomba atomica nel deserto californiano di Los Alamos.
L’appetito di Hitler è insaziabile. La Cecoslovacchia viene
inglobata nel marzo del 1939, Mussolini per tenergli testa fa
occupare l’imbelle Albania. Vittorio Emanuele aggiunge
un’altra desolata pietraia al suo impero di stracci. Persino i
lontani Stati Uniti, finora beati nel loro inattaccabile
isolazionismo, si preoccupano per la polveriera Europa. La
miccia l’accendono i ministri degli Esteri di Germania (von
Ribbentrop) e Unione Sovietica (Molotov): siglano un patto
per l’imminente spartizione della Polonia, già nel mirino
delle armate tedesche. Al di là del motivo contingente, è
l’accordo tra due dittature speculari, soprattutto nell’orrore.
Al genocidio di classe attuato da Stalin nei confronti dei
possidenti corrisponde il genocidio razziale nei confronti
degli ebrei avviato a metà degli anni Trenta da Hitler. Ai
gulag dell’uno corrispondono i lager dell’altro. A essere colti
alla sprovvista da quest’attrazione di mondi solo in
apparenza differenti sono i fascisti e i comunisti italiani, che
dell’odio reciproco hanno fatto un motivo di vita e di
propaganda.
Il 1º settembre l’esercito tedesco (la Wehrmacht) irrompe
in Polonia, la doma in poche settimane. Stavolta però
Francia e Inghilterra non subiscono. È la guerra. Per mesi
ristagna. Mussolini sta a guardare: dà corda agli inglesi,
chiede la collaborazione di Hitler per risolvere l’annoso
problema della minoranza tedesca in Alto Adige. I suoi
indugi cessano nella primavera del 1940, davanti alla
travolgente offensiva germanica: cadono la Norvegia,
l’Olanda, il Belgio, l’esercito transalpino scompaginato, il
corpo di spedizione britannico in fuga verso la spiaggia di
Dunkerque per imbarcarsi verso casa. Dal 10 maggio al 14
giugno viene tritata ogni resistenza. Hitler sfila sotto l’Arco
di trionfo a Parigi. Convinto che gli anglo-francesi siano sul
punto di cedere e che l’Europa sarà un immenso
protettorato tedesco, Mussolini si affretta a entrare in guerra
per sedere da vincitore al tavolo della pace. Spiega le sue
intenzioni con la frase più cinica del ’900: « Ho bisogno di
qualche migliaio di morti ». L’Italia si avventa sulla
moribonda Francia: a malapena riesce ad acchiappare
Mentone. Il 24 giugno con l’armistizio di Roma la nostra
guerra è già finita.
Cioè lo sarebbe se Mussolini, all’inseguimento di un
successo eclatante che lo metta in pari con quelli colti da
Hitler, non scatenasse una scriteriata offensiva in Africa e
non ordinasse l’invasione della Grecia, il cui capo del
governo, il generale Metaxas, è addirittura un suo fan. I
poveri soldati in grigioverde mancano di tutto, sono
attrezzati come ai tempi dell’altra guerra, hanno armi
individuali antiquate, sono privi dei fondamentali carri
armati e senza una valida copertura aerea. A trarci
d’impaccio in Grecia e in Africa arrivano le divisioni della
Wehrmacht. Ma abbiamo perso l’Etiopia: dopo un’eroica
resistenza sull’Amba Alagi, una montagna che non ci porta
bene, il viceré Amedeo d’Aosta si è arreso. L’Afrika Korps di
Rommel punta sull’Egitto, noi arranchiamo, a piedi, al suo
seguito. Sul Continente soltanto l’Inghilterra arroccata dietro
le bianche scogliere di Dover resiste alle zampate di Hitler.
Scottato dalla sconfitta subita dai suoi apparecchi nei cieli
della Manica, il Fu¨hrer rinvia i piani d’invasione e si dedica
a quella dell’Unione Sovietica. Scatta il 22 giugno del 1941:
Mussolini implora di potervi partecipare con immane e
inutile sacrificio di uomini e mezzi.
All’apparenza l’anno si chiude con la Germania ancora
capace di scatenare offensive su ogni fronte, ma al di là
dell’Atlantico si è messo in movimento il gigante. Attaccati a
tradimento dal Giappone, la cui aviazione ha distrutto il 7
dicembre a Pearl Harbor la flotta del Pacifico, gli Stati Uniti
sono entrati nel conflitto. Avendo prolungato l’Asse fino a
Tokio, Roma e Berlino hanno dichiarato guerra all’America.
