Sei sulla pagina 1di 33

Italia nella prima guerra mondiale

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.


La partecipazione dell'Italia alla prima guerra mondiale ebbe
inizio il 24 maggio 1915, circa dieci mesi dopo l'avvio del
conflitto, durante i quali il paese conobbe grandi mutamenti
politici, con la rottura degli equilibri giolittiani e l'affermazione
di un quadro politico rivolto a mire espansionistiche, legate al
fervore patriottico e a ideali risorgimentali. Inizialmente il
Regno d'Italia si mantenne neutrale e parallelamente alcuni
esponenti del governo iniziarono trattative diplomatiche con
entrambe le forze in campo, che si conclusero con la sigla di un
patto segreto con le potenze della Triplice intesa. Durante
questo lungo periodo di trattative l'opinione pubblica giocò un
ruolo decisionale fondamentale, e la scelta o meno di entrare in La cavalleria italiana entra aTrento il 3 novembre 1918
guerra fu condizionata dalle decisioni delle masse popolari,
divise tra interventisti e neutralisti. A conclusione delle
trattative il Regno d'Italia abbandonò lo schieramento della Triplice alleanza e dichiarò guerra all'Austria-Ungheria il 23 maggio
1915, avviando le operazioni belliche a partire dal giorno seguente; l'Italia dichiarò poi guerra all'Impero ottomano il 21 agosto 1915,
al Regno di Bulgaria il 19 ottobre 1915 e all'Impero tedesco il 27 agosto 1916.

L'entrata in guerra dell'Italia aprì un lungo fronte sulle Alpi Orientali, esteso dal confine con la Svizzera a ovest fino alle rive del
mare Adriatico a est: qui, le forze del Regio Esercito sostennero il loro principale sforzo bellico contro le unità dell'Imperial regio
Esercito austro-ungarico, con combattimenti concentrati nel settore delle Dolomiti, dell'Altopiano di Asiago e soprattutto nel Carso
lungo le rive del fiume Isonzo. Contemporaneamente alle operazioni belliche, la guerra ebbe anche una profonda influenza sullo
sviluppo industriale del paese oltre ad avviare grandi cambiamenti in ambito sociale e politico. Il fronte interno giocò un ruolo
fondamentale per il sostegno dello sforzo bellico: gran parte della vita civile e industriale fu completamente riadattata alle esigenze
economiche e sociali che il fronte imponeva, e comparve la militarizzazione dell'industria, la soppressione dei diritti sindacali a
favore della produzione di guerra, i razionamenti per la popolazione, l'entrata della donna nel mondo del lavoro e moltissime altre
innovazioni sociali, politiche e culturali.

La guerra impose uno sforzo popolare mai visto prima; enormi masse di uomini furono mobilitate sul fronte interno così come sul
fronte di battaglia, dove i soldati dovettero adattarsi alla dura vita di trincea, alle privazioni materiali e alla costante minaccia della
morte, che impose ai combattimenti la necessità di dover affrontare enormi conseguenze psicologiche collettive ed individuali, che
andavano dalla nevrosi da combattimento, al reinserimento nella società fino alla nascita delle associazioni dei reduci. Dopo una
lunga serie di inconcludenti battaglie, la vittoria degli austro-tedeschi nella battaglia di Caporetto dell'ottobre-novembre 1917 fece
arretrare il fronte fino alle rive del fiume Piave, dove la resistenza italiana si consolidò; solo la decisiva controffensiva di Vittorio
Veneto e alla rotta delle forze austro-ungariche, sancì la stipula dell'armistizio di Villa Giusti il 3 novembre 1918 e la fine delle
ostilità, che costarono al popolo italiano circa 650.000 caduti e un milione di feriti. La firma dei trattati di pace finali portò a un
rigetto delle condizioni a suo tempo fissate nel Patto di Londra e a una serie di contese sulla fissazione dei confini settentrionali del
paese, innescando una grave crisi politica interna sfociata nella cosiddetta "Impresa di Fiume", cui si sommarono i rivolgimenti
economici e sociali delbiennio rosso; questi fattori gettarono poi le basi per il successivoavvento del regime fascista.

Indice
Antefatti
L'Italia alla vigilia del conflitto
La crisi diplomatica europea
Neutralisti e interventisti
Il ruolo degli intellettuali
Il «radioso maggio»
Le Forze armate italiane
Il Regio Esercito
Alla vigilia del conflitto
L'ampliamento dell'esercito del 1916
La riorganizzazione dopo Caporetto
La Regia Marina
Nuove armi e nuove tattiche
L'impiego dell'arma chimica
Lo sviluppo dell'arma aerea

Le operazioni militari
Il fronte italiano
Il teatro dei Balcani
Le operazioni navali
Altri teatri
L'esperienza dei soldati al fronte
Dalla guerra di manovra alla guerra di posizione
La vita nelle trincee
Consenso e propaganda al fronte
Ammutinamenti, diserzioni e giustizia militare
I prigionieri di guerra
Sorveglianza e mobilitazione psicologica
Disturbi psichici e mutilazioni
Il fronte interno
L'organizzazione italiana alla guerra
Le condizioni della popolazione
La manodopera
L'industria degli armamenti
Il ruolo delle donne
La propaganda in ambito civile
La popolazione nelle zone occupate
Avvenimenti politici post-conflitto
Le occupazioni nel dopoguerra
L'influenza nelle arti
Letteratura
Filmografia
La memoria
Note
Bibliografia
Voci correlate
Altri progetti

Antefatti
Con la fine della guerra di Crimea, combattuta vittoriosamente da Impero ottomano, Francia, Gran Bretagna e Regno di Sardegna
contro l'Impero russo, si riunì nella capitale francese il congresso di Parigi, nel quale il Presidente del consiglio del Regno di
Sardegna Cavour ottenne che per la prima volta in una sede internazionale si ponesse la questione italiana. All'unità d'Italia
Napoleone III fu sentimentalmente favorevole, come lo era - senza sentimento - anche la Gran Bretagna, poiché un'Italia unita
avrebbe potuto contrastare la potenza francese. In un tumultuoso precipitare degli eventi, nel 1861 nacque il Regno d'Italia, proprio
mentre nasceva la Germania unita sotto l'Impero degli Hohenzollern, ed emergevano nuove potenze quali Stati Uniti d'America e
Giappone. Il predominio mondiale della triade anglo-franco-russa nel 1870 poteva dirsi concluso, ma non erano concluse le pretese
delle potenze europee in Africa[1].

Gran Bretagna, Francia e più timidamente anche la Germania, si assicurarono ampie conquiste in Africa, anche l'Italia cercò il suo
spazio nel corno d'Africa[2]. Partì così la campagna d'Eritrea, in un clima di ottimismo che venne stroncato durante la battaglia di
Adua, dove, all'alba del 1º marzo 1896, i 15.000 soldati del generale Oreste Baratieri vennero travolti dagli oltre 100.000 guerrieri di
Menelik II[3]. Le politiche aggressive degli stati europei sfociarono in vari conflitti localizzati, riguardanti le colonie, ma andava
comunque crescendo l'inquietudine di un conflitto generalizzato, che avrebbe coinvolto le maggiori potenze in uno scontro all'ultimo
sangue.

Iniziò così la corsa alle alleanze; nel 1882 Otto von Bismarck allargò l'alleanza fra la Germania e gli Asburgo, all'Italia, nel tentativo
di spegnere nei francesi ogni velleità di rivincita per la sconfitta patita nel 1870. L'alleanza fu pensata anche in senso anti russo,
sbarrando allo zar ogni possibilità di aprirsi nel Mediterraneo. Ciò comportò un'alleanza tra Francia e Russia nel 1893 alla quale si
aggiunse dodici anni dopo la Gran Bretagna[4]. Una nuova tornata di conflitti locali fu innescata nel 1911 dall'Italia con l'impresa
libica, che porterà l'Impero Ottomano a lasciare la presa in Libia e nelle terre balcaniche, rendendo così meno stabile l'Impero austro-
ungarico nei Balcani, regione in cui stava sempre più delineandosi l'irredentismo slavo, appoggiato dalla Russia, con ambizioni di
destabilizzare l'Impero asburgico. Scoppiarono quindi le guerre balcaniche del 1912 e 1913 faticosamente placate dall'intervento
austriaco[5]. Fu proprio questo fervore nazionalistico che il 28 giugno 1914 sfociò nell'attentato di Sarajevo, e provocò la successiva
[6].
crisi diplomatica, che portò allo scoppio del conflitto che avrebbe insanguinato l'Europa per i quattro anni successivi

L'Italia alla vigilia del conflitto

La crisi diplomatica europea


La Triplice Alleanza in scadenza l'8 luglio 1914, venne rinnovata anticipatamente il 5 dicembre 1912, con l'aggiunta di un particolare
protocollo riguardante i balcani. Proprio in tale contesto, allorquando nel 1913 l'Austria-Ungheria aveva progettato una operazione
militare contro la Serbia, l'opposizione dell'Italia lo aveva mandato a monte; esasperando l'avversione di Francesco Ferdinando e del
generale Franz Conrad von Hötzendorf e del loro apparato militare. Questa insofferenza portò la diplomazia austro-ungarica durante
gli ultimi giorni della cosiddetta crisi di luglio, a giocare d'astuzia. Il 22 luglio 1914 l'ambasciatore Kajetan Mérey incontrò al
ministero degli Esteri a Roma il marchese Antonino di San Giuliano, il quale venne rassicurato in maniera piuttosto generica sulla
posizione che l'Austria-Ungheria intendeva assumere nei confronti della Serbia e del Montenegro[7]. Il 24 Di San Giuliano assieme a
Antonio Salandra e all'ambasciatore tedesco Hans von Flotow presero visione dell'ultimatum presentato dall'Austria-Ungheria alla
Serbia, rimanendone sconcertati. Il governo di V
ienna non aveva minimamente ragguagliato Roma durante la fase di preparazione del
durissimo ultimatum che aveva presentato, onde evitare le facilmente prevedibili reazioni negative; e nel tentativo di impedire
qualunque forma di protesta formale, la scadenza dell'ultimatum stesso venne prefissata alle ore 17 del giorno successivo. La Serbia
rifiutò il documento e il 28 luglio venne sancita la dichiarazione di guerra dell'Austria-Ungheria alla Serbia[8] dando inizio al gioco
delle alleanze europee che in breve tempo portarono in guerra le grandi potenze europee. La Triplice Alleanza, con l'azione messa in
atto dall'Austria-Ungheria senza intesa preventiva con l'Italia e anzi, tenendola deliberatamente all'oscuro, era stato violato non solo
nello spirito ma anche nella pratica[9].

Neutralisti e interventisti
La decisione ufficiale e definitiva della neutralità italiana fu presa nel Consiglio dei
ministri del 2 agosto 1914 e fu diramata il 3 mattina. Diceva: «Trovandosi alcune
potenze d'Europa in istato di guerra ed essendo l'Italia in istato di pace con tutte le
parti belligeranti, il governo del Re, i cittadini e le autorità del Regno hanno
l'obbligo di osservare i doveri della neutralità secondo le leggi vigenti e secondo i
princìpi del diritto internazionale. [..]»[10].

La neutralità ottenne inizialmente consenso unanime, tuttavia il brusco arresto


Vignetta satirica sulla neutralità dell'offensiva tedesca sulla Marna suscitò i primi dubbi sulla invincibilità tedesca,
italiana: Vittorio Emanuele al centro
prima indiscussa. Movimenti interventisti andarono formandosi nell'autunno 1914,
assiste al tiro alla fune fra Imperi
fino a raggiungere una consistenza non trascurabile appena pochi mesi dopo. Fu un
Centrali a destra e le nazioni
dell'Intesa a sinistra. interventismo composito e quindi equivoco. Per un intervento a fianco dell'Intesa si
pronunziarono via via, i nazionalisti, la destra conservatrice, il centro sinistra
repubblicano e radicale, il socialismo riformista e l'anarco-sindacalismo. Contro la
guerra si schierarono invece i ceti borghesi, col loro leader Giovanni Giolitti, il mondo cattolico fedele alle tendenze politiche del
Vaticano, e i socialisti. In termini numerici i contrari alla guerra, o "neutralisti" erano una grossa maggioranza; evirata però, come
vedremo, nella voce[11]. I fautori dell'intervento di parte progressista si rifacevano agli ideali di democrazia e alla lotta contro le
monarchie autocratichee alla liberazione di Trento e Trieste. I nazionalisti parlavano di nuovi possedimenti in Dalmazia, del dominio
sul mare Adriatico, del protettorato sull'Albania e di compensi coloniali. Tutti però additavano la diminuzione della statura politica
incombente sull'Italia, se fosse rimasta spettatrice passiva: i vincitori non avrebbero dimenticato né perdonato, e se i vincitori fossero
stati gli Imperi centrali, si sarebbero anche vendicati della nazione che accusavano traditrice di un'alleanza trentennale[12]. Secondo
gli interventisti, questa guerra avrebbe vendicato tutte le sconfitte e le umiliazioni del passato, da Adua, Custoza e Lissa fino a
Federico Barbarossa, Alarico e Brenno, e avrebbe permesso di completare l'unità d'Italia con l'annessione delle terre irredente, terre
che tra l'altro l'Intesa avrebbe assicurato all'Italia se si fosse schierata al suo fianco[13]. A ciò i neutralisti potevano opporre solo
considerazioni di buon senso: l'Italia era una nazione ancora giovane e fragile, le finanze erano ancora dissestate dalla guerra in Libia,
e i guadagni non sarebbero stati paragonabili ai gravissimi rischi e alle sicure perdite.

Ma parlando di interventisti e neutralisti va esclusa la classe contadina - più della metà della popolazione - che godeva del diritto di
voto, ma che non faceva realmente parte dell'opinione pubblica; la politica era accessibile in Italia nei limiti in cui vi penetravano le
ferrovie, la popolazione che abitava lontano dalle stazioni ferroviarie era praticamente isolata e fuori dal contesto socio-politico della
nazione[14].

I neutralisti, nel corso dei dieci mesi che portarono all'entrata in guerra, appaiono più
numerosi degli interventisti, anche e soprattutto se misurati guardando i loro
referenti politici. Originariamente quattro, tali referenti durante la crisi di governo
del maggio 1915 si riducono quantomeno a due, socialisti e liberali giolittiani
(mentre i cattolici assunsero posizioni diverse e ambigue); infine a uno (i socialisti)
quando la crisi rientra, Salandra si presenta alla Camera e vengono votati i crediti di
guerra (20 maggio). Il quarto referente politico dei neutralisti - il primo a diluirsi
man mano che il governo rende decifrabili le sue propensioni - è il variegato mondo
dei conservatori: il notabilato, la destra liberale, gli agrari e gli uomini d'ordine, che Manifestazione interventista in
piazza Cordusio a Milano (1915)
trovarono in Salandra il loro uomo, i quali stettero a guardare ragionando in termini
di convenienza, e che alla fine si schierarono a favore dell'intervento a fianco
dell'Intesa[15].

Ma in questi dieci mesi fu la politica a farla da padrone, chiamando in causa il popolo e la nazione nel richiamo al patriottismo, e
forzando o surrogando le istituzioni. Seppur maggiori in termini numerici agli interventisti, i neutralisti non avevano dalla loro parte
gli organi e le istituzioni politiche che potevano smuovere le masse. L'urgenza politica fece dei giornali un'arma per indirizzare le
masse: la rivista di carattere interventista Lacerba diventa del tutto "politica", la Gazzetta del Popolo di forte impronta unitaria si
schierò nettamente a favore dell'intervento[16], il Corriere della Sera del liberal-conservatore Luigi Albertini si schiera via via con la
classe dirigente, e nasce Il Popolo d'Italia, un vero e proprio organo di battaglia e giornale-partito guidato dall'interventista
Mussolini[17]. Un'altra forma di mobilitazione politica fu il dibattito pubblicistico, dove l'agitazione verbale della carta stampata si
sposta sulle piazze, nei teatri e nelle sale di conferenza. In questo campo d'azione le tre correnti neutraliste - socialisti, cattolici e
liberal giolittiani - mancavano di progetti comuni e punti d'incontro, mentre il fronte interventista agisce fin da subito come un blocco
unificato, emarginando progressivamente i neutralisti i quali si ritirano dal campo prima ancora di tentare di agire in modo
unificato[18]. La piazza interventista , dove s'incontrano sovversivi di sinistra e di destra, uniti dallo scopo immediato, si arroga la
funzione di stimolo decisivo nei confronti delle più alte istituzioni statali e governative e si propone quasi come un governo di riserva
a rappresentanza popolare. Qui si giocò le sue carte Salandra. Il 13 maggio si dimise; Giolitti e Salandra si recano dal re, mentre
D'Annunzio e Mussolini su Il Popolo d'Italia e su L'Idea Nazionale elettrizzano il clima minacciando una guerra civile. Giolitti
arretra e rinuncia a fare appello alla "sua" piazza, che del resto, tace, mentre Salandra, associato volente o nolente alla piazza del
[19].
popolo patriottico, prevale. La Camera dei Deputati così il 20 maggio, si piega

Un fattore decisivo per quanto accadde in Italia in quei dieci mesi fu indubbiamente lo scollamento e l'indecisione delle due correnti
neutraliste più forti, i socialisti e la classe liberale. I primi sono i più numerosi, e in maggior parte resteranno ostili alla guerra, ma al
suo interno ci fu fin da subito una sorta di "diaspora" che portò molti socialisti ad appoggiare il richiamo nazionale andando a gremire
le file interventiste[20]. Caratteristica in questo senso fu l'attività del deputato socialista trentino Cesare Battisti, che percorse tutta
l'Italia per convincere i suoi compatrioti che «l'ora di Trento è suonata» e che il socialismo non può ignorare le radici nazionali e le
ragioni dell'appartenenza nazionale[21]. Ma forse la vicenda più rappresentativa delle divisioni interne dei socialisti, fu la fuoriuscita
del direttore dell'Avanti! e giovane leader del partito, Benito Mussolini, prima dal giornale e infine dal partito stesso. Ma il
cambiamento di rotta di Mussolini non rimase una scelta personale, venne anzi condivisa dalla sezione milanese del partito, e venne
utilizzata dal mondo politico per puntare il dito contro le divisioni interne ai neutralisti. Il 10 novembre Mussolini dichiarò che «il
vecchio antipatriottismo è tramontato» e cinque giorni dopo, sul primo numero de Il Popolo d'Italia (fondato dallo stesso Mussolini),
uscì il famoso pezzo Audacia in cui Mussolini scrisse a favore della guerra[22][23]. Queste prese di posizione dei socialisti a favore
della guerra, non erano, per la maggior parte conversioni improvvise. Fondamentalmente, pur con motivazioni e obiettivi diversi,
c'era la convinzione della maggior parte delle correnti politiche dell'epoca che la guerra era destinata a cambiare il mondo, per cui era
impossibile e poco augurabile, rimanerne fuori, in quanto essa avrebbe comunque travolto le vecchie convinzioni e i vecchi
equilibri[24] Ciò spiega lo schieramento a favore della guerra di uomini e gruppi che si rifacevano alla tradizione socialista e
democratica, definendo quello che successivamente venne chiamato «interventismo democratico» o nel caso dei socialisti,
«rivoluzionario». Per questi ultimi la guerra era auspicabile come base di partenza per il «grande incendio che avrebbe travolto tutto
il vecchio ordine», che avrebbe portato ad una rivoluzione sociale, e come scrisse il 5 dicembre 1914 Filippo Corridoni
sull'Avanguardia, avrebbe permesso di: «[...] spianare la via della rivoluzione sociale, eliminando gli ultimi rimasugli della
[25].
preponderanza feudale» consentendo la presa di coscienza di classe del proletariato

Per quanto riguarda la corrente liberale, la leadership giolittiana aveva ormai da molto tempo scelto come possibili alternative
Sonnino e Salandra, il primo dei due ebbe precedentemente già in due occasioni l'opportunità di guidare il governo, mentre il secondo
era ministro già dai tempi della sua partecipazione al governo Pelloux. Alle elezioni politiche del 1913 Salandra fu messo a capo del
governo e avviò un'opera di riavvicinamento alla politica giolittiana, mantenendo alcuni ministri dell'esecutivo Giolitti, fra i quali il
Ministro degli esteri Di San Giuliano. Parallelamente però Salandra ebbe l'ambizione di spostare gli equilibri all'interno del partito
liberale e di spostare a destra l'asse che Giolitti aveva orientato a sinistra. Questo spostamento degli equilibri, portò durante il
prosieguo degli eventi Salandra prima ad appoggiare la causa neutralista e infine quella interventista, convinto dall'intesa personale
con Sonnino, il quale dopo aver preso il posto di Di San Giuliano, raccolse intorno a sé l'autonomia necessaria per approntare una
serie di trattative segrete con gli schieramenti in guerra[26]. Il 26 aprile 1915 concluse le trattative con l'Intesa mediante la firma del
Patto di Londra, con il quale l'Italia si impegnava a entrare in guerra entro un mese[27]. Il 3 maggio successivo la Triplice alleanza fu
denunciata e fu avviata la mobilitazione; il 23 maggio infine l'Italia dichiarò guerra all'Austria-Ungheria ma non alla Germania, con
[13].
cui il governo Salandra sperava di non rompere del tutto

Il ruolo degli intellettuali


Mentre la politica è impegnata nei mesi di neutralità a compiere calcoli sulle forze e sulle opportunità del paese nell'entrare nel
conflitto, entrarono in campo gliintellettuali, che si prefissero lo scopo di moralizzare e idealizzare una situazione, che dal canto loro,
non era solo una mera scelta di guadagni territoriali ed egemonia politica. Intellettuali "riformisti" e "rivoluzionari" (questi ultimi
intesi come coloro che intendono la "rivoluzione" come compimento della patria) dicono sì alla guerra in nome dei valori assoluti in
seno ai principi dell'89 e in nome del crollo definitivo delle antiche monarchie che si scontrano con i «popoli liberi d'Europa»[28].
Portavoce di alto prestigio di questi valori fu Gaetano Salvemini, storico della rivoluzione francese, indipendente di sinistra e critico
intransigente di Giolitti - «ministro della mala vita» - e delle capacità riformatrici del Partito socialista; il direttore de L'Unità non fu
un convertito dell'ultima ora, ma fu fin dal principio ancorato ai suoi ideali di interventista democratico, patriota italiano e cittadino
dell'Europa delle nazioni. Nell'imminenza della guerra e nel corso del conflitto, Salvemini accentua il suo attivismo per stimolare le
coscienze, specie quelle giovani, con assidui commenti ed articoli, come quando propone come parola d'ordine nazionale e
internazionale il suo Delenda Austria!, scorgendo nell'Impero asburgico l'antagonista «decrepito e irriformabile del liberi popoli
d'Europa»[29].

