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ILIADE di OMERO

Versione poetica di Giovanni Sciamarelli

1
Libro I
La peste e l’ira.

Invocazione alla Musa e antefatto dell’ira di Achille: Agamemnon si rifiuta di


accettare il riscatto offerto dal sacerdote Crise per liberare la figlia Crisèide; Apollo,
di cui Crise è sacerdote, scatena una pestilenza; Achille convoca l’assemblea degli
Achei, nel corso della quale il veggente Calcante svela la vera ragione del morbo;
ma Agamemnon pretende, per la restituzione della prigioniera al padre senza
riscatto, di essere adeguatamente risarcito; ne nasce un violento diverbio fra lui e
Achille: Agamemnon eseguirà personalmente, incaricando i suoi araldi, il
prelevamento coatto dalla tenda di Achille della fanciulla Briseide, che è il premio
assegnato ad Achille nel corso di precedenti distribuzioni di bottini di guerra;
Achille, in preda all’ira, abbandona l’assemblea, ritirandosi dal conflitto, in attesa di
essere vendicato: verrà il momento che gli Achei, respinti sino al litorale e alle navi,
imploreranno il suo soccorso. Da questo momento ha inizio la narrazione vera e
propria degli eventi. Odìsseo riporta con una nave Crisèide a suo padre,
Agamemnon esegue il suo proposito, portandosi via con la forza Brisèide, e
Achille, in pianto, invoca l’intervento della madre Teti, Nerèide e dea marina,
perché vada sull’Olimpo a implorare Zeus di vendicare suo figlio, cioè di provocare
la disfatta degli Achei. Teti si reca sull’Olimpo, e Zeus acconsente. Ma Hera, sua
consorte e sorella, che, assieme ad Atena, protegge gli Achei e avversa i Troiani,
attacca con violenza il re degli dèi; ne nasce fra i due una lite, alla fine sedata
dall’intervento di Efesto, lo “Zoppo illustre”, il quale, distribuendo il nettare agli
dèi riuniti, suscita in essi involontariamente il riso, e tutto finisce nella più completa
allegria.

L’ira canta, o dea, di Achille figlio di Pèleo,


rovinosa, che inflisse agli Achei affanni infiniti,
che tante forti anime di eroi travolse nell'Ade,
e i corpi in pasto ai cani ne gettò e ad ogni sorta
di uccelli di rapina. E il piano di Zeus si compiva,

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da quando si divisero in lite l'uno dall'altro
il figlio di Àtreo, sovrano di eroi, e lo splendido Achille.
E quale degli dèi li spinse a scontrarsi in contesa?
Il figlio di Letò e di Zeus. Sdegnato col re,
morbo funesto destò nell'armata e morivano gli uomini,
perché l'Atrìde aveva oltraggiato il suo sacerdote,
Crise. Era giunto costui degli Achei alle navi veloci
per liberare la figlia, portando infinito riscatto.
Bende di Apollo arciere teneva nelle mani
intorno all'aureo scettro e tutti gli Achei supplicava,
ma soprattutto i due figli di Àtreo che guidano eserciti:
"Figli di Àtreo e voi altri Achei dalle belle gambiere,
che gli dèi che abitano l’Olimpo vi concedano
di abbattere la rocca di Priamo e di tornarvene a casa!
Ma prima liberatemi la figlia, accettate il riscatto
e rispettate il figlio di Zeus, Apollo arciere."
Tutti allora approvarono ad alta voce gli Achei:
si onori il sacerdote, gli splendidi doni si accettino.
Ma ciò proprio non piacque nel cuore all’Atride Agamemnon,
che lo scacciò malamente, gli aggiunse un brutale comando:
"Ch'io non ti trovi, o vecchio, mai più fra le concave navi,
né che tu a lungo vi indugi, né che voglia ritornarvi;
ché poco ti varrebbero lo scettro e la benda del dio.
Non la libererò, prima deve vecchiaia raggiungerla
là nella reggia, ad Argo, lontano dalla patria,
mentre lavora al telaio e si accosta ogni tanto al mio letto.
Ma vattene, non irritarmi, se tornartene vuoi sano e salvo."
Disse così, e temette il vecchio, e obbediva al comando.
Si incamminò in silenzio sulla riva del mare sonante;
poi, non appena in disparte, assai intensamente il figlio
di Letò bella chioma pregava, Apollo sovrano:
"Arco d'argento, ascoltami, o tu che Crisa proteggi,
Cilla divina e su Tènedo con forza signoreggi,
Smìnteo, se mai altra volta ti ho eretto un tempio gradito,

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e se per te di tori e di capre ho fatto bruciare
grasse cosce, adesso questo mio desiderio esaudisci:
paghino i Dànai queste mie lacrime con le tue frecce."
Disse così, pregando, il vecchio, e lo udì Febo Apollo.
E scese dalle cime dell'Olimpo adirato nel cuore.
Arco portava con sé sulle spalle e faretra ben chiusa.
Stridore i dardi emisero sul dorso del dio adirato
come si mosse, e simile alla notte procedeva.
Poi si piantò distante dalle navi e lanciò una freccia.
Tremendo tintinnìo provenne dall'arco d'argento.
Prima mirava ai muli, ai cani veloci mirava,
poi, proprio contro di loro i dardi acuti incoccando,
colpiva e senza sosta ardevano fitte le pire.
Per nove giorni volarono per il campo gli strali del dio.
Convoca Achille l'esercito il decimo in assemblea;
Hera, la dea braccia candide, fu lei a suggerirglielo,
cura dei Dànai si prendeva, li vedeva morire.
E non appena tutti si furono insieme riuniti,
fattosi avanti, così disse loro Achille veloce:
"Figlio di Àtreo, adesso davvero indietro respinti
ritorneremo in patria, se pure sfuggendo alla morte,
dato che insieme tormentano e guerra e peste gli Achei.
Ma ora interroghiamo un veggente o un sacerdote
o chi di sogni si intende – da Zeus anche il sogno proviene-,
che ci riveli perché Febo Apollo è tanto adirato,
se si lamenta per qualche preghiera o per qualche ecatombe,
e se, accettando il fumo di agnelli e di capre perfette,
questo flagello è disposto ad allontanare da noi."
Come così ebbe detto, sedette. E si alzò in mezzo a loro
Càlcas, il figlio di Tèstor, ch'era l'ottimo fra gli indovini,
il quale conosceva il presente il futuro il passato,
e le navi achee sino a Troia aveva guidato,
grazie alla sua veggenza, donatagli da Febo Apollo.
E lui con alto senno così parlò, così disse:

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"Achille caro a Zeus, mi ordini di rivelare
donde proviene l'ira di Apollo arciere sovrano.
Io lo dirò, ma prima promettimi su giuramento
che mi difenderai con le parole e col braccio.
Credo davvero che irriterò tale uomo che domina
sugli Argivi tutti e cui tutti gli Achei obbediscono.
Troppo più forte è il re se si sdegna con chi è più debole.
E se pure riesce quel giorno a smaltire la collera,
dopo continua a serbare rancore, sino a che non la compia,
dentro al suo petto. Pertanto tu dimmelo: mi salverai?"
E, di rimando, così gli rispose Achille veloce:
"Fatti coraggio, rivela il responso, se mai lo conosci.
Sì per Apollo caro a Zeus, cui tu ti rivolgi
quando riveli ai Dànai gli oracoli divini:
sinché avrò vita, sinché sulla terra vedrò, mai nessuno
presso le concave navi alzerà su di te la sua mano,
proprio nessuno dei Dànai, neppure se dici Agamemnon,
lui che si vanta di essere supremo fra tutti gli Achei."
L'alto veggente allora si fece coraggio ed aggiunse:
"Non per preghiera né per ecatombe il dio si lagna,
ma per il sacerdote da Agamemnon oltraggiato.
Non gli ha ridato la figlia, non ha accettato il riscatto,
e il dio dell’arco per questo dolori ci dà e darà ancora.
Né stornerà dai Danai l'orrendo flagello se prima
non sia restituita la fanciulla lucenti pupille
senza riscatto e prezzo al padre, e una sacra ecatombe
non si invii a Crisa. Così forse potremo placarlo."
Come ebbe detto, si pose a sedere. Allora si alzò
l'eroe figlio di Àtreo, il più che possente Agamemnon,
incollerito: un nero violento selvaggio furore
tutto lo possedeva, di fuoco gli ardevano gli occhi.
Dunque, Càlcas squadrando con odio, così lo aggredisce:
"Veggente di mali, giammai mi dicesti qualcosa di buono.
Sempre e soltanto ti è caro predire sventure, ti piace.

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Fausto mai niente dicesti, né mai ne portasti ad effetto.
E adesso sveli oracolo a tutti noi Dànai presenti,
che per questo l'Arciere divino ci manda il flagello,
perché della fanciulla Criseide non volli accettare
i doni splendidi. Io intendo tenermela, sì, proprio a casa;
a Clitemnestra, mia moglie legittima, la preferisco,
inferiore non è davvero, né per la figura,
né per l'aspetto, né per il carattere, né per la perizia.
Sono però d'accordo di ridargliela, se questo è meglio.
Voglio che il popolo mio si preservi, e non che sparisca.
Premio però preparate al più presto per me, non vorrei
unico fra gli Agivi non averne. Sarebbe spiacevole.
Tutti guardate dunque donde premio diverso mi giunga."
E, di rimando, gli disse lo splendido Achille veloce:
"Colmo di gloria Atride, di tutti il più insaziabile,
come potrebbero darti un premio i magnanimi Achei?
Non mi risulta che abbiamo oramai più beni comuni,
tutti li dividemmo di quante città depredammo,
e non è giusto che un'altra volta sia tutto raccolto.
Ma la fanciulla intanto rimandala al dio. E noi Achei
te la ripagheremo tre volte, anche quattro, se Zeus
Troia belle mura ci consentirà di espugnare."
E, di rimando, a lui si rivolse il possente Agamemnon:
"Non mi celare, Achille pari a dio, per quanto gagliardo,
il tuo pensiero. Non mi ingannerai né convincerai.
Pensi davvero il tuo premio di tenerti e che io me ne resti
privo, e per giunta mi esorti a restituire costei?
Certo! Se ne daranno un altro gli Achei magnanimi,
uno che sia conforme ai miei gusti e che valga altrettanto!
Ma se non lo daranno, io stesso sarò a prelevarlo,
il tuo ad esempio, o quello di Aiante, o quello di Odìsseo.
Lo prelevo e lo porto. Si adiri il prescelto, cui capiti.
A questo tuttavia penseremo più tardi e di nuovo.
Ora mettiamo nel mare divino una nera nave,

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di rematori scelti dotiamola e di un'ecatombe,
poi vi facciamo salire Criseide belle guance,
e il capitano sia scelto fra i miei fidi consiglieri,
Aiante, oppure Idomèneo, oppure lo splendido Odìsseo,
o anche tu, figlio di Pèleo, di tutti il più tremendo:
fa’ il sacrificio e rendi l'Arciere propizio e placato!"
E, di sbieco guardandolo, gli rispose Achille veloce:
"Essere senza pudore, che pensi soltanto al guadagno!
Come sarà un Acheo disposto a obbedire ai tuoi ordini,
ad affrontare viaggi, a combattere contro il nemico?
Non sono qui venuto a causa dei guerrieri
troiani per combatterli, a me nulla hanno fatto di male,
né le mie vacche né i miei cavalli hanno mai razziato,
né della fertile Ftia nutrice di eroi i raccolti
mi hanno distrutto, se è vero che molte montagne separano,
piene di selve, e inoltre il mare che rumoreggia.
Te, spudorato, abbiamo seguito, per farti contento,
per dare vanto a te e a Menelao, o ceffo di cane,
verso i Troiani. Cosa di cui non ti curi per niente.
E adesso proprio tu minacci di togliermi il premio
per cui tanto penai; degli Achei me lo diedero i figli.
Mai premio uguale riporto ogni volta che gli Achei
qualche città popolosa devastano dei Troiani.
Eppure la più parte della guerra che molto travaglia
le mani mie la compiono. Ma quando si deve spartire,
premio maggiore a te tocca, e di molto, e a me un piccolo e caro,
e me ne vado alle navi con quello. Ma quanta fatica!
Bene, io ritorno a Ftia. Lo credo la cosa migliore:
tornare a casa su navi ricurve. Non credo possibile
qua senza onore restare ad incrementare il tuo fasto."
E, di rimando, gli disse il sovrano di eroi Agamemnon:
"Fuggi, ma sì, se il cuore ti spinge. Non certo sarò
io a supplicarti: "No, resta per me!" Ci sono ben altri
che mi daranno onore, e Zeus mente accorta fra tutti.

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Fra i re che nutre Zeus, per me tu sei il più detestabile.
Sempre ti sono cari le risse le guerre i conflitti.
Perché, se sei il più forte, è un dio che te lo concede.
Ma torna pure a casa con le tue navi, coi tuoi,
regna sui tuoi Mirmìdoni, di te assai poco mi importa,
lo sdegno tuo non temo. Anzi ascolta cosa ti dico.
Ecco, poiché Febo Apollo mi porta via Criseide,
lei su una nave mia con uomini a me fedeli
invierò, ma io stesso Briseide bella guancia
alla tua tenda verrò a prelevare, il tuo premio. E saprai
quanto più forte io sono di te, perché ognuno si guardi
dall'affrontarmi faccia a faccia e parlarmi alla pari".
Disse così. E dolore trafisse Achille. Il suo cuore
nel petto spigoloso in due parti si divise:
se, l'affilata spada sguainando dalla coscia,
gli altri facesse alzare e il figlio di Àtreo uccidesse,
o se riuscisse a frenare lo sdegno e placasse la collera.
Mentre così ondeggiava nell'animo e nel cuore
e già la grande spada estraeva dal fodero, Atena
giunse dal cielo: Hera braccia candide l'aveva inviata
-si curava di entrambi, li amava in pari misura-.
Gli si fermò di dietro, lo afferrò per i biondi capelli,
a lui solo apparendo, nessuno degli altri la vide.
Si stupì Achille, si volse, e subito la riconobbe,
Pallade Atena, gli occhi le splendevano terribilmente.
Allora, a lei rivolto, alate parole diceva:
"Figlia di Zeus portatore di ègida, perché sei venuta?
Porse perché all’arroganza tu assista del figlio di Àtreo?
Questo però ti dirò, e che sarà immancabilmente:
colpa la sua insolenza, lui stesso sarà ad annientarsi."
E, di rimando, gli disse la dea Atena dagli occhi lucenti:
"Il tuo furore qua vengo a placare, se vuoi darmi ascolto.
Giungo dal cielo, Hera braccia candide mi ha inviata
-lei si cura di entrambi, vi ama in pari misura-.

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Basta con la contesa, non trarre la spada dal fodero!
Con le parole ingiurialo, dipingilo come si deve,
perché nel modo in cui sto per dirtelo pure accadrà.
Giorno verrà che tre volte altrettanti splendidi doni
per questo oltraggio avrai. Ma trattieniti e prestami ascolto."
E, di rimando, così le parlò Achille veloce:
"Devo senz'altro, o dea, sottostare al vostro comando,
per quanto io sia sconvolto dalla collera. Ma questo è meglio.
Chi ottempera agli dèi, gli dèi poi molto lo ascoltano."
Disse, e sull'elsa argentea trattenne la mano pesante,
spinse la grande spada nel fodero e al detto di Atena
si attenne. Lei frattanto in Olimpo se n'era tornata,
presso Zeus portatore di ègida, con gli altri celesti.
Di nuovo allora il figlio di Pèleo con dure parole
aggredì l’Atrìde, non più tratteneva la collera:
"Avvinazzato, faccia di cane, cuore di cervo,
mai non avesti il coraggio di armarti con l'esercito,
né di partire per tendere agguato assieme ai migliori.
Questo significherebbe per te andare incontro alla morte.
Molto meglio nel campo spazioso degli Achei
premi portarti via di chi osa faccia a faccia affrontarti,
re mangiapopolo, tu che governi su gente da nulla,
perché altrimenti, Atrìde, offendevi per l'ultima volta!
Ma questo ti dirò, il mio giuramento solenne:
per questo scettro che foglie e rami mai più metterà,
sin da quando una volta è stato reciso sui monti,
mai più rifiorirà - il bronzo del tutto gli ha tolto
foglie e corteccia, e adesso i figli degli Achei
lo brandiscono, giudici, ministri in nome di Zeus
di sentenze giuste, e sarà il grande giuramento-,
giorno verrà che i figli degli Achei brama avranno di Achille
tutti. Né tu potrai soccorrerli, tuo malgrado,
quando cadranno per mano di Ettore massacratore
molti. E tu dentro il cuore ti consumerai dalla rabbia

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per non aver onorato il migliore degli Achei."
Disse così il figlio di Pèleo, e gettò a terra lo scettro
tutto adorno di borchie dorate, e si mise a sedere.
In disparte, l’Atride era in preda al furore. Ma Nestore,
dolce favella, si alzò, oratore dei Pilii sonoro,
dalla cui bocca la voce più soave del miele scorreva.
Due generazioni di uomini parlanti
s’erano estinte, nate e cresciute assieme a lui
nella divina Pilo, e lui già sulla terza regnava.
E lui con alto senno così parlò, così disse:
"Grande sciagura colpisce la terra degli Achei!
Molto godrebbe Priamo e assieme i suoi figli godrebbero,
gli altri Troiani molto gioirebbero nel loro cuore,
se a conoscenza venissero di questa vostra contesa,
voi due che siete i primi fra i Dànai in consiglio e in guerra.
Datemi retta, entrambi voi siete di me meno anziani.
Sì, perché già una volta con guerrieri più forti di voi
mi sono accompagnato. Né essi mi disprezzavano.
Uomini tali non vidi giammai né mai ne vedrò,
quale Pirìtoo e quale Driante, pastore di popoli,
Cèneo ancora e Essadio e, pari a un dio, Polifemo,
e Tèseo, figlio di Ègeo, che era simile agli immortali.
Ed erano i più forti fra gli uomini di tutta la terra,
ed erano i più forti a combattere con i più forti,
con i centauri montani, e ne fecero strage spietata.
Ed io mi mescolavo con loro, venuto da Pilo,
lungi dalla mia terra. Ma furono loro a chiamarmi,
e combattei per mio conto anch'io. Nessuno degli uomini
d'oggi che calcano il suolo saprebbe con loro combattere.
Eppure i miei consigli ascoltavano, mi davano retta.
Datemi retta anche voi, darmi retta è la cosa migliore.
Tu la fanciulla non toglierli, per quanto potente tu sia,
il premio che gli Achei gli diedero, tu lascialo.
E tu, figlio di Pèleo, col re non volere contendere

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pari a pari, poiché non uguale porzione d'onore
un re che porta lo scettro possiede, cui Zeus dà potere.
E se tu sei più forte, è una dea che ti ha generato,
ma lui vale di più, perché comanda su molti.
Smorza il furore, o figlio di Àtreo, ancora ti supplico,
contro Achille deponi la collera, lui che di molto
è il baluardo di tutti gli Achei in questa guerra funesta!"
E, di rimando, a lui si rivolse il possente Agamemnon:
"Vecchio, davvero hai detto ogni cosa secondo che è giusto.
Ma quest'uomo crede di essere al di sopra degli altri,
vuole su tutti avere il dominio, comandare su tutti,
sopraffare, ma, credo, qualcuno non gli obbedirà.
Ma se gli dèi, che vivono sempre, lo hanno fatto guerriero,
forse che anche l’incarico gli hanno dato di insultare?"
Allora, interrompendolo, gli disse lo splendido Achille:
"Vile davvero e uomo da nulla sarei reputato,
se a tutto ciò che ti viene in mente di dire cedessi.
Dunque comanda a chi vuoi, se ti pare, a me non di certo.
Non credo proprio che mai accadrà che ti presti obbedienza.
Ma altro ti dirò e tu imprimilo nella tua mente.
Per la fanciulla non mi batterò né con te né con altri:
voi me l'avete data e voi pure me l'avete ritolta.
Di tutto il resto ch'è presso la mia nera nave veloce,
che mi appartiene, nessuno ne prenda se io non lo voglio.
Suvvia, tu puoi provarci, e che lo sappiano anche costoro.
Subito questa mia lancia gronderà di nero sangue."
Poiché scambiati si furono i due ostili parole,
presso le navi sciolsero, alzatisi, l'assemblea.
Alle sue tende e alle belle sue navi il figlio di Pèleo
andava assieme al figlio di Menetio e agli altri compagni.
Mise in mare una nave veloce il figlio di Àtreo,
scelse venti rematori, imbarcò l'ecatombe
al dio, e Criseide bella guancia fece salire.
Capo salì sulla nave il molto astuto Odìsseo.

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Essi, imbarcatisi, le umide vie del mare solcavano.
E l’Atrìde impose ai soldati di purificarsi.
Essi si purificarono e gettarono in mare i rifiuti,
e per Apollo perfette ecatombi sacrificarono,
tori e capre, lungo la riva del mare infecondo;
grasso aroma saliva al cielo tra spire di fumo.
Questo costoro nel campo facevano. Né Agamemnon
alle minacce fatte ad Achille rinunciava.
L'ordine dunque a Taltibio e ad Eurìbate impartì,
ch'erano i suoi due araldi e i premurosi scudieri:
"Presto, andate alla tenda di Achille figlio di Pèleo
e per mano portate Briseide bella guancia.
E se non ve la dà, io stesso verrò a prelevarla
assieme ad altri molti. E ciò gli sarà anche più duro."
Detto così, li mandò, ed aggiunse un brutale comando.
Contro voglia si mossero sulla riva del mare infecondo,
e giunsero alle tende e alle navi dei Mirmìdoni.
E lo trovarono accanto alla tenda e alla nave nera
che se ne stava seduto. Né gioì Achille veloce,
ed essi per timore e per rispetto verso il re
esitarono, non gli parlavano, non gli dicevano niente.
Lui però comprese nel cuore e così disse loro:
"Salve, araldi, che siete messaggeri di Zeus e degli uomini,
qua avvicinatevi, non avete voi colpa, bensì Agamemnon,
lui che vi manda qui per la fanciulla Briseide.
Su, porta qua la fanciulla, o Patroclo amato da Zeus,
e consegnala a loro che se la portino. E siano testimoni
al cospetto degli dèi beati e dei mortali
e al cospetto del re spietato, se un giorno avranno
di me bisogno per stornare l'orrendo flagello
dagli altri. Nel suo cuore perverso lui è in preda a follia.
Non è capace di scorgere insieme il passato e il futuro,
come gli Achei potranno combattere ed essere salvi."
Disse, e prestava ascolto Patroclo al caro compagno,

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e dalla tenda portò Briseide bella guancia,
la consegnò, ed entrambi procedevano lungo le navi,
lei controvoglia andava con loro. Ma Achille proruppe,
stando seduto, in lacrime, separato dai compagni,
in riva al mare canuto, e, guardando l'immensa distesa,
molto la cara madre pregava stendendo le mani:
"Madre, poiché mi hai generato a una vita brevissima,
assicurarmi almeno dovrebbe onore l'Olimpio,
Zeus che tuona dall’alto. Ma neanche un poco mi ha onorato.
Sì, perché il figlio di Àtreo, il più che possente Agamemnon,
mi ha oltraggiato, si tiene il mio premio, me l'ha strappato".
Così diceva pregando, e lo udì la madre sovrana,
che stava accanto al vecchio padre negli abissi del mare.
Subito emerse dal mare canuto simile a nebbia,
e, sedutasi accanto a lui che pianto versava,
con la mano lo accarezzò, gli parlò e così disse:
"Perché piangi, creatura? Quale pena ti giunge sul cuore?
Dimmelo, non tenerla celata, anch'io voglio saperla."
E tra profondi gemiti rispose Achille veloce:
"Lo sai, perché parlare a chi è a conoscenza di tutto?
A Tebe andammo, la sacra città di Eetiòne,
la devastammo e via ci portammo l'intero bottino,
che i figli degli Achei si divisero equamente tra loro.
Diedero al figlio di Àtreo Criseide bella guancia.
Crise allora, il sacerdote di Apollo arciere,
giunse alle celeri navi degli Achei tunicati di bronzo,
per liberare la figlia, portando infinito riscatto.
Bende di Apollo arciere teneva nelle mani
intorno all'aureo scettro e tutti gli Achei supplicava,
ma soprattutto i due figli di Àtreo che guidano eserciti.
Tutti allora approvarono ad alta voce gli Achei:
si onori il sacerdote, gli splendidi doni si accettino.
Ma ciò proprio non piacque nel cuore all’Atride Agamemnon,
che lo scacciò malamente, gli aggiunse un brutale comando.

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Allora il vecchio, adirato, si metteva in cammino, ma Apollo
lo udì che supplicava – il vecchio gli era assai caro-.
Dardi mortiferi scagliò sugli Argivi. E gli uomini in tanti,
l'uno sull'altro, morivano, e gli strali del dio volavano
per lo spazioso campo degli Achei ovunque. E il veggente,
che ben sapeva, svelava l'oracolo dell'Arciere.
Io per primo proponevo che il dio fosse placato,
ma l’Atride fu preso da rabbia e, subito alzatosi,
mi lanciò una minaccia che tutta adesso si compie.
Lei su una nave veloce gli Achei dagli occhi vivaci
ora accompagnano a Crisa e portano doni al sovrano.
Ma di Brìseo la figlia, che i figli degli Achei mi diedero,
via dalla tenda me l'hanno portata poc'anzi gli araldi.
Ma se tu puoi, ti prego, soccorrilo questo tuo figlio,
sali in Olimpo e supplica Zeus, se mai altra volta
con la parola o con i fatti alleviasti il suo cuore.
Spesse volte ti ho udito nel palazzo di mio padre
dire con vanteria che dal dio dalle nuvole nere
sola fra gli immortali indegno misfatto stornasti,
quando una volta gli Olimpii volevano incatenarlo,
Hera cioè e Posidone assieme a Pallade Atena.
Ma tu giungesti, o dea, e dai lacci lo liberasti,
subito il Centomàni chiamando al vasto Olimpo,
cui danno nome gli dèi Briàreo e gli uomini tutti
Egeòne, ch'è ancora più forte del suo stesso padre.
Lui tracotante di forza accanto al Cronìde sedette,
e, lui temendo, gli dèi beati non più lo legarono.
Questo rammentagli standogli accanto e i ginocchi abbracciandogli,
se per caso volesse recare soccorso ai Troiani
e rigettare verso le navi e il mare gli Achei
spinti al massacro, così se lo godano il loro sovrano,
e l’Atride comprenda, il più che possente Agamemnon,
quale follia è non aver onorato degli Achei il migliore."
E, versando lacrime, così Teti rispondeva:

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"Creatura mia, perché t'ho allevato, o me madre infelice?
O tu potessi restare senza lacrime e senza dolore
presso le navi! Perché troppo breve è la sorte che avesti.
Tu sei votato più di tutti a un destino precoce e a una pena.
A ben misera sorte in casa ti ho generato!
Sì, lo riferirò a Zeus che gode del fulmine,
se vorrà darmi ascolto, salita all'Olimpo nevoso.
Ma tu, restando presso le navi che avanzano svelte,
serba rancore agli Achei e astieniti dal conflitto.
Verso l'Oceano Zeus fra gli Etiopi irreprensibili
ieri è andato a banchetto, e tutti gli dèi lo seguivano.
Il dodicesimo giorno ritornerà sull'Olimpo,
e allora andrò alla casa di Zeus dalla soglia di bronzo,
e lo supplicherò, e credo che mi darà ascolto".
Detto così, partì, e là lo lasciò da solo
col cuore contrariato per la donna bella cintura,
che controvoglia gli avevano tolto. Frattanto Odìsseo
giungeva a Crisa, portando con sé la sacra ecatombe.
Ed essi, come entrarono nel porto, fondale profondo,
raccolsero le vele, nella nera nave le posero,
sul cavalletto piazzarono l'albero, sciolte le funi
presto, e coi remi la nave sospinsero sino all'ormeggio.
Gettarono le ancore, legarono a poppa le gomene,
poi loro stessi scesero sulla battigia del mare
e fecero sbarcare l'ecatombe ad Apollo arciere,
e scese dalla nave che il mare attraversa Criseide.
E Odìsseo accorto la condusse accanto all’altare,
la consegnò nelle mani del caro padre e gli disse:
"O Crise, a te mi manda il sovrano di eroi Agamemnon,
perch'io ti porti tua figlia e a Febo una sacra ecatombe
da fare per i Dànai, per propiziare il sovrano,
lui che adesso invia agli Argivi pene angosciose".
Detto così, la pose nelle sue mani, e il padre l’accolse
gioiosamente, e subito al dio la sacra ecatombe

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collocarono intorno all'altare ben costruito,
le mani si lavarono e presero i chicchi d'orzo.
Crise allora tra loro pregò, levando le mani:
"Arco d'argento, ascoltami, o tu che Crisa proteggi,
Cilla divina e su Tènedo con forza signoreggi,
già prima d'ora davvero esaudisti la mia preghiera,
dandomi onore e colpisti l'esercito degli Achei.
Anche adesso, ti prego, il mio desiderio esaudisci:
storna all'istante dal campo dei Dànai l'orrendo flagello".
Disse così, pregando, il vecchio, e lo udì Febo Apollo.
Com'ebbero tutti pregato e gettato i chicchi di orzo,
trassero indietro le teste delle vittime, le sgozzarono,
le scuoiarono, estrassero le cosce, nel grasso le avvolsero,
in due strati, e poi sopra disposero i pezzi di carne.
Sulle fascine il vecchio le bruciava e vino fulgente
versava; i giovani accanto reggevano gli spiedi.
E com'ebbero arso le cosce e mangiato le viscere,
sminuzzarono il resto e lo infilarono negli spiedi,
perfettamente lo abbrustolirono, poi tolsero tutto.
Così, compiuta l'opera e preparato il banchetto,
mangiarono, né alcuno mancò della giusta porzione.
E come di bevanda e di cibo furono sazi,
i ragazzi, colmati sino all’orlo i crateri di vino,
lo distribuirono a tutti nelle coppe per libare.
Essi per tutto il giorno col canto il dio propiziavano,
un bel peana intonavano i figli degli Achei,
celebrando l'Arciere, e il dio ascoltando gioiva.
E quando il sole tramontò e giunse la tenebra,
si addormentarono accanto agli ormeggi della nave;
e come, mattutina, apparve Aurora dita di rosa,
per lo spazioso campo degli Achei allora salparono,
e propizio un vento mandava loro Apollo arciere.
L'albero issarono, al vento spiegarono le bianche vele,
gonfiò il vento la vela di mezzo, e intorno alla chiglia

16
l'onda con grande fragore gorgogliava e andava la nave.
Essa correva sull'onda compiendo il prescritto cammino.
E allo spazioso campo degli Achei appena arrivati,
trassero allora alla riva la nera nave al sicuro
sulla sabbia, in alto, vi misero lunghi puntelli,
lungo le tende e lungo le navi alfine si spersero.
Ma lui, restando presso le navi che avanzano svelte,
ira covava, il figlio di Pèleo, Achille veloce.
All'assemblea, prestigio di eroi, non più si recava,
né più alla guerra, ma consumava così il proprio cuore,
fermo, pur rimpiangendo il grido di guerra e la mischia.
E non appena sorse la dodicesima aurora,
all'Olimpo tornarono gli dèi che vivono sempre;
Zeus li guidava, né Teti si scordò delle preghiere
del figlio suo, ma venne fuori dalle onde del mare
al sorgere del sole e salì al vasto cielo e all'Olimpo.
E trovò il figlio di Crono, ampia voce, discosto dagli altri,
sopra la cima più alta dell'Olimpo dai molti dirupi.
Gli si pose accanto e gli abbracciò le ginocchia
con la sinistra, e con la destra toccandogli il mento
e supplicando, parlò al sovrano, al figlio di Crono:
"Padre Zeus, se mai fra gli immortali ti ho dato soccorso
con atti o con parole, il mio desiderio esaudisci.
Onora il figlio mio, ha in sorte il destino più rapido
fra tutti gli altri. Adesso il sovrano di eroi Agamemnon
lo ha oltraggiato, si tiene il suo premio, glielo ha strappato.
Rendigli tu l'onore, Zeus Olimpio, mente accorta,
la vittoria concedi ai Troiani, sino a quando gli Achei
mio figlio non onorino, non gli riconoscano gloria".
Disse così, né Zeus, che aduna le nubi, rispose:
tacito a lungo sedeva, e stretta alle sue ginocchia
Teti, così abbracciata com'era, insisteva pregando:
"Dammi risposta infallibile e accenna in modo sicuro,
o rifiuta – di nulla tu temi –perché io sappia

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quanto fra tutti gli dèi io sia la più vilipesa”.
E a lei, molto turbato, disse Zeus che aduna le nubi:
"Fastidiosa faccenda, che mi farà litigare con Hera,
quando mi provocherà con parole irriguardose.
Anche adesso sempre con me fra gli dèi immortali
litiga, perché dice che aiuto in battaglia i Troiani.
Ma adesso torna indietro, badando che non ti scorga
Hera. Sarà mio compito quanto chiedi mandare ad effetto.
Ecco che con il capo farò cenno, perché ti convinca.
Questo fra gli immortali di tutti è il mio massimo segno;
non può tornare indietro, non può in alcun modo ingannare,
non può non avverarsi tutto ciò che io accenno col capo".
Disse, e accennò coi neri sopraccigli il figlio di Crono.
Ondeggiarono le chiome ambrosie del sovrano
sopra il suo capo immortale, e scosse il vasto Olimpo.
Com'ebbero deciso, si separarono, Teti
dentro al mare profondo balzò dall'Olimpo che sfolgora
e Zeus entrò nella reggia. Gli dèi tutti quanti si alzarono
dai loro seggi incontro al padre. Nessuno di attenderlo
ebbe il coraggio, ma tutti si mossero andandogli incontro.
Egli sedette, entrato che fu, sul trono. Ma, vistolo,
Hera non ebbe dubbi che aveva tramato con lui
Teti dai piedi d'argento, la figlia del dio marino.
Subito con parole insinuanti gli si rivolse:
" Chi degli dèi ha tramato con te, o maestro di inganni?
Sempre, lo so, ti è caro, se non ci sono, da solo
complottare, decidere in segreto. Neppure una volta
hai avuto il coraggio di palesare qual è il tuo pensiero."
E, di rimando, le disse il padre di uomini e dèi:
"Hera, non sperare di conoscere tutti i miei piani.
Ardui saranno persino per te che sei la mia sposa.
Quello che devi sapere, non c'è nessuno che possa
prima di te saperlo, né fra gli dèi né fra gli uomini.
Ma ciò che voglio pensare da solo in disparte dagli altri

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dèi, non devi né investigare né domandare."
E, di rimando, diceva, sovrana grandi occhi, Hera:
"Figlio di Crono tremendissimo, che mai dicesti!
Troppo ho già rinunciato a investigare e a domandare,
e tu continui bel bello a pensare come ti piace.
Ora terribilmente io temo che possa convincerti
Teti piedi d'argento, la figlia del vecchio marino.
Ti si è seduta accanto all’alba e ti ha abbracciato
le ginocchia, e devi averle accennato col capo che Achille
onorerai, uccidendo molti Achei accanto alle navi."
E, di rimando, le disse Zeus che aduna le nubi:
"Matta, tu sempre supponi, né mai io riesco a sfuggirti,
nulla però riuscirai a ottenere. Anzi sempre più lungi
dal mio cuore sarai, e ciò ti sarà anche più duro.
Se i fatti sono questi, vuol dire che ciò mi sta bene.
Taci adesso e siedi, e al mio comando obbedisci,
né ti potranno aiutare gli dèi, quanti sono in Olimpo,
se mi ti accosto e ti metto le mani invincibili addosso."
Disse così, e temette, sovrana grandi occhi, Hera.
Tacque allora e sedette, a forza piegando il suo cuore.
Nella reggia di Zeus si turbarono gli dèi celesti,
ma tra di loro Efesto, fabbro illustre, si mise a parlare,
per consolare la madre, la dea braccia candide Hera:
" Che cosa odiosa sarà, davvero insopportabile,
se voi litigherete a causa dei mortali,
e se susciterete una rissa fra dèi. Di un banchetto
buono non ci sarà più piacere, se il peggio prevale.
Voglio a mia madre dare un consiglio, per quanto sia saggia.
Cerchi di assecondare Zeus, perché non si adiri
contro di lei mio padre, non ci metta a soqquadro il convito:
che, non sia mai, non voglia l'Olimpio fulminatore
giù dal seggio gettarla! Perché è di molto più forte.
Basta soltanto che tu gli rivolga dolci parole

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e subito l'Olimpio sarà clemente con noi.".
Disse così, ed alzatosi, in mano una coppa a due anse
mise alla cara madre e queste parole vi aggiunse:
"Coraggio madre mia, pur contrariata, sopporta,
che non vorrei, così cara come sei, vederti percossa
con i miei occhi. Per quanto angustiato, pur nullo sarebbe
il mio soccorso. E' tanto difficile opporsi all'Olimpio.
Già un'altra volta è capitato che, pronto a difenderti,
presomi per un piede, mi gettò dal varco celeste.
Tutto quel giorno andai giù, sino a che, al tramonto del sole,
caddi su Lemno, appeso all'ultimo soffio di vita.
Dove, precipitato, mi raccolsero subito i Sinti".
Disse così, e sorrise la dea braccia candide Hera,
e sorridendo prese la coppa dalle mani del figlio.
E lui, muovendo da destra, a tutti gli altri dèi
mesceva il dolce nettare, attingendo dal cratere.
Inestinguibile sorse riso fra gli dèi beati,
come videro Efesto per la sala su e giù affaccendarsi.
E per l'intero giorno sinché giunse il tramonto del sole
mangiavano, né alcuno mancò della giusta porzione,
né del bellissimo suono della cetra che Apollo teneva,
né delle Muse che il canto alternavano con voce armoniosa.
Quando poi tramontò la splendida luce del sole,
tutti gli dèi allora si recavano a dormire,
dove a ciascuno aveva lo zoppo illustre Efesto
edificato una casa con l'arte sua perfetta.
Ed anche Zeus fulminatore entrò nel suo letto,
là dove dorme quando il dolce sonno lo coglie.
Quivi si coricò con Hera accanto, trono d’oro.

20
LIBRO II
Il sogno di Agamemnon e il catalogo delle navi.

Zeus medita come mettere in atto il suo piano. Escogita allora di inviare ad
Agamemnon addormentato il Sogno, perché lo inganni: ormai Troia è prossima a
cadere. Agamemnon, appena sveglio, convoca il consiglio, riferendo il sogno; ma
propone loro di simulare all’esercito, riunito in assemblea, la sua decisione di
tornare a casa, dato che ormai, dopo dieci anni di guerra, Troia è diventata
imprendibile. Ma questo è solo un raggiro per mettere alla prova l’armata. In realtà
però gli Achei, alla notizia inaspettata, si precipitano a prepararsi per la partenza,
con un fuggi fuggi generale. Atena e Hera a stento riescono a frenare la fuga; solo
Tersite, un guerriero completamente privo dei connotati necessari per esserlo, si
oppone al contrordine, arringando la folla; e riuscirebbe quasi a convincerla, se
Odìsseo non lo umiliasse davanti a tutti, rendendolo ridicolo. Ristabilito l’ordine, si
passa alla rassegna dell’esercito, con il “catalogo” delle navi”. Analoga rassegna
avviene nei ranghi dei Troiani. Ormai tutto è pronto per riprendere la guerra.

Già gli altri dèi e gli uomini che combattono sui carri
tutta la notte dormivano; ma il sonno profondo non prese
Zeus, meditava nella sua mente come ad Achille
rendere onore e presso le navi molti Achei ammazzare.
Questo gli parve alfine che fosse il partito migliore:
all’Atride Agamemnon mandare il Sogno maligno.
E, rivolgendosi a lui, alate parole diceva:
"Presto, va', Sogno maligno, degli Achei alle navi veloci,
recati nella tenda di Agamemnon figlio di Àtreo,
e digli con esattezza tutto ciò che ti comando:
ordinagli di armare gli Achei dai lunghi capelli
al più presto. Adesso potrà la città, vie spaziose,
prendere dei Troiani, gli immortali che stanno in Olimpo
non più sono divisi, li ha piegati tutti quanti

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Hera con le sue suppliche, sui Troiani ora incombe rovina".
Disse così, e il Sogno partì, udito ch'ebbe il comando,
e celermente giunse degli Achei alle navi veloci,
e dal figlio di Àtreo Agamemnon andò. Lo trovò
nella sua tenda addormentato, in dolce sonno ravvolto.
Stette sopra il suo capo, somigliando al figlio di Nèleo,
Nestore, che Agamemnon onorava sugli altri anziani.
E, lui sembrando, così gli parlò il Sogno divino:
"Dormi, o figlio di Àtreo domatore di cavalli.
Tutta la notte non deve dormire uomo addetto al consiglio,
cui è affidato l'esercito e che ha tanti grattacapi.
Ora comprendimi bene, di Zeus sono messaggero,
lui, pur lontano, si prende cura di te e ti compiange.
Ti ordina di armare gli Achei dai lunghi capelli
al più presto. Adesso potrai la città, vie spaziose,
prendere dei Troiani; gli immortali che stanno in Olimpo
non più sono divisi, li ha piegati tutti quanti
Hera con le sue suppliche, sui Troiani ora incombe rovina
da Zeus. Ma questo tu tienilo a mente, non sia che l'oblio
ti prenda, quando il dolce sonno ti avrà abbandonato".
Detto così, se ne andò via e là lo lasciò
a meditare in cuore ciò che non doveva compiersi.
Progettava di prendere la città di Priamo quel giorno,
stolto, né conosceva quali eventi Zeus meditava:
stava per assegnare ancora affanni e gemiti
ai Troiani e ai Danai, nelle mischie furibonde.
Si ridestò dal sonno, lo avvolgeva la voce divina;
alzatosi, sedette, indossò una morbida veste,
bella, appena intessuta, si gettò addosso un ampio mantello,
sandali eleganti si legò ai piedi ben fatti.
Spada con borchie d'argento si mise sulle spalle,
prese poi lo scettro dei suoi avi, che mai si consuma,
e andò con esso alle navi degli Achei tunicati di bronzo.
La dea Aurora saliva in quel momento al vasto Olimpo,

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annunziando la luce a Zeus e agli altri immortali.
L’ordine allora impartì agli araldi, voce sonora,
di indire l'assemblea degli Achei dai lunghi capelli.
Quelli la indissero e subito tutti quanti si radunavano.
Prima però convocò il consiglio degli anziani magnanimi
presso la nave di Nestore, il re che nacque a Pilo.
E, riunitili, espose loro un astuto progetto:
"Cari, ascoltate, stanotte m'è giunto il Sogno divino,
mentre dormivo, che rassomigliava a Nestore splendido,
nell'aspetto, nella statura, davvero moltissimo.
Stette sopra il mio capo, e così mi rivolse parola:
"Dormi, o figlio di Àtreo domatore di cavalli.
Tutta la notte non deve dormire uomo addetto al consiglio,
cui è affidato l'esercito e che ha tanti grattacapi.
Ora comprendimi bene, di Zeus sono messaggero,
lui, pur lontano, si prende cura di te e ti compiange.
Ti ordina di armare gli Achei dai lunghi capelli
al più presto. Adesso potrai la città, vie spaziose,
prendere dei Troiani; gli immortali che stanno in Olimpo
non più sono divisi, li ha piegati tutti quanti
Hera con le sue suppliche, sui Troiani ora incombe rovina
da Zeus. Ma questo, tu tienilo a mente". Ciò detto, disparve,
spiccando il volo. Allora il dolce sonno mi abbandonò.
Su prontamente, armiamo adesso i figli degli Achei!
Prima però alla prova li metterò con parole, mi spetta.
Li esorterò a fuggire sulle navi dai molti banchi.
Voi qua e là con parole cercate di trattenerli".
Come così ebbe detto, sedette. E si alzò in mezzo a loro
Nestore, che di Pilo sabbiosa era sovrano.
E lui con alto senno così parlò, così disse:
"Amici miei, consiglieri e capi degli Argivi,
se un altro degli Achei ci riferisse un sogno,
lo diremmo menzogna e ce ne guarderemmo;
ma colui che si vanta di esser primo fra gli Achei

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lo ha visto; dunque armiamo i figli degli Achei!"
Appena detto, fu il primo ad abbandonare il consiglio,
quindi si alzarono i re portatori di scettro e obbedirono
al pastore di popoli. E intanto i soldati accorrevano.
Come gli sciami di api si riversano compatti,
senza mai sosta da concava roccia procedendo,
e volano sui fiori di primavera a grappoli,
chi fluttuando da una parte, chi dall'altra;
così le schiere degli uomini dalle navi e dalle tende
sopra la riva del mare in file si disponevano
per l'affollata assemblea. Fra di loro splendeva la Voce,
che li spingeva, messaggera di Zeus; e si radunavano.
L'assemblea si agitava, sotto i piedi la terra gemeva,
mentre prendevano posto tumultuando. E nove araldi
li trattenevano urlando, perché tenessero a freno
il clamore e ascoltassero i re di stirpe divina.
Finalmente sedettero i guerrieri ai loro posti,
e smisero di urlare. Allora il possente Agamemnon
si alzò, scettro reggendo, fatica un dì di Efesto.
Poi Efesto lo diede a Zeus Cronìde sovrano,
Zeus a sua volta lo diede al Messaggero Argifonte,
Ermès sovrano a Pèlope, domatore di cavalli,
Pèlope ancora ad Àtreo lo diede, pastore di eserciti,
Àtreo, morendo, a Tieste, molte greggi, lo lasciò,
e Tieste ad Agamemnon lo lasciò, perché lo portasse,
e regnasse su molte isole e su tutta l'Argolide.
E appoggiandosi ad esso, così si rivolse agli Argivi:
"Dànai amici miei, eroi, scudieri di Ares,
Zeus Cronìde mi ha avvinto a un errore davvero increscioso,
sciagurato, che prima mi promise col suo cenno
che Ilio belle mura avrei preso e sarei tornato;
e adesso perfido inganno ha ordito, mi induce a tornarmene
ad Argo senza gloria, dopo tante perdite umane.
Dunque così sembrerebbe piacere a Zeus potentissimo,

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lui che di tante città ha già abbattuto le rocche,
e altre ne abbatterà. La sua potenza è suprema.
Ma è vergognoso, e anche per chi ne verrà a conoscenza,
che invano tale e tanta armata degli Achei
guerra protragga con scontri e battaglie senza mai compierla,
e contro pochi uomini, né mai se ne veda la fine.
Se volessimo noi Achei assieme ai Troiani,
fedeli giuramenti scambiandoci, contarci,
raccogliendo i Troiani, tutti quelli che qui hanno sede,
e noi Achei ci dividessimo per decine,
e se un Troiano scegliessimo coppiere per ogni decina,
molte decine rimarrebbero senza coppiere.
Tanto io credo che gli Achei siano più numerosi
dei Troiani che stanno in città. Ma ci sono alleati,
valorosi guerrieri, provenienti da molte città,
che mi impediscono, non mi consentono, per quanto io lo voglia,
di distruggere Ilio, roccaforte popolosa.
Ben nove anni del grande Zeus sono già trascorsi,
e il legno delle navi è marcito, le cime si allentano,
già da tempo le nostre consorti coi figli piccini
siedono in casa ad aspettarci. La nostra impresa,
per la quale giungemmo sin qui, è rimasta incompiuta.
Forza, a quello che dico obbediamo tutti quanti,
verso la cara patria fuggiamo sulle navi!
Troia ampie strade mai più riusciremo a conquistare".
Disse, e sovreccitò nel petto il cuore di tutti
dentro la ressa, di quanti ignoravano il progetto.
Ebbe un sussulto l'assemblea, come le grandi onde
del mare Icario, se Euro, se Noto le sollevano,
balzando loro addosso dalle nubi del padre Zeus,
o come quando Zefiro sconvolge le messi profonde,
precipitando violento, e soffia piegando le spighe;
tale sconvolgimento turbò l'assemblea. Esultanti,
si proiettarono verso le navi. Sotto i piedi la polvere

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si sollevava ed essi l'un l'altro si esortavano
ad afferrare le navi, a trarle nel mare divino,
i solchi liberavano, le grida giungevano al cielo,
di chi bramava il ritorno, le travi alle chiglie toglievano.
E contro il fato si sarebbe compiuto per gli Argivi il ritorno,
se non avesse Hera così parlato ad Atena:
"Figlia di Zeus, che porta l'ègida, l'Infaticabile,
dunque gli Argivi a casa, nella cara terra patria
se ne fuggiranno sull'ampio dorso del mare
e lasceranno, delizia per Priamo e per i Troiani,
Elena Argiva, a causa della quale molti Achei
persero a Troia la vita, lontano dalla patria!
Ora va' presso l'esercito degli Achei tunicati di bronzo,
e con le tue gentili parole trattieni ciascuno,
non lasciare che traggano nel mare le navi ricurve."
Disse così, e obbedì Atena dagli occhi lucenti,
e dalle cime d'Olimpo discese con un balzo,
e celermente giunse degli Achei alle navi veloci,
dove Odìsseo trovò, accorto alla pari di Zeus,
fermo al suo posto; alla nave nera buoni scalmi
non si accostava, nell'animo un dolore lo opprimeva.
Standogli accanto, gli disse Atena dagli occhi lucenti:
"Laertìade divino, Odìsseo ricco di astuzie,
dunque davvero a casa, nella cara terra patria
fuggirete, gettandovi sulle navi molti banchi,
e lascerete, delizia per Priamo e per i Troiani,
Elena Argiva, a causa della quale molti Achei
persero a Troia la vita, lontano dalla patria!
Ora va' presso l'esercito degli Achei senza perdere tempo,
e con le tue gentili parole trattieni ciascuno,
non lasciare che traggano in mare le navi ricurve."
Disse, e lui riconobbe dalla voce la dea che parlava.
Partì di corsa e il mantello gettò via, e glielo raccolse
Eurìbate, l'araldo di Itaca, che lo seguiva.

