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BREVE ANTOLOGIA DI BRANI SCELTI PER AFFRONTARE LO STUDIO DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE In "Addio alle armi", nel

IX capitolo Hemingway parla della decimazione di un reparto di bersaglieri e si accenna ai reparti scelti d'attacco denominati "V.E."(Vittorio Emanuele che dopo Caporetto subiranno la trasformazione in Arditi e avranno la scritta "Fiamme Nere" cucita sulla divisa).

[.....] Chi attaccher? chiese Gavuzzi. Bersaglieri. Tutti bersaglieri? Credo di s. Non ci sono abbastanza truppe qui per un vero attacco. Forse per distrarre lattenzione da dove avverr lattacco vero. Gli uomini, lo sanno che attaccano? Non credo. Naturalmente no disse Manera. Non attaccherebbero se lo sapessero. S, che attaccherebbero disse Passini. I bersaglieri sono scemi. Sono coraggiosi e disciplinati dissi. Hanno una discreta circonferenza toracica, e sono pieni di salute. Ma sono scemi lo stesso. I granatieri sono grandi disse Manera. Era uno scherzo. Risero tutti. Cera, tenente, quando non hanno voluto attaccare e li hanno fucilati uno ogni dieci? No. E vero. Li hanno messi in fila e ne hanno preso uno ogni dieci. Gli hanno sparato i carabinieri. Carabinieri disse Passini e sput per terra. Ma quei granatieri; tutti pi di uno e ottanta. Non hanno voluto attaccare. Se nessuno volesse attaccare, la guerra finirebbe disse Manera. Non hanno pensato a questo, i granatieri. Avevano paura. Gli ufficiali erano tutti di cos buona famiglia. Qualche ufficiale andato da solo. Un sergente ha sparato a due ufficiali che non volevano uscire. Una parte di truppa uscita. Quelli che erano usciti non li hanno messi in fila quando hanno preso gli uomini. Uno dei fucilati dai carabinieri del mio paese disse Passini. Era un ragazzone alto ed elegante per esser nei granatieri. Sempre a Roma. Sempre con donne. Sempre con carabinieri. Rise. Ora hanno una guardia con la baionetta fuori di casa sua e nessuno pu andare a trovare la madre e il padre e le sorelle e il padre ha perduto i diritti civili e non pu neanche votare. Non sono pi protetti dalla legge. Chiunque pu portar via la loro roba. Se non fosse per quel che fanno alle famiglie, nessuno andrebbe allattacco. S. Gli alpini ci andrebbero. I V.E. ci andrebbero. Qualche bersagliere. Anche i bersaglieri sono scappati. Ora cercano di dimenticarlo. Non dovrebbe lasciarci parlare a questo modo, tenente. Evviva lEsercito disse Passini sarcastico. Lo so come parlate dissi. Ma finch guidate le macchine e vi comportate bene... ... e non vi fate sentire dagli altri ufficiali concluse Manera. [.....]