Ma Salvemini non fu l'espressione di un'opinione prevalente non insita dalle opposte correnti di opinione. La voce di Benedetto
Croce fu ugualmente rappresentativa a quella dello storico pugliese, anzi, scrivendo sulla sua rivista culturale La Critica, Croce ebbe
maggior diffusione nel mondo dell'alta cultura, delle istituzioni e nell'area della classe dirigente liberale e del centro-destra. Mentre
Salvemini fu fin da subito interventista, a favore dell'Intesa e di un'Italia rivolta ai valori di progresso e di libertà contro gli Imperi
centrali, Croce - originariamente triplicista, poi neutralista condizionato dall'impegno governativo - assunse un ruolo meno
"rumoroso" rispetto ai movimenti interventisti di sinistra o di destra[30]. Benedetto Croce prese fin da subito le distanze dai «rissosi e
petulanti frutti di una ideologizzazione del conflitto» che il filosofo, nelle pagina del La Critica, cercò invece di razionalizzare come
involgarimento dei tempi e anche a comprendere quale espressione di emozioni collettive e amplificazioni propagandistiche.
Nonostante le critiche che dovette subire da uomini di cultura come Renato Serra e Giovanni Gentile, i quali lamentavano in lui un
«eccesso di spirito olimpico», la figura di Croce si staglia, soprattutto se commisurata alla nuova estetica del sangue e della violenza
di Giovanni Papini, Ardengo Soffici e dei futuristi che trovarono sfogo suLacerba[31].

Nel mondo cattolico, forse a causa del suo orientamento moderato e pragmatico di fronte alla guerra, teso alla rilegittimazione civica
dei cattolici nello stato liberale, è molto difficile individuare qualcuno che riesca a farsi sentire. Vescovi e parroci o uomini d'Azione
Cattolica non costituirono una voce capace di inserirsi in modo incisivo nel dibattito su cause e fini della guerra; solo il nazionalista
Alfredo Rocco riuscirà a rivolgersi ai cattolici in modo deciso. Rocco invocava la guerra non solo per disegnare una politica estera di
espansione territoriale, commerciale e militare, ma la utilizza anche in una prospettiva strategica di ricomposizione di un vasto blocco
sociale e politico impensabile senza le masse confessionali e il potenziale disciplinamento insito nella storia, nei simboli e nella
cultura della Chiesa cattolica e dei suoi fedeli[32]. Il discorso che Rocco porta avanti nel secondo semestre del 1914 sull'organo del
nazionalismo veneto, Il Dovere Nazionale, è innovativo perché teorizza la conquista della piazza tramite le tecniche della
mobilitazione di massa da parte di una nuova destra che vada oltre le «idiosincrasie delle élites tradizionali della destra salandriana».
Queste idee troveranno spazio e forma ne L'Idea Nazionale, il quotidiano nazionalista romano che nella primavera del 1915, diede
voce alla faziosità antineutralista e liberticida degli intellettuali militanti del nazionalismo italiano - Enrico Corradini, Francesco
Coppola, Luigi Federzoni, Maffeo Pantaleoni - che offrirono una sponda politica al patriottismo di Gabriele D'Annunzio nel suo
"maggio radioso"[33].

Il «radioso maggio»
Il 5 maggio 1915, in seno alle imponenti manifestazioni che si svolsero a Genova in occasione del 65º anniversario dell'impresa
garibaldina dei "Mille", due cortei composti in tutto da circa 20.000 persone, a cui si aggiunse una gran folla assiepata nelle strade,
raggiunsero l'area dello scoglio di Quarto da cui partì l'impresa di Giuseppe Garibaldi, e dove era programmata l'inaugurazione del
monumento dedicato alla spedizione garibaldina del 1860[34]. A tenere l'orazione ufficiale della commemorazione fu chiamato
Gabriele D'Annunzio, il quale era allora un'autentica celebrità per il pubblico. D'Annunzio aveva inaugurato la nuova figura di
intellettuale abituato a comparire sugli scenari della vita pubblica, a dettare aspetti della moda, a influire i comportamenti collettivi e
ad usare i mezzi di comunicazione di massa[35]. La performance di D'Annunzio fu all'altezza della sua fama; il discorso fu teso a
circondare l'evento di un alone di sacralità, e il timbro principale fu dunque quello religioso, e religiosi - anzi biblici - furono molti
dei rimandi simbolici e delle movenze ritmiche dell'orazione. Tutto il discorso fu pieno di riferimenti mistici, riprendendo la
simbologia classica e cristiana, con continue allusioni al fuoco sacro simbolo di rigenerazione, di ardore guerresco e di eroismo, di
fusione tra la vita e la morte[36]. D'Annuzio diede forma agli umori di una Italia convinta di poter contare in Europa spinta
dall'affermazione della sua identità. E nella quale nulla appariva più esecrabile alle giovani generazioni, del vecchio modo di
concepire la vita rappresentato dalla politica paziente di giolittiana memoria, al quale andava contrapposto il bisogno di bellezza, di
grandezza e di cambiamento. Tutto ciò fu rappresentato alla perfezione da D'Annunzio, il quale entrava in rotta di collisione con la
vecchia Italia, prudente e appartata, che la classe dirigente liberale aveva forgiato e che ora sembrava attardarsi colpevolmente di
fronte alla guerra[37].

Tutto ciò precedette di poco la crisi di governo che colpì il paese attorno alla metà di maggio, e che mise alla luce la dinamica delle
forze che nel frattempo si erano accumulate, che in quei giorni uscirono allo scoperto caratterizzando gli avvenimenti di quel mese,
definiti enfaticamente «radiose giornate», ma ribattezzate dagli oppositori come «sud americane giornate di maggio.». A innescare la
crisi fu la venuta di Giolitti a Roma il 9 maggio, che imbaldanzì i deputati di orientamento neutralista, che erano la maggioranza, e
scompaginò i piani di Salandra e del re e gettò sconcerto nelle file degli interventisti[38]. I neutralisti avrebbero potuto votare per la
sfiducia al governo, e il candidato più probabile alla successione era per forza di cose lo stesso Giolitti, che da abile manovratore
avrebbe aperto all'ala socialista tenendo in mano le redini del governo. Questo pericolo scatenò la reazione degli interventisti, e in
tutto il paese, col concorso dei maggiori organi di stampa e degli intellettuali, primo fra tutti D'Annunzio, da più parti si levarono
grida di tradimento. In quest'ottica il parlamento appariva svuotato ed esautorato da ogni funzione rappresentativa, dal momento che
si muoveva in controtendenza rispetto a quella che veniva - arbitrariamente - considerata la volontà nazionale. A corroborare tutto ciò
venne l'ondata di manifestazioni interventiste che si sollevarono in tutto il paese non appena si ebbe notizia delle dimissioni del
governo, la sera del 13 maggio[39].

A queste pressioni risposero manifestazioni neutraliste, specialmente in Toscana ed Emilia


Romagna, dove si arrivò addirittura a scontri violenti, e a Torino, dove le manifestazioni
neutraliste furono imponenti e portarono ad uno sciopero generale contro la guerra.
Generalmente però le manifestazioni interventiste furono più numerose e interessarono in
modo omogeneo tutta la penisola, interessando anche il sud Italia che fino ad allora era
rimasto perlopiù passivo. Parma, Padova, Venezia, Genova, Milano, Catania, Palermo e molte
altre città videro cortei di diverse migliaia di persone percorrere le strade e manifestare a
favore della guerra, ma l'epicentro della "sollevazione" interventista fu Roma, dove il clima fu
particolarmente arroventato[40].

Spinte dalle forti campagne di agitazione interventista di Mussolini e dei gruppi nazionalisti,
dall'arrivo di D'Annunzio nella capitale e dalla notizia delle dimissioni del governo, le Acclamazione alla Camera,
dimostrazioni presero una piega nettamente eversiva. L'uso di toni scurrili e di una il 20 maggio 1915, per il
propensione all'aggressione fisica e verbale degli avversari, esasperata dagli appelli alla voto che conferisce pieni
violenza degli interventisti che invocarono addirittura all'omicidio come arma politica, fece poteri al Governo in vista
dell'entrata in guerra
precipitare il clima politico in una sorta di guerra civile. Cominciò a farsi strada l'idea che
dell'Italia.
contro i recalcitranti non vi fosse altro linguaggio utile che la violenza[41]. A chiudere il
cerchio intervenne l'iniziativa della monarchia, la quale, anziché prendere atto
dell'orientamento della maggioranza parlamentare e incaricare Giolitti di formare un nuovo governo, diede nuovamente l'incarico a
Salandra. Fu una sfida aperta al Parlamento, in linea con le pressioni eversive della piazza. Il 20 maggio il parlamento riunito ratificò
la decisione dell'intervento e il 24 maggio l'Italia entrò ufficialmente in guerra, in un vortice di situazioni che offrono molti argomenti
per dare peso alla tesi del "colpo di stato", inteso come violazione delle regole costituzionale o almeno, della volontà parlamentare da
parte della monarchia. La scelta del re scavalcò queste regole e si mise dalla parte della sovversione violando la tradizione
democratico-parlamentareche aveva presieduto alla vita dello stato liberale fino a quel momento. La cosa si sarebbe ripetuta poi nel
1922 di fronte all'azione sovversiva delle squadre d'azione mussoliniane, dove l'azione del re, di fatto legittimò i sediziosi e conferì
[42].
l'incarico di governo allo stesso Mussolini che li capeggiava

Le Forze armate italiane

Il Regio Esercito
Alla vigilia del conflitto
Il 3 luglio 1914 la salma del Capo di Stato Maggiore del Regio Esercito, generale Alberto Pollio, entrava nella stazione di Porta
Nuova a Torino, in mezzo a due ali di ufficiali in alta uniforme, diretta a Roma. Nel viaggio di accompagnamento delle spoglie del
Capo di Stato Maggiore era presente anche Luigi Cadorna, che avrebbe assunto il suo incarico il 27 luglio. Appena quattro mesi
prima il generale Pollio aveva presentato una relazione in cui scriveva: «[...] se l'esercito italiano dovesse essere portato all'altezza
degli eserciti delle altre grandi potenze europee, pur tenendo conto esatto della differenza numerica esistente fra le rispettive
popolazioni, occorrerebbe all'Italia compiere uno sforzo grandioso». Da questa considerazione egli elencava le molte carenze
tecniche che affliggevano le forze armate, ma già dal 1913 il generale si lamentò dell'addestramento delle truppe e della preparazione
alla guerra, ritenuto insufficiente e lacunoso di buoni sottufficiali. La relazione del generale Pollio, trasmessa al generale Spingardi,
allora ministro della Guerra, aveva richiesto un finanziamento dell'esercito di 400 milioni[43]. Costretto a rinunciare al suo incarico
per motivi di salute, Spingardi lasciò il posto al generale Carlo Porro, il quale aveva posto quale condizione inderogabile per
l'accettazione di tale incarico il citato finanziamento. Alla controfferta di 190 milioni fatta dall'onorevole Salandra, il Porro rifiutò
l'incarico, così venne designato il generale Luigi Cadorna, il quale si trovò ad operare in un momento cruciale per l'esercito e in
[44].
circostanze delicate dettate dall'imminente scoppio del conflitto

Luigi Cadorna sapeva bene che allo scoppio delle ostilità a lui sarebbe aspettato il compito di attuare il dettato militare della Triplice
Alleanza, secondo il quale l'Italia avrebbe dovuto schierarsi accanto a Germania e Austria-Ungheria, sennonché l'annuncio della
neutralità lo sollevò da un vero e proprio incubo, consentendogli di dedicarsi al riassetto dell'esercito in base alle nuove prospettive
che si poteva supporre. A fine settembre Cadorna trasmise a Salandra un messaggio in cui consigliava di poter impiegare la stasi
invernale in un'attiva preparazione dell'esercito, che avrebbe consentito di poter contare a primavera di un esercito composto da 4
[45].
armate (più il comando Zona Carnia) per 14 corpi d'armata con 35 divisioni di fanteria e 4 di cavalleria

Per quanto riguarda le previsioni operative, Cadorna stilò il 21 agosto la fondamentale


Memoria riassuntiva circa un eventuale azione
offensiva verso la Monarchia austro-ungarica durante l'attuale conflagrazione europea: essa configurava la strategia che si sarebbe
attuata in un possibile conflitto italo-austriaco, e il progetto di mobilitazione e radunata alla frontiera nord-orientale. Mobilitazione
che a causa delle caratteristiche geografiche e della struttura ferroviaria della penisola e della rigida costituzione dell'ordinamento
militare italiano non era suscettibile di modifiche e che in sostanza venne quindi decisa fin da quel momento. In questo documento
venne quindi deciso che il principale sforzo doveva essere diretto verso la frontiera aperta del Friuli, puntando verso Gorizia e
Trieste, senza però escludere una parziale invasione del Trentino, incentrando però questa parte del fronte ad un ruolo difensivo a
causa delle difficoltà logistiche dell'alta montagna e alla mancanza di un numero sufficiente di armi d'assedio che non avrebbe
[46]. Il 1º settembre Cadorna diramò le direttive fondamentali sull'impiego iniziale
consentito di espugnare i sistemi fortificati esistenti
delle forze in caso di guerra, tenuto conto del potenziamento al parco delle artiglierie che era stato avviato. La 4ª Armata avrebbe
avviato un'azione offensiva contro gli sbarramenti di Sesto, Landro e Valparola onde aprirsi uno sbocco nelle valli della Rienza e
della Drava, assicurandosi il possesso di Dobbiaco, con lo scopo di isolare il saliente trentino e appoggiare le truppe in Carnia. In
questo frangente la 1ª Armata avrebbe assunto un atteggiamento difensivo. Nel settore pertinente alla Zona Carnia si sarebbero
avviate le operazioni dirette a far cadere le opere permanenti di Malborghetto, Predil e Plezzo, mentre la 2ª Armata avrebbe dovuto
occupare monte Stol, la soglia di Caporetto, monte Matajur e il crinale Kolovrat-Korada. Infine la 3ª Armata, impossessatasi
dell'altura di Medea e dei ponti sull'Isonzo fra Cervignano e Monfalcone, avrebbe assicurato lo sbocco sulla riva sinistra dell'Isonzo,
in vista di un successivo balzo sui primi rilievi delCarso[47].

Gli studi condotti fin dall'agosto 1914 sul problema della mobilitazione dell'esercito, il cui spostamento alla frontiera avrebbe
richiesto almeno un mese, e avrebbe comportato provvedimenti talmente vistosi da far temere mosse anticipate da parte degli
avversari, condussero all'adozione di un nuovo sistema di mobilitazione definito come «mobilitazione rossa». Esso entrò in vigore il
1º marzo 1915, con successivi richiami alle armi di militari in congedo effettuati non mediante pubblici bandi, ma attraverso la
precettazione personale. Si cercò in pratica di tenere quanto più segreti possibile i preparativi per la guerra, ma l'efficiente servizio
[48].
informazioni austro-ungarico venne a conoscenza dei preparativi fin dal 26 marzo

Cadorna si preoccupò di portare l'esercito al massimo dell'efficienza contemplata dai piani prebellici; le unità di cui era prevista la
costituzione al momento della mobilitazione (10 divisioni) vennero impiantate in anticipo affinché garantissero la stessa formazione
ed efficienza di quelle permanenti. L'attenzione del Capo di Stato Maggiore si rivolse principalmente agli ufficiali e all'artiglieria.
Ricorrendo a corsi accelerati e promozioni straordinarie, a metà luglio 1915 erano disponibili 17.000 ufficiali in carriera e 22.000 di
complemento. Fu migliorata l'organizzazione dell'artiglieria e velocizzata l'introduzione di nuovi materiali; venne aumentata la
produzione di cannoni campali da 75 mm e dei nuovi obici da 149 mm, e le batterie di artiglieria leggera passarono da 6 a 4 pezzi per
guadagnare in mobilità, utile nella guerra di movimento ma, come si paleserà, non alla guerra di trincea[49]. L'esercito si adoperò
anche ad aumentare il numero di fucili e del loro munizionamento, ma non si colse la necessità di commesse maggiori per il
munizionamento dell'artiglieria; insufficienti si rivelarono anche il numero di mitragliatrici e bombe a mano, mentre il numero di
pezzi e munizioni per l'artiglieria media e pesante restarono per parecchio tempo, anche dopo l'entrata in guerra, molto scarsi[50]. Il
rafforzamento voluto da Cadorna fu insufficiente per quantità e qualità: l'esercito scese in campo nel 1915 sostanzialmente con le
forze previste nel 1914, meglio organizzate, ma senza quei progressi per l'artiglieria e il munizionamento che i combattimenti in corso
indicavano come necessario, anzi, l'esercito austro-ungarico nel complesso durante i dieci mesi di neutralità italiana accentuò il
divario con l'esercito italiano seppur provato dagli scontri che aveva dovuto sostenere. Nel luglio 1915 il Regio Esercito aveva
mobilitato 31.000 ufficiali, 1.058.000 uomini di truppa, 11.000 civili e 216.000 quadrupedi, mentre le forze complessive dislocate
all'interno del paese erano circa 1.556.000 uomini. Nel contempo la forza combattente austro-ungarica seppur avesse subito perdite
non molto inferiori alla forza iniziale - un milione e mezzo di combattenti nell'agosto 1914, 1.250.000 tra morti, feriti, dispersi e
malati entro l'anno - nell'estate 1915 schieravano ancora un milione e mezzo di soldati, già addestrati alla guerra di trincea, con più
[51].
mitragliatrici, cannoni medi e pesanti e una adeguata produzione di munizioni

In sostanza, durante la neutralità, tra le alte sfere decisionali in Italia, tutti ragionavano ancora con il metro del tempo di pace, soltanto
[52].
la condizione di guerra riuscirà a produrre le grandi accelerazioni che la mobilitazione di guerra richiese in tutti i campi

L'ampliamento dell'esercito del 1916

La riorganizzazione dopo Caporetto

La Regia Marina
La Regia Marina affrontò il conflitto con equipaggi formati da ufficiali e sottufficiali professionisti e marinai in servizio di leva; come
il Regio Esercito le motivazioni dei marinai nell'affrontare il conflitto erano alte ma col passare del tempo si attenuarono, e l'inazione
forzata delle unità maggiori determinata dalla permanenza in porto delle navi da battaglia austroungariche incise negativamente sul
morale degli equipaggi, anche se non vi furono ammutinamenti di rilievo come quello di Cattaro e quello di Kiel della Kaiserliche
Marine. Il numero e la qualità delle navi erano adeguati ad affrontare il compito principale della flotta, che era quello di vincere in un
confronto diretto la squadra da battaglia austro-ungarica; più difficile era proteggere le estese coste italiane dalle offese dal mare vista
anche l'impreparazione della componente aerea della flotta, che quindi spesso permise alle navi austroungariche di avvicinarsi
indisturbate e colpire gli obbiettivi anche se spesso senza risultati rilevanti.