26
Giunto che fu davanti al figlio di Àtreo Agamemnon,
l’incorruttibile scettro dei padri di mano gli tolse,
e andò con esso alle navi degli Achei tunicati di bronzo.
In qualunque re si imbattesse o condottiero,
con parole gentili cercava di trattenerlo:
"Bello non è, amico mio, che come se fossi un vigliacco,
io ti minacci, ma fermati e fa' fermare anche gli altri.
Non chiaramente hai compreso il pensiero del figlio di Àtreo.
Ora li mette alla prova, ma presto li punirà.
Non abbiamo noi sentito cos'ha detto in consiglio?
Che non colpisca, adirato, i figli degli Achei!
Grande è lo sdegno dei re che appartengono a stirpe divina,
da Zeus viene loro l'onore, Zeus mente accorta li ama."
E se coglieva uno del popolo a schiamazzare,
con lo scettro lo spingeva, lo rimproverava:
"Amico mio, sta' seduto tranquillo e ascolta gli altri:
sono migliori di te, tu sei imbelle e senza forza,
non conti niente in guerra, e niente conti in consiglio.
Non tutti regneremo qua dentro noi Achei,
non è il potere di molti un bene. Comandi uno solo,
un re soltanto. Il figlio di Crono tortuosi pensieri
scettro gli ha dato e leggi, perché decida sugli altri".
Così, come un sovrano, ordinava l'armata. E di nuovo
dalle navi correvano e dalle tende, urlando,
per l'assemblea, come quando il flutto del mare sonante
mugghia lungo l'immenso litorale e i frangenti rimbombano.
Già tutti gli altri sedevano, immobili ognuno al suo posto.
Solo Tersite strepitava senza ritegno,
lui che parole molte sconnesse conosceva,
sconclusionate, a vanvera, volte solo allo scontro coi re.
Ma lui credeva che avrebbe così divertito gli Achei.
Era l'uomo più brutto di quanti a Ilio venuti,
storpio era e zoppo di un piede, aveva le spalle ricurve,
ambedue ripiegate sul petto, e, di sopra, la testa

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terminava a punta, ricoperta di rada peluria.
Era odiosissimo soprattutto ad Achille e ad Odìsseo,
perché sparlava di loro. Ma allora copriva di insulti
lo splendido Agamemnon, gridando e schiamazzando.
Astio e risentimento per lui gli Achei nutrivano.
Dunque a gran voce urlando, così apostrofò Agamemnon:
"Figlio di Àtreo, di che ti lamenti? Che cosa ti manca?
Piene di bronzo hai le tende, e dentro quelle tende
molte donne di prima scelta, che noi Achei
a te primissimo diamo, se prendiamo una città.
Forse ti manca l'oro, che uno ti deve portare
dei Troiani domatori di cavalli in riscatto del figlio,
quello che io o un altro degli Achei ha acciuffato e legato?
O donna giovincella ti manca, per farci l'amore,
per riservartela tutta per te? Ma no, non è giusto
che chi fa il capo rovini i figli degli Achei!
Onta per tutti voi, pusillanimi, Achee non Achei!
Dunque si torni a casa con le navi, e lui lo si lasci
qua a Troia a digerirsi i suoi premi! Chissà se vedrà
se a qualche cosa serviamo anche noi, oppure a un bel niente.
Lui che poc'anzi Achille, un guerriero di lui ben migliore,
ha oltraggiato, si tiene il suo premio, glielo ha strappato.
Rabbia però nel cuore Achille non cova, è indulgente,
perché altrimenti, o Atride, offendevi per l'ultima volta."
Disse così, apostrofando Agamemnon pastore di popoli,
Tersite. E gli fu subito accanto lo splendido Odìsseo,
e lo aggredì, di sbieco guardandolo, con dure parole:
"Tersite, parolaio, per quanto oratore canoro,
basta, non azzardarti da solo a scontrarti coi re.
Uomo non c'è che sia peggiore di te, ti assicuro,
di quanti assieme ai figli di Àtreo raggiunsero Ilio.
Dunque non arringare, tenendoti i re sulla bocca,
riempiendoli di insulti e in più assicurando il ritorno.
Chiaro non ci risulta come tutto finirà,

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se torneremo, noi figli degli Achei, vincitori o sconfitti.
Ora Agamemnon, figlio di Àtreo, pastore di popoli,
stando seduto offendi, perché molti doni gli offrono
gli eroi Dànai. E proprio per questo tu arringhi ed e insulti.
Ma questo ti dirò, che immancabile si avvererà:
se un'altra volta ti colgo, come adesso, a fare il matto,
non più di Odìsseo il capo sulle sue spalle rimanga,
né più io sia chiamato il padre di Telemaco,
se non ti piglio, se non ti tolgo di dosso le vesti,
mantello e tunica, che le vergogne ti ricoprono,
e non ti caccio in lacrime presso le navi veloci,
fuori dall'assemblea, con disonorevoli busse."
Disse così, e con lo scettro sulla schiena e sulle spalle
colpì, lui si piegò e una lacrima densa gli cadde,
e piaga subito gli spuntò sanguinante sul dorso,
sotto lo scettro d'oro. Lui si mise a sedere sgomento,
e dolorante e inebetito si deterse la lacrima.
Tutti scoppiarono a ridere di cuore, pur dolenti,
e qualcuno guardando così ripeteva al vicino:
"Ah sì davvero, tante prodezze ha Odìsseo compiuto,
dando consigli buoni, impegnandosi nella guerra.
Ma adesso l'ottima fra gli Argivi senz'altro l'ha fatta,
quell'impostore facendo tacere che sparla ed arringa.
D'ora innanzi non più lo indurrà il suo cuore arrogante
a scontrarsi ancora a parole ingiuriose coi re."
Così diceva la folla. E Odìsseo che abbatte le rocche
si alzò tenendo lo scettro. E Atena dagli occhi lucenti,
un araldo sembrando, impose a tutti il silenzio,
perché, dai primi agli ultimi, i figli degli Achei
ascoltassero e riflettessero sul suo consiglio.
E lui con alto senno così parlò, così disse:
“Figlio di Àtreo, sì davvero, gli Achei ora vogliono
immiserirti davanti a tutti i mortali parlanti,
né manterranno la promessa che ti hanno fatto,

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giungendo qui da Argo, nutrice di cavalli,
di tornare dopo aver distrutto Ilio belle mura.
E invece simili a bimbi piccini e a donne vedove
piangono l’uno sull’altro, bramosi del ritorno.
Certo che pure è fatica tornare tanto afflitti!
Se solo un mese uno resta lontano dalla moglie
su nave molti banchi, si cruccia, se tempeste
invernali lo trattengono e il mare in burrasca.
Ormai però si compie per noi il nono anno
di permanenza qui, e perciò gli Achei non biasimo
se si crucciano presso le concave navi. Eppure
brutto sarebbe restare qui a lungo e tornarcene a vuoto.
Forza, resistere, cari, ancora per poco dovete,
per sapere se Càlcas il vero ha predetto o il contrario.
Questo nell’animo bene sappiamo, e voi testimoni
tutti ne siete, quanti le Chere di morte non presero:
uno o due giorni dopo, che le navi achee in Aulide
si erano unite a danno di Priamo e dei Troiani,
tutti noi intorno a una fonte e accanto ai sacri altari
offrivamo agli immortali perfette ecatombi,
sotto un bel platano, donde scorreva l’acqua lucente.
E là ci apparve un segno: una serpe dal dorso scarlatto,
orrida, che l’Olimpio stesso portò alla luce,
sbucò balzando da sotto l’altare verso il platano,
dove stava covata di passeri, piccoli ancora,
sopra il ramo più alto, occultata dal fogliame,
otto, e nona la madre che li aveva messi al mondo.
Li divorava mentre pigolavano pietosamente;
la madre allora volava piangendo i cari piccoli,
ma la ghermì per un’ala, avvolgendola che gridava.
E quand’ebbe la serpe ingoiato lei e i suoi piccoli,
la rese nulla il dio che l’aveva fatta apparire
( la mutò in pietra il figlio di Crono tortuosi pensieri).
Noi restammo attoniti per quanto era successo,

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per i prodigi terrificanti di quell’ecatombe.
Subito allora Càlcas così ci parlò, divinando:
“Vi siete fatti muti, Achei dai lunghi capelli?
Questo è il prodigio che ci mostrò Zeus mente accorta,
tardo, ahimè tardo a compiersi, ma la cui gloria mai morrà.
Come la serpe ha divorato la madre e i piccoli,
otto, e nona la madre che li aveva messi al mondo,
noi così altrettanti anni combatteremo,
e prenderemo al decimo la città dalle ampie strade”.
Càlcas così diceva, e adesso tutto si compie.
Orsù, tutti restate, Achei dalla belle gambiere,
qui, sino a che prenderemo la grande rocca di Priamo”.
Disse, e gli Achei gridarono forte, e intorno le navi
tremendamente echeggiarono al grido degli Achei,
approvando il discorso di Odìsseo divino.
Nestore, cavaliere Gerenio, allora disse:
“Ahimè, davvero voi parlate come bimbi,
sì, come infanti che non si curano di guerra.
Dove andranno a finire i patti e i giuramenti?
Degli uomini gettiamo nel fuoco i progetti e i consigli,
le libagioni di vino, le destre, in cui credemmo.
Contendiamo a parole così, e non siamo capaci
di escogitare un rimedio, pur essendo qui da tempo.
Figlio di Àtreo, tu come prima, con volere inflessibile
sii di guida per gli Argivi negli scontri supremi,
lascia che si consumino costoro, uno o due, fra gli Achei,
che in disparte progettino – ma successo non avranno -,
di ritornare ad Argo, prima ancora di conoscere
se è vera o falsa di Zeus che porta l’ègida la promessa.
Dico che il potentissimo Cronìde un cenno ci diede
il dì che sulle navi veloci si imbarcavano
gli Argivi per portare ai Troiani strage e morte.
Fece lampeggiare da destra, e fu un segno propizio.
E perciò nessuno si affretti a tornarsene a casa,

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prima di aver dormito con la moglie di un Troiano,
e di aver vendicato le lotte e i pianti per Elena.
E se qualcuno desidera ardentemente di tornare,
sfiori soltanto la propria nave nera buoni scalmi,
perché prima degli altri raggiunga il destino di morte.
Ma tu, sovrano, medita per te stesso e ascolta un altro,
non rigettare il mio consiglio, che ti darò.
Disponi gli uomini per tribù, per fràtrie, Agamemnon,
che sorregga fràtria altra fràtria, e tribù altra tribù.
E se farai così, e gli Achei ti ubbidiranno,
conoscerai chi è vile dei capi e dell’esercito,
e chi è prode: combatteranno, infatti, divisi.
E saprai pure se non la espugni per cenno divino,
o per viltà degli uomini e per imperizia di guerra”.
E, di rimando, così gli disse il possente Agamemnon:
“Vecchio, di nuovo tu superi i figli degli Achei
in assemblea! O padre Zeus e Atena e Apollo!
Se altri dieci ci fossero per me consiglieri del genere,
la città di Priamo sovrano presto cadrebbe
sotto le nostre mani, conquistata e devastata.
Ma mi ha inflitto dolori Zeus Cronìde che porta l’ègida
e mi ha gettato in mezzo a vane dispute e litigi.
Io e Achille poc’anzi litigammo per una ragazza,
con parole violente, ed io diedi inizio alle offese.
Ma se un dì ci riconcilieremo, ebbene allora
non ci sarà più scampo per i Troiani, neanche un poco.
Ora andate a mangiare, per poi occuparci di Ares;
e ognuno affili bene la lancia e prepari lo scudo,
bene ai cavalli dai piedi veloci appresti il foraggio,
bene si occupi della guerra, badando al suo carro,
perché per tutto il giorno lotteremo in scontro odioso,
né ci sarà mai sosta alcuna, neanche un poco,
sino a che giunga la notte a smorzare l’ardore degli uomini.
A qualcuno sul petto gronderà di sudore la cinghia

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dello scudo avvolgente, si sposserà la mano sull’asta.
Pure il cavallo che guida il carro gronderà di sudore.
Chi scorgerò che, stando lontano dallo scontro,
presso le concave navi rimarrà, non credo proprio
che riuscirà a sottrarsi ai cani e agli avvoltoi”.
Disse, e gli Achei gridarono forte, come fa l’onda
contro la costa elevata, quando il Noto la solleva
sulla scogliera sporgente, né mai le onde desistono,
scosse dai venti che da ogni parte, di qua e di là, soffiano.
E balzarono in piedi, sperdendosi per le navi,
e i fuochi accesero accanto alle tende e desinarono.
E chi all’uno chi all’altro degli immortali immolava,
pregando di sfuggire alla morte e al tumulto di Ares.
E un bue sacrificò il sovrano di eroi Agamemnon,
pingue di grasso, di cinque anni, al potente Cronìde,
e convocava gli anziani, i più nobili fra gli Achei,
primo fra tutti Nestore e Idomèneo sovrano,
subito dopo i due Aianti e il figlio di Tìdeo,
e, dopo, sesto Odìsseo, ch’era pari a Zeus per senno.
Giunse da sé Menelao, possente nel grido di guerra:
comprendeva in cuore quanto il fratello soffriva.
Intorno al bue si disposero e presero i chicchi d’orzo.
E, supplicando, così parlava il possente Agamemnon:
“ Colmo di gloria, grandissimo Zeus, nere nubi, celeste,
prima che il sole tramonti e sopraggiunga la tenebra,
fa’ che il tetto di Priamo io abbia raso al suolo,
l’abbia bruciato, gettando il fuoco ardente alle porte,
e abbia lacerato sul petto la veste di Ettore
a brandelli col bronzo, e a lui intorno molti compagni,
distesi nella polvere, diano morsi alla terra coi denti”.
Disse, ma ancora non lo esaudiva il figlio di Crono:
i sacrifici accettò, ma gli impose fatiche terribili.
Com’ebbero tutti pregato e gettato i chicchi d’orzo,
trassero indietro le teste delle vittime, le sgozzarono,

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le scuoiarono, estrassero le cosce, di grasso le avvolsero
in due strati, e poi sopra disposero i pezzi di carne.
E poi le abbrustolirono sulle frasche rinsecchite,
alte tenendo sul fuoco le viscere infilzate.
E com’ebbero arso le cosce e mangiato le viscere,
sminuzzarono il resto e lo infilarono negli spiedi,
perfettamente lo abbrustolirono, poi tolsero tutto.
Così, compiuta l’opera e preparato il banchetto,
mangiarono, né alcuno mancò della giusta porzione.
E come di bevanda e di cibo furono sazi,
Nestore cominciò, cavaliere Gerenio, a parlare:
“Colmo di gloria Atride, sovrano di eroi Agamemnon,
non protraiamo più il discorso, né più a lungo
rimandiamo l’impresa, che il dio ci pone innanzi.
Ma senza indugio gli araldi degli Achei tunicati di bronzo,
convocando l’armata, la radunino presso le navi,
mentre noi tutti in gruppo per l’ampio campo acheo
Ares violento andiamo al più presto a ridestare”.
Disse, e gli diede ascolto il sovrano di eroi Agamemnon,
e subito ordinò agli araldi, voce sonora,
di convocare allo scontro gli Achei dai lunghi capelli.
Essi li convocarono, e subito si radunarono.
Ed intorno all’Atride i re nutriti da Zeus
si davano a ordinarli, e c’era Atena dagli occhi lucenti,
l’ègida illustre tenendo, che non invecchia, immortale,
con le sue cento frange che sventolano, tutte dorate,
tutte intrecciate, e ognuna che vale cento buoi.
Come un baleno con essa percorreva l’esercito acheo,
spingendoli a procedere. E infuse a ciascuno nel cuore
la forza di combattere e di lottare senza sosta.
E subito la guerra divenne per loro più dolce
che ritornare nella cara patria con le concave navi.
E come incendio distruttore brucia immensa foresta
sulla vetta di un monte, e da lungi ne appare il bagliore,

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tale dal bronzo splendente di loro che marciavano
lampo abbagliante attraverso l’etere al cielo giungeva.
E come innumerevoli schiere di uccelli alati –
oche o gru o cigni dal collo affusolato –
sui prati d’Asia, attorno alle correnti del Caìstro,
vanno qua e là svolazzando orgogliose del piumaggio,
e schiamazzando si posano al suolo, e il prato rimbomba,
così le molte schiere dalle navi e dalle tende
sulla Scamandria piana affluivano, e orrendamente
ai loro piedi e dei cavalli strepitava la terra.
Stettero sulla Scamandria prateria fiorita, tantissimi,
quante nascono foglie, quanti fiori, in primavera.
E come sono fitti gli sciami delle mosche,
che svolazzano intorno alle stalle delle pecore,
in primavera, quando i secchi di latte traboccano,
tanti contro i Troiani gli Achei dai lunghi capelli
si fermarono nella pianura bramosi di ucciderli.
Come i pastori dividono le grandi greggi di capre
agevolmente, quando si confondono nel pascolo,
i loro capi così qua e là li mettevano in ordine
per andare allo scontro, e tra loro il possente Agamemnon,
pari negli occhi e nel capo a Zeus che gode del fulmine,
nella cintura ad Ares, nel petto a Posidone.
E come spicca superbo un toro nella mandria:
fra tutte le altre bestie si distingue nell’armento,
tale quel giorno rese Zeus il figlio di Àtreo
distinto in mezzo a molti, eminente fra gli eroi.
Ditemi adesso, Muse che abitate le sedi d’Olimpo –
voi siete dee, e sempre presenti, e tutto sapete,
noi ascoltiamo soltanto la fama, ma niente sappiamo –,
chi mai erano i capi dei Dànai e i condottieri.
Io la massa non menzionerò, né farò i nomi,
neanche se possedessi dieci lingue, dieci bocche,
una voce instancabile e, dentro, un cuore di bronzo;

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a meno che non rammentino tutti quelli che vennero a Troia
le Muse Olimpie, figlie di Zeus che porta l’ègida.
Menzionerò solamente i capi e tutte le navi.
Erano a capo dei Beoti Penèleo e Lèito,
Arcesilào e Protoènor e poi Clonio;
quelli che stavano ad Iria e ad Aulide pietrosa,
a Scheno, a Scolo e ad Eteòno ricca di monti,
che a Tespia e Graia stavano e nella vasta Micalesso,
e attorno ad Arma stavano e a Ilèsio e ad Èritre,
e a Eleòne stavano, ad Ile, a Peteòne,
a Ocàlea, a Medeòna, città ben costruita,
a Cope, Eutrèsi, Tisbe, che è piena di colombe,
che a Coronèa abitavano e nell’erbosa Aliarto,
e stavano a Platèa, e stavano a Glisante,
e stavano a Ipotèbe, città ben costruita,
e a Onchesto sacra, bosco stupendo di Posidone,
e poi quelli di Arne, molti grappoli, e di Midèa,
e della sacra Nisa e di Antèdone remota;
cinquanta loro navi salparono, in ciascuna
cento ragazzi della Beozia si imbarcarono.
Quelli che stavano ad Asplèdone e a Orcòmeno Minii
li guidavano Ascàlafo e Iàlmeno, figli di Ares;
li mise al mondo Astìoche in casa di Actor di Àzeo:
la costumata vergine, nelle stanze di sopra salita,
con Ares si congiunse nel letto di nascosto;
trenta furono le concave navi che per essi schierarono.
E Schedio ed Epistrofo guidavano i Focesi,
figli di Ífito, irreprensibile figlio di Nàubolo:
e quelli che abitavano Ciparisso e Pito rocciosa,
Crisa divina abitavano e Daulide e Panopèo,
e Anemorìa e Iàmpoli abitavano d’intorno,
e quelli che abitavano lungo il fiume Cefìso divino,
e a Lilèa, vicino alle sorgenti del Cefìso;
quaranta furono le nere navi che li seguirono.

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Essi con cura disposero le schiere dei Focesi,
e si armarono sulla sinistra accanto ai Beoti.
Aiante celere figlio di Oilèo comandava i Locresi,
detto il minore; non tale quale Aiante Telamonio,
molto minore; era piccolo, con una corazza di lino,
ma nella lancia spiccava sugli Elleni e sugli Achei;
e abitavano a Cino, a Opunte e a Callìaro,
e abitavano a Bessa, a Scarfe e a Augìa amabile,
a Tarfe e a Tronio, che sta sulle rive del Boagrio;
quaranta furono le nere navi che lo seguivano,
dei Locresi, che stanno davanti alla sacra Eubèa.
Gli Abanti, che l’Eubèa abitavano, spiranti furore,
e a Càlcide e ad Eretria e a Istièa dai molti grappoli;
Cerinto sulla costa e la rocca scoscesa di Dio,
e quelli di Caristo, e gli abitanti di Stira,
Elefènor germoglio di Ares li guidava,
figlio di Calcodonte, capo dei magnanimi Abanti.
Lo seguivano i rapidi Abanti, dai lunghi capelli
all’indietro, bramosi con i frassini allungati
di infrangere sul petto le corazze dei nemici.
Quaranta furono le nere navi che lo seguivano.
Poi quelli che abitavano la rocca di Atene ben fatta,
terra di Erètteo magnanimo, che un dì Atena di Zeus figlia
allevò, generato dalla terra datrice di frutti,
e poi lo collocò in Atene, nel suo pingue tempio,
dove con tori e montoni i giovani Ateniesi
riti espiatorii gli offrono con ricorrenza annuale;
questi Menèsteo, il figlio di Peteòo li guidava.
Mai uomo sulla terra ci fu pari a costui
nell’ordinare carri equestri e guerrieri scudati.
Il solo Nestore con lui gareggiava, perché era più anziano.
Cinquanta furono le nere navi che lo seguivano.
Da Salamina Aiante guidava dodici navi,
e disponeva le schiere dove stavano gli Ateniesi.

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Quelli di Argo e di Tirinto cinta di mura,
di Ermìone e di Ásine, che stanno sul golfo profondo,
e di Trezène e di Èione e di Epidauro ricca di vigne,
e i figli degli Achei che stanno ad Egìna e a Masète,
li comandava Diomede possente nel grido di guerra,
e Stènelo, del nobile Capanèo il caro figlio;
terzo con loro Eurìalo andava, pari a un dio,
il figlio del sovrano Mecìsteo, figlio di Tàlao;
capo di tutti Diomede possente nel grido di guerra;
ottanta furono le nere navi che li seguivano.
E gli abitanti di Micene, città ben fatta,
e di Corinto opulenta e della ben fatta Cleòne,
e gli abitanti di Ornèa e di Aretìrea amabile,
e di Sicione, dove un tempo regnava Adrasto,
e quelli di Iperèsia e di Gonoessa scoscesa
e di Pellène e che abitavano intorno a Ègio
e lungo tutto l’Egìalo e intorno a Èlice ampia,
con cento navi li comandava il possente Agamemnon
figlio di Átreo; i più numerosi e i migliori guerrieri
lo seguivano; e lui indossava il bronzo splendente,
colmo di gloria, e spiccava in mezzo a tutti gli eroi;
questo perché era il più forte e guidava l’armata più grande.
Quelli di Lacedèmone, infossata fra i burroni,
di Fari, Sparta e Messe, città dalle molte colombe,
e stavano a Brisèa e nell’amabile Augìa,
e ad Amìcle, ad Elo, città sul litorale,
quelli che stavano a Laa e ad Ètilo, li guidava
Menelao, suo fratello, possente nel grido di guerra;
sessanta navi, armate per proprio conto, comandava.
E lui, fidando nel proprio coraggio, procedeva,
incitandoli al combattimento; assai bramava
di Elena i propositi e i lamenti vendicare.
E quelli che abitavano Pilo e l’amabile Arena
e Trio, sul corso dell’Alfèo, ed Epi ben fatta,

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e poi Ciparissenta e Amfigenìa abitavano,
e Ptèleo ed Elo e Dorio, proprio là dove le Muse
posero fine al canto di Tàmiri tracio, incontratolo –
lui proveniva da Ecalia, dalla casa di Èurito Ecalio,
e si vantava di vincere nel canto persino le Muse,
le stesse Muse, le figlie di Zeus che porta l’ègida;
esse, sdegnate, lo mutilarono, e il canto divino
gli tolsero, gli fecero dimenticare la cetra -,
Nestore, il cavaliere Gerenio, li guidava;
novanta furono le concave navi che per lui schierarono.
E quelli dell’Arcadia, sotto il ripido Cillenio,
presso il sepolcro di Èpito, dove stanno i guerrieri con l’asta,
e quelli che stavano a Fèneo e a Orcòmeno ricca di greggi,
e a Ripe, a Stratia, a Enispe, esposta a tutti i venti,
e che abitavano a Tègea e a Mantinèa amabile,
e stavano a Stinfàlo e abitavano a Parrasia,
li comandava il figlio di Ancèo, il possente Agapènor,
con sessanta navi, e molti su ogni nave
Arcadi si imbarcarono, esperti nell’arte di guerra.
Fu lui che loro diede, il sovrano di eroi Agamemnon,
le navi buoni scalmi per varcare il mare vinoso,
l’Atride: non si curano delle arti marinare.
E quelli di Buprasio e di Elide divina,
quanto è racchiuso fra Irmìna e Mìrsino remota,
e fra la roccia Olenia e la città di Alesio,
quattro avevano capi, e a ciascuno dieci navi
celeri stavano dietro, e vi salirono molti Epèi.
Un primo gruppo lo guidavano Amfìnomo e Talpio:
l’uno era figlio di Ctèato, l’altro di Èurito, nipoti di Actor;
un altro gruppo il forte Diòre Amarincèide;
il quarto lo guidava Polìsseno simile a un dio,
ch’era figlio di Agàstene sovrano, figlio di Augìa.
E quelli di Dulichio e delle isole Echìnadi sacre,
che stanno dirimpetto all’Elide, oltre il mare,

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Megète li guidava, pari ad Ares, il Filìde,
da Fìleo cavaliere, ch’era caro a Zeus, generato,
lui che a Dulichio una volta emigrò, adirato col padre.
Quaranta furono le nere navi che lo seguivano.
Odìsseo conduceva i Cefallènii magnanimi,
che a Itaca abitavano e al Nèrito frondoso,
e a Crocilèa abitavano e a Egìlipe rocciosa,
e Zacinto inoltre tenevano e stavano a Samo,
e si estendevano al continente che sta di fronte.
Odìsseo li guidava, pari a Zeus per accortezza;
e lo seguivano dodici navi, fiancate di minio.
E gli Etòli Toante di Andrèmon li guidava,
che Pleurone abitavano ed Òleno e Pilène,
Calcide sulla costa e Calidone rocciosa.
Figli non c’erano più di Èneo magnanimo,
neanche lui c’era, era morto il biondo Meleagro:
era toccato a Toante di regnare sugli Etòli.
Quaranta furono le nere navi che lo seguirono.
Idomèneo famoso con l’asta guidava i Cretesi,
quelli che stanno a Cnosso e a Gortìna cinta di mura,
e stanno a Litto a Mileto a Licasto biancheggiante,
e stanno a Festo a Ritio, città aben abitate,
e tutti gli altri che stanno a Creta dalle cento città;
e questi li guidava Idomèneo famoso con l’asta,
e Merìone pari ad Ares uccisore di eroi.
Ottanta furono le nere navi che li seguivano.
E Tlepòlemo figlio di Eracle, forte e grande,
nove guidava navi dei Rodii superbi;
gli abitanti di Rodi in tre gruppi suddivisi,
Lindo e Ialìso e poi Camìro biancheggiante;
Tlepòlemo famoso con l’asta li guidava,
che Astiochèa partorì a Eracle fortissimo,
che lui rapì da Èfira, presso il fiume Selleènta,
molte città di eroi nutriti da Zeus distrutte.

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Tlepòlemo, allevato nella casa ben costruita,
in un istante lo zio materno uccise del padre,
ch’era avanti negli anni, Licimnio, germoglio di Ares;
subito navi costruì, raccolse uomini,
se ne fuggì per mare; perché lo minacciavano
gli altri figli e nipoti di Eracle fortissimo.
Quindi vagando giunse a Rodi, soffrendo dolori.
Vi si stanziarono, in tre suddivisi, e furono amati
da Zeus, che sugli dèi e sugli uomini ha il dominio,
e profondeva il Cronìde su di loro infinite ricchezze.
Da Sime Nìreo guidava tre navi ben calibrate,
Nìreo di Aglàia figlio e di Càropo sovrano,
Nìreo, fra quanti Dànai pervennero ad Ilio il più bello,
subito dopo l’irreprensibile figlio di Pèleo;
privo però di vigore, e seguito da un piccolo esercito.
E quelli che abitavano a Nìsiro, Cràpato e Caso,
e a Cos, città di Eurìpilo, e alle isole Calidne,
erano da Fidippo e da Àntifo guidati,
ch’erano entrambi figli di Tessalo, sovrano Eraclìde;
trenta furono le concave navi che per essi schierarono.
E tutti quelli che abitavano ad Argo Pelasga,
quelli che ad Alo, ad Àlope e a Trachis dimoravano,
ed abitavano a Ftia e in Ellade belle donne,
e Mirmìdoni si chiamavano, Ellèni ed Achei,
li comandava con cinquanta navi Achille.
Ma non pensavano più alla guerra dolorosa:
non c’era più chi conducesse le loro schiere;
giaceva fra le navi lo splendido Achille veloce,
per la fanciulla Briseide bella chioma incollerito,
che da Lirnesso aveva portato dopo molte fatiche,
poich’ebbe devastato Lirnesso e le mura di Tebe,
e ammazzato Epìstrofo e Minète, valenti guerrieri,
figli di Evèno sovrano, lui figlio di Selèpio.
Ma Achille, addolorato per lei, stava per rialzarsi.

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E gli abitanti di Fìlaca e di Pìraso fiorita,
santuario di Demètra, e di Itòne ricca di mandrie,
di Antrone sulla costa e di Ptèleo letto erboso,
questi Protesilào guerriero li guidava,
quando era vivo; ormai sotto la nera terra giaceva.
A Fìlaca la sposa col volto graffiato restava,
la casa non compiuta: lo uccise un uomo Dàrdano,
mentre saltava giù dalla nave, primo fra gli Achei.
Privi di capo, però non erano privi di un capo,
ma li dispose in fila Podarce, germoglio di Ares,
figlio di Íficlo, ricco di mandrie, figlio di Fìlaco,
ch’era fratello germano di Protesilào magnanimo,
era però più giovane di età; più anziano e più forte
era l’eroe Protesilào guerriero: i soldati
di un capo non mancavano, ma il più forte rimpiangevano.
Quaranta furono le nere navi che lo seguivano.
Quelli che stavano a Fere, accanto al lago Bebèide,
a Bebe stavano, a Glàfira, a Iolco ben costruita,
li comandava il figlio di Admèto con undici navi,
Eumèlo, generato dalla splendida fra le donne
Alcesti, ch’era la più bella tra le figlie di Pèlia.
E quelli che a Metòne abitavano e a Taumàchia,
e a Melibèa dimoravano e a Olizòne scoscesa,
Filottète li comandava, arciere espertissimo,
con sette navi; e in ciascuna cinquanta rematori
si imbarcarono, esperti a combattere con gli archi.
Ma Filottète giaceva soffrendo atroci dolori
a Lemno sacra, ove i figli degli Achei lo abbandonarono
da piaga orrenda tormentato di serpe funesto.
E là giaceva soffrendo, ma presto gli Argivi dovevano
di Filottète sovrano presso le navi rammentarsi.
Privi di capo, però non erano privi di un capo,
ma li dispose Medonte, il figlio bastardo di Oilèo,
che Rene mise al mondo per Oilèo distruttore di rocche.

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Quelli che stavano a Tricca e Itòme dirupata,
quelli che stavano a Ecalia, la città di Èurito Ecalio,
i due figli li conducevano di Asclepio,
medici entrambi illustri, Podalirio e Macàon;
trenta furono le concave navi che per essi schierarono.
Quelli che stavano a Ormenio e alla sorgente Iperèa,
che stavano ad Asterio e di Titano alle bianche pendici,
li comandava Eurìpilo, di Evèmon splendido figlio;
quaranta furono le nere navi che lo seguivano.
E quelli che abitavano ad Argissa e a Girtone,
a Orte, a Elòne e alla candida città di Oloossòne,
il bellicoso Polipète li guidava,
il figlio di Pirìtoo, da Zeus immortale nato;
lo generò a Pirìtoo la nobile Ippodamìa,
il giorno in cui punì i mostri coperti di pelo,
e li scacciò dal Pelio e verso gli Ètici li spinse.
Non era solo, con lui c’era Leònteo germoglio di Ares,
figlio del valoroso Corono, figlio di Cèneo;
quaranta furono le nere navi che lo seguivano.
Gùneo da Cipro ventidue navi conduceva;
i bellicosi Eniani lo seguivano e i Perèbi,
che posero le case a Dodòna tempestosa
e lavoravano i campi a Titaresso amabile,
che versa l’acqua bella corrente nel Penèo,
ma non si mescola col Penèo dai gorghi d’argento,
ma scorre sopra in superficie, come fosse olio:
è un ramo dello Stige, acqua terribile dei giuramenti.
Pròtoo figlio di Tentrèdone guidava i Magneti,
che sulle rive del Penèo e sul Pelio selvoso
abitavano, e Pròtoo veloce li guidava;
quaranta furono le nere navi che lo seguivano.
Costoro erano i capi e comandanti dei Dànai.
Ora chi fu il migliore tu Musa suggeriscimi,
fra uomini e cavalli, che seguivano gli Atridi.

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Le cavalle migliori erano quelle del Feretìade,
quelle che Eumèlo guidava, veloci come uccelli,
pari di manto, di età, con pari altezza nelle schiene;
a Perèa Apollo arco d’argento le allevò,
ambedue femmine: il panico di Ares infondevano.
Tra gli uomini il migliore era Aiante Telamonio,
sino a che Achille rimase adirato: era lui il più forte,
e similmente i cavalli, che il Pelide irreprensibile
portavano; ma lui alle navi che varcano il mare
giaceva incollerito con Agamemnon pastore di popoli,
figlio di Àtreo; i suoi uomini sulla battigia del mare
si divertivano al lancio di dischi di giavellotti
di frecce; e accanto al carro ciascuno dei cavalli
stavano il loto a brucare e il sedano delle paludi;
ben custoditi i carri giacevano nelle tende
dei padroni, che il capo rimpiangendo caro ad Ares,
per tutto il campo qua e là si aggiravano senza combattere.
E procedevano quasi che la terra intera ardesse;
sotto la terra gemeva, come per Zeus che gode del fulmine,
sdegnato, quando intorno a Tifèo la terra fustiga,
fra gli Àrimi, ove dicono che sia il letto di Tifèo;
in pari modo la terra sotto ai piedi assai gemeva
mentre avanzavano. Presto la pianura attraversavano.
Ed ai Troiani giunse Iris rapida dai piedi di vento
con doloroso messaggio di Zeus che porta l’ègida;
stavano in assemblea davanti alle porte di Priamo,
tutti riuniti, tanto i giovani che gli anziani;
postasi accanto, così si rivolse Iris veloce,
assumendo la voce di Polìte figlio di Priamo,
che sedeva di guardia, fidando nei rapidi piedi,
sulla cima del sepolcro del vecchio Esiète,
pronto a notare quando gli Achei si sarebbero mossi.
E a lui rassomigliando, così disse Iris veloce:
“Vecchio, a te sempre piace dilungarti nei discorsi,

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quasi che fosse pace; ma conflitto terribile è sorto.
Ad altri scontri fra guerrieri ho preso parte in passato,
ma non ho visto mai un’armata così grande:
troppo alle foglie somigliando e ai granelli di sabbia,
per la pianura procedono per attaccare la città.
Ettore – a te soprattutto mi rivolgo – dammi ascolto:
molti alleati ci sono nella grande città di Priamo,
chi di una lingua chi di un’altra, di stirpi diverse;
fa’ che ciascuno dia ordini ai suoi, su cui comanda,
e guidi i suoi concittadini, dopo averli schierati.”.
Disse, né ad Ettore della dea il discorso sfuggì,
ma sciolse subito l’assemblea, e alle armi correvano
tutti, e le porte venivano aperte, e l’armata uscì fuori,
e fanti e cavalieri, si levava un immenso tumulto.
Davanti alla città si ergeva altura scoscesa,
discosta dalla piana, di qua e di là accessibile,
che sono soliti gli uomini chiamare Batièa,
e gli immortali tomba di Mirìna che saltella.
Là si posizionarono i Troiani e i loro alleati;
li comandava il grande Ettore elmo che splende,
figlio di Priamo; con lui i più numerosi e i migliori
si armavano bramosi di gettarsi sulla lancia.
E comandava i Dardani il prode figlio di Anchise,
Enea, che partorì ad Anchise Afrodite divina,
unitasi a un mortale, lei dea, nelle valli dell’Ida;
non era solo, stavano con lui i due figli di Antenore,
Archèloco e Acamante, di ogni tipo di scontro capaci.
E quelli di Zelèa, alle estreme pendici dell’Ida,
facoltosi, che l’acqua nera dell’Esèpo bevevano,
Troiani, il nobile figlio di Licàon li comandava,
Pandaro, al quale Apollo in persona diede l’arco.
E quelli di Adrestèa e del paese di Apèso
e che a Pitièa abitavano e all’erto monte di Terèa,
li comandavano Adrasto ed Amfio corazza di lino,

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entrambi figli di Mèrope Percosio, che più di tutti
sapeva l’arte mantica, e non voleva che i suoi figli
partissero alla guerra ammazzauomini; ma essi
non lo ascoltarono, le Chere di nera morte li travolsero.
Quelli che intorno a Percòte e intorno a Practio abitavano,
e abitavano a Sesto, ad Abìdo e alla splendida Arisbe,
Asio Irtàcide li guidava, capo di eroi,
Asio Irtàcide, che da Arisba cavalli portavano
imponenti, fulvi, dal fiume Selleènta.
Ippòtoo comandava le tribù dei Pelasgi guerrieri,
che abitavano a Larissa fertili zolle:
li comandavano Ippòtoo e Pilèo, germoglio di Ares,
figli ambedue di Leto pelasgico, figlio di Tèutamo.
I Traci li guidavano Acamante e Pìroo eroe,
quanti racchiude nel suo seno Ellesponto impetuoso.
Dei Cìconi guerrieri era comandante Eufèmo,
il figlio di Trezèno, figlio di Cea nutrito da Zeus.
Pirecme conduceva i Pèoni archi ricurvi:
da lungi, da Amidòne, dall’Assio che ampio scorre,
dall’Assio che con l’acqua sua bellissima al suolo si spande.
Pilèmene cuore intrepido i Paflàgoni guidava,
dagli Èneti, donde proviene la stirpe di mule selvagge,
essi che stavano a Citòro e intorno a Sèsamo,
e belle case abitavano intorno al fiume Partenio,
a Cromna, Egìalo e presso Eritìni posta in alto.
Odìo ed Epìstrofo comandavano gli Alizòni,
da Àlibe, da lungi, donde scaturisce l’argento.
Cromi guidava i Misii con Ènnomo indovino:
ma l’arte sua di interprete non lo salvò dal nero fato,
ché dalle mani del celere Eàcide fu domato,
lungo il fiume, ove fece massacro di altri Troiani.
Forci e Ascanio simile a un dio i Frigi guidavano,
giunti da lungi, da Ascania, smaniosi di carneficina.
Mestle e Àntifo poi i Mèoni guidavano,

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i figli di Talèmene, che partorì la palude Gigèa,
e i Mèoni nati ai piedi dello Tmolo comandavano.
Naste guidava i Cari, che parlano lingua diversa,
che stavano a Mileto e sul monte frondoso di Ftiri,
sul flusso del Meandro e le cime scoscese di Mìcale;
dunque costoro Naste ed Anfìmaco li guidavano,
Naste ed Anfìmaco, illustri rampolli di Nomìon;
andava in guerra il secondo coperto d’oro come un donna,
sciocco, ché l’oro da morte luttuosa non lo trattenne,
ma dalle mani del celere Eàcide fu domato,
lungi dal fiume, e l’oro se lo prese Achille guerriero.
E Sarpèdone e Glauco senza macchia guidavano i Lici,
da lungi, dalla Licia, dallo Xanto vorticoso.

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LIBRO III

Il duello di Alessandro e Menelao.

Iniziato lo scontro tra i due eserciti, si decide di risolvere il conflitto con un duello
fra i due principali contendenti, Menelao e Alessandro, altro nome di Paride: al
vincitore andrà la donna contesa con tutte le sue ricchezze e il conflitto avrà
termine. I due eserciti, deposte le armi per terra, si preparano ad assistere al duello,
consistente nel tiro dell’asta, nonché, se occorre, nell’uso della spada. Intanto la
scena si sposta sul muro di Troia, al disotto del quale si svolgono i preparativi per il
duello. Elena, chiamata da Iris, la messaggera degli dèi, si reca sul muro e, accanto
al re Priamo, gli indica, additandoli da sopra, i principali guerrieri achei. Si procede
al reciproco giuramento solenne; avvenuto il quale, Priamo se ne torna in città.
Inizia il duello, nel corso del quale Menelao sta per vincere, ma la spada gli si
rompe in vari pezzi; allora l’Atride, in preda all’ira, afferra l’avversario per l’elmo e
sta per trascinarlo, stozzandolo. Ma interviene la dea Afrodite, chiaramente
schierata a favore dei Troiani, che gli scioglie la cordicella che tiene legato l’elmo;
esso, rimasto vuoto nelle mani di Menelao, viene scagliato in mezzo agli Achei
stupefatti. Paride allora, avvolto in una nube, viene trasportato dalla dea nella
camera da letto di Elena, nell’attesa che lei ritorni. Elena, giunta a casa, lo
rimprovera, ma alla fine i due si riconciliano. Frattanto Menelao si dichiara
vincitore.

E non appena furono schierati a battaglia coi capi,


con clamore e con grida procedevano i Troiani,
simili a uccelli, quando delle gru s'alza il grido nel cielo,
se fuggono l'inverno che giunge e le piogge infinite,
e così allora sopra le correnti d'Oceano volano,
strage portando e morte agli uomini Pigmei;
esse dall’aria ingaggiano con loro mortale contesa.
Gli altri, gli Achei, in silenzio avanzavano, spirando furore,
desiderosi nel cuore di portarsi soccorso reciproco.

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Come su vetta di monte scirocco diffonde la nebbia,
poco gradita ai pastori, ma al ladro assai più che la notte,
quando la vista non va più lontano di un lancio di pietra;
densa così sotto i piedi si alzava una nube di polvere,
mentre avanzavano. Presto la pianura attraversavano.
E quando furono ormai vicini gli uni agli altri avanzando,
si staccò dai Troiani Alessandro simile a un dio,
con sulle spalle una pelle di pantera, con l’arco ricurvo
e con la spada; e due lance munite di punta di bronzo
palleggiando, sfidava i migliori degli Argivi
a misurarsi con lui nello scontro furibondo.
E non appena lo ravvisò Menelao caro ad Ares
che procedeva davanti alla schiera a grandi passi,
come leone gioì, se affamato si imbatte in un corpo
grande di cervo, munito di corna, o di capra selvatica,
e assai avidamente lo divora, per quanto si affannino
cani veloci e giovani fiorenti ad incalzarlo.
Tale gioì, vedendo Alessandro simile a un dio,
Menelao. Lui pensava sopra il reo di vendicarsi.
Subito balzò a terra dal carro con le armi.
Ma non appena lo scorse Alessandro simile a un dio
in prima fila apparire, ne fu sconvolto nel cuore,
e indietreggiò nel gruppo dei compagni, schivando la morte.
Come chi in mezzo alle gole dei monti, vedendo un serpente,
balza ed arretra, un tremito lo invade per le membra,
fugge atterrito, pallore si diffonde sulle guance;
tale in mezzo alla schiera riparò dei superbi Troiani
Paride simile a un dio, temendo del figlio di Àtreo.
Vistolo, Ettore lo rampognò con dure parole:
"Paride odioso, bello, donnaiolo, seduttore,
oh se non fossi mai nato, o fossi morto senza sposarti!
Questo davvero vorrei, e senz'altro assai meglio sarebbe,
che essere additato a vergogna e disprezzo di tutti.
Ridono certo di te gli Achei dai lunghi capelli,

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credendoti un campione, un eroe, perché così bello
di aspetto, ma coraggio non c'è nel tuo cuore né forza.
E tale essendo, hai potuto su navi che solcano il mare
attraversare il mare, radunare compagni fedeli,
mescolarti a stranieri, rapire una donna bellissima,
nuora di gente guerriera, per giunta da terra lontana,
tu gran rovina di tuo padre della patria del popolo,
fonte di gioia per i nemici e vergogna per te?
Dunque, proprio non vuoi affrontare Menelao caro ad Ares?
L'uomo conosceresti cui togliesti la sposa fiorente.
Né ti varranno la cetra, né i doni di Afrodite,
né chioma o aspetto, quando ti avvoltolerai nella polvere.
Vili Troiani davvero, altrimenti ti avrebbero messo
già da un pezzo una veste di pietra, tanto è il male che hai fatto."
E così gli rispose Alessandro simile a un dio:
"Ettore, tu mi insulti a ragione, non contro ragione.
Sempre inflessibile hai il cuore, pari a scure che il legno trapassa,
per la perizia della mano di un uomo che a regola d’arte
chiglia di nave modella, e asseconda lo sforzo dell'uomo.
E così dentro al petto il tuo cuore di niente ha paura.
Non rinfacciarmi gli amabili doni dell'aurea Afrodite,
neanche tu devi gli splendidi doni degli dèi disprezzare,
tutto ciò che essi elargiscono nessuno può scegliere.
Ora tu brami ch'io mi batta ed accetti lo scontro.
Fa' sedere gli altri Troiani e tutti gli Achei,
me nel mezzo soltanto con Menelao caro ad Ares
fate che ci battiamo per Elena e le sue ricchezze.
E chi dei due vincerà e risulterà il migliore,
tutte le sue ricchezze e la donna a casa si porti.
E voi stringete patti di amicizia e la fertile Troia
abiterete, e gli altri ad Argo che nutre cavalli
se ne ritornino e in Acaia belle donne.”
Disse così, e gioì Ettore udendo queste parole,
e, avanzando nel mezzo, tratteneva le schiere troiane,

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impugnando a mezzo la lancia. Ristettero tutti.
Ma gli tendevano gli archi gli Achei dai lunghi capelli,
contro di lui puntando le frecce e gettandogli pietre.
Forte allora gridò il sovrano di eroi Agamemnon:
"Trattenetevi, Argivi; basta, o figli degli Achei!
Ettore, elmo che splende, ha intenzione di parlarvi".
Disse così, ed essi si trattennero e tacquero tutti
all'istante. E così parlò Ettore agli uni e agli altri:
"Date ascolto, o Troiani e Achei dalle belle gambiere,
ad Alessandro, a causa del quale è sorto il conflitto.
Suggerisce agli altri Troiani e a tutti gli Achei
di deporre le belle armi sulla terra feconda,
e che lui, nel mezzo, si batta lui soltanto
con Menelao caro ad Ares per Elena e le sue ricchezze.
E chi dei due vincerà e risulterà il più forte,
tutte le sue ricchezze e la donna a casa si porti.
Noi stringeremo patti fedeli di amicizia".
Disse così, e tutti se ne stavano muti, in silenzio;
ma parlò Menelao, possente nel grido di guerra:
"Ora ascoltate anche me – più di tutti la pena mi affligge-,
perché credo che debbano ormai Achei e Troiani
separarsi: sono troppe le pene che avete sofferto
per la mia lite e per Alessandro che l'ha iniziata.
E di noi due a chi toccherà il destino di morte,
che perisca. Ma voi, separatevi al più presto!
Qui un agnello bianco e un'agnella nera portate,
per la Terra ed il Sole. Per Zeus ne porteremo
un secondo noi. E che qui venga il grande Priamo,
per stipulare i patti. Ha figli alteri e infìdi,
potrebbero violare i patti di Zeus per superbia.
Sempre le menti dei giovani si rivelano incostanti,
ma chi ha un vecchio vicino, insieme passato e futuro
vede, perché per ambedue vada bene ogni cosa".
Disse così, e si rallegrarono Achei e Troiani,

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con la speranza di porre fine alla guerra affannosa.
Arrestarono in fila i cavalli e dai carri discesero,
le armi disvestirono e le deposero al suolo
le une accanto alle altre. Poca terra restava nel mezzo.
Ettore prontamente mandava due araldi in città
a prendere gli agnelli e a convocare Priamo,
dal canto suo il possente Agamemnon invia Taltibio
presso le concave navi, perché l' agnello prescritto
prenda con sé. E obbediva allo splendido Agamemnon.
Iris da Elena candide braccia si recò messaggera,
la cognata sembrando, la moglie di Elicàon,
che il possente Elicàon, di Antenore figlio, teneva,
Laòdice, fra le figlie di Priamo la più bella.
Nel palazzo la trovò; grande tela tesseva,
doppia, di porpora, e dentro molte prove ricamava
dei Troiani e degli Achei tunicati di bronzo,
che soffrivano a causa sua sotto i colpi di Ares.
Standole accanto, così le parlò la celere Iris:
"Su vieni, cara sposa, a vedere le nobili imprese
dei Troiani e degli Achei tunicati di bronzo,
loro che prima in scontro lacrimoso si fronteggiavano,
nella pianura, bramosi di guerra annientatrice,
e se ne stanno adesso seduti, la guerra è finita,
e, appoggiati agli scudi, lunghe lance hanno infisse accanto.
Questo perché Alessandro e Menelao caro ad Ares
si batteranno per te a colpi di lunghe lance
e di chi vincerà tu sarai chiamata compagna."
Detto così, la dea dolce brama del primo marito,
della città, dei suoi genitori le infuse nel cuore.
E subito avvolgendosi in candidissime vesti
dalla sua stanza usciva versando tenere lacrime,
non da sola, che anzi la seguivano due ancelle,
Etre, la figlia di Pìtteo, e Clìmene grandi occhi;
e giunsero subito dove le porte Scee si aprivano.