Tuttavia confidano che essa non interverrà immediatamente
in Europa, intenta com’è a contenere l’aggressione
nipponica. Sono conti sbagliati. La primavera e l’estate del
1942 regalano a Hitler e Mussolini le ultime illusioni:
riprende l’avanzata in Unione Sovietica, la sagacia tattica di
Rommel permette al contingente italo-tedesco di espugnare
Tobruk e di giungere a circa cento chilometri da Alessandria
d’Egitto. Quattro mesi più tardi l’armata britannica del
generale Montgomery sfonda a el-Alamein. È l’inizio della
fine. In novembre i primi reparti dei marine entrano con gli
inglesi in Marocco e in Algeria, i resti dell’Afrika Korps si
ritirano in Tunisia, la qual cosa significa l’abbandono italiano
della Libia.
Contemporaneamente la trappola di Stalingrado si
chiude sulla VI armata di Paulus e sui sogni di Hitler di
accedere al petrolio e al grano sovietici. Stalin ha colto di
sorpresa l’Alto Comando di Berlino rovesciando sul fronte
del Don le armate siberiane e uzbeche equipaggiate con
autocarri statunitensi. Le tre divisioni degli alpini (Julia,
Cuneense e Tridentina) si sottraggono all’accerchiamento
con un’avanzata di undici giorni nella neve, costrette a
continui e aspri combattimenti a quaranta gradi sotto zero.
Da Casablanca il primo ministro inglese Churchill e il
presidente statunitense Roosevelt rivolgendosi alle nazioni
dell’Asse parlano per la prima volta di resa incondizionata.
Con la caduta della Tunisia, maggio 1943, l’esercito italiano
è in ginocchio al pari del Paese, esausto da tre anni di
guerra, alla quale era preparato soltanto nei tronfi proclami
del duce e dei suoi gerarchi. Lo sbarco alleato in Sicilia, 10
luglio 1943, produce il crollo del fronte interno. Gli anglo-
americani vengono accolti a guisa di liberatori come tutti i
conquistatori che li hanno preceduti. Nella riunione del 24
luglio il Gran consiglio vota a maggioranza un ordine del
giorno che sfiducia Mussolini. È la cancellazione del
fascismo. L’hanno preceduta abboccamenti e accordi
sotterranei, in cui sono stati coinvolti i vertici dell’esercito e
l’irresoluto Vittorio Emanuele III. Sono tra i principali
responsabili della catastrofe, hanno coperto per vent’anni il
regime in cambio di lauti appannaggi, di cariche, di privilegi,
ma ora cercano di salvare dignità e patrimoni con
l’immancabile voltafaccia. Il 25 luglio non si trova un
fascista neanche a cercarlo tra le camicie nere, i fedelissimi
dell’ex regime.
Il 3 settembre a Cassibile viene firmato l’armistizio, per il
quale è stato scelto il generale Castellano. È uno dei
pochissimi a parlare l’inglese, ma soprattutto è un influente
membro della massoneria internazionale. L’annuncio
ufficiale dell’8 coglie di sorpresa più i generali, gli ufficiali e i
soldati italiani che i tedeschi. A Berlino hanno captato i
segnali dello sganciamento e preparato un piano segreto
per il disarmo forzoso dei nostri reparti. Il re, il nuovo capo
del governo, Badoglio, che da Mussolini aveva spremuto
miliardi e dal sovrano titoli nobiliari, i vertici dello Stato e
dell’esercito hanno in testa una sola cosa: mettersi al sicuro,
correre dagli Alleati, avanzanti in Meridione, a raccattare il
riconoscimento del proprio ruolo. Rinunciano alla difesa di
Roma, consegnano intere armate alla furia germanica. Il 10
settembre, mentre i vigliacchi d’alto bordo approdano con la
corvetta Baionetta a Brindisi, militari di ogni grado vengono
avviati verso i campi di prigionia tedeschi. Una sola
divisione respinge l’ultimatum della Wehrmacht ad
arrendersi e imbraccia le armi, la Acqui di stanza a Cefalonia
e a Corfù. Paga la sua fedeltà alla patria con uno sterminio
(oltre diecimila caduti, quasi seimila fucilati dopo la resa) e
con cinquant’anni di silenzio.
L’Italia è spaccata in due. Miseria e disperazione sono
identiche dappertutto, ma nel Regno del Sud comincia un
lento ritorno alla normalità sotto il patronato degli
angloamericani. Rinascono i partiti, si riaffacciano i vecchi
rappresentanti del parlamentarismo come il filosofo
napoletano Benedetto Croce, rifiorisce la democrazia al
riparo dai rastrellamenti e dai bombardamenti, che, invece,
angosciano le regioni da Roma in su, sotto il tacco nazista.