Nella flotta esisteva una rete relativamente efficiente di spie avversarie, che oltre a raccogliere informazioni mise anche a segno
alcuni colpi eclatanti, come l'affondamento della corazzata Benedetto Brin; anche l'affondamento della Leonardo da Vinci venne
attribuito a sabotatori[53] ma col tempo queste ipotesi vennero considerate inattendibili[54][55]. A loro volta i servizi informativi della
Marina diretti dal capitano di vascello Marino Laureati[56] misero a segno un colpo in territorio svizzero, riuscendo a penetrare
l'ambasciata austroungarica in Svizzera e ottenere una lista di agenti nemici in Italia in quello che venne denominato il colpo di
Zurigo[57][58].

Nuove armi e nuove tattiche


Come le altre forze belligeranti, l'esercito italiano imparò con l'esperienza. All'inizio del 1916, dopo le pesanti perdite patite nelle
prime battaglie dell'Isonzo, agli ufficiali inferiori fu ordinato di non condurre più gli uomini dalle prime linee ma di tenersi dietro di
essi, e di eliminare dalle loro uniformi ogni elemento che le rendesse troppo distinguibili da quelle dei soldati come fasce e spade[59].
Alla fine del 1915 iniziarono ad arrivare alle truppe nuovi equipaggiamenti, come indumenti appositi per il clima di alta montagna e
vari dispositivi di protezione personale sperimentali: alle unità di tagliafili delle "compagnie della morte" furono distribuite le
cosiddette "corazze Farina", pettorali con paraspalle composti da diversi strati di acciaio corredati da un grosso elmo a calotta con
fronte rinforzata, i quali tuttavia si rivelarono eccessivamente ingombranti (la
corazza pesava più di nove chili, l'elmo oltre due chili) e molto spesso
insufficientemente resistenti alle pallottole austro-ungariche[60]; tra l'ottobre e il
novembre 1915 furono distribuite alle truppe i primi elmetti personali, il modello
"Adrian" importato dalla Francia poi ufficialmente adottato all'inizio del 1916 e
prodotto anche in Italia comeElmetto Mod. 16[61].

Oltre a incrementare enormemente


Una trincea italiana sull'Adamello
la produzione di artiglieria e
con, in primo piano, una bombarda
da 240 mm mitragliatrici, l'industria italiana
iniziò a fornire alle truppe anche
nuove armi: le prime bombe a
mano furono distribuite alla fine del 1915, e gli esemplari più diffusi furono la SIPE
e due modelli importati dalla Francia, la Excelsior-Thévenot P2 e il Petardo
Thévenot[62]; all'inizio del 1916 furono invece consegnati i primi esemplari di una
bombarda capace di sparare grossi proiettili in calibro 400 mm dotati di alette,
un'ottima arma per demolire i reticolati di filo spinato rimanendo al riparo delle Il primo carro armato italiano, ilFiat
proprie trincee[63]. L'esercito italiano fu il primo a introdurre in servizio, nell'agosto 2000
1915, un tipo di pistola mitragliatrice, la Villar Perosa[64], affiancata poi nel 1918 da
altri due modelli di più moderna concezione come il Beretta MAB 18 e lo OVP
prodotti però in pochi esemplari; nel settembre 1917 furono dati in dotazione ai reparti d'assalto i primi esemplari di lanciafiamme (il
francese Schilt 3 bis, poi integrato da vari modelli di produzione italiana)[65], i quali tuttavia si rivelarono armi troppo ingombranti e
vulnerabili per l'impiego negli attacchi[66].

Nel campo dei mezzi blindati, che proprio durante il conflitto conobbero un loro primo sviluppo, l'Italia entrò in guerra con in
dotazione alcune decine di autoblindo dei modelli Bianchi e Lancia 1Z: inizialmente, il terreno montuoso del fronte e la scarsa
considerazione dei comandi per questi mezzi fecero sì che fossero impiegati solo in compiti di retrovia e di mantenimento dell'ordine
pubblico, ma dopo la rotta di Caporetto le pianure del Veneto e del Friuli si dimostrarono una zona più adatta al loro utilizzo e le
autoblindo furono impegnate con successo nel corso della battaglia del Solstizio e dell'inseguimento dell'esercito astro-ungarico dopo
la rotta di Vittorio Veneto[67]. Il primo carro armato di produzione italiana, il Fiat 2000, fu presentato alle autorità militari nel giugno
1917: mezzo mastodontico dal peso di quasi 40 tonnellate, fu prodotto in soli due esemplari utilizzati durante la guerra solo per
compiti addestrativi. Alla fine del 1917 furono importati dalla Francia per prove e valutazioni un esemplare del carro pesante
Schneider CA1 e quattro dell'ottimo carro leggero Renault FT; questi ultimi fecero da modello per un nuovo carro di concezione
[68].
italiana, il Fiat 3000, ma la messa a punto del mezzo fu completata solo dopo la cessazione delle ostilità

Una importante innovazione tattica fu la costituzione, a partire dal luglio 1917, dei
primi "Reparti d'assalto", i cui membri furono collettivamente noti come "Arditi":
eredi dei reparti di esploratori reggimentali esistenti già dal 1914, gli Arditi erano
truppe d'assalto specificamente addestrate per la conquista delle trincee e dei
capisaldi nemici e per la conduzione delle missioni più rischiose, operando in piccoli
reparti autonomi aggregati ai vari corpi d'armata; per ripagare le pesanti perdite a cui
questi reparti andavano incontro, gli Ardii ricevettero alcuni privilegi rispetto alle
comuni unità di fanteria come rancio e vitto migliore, una disciplina meno severa e
Un gruppo di Arditi italiani l'esenzione dai turni di guardia in trincea[69]. I Reparti d'assalto ebbero il loro
battesimo del fuoco durante l'undicesima battaglia dell'Isonzo e poi ancora durante
Caporetto, quando furono frequentemente impiegati come retroguardia delle unità in
ripiegamento verso il Piave; per il 1918, in aggiunta ai reparti aggregati ai corpi d'armata, erano state costituite due intere divisioni
d'assalto, e gli Arditi furono intensamente impegnati nella battaglia del Solstizio e poi duranteittorio
V Veneto[70].
Le innovazioni riguardarono anche la guerra in mare: la Marina si era preparata a
una guerra convenzionale con scontri diretti tra unità maggiori, e davanti a uno
scenario fatto di rapide incursioni da parte di unità veloci e sommergibili mentre le
corazzate nemiche rimanevano ferme in porto dovette mutare atteggiamento. Nel
luglio 1915 fu commissionata alla ditta SVAN la realizzazione di un piccolo
motoscafo armato di siluri, da impiegare come silurante veloce e mezzo anti-
sommergibili: il Motoscafo armato silurante o MAS, realizzato in quasi 300
esemplari di vari tipi, si rivelò un mezzo molto adatto alla guerra di rapida corsa
negli spazi ristretti del mar Adriatico, impegnato sia nell'attacco delle unità sorprese
Una coppia di MAS in esercitazione
in navigazione sia in incursioni notturne all'interno degli stessi porti nemici[71]. La
necessità di portare l'attacco alle unità all'ancora nelle basi navali austro-ungariche
portò a ideare una serie di nuovi mezzi insidiosi: nel 1917 fu ideato il barchino saltatore, un piccolo motoscafo silurante dotato di
ramponi con cui scalare e superare le ostruzioni all'imboccatura dei porti, mentre nel 1918 fu impiegata la Torpedine semovente
Rossetti, un siluro autopropulso con cui due sommozzatori (il maggiore Raffaele Rossetti, ideatore del mezzo, e il tenente medico
Raffaele Paolucci) penetrarono nel porto diPola per affondarvi la nave da battagliaSMS Viribus Unitis[72].

L'impiego dell'arma chimica


Seppur non con l'intensità raggiunta sul fronte occidentale, anche nel teatro italiano si verificarono episodi di impiego delle armi
chimiche: le forze austro-ungariche impiegarono saltuariamente granate di gas lacrimogeno fin dalle prime fasi del conflitto, mentre
il primo caso di impiego di gas tossici si ebbe il 29 giugno 1916 quando sulle posizioni italiane nelle vicinanze del Monte San
Michele fu rilasciata una miscela gassosa a base di cloro e fosgene, causando 2.000 morti e 5.000 intossicati[73]; gli austro-tedeschi
utilizzarono ancora gli aggressivi chimici con notevole efficacia nelle fasi iniziali della battaglia di Caporetto nell'ottobre 1917 e poi,
con minor successo, durante la battaglia del Solstizio nel giugno 1918. Le truppe italiane erano entrate in guerra con in dotazione una
maschera antigas di produzione nazionale, la "maschera polivalente a protezione unica", costituita da più strati di garza imbevuti di
sostanze chimiche che dovevano neutralizzare l'effetto dei gas: abbastanza efficace contro il cloro, la maschera era però quasi inutile
contro alte concentrazioni di fosgene e contro aggressivi chimici più moderni come il difosgene e la difenilcloroarsina, e alla fine del
1917 fu abbandonata in favore della più efficace maschera britannica Small Box Respirator (a sua volta derivata dalla maschera
francese M2)[74].

Dal punto di vista offensivo, l'Italia iniziò la produzione di cloropicrina nell'autunno del 1916 presso i laboratori dell'istituto di
farmaceutica dell'Università di Napoli, mentre nel 1918 lo stabilimento della Rumianca di Genova produceva fosgene al ritmo di sei
tonnellate al giorno; entro la fine della guerra l'Italia produsse un totale di circa 13.000 tonnellate di aggressivi chimici[74]. Le truppe
italiane impiegarono le armi chimiche una prima volta nell'agosto 1917, durante l'undicesima battaglia dell'Isonzo, e poi ancora nel
giugno 1918 nella zona del monte Grappa; armi chimiche furono poi impiegate dalle truppe italiane e francesi nel corso della
battaglia di Vittorio Veneto, in particolare nelle zone diFolgaria, Sernaglia e dell'Altopiano di Asiago[74].

Lo sviluppo dell'arma aerea

Le operazioni militari

Il fronte italiano
Il principale settore bellico dell'Italia correva lungo le Alpi orientali per una lunghezza di 655 chilometri, dal Passo dello Stelvio a
ovest fino alla foce dell'Isonzo a est. La 1ª Armata italiana copriva il saliente del Trentino, tenuto dagli austro-ungarici, con compiti
principalmente difensivi, mentre la 4ª Armata doveva operare sulle Dolomiti; un corpo d'armata autonomo dislocato sulle Alpi
Carniche faceva da cerniera con le armate dislocate a est lungo l'Isonzo, la 2ª sul medio corso del fiume e la 3ª tra questa e il
mare[75]. Fin dal 24 maggio Cadorna ordinò un'avanzata dei reparti italiani lungo tutto il fronte, ma con la mobilitazione dell'esercito
ancora in pieno svolgimento l'azione si sviluppò molto lentamente consentendo agli austro-ungarici del generale Svetozar Borojević
von Bojna di correre ai ripari: nel corso delle prime
settimane furono occupate alcune zone del Trentino
meridionale, Cortina d'Ampezzo, Caporetto, Monfalcone e
la vetta del Monte Nero, ma fu solo alla fine di giugno che
le forze italiane furono pronte per assalire le difese austro-
ungariche.

Tra il 23 giugno e il 5 dicembre 1915 Cadorna sferrò


quattro distinte offensive contro le difese austro-ungariche
dell'Isonzo, attestate a difesa di Gorizia lungo una linea tra
le vette del monte Sabotino e del Podgora, subendo
pesantissime perdite (62.000 morti e 170.000 feriti) a fronte
di guadagni territoriali insignificanti[76]; i contemporanei
attacchi della 4ª Armata sulle Dolomiti non ebbero miglior
successo, con violenti scontri in uno scenario di alta Operazioni sul fronte italiano tra il giugno 1915 e il
montagna in mezzo a ghiacciai e quote mediamente settembre 1917
superiori ai 2.000 metri di altitudine (la cosiddetta "Guerra
Bianca"). Il 1916 si aprì con una nuova fallimentare
offensiva italiana sull'Isonzo tra l'11 e il 15 marzo, seguita da una massiccia controf
fensiva austro-ungarica partita dal Trentino a metà
maggio: nel corso della battaglia degli Altipianio Strafexpedition ("spedizione punitiva"), le forze austro-ungariche arrivarono molto
vicine a spezzare le difese italiane nel settore dell'Altopiano dei Sette Comuni, finendo però con l'essere bloccate dalla dura resistenza
dei difensori[77].

Cadorna sfruttò la situazione favorevole per sferrare una nuova spallata a est ai primi
di agosto: nel corso della sesta battaglia dell'Isonzo le forze italiane riuscirono a
spezzare la linea austro-ungarica, prendendo il Sabotino e il Podgora e infine
conquistando Gorizia l'8 agosto. Le truppe di Borojević, tuttavia, furono in grado di
ristabilire una nuova linea difensiva poco più a est, ancorata sulle vette del Monte
Santo di Gorizia, del monte San Gabriele e del monte Ermada, contro cui si
infransero i successivi attacchi italiani: tra settembre e novembre Cadorna sferrò
altre tre offensive contro le posizioni austro-ungariche, guadagnando solo poco
terreno al prezzo di pesanti perdite[78]. Gli attacchi sull'Isonzo ripresero nella
Alpini italiani impegnati in una primavera del 1917, con un'offensiva tra il 12 e il 26 maggio e una seconda tra il 19
scalata nel 1915 agosto e il 19 settembre, inframezzate da una limitata controffensiva austro-ungarica
in giugno (la battaglia di Flondar): le forze italiane guadagnarono alcune posizioni,
conquistando il Monte Santo e affacciandosi sull'altopiano della Bainsizza, ma non
riuscirono a sopraffare le forti difese nemiche. Più a ovest, tra il 10 e il 29 giugno 1917, le forze italiane attaccarono la vetta del
[79].
monte Ortigara, subendo pesanti perdite con solo esigui guadagni territoriali

Spossati dai continui e inconcludenti assalti, i reparti italiani dovettero subire


una improvvisa controffensiva austro-tedesca nel settore di Caporetto tra il
24 ottobre e il 9 novembre 1917: sfruttando le nuove tattiche di infiltrazione
messe a punto dai tedeschi, i reparti degli Imperi centrali forzarono i punti
deboli dello schieramento della 2ª Armata sul medio Isonzo aggirandone i
capisaldi e spargendo il panico nelle retrovie; l'intera porzione orientale del
fronte crollò mentre i reparti italiani davano vita a una confusa ritirata prima
sul corso del fiume Tagliamento e poi fino alla riva meridionale del Piave, Fanteria italiana in azione sulMontello
dove le armate riuscirono infine a riattestarsi. La battaglia di Caporetto
rappresentò una pesante disfatta per il Regio Esercito, che subì 12.000 morti, 30.000 feriti e 294.000 prigionieri, oltre ad altri 400.000
[80].
soldati sbandati verso l'interno del paese e vaste perdite di materiale bellico tra cui più di 3.000 cannoni

Il 9 novembre 1917 Cadorna fu rimpiazzato alla guida dell'esercito dal generale Armando Diaz, che dedicò molti sforzi a ricostruire
le forze italiane, ricorrendo ai cosiddetti r"agazzi del '99" per rimpinguare i ranghi. Dopo un lungo periodo di stasi e rior
ganizzazione,
il 15 giugno 1918 i reparti austro-ungarici tentarono un'offensiva risolutiva attaccando sia a ovest il massiccio del monte Grappa che
al centro la linea italiana sul Piave, dando avvio alla battaglia del Solstizio: le truppe italiane ressero all'urto, e per il 22 giugno
l'azione si concluse con la ritirata delle forze austro-ungariche[81]. Diaz continuò con la sua paziente opera di riorganizzazione e
rafforzamento dei reparti italiani, ricevendo anche il sostegno di un nucleo di divisioni francesi e britanniche; il 24 ottobre 1918,
infine, le forze degli Alleati lanciarono la loro offensiva risolutiva: l'attacco italiano nel settore del Monte Grappa fu inizialmente
bloccato dalla dura resistenza degli austro-ungarici, ma al centro i reparti italiani, britannici e francesi stabilirono una serie di teste di
ponte sulla riva settentrionale del Piave, che furono a mano a mano allargate. Il 30 ottobre i reparti italiani entrarono a Vittorio
Veneto, punto di giunzione delle armate austro-ungariche schierate sul Piave, mentre Borojević ordinava una ritirata generale lungo
tutto il fronte: stremate dalla scarsità di viveri ed equipaggiamenti e in preda a forti divisioni dettate dalle istanze nazionaliste delle
varie etnie contro le autorità centrali, le forze austro-ungariche si disgregarono lasciando migliaia di prigionieri in mano agli Alleati
avanzati. Il 3 novembre 1918, mentre reparti italiani entravano a Trento e sbarcavano a Trieste, i delegati dell'Austria-Ungheria
firmarono l'armistizio di Villa Giusti, conclusivo delle ostilità sul fronte italiano[82].

Il teatro dei Balcani


Il Patto di Londra riconosceva all'Italia ampie pretese territoriali sull'Albania, all'epoca un principato indipendente da nemmeno due
anni e in preda a forti tumulti che avevano portato alla dissoluzione del governo centrale; già il 31 ottobre 1914 le truppe italiane
avevano occupato senza opposizione l'isolotto di Saseno, seguito il 26 dicembre dallo strategico porto di Valona[83]. Nel novembre
del 1915 l'esercito serbo, in rotta dopo essere stato battuto dalle forze degli Imperi centrali, si rifugiò nel nord dell'Albania chiedendo
assistenza agli Alleati: tra gennaio e febbraio del 1916 una flotta di navi italiane, francesi e britanniche evacuò dai porti albanesi circa
260.000 persone tra soldati e profughi civili serbi, oltre a 10.000 cavalli, 68 cannoni e altro materiale bellico[84]; le forze italiane
stabilirono una guarnigione a Durazzo, ma ne furono scacciate dalle truppe austro-ungariche che in breve tempo occuparono tutto il
nord e il centro dell'Albania.

La situazione rimase stazionaria per gran parte del conflitto, con un contingente italiano (arrivato a contare, al suo massimo, circa
100.000 uomini) padrone di Valona e del sud dell'Albania in congiunzione con il fronte stabilito dagli Alleati davanti Salonicco e nel
sud della Macedonia; solo tra il luglio e il settembre 1918 le forze italiane passarono all'offensiva e, dopo duri scontri nel settore del
monte Tomorr, ruppero il fronte austro-ungarico avanzando nell'interno dell'Albania: il 14 ottobre le unità italiane fecero il loro
ingresso a Durazzo mentre il 15 ottobre fu occupata Tirana. L'avanzata proseguì nell'Albania settentrionale, con l'occupazione di San
Giovanni di Medua il 28 ottobre e di Scutari il 1º novembre, prima che l'armistizio di Villa Giusti ponesse fine alle ostilità[85].