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E i consiglieri di Priamo, e Pàntoo e Timète
e Lampo e Clito ed Icetàon germoglio di Ares,
e Ucalegonte e Antenore, che erano entrambi saggi,
sedevano, gli anziani, proprio accanto alle porte Scee;
si astenevano dalla guerra, ormai vecchi, ma erano
ottimi parlatori, cicale che nella foresta
stando su un albero effondono intorno una voce fiorita.
Tali allora su torre i capi troiani sedevano,
e come videro Elena che alla torre si appressava,
a bassa voce l'un l'altro alate parole dicevano:
"Strano non è che i Troiani e gli Achei dalle belle gambiere
pene per questa donna da sì lungo tempo patiscano;
terribilmente somiglia costei alle dee immortali.
Ma pur così, così bella, se ne torni sulle navi,
che non ci resti per noi, per i figli, anche dopo, rovina."
Essi così dicevano. E Priamo la chiamò ad alta voce:
"Cara creatura, accostati, e siediti accanto a me,
perché tu possa vedere marito parenti amici.
No, non è tua colpa, ma gli dèi sono colpevoli,
che hanno per me provocato la guerra lacrimosa.
Ma il nome dimmi di quell'uomo laggiù, maestoso,
chi potrà essere, eroe Acheo, valente e grande.
Altri ci sono, è vero, più alti di lui della testa,
ma così bello mai io ne vidi con questi miei occhi,
né così nobile di portamento. Ha l'aspetto di un re."
E, di rimando, Elena diceva, splendida donna:
"Suocero mio per me venerando, mi incuti rispetto.
Oh se mi fosse piaciuta la morte crudele al momento
in cui seguii tuo figlio, lasciando gli amici e il mio letto,
la figlioletta ancora piccina e le care compagne!
Ma ciò non è accaduto. E per questo mi struggo nel pianto.
Ma presto ti dirò ciò su cui mi domandi ed investighi.
Quello è il figlio di Àtreo, il più che possente Agamemnon,
valido re e allo stesso tempo superbo guerriero,

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mio cognato, di me, se mai lo fu, di questa cagna."
Disse così, e rimase stupefatto il vecchio e rispose:
"Figlio di Àtreo beato, fortunato, davvero felice!
Quanti giovani degli Achei ti sono soggetti!
Già una volta andai nella Frigia ricca di viti,
e vidi i Frigi in gran numero coi loro puledri fulgenti,
l'esercito di Otrèo e di Mìgdone simile a un dio,
che si accampavano lungo le rive del fiume Sangario.
Questo perché da loro ero stato chiamato alleato,
quando le Amàzoni giunsero, che combattono al pari dei maschi.
Ma tanti quanti gli Achei dai vividi occhi non erano."
E per secondo Odìsseo vedendo, il vecchio diceva:
"Ora, creatura, dimmi di quell'altro, chi mai egli sia.
Della testa è inferiore ad Agamemnon figlio di Àtreo,
ma di lui appare più ampio di spalle e di petto.
Giacciono le sue armi sulla terra nutrice di molti,
e lui come un ariete va esplorando le file degli uomini.
Proprio a un ariete dal vello pesante lo rassomiglio,
che si aggira fra grosso gregge di pecore candide".
E, di rimando, Elena, nata da Zeus, così gli diceva:
"Quello che vedi è il figlio di Laerte, Odìsseo avveduto,
che nella terra di Itaca rocciosa fu allevato,
e ogni sorta di inganni conosce e complessi pensieri."
E così allora le si rivolse Antenore saggio:
"Donna, oltremodo veridico è quanto poc'anzi hai detto.
Già una volta qui venne, da noi, lo splendido Odìsseo,
per te in ambasceria con Menelao caro ad Ares.
Fui io che li ospitai e li invitai a casa mia.
La figura di entrambi conobbi e i complessi pensieri.
Poi, quando si mischiarono nell'assemblea dei Troiani,
in piedi, Menelao superava le ampie spalle,
ma se sedevano entrambi, Odìsseo era più massiccio.
E quando in mezzo a tutti parole e pensieri tessevano,
allora Menelao esponeva speditamente:

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poche parole, sì, ma semplici, non era verboso,
né mai si confondeva. Inoltre era più giovane.
Quando però si alzava a parlare Odìsseo avveduto,
se ne restava immoto, fissando lo sguardo per terra,
né in alcun modo muoveva lo scettro, né avanti né indietro,
ma lo teneva immobile, sembrando uno sciocco e nient'altro.
In preda all'ira lo avresti creduto, o fuori di senno.
Ma se faceva uscire dal petto la voce sonora
e le parole, simili a fiocchi di neve d'inverno,
nessun mortale allora avrebbe Odìsseo sfidato,
né del suo aspetto più alcuno di noi si sarebbe stupito."
Terzo a sua volta Aiante vedendo, il vecchio diceva:
"E chi è mai quell'uomo, quell' Acheo valente e grande,
che sovrasta tutti della testa e delle larghe spalle?"
E rispondeva Elena, lungo peplo, splendida donna:
"Quello è l'immenso Aiante, baluardo degli Achei.
Dall'altro lato, Idomèneo tra i Cretesi sta simile a un dio,
e intorno a lui si raccolgono dei Cretesi i condottieri.
Frequentemente lo aveva ospitato Menelao caro ad Ares
a casa nostra ogni qual volta giungesse da Creta.
Tutti gli altri ora vedo, gli Achei dagli occhi vivaci,
e sono in grado di riconoscerli e di nominarli.
Ma i due capi di eserciti io non riesco a vedere,
Càstore domatore di cavalli e Pollùce gran pugile,
che sono i miei fratelli, da unica madre nati.
O non sono venuti da Lacedèmone amabile,
o invece sono giunti sulle navi che solcano il mare,
ma adesso non intendono impegnarsi nella guerra,
l'onta temendo e il disonore a causa mia."
Disse così, ma già li copriva la terra feconda,
a Lacedèmone, lungi, la cara loro patria.
Per la città gli araldi portavano, patti leali,
i due agnelli e il vino che allieta, frutto del suolo,
dentro un otre caprino, e lo splendido cratere

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l'araldo Idèo portava assieme alle coppe d'oro.
E, stando accanto al vecchio, in tal modo lo esortava:
"Alzati, figlio di Laomedonte, i migliori ti chiamano
dei Troiani e degli Achei tunicati di bronzo.
Scendi nella pianura, per sancire patti leali.
Subito dopo Alessandro e Menelao caro ad Ares
con le lunghe lance si batteranno per la donna.
La donna e le ricchezze seguiranno il vincitore.
Noi stringeremo patti di amicizia e la fertile Troia
abiteremo, ed essi ad Argo che nutre cavalli
se ne ritorneranno e in Acaia belle donne”.
Disse, ed il vecchio rabbrividì e ordinò ai suoi compagni
di aggiogare i cavalli, ed essi all'istante obbedirono.
Priamo allora salì e ritrasse indietro le redini;
accanto a lui Antenore salì sul carro bellissimo,
e spinsero per le porte Scee i cavalli veloci.
E quando furono giunti fra i Troiani e fra gli Achei,
scesero giù dal carro sulla terra nutrice di molti,
e avanzarono in mezzo fra i Troiani e i fra gli Achei.
E subito si alzò il sovrano di eroi Agamemnon.
Anche Odìsseo avveduto si alzò, e gli illustri araldi
patti leali raccolsero, e nel cratere mischiarono
il vino e nelle mani dei sovrani versarono l‘acqua.
E l’Atride, estratto il coltello con le mani,
che gli pendeva accanto al gran fodero della spada,
dalle teste degli agnelli tagliò i peli, che gli araldi
distribuirono ai capi dei Troiani e degli Achei.
E l’Atride a gran voce invocava tendendo le mani:
"Padre Zeus che regni dall'Ida, glorioso grandissimo,
Sole che tutto osservi dall'alto e tutto ascolti,
e fiumi e terra, e voi che i morti sotto terra
fate pagare, chiunque non rispetta i giuramenti,
siatemi testimoni, custodite i patti leali.
Se sarà Alessandro ad uccidere Menelao,

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Elena lui si tenga con tutte le sue ricchezze,
e noi ritorneremo sulle navi che solcano il mare;
se invece il biondo Menelao ucciderà Alessandro,
Elena consegneranno i Troiani con le ricchezze
agli Argivi, pagando adeguato risarcimento,
che rimanga impresso negli uomini che verranno.
Ma se, morto Alessandro, dovessero in futuro
Priamo e i suoi figli rifiutarsi di risarcirmi,
io resterò anche in seguito a combattere per il compenso,
sino al conseguimento del fine della guerra".
Disse, e la gola recise degli agnelli col bronzo spietato,
e li depose per terra che ancora palpitavano,
senza più vita, il bronzo ne aveva strappato il vigore.
Con le coppe attingendo il vino dal cratere,
lo versavano e pregavano gli dèi che vivono sempre.
E così qualcuno diceva fra Achei e Troiani:
"Zeus glorioso, grandissimo, e voi altri dèi immortali,
chi dei due per primo calpesterà questi patti,
che gli si spanda il cervello per terra come fa questo vino,
di lui e dei suoi figli, le sue donne siano preda di altri".
Così dicevano, ma non li esaudiva il figlio di Crono.
Priamo allora, discendente di Dàrdano, così disse loro:
"Datemi ascolto, Troiani ed Achei dalla belle gambiere,
io me ne tornerò ad Ilio battuta dai venti,
non posso sopportare di vedere coi miei occhi
questo mio figlio battersi con Menelao caro ad Ares.
Zeus senz'altro lo sa, e tutti gli altri dèi immortali,
a chi dei due è stato assegnato il destino di morte".
Disse, e depose sul carro gli agnelli l'uomo simile a un dio,
e vi salì lui stesso e ritrasse indietro le redini.
Accanto a lui Antenore salì sul carro bellissimo,
ed entrambi se ne tornarono indietro, a Ilio.
Ettore, figlio di Priamo, assieme allo splendido Odìsseo
per prima cosa il campo misuravano, quindi le sorti

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dentro un elmo di bronzo agitavano per designare
chi dei due per primo scagliasse la lancia di bronzo.
E pregava l’esercito, levando le mani agli dèi.
E così qualcuno diceva fra Achei e Troiani:
"Padre Zeus che regni dall'Ida, glorioso grandissimo,
quello dei due che ha causato tali eventi alle due parti,
fa' che spento si sprofondi nelle case di Ades
e che stringiamo patti di amicizia e lealmente giuriamo".
Dicevano, e agitava Ettore, elmo che splende,
dietro guardando, e di Paride la sorte balzò per prima.
Gli altri sedettero fila per fila con accanto a ciascuno
i cavalli smaniosi di correre e le armi istoriate.
Quindi le belle armi indossò sulle sue spalle
lo splendido Alessandro, sposo di Elena bella chioma.
Prime intorno alle gambe si mise le gambiere,
belle, ben rafforzate di copricaviglia d'argento,
seconda la corazza si rivestì sopra il petto,
di suo fratello Licàon: gli stava a perfezione.
Spada con borchie d'argento si appese sulle spalle,
bronzea, quindi lo scudo, ch'era grande e poderoso.
Sopra la testa possente mise un elmo ben lavorato,
con coda equina; ondeggiava terribile sopra il pennacchio.
L’asta robusta poi prese, che alla mano si adattava.
Ed anche Menelao caro ad Ares le armi indossava.
E non appena si furono armati entrambi in disparte
dai compagni, avanzarono in mezzo a Troiani ed Achei.
ferocemente squadrandosi. Stupore li prese a guardarli,
sia i Troiani che gli Achei dalle belle gambiere.
Stettero poi vicini nello spazio misurato,
agitando le lance e l'un l'altro spirando furore.
Primo scagliò Alessandro la lancia lunga ombra
e lo scudo rotondo colpì del figlio di Àtreo.
Non lo ruppe il bronzo, ma la punta si piegò
sopra lo scudo possente. Secondo si spinse col bronzo

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Menelao, il figlio di Àtreo, invocando Zeus padre:
"Zeus sovrano, concedimi di punire chi prima mi ha offeso,
Paride splendido. Dòmalo tu sotto questa mia mano,
perché si tremi pure fra gli uomini che verranno
a far del male all'ospite che abbia mostrato amicizia."
Disse, e scagliò, palleggiando, la lancia lunga ombra,
e colpì lo scudo rotondo del figlio di Priamo.
Attraversò la lancia pesante lo splendido scudo
e rimase infissa nella corazza ben lavorata,
e lungo il fianco diritta lacerò in parte la tunica.
Lui si chinò e schivò il nero destino di morte.
L'Atrìde allora, sguainando la spada trapunta d'argento,
la sollevò e colpì dell'elmo il cimiero. Ma quella
in tre pezzi, in quattro frantumata, gli cadde di mano.
Gemito al vasto cielo emise il figlio di Àtreo:
"Padre Zeus, non esiste altro dio più funesto di te.
Pensavo di punire il misfatto di Alessandro,
e invece mi si spezza in mano la spada e la lancia
s'è dipartita invano da me, ho mancato il bersaglio."
Disse così, e, balzando, per l'elmo crinito lo afferra,
e lo traeva, girandolo, fra gli Achei dalle belle gambiere:
lo strangolava la cinghia trapunta sotto il morbido collo,
che si tendeva al di sotto del mento, a chiusura dell'elmo.
E lo avrebbe trascinato con gloria, se subito
non lo avesse veduto la figlia di Zeus, Afrodite,
che gli slegò la cinghia di bove, con forza abbattuto.
L'elmo, svuotato, seguì prontamente la mano robusta,
e subito l'eroe fra gli Achei dalle belle gambiere
lo scagliò roteandolo. Lo raccolsero i suoi compagni.
Lui allora gli balza addosso, bramoso di ucciderlo,
con la sua lancia di bronzo. Ma lo sottrasse Afrodite
-facile per una dea- e di fitta nube lo avvolse,
quindi nel talamo lo trasportò olezzante fragrante.
Poi si recò a chiamare Elena. E la trovò

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sull'alta torre, e molte Troiane aveva d'intorno.
Presala per la veste fragrante nettarea, la scosse
e le parlò, somigliando a una vecchia carica d'anni,
filatrice, che per lei, quando a Sparta abitava,
lane belle lavorava e l'amava moltissimo.
Tale sembrando, le disse la splendida Afrodite:
"Vieni, Alessandro ti invita a ritornare a casa.
Già è nella stanza nuziale e sul letto ben lavorato,
splendido nella bellezza e nell'abito. Non diresti
che torni dallo scontro con un eroe, ma che a un ballo
stia per andare, o che, tornato da un ballo, riposi".
Disse e il cuore sovreccitò di lei dentro al petto,
e, come della dea riconobbe il collo bellissimo,
il seno che ridesta desiderio e gli occhi abbaglianti,
restò attonita, e le rivolse queste parole:
"Perfida, a che ti affanni a trarmi in inganno così?
Forse che in qualche città popolosa, più lontano,
vuoi portarmi, di Frigia o di Meonia amabile,
se anche là uno ti è caro degli uomini parlanti?
Proprio perché Menelao ha vinto su Alessandro
splendido, e me, pur odiosa, vuole riportare a casa,
proprio per questo mi sei qui vicina e ordisci inganni?
Va' da lui, sta' con lui, abbandona le vie degli dèi,
non ti dirigere più coi tuoi piedi verso l'Olimpo,
ma continua a soffrire per lui, continua a proteggerlo,
sino a che ti faccia sua sposa, che dico, sua serva!
Là dentro io non verrò – sarebbe davvero oltraggioso-
a rassettare il letto, le Troiane alle mie spalle
tutte mi biasimerebbero, e io ho pene infinite nel cuore".
E le rispose furente la splendida Afrodite:
"Matta, non mi irritare, ch'io, sdegnata, non ti abbandoni.
Potrei odiarti come tremendamente ti ho amata,
di ambedue potrei suscitarti l'astio luttuoso,
di Troiani e di Dànai, e la tua fine sarebbe orrenda".

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Disse così, ed ebbe paura la figlia di Zeus,
e partì ravvolta in candida veste splendente
in silenzio, a tutte sfuggì, la dea la guidava.
E, giunta alla bellissima dimora di Alessandro,
presto le ancelle si misero all'opera, e lei si recò
nella stanza dall'alto soffitto, la splendida donna.
Prese allora una sedia Afrodite che ama il sorriso
e di fronte ad Alessandro la pose, portandola.
Qui sedette Elena, figlia di Zeus che porta l'ègida,
e volgendo altrove lo sguardo, lo rimproverò:
"Reduce sei dallo scontro! Dovevi piuttosto morire,
da quel prode domato che fu il mio primo marito.
Eppure ti vantavi di essere migliore,
per forza mani e lancia, di Menelao caro ad Ares.
Ma Menelao caro ad Ares va’ a sfidarlo un'altra volta,
perché si batta in duello con te. Ma allora piuttosto
ti suggerisco di smettere e di non fare più guerra
fronte a fronte col biondo Menelao, di non combattere
stupidamente, saresti battuto dalla sua lancia".
Paride allora le rispose con queste parole:
"Non mi colpire, donna, con offese così pesanti.
Certo, ora ha vinto Menelao con l'aiuto di Atena.
Toccherà a me un'altra volta, anche noi abbiamo dèi che ci assistono.
Ma ora andiamo a letto e uniamoci in amore.
Mai prima d'ora così il desiderio ha pervaso i miei sensi,
neanche quando una volta dall'amabile Lacedèmone
ti rapii e navigammo sulle navi che solcano il mare
e nell'isola Crànae ci unimmo nel letto in amore,
quanto ora ti desidero e la dolce brama mi afferra."
Disse, e la precedette nel letto, e lo seguiva la sposa.
E, mentre i due giacevano nel letto cesellato,
simile a belva il figlio di Àtreo su e giù per i ranghi
andava, se Alessandro pari a un dio riuscisse a vedere.
Dei Troiani nessuno e degli illustri alleati

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era in grado di indicarlo a Menelao caro ad Ares;
per amicizia non certo chi lo vedeva lo avrebbe nascosto:
simile a nera morte da tutti era detestato.
E così disse loro il sovrano di eroi Agamemnon:
"Datemi ascolto, Troiani e Dàrdani e alleati.
La vittoria è lampante di Menelao caro ad Ares.
Elena Argiva dunque e le ricchezze con lei
restituiteci, con adeguato risarcimento,
che rimanga impresso negli uomini che verranno."
Così parlò l'Atride, e gli altri Achei approvavano.

62
LIBRO IV

I patti violati.

Ma i patti sono stati ormai violati, e pertanto bisogna ricominciare a combattere. A


tal fine, gli dèi, riuniti a concilio, assistono all’alterco fra Zeus da una parte e Hera e
Atena dall’altra, invano schierate a favore di Menelao: Paride trova sempre chi lo
aiuta. Alle rimostranze delle due dee, Zeus consente ad Atena, la sua figlia
prediletta, di comportarsi a suo piacimento. Atena scende e suggerisce a Pandaro di
ferire Menelao con una freccia, al fine di far ricominciare il conflitto. Il che accade
puntualmente. Menelao, ferito, viene curato dal medico Macàon, figlio di Asclepio.
Il conflitto riprende furioso, con morti da ambo le parti.

Si riunivano intanto, seduti intorno a Zeus,


gli dèi, sul pavimento dorato, e loro il nettare
Ebe sovrana versava, e con le coppe d’oro
brindavano l’un l’altro, la città di Troia guardando.
Ecco che allora il Cronìde si provava a stuzzicare
Hera con parole insinuanti, per allusioni:
“ Di Menelao le protettrici fra le dee
sono ben due: Hera Argiva e Atena Alalcomenia.
Stanno però sedute in disparte e si accontentano
di guardare. Invece Afrodite che ama il sorriso
l’altro lo assiste sempre e gli tiene lontana la morte.
Lo ha salvato anche adesso, che credeva di morire.
Ma certo la vittoria è di Menelao caro ad Ares,
e perciò riflettiamo su come andrà la faccenda,
se di nuovo guerra funesta e tremenda contesa
susciteremo, o instaureremo fra loro amicizia.
Se a tutti noi fosse caro e gradito che ciò accadesse,
continuerebbe a esistere la città di Priamo sovrano
e Menelao si riporterebbe Elena argiva”.
Disse così, e mormorarono Atena ed Hera; sedevano
l’una accanto all’altra, e tramavano mali ai Troiani.

63
Atena stava muta, non fiatava, incollerita
col padre Zeus, selvaggia ira la possedeva;
Hera invece la collera non trattenne nel petto, e proruppe:
“Figlio di Crono tremendissimo, che mai dicesti?
Vana e incompiuta la mia fatica vorresti rendere,
il mio sudore sudato con pena? Ho sfiancato i cavalli
per radunare l’esercito, rovina per Priamo e i suoi figli!
Fallo, ma certo non tutti noi dèi ti approveremo!”
E a lei, molto turbato, disse Zeus che aduna le nubi:
“Matta, che male grande ti possono mai fare
Priamo e i figli di Priamo, che non fai che andare in smanie
pur di annientare la rocca di Ilio ben costruita?
Se tu potessi entrare per le porte e le lunghe mura
e divorare crudi Priamo, i suoi figli e gli altri
Troiani, ecco che allora cesseresti dallo sdegno.
Fa’ come vuoi, che questo conflitto nel futuro
per te e per me non divenga un motivo di lite reciproca.
Ma altro ti dirò, e tu imprimilo nella tua mente:
quando mi prenderà il desiderio di annientare
una città dove stanno persone che ti piacciono,
non ti azzardare a calmarmi lo sdegno, ma lasciami fare.
Io ti ho concesso Troia volendolo, ma contro il mio cuore.
Tra le città che sotto il sole e il cielo stellato
sono abitate da uomini che calcano la terra,
la sacra Ilio al mio cuore risultava la più gradita,
e così Priamo e la gente di Priamo lancia di frassino.
Mai per me l’altare mancava della giusta porzione,
di libagione e di aroma, che è l’onore che ci spetta”.
E, di rimando, diceva, sovrana grandi occhi, Hera:
“Sono tre le città fra tutte a me più care:
Argo e Sparta e poi Micene dalle ampie strade.
Ma sì, distruggile, quando ti verranno in odio al cuore.
Non mi porrò a loro difesa, non contrasterò,
anche se non consentissi e cercassi di impedirtelo:

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a nulla riuscirei, perché sei di molto più forte.
Ma bisogna che anche la mia fatica abbia un compenso,
una dea la sono anch’io, della stessa tua stirpe.
Crono tortuosi pensieri mi generò, primissima
per due ragioni: per nascita e perché la tua consorte
sono chiamata, e tu domini su tutti gli immortali.
E perciò industriamoci a cedere l’un l’altro,
io verso te e tu verso me, e gli altri dèi
ci seguiranno. E tu comanda ad Atena di entrare
dei Troiani e degli Achei nel tremendo conflitto:
cerchi di fare che i Troiani per primi danneggino
gli ardimentosi Achei, violando i giuramenti”.
Disse, e le diede ascolto il padre di uomini e dèi,
e subito ad Atena alate parole diceva:
“Giunta al più presto al campo dei Troiani e degli Achei,
cerca di fare che i Troiani per primi danneggino
gli ardimentosi Achei, violando i giuramenti”.
Così dicendo, Atena, già da tempo impaziente, spronava,
e dalle cime d’Olimpo lei discese con un balzo,
pari alla stella che il figlio di Crono tortuosi pensieri
manda, prodigio ai naviganti o a un grande esercito,
risplendente; molte scintille da essa sprizzano;
simile ad essa guizzò sulla terra Pallade Atena.
Balzò nel mezzo; i Troiani, domatori di cavalli,
e gli Achei dalle belle gambiere al vederla stupirono.
E qualcuno guardando così ripeteva al vicino:
“O funesta guerra ci sarà e tremendo scontro,
o amicizia fra i contendenti stabilisce
Zeus, che è dispensiere della guerra fra gli umani”.
Proprio così qualcuno diceva fra Achei e Troiani.
Si mescolò nel gruppo dei Troiani, simile a un uomo,
Laòdoco, di Antenore figlio, possente guerriero,
cercando Pandaro pari a un dio, se mai lo trovasse.
E trovò il figlio di Licàon illustre possente,

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che stava ritto. Intorno forti file di armati di scudi
v’erano, che lo seguivano dalle correnti dell’Esèpo.
E, standogli vicino, alate parole diceva:
“Mi darai retta, figlio valente di Licàon?
Se tu osassi scagliare su Menelao dardo veloce,
plauso trarresti e gloria da parte di tutti i Troiani
e, nel grado supremo, dal principe Alessandro.
Da lui prima di tutto avresti spendidi doni,
se vedrà Menelao guerriero, il figlio di Àtreo,
domato da un tuo dardo, salire sul rogo funesto.
Orsù, punta lo strale su Menelao glorioso,
e prometti ad Apollo di Licia, arciere illustre,
un’ecatombe eletta di agnelli primi nati
tornato a casa, nella sacra città di Zelèa”.
Disse Atena, e persuase la mente dello sciocco.
Subito l’arco afferrò levigato, di corno di capro
selvatico, che un giorno colpì sotto lo sterno,
mentre giù da una rupe balzava, in agguato: nel petto
lo colse, e quello cadde supino sulla roccia.
Dalla testa le corna per sedici palmi sporgevano;
un artigiano esperto di corni vi si impegnò,
li levigò per bene, vi applicò puntali d’oro.
Lui, tendendo bene l’arco, lo depose inclinandolo.
Poi due valenti compagni sollevarono gli scudi,
che i figli bellicosi degli Achei non si avventassero,
prima che lui colpisse Menelao guerriero Atride.
Della faretra il coperchio sollevò, ne estrasse un dardo,
nuovo, munito di ali, portatore di neri affanni.
E prontamente adattava l’amaro dardo sulla corda,
e prometteva ad Apollo di Licia, arciere illustre,
un’ecatombe eletta di agnelli primi nati,
tornato a casa, nella sacra città di Zelèa.
E tirava, afferrando insieme cocca e nervo di bue,
e avvicinando al petto la corda, il ferro all’arco.

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Com’ebbe teso il grande arco in forma di cerchio,
l’arco gemette, il nervo sibilò, balzò la freccia
appuntita, bramosa di volare in mezzo alla mischia.
Ma, Menelao, non obliarono te gli dèi beati
immortali, per prima la figlia di Zeus predatrice,
che, stando a te davanti, stornò la freccia acuta.
La scacciava dal tuo corpo, come madre che scaccia
una mosca dal figlio in dolce sonno addormentato,
e lei stessa la diresse dove i ganci dorati
della cintura si intrecciano e la corazza è doppia.
Cadde sulla cintura ben serrata il dardo amaro,
e passò attraverso la cintura molto ornata,
e restò confitto nella corazza ben lavorata
e nella fascia, che lui vestiva a difesa dai colpi,
che assai l’aveva difeso: ma oltrepassò anche quella.
In superficie lo strale scalfì la pelle dell’uomo.
Subito nero sangue sgorgò dalla ferita.
E come quando una donna di Meonia o di Caria
tinge l’avorio di porpora: il frontale dei cavalli –
giace nel ripostiglio, e molti cavalieri
vorrebbero esibirlo, ma è splendore per il re,
per il cavallo ornamento e vanto per chi lo guida -;
tali di sangue le cosce, Menelao, a te si macchiarono,
ben modellate, e le gambe e, al di sotto, le belle caviglie.
Da un brivido fu colto il sovrano di eroi Agamemnon,
come vide scorrere il nero sangue dalla ferita,
e anche Menelao, caro ad Ares, fu colto da un brivido.
Ma come vide che il laccio e gli uncini erano fuori,
gli si raccolse di nuovo la vita dentro al petto.
E, tra profondi gemiti, così disse il possente Agamemnon,
prendendo per la mano Menelao, e i compagni piangevano:
“Fratello caro, giurando, ti ho decretato la morte,
solo mandandoti contro i Troiani per gli Achei:
t’hanno colpito i Troiani, hanno calpestato i patti.

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Ma il giuramento non è vano, né il sangue degli agnelli,
le libagioni di vino, le destre in cui credemmo.
E se l’Olimpio subito non li ha mandati ad effetto,
anche se tardi, li compirà, e pagano caro
con le loro teste, con le donne, con i figli.
Questo io so assai bene nell’animo e nel cuore:
giorno verrà, è sicuro, che morrà la sacra Ilio,
Priamo morrà e la gente di Priamo, lancia di frassino,
e Zeus Cronìde in alto, che abita nell’etere,
lui stesso scuoterà su tutti l’ègida nera,
sdegnato per l’inganno; tutto ciò si compirà.
Ma tremendo per me dolore ci sarà, Menelao,
se tu morrai, compiendo il destino della vita.
Ritornerei disonorato nell’arida Argo:
subito rimembreranno gli Achei la terra patria,
e lasceremo in vanto per Priamo e per i Troiani
Elena argiva, e la terra dissolverà le tue ossa,
di te, che giacerai per un’impresa incompiuta.
E qualcuno così dirà dei Troiani altezzosi,
calpestando la tomba di Menelao glorioso:
“Possa così Agamemnon sfogare su tutto la rabbia,
come ha condotto l’esercito degli Achei inutilmente,
e se n’è ritornato nella cara terra patria
con navi vuote, lasciando il valente Menelao!”
Così qualcuno dirà, e mi si spalanchi l’ampia terra!”
E, rincuorandolo, disse il biondo Menelao:
“Animo, non scoraggiare l’armata degli Achei!
Colto non ha nel segno il dardo acuto, ma, contro,
la variopinta cintura l’ha trattenuto, e, di sotto,
il perizoma e la fascia, lavoro di esperti artigiani”.
E, di rimando, così gli disse il possente Agamemnon:
“Fosse proprio così, o Menelao carissimo!
La ferita un medico la tasterà, e rimedi
vi porrà sopra, che fanno cessare i neri spasimi”.

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Disse, e chiamò Taltibio, divino araldo, e così disse:
“Chiama, Taltibio, il più presto possibile qui Macàon,
l’uomo che è il figlio del medico Asclepio irreprensibile,
perché visiti Menelao guerriero Atride,
che qualcuno, intenditore di archi, ha colpito
dei Troiani o dei Lici, per lui gloria e per noi lutto”.
Disse, e l’araldo, uditolo, non gli disobbedì,
e si avviò per l’esercito degli Achei tunicati di bronzo,
a cercare l’eroe Macàon, ed ecco lo scorse
che stava ritto. Intorno forti file di armati di scudi
v’erano: lo seguivano da Tricca che nutre cavalli.
E stando a lui vicino, alate parole diceva:
“Vieni, figlio di Asclepio, ti chiama il possente Agamemnon,
perché tu veda il guerriero Menelao, capo degli Achei,
che qualcuno, intenditore di archi, ha colpito
dei Troiani o dei Lici, per lui gloria e per noi lutto”.
Disse, e il cuore sovreccitò di lui dentro al petto;
e degli Achei per il vasto campo si avviarono.
E non appena giunsero dove il biondo Menelao
stava ferito e tutti i migliori, a lui intorno riuniti,
in mezzo a loro, al centro, si fermò l’uomo simile a un dio.
Subito dalla cintura ben serrata estrasse il dardo;
mentre tirava, gli aguzzi uncini si strapparono.
Sciolse la variopinta cintura, quindi, di sotto,
il perizoma e la fascia, lavoro di esperti artigiani.
E come vide la piaga, dove cadde il dardo amaro,
succhiato il sangue, con arte blandi farmaci spalmava,
che un dì Chirone diede a suo padre con animo amico.
Mentre di Menelao, possente nel grido di guerra,
si occupavano, giunsero dei Troiani scudati le schiere:
essi le armi avevano indossato, bramosi di battersi.
Ma neppure lo splendido Agamemnon avresti visto
starsene inerte e cheto, o rifiutarsi di combattere,
ma molto si affrettava per la mischia che esalta i forti.

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E lasciò i cavalli e il carro adornato di bronzo,
e li teneva in disparte lo scudiero che ansimavano,
Eurimedonte, figlio di Tolemèo Piràide.
E gli ordinava di tenerli vicini, quando per caso
stanche le membra avesse di guardare tante schiere.
E procedendo fra i ranghi, esplorava le file degli uomini,
e chi vedesse animoso fra i Dànai, veloci cavalli,
con parole lo incoraggiava, ponendosi accanto:
“Suvvia, non allentate, Argivi, l’ardente vigore:
il padre Zeus non certo gli spergiuri assisterà
e quelli che per primi hanno i patti trasgredito.
Divoreranno le loro tenere carni gli avvoltoi,
ma noi le care mogli porteremo e i figli piccini
sulle navi, quando la rocca prenderemo”.
Quelli poi che vedeva all’odiosa guerra sottrarsi,
molto li rimbrottava con parole piene di sdegno:
“Smargiassi, vili Argivi! Ma non vi vergognate?
State qui fermi, come cerbiatte imbambolati,
che, appena stanche di correre un bel po’ per la pianura,
si arrestano, né forza loro resta più nel cuore?
E così voi imbambolati ve ne state senza combattere.
Forse aspettate i Troiani, che vi assaltino, dove le navi
belle poppe stanno sulla riva del mare canuto,
per vedere se il figlio di Crono vi tende una mano?”.
Così esplorava le file degli uomini, dando consigli.
E procedendo attraverso la calca, giunse presso i Cretesi,
che si stavano armando intorno al valente Idomèneo:
Idomèneo fra i primi, somigliante per forza a un cinghiale,
e Merìone, dietro, incitava le retroguardie.
Si rallegrò al vederli il sovrano di eroi Agamemnon,
e così si rivolse a Idomèneo con dolci parole:
“Idomèneo, ti ho in pregio fra i Dànai veloci puledri,
sia nella guerra, sia in ogni altra occupazione,
sia nel convito, quando pregiato vino fulgente

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mescolano nel cratere i capi degli Argivi.
E mentre tutti gli altri Achei dai lunghi capelli
bevono la loro parte, la coppa per te è sempre piena,
come pure per me, quando il cuore invita a bere.
Spingiti dunque a combattere, come sempre ti vanti di essere”.
E gli rispose Idomèneo, condottiero dei Cretesi:
“Figlio di Àtreo, veramente compagno fedele
ti sarò sempre, come dall’inizio ti ho sempre giurato.
Ma tu incita gli altri Achei dai lunghi capelli,
perché al più presto ci battiamo: violarono i patti
i Troiani. Per loro ci saranno morte e dolori,
perché per primi colpirono contrariamente ai patti”.
Disse così, e l’Atride passò oltre, lieto in cuore.
E procedendo attraverso la calca, ai due Aianti
giunse; questi si armavano, e li seguiva una nube di fanti.
Come quando da un posto di vedetta una nube il capraio
giungere vede lungo il mare sotto l’urlo di Zefiro –
da lontano nera come pece gli compare,
mentre avanza sul mare, portando un grande turbine;
rabbrividisce a guardarla e spinge il gregge nella grotta –,
tali coi due Aianti fitte schiere procedevano
di giovani nutriti da Zeus allo scontro spietato,
cupo baluginanti, frementi di scudi e di lance.
Come li vide, si rallegrò il possente Agamemnon,
e, rivolgendosi a loro, alate parole diceva:
“Aianti, condottieri degli Achei tunicati di bronzo,
nulla vi dico – del resto non è il caso di incitarvi -;
voi due molto l’esercito spronate, che si battano.
Padre Zeus e Atena e Apollo, oh potesse accadere
che tale e quale il cuore fosse a tutti dentro al petto;
la città di Priamo sovrano presto cadrebbe
sotto le nostre mani, conquistata e devastata”.
Disse così, e là li lasciò, per andare da altri.
E Nestore trovò, oratore dei Pilii sonoro,

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che i compagni schierava e li incitava a battersi,
intorno al grande Pelagonte e Alastor e a Cromio
e al possente Aimon e a Biante pastore di popoli;
i cavalieri in testa coi cavalli e con i carri
e dietro i fanti, molti e valenti, collocò,
che fossero allo scontro baluardo; e i peggiori nel mezzo,
perché costretto a battersi fosse anche chi non lo volesse.
Ai cavalieri per primi dava ordini, e li esortava
a trattenere i cavalli, che nella mischia non sbandassero:
“Nessuno, fiero della propria perizia e della forza,
si arrischi ad affrontare da solo davanti agli altri
i Troiani, né alcuno arretri: sareste più deboli.
E chi di voi dal suo carro può colpire un altro carro,
provi a lanciare l’asta, e ciò sarà molto migliore.
Mura e città in questo modo distrussero i nostri antenati,
con tale intento e con tale ardore dentro al petto”.
Così incitava il vecchio, già da tempo esperto di guerra.
Come lo vide, si rallegrò il possente Agamemnon,
e rivolgendosi a lui, alate parole diceva:
“Vecchio, oh se pari all’ardore che hai nel petto ti seguissero
le ginocchia e la forza ti rimanesse intatta!
Ma ti consuma vecchiaia, pari in tutti; ma toccasse
a un altro fra gli umani, e tu potessi restare fra i giovani!”
Nestore, di rimando, cavaliere Gerenio, rispose:
“Figlio di Àtreo, davvero vorrei essere tale e quale
com’ero quando uccisi lo splendido Ereutalìon!
Ma tutto insieme non danno agli uomini gli dèi:
se allora ero un ragazzo, adesso vecchiaia mi coglie.
Ma anche così starò coi cavalieri, e coi consigli
e con parole vi inciterò, privilegio dei vecchi.
Le scaglieranno i giovani le lance, che di me
sono più forti e nutrono fiducia nel proprio vigore”.
Disse così, e l’Atride passò oltre, lieto nel cuore.
E trovò Menèsteo di Peteòo, che guida cavalli,

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ritto in piedi, e intorno gli Ateniesi esperti di guerra.
E gli stava accanto il molto astuto Odìsseo
con intorno le schiere non certo fiacche dei Cefallenii:
udito non avevano ancora il grido di guerra,
perché da poco, raccolte, si muovevano le armate
dei Troiani domatori di cavalli e degli Achei,
ma aspettavano che giungesse un’altra colonna
e assaltasse i Troiani, e poi loro intervenissero.
Vistili, li rampognò il sovrano di eroi Agamemnon,
e. rivolgendosi a loro, alate parole diceva:
“Figlio di Peteòo, di un re nutrito da Zeus,
e anche tu, esperto di perfidi inganni, di trappolerie,
perché mai ve ne state acquattati, aspettando gli altri?
Spetterebbe invece a voi che, assieme ai primi
appostati, vi muoveste allo scontro infuocato!
Primi voi due ricevete l’invito al mio banchetto,
quando imbandiamo un banchetto per i capi noi Achei:
carni arrostite vi è grato là mangiare e tracannare
coppe di vino delizioso a piacimento.
Ma adesso gradireste che dieci colonne di Achei
combattessero davanti a voi col bronzo spietato”.
E, di sbieco guardandolo, gli disse il molto astuto Odìsseo:
“Quale parola, Atride, ti sfuggì dal recinto dei denti!
Come puoi dire che evitiamo lo scontro, se noi Achei
contro i Troiani domatori di cavalli il duro Ares destiamo?
Ben lo vedrai, se vorrai e se questo ti sta a cuore,
di Telemaco il padre azzuffarsi con i primi
dei Troiani domatori di cavalli. Dici ciaccole al vento”.
E, sorridendo, gli rispose il possente Agamemnon,
come lo vide seccato, e ritrattò le sue parole:
“Laertìade divino, Odìsseo ricco di astuzie,
non intendo a vuoto accusarti, né darti ordini;
io lo so bene che il tuo cuore dentro al petto
ha miti sentimenti, e che la pensi come me.

73
Ma va’, ci accorderemo più tardi, e se parola
malvagia è stata detta, gli dèi tutte le disperdano”.
Disse così, e là li lasciò, per andare da altri.
E trovò il figlio di Tìdeo, Diomede ardimentoso,
che stava ritto sopra il carro ben connesso;
gli stava accanto Stènelo, il figlio di Capanèo.
Vistolo, lo rampognò il sovrano di eroi Agamemnon,
e, rivolgendosi a lui, alate parole diceva:
“Ahimè, Tidìde valente, domatore di cavalli,
perché ti acquatti, e resti a occhieggiare i sentieri di guerra?
Non era caro a Tìdeo acquattarsi in questo modo,
ma, precedendo di molto i compagni, affrontare i nemici,
come assicura chiunque operare lo vide; ma io
né lo incontrai né lo vidi, ma lo dicono il più forte.
Giunse una volta a Micene, ma non a motivo di guerra,
ospite con Polinice pari a un dio, per radunare
un’armata: muoveva contro il sacro muro di Tebe.
Molto pregava che dessero loro eletti alleati:
acconsentivano quelli e accordavano le richieste,
ma li distolse Zeus, mostrando segni ostili.
E come se ne andarono e furono avanti nel viaggio,
giunsero ai bassi canneti e ai prati erbosi dell’Asòpo,
dove gli Achei mandarono ancora Tìdeo in ambasciata.
E lui vi si recò, e vi trovò molti Cadmèi
che banchettavano nella casa del forte Etèocle.
Pur essendo straniero, il cavaliere Tìdeo
non temette, benché solo tra molti Cadmèi:
tutti a gara li provocò e tutti li vinse
agevolmente, tale gli fu Atena soccorritrice.
I Cadmèi, che spronano cavalli, si sdegnarono:
mentre tornava indietro gli tesero perfido agguato,
con ben cinquanta giovani, e c’erano due capi,
Mèone figlio di Aimon, somigliante agli immortali,
e di Autòfono il figlio, l’intrepido Polifante.

74
Anche a costoro Tìdeo assegnò una sorte infame:
tutti li uccise, e a uno solo concesse di tornare,
Mèone, che lasciò andare, obbedendo a prodigi divini.
E proprio questo era Tìdeo Etòlo. Ma suo figlio,
che ha generato, è peggiore in battaglia, migliore in consiglio”.
Disse così, ma nulla rispose il possente Diomede,
rispettando il rimprovero del re degno di riguardo.
Ma gli rispose il figlio di Capanèo glorioso:
“Figlio di Àtreo, non dire menzogne, il vero lo sai.
Noi ci vantiamo di essere assai migliori dei padri;
noi la sede di Tebe sette porte conquistammo,
portando meno uomini sotto mura ben più forti,
ligi ai segni degli dèi e ai consigli di Zeus;
essi perirono, sopraffatti dalla loro follia:
non mettere alla pari i nostri padri nella gloria”.
E, di sbieco guardandolo, replicò il possente Diomede:
“Stattene zitto, mio caro, e da’ retta a quanto ti dico:
non voglio biasimare Agamemnon, pastore di popoli,
se incita allo scontro gli Achei dalle belle gambiere.
Il vanto seguirà lui solo, se mai gli Achei
stermineranno i Troiani e la sacra Ilio prenderanno,
ma gran dolore se gli Achei saranno uccisi.
Ma suvvia, anche noi pensiamo all’assalto furioso”.
Disse così, e dal carro balzò a terra con le armi:
terribilmente al balzo suonò il bronzo sopra il petto
del sovrano. Anche un prode si sarebbe spaventato.
E come quando lungo il litorale fragoroso
l’onda del mare senza sosta si avventa, sospinta da Zefiro -
essa prima si erge al largo, ma subito dopo,
sulla terra infrangendosi, geme forte, e sugli scogli
svetta avvolgendosi in vortice, e sputa la schiuma marina -;
tali le schiere dei Dànai agitandosi muovevano,
senza fermarsi, allo scontro. E ciascuno dava ordini
dei capi. E gli altri marciavano muti. Né avresti detto

75
che in tanti, con in petto una voce, in silenzio seguissero,
i capi rispettando; e attorno a tutti brillavano
le armi variopinte, di cui rivestiti marciavano.
Ma dei Troiani - pecore di un ricco che in una stalla
stanno ammassate per farsi mungere del bianco latte,
e senza sosta belano ai vagiti degli agnelli -
per l’ampio campo l’urlo di guerra si levava.
Pari non era di tutti il grido, né una la voce,
ma lingue mescolate, erano uomini di vari paesi.
Gli uni incitava Ares, gli altri Atena dagli occhi lucenti,
e il Panico e il Terrore e la Contesa sempre bramosa,
lei che è sorella e compagna di Ares massacratore,
e che dapprima inizia che è piccola, e poi pian piano
colloca in cielo la testa, e procede sulla terra.
E anche allora gettò il conflitto uniforme nel mezzo,
andando per la mischia e accendendo il lamento degli uomini.
E quando giunsero a un unico punto, venendosi incontro,
cozzarono gli scudi, le lance, l’ardore degli uomini,
corazzati di bronzo, e gli scudi ombelicati
l’uno con l’altro si urtarono: era sorto un gran tumulto.
C’erano insieme lamenti e gridi di esultanza,
di uccisori e di uccisi, di sangue grondava la terra.
E come due torrenti che scorrono giù dai monti
e trascinano il flusso violento a confluire
dalle grandi sorgenti dentro il cavo di un burrone –
il frastuono da lungi ne avverte il pastore sui monti -,
tali di loro allo scontro nascevano urlo e pena.
Per primo Antiloco uccise un Troiano, prode guerriero,
che combatteva fra i primi, Echepòlo di Talisio.
Lo colpì sul cimiero dell’elmo chioma equina:
si infisse sulla fronte, gli trapassò l’osso di dentro
la punta bronzea, la tenebra gli ricoperse gli occhi,
e cadde come torre, nella mischia furibonda.
E, caduto, lo prese per i piedi il possente Elefènor

76
Calcodontìade, comandante dei magnanimi Abanti;
e lo traeva fuori dai dardi, bramoso al più presto
di spogliarlo delle armi. Ma fu slancio di un attimo:
vistolo che trascinava la salma, il magnanimo Agènor
lo ferì al fianco, che si era scoperto mentre lui si chinava,
lungo lo scudo, con l’asta bronzea e gli sciolse le membra.
E lo lasciò la vita così; e su di lui divampò
aspro scontro fra Troiani ed Achei; e simili a lupi,
gli uni sugli altri, uomo su uomo si avventarono.
E Aiante Telamonio colpì il figlio di Antemìon,
il giovane e fiorente Simoesio, che un dì la madre,
scesa dall’Ida, presso il Simoenta partorì:
i genitori aveva seguito per guardare le mandrie.
E perciò lo chiamarono Simoesio; ma ai genitori
non poté rendere il cambio: fu un istante la sua vita,
perché domato dall’asta di Aiante Telamonio.
Mentre avanzava lo colse nel petto alla mammella
destra, e da parte a parte la spalla traforò
l’asta di bronzo. Piombò a terra simile a pioppo
che sia cresciuto sulla piana di vasta palude,
levigato, ma sulla cima germogliano i rami;
un fabbricante di carri col ferro scintillante
lo fece a pezzi per trarne una ruota di un carro bellissimo,
e giace a terra lungo le rive di un fiume a seccare.
Tale il divino Aiante Simoesio di Antemìon
tolse di mezzo; ma Àntifo di Priamo, corazza che splende,
contro di lui nella mischia puntò con l’asta acuta.
Fallì il colpo, ma Leuco, valente compagno di Odìsseo,
colse nell’inguine, mentre traeva altrove la salma;
vi cadde sopra, e il cadavere dalle mani gli sfuggì.
Molto nel cuore Odìsseo si risentì del morto,
ed avanzò in prima fila, rivestito di bronzo splendente:
stette, facendosi sotto, e scagliò la lancia fulgida,
intorno a sé guardando; e i Troiani indietreggiarono,

77
quando scagliò; ma il tiro non fu vano, anzi raggiunse
Democoonte, figlio bastardo di Priamo: da Abìdo
era venuto, ove stavano le sue cavalle veloci.
E lo colpì con l’asta Odìsseo risentito
per il compagno, alla tempia. Dall’altra parte uscì
la punta bronzea, la tenebra gli ricoperse gli occhi.
Tonfo produsse cadendo, risuonò su di lui l’armatura.
Arretrarono le prime file e lo splendido Ettore,
forte gli Argivi gridarono, e trascinarono i cadaveri,
e avanzarono molto. Ma Pergamo guardando,
Apollo si sdegnò, e incitò, gridando, i Troiani:
“Resistete, Troiani, domatori di cavalli,
non cedete agli Argivi, non è pietra non è ferro
la loro pelle, che resista al bronzo che taglia.
E non combatte Achille, figlio di Teti bella chioma,
ma rancore doloroso cova presso le navi”.
Dalla città così disse il dio tremendo. Ma gli Achei
spronò la gloriosa di Zeus figlia, Tritogenìa,
nella mischia aggirandosi, dove li vedesse cedere.
Là incatenò la Moira Diòre figlio di Amarìnceo:
da una pietra appuntita fu colpito alla caviglia,
alla gamba destra; lo colpì il comandante dei Traci,
Piro figlio di Ímbraso, che era venuto da Eno.
Ambo i tendini e le ossa la pietra spietata
gli schiantò sino in fondo: e supino nella polvere
precipitò, ed entrambe le mani ai compagni distese
mentre spirava. E Piro, il feritore, gli fu addosso
e lo colpì all’ombelico con l’asta; tutte a terra si sparsero
le viscere, la tenebra gli ricoperse gli occhi.
Ma lo trafisse con l’asta, che arretrava, Toante l’Etòlo,
al petto, sopra la mammella, e il bronzo si infisse
nei polmoni; e accanto gli fu Toante, e l’asta greve
dal petto estrasse, poi sfoderò la spada acuta
e lo trafisse in mezzo al ventre, e gli tolse la vita.