Mussolini accetta di diventare uno strumento di Hitler, il
quale l’ha fatto liberare dalla prigionia: fonda la Repubblica
sociale italiana, un simulacro di amministrazione, uno Stato-
fantoccio a disposizione dell’occupante per coadiuvarlo nel
saccheggio del poco rimasto. La Repubblica di Salò, il
paesino sul Garda che ne diviene la spettrale capitale,
arruola un esercito di volontari, le brigate nere, il cui unico
compito è di collaborare con i tedeschi nella repressione
delle forze partigiane formatesi già nel tardo autunno del
1943. Divampa la guerra civile: dura un anno e mezzo, fa da
appendice alla lenta progressione degli Alleati, ormai presi
dall’apertura di un secondo fronte in Europa con lo sbarco in
Francia.
Roma viene liberata il 4 giugno 1944. Quarantott’ore
dopo 287.000 soldati alleati, 10.000 aerei e centinaia di
navi, partiti dall’Inghilterra, assaltano le spiagge della
Normandia, sfondano il vallo atlantico con cui Hitler sperava
di bloccare l’annunciata invasione. Dopo quasi undici mesi,
il 25 aprile 1945 l’ingresso a Milano dei partigiani annuncia
la fine della guerra in Italia. Tre giorni dopo sono fucilati
Mussolini e la sua amante, Claretta Petacci. Li hanno
riconosciuti a Dongo mentre assieme ad altri gerarchi
tentavano di raggiungere la Svizzera intruppati in una
colonna della Wehrmacht. Il duce e la Petacci sono
sopravvissuti di qualche ora ai loro compagni, giustiziati sul
lungolago, perché i partigiani dai quali sono stati catturati
hanno aspettato ordini dal comando del Clnai (Comitato di
liberazione nazionale per l’alta Italia). Preoccupata che
Londra e Washington potessero sottrarre Mussolini alla
condanna capitale, la componente comunista del Comitato
ha mosso i suoi uomini per evitare le lungaggini e le insidie
del processo. Dopo quasi sessant’anni, sulla fucilazione, sui
mandanti, sugli esecutori aleggia ancora un alone di
mistero. I cadaveri di Mussolini, della Petacci, degli altri
gerarchi fucilati vengono portati a Milano, esposti al
pubblico ludibrio in piazzale Loreto, sede un anno prima di
una esecuzione di partigiani. Non c’è posto per alcuna pietà
umana, i milanesi danno sfogo a una furia selvaggia.
Avrebbero la giustificazione che quella bestialità
rappresenta in ogni caso una minima parte della bestialità
inflitta dal duce con una guerra ingiusta e insensata, ma
quanti di loro non sono scesi in strada a festeggiare la
proclamazione dell’Impero? Quanti di loro non sono stati i
volenterosi collaboratori di una dittatura da pagliacci, la
quale, pur essendo più ottusa che spietata, ha offeso ogni
norma del vivere civile, oltre che dell’intelligenza?
La popolazione e il Paese sono a pezzi. Non c’è famiglia
che non abbia avuto almeno un morto. Le rappresaglie
germaniche sono state sanguinarie: le stragi di civili inermi
perpetrate alle Fosse Ardeatine, a Marzabotto, a Sant’Anna
di Stazzema, alla Risiera di San Saba sono altrettante
stazioni di una via crucis del dolore. La Penisola è presidiata
dalla V armata americana e dall’VIII inglese. Trieste, Zara,
l’Istria sono occupate dalle forze comuniste di Tito, il capo
della resistenza jugoslava assurto ai vertici della neonata
repubblica. Migliaia di cittadini vengono scaraventati nelle
foibe (crepacci) carsiche sol perché italiani e, dunque,
sospettati di preferire l’Italia alla Jugoslavia. Rientrando
dall’Unione Sovietica, Togliatti ha eseguito la disposizione
impartitagli da Stalin di collaborare con Badoglio e con la
monarchia. La divisione ideologica è, però,
pronunciatissima. I contrasti, già esplosi durante la guerra
partigiana allorché le formazioni rosse hanno annientato
bande anticomuniste, s’ispessiscono in vista delle elezioni.
Prima, tuttavia, bisogna stabilire se l’Italia sarà guidata da
un sovrano o da un presidente. Il 2 giugno 1946 dodici
milioni votano per la repubblica, dieci per la monarchia.