Su pressione degli anglo-francesi, nell'agosto 1916 l'Italia inviò un contingente a unirsi all'armata multinazionale raccolta dagli
Alleati a Salonicco per opporsi alle forze tedesco-bulgare nella Macedonia meridionale (la cosiddetta "Armata alleata in Oriente"): il
corpo di spedizione italiano, al comando del generale Ernesto Mombelli, arrivò a comprendere tre brigate di fanteria e un
distaccamento di aviazione, per un totale di circa 40.000 uomini[85]. Assegnate al settore occidentale del fronte macedone nella zona
tra il Lago Prespa e il fiume Vardar, le forze italiane combatterono a fianco dei reparti francesi e serbi durante l'offensiva di Monastir
del settembre-dicembre 1916 e della battaglia dell'ansa del Crna del maggio 1917, per poi partecipare alla decisiva offensiva del
[86].
Vardar del settembre 1918 che portò alla rottura del fronte e all'uscita dal conflitto della Bulgaria

Le operazioni navali
Inizialmente il peso delle operazioni alleate ricadde sulla marina francese; l'Italia allo scoppio del conflitto aveva dichiarato la sua
neutralità, mentre il Regno Unito era impegnato contro la Kaiserliche Marine nel mare del Nord e nella scorta al traffico mercantile
nel Mediterraneo. Nel contempo la k.u.k. Kriegsmarine effettuò soprattutto azioni di disturbo tramite sommergibili e naviglio
leggero, avvalendosi di U-Boot forniti dall'alleato tedesco sin dall'agosto 1914, i quali operarono con base nel porto di Pola sotto
bandiera austro-ungarica. La situazione cambiò il 23 maggio 1915, giorno in cui l'Italia (nel rispetto degli impegni presi col patto di
Londra) dichiarò guerra all'Austria-Ungheria. La Regia Marina si sobbarcò presto l'onere di intraprendere e gestire la guerra sul
fronte dell'Adriatico durante tutto lo svolgimento del conflitto.

Il confronto lasciò subito ampio spazio agli agguati dei sommergibili, alle imprese aeree e in un secondo tempo alle audaci incursioni
dei mezzi d'assalto quali i MAS. I due comandanti supremi contrapposti, l'ammiraglio Paolo Thaon di Revel e l'ammiraglio Anton
Haus (in seguito rimpiazzato da Maximilian Njegovan e quindi da Miklós Horthy) non vollero infatti rischiare le grandi corazzate in
acque ristrette, puntando invece su rapidi attacchi, sul blocco dei principali scali e sulla strategia della "flotta in potenza";
un'impostazione a cui si attennero in particolare gli austro-ungarici. Le operazioni non videro una netta prevalenza di uno dei
contendenti ed ebbero fine con l'entrata in vigore dell'armistizio di Villa Giusti il 4 novembre 1918, giorno in cui la Regia Marina
completò o mise in atto una serie di occupazioni anfibie delle maggiori città costiere nemiche.

Altri teatri
Già nell'agosto 1914, nel periodo in cui l'Italia era ancora neutrale, diverse centinaia di italiani si offrirono volontari in Francia per
combattere contro i tedeschi sul fronte occidentale, e come altre migliaia di volontari stranieri furono assegnati ad alcuni reggimenti
ad hoc costituiti in seno alla Legione straniera francese: un buon numero di italiani fu assegnato al 3e Régiment del Marche della
Legione insieme a volontari greci, belgi e russi, mentre il e4 Régiment del Marche era quasi interamente composto da italiani al punto
che fu soprannominato "Legione Garibaldina". Nel dicembre 1914 il primo reggimento fu inviato sul fronte della Somme mentre il
secondo operò nelle Argonne, ed entrambi subirono pesanti perdite negli scontri con i tedeschi; in vista della sua entrata in guerra, nel
[87].
marzo del 1915 il governo italiano chiese lo scioglimento dei due reparti e gli uomini rientrarono in Italia

Truppe italiane tornarono in Francia alla fine del 1917: come gesto di solidarietà per l'invio di divisioni francesi sul fronte italiano,
l'Italia mise a disposizione dell'alleato prima reparti di truppe ausiliarie per attività di costruzione di retrovie (le "Truppe ausiliarie
italiane in Francia" o TAIF), poi un intero corpo d'armata di truppe combattenti (il II Corpo d'armata del generale Alberico Albricci
con due divisioni di fanteria e truppe di supporto): in totale, furono inviati in Francia circa 60.000 uomini delle TAIF e 25.000 del II
Corpo. Il contingente italiano fu impegnato nell'offensiva di primavera tedesca del marzo-agosto 1918, subendo dure perdite nel
corso della seconda battaglia della Marna, per poi prendere parte alla grande controffensiva degli Alleati (l'offensiva dei cento giorni)
per poi concludere le operazioni come truppe di occupazione nellaSaar[88].

La situazione della Libia allo scoppio della prima guerra mondiale era turbolenta: gli italiani controllavano le principali città sulla
costa e alcuni presidi nelle regioni dell'interno, ma il resto del paese era largamente in mano ai gruppi di resistenti locali che
continuavano ad opporsi con le armi alla penetrazione coloniale dell'Italia. La fallimentare spedizione del colonnello Antonio Miani
nel Fezzan alla fine del 1914 e l'entrata in guerra dell'Impero ottomano (con la contestuale proclamazione da parte del sultano di una
"guerra santa" contro le potenze europee) rinsaldarono il morale dei guerriglieri libici, e all'inizio del 1915 gli italiani dovettero
abbandonare vari capisaldi, non senza subire forti perdite nei ripiegamenti: per l'agosto 1915 la presenza italiana in Tripolitania si era
ridotta alle città di Tripoli e Homs e alle loro immediate vicinanze, mentre in Cirenaica, dove la resistenza era guidata dalla
confraternita islamica dei Senussi, il controllo italiano non andava oltre una striscia di terreno tra Bengasi e Tobruch[89]. Le forze
italiane (tra i 60.000 e gli 80.000 uomini) dovettero portare avanti una dura guerra di posizione contro gli insorti libici, sostenuti da
invii di armi e rifornimenti da parte di Germania e Impero ottomano tramite i sommergibili tedeschi operanti in Mediterraneo; in
congiunzione con i britannici provenienti dall'Egitto, gli italiani inflissero alcune sconfitte ai Senussi in Cirenaica nel corso della
[89].
cosiddetta "campagna dei Senussi", spingendo infine al confraternita a negoziare un fragile accordo di pace il 17 aprile 1917

La situazione nelle altre colonie fu meno turbolenta. L'Eritrea italiana visse un periodo di tensione con il confinante Impero d'Etiopia
a causa della politica conciliante verso Germania e Impero ottomano da parte del nuovo imperatore ligg Iasù, un musulmano; la
situazione migliorò nel settembre 1916 quando le massime autorità etiopi condussero un colpo di Stato ad Addis Abeba,
detronizzando Iasù e rimpiazzandolo con la figlia del vecchio negus Menelik II, Zauditù: il complesso di quasi 10.000 uomini posto a
protezione della colonia italiana fu progressivamente ridotto e i reparti migliori del Regio corpo truppe coloniali d'Eritrea inviati a
combattere in Libia. La Grande Guerra accrebbe lo stato di isolamento della Somalia italiana, sostanzialmente lasciata a sé stessa; il
presidio italiano dovette subire alcune scorrerie e azioni minori da parte dei ribelli somali dello Stato dei dervisci, impegnati in una
[90].
decennale guerriglia contro i britannici delSomaliland, ma riuscirono a mantenere un certo controllo del territorio
Nel maggio 1917 un piccolo reparto italiano di circa 250 uomini e 5 aerei da
ricognizione fu inviato nellaPenisola del Sinai in appoggio alle forze britanniche, un
contributo simbolico allacampagna del Sinai e della Palestina.

L'esperienza dei soldati al fronte

Dalla guerra di manovra alla guerra di posizione Bersaglieri in Palestina durante un


Quando l'Italia entrò in guerra nel addestramento con una mitragliatrice

maggio 1915, il conflitto infuriava


già da quasi dieci mesi: entrati in
azione sulla base di piani preordinati che prevedevano grandi movimenti di truppe e
manovre avvolgenti e risolutive, gli eserciti contrapposti si erano ben presto ritrovati
invischiati in una sanguinosa guerra d'attrito caratterizzata da un fronte continuo e
ininterrotto di linee trincerate, che rendeva impossibile qualunque aggiramento e
obbligava a continui assalti frontali[91]. Il grado di sviluppo economico raggiunto
Una pattuglia di cavalleria italiana in dai belligeranti permetteva loro di mettere in campo grandi masse di uomini, dotate
ricognizione
di mezzi di elevata potenza distruttiva e riproducibili industrialmente su vasta scala
senza grosse differenze qualitative tra un esercito e l'altro; al tempo stesso, tuttavia,
la motorizzazione era solo agli inizi e questo rendeva difficile spostare celermente truppe e artiglieria sul campo di battaglia: gli
eserciti si ritrovavano così ammassati in spazi ristretti, vulnerabili al devastante fuoco dell'artiglieria e delle mitragliatrici. Se gli
assalti alle trincee potevano avere successo, il prezzo da pagare in vite umane era tale che l'attaccante si ritrovava spossato in breve
tempo, consentendo al difensore di far affluire rinforzi e tappare così la falla nelle sue linee[91].

Questa situazione non era sconosciuta all'alto comando italiano, grazie ai continui
rapporti che giungevano dagli osservatori inviati al fronte (in particolare dagli
addetti militari a Parigi, tenente colonnello Giovanni Breganze, eBerlino, colonnello
Luigi Bongiovanni)[91]; questi misero in luce il potere distruttivo di mitragliatrici e
artiglieria e il ruolo sempre più centrale delle trincee, ma come del resto la maggior
parte degli ufficiali superiori degli eserciti belligeranti ritennero la guerra di
posizione come un fatto temporaneo: la convinzione era che l'incremento della
potenza difensiva rendesse più costosi gli attacchi, ma non fino a un livello
inaccettabile[92]. Cadorna rimase convinto che la guerra di logoramento fosse solo
una condizione temporanea, e che sarebbe stata la manovra delle truppe a decidere le
battaglie[93]: pur riconoscendo il potere distruttivo delle nuove armi, e prescrivendo
quindi che le truppe non si muovessero in masse compatte ma in ondate non dense, il
generale continuò a insistere sul fatto che le posizioni nemiche dovessero essere Fanti italiani avanzano nel difficile
conquistate con ripetuti assalti frontali; fattore decisivo degli scontri era ritenuta la teatro del fronte alpino

forza di volontà, lo slancio dei reparti e la determinazione a vincere dei soldati,


[94].
capace di compensare qualunque svantaggio tecnologico o geografico

Le prime battaglie sull'Isonzo misero ben presto in luce l'infondatezza di tale dottrina tattica. I primi movimenti italiani nel maggio-
giugno 1915 si svilupparono lentamente, facendo sprecare il vantaggio costituito dalla netta superiorità numerica iniziale sugli austro-
ungarici: con la mobilitazione ancora da completare molti reparti italiani non erano pronti a muovere, vi era una generale carenza di
artiglieria (in particolare quella pesante) e di mezzi per forzare gli sbarramenti di filo spinato, e il terreno impervio e privo di strade
favoriva nettamente i difensori; l'avanzata italiana si arrestò già nel corso della seconda settimana di giugno, e le truppe iniziarono a
sistemarsi nelle trincee[95]. A fine giugno, la prima battaglia dell'Isonzo decretò il fallimento dei piani di Cadorna per una rapida e
risolutiva offensiva contro il nemico: l'attacco lungo tutto il fronte isontino delle formazioni italiane si infranse contro le difese
[96].
austro-ungariche non portando che a miseri guadagni territoriali, pagati con pesanti perdite umane
La vita nelle trincee
La guerra di trincea che si sviluppò sul fronte italiano non fu troppo dissimile da
quella che si sviluppò sul fronte occidentale, anche se il terreno montuoso delle Alpi
orientali non fece che peggiorare le condizioni di vita dei soldati e la costruzione
stessa delle trincee: l'altopiano del Carso presentava un duro strato di roccia calcarea
sotto un piccolo velo di terreno, rendendo impossibile scavare trincee profonde
senza l'ausilio di perforatrici meccaniche e trasformando ogni esplosione di
artiglieria in una cascata di pericolose schegge di pietra; l'altopiano era arido e privo
Alpini in marcia in alta montagna nel di acqua nei mesi estivi e spazzato dai gelidi venti di Bora in inverno[97]. Se le vette
1917 del Carso raramente superavano i 700 metri di altezza, oltre Plezzo sull'alto Isonzo e
fino al confine con la Svizzera più a ovest l'altitudine media si attestava sopra i
2.000 metri di quota, con punte superiori ai 3.500[98]: in questo scenario le
postazioni dovevano essere rifornite attraverso impervi sentieri di montagna se non tramite teleferiche, con temperature inferiori ai
-40° in inverno e valanghe che causavano spesso più vittime del nemico; conseguentemente, a parte poche azioni di massa i
[99].
combattimenti vedevano di solito impiegati piccoli contingenti di truppe, intenti a conquistare una cima o un picco dominante

Le postazioni dei due eserciti iniziavano con una fascia di reticolati di filo spinato, saldamente
assicurati al terreno da paletti di ferro o legno; seguiva la prima linea di trincee, scavata a zig-
zag per evitare il fuoco d'infilata: la distanza media tra le due prime linee era di circa 100
metri, ma in seguito gli italiani tentarono di accorciarla a 50 o anche 20 metri, onde ridurre il
tempo allo scoperto dei reparti lanciati all'attacco[100]. Un centinaio di metri dietro la prima
linea veniva una seconda linea di trincee, considerata come la linea di massima resistenza e
quindi dotata di più robuste fortificazioni oltre a ricoveri sotterranei (nel Carso molte doline
furono utilizzate a ciò) rinforzati anche con cemento armato, dove le truppe potessero
sopportare al sicuro il bombardamento dell'artiglieria nemica; non era raro che vi fosse anche
una terza e, in alcuni casi, una quarta linea di trincee, dietro le quali si trovavano poi le
postazioni dell'artiglieria oltre ai comandi, ai depositi e agli ospedali da campo[101]. In
generale le postazioni italiane tendevano a essere realizzate in forma più primitiva e
improvvisata, anche per ragioni prettamente propagandistiche (vista l'enfasi sull'offensiva a
oltranza, si riteneva contraddittorio spendere energie per allestire solide e confortevoli Fanteria italiana in trincea
postazioni difensive); al contrario, le linee difensive nemiche erano realizzate con più cura, pronta all'assalto.
[102].
anche vista la strategia quasi interamente difensiva seguita dagli austro-ungarici

Generalmente, la sequenza di attacco seguiva sempre lo stesso schema: dapprima l'artiglieria martellava le posizioni nemiche con
bombardamenti che potevano durare anche molti giorni di seguito (anche se, con il prosieguo del conflitto, si ritennero poi più
efficaci bombardamenti molto concentrati della durata di poche ore), poi allungava il tiro sulle retrovie mentre i fanti uscivano dalle
prime linee per l'attacco frontale[101]. Gli austro-ungarici svilupparono la tattica di lasciare in prima linea durante il bombardamento
preparatorio solo un piccolo numero di vedette, tenendo il resto delle truppe al sicuro nei rifugi sotterranei della seconda linea;
quando il bombardamento italiano cessava, gli austro-ungarici facevano affluire rapidamente i rinforzi alla prima linea tramite
camminamenti protetti[103]. L'artiglieria pesante era in grado di demolire gli sbarramenti di filo spinato, ma se il bombardamento non
era stato efficace i soldati dovevano aprirsi un varco con cesoie o tubi di gelatina esplosiva, un compito pericolosissimo (non a caso i
reparti incaricati di ciò erano ribattezzati "compagnie della morte") e che di solito produceva solo modesti passaggi dove gli uomini si
ammassavano divenendo facili bersagli per le mitragliatrici nemiche[101]. Anche con gli uomini disposti "a ondate" e non in massa,
gli attaccanti risultavano comunque molto vulnerabili; la coordinazione tra fanteria all'attacco e artiglieria non era mai ottimale, una
situazione dovuta anche ai primitivi mezzi di comunicazione disponibili: radio e telefoni da campo erano apparecchi ingombranti, e
sul campo gli uomini dovevano affidarsi a staffette, piccioni viaggiatori, fumogeni colorati o segna
li luminosi.

Consenso e propaganda al fronte


Prima del 1917 le iniziative propagandistiche, ricreative e assistenziali nei confronti
dei soldati erano state scarse e mal gestite. La propaganda era intesa in forme
tradizionali e autoritarie, assai poco coinvolgenti se non addirittura
controproducenti, come prediche e sermoni tenuti dagli ufficiali e a volte da figure
appositamente reclutate per questo, come riformati o esonerati dal servizio, i quali
apparivano dei "privilegiati" agli occhi dei fanti. I proclami sulle ragioni della guerra
e le parole solenni, erano di quanto più distante poteva esserci rispetto al linguaggio
e alla mentalità dei soldati, e questi consideravano quest'obbligo supplementare
come una fatica inutile, che ne abbassava il morale. Significativo in questo senso fu
soldati italiani ascoltano il loro
quanto scritto da Giuseppe Prezzolini nel suo saggio Vittorio Veneto: «Si chiamava comandante
propaganda ordinare dei soldati sull'attenti in un cortile, dopo otto ore di fatiche e lì,
togliendo un'ora di libertà, obbligarli a sentire la chiacchierata di un avvocato inabile
alle fatiche di guerra.»[104] Per la grande maggioranza dei soldati, il consenso non venne ottenuto attraverso un'efficace propaganda o
tramite una forte motivazione patriottica, e nonostante questo l'esercito italiano diede prova di solidità, compattezza e obbedienza
durante tutti i tre anni e mezzo di guerra. Soltanto una minima parte dei soldati italiani faceva la guerra con chiarezza di idee e
convinzione, i più combattevano senza comprenderne le ragioni o senza condividerle, e ciò era dovuto in parte ad un livello di
acculturazione molto basso, e in parte alla gestione della guerra imposta da Cadorna. I comandi militari si preoccuparono di
mantenere la disciplina attraverso la repressione già prima dell'inizio delle operazioni. La poca fiducia che Cadorna aveva nelle
truppe non si può ricondurre solo a fattori personali, ma soprattutto alla politica della destra autoritaria di Salandra e Sonnino,
altrettanto diffidenti verso le masse[105].

In definitiva si può dire con buona certezza che i soldati non capivano le ragioni della guerra, ma ciò non vuol dire che non avessero
altre motivazioni per combattere che non furono la repressione, o l'adesione ai valori ufficiali o alla paura della fucilazione. Non è
possibile misurare e analizzare dettagliatamente le ragioni, ma è allo stesso tempo palese che una guerra non può essere condotta
senza il consenso dei combattenti. Questo consenso venne raggiunto da vari fattori, basati sia su ipotesi logiche non documentabili,
sia su un'effettiva attività assistenziale e di gestione della guerra imposte dai comandi. Le ipotesi logiche sono in primo luogo la
constatazione che gli uomini che vestirono la divisa erano stati educati alla disciplina dell'ambiente familiare e di lavoro; la società
contadino-cattolica era una straordinaria scuola d'obbedienza, ed era ancora forte sia nelle campagne che nelle città, e contribuì
assieme alla scarsa istruzione media generale, a far accettare passivamente la guerra ai soldati. Inoltre vi era il forte elemento di
spirito di corpo che univa gli uomini reclutati nei medesimi reparti, molto forte per esempio negli Alpini, ma presente in tutti i
reggimenti di fanteria, che non fu unicamente legato alla disciplina imposta da Cadorna o dallo spirito patriottico, ma piuttosto ad un
senso di fratellanza che accomunava tutti gli uomini al fronte[106]. Mentre l'impostazione della guerra italiana e la mancanza di
politiche adeguate, fecero si che il consenso dei soldati fosse totalmente in mano all'istituzione militare, almeno fino a Caporetto. Gli
studi in materia hanno evidenziato la componente repressiva, incoraggiata da Cadorna, resa evidente dalla drammatica
documentazione dei processi e delle fucilazioni. Ma la repressione da sola non è da sola efficace, e può valere solo all'interno di un
sistema complesso con cui l'istituzione militare recluta, inquadra, e spoglia di tutte le sue condizioni civili il soldato, lasciandogli
quindi non altra identità che quella militare, e spingendolo dunque ad accettare le regole dell'istituzione militare, e ad obbedire alle
sue regole gerarchiche, patriottiche e del dovere. L'ufficiale diventa quindi un punto di riferimento obbligatorio, e il reparto di
appartenenza una società provvisoria, che inquadra il soldato e gli fornisce le regole e i valori da seguire all'interno di questa[107]. I
soldati rifiutano tutto ciò che esce dalla loro sfera di esperienza diretta, e si identificano con il gruppo, affrontando i rischi dei
combattimenti per solidarietà verso i compagni; e questo fu proprio uno dei fattori determinanti che contribuirono alla coesione
dell'esercito[108].