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Ma delle armi non lo svestì, perché i compagni
lo circondarono, i Traci con le chiome a ciuffo; e brandendo
le lunghe lance, per quanto grande e gagliardo e superbo,
lo ricacciarono, e lui fu costretto a ritirarsi.
L’uno e l’altro restarono distesi nella polvere,
sia dei Traci che degli Epèi tunicati di bronzo
i comandanti. E molti intorno a loro furono uccisi.
Difetto nello scontro non avrebbe trovato, passando,
chi non colpito o non ferito da bronzo acuto
si aggirasse nel mezzo, e lo guidasse Pallade Atena,
prendendolo per mano, e sviasse la furia dei colpi:
molti fra i Troiani e fra gli Achei in quel giorno
giacquero fianco a fianco, riversi nella polvere.

79
Libro V

Pallade Atena infonde furore guerriero a Diomede figlio di Tìdeo, e, al fine di


favorirlo, trae fuori dallo scontro suo fratello Ares, che assiste i Troiani. Pandaro
punta una freccia contro Diomede, ferendolo, ma non in modo grave; che anzi
Atena lo sprona ancora di più ad attaccare i Troiani, con la raccomandazione di
astenersi dallo scontrarsi con gli dèi, eccezion fatta per Afrodite. Enea, figlio del
pastore Anchise e della dea Afrodite, nonché parente di Ettore, invita Pandaro a
salire sul suo carro, guidato dai cavalli che discendono da quelli che Zeus donò a
Troo, come risarcimento del ratto di Ganimède, suo figlio. Guidati da questi cavalli,
Enea e Pandaro muovono contro Diomede e il suo scudiero Stènelo. Ma Diomede
uccide Pandaro, quindi colpisce Enea, che accorre a difendere il cadavere, con un
enorme masso, impadronendosi dei cavalli. Afrodite, sua madre, lo soccorre,
avvolgendolo nel suo peplo e portandolo fuori dalla mischia. Ma Diomede, che si è
impadronito dei cavalli di Enea, aggredisce Afrodite, ferendola alla mano. La dea
fugge in Olimpo, dove viene consolata dal padre Zeus. Enea, miracolosamente
guarito, ritorna a combattere, mentre Diomede infuria. Atena e Hera decidono di
entrare nello scontro in modo ufficiale e solenne. Atena suggerisce a Diomede di
attaccare Ares. L’eroe colpisce con l’asta il dio, il quale lancia un urlo spaventevole;
quindi sale, ferito, all’Olimpo, allo scopo di farsi curare, nonché di lagnarsi con
Zeus, suo padre, il quale consente alla figlia prediletta di compiere ogni nefandezza.
Zeus però se la prende col figlio, ma poi lo invita a farsi curare da Pèone, il medico
degli dèi; il che accade, e Ares guarisce completamente.

Le gesta di Diomede.

80
Fu allora che al Tidìde Diomede Pallade Atena
diede vigore e forza, perché fra tutti gli Argivi
si distinguesse e nobile gloria conseguisse.
Dall’elmo e dallo scudo gli fece ardere fuoco instancabile,
rassomigliante all’astro estivo, che massimamente
splendido brilla, dopo il lavacro nelle acque di Oceano;
tale gli ardeva fuoco dalla testa e dalle spalle.
E lo sospinse nel mezzo, nel pieno della mischia.
C’era un certo Darète, facoltoso e senza macchia,
fra i Troiani, sacerdote di Efesto; aveva due figli,
Fègeo e Idèo, esperti di ogni sorta di battaglia.
Entrambi si staccarono dal gruppo e gli mossero contro.
Dal carro combattevano, lui invece a piedi, da terra.
E quando furono ormai vicini, entrambi avanzando,
Fègeo per primo scagliava la lancia lunga ombra;
al di sopra passò della spalla sinistra al Tidìde
la punta; non lo colse; per secondo si spinse col bronzo
il Tidìde, né invano partì il colpo dalla mano,
ma al petto lo colpì fra le mammelle, e giù dal carro
lo spinse. Idèo fece un balzo, lasciando il carro bellissimo,
di assistere il fratello caduto non ebbe il coraggio.
Ma neanche lui sarebbe sfuggito al nero destino:
ché Efesto lo protesse, lo salvò nella notte avvolgendolo,
perché non fosse il vecchio padre del tutto angosciato.
Staccò i cavalli il figlio di Tìdeo magnanimo,
e li affidò ai compagni da portare alle concave navi.
I Troiani magnanimi, quando i figli di Darète
videro, il primo salvo e l’altro morto accanto al carro,
tutti nel cuore si afflissero; ma Atena dagli occhi lucenti
prese per mano il violento Ares e così gli disse:
“Flagello dei mortali, sanguinario, eversore di mura,
Ares Ares, non lasceremo che Troiani ed Achei
si battano, e sia Zeus a dare gloria all’uno o all’altro?
Non ci ritireremo, evitando lo sdegno di Zeus?”

81
Disse così, e dallo scontro portò fuori il violento Ares,
poi sulle sponde lo fece sedere dell’erboso Scamandro;
i Dànai allora piegarono i Troiani, e ciascuno dei capi
uccise un uomo; e per primo il sovrano di eroi Agamemnon
sbalzò dal carro il grande Odìo, capo degli Alizòni;
a lui che s’era per primo voltato piantò l’asta nel dorso,
nel mezzo, fra le spalle, e la spinse dentro al petto.
Tonfo produsse cadendo, risuonò su di lui l’armatura.
E Idomèneo uccise Festo della Meonia,
figlio di Boro – veniva da Tarne ricca di zolle -;
Idomèneo famoso con l’asta con lunga lancia
lo colse che saliva sul carro, alla spalla destra.
Precipitò dal carro, la tenebra odiosa lo colse;
poi gli scudieri di Idomèneo lo disarmarono.
E Scamandrio figlio di Strofio, esperto di caccia,
da Menelao Atride fu ucciso con l’asta di faggio,
lui bravo cacciatore; proprio Artemide lo aveva istruito
a colpire le fiere, quante nutre sui monti la selva.
Ma non gli fu di aiuto allora Àrtemis saettatrice,
né l’arte delle frecce, nella quale prima spiccava.
Perché l’Atride Menelao famoso con l’asta
lui che cercava di sfuggirgli in mezzo alle spalle
colpì alla schiena, gli spinse l’asta dentro al petto;
cadde bocconi al suolo, risuonò su di lui l’armatura.
Merìone uccise Fèreclo, ch’era figlio di un carpentiere,
Armònide, capace di forgiare con le mani
ogni lavoro ben fatto, prediletto di Pallade Atena;
fu lui che costruì per Alessandro le navi
ben calibrate, inizio di rovina per tutti i Troiani
e per lui stesso: ignorava i decreti degli dèi.
Quando Merìone, standogli alle calcagna, lo raggiunse,
lo colpì alla natica destra. Da parte a parte
attraversò la vescica la punta, al di sotto dell’osso.
Cadde in ginocchio gemendo, e la morte lo ravvolse.

82
E Megète uccise Pedèo, di Antenore figlio,
ch’era bastardo, allevato dalla splendida Teanò,
che al pari dei suoi figli lei amò, per piacere al suo sposo.
Il Filìde famoso con l’asta gli venne vicino,
e lo colpì alla nuca della testa con l’asta acuta,
e il bronzo gli recise la lingua lungo i denti;
precipitò nella polvere, il freddo bronzo coi denti mordendo.
Eurìpilo di Evèmon colpì lo splendido Ipsènore,
figlio di Dolopìone intrepido, che dello Scamandro
era ministro e come un dio onorato dal popolo.
Eurìpilo lo colse, il nobile figlio di Evèmon,
mentre cercava di sfuggirgli, davanti alla spalla,
di slancio, con la spada, e gli recise il braccio possente:
cadde per terra il braccio sanguinante, e a lui sugli occhi
la morte rosso porpora calò e il destino spietato.
Essi così penavano nella mischia furibonda;
e non potevi capire con chi il Tidìde stesse,
se coi Troiani si accompagnasse o con gli Achei;
per la pianura imperversava come fiume in piena,
tempestoso, che rapido scorrendo infrange gli argini;
non lo trattengono gli argini che gli vengono frapposti,
né le barriere delle vigne fiorite lo fermano,
se piomba all’improvviso, quando pioggia di Zeus si riversa,
e molte belle opere di giovani travolge;
così sotto il Tidìde si scompigliavano le fitte schiere
dei Troiani, che pur numerosi non gli resistevano.
Come lo vide il figlio illustre di Licàon
per la pianura davanti a sé scompigliando infuriare,
subito l’arco ricurvo tendeva contro il Tidìde,
e lo colpì alla spalla destra mentre avanzava,
sulla corazza, alla piastra; e volò la freccia amara,
passò da parte a parte, e di sangue imbrattò la corazza.
Forte allora gridò l’illustre figlio di Licàon:
“Forza, Troiani magnanimi, esperti a spronare cavalli!

83
L’ottimo degli Achei è stato colpito, e non credo
che ancora al duro dardo resisterà, se è vero
che qui mi ha spinto il figlio sovrano di Zeus dalla Licia”.
Disse vantandosi; ma non lo uccise la freccia veloce:
anzi si ritirò davanti ai cavalli e al carro;
ristette, e si rivolse a Stènelo di Capanèo:
“Figlio di Capanèo, mio caro, su, scendi dal carro,
perché tu possa estrarmi dalla spalla il dardo amaro”.
Disse così, e Stènelo balzò giù dal carro a terra,
ed, accostatosi, il dardo veloce dalla spalla gli estrasse,
da parte a parte, e il sangue sprizzò fuori dalla veste.
E pregava Diomede possente nel grido di guerra:
“Odimi, figlia di Zeus che porta l’ègida, l’Infaticabile:
se mai a me e a mio padre fosti accanto con cuore benevolo
nella battaglia crudele, anche adesso assistimi, Atena.
Dammi di uccidere l’uomo, e che giunga a portata di lancia,
che mi ha colpito per primo, e si vanta, e va dicendo
che non a lungo vedrò la splendida luce del sole”.
Disse così pregando; e lo udì Pallade Atena,
e agili rese le membra e le gambe e le braccia, di sopra;
e standogli vicino, alate parole diceva:
“Ora coraggio, Diomede, a batterti coi Troiani!
Intrepido vigore nel petto ti ho gettato,
quello che fu di Tìdeo, scudato cavaliere;
e la caligine ti ho tolto dagli occhi, che prima c’era,
perché tu bene riconosca un dio e un uomo.
Ora se un dio qui venisse per metterti alla prova,
non accettare lo scontro a tu per tu con gli dèi,
con tutti gli altri; però se la figlia di Zeus Afrodite
scende allo scontro, colpiscila pure col bronzo acuto”.
Disse, e se ne andò via Atena dagli occhi lucenti,
e il Tidìde si mosse ed entrò nella mischia fra i primi,
ch’era già prima bramoso di scontrarsi coi Troiani.
Ma ora vigore lo prese tre volte tanto, come leone

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che il pastore, stando accanto al gregge lanoso,
mentre balza nel chiuso ha ferito, senza ucciderlo;
ne ha eccitato la forza, ma poi non lo contrasta,
e negli ovili si appiatta, e le pecore tremano sole,
e l’una accanto all’altra si accalcano spaurite,
ma lui pieno di brama balza fuori dall’alto recinto;
con pari brama il possente Diomede balzò sui Troiani.
E uccise Astìnoo, e uccise Ipèirone pastore di popoli,
l’uno colpendolo sopra la mammella con l’asta di bronzo;
l’altro con grande spada alla clavicola, accanto alla spalla,
lo colse, e gli staccò la spalla dal collo e dal dorso.
Là li lasciò, e inseguiva Abante e Poliìdo,
di Euridamante, il vecchio interprete di sogni;
ma quando stavano per partire, il vecchio i sogni
non decifrò: Diomede possente li tolse di mezzo.
Poi si avventò su Xanto e su Toòne, figli di Fènope,
ambo amatissimi; si consumava di triste vecchiaia,
né aveva generato altri figli, cui i beni lasciare.
Ma Diomede li uccise, e strappò la cara vita
a entrambi e lasciò al padre lamento e angosce amare:
non poté accoglierli di ritorno dalla guerra
vivi; i parenti si divisero le sue ricchezze.
Quindi ammazzò due figli di Priamo Dardànide,
che sullo stesso carro andavano, Echèmone e Cromio.
Come un leone irrompe su una mandria di buoi, e spezza il collo
a una vitella o a una vacca, che pascolano nella foresta;
in pari modo il figlio di Tìdeo entrambi dal carro
fece nolenti cadere in malo modo, e li spogliò delle armi,
ed affidava i cavalli, da portare alle navi, ai compagni.
Lo vide Enea sconvolgere le schiere dei guerrieri,
e si avviò alla battaglia e al tumulto delle lance,
alla ricerca di Pandaro pari a un dio, se lo trovasse.
E trovò il figlio possente e senza macchia di Licàon,
e standogli davanti, gli proferì queste parole:

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“Pandaro, dov’è l’arco, dove sono le frecce alate,
e la tua gloria? Nessuno con te può gareggiare,
nessuno in Licia si vanta di essere di te migliore.
Contro costui, su, scaglia una freccia, a Zeus tendi le mani!
Lui incontrastato domina e ha già fatto molto male
ai Troiani, e a molti e valenti ha sciolto i ginocchi.
Tranne che un dio non sia, sdegnato coi Troiani
per qualche sacrificio: di un dio gravosa è la collera”.
E così gli rispose l’illustre figlio di Licàon:
“Dei Troiani tunicati di bronzo Enea consigliere,
lo rassomiglio in tutto al figlio di Tìdeo gagliardo,
riconoscendo lo scudo e l’elmo con la visiera
e osservando i cavalli, ma non so con certezza se è un dio.
Se è l’uomo che ti dico, il figlio gagliardo di Tìdeo,
non senza un dio imperversa così, ma accanto a lui
sta un immortale, avvolto alle spalle da una nube,
che la veloce freccia destinata a colpirlo ha deviato.
Io un dardo gli ho scagliato e l’ho colpito alla spalla
destra, passando attraverso la piastra della corazza,
e supponevo di averlo gettato giù nell’Ade,
tuttavia non l’ho ucciso, deve essere un dio corrucciato.
Non ho cavalli e carro, sopra cui poter salire;
ma in casa di Licàon ci sono undici carri,
belli, nuovissimi, appena montati, e intorno drappi
stanno distesi, e accanto a ognuno due cavalli
stanno aggiogati, nutriti di candido orzo e di spelta.
E molto per davvero il vecchio Licàon guerriero
mentre partivo mi raccomandava nella splendida casa:
mi suggeriva che montato su carro e cavalli
i Troiani comandassi nelle mischie supreme;
ma io non lo ascoltai – e sarebbe stato assai meglio -,
per risparmiare i cavalli, che il foraggio non mancasse
tra uomini assediati, loro avvezzi a molto cibo.
E così li lasciai, e venni ad Ilio come fante,

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forte delle mie frecce, che non mi avrebbero giovato.
Già contro due fra i massimi capi le ho lanciate,
il Tidìde e il figlio di Àtreo, e da ambedue
ho fatto scorrere sangue colpendo, ma li ho solo eccitati.
Con triste auspicio dal chiodo staccai l’arco ricurvo
il dì che giunsi ad Ilio amabile, per fare da guida
ai Troiani, facendo cosa grata ad Ettore splendido.
Se riuscirò a tornare e rivedrò con questi occhi
la mia patria, mia moglie e la casa dall’alto soffitto,
uno straniero mi stacchi pure la testa in un colpo,
se dentro al fuoco splendente non getto questo mio arco,
con queste mani spezzandolo: peso inutile mi segue”.
E gli rispose Enea, comandante dei Troiani:
“Non mi parlare così; non potrà essere altrimenti,
prima che entrambi col carro e coi cavalli non marciamo
contro costui, non lo affrontiamo con le armi.
Ma sali sul mio carro, suvvia, perché tu veda
quanto valgono i cavalli di Troo, che sanno inseguire
di qua e di là e fuggire veloci per la piana;
e sani e salvi in città ci riporteranno, se è vero
che Zeus al figlio di Tìdeo Diomede darà gloria.
Prendi adesso la frusta e le briglie risplendenti;
io scenderò dal carro per combattere; altrimenti
pensaci tu ad affrontarlo, io penserò ai cavalli”.
E gli rispose il figlio illustre di Licàon:
“Prendile tu le briglie, Enea, e i due cavalli;
meglio il carro ricurvo con l’auriga cui sono avvezzi
porteranno, se fuggiremo dal figlio di Tìdeo;
che per paura non si attardassero o si rifiutassero
di sottrarci allo scontro, per nostalgia della tua voce,
e il Tidìde magnanimo ci assalisse, ci uccidesse,
e ci portasse via i cavalli solidi zoccoli.
Tu stesso invece spingi il tuo carro e i tuoi cavalli,
io affronterò costui che avanza con l’asta acuta”.

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Disse così, e saliti sul carro variopinto,
contro il Tidìde, bramosi, i cavalli veloci spronarono.
Li vide Stènelo, di Capanèo l’illustre figlio,
e subito al Tidìde alate parole diceva:
“Figlio di Tìdeo, Diomede, che sei gradito al mio cuore,
vedo due uomini forti, impazienti di affrontarti,
pieni di immensa forza; il primo è esperto con l’arco,
Pandaro, che si vanta di esser figlio di Licàon;
il secondo è Enea, che da Anchise irreprensibile
mena vanto di essere nato, e Afrodite è sua madre.
Ma ritiriamoci sui cavalli, e tu finiscila
di imperversare coi primi, che tu non perda il caro cuore”.
E a lui, di sbieco guardandolo, rispose il possente Diomede:
“Di fuga non parlarmi, non mi persuaderai.
Non mi consente la nascita di combattere arretrando,
né di appiattarmi, ben saldo resta ancora il mio vigore;
io mi rifiuto di salire sul carro, ma così come sono
li affronterò: di temere non mi consente Pallade Atena.
Entrambi indietro non li porteranno i veloci cavalli,
lungi da noi, se pure uno solo ci sfuggirà.
Ma ti dirò altra cosa, e tu imprimila nella tua mente:
se Atena molto accorta mi concederà la gloria
di toglierli di mezzo tutti e due, i veloci cavalli
trattienili, legando le redini al bordo del carro,
e ricordandoti di balzare sui cavalli di Enea,
dai Troiani agli Achei dalle belle gambiere spingendoli.
Alla razza appartengono che a Troo Zeus voce possente
diede in risarcimento per il figlio Ganimède,
i migliori fra quanti stanno sotto l’aurora e il sole;
e ne rubò la razza il sovrano di eroi Anchise,
di nascosto da Laomedonte facendo montare
le sue cavalle. Sei puledri ne nacquero in casa,
quattro lui stesso per sé ne tenne, alla greppia allevandoli;
gli altri due li diede ad Enea, datori di panico.

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E se li prenderemo, ne avremo bella gloria”.
Parlavano così tra di loro, l’un l’altro alternandosi;
e giunsero quei due, spingendo i cavalli veloci;
e per primo parlò l’illustre figlio di Licàon:
“Cuore possente, prode, del nobile Tìdeo figlio,
dunque la freccia veloce non ti uccise, il dardo amaro!
Ora di nuovo con l’asta tenterò, se ci riesco”.
Disse, e scagliò, palleggiando, la lancia lunga ombra,
e lo scudo colpì del Tidìde; da parte a parte
lo traforò volando la bronzea punta e sfiorò la corazza.
E forte lanciò un urlo l’illustre figlio di Licàon:
“Nel ventre sei trafitto, da parte a parte; ed io non credo
che a lungo reggerai; mi hai dato un grande vanto”.
E a lui, senza turbarsi, rispose il possente Diomede:
“Mi hai mancato, non mi hai colpito; ed io non credo
che ne uscirete, prima che uno di noi non cada,
del proprio sangue Ares, munito di scudo, saziando”.
Disse così, e scagliò; e diresse Atena il tiro,
al naso, accanto all’occhio, e i bianchi denti penetrò.
E gli tagliò la lingua di netto il bronzo spietato,
e la punta gli rispuntò alla base del mento;
precipitò dal carro, risuonò su di lui l’armatura,
ornata, risplendente, si impennarono i cavalli
piedi veloci, e a lui si sciolsero vita e vigore.
Enea balzò dal carro con lo scudo e la lunga lancia,
temendo che gli Achei gli strappassero il cadavere.
Gli andava intorno simile a un leone baldanzoso,
dinanzi a sé tenendo la lancia e lo scudo rotondo,
e pronto ad ammazzare chi gli si ponesse dinanzi,
terribilmente gridando; ma afferrò con la mano un macigno
grande il Tidìde, che non porterebbero due uomini
di adesso. Lui, da solo, facilmente lo palleggiava.
E con esso all’anca colpì Enea, dove la coscia
con l’anca si congiunge, e lo chiamano “cotìle”;

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e gli ruppe il cotìle e gli spezzò due tendini,
e scorticò la pelle l’ispida punta; allora l’eroe
cadde per terra in ginocchio, e si appoggiò con la mano robusta
al suolo; nera notte entrambi gli occhi gli ravvolse.
E qui sarebbe morto Enea sovrano di eroi,
se Afrodite, la figlia di Zeus, non lo avesse notato,
sua madre, che al bovaro Anchise lo partorì.
Le braccia candide cinse attorno al caro figlio,
lo ravvolse in un lembo del peplo risplendente,
schermo dai colpi: nessuno dei Dànai veloci puledri,
colpendolo nel petto col bronzo, gli strappasse la vita.
Così portò suo figlio lontano dallo scontro.
Allora Stènelo di Capanèo non si scordò
degli ordini di Diomede, possente nel grido di guerra:
gli tenne i suoi cavalli duri zoccoli lontani
dalla mischia, legando le redini al bordo del carro,
e sui cavalli bella criniera di Enea si slanciò,
dai Troiani agli Achei dalle belle gambiere li spinse,
li consegnò a Deìpilo, il caro compagno, onorato
di più fra i suoi coetanei – con lui c'era accordo perfetto-,
perché alle concave navi li spingesse; lui stesso, l'eroe,
sul suo carro balzò, e, afferrate le splendide redini,
subito al figlio di Tìdeo, i cavalli duri zoccoli
lanciando, stava appresso. Lui incalzava col bronzo spietato
Cìpride, la sapeva una dea senza forza, non una
delle dee che sovrintendono alla guerra degli uomini,
quali ad esempio Atena o Eniò che distrugge le rocche.
Ma, non appena raggiunta, incalzandola nella mischia,
in avanti spingendosi il figlio di Tìdeo magnanimo,
la ferì con la lancia affilata all'estremo del braccio
tenero; l'arma penetrò nella pelle attraverso
l’ambrosio peplo, intessuto dalle mani delle Càriti,
sopra il polso, e della dea sgorgò il sangue immortale,
che nelle vene scorre degli dèi beati, l’icòr.

90
Essi non mangiano pane, non bevono vino fulgente,
perciò non hanno sangue e sono chiamati immortali.
Molto gridando la dea lasciò cadere il figlio;
nelle sue braccia lo accolse Febo Apollo in nube oscura,
che nessuno dei Dànai veloci puledri potesse,
il bronzo acuto piantandogli nel petto, strappargli la vita.
Forte le urlò Diomede, possente nel grido di guerra:
"Abbandona, o figlia di Zeus, la guerra e la mischia;
o forse non ti basta sedurre le fragili donne?
Se tornerai di nuovo nella guerra, io credo davvero
che ne rabbrividirai, anche vista da lontano".
Disse, e sconvolta la dea se ne andò, orrendamente soffrendo.
Iris dai piedi di vento la prese e dalla mischia
la portò via dolente, la bella pelle si anneriva.
Dalla sinistra parte dello scontro trovò Ares seduto,
sopra una nube adagiati la lancia e i veloci cavalli.
E, caduta in ginocchio davanti a suo fratello,
chiese con molte suppliche i cavalli dagli aurei frontali:
"Caro fratello, aiutami, consegnami i cavalli,
che possa andare in Olimpo, dove stanno gli immortali.
Soffro tantissimo per la ferita che mi ha inferto un mortale,
il Tidìde, che affronterebbe il padre Zeus."
Disse, ed Ares le diede i cavalli dagli aurei frontali.
Lei allora salì sul carro, molto afflitta nel cuore,
Iris accanto salì e afferrò con le mani le redini,
i cavalli frustò che partissero, ed essi volarono.
Tosto alla sede giunsero degli dèi, l'Olimpo scosceso:
là Iris rapida, dai piedi di vento, fermò i cavalli,
li disciolse dal carro e diede loro il cibo divino.
Cadde Afrodite splendida ai piedi della madre,
Diòne, che sua figlia accolse fra le braccia,
e con la mano la accarezzò, le parlò e così disse:
"Chi degli dèi, creatura, ti ha fatto questo torto,
quasi tu avessi commesso davanti a tutti un male?"

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E, di rimando, le disse Afrodite che ama il sorriso:
"Mi ha colpito il figlio di Tìdeo, l'audace Diomede,
proprio perché ho sottratto mio figlio dallo scontro,
Enea, che fra i miei figli mi è di gran lunga il più caro.
L’orrida mischia non si limita più ad Achei e Troiani,
ma i Dànai ormai combattono persino con gli immortali."
E, di rimando, Diòne le disse, splendida dea:
"Fatti coraggio, creatura, sopporta, per quanto angosciata.
Già in molti sopportammo, noi che abitiamo l'Olimpo,
dagli uomini, infliggendoci gli uni agli altri atroci dolori.
Ares per primo, e fu quando i figli di Aloèo,
Oto e il possnte Efialte, lo legarono in dure catene,
e in una giara di bronzo restò avvinto per tredici mesi.
E così Ares mai sazio di guerra vi sarebbe perito,
se la loro matrigna, la bellissima Eribèa,
non l'avesse svelato a Ermès, che lo sottrasse
oramai allo stremo, sfinito da dura catena.
E sopportò anche Hera così, quando il figlio possente
di Amfitrìon la ferì alla mammella destra con dardo
a tre punte, e atroce dolore allora la colse.
E sopportò pure Ade immane una freccia veloce,
quando lo stesso uomo, figlio di Zeus che porta l'ègida,
trafiggendolo a Pilo fra i morti, lo diede al dolore.
Alla dimora di Zeus salì, sul vasto Olimpo,
col cuore affranto, trafitto dagli spasimi, la freccia,
dentro la spalla robusta piantata, gli dava tormento.
Pèone, applicando farmaci che placano il dolore,
lo risanò, perché non era nato mortale.
Perfido, sopraffattore, non temeva male azioni,
con le sue frecce affliggeva gli dèi, abitatori d'Olimpo!
Ma costui Atena occhi lucenti te lo ha aizzato,
stolto, ancora non sa nel suo cuore il figlio di Tìdeo
che a lungo non vivrà chi combatte con gli immortali,
né sulle sue ginocchia lo chiameranno papà,

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reduce dalla guerra e dalla mischia furibonda.
Dunque il figlio di Tìdeo, per quanto sia fortissimo,
badi che uno più forte di te non lo affronti in battaglia.
Sarà allora che Egialèa, saggia figlia di Adrasto,
sveglierà col pianto i domestici dal sonno,
rimpiangendo lo sposo, il migliore degli Achei,
lei sposa di Diomede, domatore di cavalli".
Disse così, e con entrambe le mani l'icòr detergeva,
e guariva il polso, si attenuava l'acuto dolore.
Stavano tutte e due ad assistere, Hera ed Atena,
e con parole insinuanti provocavano il figlio di Crono.
Incominciò a parlare Atena dagli occhi lucenti:
"Padre Zeus, te la prendi con me, se ti dico una cosa?
Certo Cìpride deve avere spinto una donna achea
a seguire i Troiani, che ora ama terribilmente,
e, carezzando appunto una di queste dal bel peplo,
è riuscita a pungersi con spilla d’oro il polso sottile."
Disse così, e sorrise il padre di uomini e dèi,
e, chiamata Afrodite d'oro, così le parlò:
“ Creatura mia, non spettano a te le azioni di guerra;
datti invece da fare per gli amabili riti di nozze;
lascia che se ne occupino Ares violento e Atena."
Parlavano così tra di loro, l’un l’altro alternandosi,
e contro Enea Diomede possente nel grido di guerra
si mosse, conscio che Apollo su di lui le mani stendeva;
ma il grande dio non rispettava, ma sempre di uccidere
Enea bramava e di strappargli le armi famose.
Tre volte lo assalì, impaziente di ammazzarlo,
tre volte Apollo gli colpì lo scudo splendente;
ma quando lo assalì per la quarta come un demone,
lanciando urlo tremendo, gli disse Apollo arciere:
“Figlio di Tìdeo, rifletti e indietreggia, e non pretendere
di pensare come gli dèi; perché non è eguale
degli immortali la stirpe e degli uomini che calcano il suolo”.

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Disse così, e il Tidìde si ritrasse un poco indietro,
evitando l’ira di Apollo che scaglia da lungi.
E Apollo portò Enea lontano dallo scontro,
lo pose a Pergamo sacra, là dove sorge un suo tempio.
E proprio là Letò e Artemide saettatrice
nel grande penetrale lo curarono, lo onorarono,
e un simulacro Apollo arco d’argento modellò,
simile a Enea, tale e quale, e simile alle armi,
e attorno al simulacro i Troiani e gli splendidi Achei
si frantumavano gli uni sugli altri sui petti gli scudi,
scudi rotondi irsuti, e muniti di pelle leggera.
E Febo Apollo così si rivolse ad Ares violento:
“Flagello dei mortali, sanguinario, eversore di mura,
Ares Ares, non allontani dallo scontro quell’uomo,
il Tidìde, che adesso affronterebbe persino Zeus padre?
Cipride prima da presso ha ferito alla mano, ad un polso,
poi si è scagliato persino contro me, sembrando un demone”.
Disse, e lui stesso si pose a sedere sulla rocca di Pergamo,
e le troiane schiere incitava Ares funesto,
Acamante sembrando, il capo violento dei Traci,
ed esortava i figli di Priamo, nutriti da Zeus:
“O voi di Priamo figli, sovrano nutrito da Zeus,
sino a quando agli Achei lascerete di uccidere gli uomini?
Sino a quando non combatteranno alle porte ben fatte?
Giace a terra colui che alla pari di Ettore splendido
noi tenevamo in pregio, il figlio di Anchise magnanimo.
Ma suvvia, dalla mischia salviamo il valente compagno”.
Disse così, e destò in ognuno furore e ardimento.
E Sarpèdone molto redarguiva lo splendido Ettore:
“Ettore, dove è fuggito il tuo vigore, che prima avevi?
Che la città senza uomini e alleati avresti difeso
affermavi, da solo, coi fratelli e coi cognati.
Ma non riesco di loro nessuno a vedere né a scorgere;
stanno appiattati simili a cani attorno a un leone.

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Siamo noi soli a combattere, noi che siamo gli alleati.
Ed anch’io che sono alleato giungo assai da lontano,
perché lontana è la Licia, lungo il vorticoso Xanto,
dove lasciai la moglie e un figlio ancora piccino,
e poi molte ricchezze, che bramerebbe un bisognoso.
Anche così incoraggio i Lici, e anch’io mi propongo
di scontrarmi con qualcuno, pur non possedendo
nulla di quanto potrebbero gli Achei depredare e portarsi.
Tu invece non ti muovi, né impartisci ordini agli altri
di resistere e di difendere le proprie spose.
Che non accada che presi nelle maglie di rete fittissima,
preda e bottino diveniate dei vostri nemici:
presto la vostra città ben abitata abbatteranno.
Devi di tutto questo avere cura, notte e giorno,
i capi eletti degli alleati supplicando
di resistere sempre e di deporre il biasimo odioso”.
Disse Sarpèdone, e morse il discorso il cuore di Ettore.
Subito balzò a terra dal carro con le armi,
e palleggiando le aste acute, il campo esplorava,
e incitava a combattere e destava la zuffa tremenda.
I Troiani si volsero e affrontarono gli Achei,
ma gli Argivi compatti resistettero, non fuggirono.
E come il vento sulle aie sacre solleva la pula,
quando gli uomini vagliano il grano, e la bionda Demètra
sotto la spinta dei venti separa grano e pula,
che biancheggia ammassata in un mucchio; così gli Achei
erano bianchi, cosparsi di polvere, che in mezzo a loro
spargevano gli zoccoli dei cavalli al cielo di bronzo,
subito, al primo scontro, e gli aurighi guidavano i carri.
Dritto il vigore portavano delle braccia, e intorno sparse
Ares violento la notte, per soccorrere i Troiani,
andando da ogni parte; e metteva in atto gli ordini
di Febo Apollo spada d’oro: lo aveva pregato
di infondere coraggio nei Troiani, appena vide

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Pallade Atena andarsene, che soccorreva i Dànai.
Lui stesso trasse Enea dal penetrale opulento
e nel petto infuse vigore al pastore di popoli.
Fra i suoi compagni Enea fu di nuovo, ed essi gioirono,
come lo videro vivo e illeso e pieno di ardore;
ma nulla chiesero, la nuova fatica non lo consentiva,
che il dio dall’arco d’argento ed Ares sterminatore
ridestavano e la Contesa, che è sempre bramosa.
I due Aianti, allora, e Odìsseo e Diomede
incitavano i Dànai a combattere, ma già da se stessi
né dei Troiani la forza temevano né gli assalti,
ma resistevano, simili alle nubi che il figlio di Crono
colloca quando è bonaccia sulle eccelse cime dei monti,
e stanno immobili, sino a quando la furia di Bòrea
dorme e degli altri venti violenti, che le nuvole ombrose
disperdono spirando con i soffi sibilanti.
Così a piè fermo i Dànai aspettavano e non fuggivano.
Ed esplorava le schiere l’Atride, molto esortando:
“Siate uomini, amici, fate forte il vostro cuore,
e ritegno abbiate reciproco nelle mischie supreme;
se si ha ha ritegno, sono più i salvi che gli uccisi.
Ma se si fugge, né gloria rimane, né coraggio”.
Disse, e con forza la lancia scagliò, e colpì un guerriero
fra i primi, Deicoonte, compagno di Enea magnanimo,
Pergàside, onorato dai Troiani come i figli
di Priamo, perché pronto a scontrarsi in prima fila.
Con l’asta nello scudo lo colpì il possente Agamemnon;
e non fermò lo scudo la lancia, che passò parte a parte
e al basso ventre si spinse attraverso la cintura.
Tonfo produsse cadendo, risuonò su di lui l’armatura.
A sua volta allora Enea primi eroi fra i Dànai
tolse di mezzo, i due figli di Dìocle, Cretóne e Orsìloco;
il loro padre abitava a Fere ben costruita,
lui facoltoso, che discendeva per stirpe da un fiume,

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l’Alfèo, che scorre per la spaziosa contrada di Pilo,
e mise al mondo Ortìloco, che di molti era sovrano.
E Ortìloco a sua volta mise al mondo il magnanimo Dìocle,
e nacquero da Dìocle due figli, due gemelli,
Cretóne e Orsìloco, esperti di ogni sorta di battaglia.
Giunti poi alla giovinezza, sulle nere navi
seguirono gli Argivi per Ilio bei puledri,
per procurare onore ai figli di Àtreo Agamemnon
e Menelao; ma il termine di morte li ravvolse.
Simili a due leoni, che sulle cime di monti,
nutriti dalla madre nel folto della fitta foresta,
fanno razzia di buoi e di mandrie ben pasciute,
e devastano stalle di uomini, sino a che anche loro
vengono uccisi dal bronzo acuto per mano degli uomini;
in modo simile dalle mani di Enea domati
caddero entrambi, somigliando a eccelsi abeti.
E Menelao caro ad Ares, caduti, li compianse,
ed avanzò in prima fila, rivestito di bronzo splendente,
l’asta scuotendo; Ares gli suscitava il vigore,
meditando che fosse domato dalle mani di Enea.
Lo vide Antìloco, il figlio di Nestore magnanimo,
ed avanzò fra i primi: per il pastore di popoli
molto temeva che gli accadesse qualcosa, la loro fatica
rendesse vana. Stendendo le mani e le lance di faggio,
l’un contro l’altro muovevano, bramosi di scontro;
e si mise Antìloco accanto al pastore di popoli.
E si ritrasse Enea, pur essendo eroe gagliardo,
come vide i due uomini stare l’uno accanto all’altro.
Essi i cadaveri trassero tra le schiere degli Achei,
ed affidarono nelle mani dei compagni i due miseri,
poi si voltarono a battersi nello scontro in prima fila.
Colpirono Pilèmone, guerriero pari ad Ares,
dei Paflàgoni capo, magnanimi guerrieri.
E l’Atride Menelao famoso con l’asta

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lo trafisse che stava fermo, alla clavicola;
Antìloco colpì Midone, auriga e scudiero,
il forte figlio di Atimnio – i cavalli duri zoccoli
rivoltava -, con una pietra colpendolo al gomito;
le bianche briglie di avorio nella polvere gli caddero
dalle mani; di slancio lo colpì con la spada alla tempia.
Precipitò dal carro ben fatto rantolando
a testa in giù nella polvere, sulla testa e sulle spalle;
e stette a lungo – aveva trovato la sabbia profonda-;
sinché i cavalli, urtandolo, lo gettarono nella polvere.
Poi li frustò e li spinse nel campo acheo Antìloco.
Ettore li notò tra le file, e li assalì
gridando; lo seguirono le schiere dei Troiani,
forti, guidate da Ares e da Eniò sovrana,
l’una portando il Tumulto spudorato della mischia,
e Ares nella mano brandiva l’asta smisurata,
e ora davanti ad Ettore procedeva, ora di dietro.
Rabbrividì Diomede possente nel grido di guerra,
vistolo, al pari di un uomo che procede per vasta pianura,
e che si ferma impotente sulle rive di un fiume in piena,
che scorre al mare, vedendolo fremente di spuma, ed arretra;
tale il Tidìde allora retrocesse, e disse all’esercito:
“Cari, davvero lo splendido Ettore ammiravamo
per essere guerriero e intrepido combattente,
ma sempre accanto a lui c’è un dio, che gli storna rovina;
Ares adesso lo assiste, che è simile a un mortale.
Pertanto un po’ alla volta, guardando in faccia i Troiani,
cedete, non pensate di opporvi con forza agli dèi”.
Disse, ma ormai i Troiani erano giunti assai vicino.
Ettore allora uccise due guerrieri esperti di scontro,
che insieme stavano in un solo carro, Meneste ed Anchìalo.
E Aiante Telamonio, caduti, li compianse;
si mise accanto a loro e scagliò la lancia splendente,
e colpì Amfio, figlio di Sèlago, il quale a Peso

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stava, ricchissimo di grano e di beni; ma il destino
lo condusse alleato di Priamo e dei suoi figli.
Lo colse alla cintura Aiante Telamonio,
e al basso ventre si infisse la lancia lunga ombra.
Tonfo produsse cadendo, e a lui corse lo splendido Aiante
a togliergli le armi, ma i Troiani le lance scagliarono
lucide e acute; e lo scudo ne riceveva molte.
Ma premendogli il petto col piede, l’asta bronzea
tirò dal morto, ma non riuscì le altre belle armi
a strappargli dalle spalle, pressato dai colpi.
L’estremo accerchiamento degli illustri Troiani temette,
che molti e valorosi con le lance lo premevano,
e nonostante lui fosse grande possente superbo,
lo ricacciarono lungi da loro, e così fu respinto.
Essi così penavano nella mischia furibonda.
Il prode e grande Tlepòlemo, figlio di Eracle, fu spinto
contro Sarpèdone pari a un dio dalla Moira funesta.
E quando furono ormai vicini, entramnbi avanzando,
il figlio ed il nipote di Zeus che aduna le nubi,
primo Tlepòlemo gli si rivolse, e così disse:
“Sarpèdone, dei Lici consigliere, che ti spinge
ad appiattarti qua, ignaro come sei di guerra?
Falsamente di Zeus, che porta l’ègida, ti dicono
figlio, perché di molto sei inferiore a tutti quelli
che nacquero da Zeus presso gli uomini di un tempo;
ma quanta invece dicono che fu la forza di quell’Eracle
che fu mio padre, ardimentoso e cuor di leone!
Lui che una volta qui giunse per i cavalli di Laomedonte
soltanto con sei navi e con pochissimi uomini,
e la città di Ilio distrusse e svuotò le sue strade.
Ma tu possiedi un cuore vile, i tuoi uomini muoiono.
Io non ti credo giunto per difendere i Troiani,
venuto dalla Licia, anche se sei molto forte,
ma per passare, da me domato, le porte dell’Ade”.

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E così gli rispose Sarpèdone, capo dei Lici:
“Tlepòlemo, è pur vero che lui distrusse Ilio sacra,
per la follia di un uomo, il sovrano Laomedonte,
che ricoprì di insulti il suo benefattore,
gli rifiutò i cavalli, per i quali era giunto da lungi.
Ma io ti dico che proprio qui morte e nero destino
per te sarà quest’oggi, e dalla mia mano domato,
mi darai gloria, e l’anima all’Ade famosi puledri”.
Disse così Sarpèdone, e brandì l’asta di frassino
Tlepòlemo, ed insieme le due lance dalla mano
partirono, e Sarpèdone nel mezzo del collo lo colse,
e trapassò la punta dolorosa da parte a parte.
E notte tenebrosa i suoi occhi gli ravvolse.
Ma la coscia sinistra Tlepòlemo aveva colpito
con l’asta lunga, e la punta bramosa si spinse piantandosi
sin dentro l’osso; il padre gli stornò per adesso la fine.
Gli splendidi compagni Sarpèdone pari a un dio
via dallo scontro portarono, gli pesava l’asta lunga
per terra strascicata, ma nessuno pensò né provvide
a estrarre l’asta di frassino dalla coscia, perché stesse
in piedi; si affrettavano, tale fatica li assillava.
Dall’altra parte Tlepòlemo gli Achei dalle belle gambiere
fuori dal campo portavano; e se ne accorse lo splendido Odìsseo,
cuore paziente, e dentro al petto si accese di rabbia;
e subito ondeggiò nell’animo e nel cuore
se prima il figlio di Zeus forte tuono dovesse inseguire,
o togliere la vita a un maggior numero di Lici.
Ma non era destinato che Odìsseo magnanimo
uccidesse col bronzo acuto il figlio di Zeus.
E pertanto al gruppo dei Lici Atena lo volse.
Cèrano allora uccise e Alàstore e Cromio,
Alcandro e Alio uccise e ancora Noèmon e Prìtani;
ed uccideva ancora più Lici lo splendido Odìsseo,
se non lo avesse visto il grande Ettore elmo che splende;

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ed avanzò in prima fila, rivestito di bronzo splendente,
incutendo ai Dànai terrore; e gioì Sarpèdone,
figlio di Zeus, del suo arrivo, e gli parlò angosciato:
“Figlio di Priamo, non mi lasciare in balìa dei Dànai;
difendimi, e la vita mi abbandoni pure in seguito
dentro la vostra città, dal momento che non dovevo
ritornarmene a casa nella cara terra patria,
a rallegrare la mia cara moglie e il mio bambino”.
Disse, ma non gli rispose Ettore elmo che splende,
ma lo scansò con un balzo, desiderando al più presto
di ricacciare gli Argivi e di ucciderne quanti potesse.
Gli splendidi compagni Sarpèdone pari a un dio
sotto la quercia bellissima di Zeus che porta l’ègida
deposero, e gli estrasse dalla coscia la lancia di frassino
il gagliardo Pelagonte, il suo caro compagno.
Lo abbandonò il respiro, gli avvolse gli occhi la tenebra;
ma poi riprese fiato, e il soffio di Bòrea spirando
restituiva la vita al suo cuore che ansimava.
Sotto la spinta di Ares e di Ettore armato di bronzo,
né fuggivano in rotta alle nere navi gli Argivi,
né mantenevano le posizioni, ma sempre cedevano,
come si accorsero che c’era Ares fra i Troiani.
Ma chi per primo chi per ultimo ammazzarono
Ettore figlio di Priamo e il bronzeo Ares? Teutrante
simile a un dio, e Oreste, esperto cavaliere,
e Treco, che era un guerriero etòlo, e poi Enòmao,
Èleno figlio di Ènope, e Oresbio splendida fascia,
che stava ad Ile, prendendosi cura dei suoi beni,
sulla riva del lago Cefìside, e accanto a lui
gli altri Beòti abitavano, che avevano terra feconda.
E non appena li vide la dea braccia candide Hera
che ammazzavano gli Argivi nella mischia suprema,
per prima cosa ad Atena alate parole diceva:
“Ahimè creatura di Zeus che porta l’ègida, l’Infaticabile,

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vuota promessa davvero facemmo a Menelao,
che ritornato sarebbe, distrutta Ilio belle mura,
se lasceremo il violento Ares a tal punto impazzare.
Suvvia, anche noi pensiamo adesso all’ardente vigore!”
Disse, e le diede ascolto la dea Atena dagli occhi lucenti.
E se ne andò a preparare i cavalli dagli aurei frontali
Hera, la dea pregiatissima, del grande Crono progenie.
Ebe con zelo al carro applicò le ruote ricurve,
bronzee, con otto raggi, intorno all’asse di ferro;
e d’oro indistruttibile è il cerchio, e poi di sopra
bronzei cerchioni sono connessi, stupendo a vedersi;
mozzi d’argento vi sono rotondi da ambo le parti;
poi di tiranti d’oro e d’argento la cassa è distesa,
e doppia una ringhiera vi corre tutt’intorno.
Spicca del carro il timone d’argento, e sulla cima
Ebe legò il giogo bello, dorato, e vi applicò
i bei collari d’oro, e spinse Hera sotto il giogo
i celeri cavalli, smaniosa di lotta e di scontro.
Frattanto Atena, la figlia di Zeus che porta l’ègida,
disvestì il bel peplo nella casa di suo padre,
variopinto, che aveva di sua mano lavorato,
e la veste indossò di Zeus che aduna le nubi,
e rivestì le armi per la guerra lacrimosa;
l’ègida poi si gettò sulle spalle munita di frange,
tremenda, cui da tutte le parti fanno corona
il Panico, la Contesa, il Coraggio, l’agghiacciante
Inseguimento, e la testa del mostro feroce, Gorgò,
terrificante, prodigio di Zeus che porta l’ègida.
L’elmo con due cimieri e quattro creste sulla testa
si mise, d’oro, adatto a guerrieri di cento città.
Poi montò sul carro fiammeggiante, e afferrò la lancia
grande pesante massiccia. Doma con essa schiere di eroi,
quando è adirata con loro, la figlia di padre possente.
Hera toccò prontamente i cavalli con la frusta;

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da sé gemettero le porte del cielo, dalle Ore
guidate, cui è affidato il vasto cielo e l’Olimpo,
se sollevare o concentrare la fitta nebbia;
passarono per esse i cavalli pungolati.
Trovarono il figlio di Crono seduto, discosto dagli altri
dèi, sulla cima più alta dell’Olimpo dai molti dirupi.
E qui fermò i cavalli la dea braccia candide Hera,
e domandò al sommo Zeus Cronìde, e così disse:
“Zeus padre, non te la prendi con Ares per gli eccessi?
Per quale e quanto esercito degli Achei ha rovinato,
così, senza motivo? Ed io soffro; invece loro
se la godono, Cipride e Apollo arco d’argento,
che a questo pazzo hanno tolto ogni freno, e non sa controllarsi.
Con me ti adirerai, Zeus padre, se colpisco
Ares spietatamente e lo escludo dallo scontro?”
E, rispondendo, le disse Zeus che aduna le nubi:
“Mandagli pure contro Atena predatrice,
che è avvezza più di ogni altro a conciarlo per le feste”.
Disse, e gli diede ascolto la dea braccia candide Hera;
frustò i cavalli, ed essi non contro voglia volarono
nello spazio intermedio fra la terra e il cielo stellato.
Quanto è lo spazio di cielo che vede un uomo coi suoi occhi,
seduto di vedetta, guardando il mare vinoso,
tanto i cavalli divini dall’alto nitrito ne compiono.
E appena giunti a Troia e ai due fiumi che là scorrono,
dove le acque si fondono di Simoenta e di Scamandro,
quivi fermò i cavalli la dea braccia candide Hera,
e, scioltili dal carro, li avvolse in fitta nebbia,
e fece nascere ambrosia il Simoenta, perché ne mangiassero.
E le due dee procedettero pari a trepide colombe,
impazienti di portare soccorso ai guerrieri argivi.
E giunte dove stavano i più numerosi e i migliori,
al forte Diomede domatore di cavalli
stretti attorno, leoni mangiatori di carne cruda,

103
o cinghiali, la cui vigoria non è trascurabile,
là si fermò e gettò un urlo la dea braccia candide Hera,
rassomigliando a Stèntore magnanimo, voce di bronzo,
che tanta voce aveva quanto quella di altri cinquanta:
“ Vergogna Argivi, uomini da niente, bellimbusti!
Sino a quando lo splendido Achille si occupava di guerra,
i Troiani neppure davanti alle porte di Dàrdano
giungevano, perché la sua lancia pesante temevano;
ora lottano lungi dalla città e alle concave navi”.
Detto così, destò in ognuno furore e ardimento.
Del Tidìde andò in cerca Atena dagli occhi lucenti:
lo trovò che leniva, davanti al carro e ai cavalli,
la ferita che gli aveva inflitto la freccia di Pàndaro.
Lo stremava il sudore di sotto l'ampia cinghia
dello scudo rotondo; e, stremato e col braccio dolente,
sollevando la cinghia, tergeva il nero sangue.
Sfiorò la dea il giogo dei cavalli e così disse:
"Tìdeo un figlio generò che non gli somiglia.
Tìdeo era piccolo di statura, ma che guerriero!
Anche quando non gli consentivo di combattere
né di attaccare, come la volta che senza gli Achei
ambasciatore a Tebe andò fra molti Cadmèi;
io gli suggerii di starsene a casa tranquillo.
Ma lui che aveva un cuore possente, come sempre,
i giovani Cadmèi provocò e tutti li vinse
agevolmente. Tale ero per lui soccorritrice.
Ora dunque ti sto qui accanto e ti proteggo,
e di cuore ti esorto a scontrarti coi Troiani,
ma la prostrazione che fiacca ti ha invaso le membra,
oppure ti trattiene il vile terrore. Non sei
il figlio più di Tìdeo, ch'era figlio gagliardo di Èneo."
E, di rimando, così le disse il possente Diomede:
"Ti riconosco, figlia di Zeus che porta l'ègida,
e col cuore voglio parlare, senza nulla nascondere.