Umberto II, re da meno di un mese in seguito all’abdicazione
del padre, è costretto all’esilio. Enrico De Nicola è nominato
capo provvisorio dello Stato in attesa che i circa 550 eletti
alla Costituente elaborino la Magna Charta. Nasce la
Costituzione. L’influenzano la massiccia presenza di cattolici
e di comunisti – estranei al Risorgimento e all’Italia, che ne
era venuta fuori, quando non dichiaratamente ostili – e la
bruciante esperienza del fascismo, che si traduce in un
Parlamento fortissimo a tutto scapito di un esecutivo
balbettante.
La scelta di De Nicola, uno di coloro che avevano figurato
nel listone mussoliniano, è paradigmatica della scarsa voglia
di misurarsi con il passato. A mettere una pietra tombale
sulle liste di proscrizione provvede, da ministro della
Giustizia, lo stesso Togliatti. Chi è sfuggito alla giustizia
sommaria dei primi mesi di pace, terribili in Lombardia,
Toscana ed Emilia Romagna, non avrà più problemi.
D’altronde la guerra fredda (la fortissima contrapposizione
tra le democrazie occidentali e il blocco comunista) non
consente di guardare al passato. Nella conferenza tenuta a
Yalta nel 1944 l’Europa è stata divisa da Roosevelt, Stalin e
Churchill in sfere d’influenza, che saranno anche
contraddistinte da due diverse alleanze militari: la Nato
capeggiata dagli Usa, il Patto di Varsavia capeggiato
dall’Urss. L’Italia appartiene all’area occidentale, ma le
prime elezioni generali, in cui anche le donne sono chiamate
a votare, assumono l’aspetto di un’ordalia. Gli Stati Uniti
riversano ingenti aiuti, sfamano milioni d’italiani. Dall’altra
parte Togliatti, su ordine di Stalin, briga per cedere Gorizia o
Trieste alla Jugoslavia. Il timore di vedere i cosacchi
abbeverare i cavalli in piazza San Pietro è incombente su
gran parte dei cittadini. I comitati civici ispirati da Pio XII
(cardinale Eugenio Pacelli) parlano non a torto di lotta per la
salvaguardia della civiltà occidentale. Il 18 aprile 1948 la
straordinaria affermazione della Democrazia cristiana
(rifondata nel 1944 sulle ceneri del vecchio Partito popolare
di don Sturzo) è figlia di quest’ossessione. La sconfitta dei
comunisti italiani e quindi dei loro padroni sovietici àncora il
Belpaese al sistema delle grandi democrazie.
La nostra rimane comunque imperfetta. La presenza del
Pci, il più forte partito comunista in un sistema
parlamentare, blocca ogni ipotesi d’alternanza. La loro
conquista del potere viene osteggiata in tutti i modi ed essi
non perdono occasione di ripetere che la loro casa madre è
Mosca. I legami che dapprima gli Alleati, per invadere la
Sicilia, e poi i partiti di governo, per essere appoggiati
elettoralmente, stringono con la mafia inquinano molti
settori dell’amministrazione pubblica. Con la corsa agli
armamenti si vive nel terrore di una terza guerra, che
sarebbe nucleare e perciò devastante, eppure la ripresa è
stupefacente. Allo sviluppo dell’industria pesante si
accoppia un impressionante piano di opere pubbliche con
qualche autostrada di troppo, quale pedaggio allo strapotere
decisionale della Fiat. L’inventiva e la capacità d’arrangiarsi
producono fenomeni da esportazione: i film di Rossellini e
De Sica, le vetture di Enzo Ferrari, le vittorie di Bartali e
Coppi diventano la migliore pubblicità della nuova Italia.
Anzi proprio una magnifica affermazione di Bartali al Tour de
France contribuisce nel luglio del 1948 a distrarre
un’opinione pubblica invelenita da un bislacco attentato ai
danni di Togliatti.
Il Paese è retto da una serie infinita di governi del
Centrodestra (Dc, liberali, repubblicani, socialdemocratici).
Fino al 1953 li guida Alcide De Gasperi, un trentino deputato
in gioventù nel Parlamento di Vienna. È uno dei pochissimi
non coinvolto con il fascismo, capace di opporre un altissimo
senso dello Stato alle ingerenze della Chiesa e di Pio XII, il
papa dei troppi silenzi durante il nazismo e l’olocausto. De
Gasperi è il miglior governante del dopoguerra, il prototipo
di una razza estinta, lo statista in grado di bilanciare la
mano pubblica con l’iniziativa privata. La Dc non sa trovargli
un degno sostituto. Dal 1954 il partito si affida alla
generazione dei giovani professori universitari, Fanfani e
Moro, chiamati a guidare un periodo di delicata transizione.