Le attività assistenziali fino al 1917 furono frutto di iniziative non ufficiali di preti con l'appoggio delle gerarchie e il permesso degli
alti comandi militari, ma senza un loro impegno diretto. I parroci erano sempre stati importanti mediatori culturali nelle comunità
contadine, e ora investirono le loro competenze e la loro abitudine a trattare con persone semplici, nella cura delle anime dei soldati.
Significativo fu il caso di don Giovanni Minozzi, il quale promosse l'istituzione al fronte e nelle retrovie di Case del Soldato, centri
ricreativi dove i fanti riposavano, ascoltavano musica, assistevano a spettacoli teatrali, leggevano e trovavano qualcuno che li aiutasse
nel compilare le lettere da inviare a casa. Don Minozzi intuì che l'organizzazione del consenso richiedeva strumenti meno rozzi delle
conferenze imposte dall'alto, ma doveva basarsi sulla creazione di ambienti accoglienti e rassicuranti per i soldati[109]. Per
convincere erano prima di tutto necessario assitere, distrarre e infondere fiducia, promuovendo atteggiamenti consensuali. Il discorso
patriottico e ideologico non fu del tutto estraneo alle Case, ma veniva soprattutto proposto più che imposto, ma la svolta da questo
punto di vista si ebbe dopo la rotta di Caporetto, quando tra gli ufficiali si avvertì la necessità di una «disciplina di persuasione». Fu
quindi istituito un apposito Ufficio Propaganda (Ufficio P) col compito di impostare basi nuove e di coordinare le iniziative in questo
senso. Le principali attività del servizio P al fronte consistette nel formulare schemi di conversazione facilmente comprensibili, che
facevano leva sulla sensibilità dei fanti, su motivazioni patriottiche, e sulla promozione di giornali di intrattenimento, divulgazione e
propaganda da far circolare tra i soldati. Erano i cosiddetti «giornali di trincea», che nelle loro pagine descrivevano la vita al fronte,
pur senza negandone i disagi, in chiave scherzosa, ora patetica e rassicurante, con nuove tecniche di comunicazione visiva e verbale,
sostituendo in parte la grande stampa nazionale che non era mai riuscita a toccare veramente il pubblico popolare[110]. Si trattò
quindi di un primo grande esperimento di pedagogia di massa, della prima operazione su larga scala di condizionamento e
formazione dell'opinione popolare in chiave nazional-patriottica, seppur limitata all'esperienza delle trincee, per la quale furono
chiamati letterati, scrittori, disegnatori, grafici e pedagogisti; in pratica gli esperti di mass-media di allora, con a capo Giuseppe
Lombardo Radice, professore universitario di pedagogia. Radice tese a svecchiare i metodi autoritari della scuola, partendo dal
coinvolgimento dei bambini, e allo stesso modo considerò i soldati come bambini ai quali bisognava insegnare, divertendoli, la lingua
italiana e l'ideologia nazionale. Era infatti molto difficile, forse inutile, parlare di patria in astratto a fanti semianalfabeti, mentre
molto più facile e produttivo fu rappresentare con spettacoli e immagini l'idea del nemico da combattere e sconfiggere, offrendo un
[111].
codice di lettura accessibile e adeguato all'esperienza in corso

Ammutinamenti, diserzioni e giustizia militare


I primi episodi di insubordinazione nell'esercito si ebbero già nel dicembre del 1915, e furono provocati paradossalmente a causa
delle prime licenze date ai soldati che durante il primo inverno di guerra si recarono a casa e presero atto di come viveva il Paese
dietro al fronte di combattimento. Fino ad allora i comandi aveva rilasciato pochissime licenze, e solo per circostanze straordinarie e
gravissime, e una severa censura postale aveva reso radi e difficili i contatti tra i soldati e le loro famiglie[112]. La pausa invernale
diede l'opportunità all'esercito di concedere le licenze che, nelle intenzioni dello Stato Maggiore, dovevano servire a ritemprare lo
spirito dei fanti. Costoro invece si resero subito conto che il Paese era all'oscuro della realtà della guerra, che i giornali e il potere
militare si sforzavano di nascondere, e al loro ritorno non trovarono un Paese orgoglioso dei loro sacrifici, pronto ad accoglierli come
eroi. Scrisse a tal proposito Corrado De Vita «Ho visto tanti di quei giovani godersela nei teatri e nei caffè che mi veniva voglia di
prenderli a pugni e di odiarli più degli Austriaci». Nasceva così la frattura, che col tempo divenne insanabile, tra il fante e gli uomini
[113].
che restavano a casa, i cosiddetti "imboscati", i quali furono il bersaglio preferito delle lamentele e delle invettive dei soldati

A questo si unirono poi i richiami agli uomini mandati in licenza dello Stato Maggiore, che oltre ad imporre ai soldati di non rivelare
nulla di quanto accadeva al fronte, proibì, per mezzo dei carabinieri, l'ingresso nei caffè e le passeggiate con la ragazza al braccio ai
soldati. Anche il governo diede il suo contributo ad appesantire la situazione; il governo Salandra seguitava a sperare in una guerra
breve e limitata alla trincea che non provocasse traumi o sconquassi sociali, per cui incoraggiò l'ottimismo e non diede limitazioni ai
consumi e non impose alcuna austerità alla popolazione; ma ancor più grave fu la disparità nel salario medio giornaliero di un operaio
[114].
e quella del contadino in armi, 7 lire contro appena 90 centesimi

Tutti questi fattori provocarono i primi episodi di insubordinazione. Nel dicembre un reggimento di calabresi si ammutinò ed ebbe un
conflitto a fuoco con i carabinieri, mentre a Sacile un battaglione di Alpini si ribellò agli ufficiali e sabotò alcune linee
telefoniche[114]. Cadorna perciò impartì istruzioni disciplinari molto severe ai tribunali militari, ma questi in un primo tempo
faticarono ad adeguarvisi. L'episodio di Sacile non portò a condanne di morte, e Cadorna deplorò questa mitezza ed esigeva che nei
casi in cui fosse difficile stabilire le responsabilità, si ricorresse alla decimazione. Rimasto inizialmente sulla carta, questo
[115].
provvedimento trovò due anni dopo una spietata applicazione

Il Codice militare con cui l'Italia era entrata in guerra, vecchio di oltre mezzo secolo, fu notevolmente irrigidito da Cadorna, il quale
aggiunse nuove figure di reato, aggravò le pene e impose agli ufficiali in linea e ai comandi di reparto forme di giustizia sommaria.
Più che mai secondo il Capo di stato maggiore occorreva sanzionare, agli occhi dei responsabili e di tutti, il crimine sociale,
preservando così l'organismo dell'esercito senza badare ai diritti della persona. Questo fu anche il ragionamento con cui Cadorna, così
come Sonnino, attuarono volontariamente una politica di mancato sostegno ai militari caduti prigionieri nelle mani del nemico,
considerati colpevoli di essersi arresi, e per questo lasciati soli e non tutelati dal governo italiano nel tentativo di persuadere eventuali
imitatori[116]. Cadorna in veste di "legislatore" aggiunse norme riguardanti; la codardia, che prevede la pena di morte per un militare
che «in faccia al nemico si sbandi, abbandoni il posto o non faccia la possibile difesa»; l'abbandono di posto e la violata consegna; la
diserzione, con il rialzo della gravità del reato e della pena; le diverse varianti dell'insubordinazione individuale e collettiva, fra cui la
rivolta armata e non armata; e l'ammutinamento[117].

Non è facile però ricostruire le cifre della complessa fenomenologia di protesta e di dissociazione alla guerra in seno alle forze
armate. Dalla dichiarazione di guerra all'amnistia concessa dal governo Nitti il 2 settembre 1919, le denunce all'autorità militare
assommano a 870.000, su poco più di 5 milioni di mobilitati. Ben 470.000 di queste corrispondono peraltro alla particolare figura del
renitente alla leva, cioè alla grossa fetta di emigrati che non risposero alla chiamata alle armi. Nel corso del conflitto i reati più gravi
aumentarono decisamente: gli 8.000 casi di diserzione nel primo anno di guerra, salirono a 25.000 nel secondo, mentre nel 1917 si
registrò la cifra di 22.000 diserzioni nei soli sei mesi prima di Caporetto[118]. Tra i disertori però vanno classificati comportamenti
molto diversi, dal passaggio al nemico, ai casi più comuni di allontanamento dai reparti verso l'interno del paese o i ritardi nel
ripresentarsi dopo una licenza o una missione. I soldati condannati per reati di questo tipo commessi mentre si trovavano in linea
furono poco più di 6.000, mentre circa 93.000 furono quelli giudicati colpevoli per essersi allontanati o per non essere rientrati
mentre il reparto si trovava nelle retrovie, in riposo, o mentre erano in licenza. Tutto ciò lascia pensare che nella grande maggioranza
dei casi, il soldato era spinto da un desiderio di sottrarsi anche per poco agli obblighi militari, piuttosto che dal tentativo di disertare
in maniera definitiva[119].

Il numero di condanne a morte comminate e di quelle poi eseguite non si può sapere con certezza, anche perché i numeri delle
esecuzioni sommarie non sono noti, ma sono state calcolate in circa 4.000 condanne a morte comminate da tribunali militari, quasi
3.000 delle quali in contumacia, e - delle rimanenti - 750 eseguite, 311 non eseguite, a cui vanno aggiunte le decimazioni e fucilazioni
sul campo, circa 300[120]. Per quanto riguarda i rifiuti e la protesta collettiva, questi fenomeni nacquero sempre in reparti di fanteria a
riposo nelle immediate retrovie del fronte; gli undici casi documentati (tre nel 1916 e otto nel 1917) riguardarono tutti reparti che
ricevuto l'ordine di tornare al fronte e, col favore della notte, protestarono vivacemente all'interno dell'accampamento sparando in
aria. Con una sola eccezione, la protesta si ferma qui, anche se questi undici casi comportarono una serie di esecuzioni sommarie con
il ricorso alla decimazione in almeno quattro casi. In un solo caso si può parlare di rivolta: nella notte tra il 15 e il 16 luglio 1917
nell'accampamento della brigata "Catanzaro" ci furono diversi scontri a fuoco e propositi di resistenza, che portarono alla morte di
due ufficiali e 2 feriti, nove soldati uccisi e venticinque feriti. All'alba la protesta rientrò con l'arrivo di truppe, e furono fucilati sedici
indiziati e dodici sorteggiati, poi la brigata tornò in linea[121]. Ma i rifiuti non si fermarono alle proteste di alcuni reparti, i casi
registrati di singoli soldati che in un modo o nell'altro tentarono di fuggire dagli obblighi della vita militare furono molteplici. Per
quanto riguarda i procedimenti giudiziari aperti, 100.000 per renitenza e 340.000 verso militari alle armi, e le condanne di questi
ultimi, 101.700 per diserzione, 24.500 per indisciplina, 10.000 per autolesionismo e 5.300 per resa o sbandamento. Questi dati però
non bastano per misurare la frequenza delle infrazioni, perché molte non erano perseguite e molte erano denunce infondate, come
dimostra il 40% medio di assoluzioni[122].

I prigionieri di guerra
« Al campo della truppa, i nostri soldati vengono lasciati morire di fame come per una distruzione sistematica:
nessun aiuto giunge dalla patria che sembra aver rinnegato questi combattenti sfortunati, caduti in prigionia
durante le prime eroiche offensive del Carso per quella fatalità che solo chi non ha vissuto la realtà della
guerra può rifiutarsi di comprendere. »

(Carlo Salsa, Trincee [123])


Come furono milioni gli uomini mobilitati, furono milioni anche i prigionieri deportati nei territori europei e sottoposti alla reclusione
per mesi e anni. Possiamo solo immaginare cosa significasse organizzare, registrare, ricoverare, sorvegliare e nutrire questi milioni di
uomini, i quali molto spesso dovettero sopportare privazioni materiali inferte intenzionalmente, e violenze fisiche conseguenti
soprattutto allo spostamento coatto e alla concentrazione improvvisa di grandi masse, spesso già provate, in condizioni di emergenza.
La violenza sui prigionieri, le punizioni corporali, le forme di sopraffazione e gli abusi (esasperati talvolta da fattori etnici), erano
spesso una conseguenza degli effetti della complessa organizzazione dei campi, piuttosto che frutto di odio o volontà punitiva.
Furono in particolare le autorità tedesche ad imporre rigide forme di regolamentazione della vita quotidiana nei campi di prigionia,
con misure che tendevano a trasformare gli uomini in numeri, facendo loro
conoscere - per la prima volta su larga scala - la spoliazione totale dell'identità
personale[124]. Ad aggravare la situazione si aggiunsero poi le difficoltà alimentari
in Germania e Austria dovute alblocco navale imposto dagli alleati, che colpirono la
popolazione, e in maniera altrettanto pesante si riverberò sui prigionieri di guerra,
che dovettero affrontare inoltre anche il freddo e le malattie, in particolare la
tubercolosi e l'inedia[125].

Gli italiani che finirono nei campi austro-tedeschi furono complessivamente circa
600.000, circa la metà dei quali catturati dopo la rotta di Caporetto. I principali
campi che li accolsero furono Mauthausen, Sigmundsherberg, Theresienstadt in
Boemia, Celle nell'Hannover, Rastatt nel Baden, dove in questi ultimi due fu
detenuto anche Carlo Emilio Gadda. Gadda, allora giovane ufficiale degli Alpini, fu Italiani prigionieri degli austriaci a
Udine nel 1917
catturato nei giorni di Caporetto, e nel dopoguerra ha lasciato un resoconto della sua
esperienza in prigionia nei libri Giornale di guerra e di prigionia e Taccuino di
Caporetto[126]. Gadda pose l'accento - con un'insistenza quasi ossessiva - sulla fame e sulle condizioni terribili dei prigionieri
rinchiusi a Celle, e di come nonostante le condizioni degli ufficiali come Gadda erano relativamente migliori di quelle dei soldati di
truppa, le testimonianze di questi risultano spesso drammatiche, e raccontano la lotta quotidiana per la sopravvivenza in molti casi
destinata alla sconfitta. Per sopravvivere a tali condizioni erano essenziali gli aiuti delle famiglie, i «pacchi» tanto attesi dai detenuti,
che tuttavia spesso non giungevano o arrivavano manomessi o depredati[127]. L'affidamento esclusivo agli aiuti privati però non
bastava e non assicurava la sopravvivenza dei prigionieri, per i quali sarebbero occorsi aiuti organizzati dai governi dei rispettivi
paesi. Di ciò si resero conto le principali potenze dell'Intesa, che conclusero accordi con gli Imperi centrali - interessati ad alleggerire
la pressione delle esigenze alimentari - per lo svolgimento di tale compito. Non così il governo italiano, convinto a lungo di non poter
contare sulla fedeltà dei combattenti, ossessionato dalle diserzioni e convinto che le notizie sulla fame che si pativa nei campi di
prigionia le avrebbero scoraggiate. Le autorità italiane (in primo luogo Orlando) proibirono ed ostacolarono in ogni modo la pratica
di aiuti organizzati, e solo sul finire del conflitto tentarono un esperimento in questo senso. Tale condotta ebbe risultati disastrosi, e
[128].
dei 600.000 prigionieri, circa 100.000 morirono in prigionia per tubercolosi, stenti e fame

Durante il conflitto, la propaganda si occupò della prigionia quasi soltanto per ribadirne il carattere disonorante: i prigionieri erano
«sventurati e svergognati» che avevano «peccatocontro la patria», come proclamava D'Annunzio e ripeteva la stampa. E la disfatta di
Caporetto suggellò questa riprovazione. La responsabilità della sconfitta ricadde immancabilmente su chi si era arreso senza
combattere o peggio aveva tradito. Tale propaganda arrivò perfino ad essere accettata dai prigionieri stessi, i quali si preoccupavano
spesso di allontanare da sé il sospetto di non aver combattuto, e difende chi si è trovato nelle sue stesse condizioni in un dato luogo
del fronte, ma dà per scontato che la massa dei compagni prigionieri meriti il giudizio severo dell'opinione pubblica[129]. La
propaganda si occupò della prigionia anche in altro modo, ossia con una serie di opuscoli diffusi nel 1917-1918, in cui venivano
descritte le condizione di vita dei prigionieri in mano agli austriaci. La prigionia veniva descritta in modo tetro, con il duplice intendo
di attizzare l'odio verso il nemico, cercando di distogliere i soldati da ogni tentazione della resa, facendo passare il messaggio che la
resa è un atto disonorevole che avrebbe inoltre peggiorato le condizioni di vita e aumentato le sofferenze. Questo atteggiamento era
appoggiato e incoraggiato dalle autorità politiche e militari italiane, a conferma della scarsa fiducia che esse avevano nelle
truppe[130].

Parallelamente, la ferrea disciplina a cui erano sottoposti i soldati e la facilità con cui questi venivano accusati di diserzione, non
consente di calcolare il numero preciso di chi cadde prigioniero dopo aver realmente combattuto, o di chi si lasciò semplicemente
catturare per paura, o chi addirittura avesse coscientemente scelto di consegnarsi al nemico. Comunque, di per sé, il numero dei
prigionieri non può essere usato come metro di paragone per dedurre la combattività di un esercito: i francesi ebbero molti più
prigionieri dei tedeschi, ma la colpa fu certamente più dei comandi che dei soldati. Ad ogni modo Cadorna non ebbe mai dubbi; i
prigionieri italiani erano troppi, quindi erano colpevoli certamente di mancata aggressività, probabilmente di viltà, non pochi di
diserzione. In modo unanime le autorità tendettero a ridurre il problema dei prigionieri a problema privato e secondario, delegato alle
famiglie dei prigionieri, mentre lo stato fu legittimato a disinteressarsene. Anzi intervenne per frenare questi aiuti, facendo per
esempio divieto alla Croce Rossa di promuovere raccolte fondi per l'assistenza ai prigionieri; doveva essere chiaro che le loro
miserevoli condizioni non meritava alcuna solidarietà[131]. Al loro rientro in patria i prigionieri incontrarono il totale disinteresse sia
dalla stampa che dalle istituzioni: la prigionia divenne qualcosa di poco onorevole, di sospetto, da rimuovere e dimenticare. Non
lasciarono traccia nella stampa militare (che difese il ruolo e le carriere degli ufficiali), nei dibattiti del dopoguerra, nelle memorie dei
comandanti, nella documentazione pubblicata dall'Ufficio storico dell'esercito e negli studi successivi. E mentre in Francia gli ex
prigionieri avevano costituito una federazione per difendere i loro diritti, in Italia poterono solamente cercare di farsi dimenticare (e
questo è uno dei motivi per cui la memorialistica in tal senso è molto scarsa). Il Fascismo poi non fece altro che consolidare quanto
già avvenuto, cancellando la prigionia dalla memoria della guerra, e solo nel 1993 questi fatti ebbero la giusta considerazione grazie
alla pubblicazione del volume di Giovanna Procacci Soldati e prigionieri italiani nella grande guerra. Con una raccolta di lettere
inedite[131].