Eric Maria Remarque


da Niente di nuovo sul fronte occidentale le cause della guerra Una cosa per vorrei sapere dice Alberto, se la guerra ci sarebbe stata egualmente, nel caso che l'Imperatore avesse detto di no. Ma certo interrompo io anzi dicono che lui in principio non la voleva affatto. Be', se non proprio lui solo, mettiamo, se venti, trenta persone nel mondo avessero detto di no. In questo caso pu darsi: il male che quelle hanno detto di s. buffo a pensarci continua Kropp. Noi siamo qui per difendere la patria, nevvero? Ma i francesi stanno di l, anche loro per difendere la patria. Chi ha ragione? Forse gli uni e gli altri dico io, senza crederci troppo. Va bene dice Alberto, e vedo dalla sua faccia che cerca di confondermi; ma i nostri professori e pastori e giornali dicono che abbiamo ragione noi, ed sperabile che sia cos; mentre dall'altra parte professori e curati e giornali francesi sostengono che hanno ragione soltanto loro; come va questa faccenda? Questo non lo so dico io; quello che so che la guerra c', e che ogni mese vi entrano altri paesi. Ricompare Tjaden, ancora eccitato, e si mescola subito al discorso, informandosi in che modo, innanzi tutto, scoppi una guerra. Generalmente perch un paese ha fatto grave offesa a un altro risponde Alberto, con una cert'aria sentenziosa. Ma Tjaden fa il tonto: Un paese? Non capisco. Una: montagna tedesca non pu offendere una montagna francese: n un fiume, n un bosco, n un campo di grano... . Sei bestia davvero o fai per burla? brontola Kropp: non ho mai detto niente di simile. un popolo che offende un altro... Allora non ho che fare qui: io non mi sento affatto offeso replica Tiaden. Ma mettiti bene in zucca gli fa Alberto stizzito, che tu sei un povero villanaccio e non conti nulla. E allora, ragion di pi perch me ne vada a casa insiste l'altro, mentre tutti ridono. Ma mio caro uomo, si tratta del popolo come collettivit, ossia dello Stato grida Muller. Stato, Stato e Tjaden con aria furbesca fa schioccare le dita guardie campestri, polizia, tasse, ecco il vostro Stato. Se tuo parente, ringrazialo tanto da parte mia. Giusto dice Kat hai detto per la prima volta una cosa di buon senso, Tjaden. Lo Stato e il paese sono veramente due cose diverse. Ma vanno connesse l'una coll'altra osserva Kropp; paese senza Stato non esiste. Vero: per rifletti un po' che siamo quasi tutti povera gente. E anche in Francia la gran maggioranza sono operai, manovali, piccoli impiegati. Perch mai un fabbro od un calzolaio francese dovrebbe prendersi il gusto di aggredirci? Credi a me, sono soltanto i governi. Prima di venir qui, io non avevo mai visto un francese, e per la maggior parte dei francesi sar andata allo stesso modo quanto a noi. Nessuno ha chiesto il loro parere, come non hanno chiesto il nostro. E allora a che scopo la guerra? domanda Tjaden. Kat alza le spalle: Ci deve esser gente a cui la guerra giova Be', io non sono del numero sghignazza Tiaden. N tu, n altri qui. E chi allora? insiste Tjaden. Neanche all'Imperatore la guerra giova: lui ha gi tutto quello che gli occorre. Non dire questo interrompe Kat; finora una guerra non l'aveva avuta. E si sa che ogni imperatore di una certa grandezza deve avere almeno una guerra, altrimenti non diventa famoso. Guarda un po' nei tuoi libri di scuola, se non cos. Anche i generali diventano famosi con la guerra osserva Detering. Pi ancora degli imperatori conferma Kat. Per certo che dietro v' altra gente che ci vuoi guadagnare brontola Detering. Credo piuttosto che si tratti di una specie di febbre dice Alberto. In fondo non la vuole nessuno, e poi, a un dato momento, ecco che la guerra scoppia. Noi non l'abbiamo voluta, gli altri sostengono la stessa cosa; e intanto una met del mondo la fa, e come! Per dall'altra parte si stampano pi frottole che da noi replico io; pensate un po' a quei fogli trovati sui prigionieri, dove si diceva che noi mangiamo bambini belgi. Bisognerebbe impiccare le canaglie che scrivono cose simili. Sono loro i veri colpevoli. Muller si alza: Meglio ad ogni modo che la guerra si faccia qui piuttosto che in Germania. Guardate

un po' queste campagne... . Giusto conviene anche Tjaden; per meglio ancora sarebbe se non ci fosse guerra affatto. E se ne va, tutto fiero di aver bagnato il naso a noialtri volontari. E in realt la sua opinione tipica qui: ogni momento ce la troviamo di fronte, senza poterle contrapporre nulla di efficace, perch va di pari passo con una incomprensione di ogni altro ordine di rapporto. Il sentimento nazionale del fante consiste in questo, che egli qui a combattere. Ma in ci pure si esaurisce, tutto il resto viene da lui giudicato empiricamente e dal suo particolare punto di vista. Alberto si sdraia nell'erba, di cattivo umore. Meglio non parlare di tutto questo pasticcio. Tanto pi che non si cambia nulla conferma Kat.