A livello internazionale piovono i successi del reintegro di
Trieste (1954) e della nascita del Mercato comune (1957), il
papà dell’Europa unita. A livello interno sfugge di mano la
fortissima emigrazione dal Sud verso la Torino della Fiat e la
Milano della Pirelli, dell’Alfa Romeo. Eppure è il miracolo
economico. A esso si accoppia una straordinaria stagione
poetica: i versi e le rime di Saba, Ungaretti, Montale,
Quasimodo conquistano un’attenzione mondiale e gli ultimi
due conquistano anche il Nobel per la letteratura.
L’ingegnere e architetto Pier Luigi Nervi costruisce il
grattacielo Pirelli. Milano spera di trasformarsi in una New
York europea.
Le Olimpiadi di Roma nel 1960 sono l’esame di laurea del
Paese. Grazie alla televisione, introdotta nel 1954, il mondo
intero può ammirare la strabiliante rinascita effettuata in
soli quindici anni. Ma quell’avvenimento, coincidente con il
film simbolo dell’epoca, La dolce vita di Federico Fellini,
rappresenta anche il passo d’addio. Cambiano la politica e
la società. Moro persuade i democristiani ad aprire ai
socialisti per emanciparli dai comunisti. I partiti pesano ogni
giorno di più attraverso le nazionalizzazioni, che portano lo
Stato a interessarsi di tutto: dall’energia elettrica ai
pomodori pelati, dalla costruzione dei transatlantici alla
lievitazione dei panettoni. Si diffonde la pratica della
tangente, della corruzione, di cui l’aeroporto romano di
Fiumicino effigia il degno esordio. È con queste vicende che
la massoneria, erede soltanto nominale di quella che
innervò il Risorgimento, stende la sua tela di ragno sul
tessuto connettivo del Paese. Vi restano felicemente
impigliati anche alcuni rappresentanti di forze che
l’avversano con ogni mezzo: deputati e senatori comunisti,
alti prelati della curia romana.
Il miracolo economico.

Le diverse crisi internazionali arroventano il clima


interno. Fin dalla guerra di Corea nel 1950 (sul campo si
affrontano statunitensi e cinesi), il Paese è stato teatro di
scontri tra comunisti e anticomunisti. Neppure la
repressione sovietica della rivolta in Ungheria nel 1956 ha
scalfito la certezza dei sinistrorsi di essere gli unici profeti
del giusto e del vero. Con gli anni la loro propaganda cattura
settori sempre più rilevanti dell’opinione pubblica,
l’appartenenza al variegato pianeta Pci diventa il nullaosta
per molte investiture. Matura tra i giovani il convincimento
che la classe dirigente abbia tradito aspettative e progetti,
che il sistema parlamentare sia un colossale inganno a
danno dei più deboli. La Chiesa subisce un profondo
rivolgimento a opera di un papa, Giovanni XXIII (cardinale
Angelo Roncalli), scelto per essere di transizione. Cinque
anni di pontificato gli bastano invece per aprire un dialogo
con chiunque abbia voglia di ascoltarlo e per convocare il
Concilio Vaticano II, che dovrà disegnare il cattolicesimo di
fine millennio. Questi inaspettati cambiamenti nella Chiesa
riflettono quelli in atto nelle società occidentali. L’aspra
contestazione nelle università americane con l’incrudelirsi
dell’intervento statunitense in Vietnam, le continue proteste
dei sindacati inducono a credere che l’Italia sia a un passo
dalla rivoluzione o dalla svolta autoritaria per impedire la
rivoluzione, che poi sarebbe l’impossibile conquista del
potere da parte del Pci.
Tra colpi di Stato veri e presunti (da quello del generale
De Lorenzo nel 1964 a quello dell’ex comandante della X
Mas, Borghese, nel 1970), in mezzo a esaltati persuasi che il
Messia si sia reincarnato nel segretario del Partito comunista
cinese, Mao Tse-tung, e che uno sconclusionato libretto
rosso, che contiene i suoi pensieri, abbia poteri
taumaturgici, l’azienda Italia fila verso la bancarotta. I tanti
governi di centro-sinistra (democristiani, socialisti,
socialdemocratici, repubblicani) sono la passerella di politici
incapaci, spesso corrotti. L’attentato milanese di Piazza
Fontana nel 1969 – salta per aria una filiale della Banca
dell’Agricoltura, sedici morti, decine di feriti – annuncia una
stagione di stragi, di esplosioni dinamitarde, di morti
sospette. Vi sono coinvolti gruppi dell’estrema destra e
fazioni dei servizi segreti, collegati con gli ambienti più
retrivi e decisi a tutto dei servizi segreti statunitensi.