Sorveglianza e mobilitazione psicologica

Disturbi psichici e mutilazioni

Il fronte interno

L'organizzazione italiana alla guerra


Al momento dell'ingresso dell'Italia nel conflitto il parlamento accordò al governo pieni poteri, a cui seguirono amplissime deroghe
alle norme di contabilità dello Stato e in pratica all'abolizione dei controlli della Corte dei conti. Ne derivarono il rafforzamento del
ruolo del governo e una crescente autonomia della burocrazia, l'esautoramento del parlamento e la drastica riduzione della lotta
politica, soffocata da una rigida censura della stampa e dal controllo poliziesco. L'unico campo che continuò a godere di autonomia
nei confronti del governo, fu l'organizzazione militari, dove Cadorna poteva godere di un'autonomia illimitata. In vista dello sforzo
bellico furono creati nuovi ministeri e organi, come il sottosegretario per le Armi e le Munizioni (che divenne Ministero nel 1917), i
ministeri dei Trasporti marittimi e ferroviari, degli Approvvigionamenti e Consumi, dell'Assistenza e Pensioni di guerra ed altri (i
ministeri passarono da 12 a 18), nonché una serie di sottosegretari con la partecipazione di fosse personalità del campo
industriale[132]. Se da un lato questa nuova struttura portò a diversi problemi riguardanti rivalità e sovrapposizioni di competenze che
i governi Salandra e Boselli non riuscirono a gestire (solo il governo Orlando riuscì in parte a coordinare e gestire l'intero complesso
in modo sufficiente razionalizzando le forniture militari e gli acquisti all'estero), dall'altro incrementarono il numero del personale
addetto alla pubblica amministrazione. Tra il 1915 e il 1921 i dipendenti pubblici salirono da 339.000 a 519.000, compresi ferrovieri,
corpi di polizia e guardia di finanza, questi ultimi impiegati sempre maggiormente nella gestione dell'ordine pubblico in tutta la
[133].
penisola, soprattutto nelle zone di guerra, dove il Comando supremo poteva emanare bandi con forza di legge

La struttura più importante e diffusa fu quella della mobilitazione industriale, gestita dal ministero per le Armi e Munizioni (retto dal
generale Alfredo Dallolio, attraverso un comitato centrale e sette (poi undici) comitati regionali, in cui militari e funzionari pubblici
erano affiancati da industriali, tecnici e sindacalisti. La Regia Marina poteva contare su una lunga consuetudine di rapporti con
l'industria privata per la costruzione di navi, corazzate e artiglierie, mentre l'esercito prebellico, che aveva esigenze minori, ricorse
all'industria in modo considerevole solo con lo scoppio del conflitto. Per questo motivo vennero delegati ai comitati per la
mobilitazione industriale una serie di compiti che andavano dalla scelta dei materiali da produrre, all'acquisto delle materie prime in
Italia e all'estero e la loro assegnazione alle aziende, alla stipulazione di commesse e alla gestione della manodopera (orari, salari,
sicurezza, preparazione professionale, assistenza e previdenza)[134]. Gli stabilimenti industriali coinvolti passarono da 125 nel 1915
con 115.000 operai, a 1976 nel 1918 con oltre 900.000 operai, concentrati prevalentemente in Lombardia, Piemonte, Liguria e nella
zona di Napoli, e comprendevano sia grandi che piccole fabbriche, che fornivano ogni genere di armamento richiesto dall'esercito e
dalla marina[135].

Le condizioni della popolazione


La nazione tuttavia con il prosieguo della guerra iniziò a soffrire sempre di più della
mancanza di generi di prima necessità, a cui la mobilitazione industriale cercò di
porre rimedio anche, e soprattutto, con accorgimenti caotici e spesso segnati da
rallentamenti burocratici. Le risorse immagazzinate dai paesi negli anni di pace
andarono via via esaurendosi, cosicché lo sforzo bellico poteva avvenire solo a spese
della popolazione civile, il cui tenore di vita andava compresso e abbassato, se si
volevano alimentare i fronti di combattimento. Le condizioni della popolazione a
partire dalla seconda metà del 1916, cominciò quasi contemporaneamente in tutte le
nazioni coinvolte nel conflitto, a peggiorare sensibilmente. Era questo l'unico Vicenza 1917: fotografia a colori di
sintomo che il conflitto non sarebbe durato in eterno; la fame e la miseria potevano militari in riposo dal fronte assieme
imporre a chiunque la resa[136]. Già nell'estate del 1916 la razione di pane dei alla popolazione civile
soldati era stata ridotta da 750 a 600 grammi giornalieri, mentre per i cittadini ormai
erano diventati introvabili i generi semivoluttari come il caffè, il cacao e lo zucchero
mentre a causa della scarsa reperibilità di grano, fu immesso nel mercato il cosiddetto "pane di Stato", ossia pagnotte mal lievitate,
grevi di acqua e crusca, vendute rafferme su ordine del ministero dell'Agricoltura, che in questo modo tentò di ridurre il consumo di
pane da parte della popolazione[137]. Altri provvedimenti tendevano a ridurre determinati consumi, contraendo i giorni di vendita
settimanali: niente carne il giovedì e il venerdì, niente dolci per tre giorni consecutivi alla settimana, e per ridurre il consumo di carta,
[138].
i giornali, già ridotti a quattro pagine, dovettero uscire parecchie volte al mese su due sole facciate

Minacciosa e foriera di gravi conseguenze fu la crisi provocata dalla ridotta importazione di carbone. L'importazione primaria di
questo combustibile, che nell'immediato anteguerra aveva sfiorato il milione di tonnellate mensili, era scesa a 720.000 tonnellate nel
secondo semestre del 1916 e si mantenne attorno alle 420.000 tonnellate per tutto il 1917. Il ministero dell'Industria e dei Trasporti
fissò, in accordo con la Gran Bretagna, un prezzo massimo del carbone di 29-30 scellini per tonnellata, mentre i noli erano fissati in
59 scellini e 6 pence a tonnellata. Questo calmiere dei noli, seppur teoricamente in grado di funzionare, era però legato alla
coercizione di agenti di polizia che imponessero il calmiere, e alla disponibilità di navi mercantili inglesi o italiane. Ma le navi erano
già tutte impegnate, così come gli agenti di polizia, impegnati nell'ordine pubblico nel paese e nelle zone del fronte[139]. Fu inoltre
quasi impossibile costruire nuove navi, perché i materiali disponibili erano già richiesti dall'industria di guerra, e il governo era poco
propenso all'acquisto di navi dall'estero, a causa del timore che una fine prematura della guerra avrebbe svilito il grande immobilizzo
di capitale richiesto. Inoltre nel febbraio 1917 gli Imperi Centrali scatenarono la guerra sottomarina indiscriminata, e la curva degli
affondamenti di navi mercantili, soprattutto nel Mediterraneo, si impennò verticalmente. Ormai né i noli, né i premi d'assicurazione
coprivano i rischi di una navigazione così pericolosa; molte navi così rimanevano in porto, le riparazioni venivano protratte per un
tempo interminabile, i tempi di carico e scarico si prolungavano, e le navi giunte sane e salve in porti lontani si prendevano lunghe
"vacanze"[140]. La patria soffriva, e per ovviare alle ovvie difficoltà che la mancanza di carbone affliggeva la popolazione e le
industrie, si avviarono accorgimenti di ogni tipo. Venne intensificata l'estrazione nazionale di lignite a basso potere calorifico,
disboscando intere montagne; venne ridotta l'erogazione di gas nelle città; venivano soppressi moltissimi treni, mentre 25.000 vagoni
ferroviari vennero richiesti per trasportare dalla Francia il carbone che non poteva arrivare via mare; per il trasporto di grano da
[141].
Genova ai mulini nei dintorni della città, venivano usati i tram della rete urbana durante le ore notturne

Tra il 1916 e il 1917 si ebbero in Italia moltissime agitazioni contro la guerra;fatti


i di Torino del 1917 (dove la mancanza del pane fu
la scintilla diede il via a drammatici tumulti tra il 21 e il 25 agosto, dove persero la vita 35 dimostranti e tre uomini della forza
pubblica[142]) costituirono l'episodio più grave e conosciuto, ma altre centinaia di manifestazioni, anche violente, ebbero luogo in
quasi ogni provincia italiana, e l'ampia ed attiva partecipazione delle donne fu l'elemento caratterizzante di questa ondata di
agitazioni. Tra gennaio e marzo 1916 a Firenze, le «donne del contado» cercarono di inscenare manifestazioni pacifiche e nell'aprile
successivo a Mantova altri gruppi di donne manifestarono contro la guerra. Quasi ogni lunedì - dato che il lunedì era il giorno in cui
venivano distribuiti i sussidi - si segnalavano in tutto il paese dimostrazioni spontanee di donne che reclamavano il ritorno dei
congiunti e l'aumento dei sussidi. La direzione generale di Pubblica Sicurezza calcolò che in quattro mesi e mezzo, dal 1º dicembre
1916 al 15 aprile 1917, ebbero luogo circa 500 manifestazioni, alle quali parteciparono decine e decine di migliaia di donne; ma le
manifestazioni proseguirono oltre aprile, per tutto il corso del 1917[143]. I fatti di Torino fecero credere al molti che il proletariato
delle grandi città industriali si trovasse all'avanguardia nella protesta contro la guerra, ma la documentazione di cui si dispone
[144].
dimostra invece che la protesta nacque soprattutto nei piccoli comuni nelle campagne, e ad opera principalmente delle donne
La società contadina era molto disomogenea,
vi facevano parte coltivatori diretti, fittavoli,
mezzadri, coloni e un grandissimo numero di
salariati, per un totale di circa dieci milioni di
persone, le cui condizioni economiche e stato
giuridico erano molto differenti fra loro. I
cambiamenti dovuti al conflitto produssero a
loro volta effetti differenti in diverse regioni
e nei diversi ceti, ma cercando di dare un Danni causati ad edifici civili in
giudizio complessivo, si può affermare che la Trentino Alto Adige durante la
maggior parte dei contadini poté godere guerra.
durante la guerra «di redditi reali diminuiti in

Donne con militari in limitata misura o non affatto; spesso poté


bicicletta. goderne di maggiori» e che il dislivello economico tra proprietari e contadini si attenuò,
perché i redditi dei primi quasi sempre diminuirono mentre quelli dei secondi se non
aumentarono rimasero fermi[145]. Ma grandi inquietudini determinarono le agitazioni della
classe contadina italiana. Le classi agricole davano i loro uomini alle fanterie in proporzioni maggiori delle altre classi, l'assenza degli
uomini e la modestia dei sussidi governativi costringeva le famiglie ad una maggiore mole di lavoro per tutti i membri rimasti, e i
repentini mutamenti socio-economici, sia positivi che negativi, portarono ad una nuova presa di coscienza della classe contadina, che
resasi conto della sua potenzialità economica, ora ambiva a maggiori pretese e aveva la sensazione di poter diventare padrona della
terra in cui lavorava[146]. A Firenze, Parma, Reggio Emilia e Bologna le agitazioni erano costituite soprattutto da donne esasperate
dalla insufficienza dei sussidi e al mancato ritorno dei mariti. A Milano nei primi giorni di maggio del 1917 si ebbero gravi incidenti
dovuti alle donne venute dalle campagne circostanti, che Turati descrisse in una lettera ad Anna Kuliscioff come manifestazioni dal
sapore di «jacquerie», con la differenza che in questo caso erano scese in campo solo le donne, che chiedevano a gran voce la pace e
il ritorno dei mariti, e fecero uscire gli operai dagli stabilimenti per la produzione di guerra «non per un sentimento di solidarietà, ma
[147].
perché questi portavano il bracciale tricolore, indicazione dell'esonero dal servizio militare»

La manodopera
L'industria dovette affrontare la chiamata alle armi di milioni di uomini, presi anche
dalle industrie, e per questo motivo vi fu ampio ricorso all'assunzione su larga scala
di giovani non ancora in età di leva, ragazzi (il limite dei 15 anni non fu sempre
rispettato) e di donne (circa 180.000). La manodopera negli stabilimenti venne
sottoposta ad un pesante regime disciplinare o addirittura militarizzata, con la
sospensione di tutte le conquiste sindacali (a cominciare dal diritto allo sciopero),
orari e cottimi in funzione dell'emergenza, multe e licenziamenti per donne e
ragazzi, disciplina militare per gli uomini. Da questo punto di vista solo gli operai
Uomini e donne impiegati in un ufficio
postale durante gli anni di guerra. austro-ungarici vennero trattati come gli italiani, negli altri paesi la disciplina di
fabbrica venne mantenuta senza militarizzare le industrie. Tutto ciò però non impedì
la nascita di una serie di agitazioni operaie nel biennio 1917-1918[148], causate dal
mantenimento costante delle paghe orarie e allo stesso tempo dall'aumento del costo della vita causata dalla sempre crescente
inflazione dovuta all'aumento della stampa di carta moneta per far fronte ai crediti che riceveva il governo per affrontare le spese di
guerra[149]. Queste agitazioni sono la testimonianza del diffuso malcontento, di una protesta contro la guerra esasperata dalle
privazioni che spesso si univano alle richieste di pace e a miglioramenti salariali. Le agitazioni italiane durante tutto il conflitto
furono comunque decisamente minori rispetto a quelle avvenute negli altri paesi in conflitto, forse a causa dell'annullamento del
potere dei sindacati, forse a causa del forte controllo e repressione o forse a causa della debolezza della nuova e disomogenea classe
operaia, pesò certamente molto l'isolamento in cui la scelta neutralista aveva posto i socialisti italiani, che permise la soppressione di
ogni attività sindacale e l'aumento incontrastato dell'attività di propaganda contro gli operai "imboscati" e i loro alti salari,
[150].
contrapposto agli operai e contadini che morivano in trincea
Crebbe infatti durante la guerra la contrapposizione tra esercito e Paese, dove soldati e ufficiali pensavano che alle loro spalle fosse
rimasta una nazione sostanzialmente estranea alla guerra, e capace anzi, di approfittarne. Al fronte di parlava di un'Italia in cui «ci si
divertiva a rotta di collo», piena di «caffè, teatri, balli, vergini di fregola, bagasce, ruffiani, pescicani e imboscati», e dove «le
fabbriche di automobili non sapevano più come soddisfare le esigenze dei privati»[151]. Chi combatteva dichiarava pertanto di aver
motivi di odio «dinanzi e dietro di sé», ossessionati dal fatto che l'Italia fosse piena di "imboscati" che erano riusciti a scampare ai
rischi della guerra. I fanti erano in grandissima parte contadini, e l'opposizione tra fanti e imboscati divenne dunque opposizione tra
contadini e borghesi, tra contadini e proletariato urbano[152]. I fanti fondamentalmente riconoscevano il fatto che molti ufficiali e
sottufficiali provenivano dalla piccola e media borghesia e che la partecipazione alla guerra di modesti operai e artigiani era
considerevole; come scrisse Giovanni Zibordi sulle colonne dell'Avanti!, l'odio delle truppe di riversava perlopiù sugli operai
qualificati delle industrie siderurgiche, meccaniche, estrattive, chimiche e quelle che confezionavano gli indumenti per l'esercito. Essi
[153].
infatti ottenevano piuttosto facilmente l'esonero, e costituivano la massa più corposa degli "imboscati"

In realtà questa contrapposizione tra soldati e operai servì soprattutto all'industria; per
contenere l'aumento dei salari degli operai (che comunque godettero di un aumento dei
salari reali in relazione all'aumento del costo della vita), e soprattutto al governo; che in
questo modo cercava di contenere la propaganda socialista tra gli operai, i quali non potendo
contare nel supporto dei soldati (come successe a Pietrogrado nel febbraio 1917) erano
facilmente controllabili dalle stesse forze armate in eventuali dimostrazioni o rivolte[154].
Gli anni della guerra furono prosperi per l'industria italiana, e il vistoso aumento della
produzione e dei profitti incitava gli operai ad insistere nelle loro rivendicazioni
economiche, e consigliava i datori di lavoro, in parte, ad accoglierle per non compromettere
la produzione[155]. Il personale addetto agli stabilimenti "militarizzati" era assoggettato alla
giurisdizione militare e ad una disciplina molto rigida, che vietava lo sciopero. Ma di fatto
sarebbe stato impossibile assicurare il buon andamento della produzione ricorrendo
all'applicazione continua di misure coercitive. Nell'atmosfera di «finanza facile»
determinatasi durante la guerra, accadde spesso che gli ufficiali preposti alla sorveglianza
Poster propagandistico in cui
negli stabilimenti svolgessero di fatto un'azione di mediazione tra gli operai e i datori di
una donna cuce per i militari.
lavoro, e tra questi e le amministrazioni militari, determinando aumenti di retribuzione e di
prezzi, pur di evitare incidenti e proteste che causassero la diminuzione della
produzione[156]. Di fatto, i bilanci e i consumi delle famiglie operaie aumentarono negli anni della guerra, anche se questo dato
coincise con l'aumento dell'occupazione; infatti grazie al maggior impiego della manodopera femminile, accadde molto spesso che in
[157].
una famiglia operaia contasse due, tre, quattro unità lavoratrici

L'industria degli armamenti


Nel 1914 l'Italia era ancora un paese semindustrializzato, che in un settore industriale "chiave" come quello delle acciaierie, si
fermava ad una produzione di circa 900.000 tonnellate annue rispetto alle 17,6 milioni di tonnellate prodotte in Germania, alle 7,8 in
Gran Bretagna, e che addirittura rincorreva sotto questo aspetto paesi come il Belgio che produceva acciaio in quantità quattro volte
superiori rispetto all'Italia. Nonostante questo però, durante il conflitto riuscì a sopperire alle enormi richieste di armamenti e
munizioni dell'esercito grazie all'organizzazione e alla mobilitazione industriale, e soprattutto grazie all'apporto di materie prime e
[158].
risorse finanziarie concesse dagli alleati e dalla relativa semplicità dei processi tecnologici di inizio novecento

I risultati dell'industria italiana risultarono di tutto rispetto, soprattutto considerando le costruzioni navali e aeronautiche, la
produzione di fucili, mitragliatrici, cannoni e granate fu certamente inferiore rispetto alla produzione britannica, ma la limitata
evoluzione tecnica delle armi durante il conflitto permise all'industria Italiana di produrre con largo impiego di licenze britanniche,
francesi e talvolta tedesche e austriache. L'industria britannica per esempio produsse per il proprio esercito (ma anche per gli eserciti
alleati) 21.000 cannoni, 240.000 mitragliatrici, 4 milioni di fucili e 195 milioni di granate d'artiglieria, mentre l'Italia riuscì a produrre
oltre 16.000 cannoni, 37.000 mitragliatrici, 3,2 milioni di fucili e 70 milioni di granate d'artiglieria[159]. Da questi dati si possono
inoltre intuire i grossi guadagni dichiarati dagli industriali che andarono pari passo agli aumenti di capitale societario: quello
dell'Ansaldo passò da 30 milioni di lire nel 1916 a 500 milioni nel 1918, mentre i suoi addetti passarono da 6.000 a 56.000 nel 1919,
111.000 considerando l'indotto e le aziende affiliate. Altrettanto rapida furono l'espansione
dell'Ilva, che in tre sole forniture poté vendere allo Stato 700 milioni in acciaio, e della Fiat,
che monopolizzando la costruzione di automezzi a livello nazionale, e costruendo anche
aerei, mitragliatrici e motori marini, passò da 4.000 a 40.500 addetti. Ma a favore di
quest'ultima, il complesso industriale creato era omogeneo e non solamente collegato alle
commesse militari, per cui durante la riconversione postbellica la Fiat poté continuare la sua
crescita industriale, mentre Ansaldo e Ilva crollarono non appena cessarono le commesse
militari[160].

La guerra rappresentò quindi una colossale occasione di sviluppo per buona parte
dell'industria italiana, e, nonostante le mancanze dell'amministrazione pubblica, che non
riuscì mai a controllare completamente i profitti degli industriali, costoro non temettero di
giustificare sprechi e frodi con l'ansia patriottica di fornire armi per la vittoria. Sotto questo
Manifesto Ansaldo con chiari aspetto poi la propaganda non esitava a puntare il dito contro gli operai e i loro salari, e allo
riferimenti a sottoscrizioni di stesso tempo si prodigava a presentare gli industriali come benemeriti per la patria,
guerra aumentando ancor di più la posizione di potere in cui si trovarono i grossi industriali nel
dopoguerra[161].