Clemente Rebora
Viatico O ferito laggi nel valloncello, Tanto invocasti Se tre compagni interi Cadder per te che quasi pi non eri, Tra melma e sangue Tronco senza gambe E il tuo lamento ancora, Piet di noi rimasti A rantolarci e non ha fine lora, Affretta lagonia, Tu puoi finire, E conforto ti sia Nella demenza che non sa impazzire, Mentre sosta il momento, Il sonno sul cervello, Lasciaci in silenzio. Grazie, fratello. 1916

Trilussa
Fra centanni Da qui a centanni, quanno ritroveranno ner zapp la terra li resti de li poveri sordati morti ammazzati in guerra, pensate un po che montarozzo dossa, che fricand de teschi scapper fora da la terra smossa! Saranno eroi tedeschi, francesi, russi, ingresi, de tutti li paesi. O gialla o rossa o nera, ognuno avr difesa una bandiera; qualunque sia la patria, o brutta o bella, sar morto per quella. Ma l sotto, per, diventeranno tutti compagni, senza nessuna diferenza. Nellocchio vto e fonno nun ce sar n lodio n lamore pe le cose der monno. Ne la bocca scarnita nun rester che lurtima risata a la minchionatura de la vita. E diranno fra loro: - Solo adesso ciavemo per lo meno la speranza de godesse la pace e luguajanza che cianno predicato tanto spesso! 31 gennaio 1915 (Trilussa, Lupi e agnelli, Voghera, Roma 1919. Si seguito il testo di Trilussa, Le poesie, a cura di P. Pancrazi, Mondadori, Milano 1951)