L’invasione di Praga da parte dei carri armati sovietici
nell’estate del ’68, la brutale soppressione di un governo
comunista, che tenta di battere vie meno settarie e
intolleranti, diventano l’alibi di quanti inseguono soluzioni
autoritarie. Con l’intento di evitare i misfatti del comunismo,
se ne commettono di eguali sulla pelle dei cittadini indifesi.
Per reazione, nell’ala estremista del Pci cresce la voglia della
soluzione di piazza, prende corpo un antico fantasma della
propaganda rivoluzionaria: l’avanguardia armata, cui
seguirà il popolo festante.
Il terrorismo delle Brigate rosse apre un buco nero in cui
il Paese rischia di sprofondare. Nella culla del trasformismo
non sono pochi quelli che fanno l’occhiolino alle Br.
Fioriscono maestrini del pensierino pronti a volgere i loro
contorti cervelli in direzione del vento. Nel marzo 1978
viene messo a segno il colpo più impensabile: il rapimento
di Aldo Moro con l’uccisione dei cinque poliziotti di scorta.
Da presidente della Dc, Moro ha tessuto la tela per il
coinvolgimento dei comunisti nell’area del governo e ora il
suo sequestro mette a dura prova la resistenza di
Parlamento e governo. La controversa e contrastata
decisione di non trattare segna il punto di non ritorno.
L’uccisione di Moro spinge i comunisti di Enrico Berlinguer
ad appoggiare dall’esterno il gabinetto di Giulio Andreotti,
un democristiano buono per tutte le stagioni, un primatista
di durata nelle democrazie parlamentari, sette volte capo
del governo, innumerevoli volte ministro. Berlinguer ha il
merito di allentare la dipendenza da Mosca, di sposare la
linea legalitaria. La conversione del Pci, l’apertura
dell’album di famiglia permettono un’adeguata reazione
dello Stato. In pochissimi anni il terrorismo viene debellato.
La sua fine premia paradossalmente il personaggio che più
si era battuto per una trattativa, il socialista Bettino Craxi. Il
suo partito vanta circa il 12% dei consensi elettorali,
tuttavia in cinque anni ottiene la presidenza della
Repubblica con Pertini, antifascista e demagogo di razza,
l’incarico di presidente del consiglio per lui.
Si vive una stagione di spensierata irragionevolezza. I
risultati migliori provengono dalla spiccata propensione al
bello, all’effimero, al ludo che ci caratterizza dall’antichità.
Sarti e artigiani invadono i mercati con i loro prodotti, si
conquistano l’etichetta di stilisti: un talentuoso autodidatta
di Piacenza, Giorgio Armani, riempie con la sua faccia e le
sue giacche le copertine e le vetrine di tutto il mondo. È un
Rinascimento piccolo piccolo, nel quale, però, matura un
movimento artistico di respiro mondiale, la
Transavanguardia innervata da alcuni giovani pittori, Cucchi,
Paladino, Clemente, Chia, De Maria. È l’ennesima
dimostrazione che nell’arte continuiamo a essere l’ombelico
del Pianeta. Ma gli italiani impazziscono per il titolo
mondiale colto a Madrid dalla nazionale di calcio nel 1982.
Sono abbellimenti di una realtà ben differente. Il Paese sta
scontando le conseguenze della crisi energetica innescata
dai rialzi del petrolio nel 1973, ma nessuno sembra darsene
conto, mentre le finanze s’inabissano. Trascorrono anni nei
quali il potere d’intimidazione della mafia si tramuta in sfida
alle istituzioni. In Sicilia giungono a scadenza le troppe
cambiali in bianco firmate dai politici della maggioranza e, a
volte, della minoranza. Decine di giudici e poliziotti
soccombono per tenere alto il vessillo di una resistenza
disperata nel nome di uno Stato, che desidera più accordarsi
che combattere.