Il ruolo delle donne


Nonostante nella sua dimensione politica la donna nei primi del novecento è ancora relegata
ad un ruolo marginale, dove la classe dirigente è ancora lontana dal concepire il diritto di
voto alle mogli, alle figlie e alle sorelle della patria, con la prima guerra mondiale si assiste
ad una diffusa e variegata tipologia di emancipazione femminile in Italia, come in tutti i
paesi coinvolti nel conflitto. Moltissime donne escono - per volontà propria o necessità -
dalle mura domestiche e acquistano una visibilità inusuale. In ciascun ambito sociale le
donne escono allo scoperto: l'anarchica Maria Rygier si converte all'ideale patriottico e sale
sui palchi degli interventisti per fare discorsi pubblici, discorsi che fanno anche la
repubblicana Margherita Sarfatti e la socialista Anna Kuliscioff, che divenne più che mai
importante consigliera politica accanto a Filippo Turati. L'aristocrazia "produce"
crocerossine e si impegna nelle pratiche sociali della beneficenza, in cui le donne fanno la
parte del leone, e alla cura dei soldati e dei poveri si dedicano con sempre maggior impegno
[162].
il laicato femminile cattolico, contestualizzato con la carità cristiana e i ruoli matronali

Nuove figure, che rimasero particolarmente impresse nella memoria, furono la figura della
donna tramviera, della donna portalettere, telefonista, impiegata e soprattutto la donna
Donna operaia per l'industria
operaia. Il contributo delle donne allo sforzo bellico crebbe mano a mano che si era
bellica italiana
manifestata la penuria di uomini: tra le 180.000 e le 200.000 donne vennero impiegate nelle
industrie di guerra, mentre altre centinaia di migliaia sostituirono gli uomini in altre attività
e persino nei distretti militari, come scritturali, dattilografe e archiviste. Il loro ingresso nel campo del lavoro aveva inizialmente
suscitato qualche perplessità da parte del sesso forte; a Roma l'impiego delle donne tramviere aveva provocato uno sciopero ad inizio
1917, ma fu facile per gli imprenditori dimostrare che le liste di collocamento erano assolutamente vuote e che, se la produzione
doveva continuare ad aumentare, l'unica grande riserva era la manodopera femminile. I salari erano molto modesti, ma la sensazione
di avere per la prima volta una vita extra-familiare, la sensazione di sottrarsi alla tutela maschile e l'impressione di contribuire in
[163].
modo indiretto alla guerra, diede alle donne un forte incoraggiamento nell'impegno lavorativo

Ma la figura femminile divenne anche fondamentale per rassicurare e rinforzare lo spirito degli uomini che combattevano in trincea.
Le donne vengono utilizzate per una sorta di maternage di massa, dove i lavori domestici di taglio e cucito e lavorare a maglia, sia in
casa propria che in forme associative di gruppo, diventano utili per fornire calze, guanti e indumenti caldi al soldato al fronte. Viene
così esaltato il ruolo tipico della donna in un modello in cui non assiste e si prende cura solo del «proprio» uomo - ma in un rapporto
da genere a genere - dell'intera categoria maschile combattente, e del combattente ferito, del quale urge curare le ferite fisiche e
[164]
soprattutto morali[164]. Nasce poi una figura innovativa, intermedia tra la
collaboratrice domestica e l'attività di crocerossina, ossia la "madrina di guerra". A
differenza della crocerossina che si prende cura del ferito con la cura medica e le
parole di conforto, la madrina basa la sua attività di assistenza con la parola scritta.
Ogni madrina ha il «suo» soldato, a cui scrive e ne riceve a sua volta le lettere, in un
rapporto destinato di norma a rimanere di carattere epistolare, ma che assume un
forte significato di sostegno morale per tutti i fanti, soprattutto contadini, che non
hanno la possibilità di un conforto familiare. Si hanno notizie di lettere di matrice
Addestramento di un gruppo di scolastica in cui le maestre stimolavano intere classi di scolare a questa forma di
donne alle mansioni di conducente assistenza spirituale a distanza, che viene ad essere anche una forma d'epoca di
per la Società Romana Tramways educazione civica[165].
Omnibus
Ma le figure dell'infermiera e della
madrina non tolgono alla famiglia il
ruolo principale dell'immaginario collettivo, mediato in ogni sorta di
rappresentazione scritta e figurata, dalla pubblicistica, alle cartoline, alla pubblicità e
alla propaganda. E al centro del centro possiamo trovare due varianti della figura
femminile, la madre e la sposa. Dominate è la prima, poiché la raffigurazione
d'epoca usava sottolineare la maternità anche nella seconda, circondando la moglie
del soldato di una "nidiata" di bambini, ponendola quindi come vedova. La vera
coppia è quella madre-figlio, mentre la coppia moglie-marito viene ridotta e Militare accompagnato da moglie e
due figli alla tradotta
assorbita dall'universo della famiglia. L'erotismo è invece relegato interamente
nell'ambito extra-familiare e nelle tavole liberty di illustratori come Umberto
Brunelleschi, collaboratore della «Tradotta», il giornale della 3ª Armata[166]. E alla famiglia fanno anche riferimento i provvedimenti
di Stato: sia quelli di carattere assistenziale (sussidi, pensioni, assicurazioni), sia quelli di carattere intimidatorio e punitivo (come
quando sulla porta del disertore si affiggono i simboli del reato, nell'intenzione di travolgere nella disistima la famiglia del
colpevole)[167].

La propaganda in ambito civile


La guerra risvegliò l'interesse di tutti i governi verso l'arma della propaganda, con cui si potevano galvanizzare gli spiriti depressi e
sofferenti. Se in nemici fossero stati dipinti feroci e vigliacchi, i soldati avrebbero combattuto con più convinzione e i civili avrebbero
scagliato contro il nemico, e non contro i governanti le loro maledizioni. Era inoltre necessario, per evitare pericolose
[168].
generalizzazioni, dipingersi nobili, valorosi, buoni ed eventualmente ingenui

Tra la fine del 1914 ed il 1915 si ebbe in Italia un'imponente campagna di stampa a favore dell'entrata in guerra: l'ala interventista
degli ambienti economici - industriali e finanziari legati all'industria pesante e alla produzione bellica, come l'Ansaldo, la Fiat e la
Banca Italiana di Sconto - finanziarono i principali organi di stampa per premere sul governo a favore dell'entrata in guerra a fianco
dell'Intesa. Gli intellettuali furono favorevoli all'entrata in guerra e lo dimostrarono attivamente, con un'unanimità che li rese,
nonostante le diversità di argomentazioni, una categoria compatta. Il culmine di questa campagna, che nell'aprile 1915 con la firma
del Patto di Londra, guadagnò il sostegno del governo di Salandra, si ebbe con le giornate del "maggio radioso"[169]. Dichiarata la
guerra, si considerò superfluo indicare una giustificazione ideale diversa dall'irredentismo e dal "sacro egoismo", per la convinzione
che il conflitto sarebbe stato breve, nonché per la concezione conservatrice ed autoritaria di Salandra e Sonnino, che non
consideravano essenziale il consenso pubblico. Gli interventi del governo per l'assistenza e la propaganda rimasero per lungo tempo
sporadici e casuali. Solamente con il governo Boselli furono istituiti due ministeri senza portafoglio, uno per la propaganda, affidato
al senatore liberal-nazionale Vittorio Scialoja (che poi ridusse le sue responsabilità alla sola propaganda all'estero), ed uno per
l'assistenza civile, affidato all'interventista repubblicano Ubaldo Comandini. Questi dal luglio 1917 ebbe la responsabilità della
[169].
propaganda interna, e dal febbraio 1918, del neonato Commissariato Generale per l'Assistenza Civile e la Propaganda Interna
Alle carenze statali supplirono numerose associazioni private che si assunsero l'onere
dell'assistenza civile; alcune di esse sorsero nei primi mesi del 1915 con fini di educazione
nazionale e assistenza alle classi popolari più colpite dalla mobilitazione. Con il prosieguo
della guerra divennero numerosissime, e molte di queste si coordinarono nell'estate del 1917
nelle Opere Federate di Assistenza e Propaganda Nazionale, dirette dallo stesso Comandini.
Fu un organismo unico, privato, formato da 80 segretari provinciali e 4500 commissari, e
divenne la principale organizzazione utilizzata dal governo per l'assistenza e la propaganda
patriottica nei confronti della popolazione civile[170]. Successivamente le Opere Federate
fornirono agli ufficiali P materiale per l'assistenza delle truppe al fronte e controllarono i
soldati in licenza; Opere Federate e Servizio P furono organizzazioni che presentavano
alcuni aspetti similari, a partire dal reclutamento, per cui i responsabili erano scelti dai
vertici. I segretari in entrambe le strutture godevano di larga autonomia nella scelta dei
collaboratori, che venivano reclutati su base volontaristica e senza preclusioni di classe.
Entrambe le strutture stampavano un bollettino di collegamento interno e alcuni comitati
regionali delle Opere Federate preparavano "schemi di conferenze" per i loro addetti, come
Poster propagandistico con
gli analoghi "spunti di conversazione coi soldati" del Servizio P, nonché pièces teatrali di
una crocerossina e la scritta
"Chi darà un bicchier d'acqua propaganda per il "Teatro del Popolo", così come gli addetti P ne allestirono per il "Teatro
in Nome Mio, non perderà la del Soldato"[171].
sua ricompensa".
Un altro elemento utile al governo per controllare
l'opinione pubblica venne rappresentato dalla
censura dei giornali italiani. I corrispondenti di guerra conoscevano bene la realtà del fronte,
inviavano notizie circostanziate ai direttori dei loro giornali, ma tacevano con il pubblico dei
lettori, pubblicando articoli che nascondevano, e in alcuni casi falsificavano, gran parte della
verità, in un'opera cosciente di disinformazione. Ma la deformazione della verità dipendeva
soprattutto dai suggerimenti delle autorità preposte al controllo degli organi di stampa, e
desiderose di presentare al pubblico un quadro ottimistico della situazione, e in gran parte
del pubblico, ansioso di leggere sui giornali le notizie buone e non quelle cattive[172]. Già
verso la fine del 1915 Giovanni Papini scriveva su il Resto del Carlino che la gente si
limitava a guardare i titoli ed i comunicati ufficiali e che presto, forse, non avrebbe letto
nemmeno più quelli. Questo fu probabilmente dovuto al fatto che i lettori, pur avendo la
vaga sensazione di essere ingannati, cercassero nei giornali solo la conferma delle loro
illusioni e genitori e spose, le rassicurazioni necessarie per scacciare dalla mente immagini Manifesto della prima guerra
troppo angosciose. Coloro i quali avevano avuto la fortuna di sfuggire a quegli orrori mondiale in cui l'Italia turrita
invita a tacere per non
preferivano invece non vederli scritti nei giornali, proseguendo la loro vita di sempre[173].
divulgare segreti al nemico
Come scrisse lo storico Antonio Monti nel 1922, col passare del tempo «la guerra si era
ormai immobilizzata nella fatale divisione del Paese nelle due uniche classi» quelle dei
combattenti e degli "imboscati"[174], e ciò favorì il grosso risentimento che i soldati in trincea riversarono sia contro i cosiddetti
"imboscati" sia contro i giornalisti stessi. Negli scritti degli ufficiali e dei soldati si trovarono giudizi amari e sprezzanti indirizzati
genericamente contro la stampa, rea di distorcere la realtà riducendo la lotta di milioni di uomini a mero spettacolo, e falsificando la
[175].
psicologia e i sentimenti dei soldati, descrivendoli come «gente che in guerra si divertisse e ci pigliasse gusto»

La popolazione nelle zone occupate


In seguito alla rotta di Caporetto, per le popolazioni friulane e venete iniziò un periodo di occupazione austro-ungarica che durò
all'incirca un anno. Il tema delle condizioni che dovettero affrontare le popolazioni soggette alla provvisoria amministrazione nemica
è stato a lungo un tema trascurato dalla storiografia italiana, messo in secondo piano a confronto della situazione militare. Si tratta
però di una questione importante, che riguardò almeno un milione di civili, e che provocò un elevato numero di profughi: circa
600.000 furono le persone che trovarono riparo dietro la linea di resistenza italiana o che per vicinanza alle zone di combattimento
dovettero abbandonare le loro abitazioni, specie vicino alle aree del Piave[176]. Le fonti a proposito non mancano, soprattutto per
quanto riguarda i resoconti e i documenti scritti e iconografici conservati negli archivi viennesi, che furono utilizzati dagli studiosi
austriaci per ripercorrere le fasi finali, l'amministrazione militare e le condizioni delle truppe austro-ungariche sul fronte italiano.
Mentre da parte italiana esiste un'abbondante memorialistica che appare generalmente influenzata dallo spirito patriottico e che
descrive la presenza nemica in termini di miseria, prepotenza e sopraffazione, ovviamente in contrasto con molta della
documentazione austriaca, che al contrario, essendo in parte prodotta da apposite sezioni dell'esercito, mostra gli aspetti rassicuranti
[177].
della situazione, e la tranquillità della popolazione nei confronti degli occupanti

Nel 1919 fu condotta un'inchiesta ufficiale sul comportamento dell'esercito occupante basata sulla raccolta di rapporti, testimonianze
di parroci, amministratori, persone autorevoli che l'avevano vissuta. I risultati furono poi raccolti in una pubblicazione in sette volumi
dal titolo Relazione della Reale commissione d'inchiesta sulle violazioni del diritto delle genti commesse dal nemico, pubblicati tra il
1919 e il 1921. Le fonti erano tuttavia reticenti e la memoria piuttosto disattenta per quel che concerne gli aspetti più scabrosi e
imbarazzanti in ottica patriottica, in particolare la collaborazione che di fatto si era instaurata col nemico sia da parte della
popolazione che da parte del clero e delle autorità civili[178]. In questo senso un primo aspetto da considerare concerne lo
sfaldamento dell'apparato amministrativo italiano che seguì e accompagnò quello dell'apparato militare dopo la rotta, provocando la
decapitazione della classe dirigente locale. Il posto dei sindaci, degli assessori, dei contabili e di molte delle figure autoritarie e
benestanti dei paesi coinvolti, fu sostituito in buona parte dai preti che generalmente rimasero al loro posto (anche se pure tra le
autorità ecclesiastiche non mancarono episodi di fuga). I preti assunsero così una doppia valenza, di autorità ecclesiastica e di ruolo
pubblico e civile, che lasciava loro un ampio spazio di manovra che fu ovviamente sfruttato dalle autorità di occupazione per il
mantenimento dell'ordine e di mediazione con la popolazione. E tutto ciò fu visto dalle autorità dello stato italiano, laico, come prova
dei sentimenti filo-austriaci diffusi tra i preti, e quindi da nascondere[179]. Altro aspetto imbarazzante furono i numerosi episodi di
saccheggio dei territori occupati sia da parte delle truppe d'occupazione sia da parte delle truppe italiane in fase di sbandamento, sia
infine da parte degli uomini e delle donne che avevano approfittato della confusione per mettere mano su prodotti di prima necessità
e sui beni voluttuari normalmente inarrivabili. I saccheggi si ridussero dopo un paio di mesi, quando le autorità militari presero in
mano la situazione, ma a quel punto iniziò una sorta di razzia intensiva e legalizzata dovuta alle direttive dei comandi austro-ungarici
che prescrivevano di utilizzare a fondo le risorse del territorio per alimentare e approvvigionare l'esercito occupante a spese della
popolazione. La situazione alimentare degli imperi centrali era gravemente compromessa e una circolare dell'esercito dichiarò in
[180].
modo esplicito che le truppe in Italia non avrebbero ricevuto alcun tipo di assistenza dalla madrepatria

Un'altra disposizione permetteva peraltro ai soldati di inviare in patria viveri e ogni genere di bene senza particolari licenze, e ciò,
unito al fatto che le risorse locali si rivelarono insufficienti sia alla popolazione che per gli occupanti, provocò una escalation di
episodi di razzie che non trovarono opposizione da parte delle autorità occupanti. Le conseguenze furono gravi, specialmente nei
mesi che precedettero il raccolto agricolo del 1918, quando le scorte di cibo tra la popolazione erano abbondantemente finite, e ci fu
un'impennata della mortalità, con 30.000 decessi che poterono essere ascritti direttamente o indirettamente al regime di
occupazione[181]. La popolazione contadina veneta e friulana peraltro non aveva speciali motivi di odio o risentimento contro gli
invasori austriaci né contro i tedeschi, il cambiamento non aveva modificato granché le condizioni di sudditanza della popolazione
agricola, che aveva sempre avuto una vita difficile e dura. I sentimenti patriottici diffusi tra le classi agiate non avevano attecchito
nelle classi operaie e contadine, e le difficoltà provocate dalla presenza di un esercito, italiano, austriaco o tedesco che sia, provocava
comunque moltissimi disagi e quale fosse l'esercito non faceva differenza. Ma con l'andare del tempo gli abitanti delle terre invase
dovettero rendersi conto di quanto duro, e a volte feroce, fosse il nuovo regime, e impararono anche a riconoscere le differenze
caratteriali e comportamentali delle diverse etnie rappresentate dagli occupanti. Mentre le truppe tedesche costituite da truppe fresche
impiegate per l'occasione, vi si poteva cogliere la baldanza e la durezza, tra le truppe austro-ungariche apparivano spesso lacere,
miserabili e sporche; in altri termini più simili alla popolazione sottomessa, con la quale spesso nacquero sentimenti di compassione
reciproca[182]. La situazione non fu certo idilliaca, ma neppure tetra e disperata come quella tracciata dalla commissione d'inchiesta
(interessata tra l'altro a calcare la mano in funzione delle richieste di risarcimento), e in linea di massima l'occupazione fu molto
simile a quella che si verificò nei vari paesi europei, e conobbe il dilagare delle violenze verso la fase finale del conflitto, accentuate
dalla condizione di sofferenza e degradazione provocata dalla guerra e dalle molte privazioni che gli eserciti degli imperi centrali
dovettero affrontare[183].

Avvenimenti politici post-conflitto


Le occupazioni nel dopoguerra
Nei giorni seguenti la stipula dell'armistizio con l'Austria-Ungheria, la precarietà della situazione e il timore diffuso che il conflitto
contro la Germania potesse ancora protrarsi per un paio di mesi spinsero le autorità militari italiane a ordinare l'avanzata del III Corpo
d'armata su Landeck e Innsbruck. L'occupazione fu quindi giustificata in base all'art. 4 dell'armistizio con la necessità «di assicurare
all'Esercito italiano due solide teste di ponte sull'Inn per ogni eventuale cambiamento di situazione». Al suo culmine il contingente
italiano raggiunse il numero di 20/22 000 uomini, che si ridussero gradualmente fino al definitivo ritiro avvenuto entro il dicembre
1920[184][185].

Similmente, per effetto dell'armistizio di Mudros con l'Impero ottomano truppe italiane furono inviate nella penisola anatolica, un
modo anche per riaffermare gli interessi dell'Italia nella zona stabiliti nel patto di Londra del 1915. Un contingente di 19 ufficiali e
740 militari italiani, poi incrementato a circa 1.000 effettivi, fu inviato a Costantinopoli nel febbraio 1919 come parte della forza
d'occupazione inter-alleata stanziata nella zona, con distaccamenti dislocati anche nella Tracia orientale; una piccola missione di
osservatori militari fu dislocata a Smirne, occupata da ampie forze greche, mentre un distaccamento di 1.000 uomini fu inviato a
presidiare il nodo ferroviario di Konya in appoggio a un reparto britannico. Anche come forma di pressione diplomatica sugli anglo-
francesi, che favorivano l'occupazione greca di Smirne a danno delle promesse fatte all'Italia nel patto di Londra, un più consistente
corpo di spedizione italiano, arrivato a contare con successivi invii fino a 15.000 uomini appoggiati da ampie forze navali, fu inviato
nell'aprile 1919 ad occupare la regione di Adalia, nel sud dell'Anatolia. Le truppe italiane furono ritirate da Adalia nell'aprile del
urchia nell'ottobre del 1923 dopo la stipula deltrattato di Losanna[186].
1922, per poi lasciare Costantinopoli e il resto della T

Per effetto del trattato di Versailles con la Germania, nel febbraio 1920 un corpo di spedizione italiano di circa 3.500 uomini fu
inviato a unirsi a truppe francesi e britanniche come forza d'occupazione nella regione dell'Alta Slesia, contesa tra tedeschi e
polacchi; si verificarono scontri con milizie locali e in totale il contingente italiano lamentò la morte di 50 uomini (metà in azione, gli
altri per malattie o incidenti) e 57 feriti. Dopo il plebiscito che sancì l'assegnazione della regione alla Germania, il corpo di
spedizione fu ritirato nel luglio 1923[187].