Emilio Lussu da Un anno sull'altipiano

Il nemico Addossati al cespuglio, il caporale ed io rimanemmo in agguato tutta la notte, senza riuscire a distinguere segni di vita nella trincea nemica. Ma l'alba ci compens dell'attesa. Prima, fu un muoversi confuso di qualche ombra nei camminamenti, indi, in trincea, apparvero dei soldati con delle marmitte. Era certo la corve del caff. I soldati passavano, per uno o per due, senza curvarsi, sicuri com'erano di non esser visti, ch le trincee e i traversoni laterali li proteggevano dall'osservazione e dai tiri d'infilata della nostra linea. Mai avevo visto uno spettacolo eguale. Ora erano l, gli austriaci: vicini, quasi a contatto, tranquilli, come i passanti su un marciapiede di citt. Ne provai una sensazione strana. Stringevo forte il braccio del caporale che avevo alla mia destra, per comunicargli, senza voler parlare, la mia meraviglia. Anch'egli era attento e sorpreso, e io ne sentivo il tremito che gli dava il respiro lungamente trattenuto. Una vita sconosciuta si mostrava improvvisamente ai nostri occhi. Quelle trincee, che pure noi avevamo attaccato tante volte inutilmente, cos viva ne era stata la resistenza, avevano poi finito con l'apparirci inanimate, come cose lugubri, inabitate da viventi, rifugio di fantasmi misteriosi e terribili. Ora si mostravano a noi, nella loro vera vita. Il nemico, il nemico, gli austriaci, gli austriaci!... Ecco il nemico ed ecco gli austriaci. Uomini e soldati come noi, fatti come noi, in uniforme come noi, che ora si muovevano, parlavano e prendevano il caff, proprio come stavano facendo, dietro di noi, in quell'ora stessa, i nostri stessi compagni. Strana cosa. Un'idea simile non mi era mai venuta alla mente. Ora prendevano il caff. Curioso! E perch non avrebbero dovuto prendere il caff? Perch mai mi appariva straordinario che prendessero il caff? E, verso le 10 o le 11, avrebbero anche consumato il rancio, esattamente come noi. Forse che il nemico pu vivere senza bere e senza mangiare? Certamente no. E allora, quale la ragione del mio stupore? Ci erano tanto vicini e noi li potevamo contare, uno per uno. Nella trincea, fra due traversoni, v'era un piccolo spazio tondo, dove qualcuno, di tanto in tanto, si fermava. Si capiva che parlavano, ma la voce non arrivava fino a noi. Quello spazio doveva trovarsi di fronte a un ricovero pi grande degli altri, perch v'era attorno maggior movimento. Il movimento cess all'arrivo d'un ufficiale. Dal modo con cui era vestito, si capiva ch'era un ufficiale. Aveva scarpe e gambali di cuoio giallo e l'uniforme appariva nuovissima. Probabilmente, era un ufficiale arrivato in quei giorni, forse uscito appena da una scuola militare. Era giovanissimo e il biondo dei capelli lo faceva apparire ancora pi giovane. Sembrava non dovesse avere neppure diciott'anni. Al suo arrivo, i soldati si scartarono e, nello spazio tondo, non rimase che lui. La distribuzione del caff doveva incominciare in quel momento. Io non vedevo che l'ufficiale. Io facevo la guerra fin dall'inizio. Far la guerra, per anni, significa acquistare abitudini e mentalit di guerra. Questa caccia grossa fra uomini non era molto dissimile dall'altra caccia grossa. Io non vedevo un uomo. Vedevo solamente il nemico. Dopo tante attese, tante pattuglie, tanto sonno perduto, egli passava al varco. La caccia era ben riuscita. Macchinalmente, senza un pensiero, senza una volont precisa, ma cos, solo per istinto, afferrai il fucile del caporale. Egli me lo abbandon ed io me ne impadronii. Se fossimo stati per terra, come altre notti, stesi dietro il cespuglio, probabile che avrei tirato immediatamente, senza perdere un secondo di tempo. Ma ero in ginocchio, nel fosso scavato, ed il cespuglio mi stava di fronte come una difesa di tiro a segno. Ero come in un poligono e mi potevo prendere tutte le comodit per puntare. Poggiai bene i gomiti a terra, e cominciai a puntare. L'ufficiale austriaco accese una sigaretta. Ora egli fumava. Quella sigaretta cre un rapporto improvviso fra lui e me. Appena ne vidi il fumo, anch'io sentii il bisogno di fumare. Questo mio desiderio mi fece pensare che anch'io avevo delle sigarette. Fu un attimo. Il mio atto del puntare, ch'era automatico, divenne ragionato. Dovetti pensare che puntavo, e che puntavo contro qualcuno. L'indice che toccava il grilletto allent la pressione. Pensavo. Ero obbligato a pensare. Certo, facevo coscientemente la guerra e la giustificavo moralmente e politicamente. La mia coscienza di uomo e di cittadino non erano in conflitto con i miei doveri militari. La guerra era, per me, una dura necessit, terribile certo, ma alla quale ubbidivo, come ad una delle tante necessit, ingrate ma inevitabili, della vita. Pertanto facevo la guerra e avevo il comando di soldati. La facevo dunque, moralmente, due volte. Avevo gi preso parte a tanti combattimenti. Che io tirassi contro un ufficiale nemico era quindi un fatto logico. Anzi, esigevo che i miei soldati fossero attenti nel loro servizio di vedetta e tirassero bene, se il nemico si scopriva. Perch non avrei, ora, tirato io su quell'ufficiale? Avevo il dovere di tirare. Sentivo che ne avevo il dovere. Se non avessi sentito che quello era un dovere, sarebbe stato mostruoso che io continuassi a fare la guerra e a farla fare agli altri. No, non v'era dubbio, io avevo il dovere di tirare. E intanto, non tiravo. Il mio pensiero si sviluppava con calma. Non ero affatto nervoso. La sera precedente, prima di uscire dalla trincea, avevo dormito quattro o cinque ore: mi sentivo benissimo:

dietro il cespuglio, nel fosso, non ero minacciato da pericolo alcuno. Non avrei potuto essere pi calmo, in una camera di casa mia, nella mia citt. Forse, era quella calma completa che allontanava il mio spirito dalla guerra. Avevo di fronte un ufficiale, giovane, inconscio del pericolo che gli sovrastava. Non lo potevo sbagliare. Avrei potuto sparare mille colpi a quella distanza, senza sbagliarne uno. Bastava che premessi il grilletto: egli sarebbe stramazzato al suolo. Questa certezza che la sua vita dipendesse dalla mia volont, mi rese esitante. Avevo di fronte un uomo. Un uomo! Un uomo! Ne distinguevo gli occhi e i tratti del viso. La luce dell'alba si faceva pi chiara ed il sole si annunziava dietro la cima dei monti. Tirare cos, a pochi passi, su un uomo... come su un cinghiale! Cominciai a pensare che, forse, non avrei tirato. Pensavo. Condurre all'assalto cento uomini, o mille, contro cento altri o altri mille una cosa. Prendere un uomo, staccario dal resto degli uomini e poi dire: Ecco, sta' fermo, io ti sparo, io t'uccido un'altra. assolutamente un'altra cosa. Fare la guerra una cosa, uccidere un uomo un'altra cosa. Uccidere un uomo, cos, assassinare un uomo. Non so fino a che punto il mio pensiero procedesse logico. Certo che avevo abbassato il fucile e non sparavo. In me s'erano formate due coscienze, due individualit, una ostile all'altra. Dicevo a me stesso: Eh! non sarai tu che ucciderai un uomo, cos! Io stesso che ho vissuto quegli istanti, non sarei ora in grado di rifare l'esame di quel processo psicologico. V' un salto che io, oggi, non vedo pi chiaramente. E mi chiedo ancora come, arrivato a quella conclusione, io pensassi di far eseguire da un altro quello che io stesso non mi sentivo la coscienza di compiere. Avevo il fucile poggiato, per terra, infilato nel cespuglio. Il caporale si stringeva al mio fianco. Gli porsi il calcio del fucile e gli dissi, a fior di labbra: - Sai... cos... un uomo solo... io non sparo. Tu, vuoi? Il caporale prese il calcio del fucile e mi rispose: - Neppure io. Rientrammo, carponi, in trincea. Il caff era gi distribuito e lo prendemmo anche noi. La sera, dopo l'imbrunire, il battaglione di rincalzo ci dette il cambio.

Un disertore Il comando di battaglione mi aveva mandato in linea il soldato Marrasi Giuseppe, punito con quindici giorni di rigore, e assegnato alla mia compagnia. Per sottrarsi alla vita di trincea, egli aveva dato ad intendere di conoscere il tedesco ed era stato mandato, tempo prima, ad una stazione d'intercettazione telefonica. Scoperto che egli non conosceva la lingua, era stato punito e rimandato al battaglione. Dopo Monte Fior non l'avevo pi visto, per quanto appartenesse alla 9a compagnia. Lo assegnai al 2 plotone ed egli vi prese subito servizio, perch la prigione non si scontava, in trincea, e si faceva solo la ritenuta sul soldo. La notte, durante un'ispezione in linea, la mia attenzione venne attirata dalla conversazione che si svolgeva nel ricovero del 2plotone, posto venti o trenta metri dietro le trincee. M'avvicinai. I soldati fumavano e chiacchieravano sottovoce, attorno alle stufe accese. Il plotone non aveva ufficiale e il sottufficiale che lo comandava, il sergente Cosello, era il solo che non parlasse. Seduto sulle gambe incrociate, fumava una pipa di terracotta, dal cannello smisuratamente lungo. Fumava e ascoltava. - Io sono nato di venerd, - diceva un soldato, - ed era evidente che non dovevo aver fortuna. Il giorno stesso, mia madre mor. Il giorno in cui mi han chiamato sotto le armi era di venerd; venerd il giorno del mio primo combattimento. Quando sono stato ferito la prima volta, era un venerd e venerd quando son stato ferito la seconda volta. Vedrete che mi uccideranno un venerd. Scommetterei che l'azione sar per questo venerd prossimo. - Io son nato di domenica, - diceva un altro, - e non ho avuto pi fortuna di te. Mia madre morta sei mesi dopo, il che non costituisce una grande differenza. Mio padre si dovuto sposare, per allevarmi, perch, con la sua giornata, non poteva pagarmi una balia. Mia matrigna mi batteva come un materasso. E' il mio primo ricordo d'infanzia. La vita che io ho fatto non l'augurerei a un cane. Poi, venuta la guerra. Quando la granata mi scoppiata fra le gambe, vi ricordate, chi c'era? - Io c'ero. - Era di domenica. Ti regalo volentieri il mio giorno di festa. - E tu, quando sei nato, Marrasi? Marrasi non rispose. - Se esiste, nella settimana, un giorno che porta fortuna, certamente tu sei nato in quel giorno. Di' la verit: a quanti combattimenti hai preso parte? Con un pretesto o con un altro, li hai evitati tutti. Questa fortuna. Marrasi si difese attaccando. - Chi mi d mezzo sigaro? - chiese. - Ja, mezzo sigaro? - Ja, ja!