Gli scandali si susseguono agli scandali, l’inflazione tocca
vette sudamericane, il debito pubblico è una voragine, la
burocrazia asfissia amministratori e amministrati. La
mancanza di valori condivisi facilita l’affermazione di un
papa-guerriero qual è Giovanni Paolo II, il cardinale polacco
Karol Wojtyla. È il profeta di un cattolicesimo, che al dialogo
preferisce il confronto duro nella certezza di essere dalla
parte della ragione, pure quando non lo è. Il pontefice
affronta a petto in fuori le più scottanti questioni della fine
secolo. La sua missione incessante lo tramuta in obiettivo di
svariati attentati, nei quali si uniscono settori estremi del
cristianesimo, dell’islamismo, della massoneria. Mediante la
sua carismatica figura, il Vaticano cerca di orientare scelte
che non gli competono: la mediocrità e la codardia di tanti
governanti cancellano quel precetto di ‘libera Chiesa in
libero Stato’, che dovrebbe essere uno dei cardini sui quali
poggia il nostro ordinamento. La Repubblica mostra i suoi
aspetti peggiori: la mancanza del principio di responsabilità
(è più importante perdonare che accertare i fatti), la
propensione a non perdere piuttosto che a vincere (non per
niente lo sport più popolare, il calcio, prevede il pareggio e
su di esso sono incentrati gli accordi sottobanco), l’eterna
confusione dei ruoli fra istituzioni, sindacati, confindustria
(ognuno è più propenso a svolgere la parte dell’altro
piuttosto che la propria). In conclusione: non si sceglie mai
la soluzione migliore, che naturalmente è la più scomoda e
scontenta qualcuno, ma quella che in teoria accontenta un
po’ tutti e che nella pratica tradisce gli interessi della
collettività.
A scatenare la valanga è un innocuo sassolino:
l’ennesimo socialista arrestato con le mani nel sacco dà il
via a una gigantesca operazione giudiziaria. La
magistratura, fin lì sonnecchiante se non complice, trova
una sorprendente voglia di pulizia. In un anno e mezzo
d’inchieste e di mandati di cattura è distrutta l’asse di
governo, sono spazzati via la Democrazia cristiana, il Partito
socialista, la cosca mafiosa, i corleonesi, da cui sono stati
appoggiati: il crollo del comunismo – anticipato dalla caduta
del muro di Berlino (novembre 1989) e concretizzato dalla
dissoluzione dell’Urss (31 dicembre 1991) – li ha resi
superflui nel grande gioco internazionale. Nella sapiente
messinscena con cui il vecchio viene contrabbandato per
nuovo l’Italia corre il rischio della divisione etnica: se ne fa
espressione un singolare partito, la Lega nord, nato per dare
voce a chi vorrebbe proseguire in una trentennale evasione
fiscale, i cui obiettivi appaiono ambigui. Molti temono che la
Penisola possa finire nello stesso tritacarne che sta
sbriciolando la Jugoslavia. Nell’estate del 1993 si registra
l’ennesima stagione delle bombe e dei morti a Roma, a
Firenze, a Milano. Si esaurisce all’improvviso, nello stesso
modo in cui è cominciata, lasciando dietro di sé una serie di
domande senza risposta. Viene appurato che la
manodopera e l’esplosivo sono mafiosi. E la mente?
Con Craxi costretto all’esilio in Tunisia per evitare la
galera e Andreotti processato – sarà assolto – quale
mandante di un omicidio e grande protettore di Cosa
Nostra, il miraggio del cambiamento abbindola quasi tutti.
Orbato dell’Urss, il Pci adotta una veste socialdemocratica,
rinnega gran parte del proprio passato, abbraccia la fede
parlamentare. Il miraggio del cambiamento, dell’approdo a
una democrazia finalmente compiuta porta allo scoperto fin
troppe ambizioni, quasi sempre ingiustificate. Si atteggiano
a protagonisti antichi comprimari, l’anima moderata del
Paese trova il punto di riferimento in Silvio Berlusconi,
proprietario di televisioni, giornali, assicurazioni, banche,
telefonini, centrali elettriche. Entra in politica per difendere i
propri interessi. In pochissimi anni diventa, per sua
ammissione, il più ricco di Europa. Garantisce di essere il
solo in grado di assicurare il benessere generale. Nel 1994
la maggioranza degli italiani gli crede, ma il suo governo
dura pochi mesi: lo mandano all’aria un’indagine giudiziaria
e le liti interne alla composita maggioranza, che va dalla
Lega alla Destra ex fascista di Alleanza nazionale. Due anni
più tardi vince una lista di Centro-sinistra. Per la prima volta
gli antichi comunisti, che adesso si chiamano Democratici di
sinistra, assumono compiti di governo. Non demeritano,
tuttavia i loro comportamenti dimostrano che il problema di
quest’Italia fatta e finita continuano a essere gl’italiani: la
loro incapacità di sentirsi una nazione, anche se abbiamo
imparato a cantare l’inno di Mameli; la loro difficoltà a
conciliare il bene comune con il proprio particolare.
Purtroppo siamo sempre fermi a Guicciardini. Quando
scoccherà l’ora di Machiavelli?