104
Non mi trattiene vile terrore e neppure indugio,
ma ho ben fisso in mente il consiglio che mi hai dato.
Non mi hai concesso di scontrarmi con gli dèi beati,
tranne che con la figlia di Zeus, Afrodite: se fosse
scesa in guerra, l'avrei colpita con bronzo acuto.
Ecco perché mi sono io stesso ritirato
e ho invitato tutti gli altri qui a radunarsi.
Ares lo riconosco, che regna in questa battaglia."
E, di rimando, gli disse Atena dagli occhi lucenti:
"Figlio di Tìdeo, Diomede, che sei caro a questo cuore,
Ares non devi temere, né devi temere alcun altro
degli immortali. Tale sono per te soccorritrice.
Subito spingi i cavalli duri zoccoli contro Ares,
da vicino colpiscilo, non rispettare il violento,
questo pazzo, questo brutto ceffo, questo voltagabbana,
che poco fa a me e ad Hera aveva promesso
che avrebbe combattuto i Troiani e aiutato gli Argivi,
e adesso se la fa coi Troiani, se l'è scordato."
Detto così, dal carro fece scendere Stènelo a terra,
con la mano spingendo, e lui subito fuori balzò.
Salì sul carro, accanto allo splendido Diomede
la dea bramosa. L'asse di quercia emise un gemito
per il peso: reggeva la dea tremenda e l'eroe più grande.
Afferrate poi redini e frusta, Pallade Atena
subito spinse i cavalli duri zoccoli contro Ares.
Lui toglieva le armi all'immenso Perifante,
degli Etòli il più forte, l'illustre figlio di Ochesio;
Ares che gronda sangue lo disarmava. Ma Atena
l'elmo indossò di Ade, perché Ares non la vedesse.
Ares spietato vide lo splendido Diomede,
e all'istante lasciò l'immenso Perifante
là giacere, dove gli aveva tolto la vita,
e puntò su Diomede, domatore di cavalli.
E quando furono ormai vicini, entrambi avanzando,

105
primo Ares balzò sopra il giogo e sulle redini
con l’asta bronzea, nella brama di strappargli la vita.
Ma l'afferrò con la mano Atena dagli occhi lucenti,
la deviò dal carro, perché a vuoto si perdesse.
Poi toccò a Diomede, possente nel grido di guerra,
con l’asta bronzea. E la spinse Pallade Atena
nel basso ventre del dio, dove la fascia lo cingeva.
Là lo colpì, gli lacerò la bellissima pelle,
poi ritrasse la lancia. Diede un urlo il bronzeo Ares,
quanto gridano uomini, novemila o diecimila,
se in contesa di guerra ingaggiano zuffa di Ares.
Furono colti da tremito Achei e Troiani, sgomenti,
talmente forte fu l'urlo di Ares, mai sazio di guerra.
Quale giù dalle nubi tenebrosa appare una nebbia,
quando per la calura si scatena furiosa tempesta,
tale al figlio di Tìdeo apparve il bronzeo Ares,
mentre assieme alle nubi saliva all'ampio cielo.
Subito giunse alla sede degli dèi, l'Olimpo scosceso,
e accanto a Zeus Cronìde sedette oppresso nel cuore,
e gli mostrò la ferita, da cui sangue immortale fluiva,
e così, lamentandosi, alate parole diceva:
" Padre Zeus, non ti sdegni, vedendo questi soprusi?
Sempre noi dèi sopportiamo, in bisticci fra di noi,
i più sgradevoli torti, per favorire gli uomini.
Tutti l'abbiamo con te. Generasti una figlia che è pazza,
devastatrice, alla quale stanno a cuore imprese infami.
Tutti, nessuno escluso, quanti siamo dèi in Olimpo,
ti obbediamo, ti siamo soggetti, ciascuno al suo posto.
Ma lei non la riprendi mai, né a parole né a fatti,
la lasci fare, tu stesso così matta l'hai generata.
E ora il figlio di Tìdeo, Diomede insopportabile,
ha scatenato, perché infierisse sugli dèi immortali.
Prima ha colpito da vicino al polso Cìpride,
poi se l'è presa proprio con me, lui simile a un dio.

106
Ma mi hanno messo in salvo i piedi veloci, altrimenti,
avrei sofferto laggiù, in mezzo a orrendi cadaveri,
o, vivo e senza forze, sarei rimasto colpito dal bronzo."
E, di sbieco guardandolo, disse Zeus che aduna le nubi:
"Non mi venire a piagnucolare, o voltagabbana.
Di tutti quanti gli Olimpii tu sei per me il più odioso,
sempre ti sono cari le risse le guerre i conflitti.
Di tua madre Hera possiedi il furore indomabile,
intollerabile. Io faccio fatica a frenarla a parole.
Credo che questo ti capiti per i piani che lei architetta.
Ma non sopporterò che tu soffra troppo a lungo.
Sei mio figlio, a me ti ha partorito tua madre.
Se, così matto, tu fossi il figlio di un altro dio,
da un bel pezzo staresti più in basso degli Urànidi."
Disse così, e diede ordine a Pèone di curarlo.
Lui, applicando dei farmaci che placano il dolore,
lo risanò, perché non era nato mortale.
Come il succo del fico fa cagliare il bianco latte,
da liquido lo addensa, rigirando e rimestando,
tanto rapidamente Ares violento fu risanato.
Ebe gli fece il bagno, lo vestì di vesti bellissime,
e lui sedette superbo accanto a Zeus Cronìde.
Subito dopo tornavano alla casa del grande Zeus
sia Hera Argiva sia Atena Alalcòmenia,
posta fine alla stragi di Ares sterminatore.

107
LIBRO VI

L’incontro di Ettore e Andromaca.

Allontanato Ares dal conflitto, il campo resta privo di dèi, e la battaglia riprende
come prima, dominata da Diomede. Èleno, veggente e fratello di Ettore, gli
consiglia di salire in città e di suggerire alla madre Ecuba di recarsi con le altre
donne al tempio di Atena, per fare promesse e offerte alla dea, allo scopo di
indurla a contenere il furore di Diomede. Cosa che la dea non farà. Ettore accetta e
si allontana dallo scontro. Nel frattempo Diomede e Glauco, capo guerriero dei
Lici e quindi alleato dei Troiani, vengono a duello. Glauco rivela di discendere da
Sìsifo e da Bellerofonte, di cui narra la storia a Diomede stupito. Diomede allora
ravvisa in Glauco, che è figlio di Ippòloco, un discendente di Bellerofonte, che un
tempo era stato ospite a casa di Èneo, suo nonno e padre di Tìdeo. I due si
scambiano le armi e si salutano da amici. Ettore, intanto, giunto in città, ha un breve
colloquio con la madre, alla quale raccomanda di recarsi al tempio di Atena.
Quindi si reca alla casa di Paride, per indurlo a combattere, e lo trova assieme ad
Elena, con la quale ha un breve colloquio. Infine va anche a casa sua a cercare la
consorte Andromaca col figlioletto Scamandrio. Ma non la trova: è corsa al
bastione, preoccupata per la sorte del marito. Corre allora anche lui a cercarla, e la
trova proprio là, assieme alla balia e al piccolo Scamandrio. Tra i due coniugi si
svolge un colloquio struggente, che si conclude con la preghiera di Ettore per il
piccolo Astianatte (altro nome del figlio), che il padre prende tra le braccia. I due si
accommiatano, e Andromaca, tornata a casa, suscita un gran pianto fra le ancelle,
come se Ettore fosse morto. Ettore passa nuovamente da Paride, il quale è già
pronto per combattere. I due si avviano allo scontro.

Sola restò dei Troiani e degli Achei la mischia tremenda;


molto infuriò la battaglia qua e là per la pianura,
di loro che scagliavano l’un l’altro le lance di bronzo,
nel mezzo, fra le rive del Simoenta e dello Xanto.
E Aiante Telamonio, baluardo degli Achei,
primo spezzò la falange troiana, diede luce ai compagni,

108
l’uomo colpendo che fra i Traci era il migliore,
il valente e grande Acàmas, il figlio di Eussòro.
Lo colpì sul cimiero dell’elmo chioma equina:
si infisse sulla fronte, gli trapassò l’osso di dentro
la punta bronzea, la tenebra gli ricoperse gli occhi.
E Diomede possente nel grido di guerra uccise
Àssilo figlio di Teutras, che abitava ad Arisbe ben fatta,
facoltoso di sostanze: era caro agli umani;
tutti ospitava, aveva casa lungo la via.
Ma nessuno di essi gli stornò l’amara morte;
ché gli sbarrò la strada, perché tolse ad entrambi la vita,
a lui e allo scudiero Calesio, che dei cavalli
era la guida, Diomede: ambedue sotto terra discesero.
Ed Eurìalo privò della vita Dreso ed Ofeltio,
poi si volse a Esèpo e a Pèdaso, che un dì la ninfa
nàiade Abarbàrea partorì a Bucolìon senza macchia.
Bucolìon era figlio del nobile Laomedonte,
figlio maggiore: la madre lo partorì in segreto.
Pascolando le pecore, le si unì in amore e nel letto,
e, ingravidata, partorì due figli gemelli.
E di entrambi sciolse il vigore e le splendide membra
il Mecistìade, e gli tolse le armi dalle spalle.
E Polipète bellicoso uccise Astìalo,
quindi Odìsseo tolse di mezzo Pidìte Percosio
con l’asta bronzea, e Teucro lo splendido Aretàon.
Tolse di mezzo Antìloco, il figlio di Nestore, Ablèro,
con la lancia splendente, e il sovrano di eroi Agamemnon
Èlato, che abitava l’erta Pèdaso, sulle rive
del ricco d’acqua Sàtnioènta. Lèito eroe
Fìlato colse, fuggente; Eurìpilo uccise Melantio.
E catturò Menelao, possente nel grido di guerra,
vivo Adrasto. I cavalli, sbandati per la pianura,
in una macchia urtarono di tamerici, e il carro ricurvo
si infranse in cima al timone, e si diressero in città

109
i due cavalli, ove gli altri sbandati si rifugiavano.
E lui stesso dal carro rotolò accanto alla ruota,
nella polvere, prono sulla bocca, e gli fu accanto
l’Atride Menelao con la lancia lunga ombra.
Allora Adrasto, abbracciategli le ginocchia, supplicava:
“Prendimi vivo, Atride, e accetta adeguato riscatto!
Molti tesori ha in casa mio padre facoltoso,
bronzo e oro e ferro finemente lavorato,
donde mio padre ti offrirà infinito riscatto,
se mi sapesse vivo fra le navi degli Achei”.
Disse così, e convinceva il suo cuore dentro al petto,
e ormai lo consegnava al suo scudiero, perché lo portasse
degli Achei alle navi veloci. Ma Agamemnon
gli andò incontro di corsa, e ad alta voce gli disse:
“O Menelao, mio caro, perché ti curi tanto
di questa gente? Forse gran bene in casa tua
dai Troiani avesti? Nessuno all’abisso di morte
per mano nostra si sottrarrà, neppure chi è ancora
nel ventre della madre, neanche lui, ma tutti quanti
periscano di Ilio, senza esequie e senza nome”.
Disse così, e l’eroe mutò l’animo del fratello:
giusto consiglio aveva dato. E spinse da sé
con la mano l’eroe Adrasto, e il possente Agammemnon
lo colpì lungo il fianco. Si rovesciò, e l’Atride
gli calcò il petto col piede, ed estrasse la lancia di frassino.
Nestore incoraggiava gli Argivi, forte gridando:
“O carissimi Dànai, eroi, servitori di Ares,
ora nessuno gettandosi sul bottino resti indietro,
per giungere alle navi portando il più possibile,
ma pensiamo ad uccidere. In seguito, tranquilli,
i cadaveri spoglierete per la pianura”.
Detto così, destò in ognuno furore e ardimento.
I Troiani, spinti dagli Achei cari ad Ares, allora
da scoramento domati, sarebbero a Ilio saliti,

110
se ad Enea e ad Ettore non avesse parlato, accostatosi,
Èleno, figlio di Priamo, ch’era l’ottimo fra gli indovini:
“Enea ed Ettore, poiché da voi dipende l’impresa
dei Troiani e dei Lici, soprattutto: voi siete i migliori
in ogni azione, in guerra e in consiglio; state dunque
qua, e l’esercito trattenete davanti alle porte,
e in ogni parte andate, prima ancora che in braccio alle donne
cadano in fuga e rendano allegri i nostri nemici.
E non appena avrete incitato tutte le schiere,
noi combatteremo coi Dànai qui restando,
anche se molto provati; necessità ci costringe.
Ettore, invece, tu sali in città, e parla alla madre
tua e mia, e dille che raccolga insieme le anziane
presso il tempio di Atena occhi lucenti, in cima alla rocca,
apra le porte del sacro tempio con la chiave,
e preso un peplo, quello che le è parso il più bello e il più grande
dentro la casa e che le risulti fra tutti il più caro,
sulle ginocchia lo ponga di Atena bella chioma,
e le prometta che le immolerà dodici vacche nel tempio,
di un anno, non domate, se per caso avesse pietà
della città, delle spose troiane, dei piccini,
e se vorrà allontanare da Ilio sacra il figlio di Tìdeo,
il selvaggio guerriero, datore supremo di panico,
ch’io ritengo di essere il più forte degli Achei.
Nemmeno Achille, capo di eroi, altrettanto tememmo
che pure dicono figlio di una dea; ma costui impazza
troppo, e nessuno è capace di essergli pari in furore”.
Disse così, ed Ettore diede ascolto a suo fratello,
e subito dal carro balzò a terra con le armi,
e palleggiando le lance acute, tutto il campo percorse,
incitando a combattere, e destava la mischia tremenda.
I Troiani si volsero e affrontarono gli Achei,
e gli Argivi arretrarono e posero fine alla strage,
e pensarono che un immortale dal cielo stellato

111
fosse disceso a soccorrere i Troiani, da come si volsero.
Ettore allora esortava i Troiani, forte gridando:
“Troiani temerari e voi guerrieri alleati,
siate uomini, amici, rammentate l’ardente vigore,
sino a quando io mi rechi ad Ilio e suggerisca
ai consiglieri, agli anziani, ed alle nostre donne
di supplicare gli dèi e di promettere loro ecatombi”.
Disse, e se ne andò via Ettore elmo che splende:
attorno alle caviglie e sul collo il nero cuoio batteva,
l’orlo che estremo correva sullo scudo ombelicato.
Glauco, figlio di Ippòloco, e il figlio di Tìdeo nel mezzo
l'uno con l'altro si vennero incontro bramosi di battersi.
E quando furono ormai vicini, entrambi avanzando,
primo parlò Diomede, possente nel grido di guerra:
"Dimmi, chi sei, o superbo, fra gli uomini mortali?
Mai prima d'ora ti vidi nella mischia che esalta i forti.
Ora tu superi tutti di molto in ardimento,
tu che osasti sfidare la mia lancia lunga ombra.
Figli di sventurati affrontano il mio furore.
Se sei giunto dal cielo come uno degli immortali,
in nessun modo mi batterei con gli dèi celesti.
No. Neppure il figlio di Driante, il possente Licurgo,
visse a lungo, lui che lottò con gli dèi celesti,
quando una volta incalzava le balie del folle Dionìso
sul sacro monte Nisèo. Ed esse tutte gettarono
i tirsi a terra, percosse col pungolo dei buoi
di Licurgo massacratore. Dionìso si immerse,
atterrito, nell'onda marina, e Teti lo accolse
nel suo seno, tremante per le urla di quell'uomo.
Perciò lo detestarono gli dèi che hanno facile vita.
Cieco lo rese il figlio di Crono. Né lui visse a lungo,
era venuto in odio a tutti gli dèi immortali.
Dunque neanch'io combatterei con gli dèi beati.
Ma se appartieni ai mortali che mangiano il frutto dei campi,

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fatti vicino e presto toccherai i confini di morte."
E così gli rispose lo splendido figlio di Ippòloco:
"Figlio di Tìdeo magnanimo, perché mi domandi la stirpe?
Quale delle foglie la stirpe, così quella degli uomini.
Sparge le foglie per terra il vento, ma altre la selva
fiorendo ne fa nascere, quando torna la primavera.
Tale la stirpe degli uomini, l'una nasce e l'altra declina.
Ma se tu vuoi conoscere anche questo, perché bene sappia
la mia stirpe, sono molti gli uomini che la conoscono.
Èfira, nei recessi di Argo che nutre cavalli,
è una città dove Sìsifo abitava, il più astuto degli uomini,
Sìsifo figlio di Eolo. Mise al mondo un figlio, Glauco,
Glauco poi l'irreprensibile Bellerofonte,
a cui bellezza gli dèi e coraggio invidiabile diedero.
Ma meditava Preto in cuore dei mali per lui,
che lo cacciò dalla terra di Argo, perché era più forte:
Zeus l'aveva sottoposta al suo scettro regale.
Per lui smaniava la moglie di Preto, la splendida Antèa,
di unirsi a lui in segreto, ma non lo convinceva,
perché era in cuore onesto, l'accorto Bellerofonte.
Ella dunque, mentendo, così si rivolse al re Preto:
"Devi morire, Preto, se non ammazzi Bellerofonte!
Lui che bramava di unirsi a me, ma non volevo".
Disse così, e la collera prese il re, tali cose udiva,
ma dall'ucciderlo si asteneva, ne ebbe ritegno,
ma lo mandò nella Licia, e gli diede dei segni funesti,
su doppia tavola molte parole di morte incidendo,
e di mostrarla al suocero gli impose, perché lo uccidesse.
Andò in Licia non senza guida di dèi irreprensibile.
E non appena in Licia fu giunto e al fiume Xanto,
benevolmente il re dell'ampia Licia lo onorava,
per nove giorni lo tenne ospite, nove buoi fece uccidere.
Quando poi decima sorse Aurora dita di rosa,
lo interrogava, gli chiedeva di mostrargli quel segno

113
che lui portava con sé da parte del genero Preto.
Ma com’ebbe ebbe avuto il segno funesto del genero,
per prima cosa gli impose di uccidere la Chimèra
invincibile, ch'era stirpe divina, non umana,
leone davanti, serpente di dietro e capra nel mezzo.
Terribile spirava potenza di fuoco fiammante.
Bellerofonte, fidando nei segni divini, la uccise.
Prova seconda, lottò coi Sòlimi ricchi di gloria,
lotta suprema, lui disse, mai più sostenuta con uomini.
Terza, uccise le Amàzoni, che combattono al pari dei maschi.
Ma a lui, mentre tornava, tramò il re nuovo perfido inganno:
scelti i migliori guerrieri che ci fossero nell'ampia Licia,
tese un agguato, ma quelli non più tornarono a casa.
Tutti li uccise l'irreprensibile Bellerofonte.
Ma quando il re capì ch'era nobile stirpe di un dio,
se lo tenne a casa, gli diede in sposa sua figlia,
gli consegnò la metà del suo potere regale,
e i Lici gli riservarono un podere, migliore degli altri,
bello di piante e di maggese, perché lo abitasse.
Ella tre figli diede all'accorto Bellerofonte,
primo Isandro, e Ippòloco, e terza Laodamìa.
Zeus mente accorta si unì in amore con Laodamìa,
che generò Sarpèdone pari a un dio, dall'elmo di bronzo.
Quando però anche lui venne in odio a tutti gli dèi,
per la pianura di Alèa solitario andava vagando
e si rodeva il cuore, evitando le orme degli uomini.
Ares mai sazio di guerra Isandro gli uccise, suo figlio,
mentre lottava contro i Sòlimi ricchi di gloria.
L'altra la uccise, sdegnata, Àrtemis redini d'oro.
Me generò Ippòloco ed io mi dichiaro suo figlio.
Mi mandava a Troia e molto mi raccomandava
di essere sempre il migliore e di primeggiare sugli altri,
né di gettare vergogna sulla stirpe dei prodi che furono
in Èfira grandissimi e così nell'ampia Licia.

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Di questa stirpe e di questo sangue mi vanto di essere."
Disse, e gioì Diomede possente nel grido di guerra,
e la sua lancia infisse nella terra nutrice di molti,
e con parole gentili diceva al pastore di popoli:
"Ospite per davvero tu mi sei antico, paterno.
Èneo splendido in casa sua una volta ospitò
l’irreprensibile Bellerofonte per venti giorni,
e si scambiarono fra di loro bei doni ospitali.
Èneo cintura splendente di porpora gli donava,
Bellerofonte una coppa a due manici, tutta d'oro.
Io l'ho lasciata a casa mia, quando venni a Troia.
Tìdeo non lo ricordo, mi lasciò che ero piccino,
quando l'esercito degli Achei fu distrutto a Tebe.
Dunque per te in Argolide io sono tuo ospite caro,
tu lo sei per me nella Licia, se mai ci verrò.
Lance reciproche inoltre evitiamo nello scontro.
Molti ci sono Troiani per me e alleati famosi
da uccidere, che un dio mi conceda e i miei piedi raggiungano,
molti Achei per te parimenti, tutti quelli che puoi.
Armi scambiamo reciprocamente, perché anche costoro
sappiano che ci vantiamo di essere ospiti antichi."
Detto così, ambedue balzarono giù dai carri,
si strinsero la mano fra di loro scambiandosi fede.
Ma allora a Glauco tolse il senno Zeus figlio di Crono:
armi costui scambiò col figlio di Tìdeo Diomede
d'oro per bronzo, cento buoi in cambio di nove.
Come Ettore fu giunto alle porte Scee e alla quercia,
le spose dei Troiani e le figlie gli corsero incontro,
per chiedergli dei figli dei fratelli dei parenti
e degli sposi; e lui le esortava una per una
a supplicare gli dèi: su molte il lutto incombeva.
Ma come giunse alla casa di Priamo bellissima,
edificata su portici levigati – vi erano dentro
ben cinquanta stanze di pietra levigata,

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una di fila all’altra, contigue; quivi di Priamo,
alle legittime spose accanto, dormivano i figli;
dall’altra parte del cortile, sotto il tetto,
c’erano delle figlie di Priamo le dodici stanze,
in pietra levigata, contigue, dove di Priamo
i generi dormivano, accanto alle spose onorate -;
gli venne incontro allora la madre premurosa,
in compagnia di Laòdice, la più bella delle figlie.
Lo prese per la mano, gli rivolse parola, gli disse:
“Perché, creatura, hai lasciato l’aspro scontro e sei venuto?
Sì, vi consumano i figli maledetti degli Achei,
combattendo intorno alla rocca; il tuo cuore ti ha spinto
a stendere le mani a Zeus da quassù, dalla rocca.
Ora aspetta, che vino delizioso ti porterò,
per libare al padre Zeus e agli altri immortali,
prima, ma anche perché ti rinfranchi anche tu, se ne bevi.
Grande vigore il vino istilla all’uomo sfinito,
come anche tu sei sfinito a difendere i tuoi cari”.
E così le rispose Ettore elmo che splende:
“No, non offrirmi il dolce vino, o madre sovrana,
non intaccare lo slancio, ch’io mi scordi del mio vigore.
Con mani non lavate ho ritegno il vino fulgente
a libare a Zeus, il Cronìde nere nubi.
Non è ammesso pregarlo imbrattati di sangue e di fango.
Rècati dunque al tempio di Atena predatrice
con le offerte, dopo aver radunato le donne anziane,
e preso un peplo, quello che ti è parso il più bello e il più grande
dentro la casa e che ti risulti fra tutti il più caro,
ponilo sulle ginocchia di Atena bella chioma,
e promettile che le immolerai dodici vacche nel tempio,
di un anno, non domate, se per caso avesse pietà
della città, delle spose troiane, dei piccini,
e se vorrà allontanare da Ilio sacra il figlio di Tìdeo,
il selvaggio guerriero, datore supremo di panico.

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Rècati dunque al tempio di Atena predatrice,
e a cercare Paride io andrò, per richiamarlo,
se volesse prestarmi ascolto. Gli si aprisse la terra!
Oh si avverasse! L’Olimpio lo allevò per la rovina
dei Troiani, di Priamo magnanimo e dei suoi figli.
Se lo vedessi precipitare giù nell’Ade,
credo che avrebbe scordato il mio animo un brutto malanno”.
Disse così, ed entrato in casa, alle domestiche
impartì gli ordini, ed esse radunarono le anziane;
poi lei stessa discese nel ripostiglio profumato,
dove giacevano i pepli, variopinti lavori di donne,
di Sidone, che Alessandro simile a un dio
da Sidone aveva portato, per l’ampio mare,
lungo il viaggio, recando con sé la nobile Elena.
Uno ne estrasse Ecuba, come dono per Atena,
ch’era il più bello per i ricami, ed era il più grande,
e come stella brillava: giaceva sotto gli altri.
Prese ad andare, e molte anziane la seguivano.
E come giunsero al tempio di Atena, sulla rocca,
aprì le porte per loro Teanò bella guancia, di Cìsseo
figlia e sposa di Antenore, domatore di cavalli;
i Troiani la fecero sacerdotessa di Atena.
Tesero tutte ad Atena le mani col grido del rito,
ed allora Teanò bella guancia, preso il peplo,
sulle ginocchia lo pose di Atena bella chioma,
e alla figlia del grande Zeus rivolse preghiera:
“Sovrana Atena, difesa della città, splendida dea,
spezza la lancia di Diomede, ed anche lui
fa’ che precipiti prono davanti alle porte Scee:
subito noi ti immoleremo dodici vacche nel tempio,
di un anno, non domate, se per caso avessi pietà
della città, delle spose troiane, dei piccini”.
Disse pregando, ma cenno di no fece Pallade Atena.
Mentre esse pregavano la figlia del grande Zeus,

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ecco che Ettore giunse alla casa di Alessandro,
bella, che edificò coi migliori costruttori
che vi potessero essere a Troia fertili zolle;
e gli costruirono il talamo la sala il cortile
accanto a Priamo, ad Ettore, in alto, sulla rocca.
Quivi entrò Ettore caro a Zeus, tenendo in mano
l'asta di undici cubiti. In alto la punta bronzea
scintillava e intorno correva una striscia dorata.
Lo trovò che provava nella stanza da letto le armi
belle, lo scudo, la corazza e l'arco ricurvo.
Elena Argiva sedeva in mezzo alle sue ancelle
e dava loro suggerimenti per eletti lavori.
Vistolo, Ettore lo rampognò con dure parole:
"Sciagurato, tu celi non bel risentimento,
ma intorno alla città e al muro scosceso i guerrieri
muoiono combattendo. Per tua colpa il grido di guerra
cinge la nostra rocca. Anche tu contenderesti
con chi vedessi abbandonare la mischia odiosa.
Alzati, che non arda la città del fuoco nemico!"
E così gli rispose Alessandro simile a un dio:
"Ettore, tu mi insulti a ragione, non contro ragione,
e perciò parlerò, e tu afferralo e ascoltami bene.
Non per risentimento o rancore verso i Troiani
io me ne resto in casa, ma volevo dar sfogo al dolore.
Ora pure mia moglie con tenere parole
allo scontro mi spinge, e questo anche a me sembra il meglio;
passa dall'uno all'altro degli uomini la vittoria.
Ma ora aspettami, che mi rivesto delle armi di Ares,
oppure va', che dopo verrò. Conto di raggiungerti."
Disse, e non diede risposta Ettore elmo che splende,
ma si rivolse Elena a lui con dolci parole:
"Cognato di una cagna traditrice e repellente,
o se nel giorno in cui mi partorì mia madre
mi avesse una procella rapinosa trasportato

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sulla cima di un monte, sopra un'onda del mare sonante,
sì da travolgermi prima che tutto succedesse!
Ma poiché gli dèi mi assegnarono questi mali,
solo vorrei esser moglie di un uomo più valoroso,
che comprendesse l'onta e la vergogna in mezzo agli uomini.
Ma costui cuore saldo né adesso né in futuro
avrà mai. E credo proprio che la pagherà.
Vieni ora dentro, cognato, e mettiti a sedere
su questo seggio, ci sono molte pene che ti opprimono
per causa mia, di me cagna e per la follia di Alessandro,
ai quali Zeus ha dato mala sorte, sì che un giorno
per quelli che verranno saremo motivo di canto."
E, di rimando, diceva Ettore elmo che splende:
"Elena, nonostante il tuo affetto, non farmi sedere.
Già mi spinge il mio cuore di dentro a portare soccorso
ai Troiani, che sentono ormai la mia mancanza.
Ma tu, piuttosto, spingi costui, e lui stesso si affretti,
che mi raggiunga prima ch'io esca dalla città.
Sì, ho intenzione di recarmi a casa, a vedere
i domestici, la cara sposa, il bimbo piccino.
Io non so se ritornerò mai più in mezzo a loro
o se gli dèi per mano degli Achei mi abbatteranno".
Disse, e se ne andò via Ettore elmo che splende,
e prontamente giungeva alle case ben abitate,
ma dentro non trovò Andromaca candide braccia,
ma col bimbo piccino e con l'ancella bel peplo
era corsa alla torre affliggendosi e piangendo.
Ettore, come in casa non vide la nobile sposa,
sulla soglia ristette e rivolse domanda alle ancelle:
"Subito, ancelle, ditemi tutta la verità:
dove Andromaca candide braccia se n'è andata?
Forse a trovare le mie sorelle o le cognate bei pepli,
o forse è andata al tempio di Atena, dove le altre
Troiane belle trecce la dea tremenda propiziano?"

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E la scrupolosa dispensiera così gli rispose:
"Ettore, poiché mi sproni a dirti la verità,
né a trovare le tue sorelle o le cognate bei pepli
è andata e neanche al tempio di Atena, dove le altre
Troiane belle trecce la dea tremenda propiziano,
ma sulla grande torre di Ilio, appena udito
che i Troiani sono stremati e gli Achei li sovrastano.
Ella allora si reca al muro precipitandosi,
simile a forsennata, e la balia le porta il piccino "
Disse la dispensiera. E si slanciò Ettore fuori di casa,
percorrendo la stessa via lungo strade ben fatte.
Quando alle porte Scee, la grande città attraversando,
giunse, da cui doveva sortire verso la piana,
ecco gli corse incontro la sposa ricchi doni,
Andromaca, la figlia del magnanimo Eetione,
Eetione, che sotto il Placo selvoso abitava,
a Tebe sotto il Placo, regnando sui Cilìci.
E sua figlia andò sposa a Ettore elmo di bronzo.
Gli si fece incontro e con lei c'era anche la balia,
che aveva in braccio il bimbo, piccino, tenero ancora,
l’amato figlio di Ettore, che era simile a bell'astro.
Ettore lo chiamava Scamandrio, ma gli altri Astianatte,
perché soltanto Ettore era di Troia il difensore.
In silenzio il padre gli sorrise nel vederlo.
Ma gli si mise accanto Andromaca piangendo,
lo prese per la mano, gli rivolse parola, gli disse:
"Misero, ti ucciderà il tuo coraggio. Non hai compassione
del tuo piccino, di me sventurata, che vedova presto
di te sarò. Perché presto ti ammazzeranno gli Achei,
tutti contro di te. Ma per me assai meglio sarebbe
prima di te serrarmi sotto terra. Perché nessuna
consolazione più avrò, se andrai al tuo destino,
solo dolori. Il padre più non ho né la madre sovrana.
Primo il padre me lo uccise lo splendido Achille,

120
quando distrusse la popolosa città dei Cilìci,
Tebe alte porte. E fu là che uccise Eetione.
Non lo spogliò delle armi, ne ebbe ritegno nel cuore,
ma lo bruciò assieme alle armi ben lavorate,
gli alzò un tumulo, ed olmi piantarono intorno le ninfe
delle montagne, le figlie di Zeus che porta l’ègida.
Sette fratelli avevo che abitavano nella mia casa,
tutti e sette in un solo giorno discesero all'Ade.
Sì, perché tutti li uccise il veloce splendido Achille
in mezzo ai buoi dai passi ritorti e alle candide pecore.
Mia madre, infine, che sotto il Placo selvoso regnava,
prima qui la portò con tutte le altre ricchezze,
e poi la liberò accettando infinito riscatto.
Ma là, nella casa del padre, la colpì Àrtemis saettatrice.
Ettore, tu per me sei padre e madre sovrana,
tu sei fratello, tu sei per me fiorente marito.
Abbi adesso pietà, e qui resta su questa torre.
Orfano il figlio non fare e vedova la sposa.
Al caprifico raduna l'esercito, là dove il varco
più facile è in città e il muro è più accessibile.
Tre volte hanno tentato di accedervi i migliori,
ambedue gli Aianti e il valoroso Idomèneo,
i due figli di Àtreo e il forte figlio di Tìdeo,
o che glielo abbia detto un indovino sapiente,
o che invece li stimoli e li sproni il loro cuore".
E le rispose il grande Ettore elmo che splende:
"Donna, a me tutto questo sta a cuore. Ma terribilmente
dei Troiani e delle Troiane lunghissimi pepli
avrei ritegno, se, vile, mi astenessi dallo scontro.
Non a questo mi spinge il mio cuore, a esser forte ho imparato,
sempre, e a combattere in prima fila assieme ai Troiani,
procurando al padre grande gloria e pure a me stesso.
Questo io so assai bene nell'animo e nel cuore.
Giorno verrà, è sicuro, che morrà la sacra Ilio,

121
Priamo morrà e la gente di Priamo lancia di frassino.
Ma né mi tocca tanto il dolore per i Troiani,
né persino per Ecuba e neppure per Priamo sovrano,
né per i fratelli, che in gran numero e valorosi,
cadranno nella polvere per mano dei nemici,
quanto per te, e sarà quando un Acheo tunicato di bronzo
ti trarrà via lacrimante, strappandoti il libero giorno.
Tu forse allora in Argo tesserai per un' altra la tela
e l'acqua porterai dalla fonte Messèide o Iperèa,
molto costretta, perché subirai un crudele destino.
E allora uno, vedendoti così in lacrime, esclamerà:
"Quella è la sposa di Ettore, di lui che era primo in battaglia
fra i Troiani, quando per Ilio si combatteva".
Così dirà qualcuno, e a te verrà nuovo dolore,
di quest'uomo privata che ti strappi dal giorno di schiava.
Ma su me morto terra riversata mi ricopra,
prima ch'io sappia il tuo grido, che sei stata trascinata."
Detto così, al suo piccolo si protese lo splendido Ettore.
Subito il bimbo nel seno della balia bella cintura
si ripiegò, gridando, atterrito alla vista del padre:
lo spaventava il bronzo e il pennacchio chioma equina,
che vedeva terribile ondeggiare in cima all’elmo.
Sorrise il caro padre e così la madre sovrana,
e dalla testa l'elmo si tolse lo splendido Ettore
e lo depose a terra che intenso luccicava.
Quindi suo figlio baciò e lo palleggiò fra le braccia,
poi, rivolgendosi a Zeus e agli altri dèi, li invocava:
"Zeus e voi altri dèi, concedete che questo mio figlio
come me si distingua in mezzo a tutti i Troiani,
cresca gagliardo e forte e abbia il dominio su Ilio.
E dica un dì qualcuno:"E' molto più forte del padre",
se torna dalla guerra e porti le armi cruente
dell'avversario ucciso, e gioisca la madre nel cuore".
Detto così, rimise nelle mani della sposa

122
il figlio suo, ed ella lo accolse nel seno fragrante,
ridendo fra le lacrime. Lui la vide e la compianse,
e con la mano la accarezzò, le parlò e così disse:
"Misera, non crucciarti nell'animo troppo, ti prego.
Contro il destino nessuno mi getterà nell’Ade,
nessuno mai, ti dico, è sfuggito al suo destino,
né che sia vile, né che sia prode, una volta che è nato.
Ma adesso torna a casa ed occupati dei lavori,
fuso e telaio, ed alle ancelle impartisci gli ordini,
che attendano ai loro compiti. Spetta agli uomini la guerra,
tutti, e a me soprattutto, fra quanti nacquero a Troia."
Detto così, riprese il suo elmo lo splendido Ettore,
elmo dal crine equino. E la sposa a casa tornava,
sempre voltandosi indietro e versando fitte lacrime.
Subito dopo giungeva alle case ben abitate
di Ettore massacratore, e vi trovò dentro riunite
molte domestiche e in tutte suscitò desiderio di pianto:
Ettore ancora vivo piangevano nella sua casa,
non credevano che sarebbe mai più tornato,
perché sfuggito al furore e alle mani degli Achei.
Paride non si trattenne più a lungo nell'alta casa,
ma, rivestite le splendide armi, raggianti di bronzo,
per la città si mosse, fidando nei rapidi piedi.
Come cavallo di scuderia, nutrito alla greppia,
rotta la corda, corre scalpitando per la pianura,
abituato a lavarsi nelle belle correnti del fiume;
erge superbo la testa e la criniera sulle spalle
tutta intorno si agita, e, fiero del proprio splendore,
subito le agili gambe lo portano ai pascoli usati;
tale Paride, il figlio di Priamo, dalla rocca di Pergamo,
fulgido nelle armi, raggiante come sole,
scendeva, i rapidi piedi lo portavano. E subito dopo
Ettore splendido, suo fratello, trovò, che appena
era giunto dal luogo dove aveva incontrato la sposa.

123
E per primo parlò Alessandro simile a un dio:
"Caro, per caso la fretta che avevi ho trattenuto
indugiando, e non sono arrivato come tu mi ingiungesti?"
E, di rimando, diceva Ettore elmo che splende:
"Amico mio, nessun uomo che voglia essere giusto
potrebbe biasimarti: davvero sei forte in battaglia.
Ma di tua volontà rinunci, non vuoi, e si angustia
il mio cuore, se sente gli insulti contro di te
dei Troiani, che tanto patiscono a causa tua.
Ma ora andiamo, poi tutto metteremo a posto, se Zeus
ci vorrà concedere di innalzare nella reggia
il cratere di libertà per gli dèi immortali,
dopo aver scacciato gli Achei dalle belle gambiere”.

124
LIBRO VII

Il duello di Ettore e Aiante.

Rientrato Ettore, assieme a Paride, ritorna la fiducia nei Troiani. Atena e Apollo si
accordano per una tregua, segnata da un duello fra i due massimi campioni. Ettore
fa la proposta al campo acheo. Dopo un momento di incertezza, interviene
Menelao, che rimprovera gli Achei di viltà, proponendo se stesso. Ma Nestore,
l’anziano re di Pilo, stimato da tutti per la sua saggezza, risveglia in loro il senso
dell’onore, e si presentano i migliori, fra i quali viene sorteggiato chi dovrà
sostenere la prova. La sorte cade su Aiante Telamonio. I due si armano e si
affrontano. Ma il duello si protrae, senza che emerga un vero vincitore. I due araldi,
garanti dei patti e della lealtà reciproca, fermano il duello, col pretesto che avanza la
notte, e assegnano la vittoria a entrambi. Ettore e Aiante si scambiano i doni rituali:
Ettore una spada d’argento, Aiante una cintura di porpora. Sorta l’aurora, si
procede alla tregua per le esequie dei caduti da entrambe la parti. Dietro
precedente suggerimento di Nestore, si procede alla costruzione di un muro, con
un fossato, a difesa delle navi. Gli dèi assistono alla costruzione, ma Posidone
obietta a Zeus che quel muro potrà oscurare la fama che ha riscosso l’elevazione
del muro che cinge Troia, costruito dal dio stesso per il re Laomedonte. Zeus però
gli assicura che lui potrà abbattere il nuovo muro quando vorrà. L’opera viene
portata a termine entro il tramonto del sole. Ne consegue un lauto banchetto presso
le navi.

Disse così, e si spiccò dalle porte lo splendido Ettore,


e con lui il fratello Alessandro, nel loro cuore
ambedue bramosi di battersi e di scontrarsi.
E come un dio concede ai marinai che lo bramano
vento propizio, se sono spossati dal battere il mare
coi remi levigati, e le membra sfinite si sciolgono;

125
tanto desiderati essi apparvero ai Troiani.
E il primo colpì il figlio di Arèitoo sovrano,
che abitava ad Arne, Menestio: l’armato di mazza
Arèitoo lo generò con Filomedùsa grandi occhi.
Ed Ettore trafisse Eionèo con l’asta di faggio,
al collo, sotto l’elmo di bronzo, e le membra si sciolsero.
Glauco, figlio di Ippòloco, dei Lici condottiero,
colpì con l’asta Ifìnoo nel combattimento supremo,
figlio di Dessio, alla spalla: lui balzava sopra il carro
delle veloci cavalle: cadde a terra, e le membra si sciolsero.
Come li vide Atena, la dea dagli occhi lucenti,
sterminare gli Argivi nel combattimento supremo,
giù dalle vette d’Olimpo discese con un balzo
verso la sacra Ilio, e le venne incontro Apollo,
da Pergamo scorgendola: voleva vittoria ai Troiani.
Si incontrarono l’uno con l’altro presso la quercia.
Primo fu il figlio di Zeus, Apollo sovrano, a parlarle:
“Perché di nuovo, figlia del grande Zeus, bramosa,
sei giunta dall’Olimpo e ti ha spinto il grande cuore?
Forse per dare ai Dànai vittoria nello scontro,
a loro volta? Non provi pietà dei Troiani che muoiono.
Ma se mi darai retta, per te molto meglio sarebbe:
ora smettiamola con lo scontro e con la mischia,
oggi; poi in seguito combatteremo, sino a che un termine
per Ilio troveranno; perché così piacque nel cuore
di voi dee immortali, di abbattere questa rocca”.
E così gli rispose la dea Atena dagli occhi lucenti:
“E sia così, o Arciere: stessa cosa anch’io pensando,
dall’Olimpo sono giunta fra Troiani ed Achei.
Ma suvvia, come pensi di por fine al conflitto di eroi?”
E gli rispose il figlio di Zeus, Apollo sovrano:
“L’aspro furore di Ettore, domatore di cavalli,
suscitiamo, se provoca da solo a solo uno dei Dànai
a misurarsi a duello nello scontro furibondo;

126
e parimenti, turbati, gli Achei dalle belle gambiere
spingano uno soltanto a scontrarsi con Ettore splendido”.
Disse, e gli diede ascolto la dea Atena dagli occhi lucenti:
Èleno figlio di Priamo allora comprese nel cuore
il progetto ch’era piaciuto agli dèi, previdenti;
stette vicino ad Ettore, e gli rivolse queste parole:
“Ettore figlio di Priamo, pari a Zeus quanto a saggezza,
in una cosa almeno dammi retta, a tuo fratello:
fa’ sedere tutti gli altri Troiani e tutti gli Achei,
e tu sfida a battaglia il migliore degli Achei,
a misurarsi a duello nello scontro furibondo.
Non è ancora il momento che tu segua il tuo destino:
questo ho sentito dagli dèi che vivono sempre”.
Disse così, e molto gioì Ettore udendo il discorso,
e, avanzando nel mezzo, tratteneva le schiere troiane,
impugnando a mezzo la lancia. Ristettero tutti.
Fece sedere Agamemnon gli Achei dalle belle gambiere,
e anche Atena e anche Apollo arco d’argento
sedettero, sembrando due uccelli, due avvoltoi,
sulla sublime quercia di Zeus che porta l’ègida,
godendo degli umani; sedevano fitte le file:
tutte di scudi, tutte di elmi, di lance fremevano.
Come sul mare il fremito di Zefiro si riversa,
appena sorto, e il mare sotto il soffio si incupisce,
tali le file sedevano degli Achei e dei Troiani
nella pianura. Ed Ettore così parlò ad entrambi:
“Ascoltate, Troiani ed Achei dalle belle gambiere,
perch’io vi dica ciò che nel petto il cuore mi spinge.
Non ha compiuto i patti il Cronìde che sta in alto,
ma, meditando sciagure, pone un termine alle parti:
o che prendiate Troia belle torri voi Achei,
o che voi siate domati presso le navi che solcano il mare.
Sono tra voi presenti i migliori di tutti gli Achei,
e fra costoro chi è spinto dal cuore a scontrarsi con me,

127
qui si presenti fra tutti il primo per Ettore splendido.
Questa è la mia proposta, e Zeus ci sia testimone:
se costui mi ucciderà col bronzo affilato,
mi spogli delle armi, le porti alle concave navi,
e il mio corpo lo restituisca, perché col fuoco
i Troiani e le spose troiane mi onorino, morto.
Se sarò io ad ucciderlo, e mi darà questo vanto Apollo,
lo spoglierò delle armi, le porterò a Ilio sacra,
e nel tempio le appenderò di Apollo arciere.
Ma ridarò la salma alle navi buoni scalmi,
perché la seppelliscano gli Achei dai lunghi capelli,
e le innalzino un tumulo sullo spazioso Ellesponto.
E qualcuno dirà degli uomini che verranno,
navigando per nave molti banchi sul mare vinoso:
“Questo è il sepolcro di un uomo da lungo tempo defunto,
che un dì, da prode battendosi, fu ucciso da Ettore splendido”.
Così dirà qualcuno, e la mia gloria mai perirà”.
Disse così, e tutti se ne stavano muti, in silenzio,
di dire no vergognandosi e temendo di accettare;
alla fine Menelao si alzò e così disse,
aspramente attaccandoli, e molto gemeva il suo cuore:
“Ahimè cialtroni fanfaroni, Achee non Achei!
Questa davvero sarà l’infamia più tremenda,
se nessuno dei Dànai vorrà con Ettore battersi!
Oh se poteste tutti diventare terra ed acqua,
tutti seduti, ciascuno così, senza onore né gloria!
Sì, mi armerò proprio io contro lui, giacché i confini
della vittoria stanno lassù, fra gli dèi immortali”.
Disse così, e si rivestì delle armi bellissime.
E, Menelao, qui apparve la fine della tua vita
sotto i colpi di Ettore, perché era di molto più forte,
se, balzando, non ti fermavano i re degli Achei,
e lo stesso Atride, il più che possente Agamemnon:
lo prese per la mano, gli rivolse parola, gli disse:

128
“Sei pazzo, Menelao nutrito da Zeus; non ti spetta
una pazzia del genere; trattieniti, pur angosciato,
non volere affrontare in duello uno più forte,
Ettore, il figlio di Priamo, che tutti gli altri temono.
Persino Achille ha paura, nella mischia che esalta i forti,
di scontrarsi con lui, dico Achille, di te ben migliore.
Torna perciò a sedere col gruppo dei compagni:
altro campione contro costui manderanno gli Achei.
Anche se è impavido e giammai sazio di combattere,
dico che ben volentieri poserà le sue ginocchia,
se sfuggirà alla lotta e allo scontro furibondo”.
Disse, e l’eroe dissuase la mente del fratello:
giusto consiglio aveva dato. E obbedì. Allora lieti
gli scudieri gli tolsero le armi dalle spalle.
Ed alzatosi, Nestore così parlò agli Argivi:
“Grande sciagura colpisce la terra degli Achei!
Ah molto piangerebbe il vecchio Pèleo cavaliere,
dei Mirmìdoni valido consigliere e parlatore,
che un dì molto gioiva a chiedermi in casa sua
la progenie e la discendenza di tutti gli Argivi.
Se ora udisse che tutti si acquattano di fronte a Ettore,
molto le mani tenderebbe agli immortali
che la sua anima lasciasse le membra e scendesse nell’Ade.
Padre Zeus e Atena e Apollo, oh fossi giovane
com’ero, quando presso il Celadonte veloce i Pilii
combattevano in blocco e gli Arcadi guerrieri,
sotto le mura di Feia, lungo il flusso dello Iàrdano!
Ereutalìon allora primeggiava, pari a un dio,
che aveva sulle spalle le armi di Arèitoo sovrano,
dello splendido Arèitoo, che chiamavano “Armato di mazza”,
tanto gli uomini quanto le donne bella cintura,
perché non combatteva né con frecce né con lunga lancia,
ma rompeva le file nemiche con mazza d’acciaio.
Ma lo uccise Licurgo con l’inganno, e non con la forza,

129
in una strada stretta, ove la mazza, pur d’acciaio,
non gli valse a evitargli la morte; lo prevenne Licurgo,
con l’asta trapassandolo, e lui cadde riverso per terra.
Poi lo spogliò delle armi, che gli diede il bronzeo Ares,
armi che poi lui stesso portava nella mischia.
Ma quando ormai Licurgo invecchiava nella casa,
le diede a Ereutalìon, lo scudiero, da portarle:
proprio con queste armi lui sfidava tutti i migliori.
Essi tremavano e temevano, nessuno osava.
Ma me il mio cuore spinse intrepido a combattere
con ardimento, eppure ero il più giovane di tutti.
Eppure lo affrontai, e mi concesse il vanto Atena,
e così uccisi l’uomo che era il più grande ed il più forte,
un pezzo d’uomo: giaceva smisurato, da qua sino a là.
Oh fossi ancora giovane e il vigore fosse intatto!
Subito me sfiderebbe Ettore elmo che splende!
Ma sono in mezzo a voi i migliori di tutti gli Achei,
e non avete il coraggio di accettare la sfida di Ettore”.
Li rampognava così il vegliardo, e si alzarono in nove.
E per primo si alzò il sovrano di eroi Agamemnon,
dopo di lui il figlio di Tìdeo, il possente Diomede,
e dopo i due Aianti, rivestiti di ardente vigore,
subito dopo Idomèneo, e lo scudiero di Idomèneo,
Merìone, ch’era simile a Enialio sterminatore;
e poi ancora Eurìpilo, lo splendido figlio di Evèmon,
e Toante di Andrèmone, e infine lo splendido Odìsseo:
tutti costoro volevano battersi con Ettore splendido.
Nestore, cavaliere Gerenio, così disse:
“Procedete adesso al sorteggio, a chi toccherà;
avvantaggerà gli Achei dalle belle gambiere,
ma avvantaggerà il proprio cuore, se sfuggirà
al tremendo confronto e allo scontro furibondo”.
Disse così, e ciascuno segnò la propria sorte,
e nell’elmo dell’Atride Agamemnon le gettarono.