- Kamarad, mezzo sigaro! Si scherzava sul suo tedesco e non gli si dette il sigaro. - E quella fucilata alla mano? Che fucilata intelligente! - Come hai fatto a spararla? - Ma quando fosti fatto prigioniero, francamente, poca fortuna! Quella volta, non avesti fortuna! Tutti i compagni ridevano. Il sergente, impassibile, fumava la pipa. Io mi dimenticai di Marrasi. Il giorno dopo, ero nel mio baracchino e facevo dei disegni richiestimi dal comando di battaglione. Potevano essere le due del pomeriggio. Dalla trincea della compagnia, parti un grido d'allarmi, seguito da colpi di fucile. Immediatamente, tutta la linea apr il fuoco. In quattro salti fui in trincea. I soldati correvano alle feritoie. In mezzo alla piccola vallata, oltre la linea dei nostri reticolati, il soldato Marrasi, le gambe affondate nella neve, le mani in alto, senza fucile, stentatamente avanzava verso le trincee nemiche. Sul frastuono dei colpi, si levava la voce da baritono del sergente Cosello: Sparate sul disertore! La trincea nemica taceva. Dovetti correre al telefono in trincea. Il comandante di battaglione mi chiamava per avere la spiegazione di quanto accadeva. Egli parlava eccitato: - Che c'? che c'? Debbo mandare rincalzi? Io lo rassicurai: - Ma no. Un soldato sta passando al nemico, solo, senza armi, e la compagnia tira su di lui. Gli austriaci, per non spaventarlo, non sparano. - Un disonore simile sul battaglione! - Lo so, lo so; non lo stia a raccontare a me. Che ci posso fare? - Me lo rimandi indietro, vivo o morto! - Eh, vivo, sar difficile. Sparano tutti su di lui. - Tanto meglio. Meglio morto. Me lo mandi morto. - Sta bene. Posso andare? - Si, vada pure e mi dia le novit al pi presto. Io ritornai alla feritoia. Al fuoco della compagnia s'era aggiunto quello delle due mitragliatrici del battaglione. Marrasi continuava ad avanzare, ma con molta difficolt. Superata la vallata, il terreno era ripido e la neve sempre alta. Io mi stupivo ch'egli non fosse ancora caduto, quando m'accorsi che, dietro di lui, ad una cinquantina di metri, anch'egli sprofondato nella neve, camminava il sergente Cosello. Impugnava il fucile con le due mani e, ad ogni passo, tirava un colpo su Marrasi. Ma questi non cadeva. Con tutta la mia voce, ordinai al sergente di rientrare in trincea. Il sergente si ferm. Era in piedi, in mezzo alla vallata. Io temevo che gli austriaci tirassero su di lui e ripetei l'ordine. Gli austriaci non sparavano. Egli si volt e mi grid: - Signor si! Aveva le gambe sepolte nella neve. Da fermo, punt lungamente e spar tutto il caricatore sul disertore. Questi cadde e si rovesci sulla neve. Io lo credetti colpito. Ma, dopo qualche istante, si rialz e riprese ad avanzare. Tutta la linea continuava a sparare su di lui. Marrasi camminava. Anche il sergente, ch'era un tiratore scelto, l'aveva sbagliato. Ho sempre notato che, nei momenti d'eccitazione, i soldati guardano e sparano ad occhi aperti, senza puntare. Il sergente rientr. Venne da me, coperto di sudore. Parlava a fatica: - Che vergogna! Che disonore! - diceva ansante. - Il 2plotone disonorato. Il 2 plotone era disonorato. La compagnia era disonorata. Il battaglione era disonorato. Fra poco, si sarebbero considerati disonorati il reggimento, la brigata, la divisione, il corpo d'armata e, con ogni probabilit, tutta l'armata. Marrasi continuava ad avanzare. Il piantone al telefono venne di corsa per dirmi che il comandante di battaglione mi chiamava nuovamente, perch il comandante del reggimento voleva essere messo al corrente. - Rispondi che sono in trincea e non mi posso allontanare. Che verr tra poco. Il piantone disparve. Marrasi s'allontanava sempre pi da noi. Gli austriaci avevano due sbarramenti di reticolati di fronte alle loro trincee. Egli era arrivato al primo. La neve lo copriva pressoch intieramente, ma l'ostacolo era egualmente insormontabile. S'aggrapp ai fili, li scosse, tent scavalcarli, ma inutilmente. Capi che non sarebbe potuto passare. Scoraggiato, si ferm un istante e si strinse la testa fra le mani. Sembrava gli mancasse ormai la forza di continuare. Fece qualche passo attorno allo stesso punto, disperato. Cos, egli girava attorno a se stesso, sperduto, ma invulnerabile, sotto il tiro dei nostri. Marrasi si riprese. Risolutamente, cammin verso un albero che era a pochi metri da lui. Questo era lungo la linea dei reticolati, al di fuori, verso di noi, e gli austriaci vi avevano appoggiato un cavallo di frisia, dall'altra parte. Marrasi si slacci il cinturone che aveva ancora alla cintola, con le due giberne. Agilmente, si arrampic al tronco. Non era pi impacciato. Era gi a qualche metro da terra. Dall'alto, spicc un salto e si sprofond nella neve, al di l dei reticolati. Il primo sbarramento era passato. I nostri sparavano sempre. Gli austriaci tacevano. Il piantone al telefono venne un'altra volta. Il comandante del battaglione, assillato di richieste dal comandante del reggimento, il quale, a sua volta, era assediato in permanenza dal comandante di brigata, mi chiedeva insistentemente all'apparecchio. Lo rinviai, urlando: - Tira una fucilata sul filo telefonico e, dopo, va' dal comandante di battaglione e informalo che la linea