26. Il terzo millennio comincia male

Il 2000 si porta appresso le ansie e i timori di un millennio


che incomincia. Vi entra trionfante Berlusconi: la nuova
alleanza con la Lega, favorisce il successo nelle elezioni del
2001. Il clima di euforia svanisce con i devastanti incidenti
di Genova durante il G8: l’impreparazione di polizia e
carabinieri sconcerta l’opinione pubblica. Le nostre piccole
beghe passano in secondo piano dinanzi all’aggressione
islamica contro gli Stati Uniti. L’abbattimento, in settembre,
delle Torri Gemelle di New York cambia la realtà mondiale.
L’Occidente si trova catapultato in una guerra senza confini.
La nascita della Comunità Europea illude sulla capacità
dell’Italia di tirarsi fuori dall’abituale sistema di tangenti e
corruzione. Nessuno se ne accorge, ma la politica
economica del Paese annaspa. La Fiat rasenta il fallimento.
La morte dei due fratelli Agnelli, a un anno di distanza l’uno
dall’altro, pare quasi un segnale dei tempi che cambiano
nell’incapacità del sistema di fronteggiarli: i conti vengono
affidati a un fiscalista di Sondrio, Giulio Tremonti. Insomma,
non c’è speranza. Persino il gusto del bello pare tramontare.
L’eccezione sono il sempiterno Camilleri con le sue
descrizioni di una Sicilia da cartolina e un coraggioso
giornalista, Roberto Saviano, autore di un fortunatissimo
libro-denuncia, Gomorra, sulla camorra e le complicità di cui
gode. Il successo della nazionale azzurra nel mondiale di
calcio del 2006 costituisce soltanto un intermezzo. Negli
stessi mesi la vittoria di una composita alleanza di centro-
sinistra capeggiata da Prodi peggiora la situazione. Le bizze
di alcuni rappresentanti della Sinistra paralizzano l’attività
del governo e lo conducono a una precoce dipartita. Si vota
di nuovo nel 2008: Berlusconi coglie un trionfo senza
precedenti. Tuttavia i suoi comportamenti privati
sottopongono l’amplissima maggioranza a fibrillazioni d’ogni
tipo. La crisi economica degli Stati Uniti contagia l’Europa,
ma Tremonti spiega agli italiani di stare tranquilli perché lui
ha già provveduto. Non è così.
Ringraziamenti

Questo libro ha parecchi debiti di riconoscenza. Il primo è


nei confronti di Luigi Spagnol, che l’ha suggerito e seguito,
sempre prodigo di consigli e, ahimè, di nuovi testi da
leggere. Il secondo è nei confronti di quei professori
(Manacorda, Mazza, Muscetta, Savoca), che nei lontani anni
dell’università stimolarono con le loro lezioni la voglia di
conoscere, di approfondire. Il terzo è nei confronti degli
autori, che mi hanno fatto compagnia e ai quali devo, oltre
alla curiosità per la Storia, un aneddoto, una riflessione, una
visuale inaspettata. Cito alla rinfusa: Biagi, Mazzarino,
Mommsen, Romeo, Bocca, Mack-Smith, Villari, Geymonat,
Beeching, Croce, Chabod, Romano, Acton, Gombrich,
Omodeo, Salvemini, Cervi, De Felice, Newth, Argan,
Candeloro, Gramsci, Galli Della Loggia, Van Loon, Collura,
Vecce, Malato, Volpe, Duby, Le Goff, Mola, Sciascia. L’ultimo
debito è nei confronti del mio antico direttore, Indro
Montanelli: ci ha insegnato a capire e, spero, a scrivere; ci
ha ripetuto fino alla nausea che in un libro il peccato
mortale non è saltare una data o un nome, ma annoiare un
lettore. Confido di avere imparato qualcosa.
Indice

1. Un altro 2000
2. Si comincia con sette re (forse...)
3. La Repubblica
4. Ahi, i cartaginesi
5. Censori, condottieri e tribuni
6. Un playboy di nome Cesare
7. L’Impero contro Gesù
8. L’adozione dei migliori
9. L’inizio del declino
10. La dissoluzione
11. La provincia Italia
12. L’impero della Chiesa
13. Qui non si fa l’Italia
14. Tra arabi e tedeschi
15. Le vie del mare
16. Si torna a vivere
17. Una lingua invece di una patria
18. Il divino poeta
19. Divisi e contenti
20. Il curioso e il tormentato
21. La Cenerentola d’Europa
22. Da un padrone all’altro
23. Una bandiera, una patria
24. Gli anni difficili
25. La quiete dopo la tempesta
26. Il terzo millennio comincia male
Ringraziamenti
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