130
E pregava l’esercito, levando le mani agli dèi,
e qualcuno diceva, guardando all’ampio cielo:
“Padre Zeus, oh possa essere estratto Aiante,
o il Tidìde, o lo stesso re di Micene dorata!”.
Così dicevano, e Nestore, il Gerenio cavaliere,
l’elmo scuoteva, e la sorte balzò che tutti volevano,
quella di Aiante; un araldo, portandola per l’esercito,
da destra la mostrava a tutti i capi degli Achei.
E, non riconoscendola ciascuno, la negava;
ma appena giunto, portandola in giro, a chi l’aveva,
segnatala, nell’elmo gettata, Aiante splendido,
la mano lui distese, e l’araldo si accostò,
ve la depose, e l’altro, riconosciuto il segno,
si rallegrò, ai suoi piedi la gettò a terra e così disse:
“Cari, davvero è la mia sorte, e mi compiaccio,
perché io credo che vincerò lo splendido Ettore.
Ma suvvia, finché io mi vesta delle armi da guerra,
voi supplicate il figlio di Crono, Zeus sovrano,
in silenzio tra voi, che i Troiani non lo sappiano,
oppure apertamente, non temiamo nessuno. E nessuno
mi metterà con la forza in fuga, se non voglio,
né con l’astuzia; perché non penso davvero di essere
nato e cresciuto a Salamina tanto sciocco”.
Disse, e quelli pregavano Zeus Cronìde sovrano,
e qualcuno diceva, guardando all’ampio cielo:
“Padre Zeus che regni dall’Ida, glorioso grandissimo,
dà la vittoria ad Aiante, e che riporti splendido vanto;
ma se Ettore prediligi e ti curi di lui,
pari ad entrambi concedi forza, concedi onore!”

131
Così dicevano, e Aiante si vestiva del bronzo che acceca.
E appena delle armi ebbe il corpo rivestito,
si mosse simile a come procede l'immenso Ares,
quando si avvia alla guerra degli uomini, che il Cronìde
spinge a scontrarsi nel furore della rissa che annienta.
Tale l'immenso Aiante, baluardo degli Achei,
sogghignando nell'aspetto feroce, a grandi falcate
procedeva, squassando la lancia lunga ombra.
Nel vederlo così, gioirono gli Argivi;
tremito invece invase le membra di tutti i Troiani,
e allo stesso Ettore sussultò il cuore nel petto:
non poteva né ritirarsi oramai né celarsi
nelle file dei suoi, perché aveva lanciato la sfida.
Aias gli venne vicino con lo scudo simile a torre,
bronzeo, a sette strati, che gli aveva fatto Tichio,
il migliore dei tagliatori di cuoio, di Ile;
e gli fece uno scudo lucente, a sette strati,
cuoio di tori robusti, con ottava una piastra di bronzo.
Aiante Telamonio, davanti al petto portandolo,
si fermò accanto ad Ettore e gli disse in tono di sfida:
"Ettore, ora saprai chiaramente da solo a solo
quali guerrieri ci sono campioni in mezzo ai Dànai,
anche dopo Achille spietato dal cuor di leone.
Lui rimane presso le navi che solcano il mare,
incollerito con Agamemnon, pastore di popoli.
Ma ci siamo anche noi capaci di affrontarti,
e in gran numero, e tu da' pure inizio allo scontro".
E gli rispose il grande Ettore, elmo che splende:
"Aiante Telamonio, nato da Zeus, condottiero di popoli,
non mi tentare come se fossi un bambino spaurito
o una donna ignara delle opere di guerra!
Bene conosco le battaglie e le carneficine

132
e so da destra e da sinistra agitare la pelle
disseccata che mi protegge dalla zuffa;
so aizzare allo scontro che geme le cavalle veloci,
e condurre la danza crudele per Ares guerriero.
Ma uno fatto come te non voglio colpirlo
di sorpresa, ma apertamente, se ci riesco".
Disse, e scagliò, palleggiando, la lancia lunga ombra,
e colpì lo scudo tremendo a sette strati
sino all'ottavo strato, la parte estrema di bronzo.
Per sei strati avanzò la punta che non si consuma,
sul settimo ristette dello scudo. Allora secondo
Aias nato da Zeus scagliò l’asta lunga ombra,
e colpì lo scudo rotondo del figlio di Priamo.
L’asta pesante attraversò lo scudo lucente
e rimase infissa nella corazza ben lavorata,
e lungo il fianco diritta lacerò in parte la tunica.
Lui si chinò e schivò il nero destino di morte.
Ambedue strapparono le lunghe lance con le mani,
e simili a leoni che mangiano carne cruda,
o a cinghiali indomabili, l'uno sull'altro si scagliarono.
Il Priàmide colpì con la lancia lo scudo nel mezzo,
ma l'arma non passò, la punta rimase piegata.
Aias balzò e lo scudo colpì. Da parte a parte
l'arma passò, e così ferì lui che bramava lo scontro.
Gli produsse un taglio al collo, sgorgò nero sangue.
Pure non desistette Ettore elmo che splende:
fattosi indietro, prese una pietra con la mano possente,
che giaceva per terra, grandissima ruvida nera,
e con essa colpì lo scudo convesso di Aiante
a sette strati, nel mezzo. Rimbombò la lastra di bronzo.
Aias, secondo, una pietra ben più grande sollevò,
e la scagliò roteandola e imprimendole forza immensa.
Simile a pietra di macina, gli sfondò lo scudo colpito,
lo piegò alle ginocchia, e lui cadde indietro riverso,

133
schiacciato dallo scudo. Ma Apollo lo alzò subito.
E si sarebbero affrontati con le spade,
se gli araldi, messaggeri di Zeus e degli uomini,
non fossero arrivati, dei Troiani e degli Achei,
primo Taltibio e secondo Idèo, entrambi saggi.
Posero il loro scettro in mezzo ad entrambi, e Idèo,
l'araldo, così disse, esprimendo profondi pensieri:
"Figli cari, non combattete né lottate.
Tutti e due predilige Zeus che aduna le nubi,
tutti e due valorosi, e noi tutti ne siamo convinti.
Ma giunge ormai la notte ed è giusto obbedire alla notte".
E così gli rispose Aiante Telamonio:
"Questo dovete, Idèo, farlo dire proprio ad Ettore,
è lui che tutti i migliori ha sfidato a confrontarsi.
Lui dia inizio, ed io obbedirò, gli verrò dietro."
E gli rispose il grande Ettore elmo che splende:
"Aias, poiché ti ha dato il dio grandezza e forza
e ponderatezza, e sei il più forte degli Achei,
ora cessiamo dalla lotta e dalla zuffa
per quest'oggi. Poi ci batteremo, sino a che un dio
ci separerà, dando all'uno o all'altro vittoria.
Ma giunge ormai la notte ed è giusto obbedire alla notte.
Tutti gli Achei tu rinfrancherai, tornando alle navi,
soprattutto gli amici e i compagni, quanti ne hai;
io tornerò alla rocca del grande Priamo sovrano
a rinfrancare i Troiani e le Troiane lunghissimi pepli,
che entreranno nel sacro consesso a pregare per me.
Splendidi doni tra noi due adesso scambiamoci,
sì che qualcuno possa dire fra Achei e Troiani:
"Hanno sostenuto uno scontro annientatore,
ma si sono lasciati in accordo e in amicizia."
Detto così, gli diede una spada con borchie d'argento,
con il fodero e con la cinghia ben modellata.
Aias una cintura gli diede splendente di porpora.

134
Si separarono, l’uno nella schiera degli Achei,
l’altro nel gruppo dei Troiani, che gioirono,
come lo videro vivo ed illeso ritornare,
al furore di Aiante scampato e alle mani invincibili.
E in città lo condussero, non credevano che fosse salvo.
Dall’altra parte Aiante, lieto per la vittoria, portarono
presso Agamemnon splendido gli Achei dalle belle gambiere.
E come furono nella tenda del figlio di Àtreo,
per loro un bue immolò il sovrano di eroi Agamemnon,
maschio, di cinque anni, al Cronìde immensa forza.
Lo scuoiarono, vi si applicarono, lo squartarono,
lo sminuzzarono ammodo, lo infilarono negli spiedi,
perfettamente lo abbrustolirono, poi tolsero tutto.
Così, compiuta l’opera e preparato il banchetto,
mangiarono, né alcuno mancò della giusta porzione.
Ma l’Atride eroe, il più che possente Agamemnon
con la schiena intera del bue onorò Aiante.
E come di bevanda e di cibo furono sazi,
diede inizio primissimo il vecchio a imbastire il pensiero,
Nestore: il piano di lui anche prima era parso il migliore.
E lui, con alto senno, così parlò, così disse:
“Figlio di Àtreo, e voi altri capi di tutti gli Achei,
già molti Achei dai lunghi capelli sono morti,
e il loro nero sangue nello Scamandro bel flusso ha versato
Ares violento, le anime sono già discese nell’Ade.
E perciò occorre che al sorgere dell’alba tu fermi la guerra,
e noi, riuniti, trasporteremo qui i cadaveri
coi buoi e coi muli; quindi daremo loro il rogo,
poco lontano dalle navi, che ognuno ai figli
porti a casa le ossa, quando torneremo in patria.
E intorno al rogo un tumulo eleveremo comune,
sulla pianura, e accanto innalzeremo subito
alti bastioni, a difesa delle navi e di noi stessi.
Dentro vi ricaveremo anche porte ben connesse,

135
in modo tale che attraverso di esse passino i carri.
E all’estremo vi scaveremo un profondo fossato,
che i cavalli e l’esercito trattenga tutto intorno,
se l’assalto dei superbi Troiani ci schiacci”.
Disse così, e tutti i re, d’accordo, acconsentirono.
Dei Troiani ci fu l’assemblea sulla rocca di Ilio,
terribile, agitata, accanto alla reggia di Priamo.
Prese a parlare tra loro Antenore pieno di senno:
“Ascoltate, o Troiani e Dardani e alleati,
perch’io vi dica ciò che nel petto il cuore mi spinge:
restituiamo Elena Argiva con tutti i suoi beni
agli Atridi, se la portino via; noi siamo in guerra
in violazione di patti fedeli, e non penso che avremo
maggior vantaggio, se non faremo come propongo”.
Come così ebbe detto, sedette. E si alzò in mezzo a loro
lo splendido Alessandro, di Elena belle chiome
lo sposo; e, replicando, alate parole diceva:
“Quello che dici, Antenore, non posso condividere.
Anche discorsi migliori sei buono a formulare,
ma se davvero questo è il discorso che proponi,
proprio gli dèi ti devono aver tolto il comprendonio.
Ai Troiani, domatori di cavalli, io mi rivolgo,
e dico chiaro e tondo: la donna non restituirò.
Ma le ricchezze, quante portai da Argo in casa mia,
sono disposto a ridarle e aggiungerne ancora del mio”.
Come così ebbe detto, sedette. E si alzò in mezzo a loro
Priamo figlio di Dardano, che pensava come un dio;
e lui, con alto senno, così parlò, così disse:
“Ascoltate, o Troiani e Dardani e alleati,
perch’io vi dica ciò che nel petto il cuore mi spinge:
consumate ora il pasto in città, come anche prima,
ma rammentatevi della guerra e ciascuno sia sveglio.
All’aurora si rechi Idèo alle concave navi,
per riferire agli Atridi, Agamemnon e Menelao,

136
la proposta di Alessandro, per cui sorse il conflitto.
E dica inoltre un’accorta parola, se sono disposti
a sospendere la guerra crudele, sin tanto che i morti
bruceremo; più tardi combatteremo, sino a che un demone
abbia deciso fra noi, dando all’uno o all’altro vittoria”.
Disse così, e l’ascoltarono e molto gli diedero retta,
e consumarono il pasto nel campo, divisi in drappelli.
Sorta l’aurora, Idèo se ne andò alle concave navi.
E i Dànai servitori di Ares trovò in assemblea,
nei pressi della nave di Agamemnon. E così loro,
stando nel mezzo, l’araldo, voce sonora, si rivolse:
“Figlio di Àtreo, e voi altri comandanti di tutti gli Achei,
Priamo mi dà ordine, e gli altri nobili Troiani,
di riferirvi, se a voi risulta cara e gradita
la proposta di Alessandro, per cui sorse il conflitto:
le ricchezze, quante Alessandro nella concava nave
a Troia si portò - ma che fosse morto prima! –,
egli è disposto a ridarle e ad aggiungerne ancora del suo;
ma la sposa legittima di Menelao glorioso,
dice che non la darà, pur spingendolo a questo i Troiani.
E anche di dire mi ordinarono, se siete disposti
a sospendere la guerra crudele, sin tanto che i morti
bruceremo; più tardi combatteremo, sino a che un demone
abbia deciso fra noi, dando all’uno o all’altro vittoria”.
Disse così, e tutti se ne stavano muti, in silenzio.
Parlò, alla fine, Diomede, possente nel grido di guerra:
“Ora nessuno accetti le ricchezze di Alessandro,
e neppure Elena: lo capisce anche un bambino,
che ormai i confini di morte incalzano i Troiani”.
Disse così, e acclamavano tutti i figli degli Achei,
d’accordo con Diomede, domatore di cavalli,
e così si rivolse a Idèo il possente Agamemnon:
“Idèo, tu stesso ascolti il discorso degli Achei,
cosa rispondono, ed io li approvo pienamente.

137
Non impedisco certo che i morti siano cremati,
non è ammissibile che ai trapassati, che ai defunti
non si conceda il conforto, appena scomparsi, del fuoco.
Teste del fatto sia Zeus, lo sposo tonante di Hera”.
Disse così, e sollevò lo scudo verso tutti gli dèi,
e indietro Idèo se ne ritornò verso Ilio sacra.
I Troiani e i Dardani sedevano in assemblea,
tutti insieme riuniti, aspettando che tornasse
Idèo. Che, alfine, giunse e riferì il messaggio,
stando nel mezzo, ed essi tutti si separarono
in due gruppi, a raccogliere i morti e a fare legna.
Dall'altra parte gli Argivi, dalle navi buoni scalmi,
raccoglievano in fretta i morti e facevano legna.
Sorto da poco, il sole illuminava i campi,
dall'Oceano, correnti profonde e imperturbabili,
verso il cielo salendo. E fra loro si incontravano.
Era difficile là riconoscere ciascun uomo,
ma nettando con acqua il sangue raggrumato,
versando calde lacrime, li ammassavano sui carri.
Ma il grande Priamo non concesse il pianto: in silenzio,
col cuore afflitto, posero i corpi sopra i roghi,
e, dopo averli bruciati, tornarono ad Ilio sacra.
Così dall'altra parte gli Achei dalle belle gambiere,
col cuore afflitto, posero i corpi sopra i roghi,
e, dopo averli bruciati, alle concave navi tornarono.
Sorta non era l'Aurora, ma si andava schiarendo la notte,
quando intorno alla pira si riunì scelto gruppo di Achei,
e intorno ad essa elevarono un tumulo comune,
sulla pianura, e, ad esso accanto, innalzarono un muro
con alte torri, a difesa delle navi e di se stessi.
Vi ricavarono dentro anche porte ben connesse,
per modo che attraverso di esse passassero i carri.
All'estremo scavarono inoltre un profondo fossato,
vasto e di grande ampiezza, e vi piantarono pali.

138
Così gli Achei dai lunghi capelli si affaticavano.
E, seduti accanto a Zeus fulminatore,
gli dèi guardavano l'opera degli Achei tunicati di bronzo.
E prese la parola Posidone Scuotiterra:
"Padre Zeus, c'è più fra i mortali sulla terra infinita
uno che sveli intenzioni e pensiero agli immortali?
Non vedi adesso come gli Achei dai lunghi capelli
hanno elevato un muro per le navi, e intorno una fossa
hanno scavato, né offrono agli dèi elette ecatombi?
La sua fama andrà sino a dove si estende l'Aurora,
e si scorderanno del muro che io e Febo Apollo
edificammo con gran sforzo per l'eroe Laomedonte."
E a lui, molto turbato, rispose Zeus che aduna le nubi:
"Ah Scuotiterra vasto potere, cosa hai detto!
Un altro dio potrebbe nutrire questo timore,
un dio inferiore a te per forza e per potenza.
Ma la tua fama andrà sino a dove si estende l'Aurora.
Sfàscialo il muro, allorché gli Achei dai lunghi capelli
se ne saranno tornati nella cara patria per nave;
e, abbattuto, riversalo interamente in mare,
e nuovamente il grande litorale ricopri di sabbia.
E sia così spianato il grande muro degli Achei."
Parlavano così tra di loro, l’un l’altro alternandosi,
e tramontò, e già l’opera degli Achei era compiuta,
e buoi immolarono accanto alle tende e banchettarono.
Navi da Lemno giunsero, che trasportavano vino,
molte, e le mandava Eunèo, il figlio di Iason,
che partorì Ipsìpile a Iason pastore di popoli.
Solo ai figli di Àtreo, Agamemnon e Menelao,
mille misure di vino donava il figlio di Iason.
Ma da lui lo compravano gli Achei dai lunghi capelli,
chi con il bronzo, chi con il ferro che risplende,
chi con pelli di vacca, chi con le stesse vacche,
e chi con schiavi. E prepararono un ricco banchetto.

139
Tutta la notte dunque gli Achei dai lunghi capelli
banchettarono, e i Troiani e gli alleati in città.
E tutta notte sventure meditava Zeus mente accorta,
terribilmente tuonando. Li prendeva un verde terrore,
il vino dalle coppe versavano a terra, nessuno
osava bere prima di aver libato al possente Cronìde.
Si coricarono alfine e carpirono il dono del sonno.

140
LIBRO VIII

La battaglia interrotta

Sorta l’aurora, Zeus convoca l’assemblea degli dèi, nel corso della quale vieta loro,
con vere e proprie minacce, di assistere l’una o l’altra parte del conflitto. Detto ciò,
col carro tirato dai cavalli divini, si reca sul monte Ida, da cui assisterà allo scontro.
In realtà il dio è derterminato a mettere in atto la promerssa fatta a Teti, cioè la
rotta degli Achei. A tal fine scaglia un fulmine, che getta il panico su di essi. Tutti
fuggono, tranne il vecchio Nestore, di cui Paride ha colpito con un una freccia un
cavallo. Viene perciò soccorso e messo in salvo da Diomede. Il conflitto si
riaccende, con evidente superiorità dei Troiani, secondo il piano di Zeus.
Preoccupata per la sorte degli Achei, Hera chiede soccorso a Posidone, il quale
però si rifiuta di opporsi al volere di Zeus. La dea allora si rivolge ad Atena, la quale
accetta volentieri. Le due dee si preparano di tutto punto alla lotta, a fianco degli
Achei. Ma Zeus le scorge dall’Ida, e invia Iris, perché intimi loro di desistere dal
proposito. Esse tornano sull’Olimpo, e Zeus, anche lui tornato, le rimprovera
entrambe: ne sorge una animata discussione. Nel frattempo il sole tramonta, e i
Troiani, vincitori sul campo, procedono a un vero e proprio bivacco, preceduto da
un discorso di Ettore. Cala la notte: ardono i fuochi nel campo troiano, mentre gli
Achei sono sgomenti.

Peplo di croco Aurora si spandeva per tutta la terra;


e indisse Zeus, che gode del fulmine, l’assemblea degli dèi
sopra la cima più alta dell’Olimpo dai molti dirupi.
Parlava proprio lui, e tutti gli dèi ascoltavano:
“Ascoltatemi, o voi dèi tutti e voi dee tutte,
perch’io vi dica ciò che nel petto il cuore mi spinge.
Dunque, né femmina alcuna dea né maschio alcun dio
osi la mia parola trascurare, ma tutti approvatela,
sino a ch’io possa al più presto porre fine a questa faccenda.
Chi scoverò, in disparte dagli altri dèi, disposto
a venire in soccorso dei Troiani e degli Achei,

141
ritornerà in Olimpo non proprio in buon arnese;
o, agguantatolo, lo scaglierò nel buio Tartaro,
molto lontano, dov’è della terra l’abisso più fondo -
là ci sono le porte di ferro e la soglia di bronzo -,
tanto distante dall’Ade quanto il cielo dalla terra;
e saprà allora che sono il più forte degli dèi.
Forza, o dèi, fate pure la prova, perché tutti sappiate;
aurea corda fate pendere giù dal cielo,
e attaccatevi ad essa tutti quanti, dèi e dee:
non riuscirete a tirare giù dal cielo sino a terra
Zeus, reggitore supremo, nonostante tutti gli sforzi.
Viceversa, se io mi proponessi di tirare,
vi tirerei assieme alla terra e assieme al mare;
e legherei la corda a una vetta dell’Olimpo,
e rimarrebbe in questo modo ogni cosa sospesa.
A tal punto io sono al di sopra di dèi e di uomini”.
Disse così, e tutti se ne stavano muti, in silenzio,
dal suo discorso turbati. Aveva parlato con forza.
Alla fine intervenne la dea Atena dagli occhi lucenti:
“O padre nostro Cronìde, sovrano fra tutti i potenti,
anche noi lo sappiamo che la tua forza è senza pari,
e tuttavia dei Dànai guerrieri abbiamo pietà,
che debbano morire compiendo il loro destino.
Noi dallo scontro ci asterremo, come tu ordini,
ma agli Argivi daremo consigli, che li aiutino,
perché non muoiano tutti, sopraffatti dal tuo sdegno”.
E, sorridendo, gli disse Zeus che aduna le nubi:
“Tritogenìa, creatura, coraggio, non ho parlato
sinceramente e voglio con te rivelarmi gentile”.
Disse; e aggiogava al carro due cavalli bronzei zoccoli,
celeri al volo, di criniera d’oro chiomati;
d’oro anche lui si rivestì, e prese la frusta
d’oro, ben lavorata, e salì sopra il suo cocchio;
poi frustò i cavalli che partissero, ed essi volarono,

142
nello spazio intermedio fra la terra e il cielo stellato.
E giunse all’Ida molte sorgenti, madre di belve,
al Gàrgaro, dov’è il suo santuario e l’ara fumante.
Quivi fermò i cavalli il padre di uomini e dèi,
e, scioltili dal carro, li avvolse in fitta nebbia,
e sulla vetta lui stesso sedette, esultante di gloria,
la città dei Troiani e le navi degli Achei guardando.
Consumavano il pasto gli Achei dai lunghi capelli,
dentro le tende, in fretta, e subito dopo si armarono.
Dall’altra parte, in città, si armavano pure i Troiani,
inferiori di numero, ma bramosi di scontrarsi,
perché costretti dal bisogno, per i figli e le mogli.
Tutte le porte si aprirono, e dilagò fuori l’armata,
e fanti e cavalieri: era sorto un grande tumulto.
E quando giunsero in un unico punto, venendosi incontro,
cozzarono gli scudi, le lance, l’ardore degli uomini,
corazzati di bronzo, e gli scudi ombelicati
l’uno con l’altro si urtarono: era sorto un grande tumulto.
C’erano insieme lamenti e gridi di esultanza,
di uccisori e di uccisi, di sangue grondava la terra.
Sino a che dall’aurora cresceva il sacro giorno,
d’ambo le parti fioccavano i dardi e cadevano gli uomini;
ma quando il sole giunse alla metà del cielo,
ecco che allora il padre distese l’aurea bilancia,
vi mise sopra le sorti di morte crudele: Troiani,
domatori di cavalli, e Achei tunicati di bronzo.
La prese al centro, alzandola: inclinò degli Achei il dì fatale.
Le Chere degli Achei sulla terra nutrice di molti
scesero, e dei Troiani salirono all’ampio cielo.
Forte lui stesso dall’Ida tuonò, e lampante folgore
sull’armata scagliò degli Achei; ed essi, al vederla,
sbigottirono, e tutti li prese un verde terrore.
E allora né Idomèneo osò resistere né Agamemnon,
né resistettero i due Aianti, servitori di Ares.

143
Solo restava il guardiano degli Achei, il Gerenio Nestore,
ma controvoglia: un cavallo era ferito, trafitto da freccia
di Alessandro splendido, di Elena bella chioma
lo sposo, sulla fronte, dove primi dei cavalli
crescono i peli sul cranio, ed è il punto fatale. Al dolore
sobbalzò, nel cervello era penetrato il dardo,
e torcendosi intorno allo strale, scompigliò i cavalli.
E mentre il vecchio tagliava del cavallo i finimenti
in fretta con la spada, i veloci corsieri di Ettore
giunsero nella ressa portando l’ardito cocchiere,
Ettore; e allora il vecchio davvero ci rimetteva
la vita, se Diomede, possente nel grido di guerra,
non lo notava: terribile urlò, e Odìsseo incitava:
“Laertìade divino, Odìsseo ricco di astuzie,
dove, voltando le spalle, fuggi simile a un vile nel mucchio?
Bada che, mentre scappi, non ti piantino un’asta alla schiena.
Fèrmati, e il vecchio difendiamo dall’uomo selvaggio!”
Disse, ma non lo sentì il paziente splendido Odìsseo,
ma corse, deviando, degli Achei alle concave navi.
Il Tidìde, pur da solo, affrontò i primi ranghi,
e si fermò vicino ai cavalli del vecchio Nelèide,
e, rivolgendosi a lui, alate parole diceva:
“Molto, vegliardo, ti opprimono i giovani guerrieri,
la tua forza svanisce, adesso vecchiaia ti coglie;
debole è il tuo scudiero, i cavalli sono lenti.
Ma prontamente sali sul mio carro, perché tu veda
come i cavalli di Troo sono buoni per la pianura
rapidi ad inseguire o a fuggire, di qua e di là,
i cavalli che ho tolto ad Enea, datori di panico.
Gli scudieri si occuperanno dei tuoi; questi due
noi due contro i Troiani spingeremo, sino a che Ettore
sappia che anche nelle mie mani infuria la lancia”.
Disse, e gli diede ascolto il Gerenio cavaliere:
dei cavalli di Nestore si occupassero gli scudieri

144
validi, Stènelo e poi Eurimedonte ardito.
Ed ambedue salirono sul carro di Diomede,
e prese Nestore nelle mani le redini splendide,
frustò i cavalli, e furono subito accanto ad Ettore.
Su lui che si avventava scagliò l’asta il figlio di Tìdeo,
ma lo mancò, e al suo posto colpì lo scudiero, l’auriga,
Eniopèo, ch’era figlio del valoroso Tebèo:
lui che reggeva le redini colse al petto, alla mammella;
precipitò dal carro, arretrarono i cavalli
rapidi, a lui la vita e il vigore si disciolsero.
Morso fu Ettore da atroce dolore per l’auriga,
ma, pur afflitto per il compagno, lo lasciò
giacere, e andò a cercare altro auriga valente; non molto
i due cavalli restarono senza guida, ma trovò
subito il figlio di Ífito, Archeptòlemo, lo fece salire
sopra il carro veloci cavalli, e gli diede le redini.
Sarebbe stata rovina e ventura irreparabile,
e come agnelli sarebbero rimasti chiusi in Ilio,
se non lo avesse notato il padre di uomini e dèi:
fece tuonare e scagliò tremenda e ardente una folgore,
che cadde al suolo davanti ai cavalli di Diomede:
fiamma tremenda scaturì di zolfo bruciato,
e i due cavalli, atterriti, si acquattarono sotto il carro,
e dalle mani di Nestore sfuggirono le redini splendide.
Ebbe paura in cuore, e così parlò a Diomede:
“Figlio di Tìdeo, suvvia, fa’ fuggire i cavalli unghie solide.
Non vedi che la forza di Zeus non ci è propizia?
Quest’oggi Zeus Cronìde concede gloria a costui,
ma poi domani a noi la darà, se così vuole:
uomo non c’è che sia tale da sviare la mente di Zeus,
per quanto forte egli sia, essa è molto più potente”.
E gli rispose Diomede, possente nel grido di guerra:
“Vecchio, davvero hai detto ogni cosa secondo che è giusto,
ma dolore tremendo mi giunse all’animo al cuore;

145
Ettore un giorno dirà, parlando in mezzo ai Troiani:
“Giunse una volta il Tidìde, da me spaventato, alle navi”.
Così si vanterà, e mi si spalanchi l’ampia terra”.
Nestore, di rimando, cavaliere Gerenio, rispose:
“Ahimè, figlio di Tìdeo valoroso, cos’hai detto!
Se dirà Ettore che sei vile e senza forza,
né i Troiani né i Dardani gli presteranno ascolto,
né le troiane spose dei magnanimi guerrieri,
delle quali hai gettato nella polvere i floridi sposi”.
Detto così, volse in fuga i cavalli solidi zoccoli,
indietro nella mischia; e i Troiani assieme ad Ettore
dardi luttuosi riversavano con immenso clamore.
Forte allora gridò il grande Ettore elmo che splende:
“ Molto, Tidìde, i Dànai, svelti puledri, ti onoravano,
col primo posto, e poi con carni e con coppe ripiene.
Ora ti disprezzeranno: sei diventato donna!
Vattene, sciocca bamboletta! Non cederò,
e tu non scalerai le nostre torri, né le donne
ti porterai nelle navi: ti darò prima la morte”.
Disse così, e il Tidìde in due direzioni ondeggiò,
se rigirare i cavalli o affrontarlo corpo a corpo.
Per tre volte ondeggiò nell’animo e nel cuore,
per tre volte dal monte Idèo tuonò Zeus mente accorta,
dando la prova ai Troiani di vittoria decisiva.
Ettore allora così disse ai Troiani, gridando a gran voce:
“O Troiani e Lici e Dardani guerrieri,
siate uomini, amici, rammentate l’ardente vigore.
So che il Cronìde benevolo col suo cenno dà vittoria
e grande gloria a me, e ai Dànai dà dolore.
Poveri sciocchi, questa muraglia hanno escogitato,
debole, inconsistente, che non frenerà il mio furore:
agevolmente oltrepasseranno i cavalli il fossato.
Ma non appena alle concave navi sarò giunto,
ci si rammenti tutti del fuoco annientatore,

146
e che alle navi io appicchi il fuoco, e accanto ad esse
proprio gli Argivi io uccida, dal fumo soffocati”.
Disse così, e parlò e si rivolse ai suoi cavalli:
“Sauro, e tu Piedecèlere, e Ardente e Lampo splendido,
rimuneratemi adesso delle cure che moltissime
Andromaca, la figlia del magnanimo Eetiòne,
vi ha prodigato per primi, dando a voi delizioso frumento,
e mescolandovi vino da bere, se il cuore la spinge,
più che a me stesso, che pure mi vanto suo sposo fiorente.
Ma fare presto, affrettatevi, che prendiamo lo scudo di Nestore,
la cui fama giunge al cielo, cioè di essere
d’oro massiccio, comprese le sbarre; e dalle spalle
stacchiamo di Diomede domatore di cavalli
la variopinta corazza, eletta fatica di Efesto.
Se li prendiamo entrambi, c’è speranza che gli Achei
stanotte stessa saliranno sulle celeri navi”.
Disse così vantandosi, e si indignò Hera sovrana,
e si agitò sul trono, e scosse il vasto Olimpo.
E così si rivolse a Posidone, grande dio:
“Ah Scuotiterra, vasta potenza, per davvero
il tuo cuore non si commuove ai Dànai che muoiono?
Eppure a Èlice e ad Aigài ti portano doni
numerosi e graditi, e tu volevi la loro vittoria.
Se tutti noi lo volessimo, quanti i Dànai sosteniamo,
respingere i Troiani ed opporci a Zeus voce possente,
lui, contrariato, da solo rimarrebbe a sedere sull’Ida”.
E a lei, molto turbato, il possente Scuotiterra:
“Ah Hera linguacciuta, che cosa hai detto mai!
Non vorrei che entrassimo mai con Zeus Cronìde
in conflitto noi altri dèi: è di molto più forte!”
Parlavano così fra di loro, l’un l’altro alternandosi;
e lo spazio tra il fosso e il torrione, al di là delle navi,
di carri si riempì, di cavalli, di guerrieri
incalzati, e li incalzava pari ad Ares violento

147
Ettore figlio di Priamo, poiché Zeus gli diede gloria.
E certamente incendiava le navi ben calibrate,
se non metteva nel cuore di Agamemnon Hera sovrana
di adoperarsi subito con affanno a spronare gli Achei.
Lungo le tende si mosse e le navi degli Achei,
grande mantello di porpora reggendo nella mano robusta,
e sulla nera nave smisurata di Odìsseo ristette,
che si trovava nel centro, per sentire da entrambe le parti,
sino alle tende di Aiante Telamonio, e a quelle di Achille-
essi agli estremi avevano le navi ben calibrate
tratte a secco, fidando nel valore e nelle braccia -,
e gridò forte, con voce potente, che sentissero i Dànai:
“ Vergogna, Argivi, uomini da niente, bellimbusti!
Dove trovare più i vanti, di credervi i migliori,
che vi ripetevate a vuoto un tempo a Lemno,
quando divoravate molte carni di buoi corna dritte
e crateri ricolmi di vino tracannavate,
che ciascuno avrebbe affrontato anche cento o duecento
Troiani, e adesso non siamo all’altezza di uno solo,
di Ettore, che presto brucerà le navi col fuoco?
Padre Zeus, hai forse mai fra i re potentissimi
accecato qualcuno, e gli hai tolto grande gloria?
Ma ti assicuro che mai il tuo bellissimo altare
ho trascurato, su nave molti banchi qui venendo
alla malora, ma grasso e cosce di buoi vi ho bruciato,
Troia belle mura bramando di distruggere.
Ma Zeus, adesso tu esaudisci il mio desiderio:
lascia che noi fuggiamo e ci mettiamo in salvo,
non consentire ai Troiani di distruggere gli Achei!”
Disse così, e si commosse il padre per lui che piangeva,
ed accennò che l’esercito si salvasse, non perisse;
e inviò subito un’aquila, sovrano fra gli alati,
con tra gli artigli un cerbiatto, creatura di rapida cerva,
e lo lasciò cadere sul bellissimo altare di Zeus,

148
dove gli Achei officiavano a Zeus di tutti i presagi.
Ed essi come videro che l’uccello da Zeus proveniva,
di più balzarono, bramosi di scontro, sui Troiani.
Ed allora nessuno dei Dànai, pur numerosi,
si vantò di aver lanciato i cavalli veloci
prima del figlio di Tìdeo, oltre il fosso, affrontando lo scontro;
ma fu il primo ad uccidere un Troiano munito di elmo,
Agelào di Fradmon, che in fuga volgeva i cavalli;
a lui che si era appena voltato piantò l’asta alla schiena,
nel mezzo, fra le spalle, e la spinse dentro al petto.
Precipitò dal carro, risuonò su di lui l’armatura.
Dopo, gli Atridi si mossero, Agamemnon e Menelao,
e dopo i due Aianti, rivestiti di ardente vigore,
subito dopo Idomèneo, e lo scudiero di Idomèneo,
Merìone, ch’era simile ad Enialio sterminatore;
e poi ancora Eurìpilo, lo splendido figlio di Evèmon.
Per nono giunse Teucro, che scuoteva l’arco ricurvo:
dietro lo scudo di Aiante Telamonio ristette;
ecco che Aiante scostava lo scudo: allora l’eroe
si guardava intorno, lanciava nella mischia
una freccia, e l’altro, cadendo, perdeva la vita;
ma lui tornava, come bimbo alla madre, e si accucciava
presso Aiante, che lo nascondeva con lo splendido scudo.
Chi Teucro irreprensibile primo uccise fra i Troiani?
Orsìloco per primo, e poi Òrmeno e Ofeleste,
Dètore e Cromio e Licofonte simile a un dio,
e Amopàone figlio di Polièmon, e Melanippo.
Tutti, uno a uno, li stese sulla terra nutrice di molti.
Vistolo, si rallegrò il sovrano di eroi Agamemnon,
che trucidava le schiere dei Troiani con l’arco possente;
si mosse, e gli fu accanto, e gli disse queste parole:
“Teucro, figlio di Telamone, capo di eserciti,
sì, colpisci così, che luce tu sia per i Dànai,
per Telamone tuo padre, che ti nutrì bambino,

149
e in casa sua ti tenne, pur essendo tu bastardo;
tu conferiscigli gloria, per quanto sia lontano.
Ma ti dirò una cosa, che sarà immancabilmente:
se Zeus che porta l’ègida e Atena mi daranno
di espugnare la rocca ben costruita di Ilio,
a te per primo dopo di me metterò in mano il premio:
tripode o coppia di cavalli assieme al carro,
oppure donna che sopra stesso letto con te salga”.
E, di rimando, Teucro irreprensibile gli diceva:
“Colmo di gloria Atride, perché me che già mi affretto
inciti? Sino a che c’è presente in me il vigore,
non smetterò, ma da quando li abbiamo ad Ilio ricacciati,
sto in agguato con l’arco e tolgo di mezzo guerrieri.
Otto frecce dalla punta sottile ho già lanciato,
tutte in corpo si sono piantate di giovani intrepidi.
Ma non riesco ancora a colpire quel cane rabbioso”.
Disse così, e altra freccia scoccava dalla corda
in direzione di Ettore, bramava colpirlo il suo cuore.
Ma lo mancò, e colpì Gorgotiòne irreprensibile,
nobile figlio di Priamo, nel petto con un dardo.
Lo aveva messo al mondo una donna sposata, da Èsima,
la bella Castianìra, somigliante alle dee nell’aspetto.
E come nel giardino china la testa da un lato un papavero,
perché gravato dal frutto o dalle piogge di primavera,
tale la testa, gravata dallo scudo, da un lato inclinò.
Teucro allora altra freccia scoccava dalla corda,
in direzione di Ettore, bramava colpirlo il suo cuore.
Ma sbagliò anche questa volta, fu Apollo a deviarla,
ma Archeptòlemo, il valente auriga di Ettore,
desideroso di guerra, colpì al petto, alla mammella;
precipitò dal carro, arretrarono i cavalli
rapidi, a lui la vita e il vigore si disciolsero.
Morso fu Ettore da atroce dolore per l’auriga,
ma, pur afflitto per il compagno, lo lasciò,

150
e ordinò a Cebrìone, il fratello, che gli era vicino,
di prendere le redini; lui, uditolo, gli obbedì.
E lui stesso a terra balzò dal carro splendente,
tremendamente urlando, e con la mano afferrò una pietra,
e mosse contro Teucro, bramava colpirlo il suo cuore.
Ma quello estrasse dalla faretra un dardo amaro,
lo mise sulla corda; ma Ettore elmo che splende,
mentre tirava alla spalla la corda, là dove divide
la clavicola il collo dal petto, ed è il punto fatale,
là lo colpì con la pietra spigolosa, mentre armeggiava;
spezzò la corda, la mano al polso si intorpidì,
e cadde a terra in ginocchio, gli scivolò l’arco di mano.
Non trascurò Aiante il fratello ch’era caduto,
ma corse e lo protesse e lo coprì con lo scudo,
e, sollevatolo due fedeli suoi compagni
sulle spalle, Meciste di Echio e lo splendido Alastor,
lo portarono che cupo gemeva alle concave navi.
E subito l’Olimpio suscitò nei Troiani furore;
essi al profondo fossato respinsero gli Achei.
Ettore andava fra i primi, superbo del suo vigore;
e come quando un cane si attacca da dietro a un cinghiale
o a un leone e con i piedi veloci lo insegue,
ai fianchi e ai glutei, e lo sorveglia se si rigira,
tale inseguiva Ettore gli Achei da lunghi capelli,
sempre uccidendo l’ultimo, e quelli intanto fuggivano.
E com’ebbero oltrepassato i pali e la fossa,
in fuga, e molti furono domati dai Troiani,
si arrestarono, rimanendo accanto alle navi,
e chiamandosi l’uno con l’altro, e a tutti gli dèi
le mani alzando, ognuno assai li supplicava.
Ettore intorno guidava i cavalli bella criniera,
con occhi di Gorgò e di Ares sterminatore.
Li vide e li compianse la dea braccia candide Hera,
e subito ad Atena alate parole diceva:

151
“Ahimè creatura di Zeus che porta l’ègida, non più
ci cureremo dell’ultimo istante dei Dànai che muoiono?
Che debbano morire compiendo il loro destino,
di un uomo solo all’assalto, dalla furia insopportabile,
Ettore figlio di Priamo, che ha già fatto tanto male?”
E così le rispose la dea Atena dagli occhi lucenti:
“Troppo vorrei che costui perdesse il vigore e la vita,
consunto dalle mani degli Argivi nella sua patria!
Mio padre infuria con pensieri non benevoli:
incontenibile, sempre spietato, che frena i miei slanci.
Non si ricorda quante volte ho messo in salvo
suo figlio tormentato dalle fatiche di Eurìsteo.
Lui piangeva guardando il cielo, e proprio me Zeus
inviava dal cielo perché lo soccorressi.
Se nel mio animo preveggente lo avessi saputo,
quando lo fece scendere giù nell’Ade porte serrate,
perché portasse di Ade detestato il cane dall’Èrebo,
alle correnti profonde di Stige non sfuggiva.
Adesso lui mi odia, mette in atto il piano di Teti:
un bacio alle ginocchia, e al mento una carezza,
con supplica di onorare Achille distruttore.
Ma presto mi ridirà: “Mia piccina Occhi Lucenti…”
Ora per noi prepara i cavalli solidi zoccoli,
sino a che nella reggia di Zeus che porta l’ègida
io entri ad indossare le armi da guerra, ch’io sappia
se al vederci apparire sul campo della guerra
Ettore elmo che splende, figlio di Priamo, gioirà,
o se qualche Troiano cani e uccelli sazierà
col grasso e con la carne presso le navi degli Achei”.
Disse così, e ubbidì la dea braccia candide Hera,
e se ne andò a preparare i cavalli dagli aurei frontali
Hera, la dea pregiatissima, del grande Crono progenie;
allora Atena, la figlia di Zeus che porta l’ègida,
disvestì il bel peplo nella casa di suo padre,

152
variopinto, che aveva di sua mano lavorato,
e la veste indossò di Zeus che aduna le nubi,
e rivestì le armi per la guerra lacrimosa.
Poi montò sul carro fiammeggiante, e afferrò la lancia
grande pesante massiccia. Doma con essa schiere di eroi
quando è adirata con loro, la figlia di padre possente.
Hera toccò prontamente i cavalli con la frusta:
da sé gemettero le porte del cielo, dalle Ore
guidate, cui è affidato il vasto cielo e l’Olimpo,
se sollevare o concentrare la fitta nebbia;
passarono per esse i cavalli pungolati.
Come Zeus padre le vide dall’Ida, si infuriò
terribilmente e a Iris ali d’oro affidò un messaggio:
“Va’, Iris rapida, falle tornare, non permettere
che mi compaiano innanzi; non è bella cosa azzuffarci.
Ma questo ti dirò, che sarà immancabilmente:
azzopperò i cavalli veloci al carro aggiogati,
le butterò giù dal cocchio e il carro spezzerò,
e nemmeno al compimento di dieci anni
dalle ferite guariranno inferte dal fulmine;
che impari Occhi Lucenti che significa opporsi a suo padre.
Non me la prendo altrettanto con Hera, non mi infurio:
sempre si oppone a quello che dico, lo fa per vezzo”.
Disse, e si mosse Iris procellosa ad annunziare,
e procedette dai monti dell’Ida al vasto Olimpo,
e sulla soglia dell’Olimpo dai molti anfratti
le incontrò e le trattenne, e riferì di Zeus il messaggio:
“Dove correte? Vi ammattisce il cuore nel petto?
Non vi consente il Cronìde di soccorrere gli Argivi,
e così vi minaccia il Cronide, e lo farà:
azzopperà i cavalli veloci al carro aggiogati,
vi butterà giù dal cocchio e il carro spezzerà,
e nemmeno al compimento di dieci anni
dalle ferite guarirete inferte dal fulmine;

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che impari Occhi Lucenti che significa opporsi a suo padre.
Non se la prende altrettanto con Hera, non si infuria:
sempre si oppone a quello che lui dice, lo fa per vezzo.
Tu però sei davvero tremenda, o cagna sfacciata,
se oserai sollevare davanti a Zeus la lancia possente”.
Detto così, se ne andò via la celere Iris;
Hera allora così ad Atena si rivolse:
“Ahimè creatura di Zeus che porta l’ègida, non più
voglio che combattiamo contro Zeus per i mortali.
Vada in rovina costui, e quest’altro resti in vita,
come a ciascuno capita. E lui mediti nel cuore,
sui Troiani e sui Dànai decida come gli pare”.
Disse così, e voltò i cavalli solidi zoccoli,
e sciolsero le Ore i cavalli bella criniera,
e li legarono accanto alle mangiatoie immortali,
e appoggiarono il carro alla parete rilucente.
Esse allora sui troni immortali si sedettero,
in mezzo agli altri dèi, angosciate dentro al cuore.
E il padre Zeus dall’Ida guidò il carro belle ruote
e i cavalli all’Olimpo, al consesso degli dèi.
E gli disciolse i cavalli l’illustre Scuotiterra,
ai sostegni il carro appoggiò, lo coprì con un velo.
E lui stesso, Zeus voce possente, su trono d’oro
sedette, e sotto ai piedi sussultava il vasto Olimpo.
E loro due soltanto, lungi da Zeus, Atena ed Hera
sedevano, non fiatavano, non gli chiedevano niente.
Lui se ne accorse nel suo cuore e così disse:
“Perché così siete angosciate, Atena ed Hera?
Non vi siete stancate nella mischia che esalta i forti
di ammazzare i Troiani, fieramente detestati?
Tali, comunque, sono il mio vigore e le mani invincibili,
che non mi piegherebbero tanti dèi quanti sono in Olimpo.
Tremito ha invaso però di voi due le splendide membra,
prima che voi vedeste la guerra, e gli orrori di guerra.