interrotta. - Signor s. - Hai capito bene? - Signor s. Fra le tante fucilate e i tiri delle mitragliatrici, Marrasi riprese ad avanzare. L'ultimo tratto, il pi ripido, era il pi faticoso. La trincea nemica era a pochi metri. Da una grande feritoia, una mano, gli faceva segni di richiamo. Egli si diresse alla feritoia. I nostri tiratori scelti di bombe "Benaglia" a fucile, sembravano averlo sotto il loro tiro. Lo scoppio di una bomba lo invest ed egli cadde. Ma si rialz, subito dopo. Nel settore, il fuoco era diventato generale. Dalla compagnia, si era propagato a tutto il battaglione, ai battaglioni laterali, oltre Monte Interrotto, fino alla Val d'Assa. Tutti sparavano: i nostri e gli austriaci. Sembrava che tutto il corpo d'armata fosse impegnato in combattimento. Solo le trincee del costone tacevano sempre. Marrasi era sotto l'altro sbarramento di reticolati, a non pi di due metri dalla trincea austriaca. Dalla grande feritoia, qualcuno doveva parlargli in italiano, perch mi parve che una conversazione si svolgesse fra lui e la trincea. Egli cadde, mentre toccava il reticolato. Rimase affondato nella neve, il busto piegato, le braccia e le mani tese. Sul bersaglio ormai inanimato, il fuoco di tutta la trincea infuriava come prima. Ci volle del tempo prima che riuscissi a far cessare il fuoco nel nostro settore. E quando cess, continu ancora, a lungo, nei settori laterali. Il telefono era interrotto e comunicai per iscritto le novit al comando di battaglione. Dovetti resistere, fino a sera, agli ordini del comandante del reggimento che esigeva facessi uscire una pattuglia, comandata da un ufficiale, per ritirare il cadavere e lavare, cos, l'onta del reggimento. Il colonnello fin col venire in linea per accertarsi personalmente dell'esecuzione dell'ordine. Ma la situazione non mutava per questo. Il cadavere era sempre l, a trecento metri da noi, a due dal nemico. Ed era giorno. Il colonnello insisteva ed io, visto vano ogni altro argomento, trovai un rifugio letterario. Fresco delle letture d'Ariosto, citai, con tutta serenit, l'episodio di Cloridano e Medoro: Che sarebbe pensier non troppo accorto Perder dei vivi per salvar un morto. Il colonnello mi rispose, secco, infliggendomi gli arresti. Ma la pattuglia non usci. Calata la sera, al primo razzo che tirammo, ci accorgemmo che il corpo di Marrasi era scomparso.