L'influenza nelle arti

Letteratura
Le opere letterarie riguardanti il fronte italiano sono moltissime, qui di seguito sono elencati in
ordine alfabetico alcuni tra gli scritti più famosi:

Addio alle armi (A Farewell to Arms), è un romanzo ambientato in vari luoghi del
fronte veneto e del nord-Italia e basato sulle esperienze personali dello scrittore
Ernest Hemingway, che nel 1918 prestò servizio volontario come autista di
ambulanze della Croce Rossa americana (A.R.C.) nelle retrovie del Pasubio e degli
Altipiani.
Un anno sull'Altipiano, è un libro di memorie diEmilio Lussu che racconta la sua
esperienza sull'Altopiano di Asiago nel 1917.
Cola, o ritratto di un italiano, di Mario Puccini, è un romanzo che racconta il dramma
della guerra dal punto di vista di un fante contadino.
La guerra di Joseph, è un libro scritto da Enrico Camanni, che racconta le vicende Ernest Hemingway a
militari sul fronte delle Tofane dagli occhi di due combattenti, Ugo Vallepiana e bordo di un'ambulanza
Joseph Gaspard. della croce rossa
La rivolta dei santi maledetti, di Curzio Malaparte, è un saggio che racconta le americana
vicende e gli errori degli alti comandi italiani durante la rotta di Caporetto.
Le scarpe al sole. Cronache di gaie e tristi avventure di alpini, di muli e di vino
ricostruzione dell'allora capitanoPaolo Monelli della vita degli Alpini al fronte.
Trincee - Confidenze di un fante, la storia autobiografica diCarlo Salsa, fante impegnato sul Carso.
Uragano, romanzo di Gino Rocca che parla dell'esperienza dello stesso autore in guerra
Uomini in guerra, di Andreas Latzko, sei racconti sulla guerra italo-austriaca vista da un uf
ficiale ungherese.
Carlo Emilio Gadda, Giornale di guerra e di prigionia, l'esperienza al fronte del grande scrittore milanese.
Filmografia
Qui di seguito in ordine cronologico, alcuni dei titoli più significativi:

Montagne in fiamme (Berge in Flammen) (1931), diretto da Luis Trenker e Karl Hartl, narra la storia del Kaiserjäger
Florian Dimai, guida alpina sudtirolese impegnata contro le truppe italiane.
Addio alle armi (1932), diretto da Frank Borzage, tratto dal romanzo omonimo di Hemingway , a cui seguirà nel 1957
un omonimo film diretto da John Huston e Charles Vidor.
La grande guerra (1959), diretto da Mario Monicelli e interpretato da Alberto Sordi e Vittorio Gassman; è considerato
uno dei capolavori della storia del cinema.
Uomini contro (1970), diretto da Francesco Rosi e liberamente ispirato al romanzo di Emilio Lussu "Un anno
sull'Altipiano".
Torneranno i prati (2014), diretto da Ermanno Olmi.

La memoria

Note
35. ^ Gibelli 2007, p. 59.
1. ^ Silvestri 2006, p. 10.
36. ^ Gibelli 2007, p. 62.
2. ^ Morandi, p. 20.
37. ^ Gibelli 2007, p. 63.
3. ^ Oliva 2010, p. 53.
38. ^ Gibelli 2007, pp. 64-65.
4. ^ Silvestri 2006, p. 11.
39. ^ Gibelli 2007, pp. 65-66.
5. ^ Silvestri 2006, p. 12.
40. ^ Gibelli 2007, pp. 68-69.
6. ^ Gilbert, p. 32.
41. ^ Gibelli 2007, pp. 70-71.
7. ^ Pieropan, pp. 23-24.
42. ^ Gibelli 2007, pp. 72-73.
8. ^ Pieropan, pp. 24-25.
43. ^ Pieropan, p. 33.
9. ^ Pieropan, p. 26.
44. ^ Pieropan, pp. 33-34.
10. ^ Albertini, Vol.III p. 305.
45. ^ Pieropan, p. 34.
11. ^ Silvestri 2006, p. 16.
46. ^ Pieropan, p. 35.
12. ^ Silvestri 2006, pp. 16-17.
47. ^ Pieropan, pp. 53-54.
13. ^ a b Silvestri 2007, pp. 5-6.
48. ^ Pieropan, p. 53.
14. ^ Silvestri 2007, p. 17.
49. ^ Isnenghi-Rochat, p. 156.
15. ^ Isnenghi-Rochat, p. 102.
50. ^ Isnenghi-Rochat, pp. 156-157.
16. ^ Gazzetta del Popolo, Treccani.it. URL consultato il 24
51. ^ Isnenghi-Rochat, pp. 158-159.
aprile 2015.
52. ^ Isnenghi-Rochat, p. 159.
17. ^ Isnenghi-Rochat, pp. 123-124.
53. ^ Nel 90º Anniversario della scomparsa del conte Elti
18. ^ Isnenghi-Rochat, pp. 138-139.
di Rodeano–Biaggini, ufficiale che si distinse per il
19. ^ Isnenghi-Rochat, p. 139. coraggio dimostrato durante l’attentato alla corazzata
20. ^ Isnenghi-Rochat, p. 113. “Da Vinci”., su cimeetrincee.it. URL consultato il 21 febbraio
21. ^ Isnenghi-Rochat, p. 125. 2009.

22. ^ Isnenghi-Rochat, pp. 107-108. 54. ^ storiainpoltrona.com,


http://www.storiainpoltrona.com/la-corazzata-leonardo-
23. ^ Mussolini giornalista: dalla neutralità da-vinci/.
all'interventismo, artegrandeguerra.it. URL consultato il 24
aprile 2015. 55. ^ RN LEONARDO DA VINCI 1911, su
agenziabozzo.it. URL consultato il 26 marzo 2015.
24. ^ Gibelli 2007, p. 47.
56. ^ http://www.storiainpoltrona.com/la-corazzata-
25. ^ Gibelli 2007, pp. 45-46. leonardo-da-vinci/, su lemarcheelagrandeguerra.it. URL
26. ^ Isnenghi-Rochat, pp. 136-137. consultato il 26 marzo 2015.
27. ^ Silvestri 2006, p. 18. 57. ^ 21 FEBBRAIO 1917: “COLPO DI ZURIGO” | Il dito
28. ^ Isnenghi-Rochat, p. 117. nell'occhio (http://www.ilditonellocchio.it/21-febbraio-19
29. ^ Isnenghi-Rochat, pp. 117-118. 17-colpo-di-zurigo/)
30. ^ Isnenghi-Rochat, p. 118. 58. ^ Il "Colpo di Zurigo", quando i migliori 007 erano
italiani - IlGiornale.it (http://www.ilgiornale.it/news/colpo
31. ^ Isnenghi-Rochat, p. 119. -zurigo-quando-i-migliori-007-erano-italiani-994775.ht
32. ^ Isnenghi-Rochat, pp. 120-121. ml)
33. ^ Isnenghi-Rochat, pp. 121-122. 59. ^ Thompson, p. 125.
34. ^ Gibelli 2007, pp. 55-57. 60. ^ Pirocchi, p. 9.
61. ^ Roberto Bocuzzi, L'elmetto della vittoria, su 104. ^ Gibelli 2007, p. 131.
cimeetrincee.it. URL consultato il 2 aprile 2015. 105. ^ Isnenghi-Rochat, pp. 284-285.
62. ^ Nevio Mantoan, Bombe a mano italiane 1915-1918, 106. ^ Isnenghi-Rochat, pp. 286-287.
Gaspari Editore, 2000, p. 41.ISBN 8886338546.
107. ^ Isnenghi-Rochat, pp. 287-288.
63. ^ Thompson, p. 170.
108. ^ Isnenghi-Rochat, p. 289.
64. ^ Pirocchi, p. 43.
109. ^ Gibelli 2007, p. 132.
65. ^ Pirocchi, p. 45.
110. ^ Gibelli 2007, pp. 133-134.
66. ^ I lanciafiamme nella prima guerra mondiale, su
111. ^ Gibelli 2007, pp. 134-135.
itinerarigrandeguerra.it. URL consultato il 2 aprile 2015.
112. ^ Montanelli, p. 224.
67. ^ Lista dei mezzi e del materiale utilizzati dal Regio
Esercito - Lancia 1Z, su regioesercito.it. URL consultato il 113. ^ Montanelli, p. 225.
2 aprile 2015. 114. ^ a b Montanelli, p. 227.
68. ^ Storia e impiego, su utenti.quipo.it. URL consultato il 2 115. ^ Montanelli, p. 228.
aprile 2015.
116. ^ Isnenghi-Rochat, p. 255.
69. ^ Pirocchi, p. 23.
117. ^ Isnenghi-Rochat, p. 256.
70. ^ Pirocchi, pp. 19-20.
118. ^ Isnenghi-Rochat, p. 258.
71. ^ Favre, pp. 306-308.
119. ^ Gibelli, pp. 114-115.
72. ^ Favre, pp. 261-264.
120. ^ Isnenghi-Rochat, p. 259.
73. ^ Thmpson, p. 187.
121. ^ Isnenghi-Rochat, p. 293.
74. ^ a b c La prima guerra mondiale: il fronte italo- 122. ^ Isnenghi-Rochat, p. 290.
austriaco. La terribile alba sul San Michele, su
superstoria.it. URL consultato il 2 aprile 2015. 123. ^ Carlo Salsa, Trincee. Confidenze di un fante, Mursia,
1982 [1924], p. 229, ISBN 978-88-42-51809-9.
75. ^ Oliva 2011, p. 132.
124. ^ Gibelli 2007, pp. 124-125.
76. ^ Oliva 2011, p. 133.
125. ^ Gibelli 2007, p. 126.
77. ^ Oliva 2011, p. 145.
126. ^ Gibelli 2007, pp. 126-127.
78. ^ Oliva 2011, p. 146.
127. ^ Gibelli 2007, pp. 128-129.
79. ^ Oliva 2011, p. 148.
128. ^ Gibelli 2007, pp. 130-131.
80. ^ Thompson, p. 324.
129. ^ Isnenghi-Rochat, p. 346.
81. ^ Oliva 2011, p. 157.
130. ^ Isnenghi-Rochat, p. 347.
82. ^ Oliva 2011, pp. 158-159.
131. ^ a b Isnenghi-Rochat, p. 348.
83. ^ Favre, p. 55.
132. ^ Isnenghi-Rochat, p. 301.
84. ^ Favre, p. 142.
133. ^ Isnenghi-Rochat, pp. 301-302.
85. ^ a b Thomas & Babac, pp. 36-37.
134. ^ Isnenghi-Rochat, p. 302.
86. ^ Thomas & Babac, pp. 14-17.
135. ^ Isnenghi-Rochat, pp. 302-303.
87. ^ Martin Windrow, La Legione straniera francese, RBA
Italia/Osprey Publishing, 2012, pp. 8-9. ISSN 2280-70- 136. ^ Silvestri 2007, p. 14.
12. 137. ^ Silvestri 2007, pp. 16-17-18.
88. ^ La Grande Guerra degli italiani in Francia, su 138. ^ Silvestri 2007, pp. 17-18.
lagrandeguerra.net. URL consultato il 23 marzo 2015. 139. ^ Silvestri 2007, p. 19.
89. ^ a b Nicola Labanca, La guerra italiana per la Libia, il 140. ^ Silvestri 2007, p. 20.
Mulino, 2012, pp. 133-138,ISBN 978-88-15-24084-2. 141. ^ Silvestri 2007, p. 21.
90. ^ Angelo Del Bocca, Gli italiani in Africa orientale, 142. ^ Melograni, p. 308.
Milano, Mondadori, 2009, pp. 850-859.ISBN 978-88-
143. ^ Melograni, p. 300.
04-46946-9.
144. ^ Melograni, p. 301.
91. ^ a b c Oliva 2011, p. 134.
145. ^ Arrigo Serpieri, La guerra e le classi rurali italiane
92. ^ Thompson, p. 71. 1930, cit., pp. 94-155 e passim, in Melograni, p. 302.
93. ^ Oliva 2011, p. 135. 146. ^ Melograni, p. 302.
94. ^ Thompson, pp. 243-244. 147. ^ Melograni, p. 303.
95. ^ Thompson, pp. 77-884. 148. ^ Isnenghi-Rochat, p. 303.
96. ^ Thompson, pp. 100-103. 149. ^ Isnenghi-Rochat, p. 299.
97. ^ Thompson, p. 80. 150. ^ Isnenghi-Rochat, pp. 305-306.
98. ^ Thompson, p. 208. 151. ^ A. Omodeo, Momenti della vita di guerra, cit. p. 127,
99. ^ Thompson, pp. 217-219. in Melograni, p. 296.
100. ^ Thompson, p. 171. 152. ^ Melograni, p. 297.
101. ^ a b c Oliva 2011, p. 137. 153. ^ Melograni, pp. 297-298.
102. ^ Thompson, pp. 126-127. 154. ^ Melograni, pp. 326-332.
103. ^ Thompson, p. 234. 155. ^ Melograni, p. 330.
^ Melograni, p. 295.
156. ^ Melograni, p. 331. 176. ^ Gibelli 2007, pp. 282-283.
157. ^ Melograni, p. 335. 177. ^ Gibelli 2007, pp. 283-284.
158. ^ Isnenghi-Rochat, p. 306. 178. ^ Gibelli 2007, p. 284.
159. ^ Isnenghi-Rochat, p. 307. 179. ^ Gibelli 2007, pp. 285-286.
160. ^ Isnenghi-Rochat, p. 308. 180. ^ Gibelli 2007, pp. 286-287.
161. ^ Isnenghi-Rochat, p. 309. 181. ^ Gibelli 2007, p. 287.
162. ^ Isnenghi-Rochat, pp. 335-336. 182. ^ Gibelli 2007, p. 289.
163. ^ Silvestri 2007, p. 38. 183. ^ Gibelli 2007, p. 290.
164. ^ Isnenghi-Rochat, p. 337. 184. ^ (EN ) Alfred D. Low, The Anschluss Movement, 1918–
165. ^ Isnenghi-Rochat, p. 339. 1919, and the Paris Peace Conference, Filadelfia,
166. ^ Isnenghi-Rochat, p. 340. American Philosophical Society, 1974, p. 296, ISBN 0-
87169-103-5.
167. ^ Isnenghi-Rochat, p. 341.
185. ^ Andrea Di Michele, TRENTO, BOLZANO E
168. ^ Silvestri 2007, p. 23. INNSBRUCK: L'OCCUPAZIONE MILITARE ITALIANA
169. ^ a b Gatti, p. 26. DEL TIROLO (1918-1920)(PDF ), in Fabrizio Rasera (a
170. ^ Gatti, pp. 26-27. cura di), Trento e Trieste, Percorsi degli italiani
d'Austria dal '48 all'annessione, Edizioni Osiride, 2014,
171. ^ Gatti, p. 27. pp. 436-442, Accademia roveretana degli Agiati.
172. ^ Melograni, p. 293. 186. ^ L'Italia in Turchia 81918-1923) (PDF ), su issp.po.it.
173. ^ Melograni, pp. 293-294. URL consultato il 27 gennaio 2018.
174. ^ Antonio Monti, Combattenti e silurati, Ferrara, STET, 187. ^ Pietro Crociani, Il contingente italiano in Alta Slesia
1922, p. 102, in Melograni, p. 294. (1920-1922) (PDF ), su difesa.it. URL consultato il 27
175. ^ Melograni, p. 295. gennaio 2018.

Bibliografia
Luigi Albertini, Le origini della guerra del 1914 (3 volumi - vol. I: "Le relazioni europee dal Congresso di Berlino
all'attentato di Sarajevo", vol. II: "La crisi del luglio 1914. Dall'attentato di Sarajevo alla mobilitazione generale
dell'Austria-Ungheria.", vol. III: "L'epilogo della crisi del luglio 1914. Le dichiarazioni di guerra e di neutralità.")
,
Milano, Fratelli Bocca, 1942-1943.
Franco Favre, La Marina nella Grande Guerra, Udine, Gaspari, 2008,ISBN 978-88-7541-135-0.
Giampaolo Ferraioli, Politica e diplomazia in Italia tra XIX e XX secolo. V ita di Antonino di San Giuliano (1852-1914),
Catanzaro, Rubbettino, 2007,ISBN 978-88-498-1697-6.
Gian Luigi Gatti, Dopo Caporetto. Gli ufficiali P nella grande guerra: propaganda, assistenza, vigilanza , 1ª ed.,
Gorizia, Editrice goriziana, 2000,ISBN 88-86928-31-9.
Antonio Gibelli, La grande guerra degli italiani, Milano, Bur, 2007 [1998], ISBN 88-1701-507-5.
Antonio Gibelli, L'officina della guerra. La grande guerra e le trasformazioni del mondo mentale , Torino, Universale
Bollati Boringhieri, 2007[1991], ISBN 88-3391-821-1.
Martin Gilbert, La grande storia della prima guerra mondiale, Milano, Arnoldo Mondadori, 2009[1994], ISBN 978-88-
04-48470-7.
Mario Isnenghi, Giorgio Rochat, La grande guerra, Milano, Il Mulino, 2014,ISBN 978-88-15-25389-7.
Piero Melograni, Storia politica della grande guerra 1915-1918, Milano, Arnoldo Mondadori, 2001[1969], ISBN 978-
88-04-44222-6.
Indro Montanelli, Storia d'Italia. Vol.10: L'Italia di Giolitti 1900-1920, Milano, Bur, 2015 [1974], ISBN 978-88-17-
04678-7.
Giovanni Morandi, Alpini, dalle Alpi all'Afghanistan, Bologna, Poligrafici editoriali, 2003, ISBN non esistente.
Gianni Oliva, Storia degli alpini, Milano, Mondadori, 2010,ISBN 978-88-04-48660-2.
Gianni Oliva, Soldati e ufficiali - L'esercito italiano dal Risorgimento a oggi , Milano, Mondadori, 2011,ISBN 978-88-
04-59949-4.
Gianni Pieropan, Storia della grande guerra sul fronte italiano, Milano, Mursia, 2009,ISBN 978-88-42-54408-1.
Angelo Pirocchi, Gli Arditi 1917-1920, RBA Italia, 2012, ISSN 2280-7012.
Mario Silvestri, Caporetto, una battaglia e un enigma, Bergamo, Bur, 2006, ISBN 88-17-10711-5.
Mario Silvestri, Isonzo 1917, Bergamo, Bur, 2007, ISBN 978-88-17-12719-6.
Nigel Thomas, Dušan Babac,Gli eserciti balcanici nella prima guerra mondiale , Leg edizioni, 2014, ISBN 978-88-
6102-183-9.
Mark Thompson, La guerra bianca, il Saggiatore, 2012, ISBN 978-88-565-0295-4.

Voci correlate
Storia d'Italia (1861-oggi)
Prima guerra mondiale
Italia nella seconda guerra mondiale
Fronte italiano (1915-1918)
Alimentazione durante la prima guerra mondiale in Italia

Altri progetti
Wikimedia Commons contiene immagini o altri file suItalia nella prima guerra mondiale

Estratto da "https://it.wikipedia.org/w/index.php?title=Italia_nella_prima_guerra_mondiale&oldid=98107771
"

Questa pagina è stata modificata per l'ultima volta il 24 giu 2018 alle 16:29.

Il testo è disponibile secondo lalicenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo
; possono applicarsi
condizioni ulteriori. Vedi le condizioni d'uso per i dettagli.

Potrebbero piacerti anche