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Ma questo vi dirò, che doveva tutto compiersi:
sul vostro carro, colpito dalla folgore, mai sareste
in Olimpo tornate, che è la sede degli immortali”.
Disse così, e mormorarono Atena ed Hera; sedevano
l’un accanto all’altra, tramavano mali ai Troiani.
Atena stava muta, non fiatava, incollerita
col padre Zeus, selvaggia collera la possedeva.
Hera invece lo sdegno non trattenne nel petto e proruppe:
“Figlio di Crono tremendissimo, che mai dicesti?
Anche noi lo sappiamo che la tua forza è inoppugnabile,
e tuttavia dei guerrieri Dànai abbiamo pietà,
che debbano morire compiendo il loro destino.
Noi dallo scontro ci asterremo, come tu ordini,
ma agli Argivi daremo un consiglio, che li aiuti,
che non muoiano tutti, sopraffatti dal tuo sdegno”.
E, di rimando, le disse Zeus che aduna le nubi:
“All’aurora di più vedrai il supremo Cronìde,
Hera sovrana grandi occhi, se tu lo desideri,
degli Argivi guerrieri la grande armata distruggere.
Ettore impetuoso dalla guerra non desisterà
prima che accanto alle navi si ridesti Achille veloce,
il dì che presso le carene combatteranno
nel più tremendo strazio, intorno al morto Patroclo,
come è destino che accada. Ma io di te non mi curo,
della tua collera, pure se giungi ai termini estremi
della terra e del mare, dove stanno relegati
Iàpeto e Crono, né della luce né del sole
godono, né dei venti: attorno a loro è il fondo Tartaro.
Neanche se giungi errando laggiù, io di te non mi curo,
della tua rabbia, perché non c’è niente di te più cane”.
Disse così, ma Hera braccia candide nulla rispose.
Cadde sopra l'Oceano la fulgida luce del sole,
nera notte traendo sulla terra datrice di messi.
Non gradita si spense per i Troiani la luce,

155
ma tre volte invocata per gli Achei giunse fitta la tenebra.
Convocò lo splendido Ettore l’assemblea dei Troiani,
lontano dalle navi, lungo il fiume vorticoso,
in uno spazio vuoto, ch'era sgombro da cadaveri.
Scesi dai carri sul suolo, ascoltavano le parole
che Ettore diceva, caro a Zeus. Teneva in mano
l’asta di undici cubiti e in cima ad essa la bronzea
punta brillava, e intorno correva una fascia dorata.
E, stando ad essa appoggiato, così parlava ai Troiani:
"Ascoltate, o Troiani e Dàrdani e alleati.
Mi credevo che avrei distrutto le navi e gli Achei,
e che sarei tornato a Ilio battuta dai venti.
Ma prima è giunto il buio, che per ora gli Argivi preserva,
essi assieme alle navi che posano sulla battigia.
Ora dunque dobbiamo obbedire alla nera notte
e preparare la cena. E voi, liberate dai carri
i cavalli bella criniera, date loro la biada.
Dalla città portate buoi e pecore grasse
subito, e vino dolce apprestate e dalle case
pane, e raccogliete una gran quantità di legname:
tutta la notte sino all'Aurora mattutina,
molti fuochi bruciamo e la vampa raggiunga il cielo,
che non accada di notte che gli Achei dai lunghi capelli
tentino di fuggire sull'ampio dorso del mare.
Non salgano tranquilli, senza pena, sulle navi,
ma smaltisca ognuno di costoro in patria una freccia,
o da saetta o da lancia di faggio colpito, salendo
sulla sua nave, che un altro si guardi dal portare
ai Troiani in futuro la guerra molte lacrime.
Per la città bandiscano gli araldi cari a Zeus
che ragazzi adolescenti e vecchi canuti
sui torrioni divini della rocca si raccolgano.
Tutte, una per una, le donne nelle case
un grande fuoco accendano, ci sia sorveglianza continua,

156
che non avvengano agguati in città, nell'assenza degli uomini.
E sia così, o Troiani magnanimi, come vi dico;
questo discorso, che adesso vi è utile, sia come detto.
Ai Troiani domatori di cavalli parlerò ancora all'alba.
Io prego Zeus con gli altri dèi e nutro speranza
di cacciare via questi cani assetati di sangue,
che le dee della morte su nere navi ci hanno portato.
Dunque durante la notte rafforziamo la vigilanza,
e alla prima aurora, rivestiti di tutte le armi,
aspra destiamo guerra vicino alle concave navi.
Saprò allora se il figlio di Tìdeo, il possente Diomede,
mi spingerà dalle navi alle mura, oppure se io,
spentolo con il bronzo, porterò le sue spoglie cruente.
Lui domani saprà se vale, se della mia lancia
resisterà all'assalto, ma penso che fra i primi
giacerà trafitto con molti compagni attorno,
quando il sole risorgerà. Oh se solo potessi
essere un immortale e senza vecchiaia per sempre,
ed essere onorato alla pari di Atena e di Apollo,
come il presente giorno porterà rovina agli Achei!"
Ettore in questo modo parlò, e i Troiani acclamarono.
Liberarono allora dai gioghi i cavalli sudati,
li legarono con cinghie ciascuno accanto al carro.
Dalla città portarono buoi e pecore grasse
subito, e vino dolce apprestarono e dalle case
pane, e ancora raccolsero una gran quantità di legname.
Dalla pianura i venti portavano al cielo l'aroma.
Essi allora, ricolmi di orgoglio, sul campo di guerra
stavano tutta la notte e accendevano molti fuochi.
Come le stelle in cielo, intorno alla luna che splende,
brillano vividamente, quando l'aria è senza vento,
tutte le cime allora appaiono e le alte pendici
e le vallate; in cielo si è infranto l'etere immenso,
tutte le stelle si vedono, e gioisce in cuore il pastore;

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tanti così fra le navi e le correnti dello Xanto
fuochi apparivano accesi dei Troiani davanti a Ilio;
mille ne ardevano dunque nella piana, e attorno a ciascuno
ben cinquanta sedevano alla vampa del fuoco fiammante.
Orzo bianco e spelta mangiavano i cavalli,
ritti davanti ai carri, e attendevano Aurora bel trono.

158
LIBRO IX

L’ambasceria ad Achille.

Nel campo acheo regna lo scoraggiamento generale. Agamemnon, il più desolato di


tutti, ripropone la fuga sulle navi, ma questa volta sul serio. Si oppongono ad essa
Diomede e Nestore: bisogna resistere e non cedere al disfattismo. Convocato il
consiglio degli anziani, Nestore si dichiara per l’invio di una un’ambasceria ad
Achille, con una proposta generosa di risarcimento, al fine di convincerlo a tornare
a combattere. Essa sarà composta dal vecchio Fenice, precettore di Achille, e poi da
Odìsseo e da Aiante Telamonio, assistiti da due araldi. Agamemnon,
accondiscendente e pentito, elenca i doni che è disposto a elargire come
riparazione. Il gruppo parte. Viene accolto con grande cortesia da Achille, assistito
da Patroclo. Si allestisce una cena, al termine della quale, prende la parola Odìsseo,
riportando la proposta di Agamemnon. La risposta di Achille è inequivocabile:
giammai lui accetterà alcunché da parte di Agamemnon, neppure se gli proponesse
la donna più bella del mondo. L’indomani mattina gli Achei assisteranno alla
partenza delle sue navi per Ftia con tutti i Mirmìdoni. Rimasti tutti attoniti, prende
la parola il vecchio Fenice, il quale supplica Achille, rammentandogli la loro
vicenda: da quando lui divenne suo precettore, quando Achille era ancora piccino.
Il vecchio riporta anche la terribile storia di Meleàgro e del cinghiale Calidonio,
come esempio di ostinazione da superare e dal grande eroe superata. Ma Achille
non desiste, e il gruppo se ne torna deluso alle tende; solo Fenice resta con Achille.
Odìsseo riferisce agli Achei l’esito negativo, e tutti se ne vanno a dormire nelle
tende sempre più scoraggiati.

Così in vedetta restavano i Troiani; ma gli Achei


li possedeva terrore infinito, compagno di gelido
panico, e angoscia invincibile tutti i migliori travagliava.
Come talvolta due venti sconvolgono il mare pescoso,
Bòrea e Zefiro, che soffiando dalla Tracia
piombano all’improvviso, e all’istante l’onda nera
si rigonfia, e riversa sulla spiaggia gran copia di alghe;

159
tale nel petto il cuore degli Achei si lacerava.
L’Atride, travagliato da grande dolore nel petto,
si aggirava ingiungendo agli araldi voce sonora
di convocare ciascuno degli uomini in assemblea,
senza gridare: lui stesso fra i primi si industriava.
E in assemblea sedevano angosciati. E Agamemnon
stava, versando pianto, come polla di acqua bruna,
che dall’alto di rupe scoscesa fiotti cupi riversa.
Così, gemendo profondamente, parlò agli Argivi:
“Amici, condottieri e capi degli Argivi,
Zeus Cronìde mi ha avvinto a un errore davvero increscioso,
sciagurato, che prima mi promise col suo cenno
che Ilio belle mura avrei preso e sarei tornato;
e adesso perfido inganno ha ordito, mi induce a tornarmene
ad Argo senza gloria, dopo tante perdite umane.
Dunque così sembrerebbe piacere a Zeus potentissimo,
lui che di tante città ha già abbattuto le rocche,
e altre ne abbatterà. La sua potenza è suprema.
Forza, a quello che dico obbediamo tutti quanti,
verso la cara patria fuggiamo sulle navi!
Troia ampie strade mai più riusciremo a conquistare”.
Disse così, e tutti se ne stavano muti, in silenzio,
zitti a lungo e angosciati, i figli degli Achei;
finché parlò Diomede, possente nel grido di guerra:
“Figlio di Àtreo, ti contesterò nella tua insensatezza;
mi è dato, sovrano, in assemblea: non irritarti.
In precedenza offendesti il mio valore in mezzo ai Dànai,
definendomi imbelle e privo di coraggio,
e tutto questo gli Argivi lo sanno, giovani e vecchi.
Di due ti diede il figlio di Crono tortuosi pensieri
solo una cosa: lo scettro, per cui tutti ti rispettano,
ma non ti diede il coraggio, ch’è l’autentico valore.
Matto, tu credi davvero che i figli degli Achei
siano imbelli e privi di coraggio, come tu dici?

160
Se il tuo cuore ti spasima per farti ritornare,
vattene, è aperta la via, le navi accanto al mare
stanno, che da Micene ti seguirono in gran numero,
ma gli altri resteranno, gli Achei dai lunghi capelli,
sino a che Troia distruggeremo. E anche loro lo vogliono?
Bene, che fuggano nella patria con le navi!
Noi due almeno, Stènelo ed io, combatteremo
sino alla fine di Ilio. Siamo giunti assieme a un dio”.
Disse così, e acclamavano tutti i figli degli Achei,
d’accordo con Diomede, domatore di cavalli.
E fra di loro alzatosi, parlò Nestore cavaliere:
“Figlio di Tìdeo, eccelli fra gli altri nella guerra,
e nel consiglio fra i coetanei sei il migliore.
Il tuo discorso nessuno fra gli Achei biasimerà,
né parlerà in contrario; ma non l’hai portato a termine.
Sei giovane, e potresti anche essere mio figlio,
l’ultimo nato, ma ti rivolgi ai re argivi
veramente in modo assennato: hai parlato a proposito.
Ora anch’io che mi vanto di essere più anziano di te,
parlerò e spiegherò tutto quanto, e certo nessuno
disprezzerà il mio discorso, neppure il possente Agamemnon;
è senza fràtria, senza leggi né focolare
chi si compiace di guerra civile, disastrosa.
Ora dunque dobbiamo obbedire alla nera notte
e preparare la cena. E tutte le sentinelle
si distribuiscano fuori del muro, accanto al fossato.
Impartisco questi ordini ai ragazzi; ma tu dopo,
figlio di Àtreo, disponi, tu sei il re al di sopra di tutti.
Offri un banchetto agli anziani: si addice, non è sconveniente;
piene di vino hai le tende, che le navi degli Achei
sul vasto mare ti portano ogni giorno dalla Tracia.
Tu facoltà completa ne hai, perché regni su molti.
Quando saranno in molti adunati, darai ascolto
a chi offrirà il consiglio migliore. Per tutti gli Achei

161
valido e saggio ne occorre. Molti fuochi accanto alle navi
ardono dei nemici. Chi ne gode? Questa è la notte
che annienterà o porrà in salvo il nostro esercito”.
Disse così, e lo ascoltarono tutti e gli diedero retta.
Le sentinelle armate si affrettarono, sotto la guida
di Trasimède figlio di Nestore, pastore di popoli,
sotto la guida di Ascàlafo e Iàlmeno, figli di Ares,
e di Merìone e di Afàreo e di Deìpiro,
di Licomède splendido, il figlio di Creonte.
Erano sette i capi, e cento per ciascuno
giovani andavano con lunghe lance nelle mani;
e nel mezzo si collocarono, fra il muro e il fossato.
Là si accesero il fuoco, e ciascuno apprestava la cena.
E convocò l’Atride gli anziani degli Achei
tutti nella sua tenda, e imbandì un banchetto abbondante.
Essi le mani tendevano sui cibi pronti imbanditi.
E come di bevanda e di cibo furono sazi,
diede inizio primissimo il vecchio a imbastire il pensiero,
Nestore: il piano di lui anche prima era parso il migliore.
E lui con alto senno così parlò, così disse:
“Colmo di gloria Atride, sovrano di eroi Agamemnon,
con te comincerò, con te finirò: di molti
popoli sei sovrano, e Zeus ti ha consegnato
scettro e sentenze, perché per loro tu decida.
Soprattutto a te compete parlare e ascoltare
e dare retta anche a un altro, se il cuore gli suggerisce
di dire per il meglio: sarà tuo ciò che un altro comincia.
Io questo ti dirò, e mi sembra il partito migliore;
e nessun altro un pensiero migliore concepirà,
quale io penso da tempo e che sussiste anche tuttora,
e cioè sin da quando, o divino, la fanciulla
Briseide dalla tenda rapisti di Achille adirato,
e non davvero secondo il mio parere; anzi, al contrario,
molto ti sconsigliavo, ma tu al tuo cuore altero

162
cedendo, un uomo fortissimo, che gli immortali onorarono,
oltraggiasti, ti tieni il suo premio; ma almeno adesso
riflettiamo a come placarlo e persuaderlo
sia con regali amabili e sia con parole gentili”.
E così gli rispose il sovrano di eroi Agamemnon:
“Vecchio, non sbagli a rampognarmi delle mie colpe;
sì mi accecai, non posso negarlo. Vale molti soldati
l’uomo che Zeus predilige nel suo cuore, come adesso
ha onorato quest’uomo e ha distrutto l’esercito acheo.
Ma poiché mi accecai, cedendo a pensieri funesti,
subito voglio piacergli e donargli ammenda infinita,
e a tutti voi elencherò i doni magnifici:
sette tripodi intatti dal fuoco, dieci aurei talenti,
venti bacili splendenti e dodici cavalli,
forti, capaci di gareggiare, che hanno vinto alla corsa.
Non sarebbe indigente né mancante di oro prezioso
l’uomo che si trovasse ad avere tanti premi,
che quei cavalli solidi zoccoli mi fruttarono.
Poi gli darò sette donne esperte in lavori perfetti,
che mi prescelsi quando lui stesso prese Lesbo
ben costruita, e vincono in bellezza schiere di donne.
Gli darò queste, e inoltre ci sarà quella che gli tolsi,
sì, la figlia di Brìseo, e farò un giuramento solenne:
mai sul suo letto salii, né mai con lei mi congiunsi,
come è costume degli esseri umani, maschi e femmine.
Immantinente avverrà tutto ciò. Se poi in futuro
la grande rocca di Priamo di espugnare gli dèi ci daranno,
venga e carichi d’oro e di bronzo a volontà
la nave, quando la preda divideremo noi Achei;
e lui stesso si scelga pure venti donne troiane,
che dopo Elena Argiva risultino le più belle.
E poi se ad Argo achea, la mammella della terra,
giungeremo, mio genero sia, mi sia pari ad Oreste,
il prediletto figlio, che mi cresce nell’abbondanza.

163
Nella mia stupenda casa ci sono tre figlie:
Crisotèmide e Laòdice e Ifianàssa.
Una che vuole si porti delle tre, senza doni nuziali
alla casa di Pèleo, ed io stesso ricca dote,
molta, darò, quanta mai nessuno diede a sua figlia.
E sette gli darò città ben popolate,
Cardàmile ed Ènope e Ire ricca d’erba,
Fere divina e Antèa profonde praterie,
e la bellissima Epèa e Pèdaso ricca di viti,
tutte vicine al mare, confinanti con Pilo sabbiosa.
Vivono in esse uomini ricchi di pecore e buoi,
che come un dio lo onoreranno con donativi,
e splendidi tributi sotto il suo scettro verseranno.
Questo gli pagherò, se desiste dalla collera.
Si lasci vincere. Ade soltanto è spietato, implacabile -
proprio per questo è il più odioso fra tutti gli dèi ai mortali -.
E mi si sottometta, di lui sono più regale,
e per giunta mi vanto di essere più anziano”.
Nestore, di rimando, cavaliere Gerenio, rispose:
“Colmo di gloria Atride, sovrano di eroi Agamemnon,
doni non certo spregevoli tu offri ad Achille sovrano.
Ma suvvia, mandiamo dei prescelti, che al più presto
presso la tenda si rechino di Achille figlio di Pèleo.
Ma sì, io stesso li designerò, ed essi ubbidiscano.
Innanzi tutto guida sia Fenìce, caro a Zeus,
subito dopo il grande Aiante e lo splendido Odìsseo,
e li seguano fra gli araldi Odìo ed Eurìbate.
Acqua portate per le mani e ordinate il silenzio,
per supplicare Zeus Cronìde, che senta pietà”.
Disse così, e per tutti il discorso fu gradevole.
Sulle loro mani versarono acqua gli araldi,
i ragazzi, colmati sino all’orlo i crateri di vino,
lo distribuirono a tutti nelle coppe per libare.
E dopo aver bevuto e libato quanto volevano,

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se ne uscirono dalla tenda dell’Atride Agamemnon.
E molto Nestore, cavaliere Gerenio, consigliava,
facendo cenni a ognuno, a Odìsseo soprattutto:
si industriassero a convincere Achille perfetto.
Se ne andarono lungo la riva del mare sonante,
molto supplicando Gaiàoco Scuotiterra,
di facilmente convincere il grande cuore dell’Eàcide.
E giunsero alle tende e alle navi dei Mirmìdoni,
e lo trovarono che il cuore allietava con la cetra sonora,
bella, tutta istoriata, munita di un ponte d'argento,
dal bottino prescelta della città d'Eetione.
Si allietava con essa e cantava glorie di eroi.
Patroclo a lui davanti sedeva in silenzio, da solo,
aspettando che Achille smettesse di cantare.
Giunsero allora, e li guidava lo splendido Odìsseo.
Stettero a lui dinanzi. Si alzò stupito Achille,
con in mano la cetra, e si scostò dal suo seggio.
Anche Patroclo si alzò, non appena li vide.
Quindi, accogliendoli, così parlò Achille veloce:
"Salve, amici giungete davvero, ma questo è giusto,
voi che mi siete carissimi fra gli Achei, nonostante adirato".
Detto così, li guidava lui stesso, lo splendido Achille,
e li fece sedere su seggi e tappeti di porpora.
Subito si rivolse a Patroclo che era vicino:
"Prendi un cratere più grande, o figlio di Menetio,
mescola vino puro e porgi a ciascuno una coppa.
Sotto il mio tetto stanno i miei amici più cari".
Disse così, e diede ascolto Patroclo al caro compagno.
Quindi tavolo grande sospinse alla luce del fuoco,
spalla di pecora e di pingue capra sopra ci mise
e schiena di maiale bavoso, fiorente di grasso.
Automedonte teneva e lo splendido Achille tagliava.
Li tagliuzzò con arte e li infilò negli spiedi,
poi fuoco grande accese il Menetìade simile a un dio,

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e quando il fuoco si fu consumato e la fiamma fu spenta,
pareggiate le braci, vi stese al di sopra gli spiedi.
Sale divino sparse, sollevandoli dagli alari.
Poi, arrostita la carne e messala a ognuno nei piatti,
Patroclo prese il pane e lo distribuì sulla tavola
dentro canestri belli, Achille invece la carne.
Poi lui stesso sedette di fronte a Odìsseo divino,
sul lato opposto, e invitò Patroclo, il caro compagno,
a immolare agli dèi. Lui gettò nel fuoco le offerte.
Essi le mani tendevano sui cibi pronti, imbanditi.
E come di bevanda e di cibo furono sazi,
Aiante fece un cenno a Fenice, e lo splendido Odìsseo
lo carpì e, riempita la coppa, la alzò verso Achille:
"Salve Achille, banchetto ben diviso non ci manca,
prima sotto la tenda di Agamemnon figlio di Àtreo,
ora da te. Di molti scelti cibi disponiamo,
di cui godere, ma non ci interessa un amabile pasto.
A troppo grande pena, o nato da Zeus, assistendo,
siamo impauriti. Si salveranno o saranno distrutte
le navi buoni scalmi, se la tua forza non rivesti?
Presso le navi e il muro hanno posto il loro bivacco
i Troiani imbaldanziti e gli illustri alleati.
Molti fuochi hanno acceso nel campo e dicono ancora
che non si fermeranno, che sulle navi piomberanno.
Zeus, il figlio di Crono, segni a loro propizi mandando,
folgora in cielo, ed Ettore, nel colmo del proprio vigore,
terrificante infuria, fidando in Zeus, né si cura
di uomini o di dèi: rabbia immane lo possiede.
Impreca che al più presto risorga la splendida Aurora,
promette che gli aplustri delle navi strapperà,
che quelle incendierà col fuoco vorace, e gli Achei
presso di esse sterminerà, annichiliti dal fumo.
Questo terribilmente temo in cuore, che quelle minacce
le compiano gli dèi, e che il nostro destino sia questo:

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morire a Troia, lungi da Argo che nutre cavalli.
Sorgi anche tardi, se vuoi, per i figli degli Achei,
stremati dall'assalto furibondo dei Troiani!
In futuro anche tu ti dorrai, ma trovare rimedio
non sarà più possibile per il male compiuto. Ma prima
pensa a come stornare dai Dànai il giorno funesto!
Caro, davvero tuo padre Pèleo ti raccomandava,
il dì che ti mandava da Ftia presso Agamemnon:
“Creatura mia, la forza ti daranno Atena ed Hera,
se lo vorranno, ma tu il magnanimo tuo cuore
frenalo dentro al petto, miglior cosa è la mitezza.
Guardati dalla contesa intrigante; in questo modo
vecchi e giovani Argivi di più ti onoreranno”.
Questo il vecchio ti suggeriva, ma l’hai scordato.
Ora desisti, deponi la collera che rode il cuore:
ricchi doni ti offre Agamemnon, se desisti.
Ora perciò dammi ascolto, ed io ti elencherò
i doni che Agamemnon ti ha promesso nella sua tenda.
Sette tripodi intatti dal fuoco, dieci aurei talenti,
venti bacili splendenti e dodici cavalli,
forti, capaci di gareggiare, che hanno vinto alla corsa.
Non sarebbe indigente né mancante di oro prezioso
l’uomo che si trovasse ad avere tutti i premi
che quei cavalli solidi zoccoli gli fruttarono.
Poi ti darà sette donne esperte in lavori perfetti,
che si prescelse quando tu stesso prendesti Lesbo
ben costruita, e vincono in bellezza schiere di donne.
Ti darà queste, e inoltre ci sarà quella che ti tolse,
sì, la figlia di Brìseo, e farà un giuramento solenne:
mai nel suo letto salì, né mai con lei si congiunse,
come è costume, o sovrano, degli umani, maschi e femmine.
Immantinente avverrà tutto ciò. Se poi in futuro
la grande rocca di Priamo di espugnare gli dèi ci daranno,
vieni e carica d’oro e di bronzo a volontà

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la nave, quando la preda divideremo noi Achei;
e tu stesso scegliti pure venti donne troiane,
che dopo Elena Argiva risultino le più belle.
E poi se ad Argo achea, la mammella della terra,
giungeremo, suo genero tu gli sia, gli sia pari ad Oreste,
il prediletto figlio, che gli cresce nell’abbondanza.
Nella sua stupenda casa ci sono tre figlie:
Crisotèmide e Laòdice e Ifianassa.
Una che vuoi, te la porti delle tre, senza doni nuziali
alla casa di Pèleo. E lui stesso ricca dote,
molta, darà, quanto mai nessuno diede a sua figlia.
E sette ti darà città ben popolate,
Cardàmile ed Ènope ed Ire ricca d’erba,
Fere divina e Antèa profonde praterie,
e la bellissima Epèa e Pèdaso ricca di viti,
tutte vicine al mare, confinanti con Pilo sabbiosa.
Vivono in esse uomini ricchi di pecore e buoi,
che come un dio ti onoreranno con donativi,
e splendidi tributi sotto il tuo scettro verseranno.
Questo ti pagherà, se desisti dalla collera.
Ma se l’Atride sempre di più ti è in odio nel cuore,
lui e i suoi doni, tu almeno di tutti gli altri Achei
abbi pietà, sfiniti per il campo: come un dio
ti onoreranno, grandissima gloria ne trarresti.
Ora puoi prendere Ettore, che ti verrà assai vicino,
pieno di livida rabbia: va dicendo che dei Dànai,
che con le navi qui giunsero, nessuno gli è alla pari”.
E, di rimando, così gli parlò Achille veloce:
"Laertìade divino, Odìsseo ricco di astuzie,
ora occorre ch'io esprima chiaramente col mio discorso
quello che penso e che immancabile si avvererà,
perché l'un l'altro, venendomi accanto, non cianciate.
Odio alla pari di quanto detesto le porte dell'Ade
chi nel cuore nasconde una cosa ma un'altra ne dice.

168
Invece io vi dirò ciò che a me sembra essere il meglio.
Non credo che Agamemnon Atride mi convincerà,
né alcun altro dei Dànai, perché non c'è gratitudine
per chi combatte sempre, senza sosta, coi nemici.
Stessa porzione tocca a chi resta e a chi tanto s'affanna,
in stesso onore stanno chi vale e chi non vale,
muore ugualmente chi nulla ha mai fatto e chi ha fatto moltissimo.
Niente a me resta di quanti affanni ho in cuore sofferto,
sempre la vita esponendo al rischio della guerra.
Simile a uccello che porta ai piccoli ancora implumi
l'imbeccata che ha preso, ma tutto gli torna difficile,
così ho anch'io trascorso molte notti senza dormire,
molte giornate insanguinate ho impegnato a combattere,
scontrandomi con uomini a motivo delle loro compagne.
Dodici ho espugnate città con le mie navi,
undici a piedi ne ho saccheggiate nella Troade feconda,
da tutte ho riportato tesori diversi e magnifici,
e tutti consegnavo al figlio di Àtreo Agamemnon.
E lui, restando indietro accanto alle navi veloci,
li riceveva e pochi ne spartiva, i più li teneva,
altri li distribuiva in premio ai re e ai migliori.
A tutti resta ancora il premio. Solo a me fra gli Achei
lo strappa, se la tiene la compagna del cuore. E ci dorma,
ci si diverta. Ma per quale motivo fra Troiani ed Argivi
si combatte? Perché il figlio di Àtreo ha raccolto
un’armata del genere? Non per Elena bella chioma?
Forse che sono gli unici ad amare le loro compagne
fra gli uomini gli Atridi? Ogni uomo valente e assennato
ama la sua compagna e ne ha cura, così come anch'io
la mia di cuore amavo, nonostante preda di guerra.
Ora che mi ha strappato il mio premio e che mi ha raggirato,
non mi ritenti, perché lo conosco. Non mi persuaderà.
Pensi piuttosto, Odìsseo, con te e tutti gli altri sovrani
come tenere lontano dalle navi il furore nemico.

169
Molto davvero si è dato da fare, pur senza di me,
ha costruito un muro, e intorno ha scavato una fossa,
ampia, grande, e dentro vi ha pure piantato dei pali.
Ma di Ettore massacratore non può contenere
l'impeto. E sino a quando combattevo con gli Achei,
lui non osava attaccare lontano dalle mura,
ma giungeva sino alle porte Scee e alla quercia.
Quivi una volta mi attese da solo e mi sfuggì a mala pena.
Ora, poiché non intendo scontrarmi con Ettore splendido,
domani a Zeus e a tutti gli dèi farò sacrificio,
caricherò le navi, dopo averle spinte in mare,
e tu vedrai, se vorrai, se la cosa ti sta a cuore,
all’alba le mie navi solcare il pescoso Ellesponto
con i miei uomini dentro bramosi di remare:
se Scuotiterra glorioso darà buona navigazione,
il terzo giorno giungerò alla fertile Ftia.
Là molte cose ci sono che lasciai quando qui alla malora
giunsi, e di qui mi porterò altro oro e altro bronzo
fulvo e poi donne bella cintura e poi pallido ferro
che ho avuto in sorte. Ma il premio, che mi aveva dato lui stesso,
se l'è ripreso, recandomi offesa, il possente Agamemnon,
figlio di Àtreo. A lui tutto dirai, perché io te lo ingiungo,
chiaro, così anche gli altri Achei si indispettiscano,
se spera di ingannare ancora qualcuno dei Dànai,
lui, la spudoratezza in persona. Ma non oserebbe,
per quanto ceffo di cane, neppure in faccia guardarmi.
Non condividerò con lui né progetto né impresa.
Lui mi ha raggirato e tradito. Ma non riuscirà
con parole a trarmi in inganno. E' già troppo. Ma, comodo,
vada in malora. Zeus mente accorta gli ha tolto il cervello.
Io li detesto i suoi doni, lui per me conta meno che niente.
Neanche se dieci volte, venti volte di quanto possiede
altrettanto mi desse, e se ancora ne aggiungesse
quanto affluisce a Orcòmeno o quanto a Tebe egizia,

170
dove infiniti giacciono tesori nelle case
-là cento porte ci sono e ci passano per ciascuna
duecento cavalieri assieme ai carriaggi e ai cavalli-;
neanche se mi donasse tanto quanto la sabbia e la polvere,
neanche così potrebbe piegare il mio cuore Agamemnon,
prima che mi abbia pagato l'oltraggio che rode il mio cuore.
Figlia non sposerò di Agamemnon, figlio di Àtreo,
neanche se gareggiasse in bellezza con l'aurea Afrodite
ed uguagliasse in opere Atena dagli occhi lucenti.
Neanche in tal caso la sposerei. Se ne scelga un altro,
che sia più degno di lui, che sia di me più regale.
Se mi preserveranno gli dèi e giungerò a casa mia,
Pèleo stesso sarà a procurarmi una moglie legittima.
Molte ci sono donne achee per l'Ellade e a Ftia,
figlie di nobili, che difendono le loro città.
Quella che sceglierò fra di esse sarà la mia sposa.
Molto, ma molto, mi spinge laggiù il mio nobile cuore,
quando mi sarò preso una compagna, una sposa appropriata,
a godermi i beni dal vecchio Pèleo conquistati.
Niente per me c'è che possa ripagare la vita. Non quante
dicono esservi in Ilio ricchezze in pace ammassate,
prima cioè che giungessero i figli degli Achei,
o tutte quelle che racchiude la soglia di pietra
di Febo Apollo Saettatore a Pito rocciosa.
Si possono razziare i buoi, le grasse pecore,
i tripodi acquistare e le bionde criniere equine,
ma la vita di un uomo, perché torni, non è depredabile,
non è afferrabile, uscita che sia dal recinto dei denti.
Teti, mia madre, la dea dai piedi d'argento, mi dice
che due destini mi portano al mio confine di morte:
se attorno alla città dei Troiani io resto a combattere,
il ritorno è perduto per me, ma avrò gloria immortale;
se invece torno a casa, cioè nella mia cara patria,
per me perduta è bella gloria, ma la vita sarà

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lunga, e la fine di morte non giungerà così presto.
Ed anche agli altri vorrei piuttosto suggerire
di navigare verso casa: di Ilio scoscesa
mai vedrete la fine, perché Zeus voce possente
mano su loro ha disteso, il popolo si è rinfrancato.
Ma voi adesso andate dai capi degli Achei
a riferire – questo è il privilegio degli anziani-,
perché piano migliore si provino a studiare
che salvi loro le navi e l'armata degli Achei
sopra le concave navi. Non va più bene quello
che hanno escogitato, quando l'ira mi ha sopraffatto.
Resti però Fenice da me e qui rimanga a dormire,
perché mi segua per mare sino a giungere alla sua cara patria,
se lo vorrà, domani. Non voglio certo costringerlo."
Disse così, e tutti rimasero muti, in silenzio,
dal suo discorso turbati. Aveva parlato con forza;
sino a che il vecchio Fenice cavaliere così disse,
prorompendo in lacrime, per le navi achee temeva:
“Se nel tuo cuore il ritorno, Achille luminoso,
mediti, né dalle celeri navi il fuoco vorace
stornare intendi, perché in cuore ti ha invaso la collera,
come potrei, creatura cara, senza te qui restare
solo? Con te il vecchio Pèleo cavaliere mi inviava,
il dì che ti mandava da Ftia presso Agamemnon,
piccino ancora e ignaro della guerra uguale per tutti,
nonché delle assemblee, ove chi vale si distingue.
E così mi mandò a insegnarti tutto questo,
perché tu fossi parlatore e capace di compiere.
E pertanto non voglio restare lontano da te,
cara creatura, neppure se un dio mi promettesse
di raschiarmi la vecchiaia e rifarmi fiorente,
come quando l’Ellade belle donne lasciai, per sottrarmi
al litigio con mio padre, Amintor di Òrmeno,
che per la concubina belle chiome con me si adirò,

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che lui stesso amava e trascurava sua moglie,
mia madre. E sempre lei mi pregava che mi unissi
prima alla concubina, e lei il vecchio detestasse.
Le diedi retta e lo feci. Ma mio padre se ne accorse,
e assai mi maledisse, invocò le odiose Erìni,
che mai sedesse sulle sue ginocchia un caro figlio
nato da me, e compirono gli dèi le imprecazioni,
sia Zeus di sottoterra che Persefone tremenda.
Decisi allora di ucciderlo col bronzo acuto, ma uno
degli immortali frenò il mio sdegno, e mi instillò
del popolo la voce e l’infamia presso gli uomini,
che tra gli Achei non venissi chiamato parricida.
Da quel momento però non mi resse in petto il cuore
di rigirarmi per la casa di un padre adirato.
Molti parenti, molti amici, venendomi intorno,
mi pregavano di rimanere in quella casa.
Molte pecore grasse, molti buoi dai passi ritorti
immolarono, molti maiali fiorenti di grasso
furono stesi e abbrustoliti alla fiamma di Efesto,
e molto vino dagli orci del vecchio si beveva.
Essi per nove giorni accanto a me pernottarono,
dandosi il cambio alla guardia e vigilando, e non si spense
il fuoco mai, sia quello sotto il portico del cortile,
e sia quell’altro, nell’atrio, davanti alle porte del talamo.
Ma quando decima giunse la notte tenebrosa,
ecco che allora le porte della stanza ben serrate
ruppi, uscii fuori, e saltai il recinto del cortile
agevolmente, eludendo le guardie, le domestiche;
me ne fuggii lontano, per l’Ellade ampie contrade,
e pervenni a Ftia, fertili zolle, madre di armenti,
presso Pèleo sovrano, che mi accolse amabilmente,
e mi amò come ama un padre il proprio figlio,
unico, tanto desiderato, fra tante ricchezze.
Mi rese facoltoso, mi assegnò uno stuolo di uomini.

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Abitavo ai confini di Ftia, regnando sui Dòlopi,
e quale sei ti ho reso, Achille pari agli dèi,
con tutto il cuore volendoti bene; e tu non volevi
con nessun altro andare a banchetto o mangiare a casa,
a meno che ti facessi sedere sulle mie ginocchia,
per sminuzzarti e darti il cibo, e porgerti il vino.
E spesso sul mio petto macchiasti la mia veste
rigettando il vino, nell’infanzia capricciosa.
Così per te molte cose ho sofferto, molte cose ho patito,
questo pensando, che un figlio gli dèi non mi concedevano
nato da me; ma te figlio, Achille pari agli dèi,
consideravo, che mi difendessi da triste destino.
Ma doma, Achille, il tuo grande cuore. Perché non devi
cuore spietato avere. Gli dèi persino sono flessibili,
pur essendo maggiore la virtù, il prestigio, la forza.
Ma gli umani con sacrifici e con offerte
splendide e con libagioni e con aroma li placano,
supplicandoli, se uno ha commesso un errore o una colpa.
Le Preghiere sono figlie del grande Zeus,
zoppe, rugose, con gli occhi che guardano in due direzioni,
e si industriano a stare alle calcagna di Follia.
Ma Follia è forzuta, ha piedi rapidi, e pertanto
di molto le precede, arriva prima su tutta la terra
a fare danno agli umani, e quelle dietro a tentare un rimedio.
Chi rispetta le figlie di Zeus, se gli vengono accanto,
gran giovamento ne trae, è esaudito in ciò che chiede;
chi invece le respinge, le rifiuta con durezza,
esse si recano a supplicare Zeus Cronìde,
che lo insegua Follia, e che paghi con suo danno.
Ma tu, Achille, procura anche tu che alle figlie di Zeus
segua l’onore, che piega la mente degli altri forti.
E se l’Atride non portasse dei doni, ed altri ancora
non promettesse, ma sempre smaniasse dalla collera,
io non ti esorterei a farla finita con l’ira,

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e di aiutare gli Argivi, per quanto bisognosi.
Invece subito ti dà molte cose, e ne promette,
inoltre ti ha mandato i migliori qui a pregarti,
prescelti fra l’esercito degli Achei: sono anche per te
fra gli Argivi i più cari, la loro parola e venuta
non disprezzare. Il tuo sdegno sino ad ora non fu biasimevole.
Anche degli uomini antichi conosciamo glorie di eroi,
quando qualcuno era preda di collera furiosa.
Ma si piegavano ai doni e cedevano ai discorsi.
Questo episodio rammento antico, non recente,
come che fu; amici miei, voglio adesso raccontarvelo.
I Curèti e gli Etòli guerrieri combattevano
attorno a Calidone, e si uccidevano l’un l’altro,
gli Etòli per difendere la loro città amata,
e i Curèti bramosi di abbatterla assieme ad Ares.
Una sciagura Artemide trono d’oro aveva loro mandato,
sdegnata che le primizie della vigna non le avesse
Èneo a lei offerte; agli altri dèi offrì ecatombi,
a lei sola, la figlia del grande Zeus, non ne compì.
Se ne scordò o non ci pensò: fu accecato nel cuore.
Stirpe di Zeus la Saettatrice, adirata, un cinghiale
gli mandò contro, selvaggio smisurato, candide zanne,
che senza sosta recava grandi danni alla vigna di Èneo:
rivoltava gettandoli a terra molti altissimi alberi,
con tutte le radici e coi frutti che portavano.
E Meleàgro figlio di Èneo uccise la belva,
dopo aver radunato cacciatori da molte città
e cani; non riuscivano a domarla in pochi mortali,
tanto era grande, e molti mandò sulla pira penosa.
Inscenò intorno ad essa la dea battaglia e tumulto,
per la testa e la pelle setolosa del cinghiale,
nel mezzo, fra i Curèti da un lato e gli Etòli magnanimi.
E sino a che combatté Meleàgro caro ad Ares,
sino ad allora andò male ai Curèti, e non riuscivano

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a resistere fuori del muro, pur numerosi;
ma quando Meleàgro fu preso dall’ira, che gonfia
anche la mente degli altri nel petto, per quanto assennati,
allora contro Altèa, sua madre, adirato nel cuore,
presso la sposa legittima giaceva, la bella Cleopatra,
la figlia di Marpessa, belle caviglie, figlia di Evèno,
e di Idas, suo padre, che fu il più potente degli uomini
di quei tempi – e l’arco contro Febo Apollo sovrano
osò imbracciare, a causa della sposa belle caviglie –;
dentro la casa allora il padre e la madre sovrana
la chiamavano col soprannome di Alcione, perché
sua madre, che la triste sorte aveva dell’alcione,
piangeva: Febo Apollo Arciere l’aveva rapita.
E le giaceva accanto, ira covando che rode il cuore,
per le maledizioni di sua madre imprecate agli dèi,
addolorata per l’uccisione del fratello,
e molto percuoteva con le mani la terra nutrice,
invocando Ades e Persefone tremenda-
piegata ginocchioni e il seno inondando di lacrime-
che morte al figlio dessero. Ed Erìni che striscia nell’ombra
l’ascoltava dall’Èrebo: lei possiede un cuore amaro.
Subito intorno alle porte chiasso e strepito sorgeva,
come di torri assediate; gli anziani degli Etòli
lo supplicavano, i massimi sacerdoti gli inviavano,
che ritornasse e li difendesse, un gran dono promisero:
dove è più grassa la piana di Calidone amabile,
là lo invitavano a scegliere il più bel possedimento,
di ben cinquanta iugeri, di cui metà a vigneto,
l’altra metà pianeggiante, destinata all’aratura.
Molto lo supplicava il vecchio Èneo cavaliere,
stando ritto sulla soglia dell’alto suo talamo,
e scuoteva i solidi battenti, implorando suo figlio.
E molto pure i fratelli e altrettanto la madre sovrana
lo supplicavano, ma più ancora negava; e molto i compagni,

176
quelli che erano i più valenti e i più cari di tutti.
Ma non riuscivano a vincere il suo cuore dentro al petto,
prima che fosse duramente colpito il suo talamo stesso
e sulle torri i Curèti la grande rocca incendiassero.
E fu allora che la sua compagna bella cintura
supplicò Meleàgro piangendo, e gli elencò
tutti i dolori, che giungono a chi ha la patria conquistata:
i maschi uccisi e il fuoco che distrugge la città;
altri si portano i figli e le donne profonda cintura.
Si ridestò il suo cuore all’udire tali orrori;
prese ad andare, e indossò l’armatura risplendente,
e così allontanò dagli Etòli il dì fatale,
al proprio cuore cedendo; ma più non gli diedero i doni,
molti e preziosi; e tuttavia li difese ugualmente.
Tu però non avere questo pensiero in cuore, e che un demone
là non ti spinga, mio caro. Davvero peggio sarebbe
portare aiuto alle navi in fiamme. Ma in cambio dei doni,
vieni: gli Achei ti onoreranno come un dio.
Se invece affronterai senza doni la guerra che annienta,
pari onore non riceverai, pur stornando il pericolo”.
E, di rimando, così gli rispose Achille veloce:
“Babbo mio vecchio, Fenice nutrito da Zeus, non mi servo
di questo onore; io penso di averne tanto dalla sorte
di Zeus, che presso le concave navi mi seguirà
sino a che avrò respiro nel petto e vigore ai ginocchi.
Ma questo ti dirò, e tu imprimilo nella tua mente:
non mi guastare il cuore coi tuoi pianti e coi tuoi gemiti,
pur di essere gradito ad Agamemnon eroe; non devi
essergli amico, per essere odioso a me che ti amo;
bello per te è prenderti cura di chi anche mi cura;
regna alla pari con me, prendi parte a metà dell’onore.
Costoro annunceranno; tu resta qui a dormire
su letto morbido, e appena l’aurora spunterà,
rifletteremo se in patria tornare o qui restare”.

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Disse; e accennò in silenzio a Patroclo coi sopraccigli
di preparare un morbido letto a Fenice; al più presto
dalla sua tenda gli altri pensassero a uscire; ma Aiante
figlio di Telamone, pari a un dio, così parlò:
“Laertìade divino, Odìsseo ricco di astuzie,
andiamo via; non mi pare che questa sia la strada
per conseguire il fine del discorso. Occorre al più presto
riportare ai Dànai la notizia, per quanto non buona,
che in seduta ci stanno aspettando. Invece Achille
dentro al suo petto ha reso selvaggio il magnanimo cuore;
senza pietà! Né si cura dell’amicizia e dei compagni,
noi che presso le navi lo onoravamo al di sopra degli altri.
Privo di compassione! Ma c’è pure chi l’ammenda
dell’uccisore accetta del fratello o del proprio figlio,
e così chi ha molto pagato rimane in patria,
e dell’altro si calmano l’animo e il nobile cuore,
non appena accettata l’ammenda. Invece implacabile,
duro nel petto un cuore gli dèi ti misero, per la fanciulla,
per una sola! Ben sette te ne offriamo adesso, e magnifiche,
e poi quante altre cose in aggiunta! Orsù, sii buono!
Rispetta la tua casa! Noi siamo sotto il tuo tetto,
scelti fra i Dànai, e desideriamo, al di sopra degli altri,
tutti gli Achei, risultarti carissimi e amicissimi”.
E, di rimando, così gli disse Achille veloce:
“Stirpe di Zeus, Aiante Telamonio, capo di popoli,
tutto secondo il mio cuore mi pare che tu abbia detto;
ma si gonfia il cuore di rabbia, quando rammento
quello, e cioè che mi ha reso ridicolo il figlio di Àtreo
presso gli Argivi, quasi che fossi un meschino spiantato.
Ma voi andate e riferite l’ambasciata.
Io non mi occuperò della guerra sanguinosa
prima che il figlio di Priamo sapiente, lo splendido Ettore,
non sia arrivato alle tende dei Mirmìdoni e alle navi,
strage facendo di Argivi, e le navi abbia incendiate.

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Nei paraggi della mia tenda, della nave nera,
credo che Ettore si fermerà, pur bramoso di battersi”.
Disse, e ciascuno libò, prendendo la coppa a due anse,
e alle navi andarono, e Odìsseo li guidava.
Patroclo diede ordini ai compagni e alle domestiche
di preparare un morbido letto a Fenice al più presto.
Esse ubbidirono e stesero un letto secondo i suoi ordini,
con sopra pelli e una coltre, sottile, di velo di lino.
Si coricò là il vecchio, e attendeva la splendida Aurora.
E nel fondo della solida tenda dormì Achille,
e accanto a lui si stese una donna, portata da Lesbo,
la figlia di Forbante, Diomèda bella guancia.
Patroclo in altra parte si sdraiò, e accanto a lui
Ífide bella cintura, che gli diede lo splendido Achille,
quando prese la ripida Sciro, città di Enièo.
E quelli quando giunsero alle tende dell’Atride,
con le coppe dorate i figli degli Achei
li ricevettero, alzandosi chi qua e chi là, e domandavano;
per primo interrogava il sovrano di eroi Agamemnon:
“Forza, Odìsseo lodato, grande vanto degli Achei!
Forse vuole stornare dalle navi il fuoco nemico,
o si rifiuta, e lo sdegno tiene ancora il magnanimo cuore?”
E così gli rispose il paziente splendido Odìsseo:
“Colmo di gloria Atride, sovrano di eroi Agamemnon,
lui non vuole smorzare lo sdegno, ma ancora di più
si impingua di furore, respinge te e i tuoi doni,
e ti esorta a meditare fra gli Argivi
come salvare le navi e l’armata degli Achei.
Lui stesso ha minacciato che, al sorgere dell’aurora,
metterà in mare le navi buoni scalmi, ben calibrate.
Ed anche agli altri ha voluto piuttosto suggerire
di navigare verso casa: di Ilio sacra
mai vedrete la fine, perché Zeus voce possente
mano su loro ha disteso, il popolo si è rinfrancato.

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Così diceva; e lo dicono anche questi che mi hanno seguito,
sia Aiante che i due araldi, entrambi assennati.
E il vecchio Fenice si è là coricato, secondo i suoi ordini,
perché lo segua per mare sino a giungere alla sua cara patria,
se lo vorrà, domani. Non lo vuole certo costringere”.
Disse così, e tutti rimasero muti, in silenzio,
dal suo discorso turbati – aveva parlato con forza -,
zitti a lungo e angosciati, i figli degli Achei;
finché parlò Diomede, possente nel grido di guerra:
“Colmo di gloria Atride, sovrano di eroi Agamemnon,
non avresti dovuto il Pelide irreprensibile
supplicare con tutti quei doni: è superbo, e nient’altro.
E adesso anche di più lo hai spinto alla superbia.
Ma noi lo lasceremo stare, sia che se ne vada,
sia che rimanga; combatterà soltanto quando
il suo cuore nel petto lo induca o un dio lo spinga.
Forza, a quello che dico ubbidiamo tutti quanti.
Ora andate a dormire, soddisfatti pienamente
nel vostro cuore di vino e di cibo: ardimento e coraggio.
Ma appena apparsa la bella Aurora dita di rosa,
presto raccogli esercito e cavalli davanti alle navi,
spronandoli, e tu stesso combatti in prima fila”.
Disse così, e i re tutti quanti lo approvarono,
d’accordo con Diomede, domatore di cavalli.
E dopo aver libato, ciascuno andò alla sua tenda,
e là si coricarono e colsero il dono del sonno.

180
LIBRO X

I fatti di Dolone.

Ma Agamemnon non riesce a prendere sonno, e convoca i capi a consiglio. Il


vecchio Nestore propone di mandare un esploratore nel campo dei Troiani che
bivaccano, per trarne informazioni circa le loro intenzioni: incombe la paura che
vogliano procedere a un attacco delle navi. Diomede si offre, ma sceglie come suo
compagno Odìsseo. Presso i Troiani si svolge una assemblea simmetrica, nel corso
della quale Ettore, dietro ricco compenso, propone di inviare un esploratore al
campo acheo, al fine di informarsi se gli Achei resteranno o salperanno. Si propone
un certo Dolone (“l’uomo dell’inganno”), personaggio negativo. I due Achei da una
parte e Dolone dall’altra si avviano per la missione. Ma i due Achei, giunti al campo
troiano, si accorgono della presenza di un uomo, e lo bloccano, mentre cerca di
scappare, atterrito. Dolone, acciuffato, prende tempo, promettendo un ricco
riscatto, se i due gli salvano la vita. Odìsseo allora gli chiede quanto vuole sapere, al
che Dolone risponde puntualmente, aggiungendo che sono arrivati, in soccorso ai
Troiani, i Traci, guidati dal re Reso. Costui possiede un cocchio meraviglioso tirato
da cavalli bellissimi: tutta preda pronta per essere razziata. Ma la sorte di Dolone è
segnata, e viene ucciso. I due fanno strage dei Traci immersi nel sonno. Cavalli e
cocchio vengono portati via, assieme a tutto il resto. Nel campo tutti attendono in
ansia, e l’episodio si conclude nella gioia generale.