Giuseppe Ungaretti
VEGLIA da L'ALLEGRIA - da IL PORTO SEPOLTO Un'intera nottata buttato vicino a un compagno massacrato con la sua bocca digrignata volta al plenilunio con la congestione delle sue mani penetrata nel mio silenzio ho scritto lettere piene d'amore. Non sono mai stato tanto attaccato alla vita. Cima Quattro il 23 dicembre 1915.

Giuseppe Ungaretti
FRATELLI da L'ALLEGRIA - IL PORTO SEPOLTO Di che reggimento siete fratelli? Parola tremante nella notte Foglia appena nata Nell'aria spasimante involontaria rivolta dell'uomo presente alla sua fragilit Fratelli Mariano, il 15 luglio 1916

Giuseppe Ungaretti
SONO UNA CREATURA da L'ALLEGRIA - IL PORTO SEPOLTO Come questa pietra del S. Michele cos fredda cos dura cos prosciugata cos refrattaria cos' totalmente disanimata Come questa pietra il mio pianto che non si vede La morte si sconta vivendo Valloncello di Cima Quattro, il 5 agosto 1916

Giuseppe Ungaretti
SAN MARTINO DEL CARSO da L'ALLEGRIA - IL PORTO SEPOLTO Di queste case non rimasto che qualche brandello di muro Di tanti che mi corrispondevano non m' rimasto neppure tanto Ma nel mio cuore nessuna croce manca E' il mio cuore il paese pi straziato Valloncello dell'Albero Isolato, il 27 agosto 1916

Giuseppe Ungaretti
I FIUMI da L'ALLEGRIA - da IL PORTO SEPOLTO Mi tengo a questalbero mutilato abbandonato in questa dolina che ha il languore di un circo prima o dopo lo spettacolo e guardo il paesaggio quieto delle nuvole sulla luna Stamani mi sono disteso in unurna dacqua e come una reliquia ho riposato LIsonzo scorrendo mi levigava come un suo sasso Ho tirato su le mie quattrossa e me ne sono andato come un acrobata sullacqua Mi sono accoccolato vicino ai miei panni sudici di guerra e come un beduino mi sono chinato a ricevere il sole Questo lIsonzo e qui meglio mi sono riconosciuto una docile fibra delluniverso Il mio supplizio quando non mi credo in armonia Ma quelle occulte mani che mintridono mi regalano la rara felicit Ho ripassato le epoche della mia vita Questi sono i miei fiumi

Questo il Serchio al quale hanno attinto duemilanni forse di gente mia campagnola e mio padre e mia madre Questo il Nilo che mi ha visto nascere e crescere e ardere dinconsapevolezza nelle estese pianure Questa la Senna e in quel suo torbido mi sono rimescolato e mi sono conosciuto Questi sono i miei fiumi contati nellIsonzo Questa la mia nostalgia che in ognuno mi traspare ora ch notte che la mia vita mi pare una corolla di tenebre Cotici, 16 agosto 1916

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