Presso le navi gli altri comandanti degli Achei


tutta la notte dormivano, domati da morbido sonno;
ma non il figlio di Àtreo Agamemnon pastore di popoli
il dolce sonno lo possedeva, turbato nel cuore.
Come lampeggia lo sposo di Hera bella chioma,
quando annuncia diluvio di pioggia oppure grandine,
o nevicata, quando la neve ammanta i campi,
oppure della guerra spietata la grande voragine;
fitto così nel profondo del petto gemeva Agamemnon,
nell’intimo del cuore, e i precordi gli tremavano.
Quando gettava lo sguardo sulla piana dei Troiani,

181
dei molti fuochi stupiva, che ardevano dinanzi ad Ilio,
e dei flauti e delle zampogne e del chiasso degli uomini.
Se poi guardava le navi e l’armata degli Achei,
molti capelli dal capo alla radice si strappava,
guardando a Zeus in alto, e nel nobile cuore gemeva.
E questo parve che fosse al suo cuore il partito migliore:
da Nestore recarsi, il primo degli eroi,
se architettasse con lui un piano irreprensibile,
che risultasse liberatore per tutti i Dànai.
Alzatosi, indossava intorno al petto una tunica,
e sandali eleganti si legò ai piedi ben fatti,
e poi si rivestì della pelle di un fosco leone,
sgargiante, lunga sino ai piedi, e prese l’asta.
E anche Menelao era preda del tremito; il sonno
neppure a lui discese sulle palpebre: agli Argivi
non capitasse qualcosa, che sul vasto mare giunsero
a causa sua, muovendo violenta guerra ai Troiani.
Prima le larghe spalle in pelle di pantera
screziata si ravvolse, poi sul capo sollevatolo,
si pose l’elmo di bronzo, e prese l’asta con la mano robusta.
Si mosse per destare il fratello, che su tutti
gli Argivi comandava, come un dio era onorato.
E lo trovò che indossava sulle spalle le armi bellissime,
della sua nave accanto alla poppa, e fu lieto al vederlo.
Primo parlò Menelao, possente nel grido di guerra:
“ Perché ti stai armando, carissimo? Forse un compagno
ti appresti ad inviare per spiare i Troiani? Davvero
temo che impresa del genere nessuno si sobbarchi,
i nemici di recarsi da solo a spiare
nella notte divina; sarebbe un vero azzardo”.
E, rispondendo, così gli disse il possente Agamemnon:
“Menelao nutrito da Zeus, di un piano accorto
per me e per te c’è bisogno, che difenda e metta in salvo
Argivi e navi; perché la mente di Zeus è mutata:

182
ora si è volta piuttosto di Ettore ai sacrifici.
Perché non ho mai visto né ho mai sentito dire
che un solo uomo abbia fatto in un giorno tanto male,
quanto agli Achei ne ha fatto Ettore, caro a Zeus,
così, senza essere figlio né di una dea né di un dio;
imprese quante, credo, rammenteranno gli Argivi
per molto tempo, a lungo, tanto male ha fatto agli Achei.
Ma adesso va’ a chiamare Aiante ed Idomèneo,
svelto correndo accanto alle navi. Io andrò a incitare
Nestore splendido, perché si ridesti, se mai volesse
recarsi al sacro corpo di guardia e impartire istruzioni.
A lui daranno retta più che ad altri: è il figlio suo
che sovrintende ai corpi di guardia, e poi Merìone,
scudiero di Idomèneo; siamo nelle loro mani”.
E Menelao gli rispose, possente nel grido di guerra:
“Quale ordine mi impartisci, che cosa comandi?
Devo restare assieme a loro, aspettando il tuo arrivo,
oppure torno di corsa da te, impartiti gli ordini?”
E così gli rispose il sovrano di eroi Agamemnon:
“No, resta là! Che per caso non ci perdiamo di vista,
qua e là girando: troppe per il campo si aprono strade.
Va’ dappertutto e chiama, da’ ordini che si destino,
chiamandoli ciascuno con il nome di suo padre,
tutti tenendo in pregio, e senza insuperbirti,
perché anche noi dobbiamo impegnarci; e proprio a noi,
che appena nati Zeus ha assegnato pesante sventura”.
Disse così, e inviò il fratello con buone istruzioni;
e lui si mosse in cerca di Nestore pastore di popoli,
e accanto lo trovò alla tenda e alla nave nera,
su molle letto disteso, con l’armi adorne accanto:
lo scudo e le due lance e l’elmo risplendente.
Gli stava accanto la fascia fulgente, che il vegliardo
cingeva quando andava alla guerra ammazzauomini
a capo dell’armata: non cedeva alla triste vecchiaia.

183
Sul gomito si eresse, e levata in alto la testa,
si rivolse all’Atride, e così lo interrogò:
“Chi mai sei tu, che solo, nella notte tenebrosa,
lungo le navi vai per il campo, mentre gli altri dormono?
O vai cercando un mulo, o uno dei compagni?
Parla, non accostarti tacendo; che ti manca?”
E a lui così rispose il sovrano di eroi Agamemnon:
“Nestore figlio di Nèleo, grande gloria degli Achei,
ravviserai l’Atride Agamemnon, che più di tutti
Zeus nelle pene ha gettato per sempre, sino a che il fiato
nel petto gli rimanga e le ginocchia gli si muovano.
Vago così perché il sonno profondo sugli occhi non scende,
ma stanno a cuore la guerra e gli affanni degli Achei;
temo tremendamente per i Dànai, non è saldo
l’animo mio, ma sono sconvolto, il cuore mi balza
fuori dal petto, le ginocchie robuste mi tremano.
Ma se vuoi fare qualcosa, dal momento che neanche tu dormi,
dalle guardie dunque rechiamoci, per vedere
se, dalla spossatezza e dal sonno sopraffatti,
si sono addormentati, di vegliare del tutto dimentichi.
Alle calcagna i nemici ci stanno, e non sappiamo
se per caso vorranno combattere anche di notte”.
Nestore, di rimando, cavaliere Gerenio, rispose:
“Colmo di gloria Atride, sovrano di eroi Agamemnon,
tutti i pensieri di Ettore non certo Zeus accorto
metterà in atto, le sue speranze; perché credo
che angosce soffrirà anche più numerose, se Achille
distoglierà dalla collera rovinosa il caro cuore.
Ti seguirò; ma presto anche altri ridestiamo,
quale il Tidìde famoso con l’asta, quale Odìsseo,
o quale Aiante rapido o il valente figlio di Fìleo.
Oltre a costoro qualcuno dovrebbe anche chiamare
Aiante pari a un dio e Idomèneo sovrano;
di costoro le navi stanno lungi, non vicine.

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Ma Menelao, per quanto mi sia caro e rispetttabile,
non condivido – con me te la prendi? – e non apprezzo
che se la dorma e lascii a te solo le incombenze.
Dovrebbe presso tutti i comandanti darsi da fare,
pregandoli: sovrasta un’urgenza improrogabile”.
E così gli rispose il sovrano di eroi Agamemnon:
“Vecchio, altra volta ti ho spronato a rampognarlo;
spesso tralascia di impegnarsi e si sottrae,
non certo per pigrizia e per leggerezza di mente,
ma guarda me soltanto, da me aspetta che lo sproni.
Ora però si è svegliato per primo e mi ha cercato,
e l’ho mandato a rintracciare chi desideri.
Ma adesso andiamo, li raggiungeremo davanti alle porte,
presso le guardie: là diedi ordine di radunarsi”.
Nestore, di rimando, cavaliere Gerenio, rispose:
“Così con lui nessuno degli Argivi si irriterà
né obbedienza rifiuterà, quando ordina ed incita”.
Disse così, e indossava la tunica sul petto,
e sandali eleganti si legò ai piedi ben fatti,
e si allacciò con una fibbia un mantello di porpora,
doppio, avvolgente, sopra vi fioriva folta lana.
Presa la lancia possente, con la punta di bronzo affilata,
lungo le navi si mosse degli Achei tunicati di bronzo.
Primo fu Odìsseo, pari a Zeus per accortezza,
che ridestò dal sonno il Gerenio cavaliere,
chiamandolo, e l’appello gli giunse all’istante nel cuore;
e dalla tenda uscì, e disse loro queste parole:
“Perché lungo le navi e per il campo vagate da soli
nella notte divina? Quale urgenza è sopraggiunta?”
Nestore, di rimando, cavaliere Gerenio, rispose:
“Laertìade divino, Odìsseo ricco di astuzie,
non irritarti, tale dolore ha raggiunto gli Achei;
ma seguimi, e svegliamo anche gli altri, ai quali spetta
deliberare, se fuggire o se combattere”.

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Disse, ed entrò nella tenda il molto astuto Odìsseo,
e sulle spalle si pose l’adorno scudo e andò con loro.
Giunsero dal Tidìde Diomede, e lo trovarono
fuori la tenda con le armi, e attorno i compagni
dormivano, e tenevano sotto la testa gli scudi, e le lance
stavano infisse diritte sul manico, e il bronzo da lungi
brillava come la folgore del padre Zeus; l’eroe
dormiva, e sotto era stesa una pelle di bove da pascolo,
e sotto la sua testa una coltre risplendente.
Gli fu accanto il Gerenio cavaliere e lo svegliò,
smuovendolo col piede, e lo spronava rampognandolo:
“Svegliati, figlio di Tìdeo! Dormirai la notte intera?
Come non sai che i Troiani sul rialzo della piana
stanno accampati accanto alle navi, spazio esiguo li esclude?”
Disse; e quello di scatto si ridestò dal sonno,
e, rivolgendosi a lui, alate parole diceva:
“Vecchio impossibile, mai non rinunzi alla fatica!
Dunque più giovani figli degli Achei nemmeno esistono,
che vadano a svegliare uno ad uno i comandanti,
girando dappertutto? Ma che vecchio inattaccabile!”
Nestore, di rimando, cavaliere Gerenio, rispose:
“Amico, tutto quello che hai detto, lo hai detto a proposito.
Figli ne ho, e irreprensibili, e inoltre soldati,
ben numerosi, e ognuno potrebbe andare a chiamare;
ma veramente grande è l’urgenza che opprime gli Achei,
e sta sul filo del rasoio la sorte di tutti,
se amaramente morire oppure sopravvivere.
Ma suvvia, se ti faccio pena, Aiante veloce
e il figlio di Fìleo va’ a ridestare, tu sei il più giovane”.
Disse, e la pelle di un leone si gettò sulle spalle,
sgargiante, lunga sino ai piedi, e prese l’asta.
Si mosse, e ridestatili, l’eroe li portò via.
E quando furono in mezzo alle guardie radunate,
non trovarono i capi delle guardie addormentati,

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ma, desti, tutti quanti sedevano già in armi.
E come i cani si affannano per le bestie nella stalla,
se avvertono una belva inferocita, che nel bosco
procede e per i monti; e per essa è gran tumulto
di uomini e di cani, da loro il sonno se n’è andato;
tale il sonno profondo era scomparso dalle palpebre
per loro che vegliavano nella notte funesta; e alla piana
sempre guardavano, pronti ad udire i Troiani avanzare.
Gioì a vederli il vecchio, e li incitava con parole,
e, rivolgendosi a loro, alate parole diceva:
“Vigilate, mie creature; né mai il sonno
vi prenda, onde non siamo lo spasso dei nemici”.
Disse, e si spinse al di là del fossato; e lo seguivano
i capi degli Argivi, al consiglio convocati,
e con loro Merìone e di Nestore il nobile figlio
andavano: li avevano chiamati a partecipare.
Varcarono la fossa scavata, e si sedettero
dove emergeva netto il terreno dai cadaveri;
di là il violento Ettore era ritornato indietro,
gli Argivi sterminando, quand’era calata la notte.
E là sedendo, andavano conversando fra di loro.
Nestore cominciò, cavaliere Gerenio, a parlare.
“Cari, non c’è nessuno che si fidi del suo cuore,
tanto da osare di recarsi dai Troiani magnanimi,
se mai potesse sorprendere un nemico solitario,
o ascoltare qualche discorso fra i Troiani,
che cosa pensano tra di loro, se si apprestano
a rimanare qua fuori presso le navi, oppure a tornare
nuovamente in città, dopo aver sbaragliato gli Achei?
Questo dovrebbe appurare, e poi incolume tornare
presso di noi; grande fama riscuoterebbe sotto il cielo
fra tutti gli uomini, e inoltre avrà lauta ricompensa:
quanti il comando supremo esercitano sulle navi,
di essi ognuno gli darà una pecora nera,

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femmina con lattante – nessun premio è a questo pari -,
e inoltre sempre parteciperà a festini e banchetti”.
Disse così, e tutti se ne stavano muti, in silenzio;
ma poi parlò Diomede, possente nel grido di guerra:
“Nestore, il cuore e l’animo intrepido mi spingono
a penetrare nel campo dei nemici che stanno vicini,
i Troiani; ma se qualcun altro volesse seguirmi,
certo sarebbe l’impresa più ardita e più sicura.
Se vanno insieme in due, uno pensa anche per l’altro
che tutto al meglio proceda; ma uno solo, anche se pensa,
ha mente meno pronta, e il pensiero è più ristretto”.
Disse, e molti volevano andare assieme a Diomede:
lo volevano i due Aianti, scudieri di Ares,
lo voleva Merìone, e moltissimo il figlio di Nestore,
lo voleva l’Atride Menelao famoso con l’asta,
e pure Odìsseo paziente voleva insinuarsi nel gruppo
dei Troiani; il suo cuore nel petto sempre osava.
E così disse loro il sovrano di eroi Agamemnon:
“Figlio di Tìdeo Diomede, che sei gradito al mio cuore,
sceglilo tu il compagno, proprio quello che tu vuoi,
il migliore di tutti costoro, che in molti lo bramano.
Non sia che per riguardo al tuo cuore tu tralasci
il migliore, e cedendo al riguardo tu scelga il peggiore,
badando alla sua stirpe, o se risulti il più regale”.
Disse così, temendo per il biondo suo fratello;
Diomede gli rispose, possente nel grido di guerra:
“Se mi esortate a scegliermi io stesso il mio compagno,
come potrei scordarmi di Odìsseo divino,
dal cuore generoso e dall’animo gagliardo
in tutte le fatiche, e lo ama Pallade Atena?
Se costui mi seguisse, persino dal fuoco fiammante
entrambi torneremmo, la sua mente sa comprendere”.
E così gli rispose il paziente splendido Odìsseo:
“Figlio di Tìdeo, non lodarmi e non biasimarmi;

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agli Argivi stai parlando che tutto sanno.
Ma adesso andiamo, la notte declina, si appressa l’aurora,
sono avanzati gli astri, la notte è già a due terzi
del suo cammino, ormai ne resta solo un terzo”.
Detto così, delle armi terribili si vestirono.
Spada a due tagli diede il guerriero Trasimède
a Diomede, che aveva lasciato la sua nella nave,
e scudo; e sulla testa un elmo taurino gli pose,
senza cimiero e senza cresta, chiamato “caschetto”,
e protegge la testa dei giovani fiorenti.
Merìone diede a Odìsseo un arco e una faretra
e una spada, e gli pose l’elmo sopra il capo,
fatto di cuoio; ed all’interno con molte cinghie
era legato assai stretto; e di fuori bianchi denti
lo ricoprivano di cinghiale candide zanne,
qua e là, ben sistemati; e c’era in mezzo anche del feltro.
Un tempo da Eleòne da Amìntore di Òrmeno
Autòlico lo aveva sottratto depredando la casa,
quindi a Scandèa lo diede ad Amfidàmas di Citèra,
e Amfidàmas lo diede a Molo in dono ospitale
e Molo poi lo diede da portare a suo figlio Merìone;
e fu allora che recinse la testa di Odìsseo.
E non appena le armi terribili indossarono,
si mossero, e lasciarono tutti là i comandanti.
E sulla strada mandò un airone dalla parte destra
Pallade Atena, ma non lo videro con gli occhi,
nella notte tenebrosa, ne udirono il grido.
Del presagio Odìsseo gioì, e Atena pregava:
“Odimi, figlia di Zeus che porta l’ègida, tu che sempre
in tutte le fatiche mi assisti, e non ti sfugge
quando mi muovo; adesso più che mai, Atena, proteggimi.
Concedi che torniamo alle navi colmi di gloria,
compiuta grande impresa, che i Troiani impensierisca”.
Quindi pregava Diomede, possente nel grido di guerra:

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“Anche me ascolta, creatura di Zeus, l’Infaticabile;
seguimi come una volta Tìdeo splendido, mio padre, seguisti,
a Tebe, quando andava messaggero degli Achei.
Lungo l’Asòpo lasciò gli Achei tunicati di bronzo,
e lui da solo portava proposte di pace ai Cadmèi,
ma nel ritorno imprese compì davvero tremende,
splendida dea, con te, che lo assistevi propizia.
Ora acconsenti di assistere anche me, di preservarmi,
ed io ti immolerò una giovenca di un anno,
non domata, che nessun uomo ha ancora aggiogato;
questa ti immolerò, dopo averne indorato le corna”.
Pregarono così, e li udì Pallade Atena;
e dopo aver pregato del grande Zeus la figlia,
si incamminarono pari a leoni nella notte nera,
in mezzo a strage e a cadaveri e ad armi e a nero sangue.
Ma neanche Ettore consentì ai Troiani superbi
di dormire, ma convocava tutti migliori,
quelli che dei Troiani erano capi e condottieri;
e convovocatili, esponeva astuto progetto:
“ Chi, con promessa, per me compirebbe quest’impresa,
in cambio di un gran premio? Compenso avrà sicuro:
io darò un cocchio e due cavalli cervice possente,
che fra le navi veloci degli Achei sono i migliori,
a chiunque avrà l’ardire, traendone gloria,
di andare accanto alle rapide navi e ad informarsi
se sono custodite come prima le navi veloci,
o se, domati finalmente dalle nostre mani,
stanno pensando fra loro alla fuga, e più non vogliono
stare a vegliare la notte, sfiniti da orrenda stanchezza”.
Disse così, e tutti se ne stavano muti, in silenzio.
C’era un certo Dolone fra i Troiani, figlio di Eumède,
ch’era l’araldo divino, ed era ricco di oro e di bronzo;
sgradevole d’aspetto, ma celere nei piedi,
ed era il solo maschio in mezzo a cinque sorelle;

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e così allora parlò ad Ettore e ai Troiani:
“Ettore, il cuore mi suggerisce e l’animo altero
di andare accanto alle rapide navi e ad informarmi.
Alza, suvvia, lo scettro per me e fa’ giuramento
che mi darai i cavalli e il carro adornato di bronzo,
che il figlio portano irreprensibile di Pèleo, ed io
farò per te la spia non invano e non a vuoto.
Io me ne andrò diritto al campo, sino a che giunga
alla nave di Agamemnon, dove i migliori
stanno a consiglio, cioè se fuggire o se combattere”.
Disse, e quello prese lo scettro e prestò il giuramento:
“Lo sappia Zeus profondo frastuono, lo sposo di Hera:
altro uomo giammai salirà su quei cavalli
fra i Troiani, ma dico che te ne glorierai per sempre”.
Disse così, e a vuoto giurò, ma gli infuse ardimemto;
subito sulle spalle si vestì dell’arco ricurvo,
si mise indosso la pelle di un lupo canuto, ed in testa
un elmo di pelle di donnola, e acuto un giavellotto
si prese, e mosse alle navi dal campo; ma non doveva,
tornato dalle anvi, ad Ettore dare risposta.
E quando il gruppo di uomini e di cavalli ebbe lasciato,
prese la via con premura; e se ne accorse che giungeva
Odìsseo divino, e così parlò a Diomede:
“C’è qualcuno, Diomede, che sta giungendo dal campo;
non so se venga per spiare le nostre navi,
o per spogliare qualcuno dei cadaveri dei caduti.
Ma lasciamolo che passi prima per la pianura
un poco; poi gli saremo addosso e lo acciufferemo
rapidamente; se poi correndo dovesse sfuggirci,
verso le navi lungi dal campo sospingiamolo,
braccandolo con l’asta, che in città più non ripari”.
Dopo aver detto così, dalla strada in mezzo ai cadaveri
essi deviarono, e quello, da sciocco, passò oltre, veloce.
Ma quando fu distante quanto sono lunghi i solchi

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delle mule – esse sono di gran lunga più brave dei buoi
a tirare l’aratro compatto nel maggese profondo -,
essi gli corsero dietro, e lui ristette all’udire il rumore:
sperava nel suo cuore che i compagni a richiamarlo
dai Troiani giungessero, per contrordine di Ettore.
Ma quando a un tiro di lancia, o anche meno, ormai distavano,
si rese conto che erano nemici, e alternava i ginocchi
rapidi in fuga; e quelli all’istante ad inseguirlo.
Come due cani denti aguzzi, esperti di caccia,
una cerbiatta o una lepre senza mai desistere braccano
per un terreno selvoso, e quella corre davanti e squittisce;
tale il Tidìde e il distruttore di rocche Odìsseo
fuori dal campo Dolone tagliavano e lo braccavano.
Ma quando stava per mescolarsi con le guardie,
verso le navi fuggendo, vigore infuse Atena al Tidìde:
nessuno si vantasse degli Achei tunicati di bronzo
di averlo preceduto nel colpirlo, e lui fosse il secondo.
Gli si avventò con la lancia, e così disse il possente Diomede.
“Fermati, o con la lancia ti colpirò; perché non credo
che a lungo eviterai della mia mano l’abisso di morte”.
Disse così, e l’asta scagliò, e sbagliò di proposito:
sopra la spalla destra dell’asta limata la punta
si infisse al suolo, e quello ristette imbambolato,
e balbettava - in bocca si produsse stridore di denti -,
verde per il terrore; e ansimando lo raggiunsero
e per le braccia lo presero, e lui diceva fra le lacrime:
“Vivo prendetemi, vi pagherò il riscatto, ci sono
in casa bronzo e oro e ferro ben lavorato,
di cui mio padre vi verserà infinito riscatto,
se mi sapesse vivo presso le navi degli Achei”.
E, di rimando, gli disse il molto astuto Odìsseo:
“Coraggio, non pensare in cuore soltanto alla morte;
ma dimmi almeno questo, e dillo con franchezza:
dove da solo dal campo sei diretto verso le navi

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nella notte oscura, quando dormono gli altri mortali?
Per spogliare qualcuno dei cadaveri dei caduti?
Oppure Ettore ti ha mandato a spiare ogni cosa
presso le concave navi? O il tuo cuore ti ci ha spinto?”
E gli rispose Dolone, e i ginocchi gli tremavano:
“ Ettore mi ha deviato con un mucchio di fole la mente,
lui che promise di darmi i cavalli duri zoccoli
del Pelide superbo col carro adornato di bronzo,
e mi ha incitato ad andare per la celere notte scura
sino al campo dei nemici ad informarmi
se sono custodite come prima le navi veloci,
o se, domati finalmente dalle nostre mani,
stanno pensando tra loro alla fuga, e più non vogliono
stare a vegliare la notte, sfiniti da orrenda stanchezza”.
E, sorridendo, rispose il molto astuto Odìsseo:
“Certo il tuo cuore aspirava a ben grandi ricompense,
del valoroso Eàcide i cavalli! Ma sono difficili
per gli uomini mortali da domare e da condurre,
tranne che per Achille, generato da un’immortale.
Ma dimmi almeno questo, e dillo con franchezza:
Dove hai lasciato adesso Ettore pastore di popoli?
Dove gli giacciono le armi di Ares, dove i cavalli?
E dove stanno le guardie e i giacigli degli altri Troiani?
Cosa tra loro stanno meditando, se accanto alle navi
si affrettano a restare stando fuori, oppure a tornarsene
nuovamente in città, dopo aver sbaragliato gli Achei?”
E così gli rispose Dolone figlio di Eumède:
“Certo che te lo dirò, e lo farò con franchezza:
Ettore assieme a quelli che sono i suoi consiglieri
tiene consiglio presso la tomba di Ilo divino,
discosto dal rumore; e le guardie, eroe, di cui chiedi,
nessuna c’è che il campo sorvegli e custodisca.
Tutti i Troiani che hanno un focolare, e cui stia a cuore,
stanno vegliando e si esortano l’un l’altro a stare in guardia;

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invece gli alleati, che provengono da ogni parte,
dormono e lasciano ai Troiani di sorvegliare.
Certo per loro i figli non risiedono qui né le mogli”.
E, di rimando, gli disse il molto astuto Odìsseo:
“E dove coi Troiani domatori di cavalli
dormono, oppure in disparte? Questo dimmi, perch’io sappia”.
E così gli rispose Dolone figlio di Eumède:
“Certo che lo dirò, e lo farò con franchezza:
di faccia al mare i Cari e Pèoni archi ricurvi
e i Lèlegi e i Caucòni e gli splendidi Pelasgi
stanno, e dal lato di Timbre i Lici e i Misi superbi,
e i Frigi cavalieri e Mèoni che guidano i carri.
Sì, ma perché mi chiedete ogni cosa, una per una?
Se bramate nel gruppo dei Troiani penetrare,
stanno in disparte da tutti questi Traci appena giunti,
e Reso, il loro re, il figlio di Eionèo.
Ho visto i suoi cavalli bellissimi e grandissimi,
candidi più della neve e nella corsa pari ai venti;
è un intarsio d’oro e d’argento il suo carro, magnifico;
con armi d’oro gigantesche, stupendo a vedersi,
è qui venuto; per gli uomini mortali da portarsi
esse fatte non sembrano, ma per gli dèi immortali.
Ma adesso riportatemi alle navi che avanzano rapide,
oppure avvinto con laccio spietato qui lasciatemi,
fin quando tornerete e avrete la prova se io
vi ho detto tutto secondo che è giusto, oppure no”.
E a lui, di sbieco guardandolo, rispose il possente Diomede.
“No, non ti mettere in cuore, Dolone, di scampare,
pur cose utili avendoci detto: sei in nostra mano.
Se ti libereremo e ti lasceremo andare,
certo verrai di nuovo degli Achei alle navi veloci,
o per spiarci o per attaccarci in combattimento.
Se domato dalle mie mani perderai la vita,
modo più non avrai di dare fastidio agli Argivi”.

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Disse, e nel mentre quello tentava con la mano distesa
di sfiorargli il mento come supplice, in pieno collo
lo colse con la spada e gli recise entrambi i tendini:
mentre parlava, la testa di lui rotolò nella polvere.
L’elmo di donnola dalla testa gli levarono,
la pelle di lupo, l’arco ricurvo, l’asta lunga;
e ad Atena predatrice lo splendido Odìsseo
li sollevò con le mani, e pregando così disse:
“Gioisci o dea di questo, a te prima nell’Olimpo
faremo doni fra tutti gli immortali; ma tu adesso
guidaci sino ai Traci, ai cavalli, e ai loro giacigli”.
Disse così; e sollevando al di sopra di sé le spoglie,
le appese a un tamerisco, e vi mise un contrassegno,
canne intrecciando e rami di tamerisco fiorito,
che non sfuggisse, tornati nella rapida notte nera.
E procedevano in mezzo alle armi e al nero sangue,
e presto giunsero al battaglione dei Traci guerrieri.
Vinti dalla stanchezza dormivano, e accanto le armi
bellissime in bel modo e in ordine al suolo giacevano
su tre distinte file, con due cavalli accanto a ciascuno.
Reso dormiva nel mezzo, ed accanto i cavalli veloci
stavano con le briglie alla barra del carro legati.
Lo vide Odìsseo per primo e lo mostrò a Diomede:
“ Questo è quell’uomo, Diomede, e questi i suoi cavalli
che ci diceva Dolone, che noi abbiamo ucciso.
Mostra, suvvia, il possente furore; non ti si addice
di stare lì a far niente con le armi, ma sciogli i cavalli,
oppure ammazza gli uomini, ed io penserò ai cavalli”.
Disse, e gli infuse furore Atena dagli occhi lucenti,
ed ammazzava in giro, e si levava penoso il lamento
dei trafitti di spada, e la terra era rossa di sangue.
Come un leone, piombando su greggi incustodite
di pecore o di capre, meditando una strage, le assalta,
in pari modo il figlio di Tìdeo i Traci assaliva,

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sinché ne uccise dodici; e il molto astuto Odìsseo,
ognuno che il Tidìde trafiggesse con la spada,
standogli accanto, presolo per i piedi, lo tirava,
questo pensando in cuore, che i cavalli belle criniere
agevolmente passassero e non prendessero ombra,
incespicando sui cadaveri: non ne erano avvezzi.
Ma non appena il re fu raggiunto dal Tidìde,
per tredicesimo quello gli strappava la vita dolcissima,
mentre smaniava: sul capo gli incombeva quella notte
un triste sogno: il nipote di Èneo, per volere di Atena.
Intanto sciolse i cavalli duri zoccoli Odìsseo paziente,
con cinghie li legò, li spinse fuori dal gruppo,
con l’arco stuzzicandoli, perché la frusta lucente
non si era ricordato dal carro adorno di prendere.
Poi fece un fischio, segnale per lo splendido Diomede.
Ma lui indugiava, pensando cosa fare di più cane,
se preso il carro, ove stavano a giacere le armi bellissime,
trarlo per il timone, o portarlo via, sollevatolo,
o togliere la vita a un maggior numero di Traci.
Mentre così ondeggiava nell’animo, ecco che Atena
standogli accanto, disse allo splendido Diomede:
“Pensa a tornare, figlio di Tìdeo magnanimo,
presso le concave navi, non devi arrivarci scappando,
che intanto un altro dio non vada a svegliare i Troiani”.
Disse, e la voce riconobbe della dea che parlava;
e subito balzò sui cavalli, e Odìsseo con l’arco
frustò; e volarono degli Achei alle navi veloci.
Né Apollo arco d’argento faceva cieca vedetta;
ma come vide Atena parlare col figlio di Tìdeo,
nel grande stuolo dei Troiani si immerse adirato,
e Ippocoonte ridestò, consigliere dei Traci,
ch’era cugino nobile di Reso; strappato al sonno,
visto deserto il luogo, ove stavano i cavalli,
e visti gli uomini rantolanti nell’orrido scempio,

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gemito emise e chiamò per nome il caro compagno.
Urlo e indicibile strepito sorse allora dei Troiani,
che si accalcavano tutti: assistevano a orribili eventi
dagli uomini compiuti che alle concave navi tornavano.
Giunti dove avevano ucciso la spia di Ettore,
Odìsseo caro a Zeus fermò i veloci cavalli,
e il Tidìde, a terra balzando, le spoglie cruente
consegnò nelle mani di Odìsseo e salì in groppa ai cavalli.
Poi i cavalli frustò che partissero, ed essi volarono
verso le concave navi: ciò gradiva il loro cuore.
Primo fu Nestore a udire il rumore, e così disse:
“Amici miei, consiglieri e capi degli Argivi,
mi sbaglierò o dirò il vero? Ma è il cuore che mi spinge.
L’orecchio mi colpisce di rapidi cavalli
il rumore; oh se fossero Odìsseo e il possente Diomede,
che dai Troiani spingono i cavalli solidi zoccoli!
Ma temo orrendamente nel cuore che qualcosa
sia capitato ai migliori degli Argivi nel campo troiano”.
E non aveva ancora finito, che quelli giunsero.
Essi scesero a terra, e i compagni, rallegrandosi,
li salutarono dando la mano, con dolci parole.
Li interrogò primo Nestore, Gerenio cavaliere:
“Molto lodato Odìsseo, grande vanto degli Achei,
dimmi, come prendeste i cavalli, penetrati nel campo
dei Troiani? O un dio ve li ha dati, venendovi incontro?
Tremendamente rassomigliano a raggi di sole.
Sempre mi mescolo coi Troiani, e vi assicuro
che non rimango mai alle navi, pur vecchio guerriero.
Ma cavalli del genere né mai vidi né conobbi.
Credo davvero che un dio, incontrandovi, ve li ha dati,
perché ambedue vi ama Zeus che aduna le nubi
e Atena occhi lucenti, figlia di Zeus che porta l’ègida”.
E, di rimando, gli disse il molto astuto Odìsseo:
“Nestore figlio di Nèleo, grande vanto degli Achei,

197
facile per un dio, se lo vuole, anche migliori
donarne di cavalli – gli dèi sono molto più forti -.
Questi cavalli, o vecchio, di cui chiedi, sono qui appena giunti,
e sono Traci; il prode Diomede il loro padrone
ha ucciso, e intorno dodici compagni, tutti i migliori.
Abbiamo ucciso una spia, tredicesimo, accanto alle navi,
che Ettore con gli altri notabili troiani
ha mandato per esplorare il nostro campo”.
Disse, e spinse i cavalli duri zoccoli oltre il fossato,
esultante; e gioiosi con lui gli altri Achei procedevano.
E come giunsero alla tenda ben fatta del figlio di Tìdeo,
legarono i cavalli con le cinghie ben connesse
alla mangiatoia, dove i cavalli di Diomede
celeri stavano a mangiare dolce frumento.
E sulla poppa le spoglie cruente di Dolone
depose Odìsseo, finché fosse pronto un sacrificio
per Atena, e lavarono in mare il copioso sudore,
entrando, dalle gambe, dalla nuca e intorno alle cosce.
E quando l’onda il copioso sudore ebbe deterso
dalla pelle e ristorato il loro cuore,
nelle vasche entrarono levigate e si lavarono.
Dopo che si lavarono e che si unsero con olio abbondante,
sedettero a banchetto e libarono ad Atena,
dal cratere colmo attingendo il vino dolcissimo.

198
LIBRO XI

Le gesta di Agamemnon.

Sorta l’aurora, Zeus invia alle navi degli Achei Eris, la Discordia, al fine di incitarli
alla lotta. A partire da questo momento, ha inizio una interminabile giornata di
scontro, che si conclude soltanto al libro XVIII, con il rientro di Achille, grazie al
quale la salma di Patroclo, contesa senza esito da ambo le parti, può essere sottratta
ai Troiani. Si tratta di un’unica giornata di lotta, nella quale avvenimenti di ogni
sorta si succedono, sino all’esito finale, che è anche l’apice dell’emozione e della
tensione, vale a dire l’uccisione di Patroclo, con ciò che ne segue. Con essa si
raggiunge anche il senso ultimo dell’intera vicenda del poema, dalla quale poi si
avvia la conclusione dello stesso. Apparsa la Discordia, Agamemnon si arma di
tutto punto, e così anche Ettore. I due guerrieri imperversano. Questo sino a che
Agamemnon viene ferito a un braccio ed è costretto a ritirarsi. Anche Diomede è
costretto a fare altrettanto, perché ferito da una freccia di Paride. Subito dopo tocca
a Odìsseo ritirarsi dallo scontro perché ferito. Successivamente viene ferito il
medico Macàon, figlio di Asclepio, anche lui da una freccia di Paride. Nestore lo
porta nella sua tenda per curarlo. Sempre da Paride viene ferito Eurìpilo. Achille,
dalla nave di vedetta, riconosce Macàon mentre viene portato via da Nestore.
Chiama allora Patroclo, e gli dice di recarsi nella tenda di Nestore ad informarsi. Il
vecchio, che si sta riavendo con una bevanda appositamente preparata dall’esperta
Ecamède, accoglie con gioia Patroclo, e gli rammenta di essere stato investito del
compito di tenere a freno Achille e di guidarlo. Adesso, per esempio, gli chiede di
proporre ad Achille di fargli rivestire le sue armi ed entrare nel conflitto. Il che
accadrà e sarà la sua rovina. Patroclo torna di corsa alle navi di Achille, ma incontra
Eurìpilo ferito che rientra dallo scontro, e si prende cura di lui, esperto com’è di
medicina, grazie a quanto gli ha insegnato Achille, a sua volta ammaestrato dal
centauro Chirone.

199
Presso l’illustre Titòno Aurora dal letto sorgeva,
per portare agli immortali e ai mortali la luce;
e Zeus sulle celeri navi degli Achei la Discordia gettava,
tremenda, che reggeva in mano il segnale di guerra.
E sulla nera nave smisurata di Odìsseo ristette,
che si trovava nel centro, per sentire da entrambe le parti,
sino alle tende di Aiante Telamonio, e a quelle di Achille –
essi agli estremi avevano le navi bel calibrate
tratte a secco, fidando nel valore e nelle braccia -.
Qui si fermò la dea e diede un grido potente, terribile
e acuto, e infuse in cuore a ciascuno degli Achei
la forza di combattere e di lottare senza sosta.
E subito la guerra divenne per loro più dolce
che ritornare nella cara patria con le concave navi.
Gridò l’Atride e l’ordine diede agli Argivi di armarsi,
e lui stesso si rivestì del bronzo splendente.
Prime intorno alle gambe si mise le gambiere,
belle, ben rafforzate di copricaviglia d’argento,
seconda la corazza si rivestì sopra il petto,
che Cìnira gli diede un dì come dono ospitale.
Saputo aveva a Cipro grande fama, che gli Achei
stavano per salpare verso Troia con le navi,
e pertanto al re la donò per fargli piacere.
Era fatta di dieci strisce di smalto nero,
e di dodici fasce d’oro e di venti di stagno,
e serpenti di smalto si tendevano verso il collo,
tre da ogni lato, simili all’iride che il Cronìde
colloca in mezzo alle nuvole, segno agli uomini parlanti.
Poi alle spalle si appese la spada: borchie d’oro
vi risplendevano, sopra, e intorno ad essa il fodero
era d’argento, ben collegato con ganci dorati.
Poi sollevò lo scudo avvolgente, adorno, robusto,
bello: c’erano intorno ad esso dieci cerchi di bronzo,
e su di esso c’erano poi venti umboni di stagno,

200
bianchi, e nel mezzo ve n’era uno di smalto nero.
Gorgò volto agghiacciante ad esso faceva corona,
sguardo tremendo, con Terrore e Panico accanto.
Era fatta d’argento la cinghia, e sopra di essa
si avvinghiava un serpente di smalto, con tre teste
che si intrecciavano, abbarbicate a un unico collo.
Elmo a due cime si mise sulla testa, a quattro piasatre,
dal crine equino. Terribile ondeggiava sopra il pennacchio.
Afferrò poi due lance robuste, con la punta di bronzo,
acuminate: da lungi il bronzo sino al cielo
risplendeva; e fecero tuonare Atena e Hera,
per onorare il re di Micene ricca d’oro.
Subito dopo ciascuno dava ordine al proprio auriga
di tenere i cavalli ben schierati lungo il fosso:
chiusi nell’armatura, loro a piedi procedevano.
Inestinguibile sorse grido alla prima aurora.
Essi avanti agli aurighi si schierarono lungo il fossato,
e gli aurighi seguivano subito; e il figlio di Crono
suscitò frastuono funesto, e fece scendere
sanguinolenta rugiada dal cielo, perché era pronto
tante forti teste a travolgere nell’Ade.
Dall’altra parte i Troiani, sul rialzo della piana,
attorno al grande Ettore e a Polidàmas senza macchia,
e ad Enea, onorato dal popolo come un dio,
e ai tre figli di Antenore, Pòlibo e Agenore splendido,
e il giovane Acamante, pari agli immortali, stavano.
Ettore, in prima fila, portava lo scudo rotondo,
quale traspare dalle nuvole l’astro funesto,
scintillante, e subito nei nembi scuri si immerge;
tale tra i primi Ettore si mostrava, e subito dopo
tra gli ultimi, a esortare: e riluceva nel bronzo,
come la folgore del padre Zeus che porta l’ègida.
E come i mietitori, venendosi incontro l’un l’altro,
seguono il solco sul campo di un uomo facoltoso,

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campo di grano e d’orzo, e cadono fitte le spighe;
così i Troiani e gli Achei, balzando gli uni sugli altri,
uccidevano, e nessuno pensava alla fuga funesta.
Pari i fronti aveva la mischia, e simili a lupi
si accanivano, la funesta Discordia godeva.
Lei soltanto era presente fra gli dèi nella lotta,
gli altri non c’erano, ma se ne stavano tranquilli
nelle loro case seduti, dove per ciascuno
belle dimore sorgono nelle pieghe dell’ Olimpo.
Tutti accusavano il figlio di Crono nere nubi,
perché voleva gloria concedere ai Troiani.
Non si curava di loro il padre, ma, ritiratosi,
in disparte da tutti sedeva, esultante di gloria,
la città dei Troiani e le navi degli Achei guardando,
il lampeggiare del bronzo, chi uccideva e chi era ucciso.
Sino a che dall’aurora cresceva il sacro giorno,
d’ambo le parti fioccavano i dardi e cadevano gli uomini.
Ma quando il taglialegna si appresta il desinare,
fra le vallate del monte, dopo che ha saziato le mani
a tagliare grandi alberi, e la stanchezza è giunta al cuore,
e desiderio di dolce cibo lo sorprende;
ecco che i Dànai col loro valore spezzarono i ranghi,
fila per fila incitando i compagni; ed Agamamnon
balzò per primo, e colse Biènor pastore di popoli,
lui, e subito dopo il compagno, Oilèo cavaliere.
Dunque balzando dal carro gli si parò davanti,
e diritto mentre attaccava con l’asta acuta
lo colpì, e l’elmo di bronzo non trattenne la lancia,
ma trapassò con l’elmo anche l’osso; dentro il cervello
tutto si sfracellò: lo abbatté mentre attaccava.
Poi li lasciò sul posto il sovrano di eroi Agamemnon,
coi petti che splendevano, poiché li spogliò delle vesti.
E poi passò da Iso e da Àntifo, per ucciderli,
ch’erano figli di Priamo, bastardo e legittimo: entrambi

202
su un solo carro andavano, il bastardo reggeva le redini,
e gli stava accanto l’illustre Àntifo; Achille una volta
nelle balze dell’Ida li legò con vimini freschi,
presili mentre alle pecore accudivano, e dietro riscatto
li liberò. E l’Atride, il più che possente Agamemnon,
l’uno colpì sul petto, alla mammella, con la lancia,
e Àntifo all’orecchio con la spada, dal carro sbalzandolo,
e affrettandosi; li spogliò delle belle armi,
riconoscendoli: entrambi li aveva visti alle celeri navi,
quando dall’Ida li aveva portati Achille veloce.
Come un leone i figli piccini di rapida cerva
agevolmente sbrana, afferrandoli coi forti denti,
entrato nella tana, e strappa loro il tenero cuore;
essa, per quanto assai vicina, non trova la forza
di soccorrerli, un tremito terribile la invade;
balza fulminea fra i boschi e fra la fitta selva,
tutta affannata e sudata, all’assalto dell’orrida fiera;
così nessuno era in grado di evitare ai due la morte
fra i Troiani; anch’essi fuggivano dagli Argivi.
Inoltre anche Pisandro e Ippòloco ardimentoso,
figli del saggio Antimaco, che più di tutti aveva accettato
oro e splendidi doni da Alessandro, e si opponeva
a ridare Elena al biondo Menelao,
questi due figli li colse il possente Agamemnon: andavano
su un solo carro e reggevano insieme i veloci cavalli;
e dalle mani sfuggirono le redini risplendenti,
e i due cavalli sbandarono, e su di loro l’Atride
come un leone balzò; e dal carro lo supplicarono:
“Prendici vivi, Atride, e accetta adeguato riscatto!
Nella casa di Antimaco ci sono molti tesori,
bronzo e oro e ferro finemente lavorato,
donde il padre ti offrirà infinito riscatto,
se ci sapesse vivi fra le navi degli Achei”.
Così quei due, piangendo, al re con dolci parole

203
si rivolgevano, ma dolci altrettanto non ne udirono:
“Se voi due siete dunque figli del saggio Antimaco,
che suggerì all’assemblea di ammazzare Menelao,
giunto una volta in ambasceria assieme a Odìsseo
simile a un dio, e che fra gli Achei non ritornasse,
ora del padre la sconcia offesa pagherete”.
Disse, e dal carro Pisandro spinse a terra, colpendolo al petto
con l’asta, e quello al suolo si riversò supino.
Balzò dal carro Ippòloco, e lo uccise da terra Agamemnon,
con la spada le braccia tagliandolgli e mozzandogli il collo;
poi come un tronco lo spinse a rotolare nella mischia.
Là li lasciò; e dove più fitte si azzuffavano
le schiere si diresse, con gli Achei dalle belle gambiere:
fanti uccidevano fanti, che fuggivano costretti,
e cavalieri uccidevano cavalieri; saliva la polvere
dalla pianura, che i piedi sonanti dei cavalli levavano.
E col bronzo uccidevano. E così il possente Agamemnon
senza sosta uccidendo inseguiva, incitando gli Argivi.
E come il fuoco spietato si abbatte su florida selva,
e il vento turbinando da ogni parte lo spande e le piante
cadono giù schiantate dall’impeto del fuoco,
così sotto l’Atride Agamemnon le teste cadevano
dei Troiani in fuga, e i cavalli colli possenti,
molti, scuotevano i carri vuoti nel campo di guerra,
rimpiangendo gli irreprensibili aurighi; e giacevano
a terra, agli avvoltoi assai più cari che alle mogli.
Ettore Zeus lo salvava dai colpi e dalla polvere,
dalla carneficina, dal sangue e dal tumulto.
Ma l’Atride inseguiva furente i Dànai incitando;
gli altri correvano al di là della tomba di Ilo Dardànide,
in mezzo alla pianura, al di là del caprifico,
della città bramosi; ma lui gridando incalzava
e si imbrattava le mani invincibili di sangue.
Ma non appena giunsero alle porte Scee e alla quercia,

204
qui si fermavano e si aspettavano l’un l’altro.
Altri ancora fuggivano nella piana, come vacche
che un leone, irrompendo nel fondo della notte,
ha messo in fuga tutte; e appare l’abisso di morte
a colei cui si accosta: coi forti denti afferrandola,
prima le spezza il collo, sangue e viscere poi le succhia;
tale l’Atride, il possente Agamemnon, li inseguiva,
l’ultimo sempre massacrando, e quelli fuggivano.
Molti ne caddero riversi o supini giù dai carri,
ai colpi dell’Atride, che con l’asta imperversava.
Ma quando stava per giungere alla città e al ripido muro,
ecco che allora il padre degli uomini e degli dèi
sopra le vette dell’Ida ricco d’acqua si sedette,
sceso dal cielo, e teneva la folgore nella mano,
e un messaggio affidava a Iris ali dorate:
“Va’, Iris rapida, a Ettore riferisci quanto ti dico:
sino a che vedrà Agamemnon, pastore di popoli,
imperversare fra i primi, sterminando schiere di uomini,
si tiri indietro, ed inciti il resto dell’esercito
a contrastare i nemici nella mischia furibonda.
Quando però, ferito da una lancia o colpito da un dardo,
lui salirà sul suo carro, gli darò allora la forza
di uccidere, sino a che giunga alle navi buoni scalmi,
e cali il sole e sopraggiunga la notte sacra”.
Disse, e ubbidì la rapida Iris dai piedi di vento,
e scese dalle vette dell’Ida a Ilio sacra,
e trovò il figlio del saggio Priamo, lo splendido Ettore,
che stava ritto in piedi sui cavalli, sopra il carro,
e gli fu accanto, e così gli disse Iris veloce:
“Ettore, figlio di Priamo, che sei pari a Zeus per senno,
il padre Zeus mi manda a dirti queste cose:
sino a che vedrai Agamemnon, pastore di popoli,
imperversare fra i primi, sterminando schiere di uomini,
tirati indietro, ed incita il resto dell’esercito

205
a contrastare i nemici nella mischia furibonda.
Quando però, ferito da una lancia o colpito da un dardo,
lui salirà sul suo carro, ti darà allora la forza
di uccidere, sin che tu giunga alle navi buoni scalmi,
e cali il sole e sopraggiunga la notte sacra”.
Detto così, se ne andò via la celere Iris.
Ettore balzò a terra dal carro con le armi,
e percorreva l’esercito palleggiando l’asta acuta,
incitando a combattere, e destava la mischia tremenda.
Ed essi si girarono e si disposero contro gli Achei,
e gli Argivi dall’altra parte rafforzavano i ranghi.
Si restaurò la battaglia frontale; ed Agamemnon
primo si mosse, voleva scontrarsi in prima fila.
Ditemi adesso, o Muse che abitate le sedi di Olimpo,
chi per primo si mosse per affrontare Agamemnon,
sia fra i Troiani, sia fra gli alleati illustri.
Ifidamante, figlio di Antenore, prode e grande,
che fu allevato nella fertile Troia, madre di greggi.
Lo allevò, ch’era ancora piccino, in casa Cisse,
nonno materno, ch’era il padre di Teanò bella guancia;
ma quando giunse al vertice di giovinezza eletta,
se lo trattenne con sé e gli diede in sposa sua figlia.
Ma, sposato, se ne andò via cercando gloria
contro gli Achei, con dodici navi che lo seguivano.
E a Percòte lasciò quelle navi ben pareggiate,
e lui da fante, a piedi, era giunto sino ad Ilio.
Dunque costui si mosse incontro all’Atride Agamemnon.
E quando furono ormai vicini, entrambi avanzando,
sbagliò il colpo l’Atride, la lancia passò a lato,
e Ifidamante, invece, al di sotto della corazza,
alla cintura lo colse, e lo pressò con la mano pesante,
ma non passò la cinta variegata, ma prima, urtando
contro l’argento, la punta come piombo si piegò.
L’asta afferrò con la mano il più che possente Agamemnon,

206
come un leone a sé la tirò, e gliela strappò,
e con la spada al collo lo colpì e gli sciolse le membra.
E, là caduto, si addormentò in un sonno di bronzo,
lui miserevole, in difesa dei suoi, dalla sposa legittima
lungi, di lei da cui gioia non ebbe, anzi molto le diede:
e prima diede cento buoi, e poi mille promise,
capre con pecore insieme, che infinite si allevava.
E lo spogliò delle armi Agamemnon figlio di Àtreo,
e portò nell’esercito degli Achei la bella armatura.
Come lo scorse Coóne, prescelto fra gli eroi,
figlio maggiore di Antenore, dolore violentissimo
la vista gli offuscò per il fratello caduto,
e si appostò di fianco con l’asta, di nascosto
ad Agamemnon splendido, e lo colpì al di sotto del gomito,
in mezzo al braccio: la punta da parte a parte passò della lancia
lucida; rabbrividì il sovrano di eroi Agamemnon.
Ma neppure così abbandonò la battaglia e lo scontro,
ma si avventò su Coóne con in mano l’asta aerea;
quello il fratello germano Ifidamante traeva
per un piede con zelo e chiamava tutti i migliori.
Mentre traeva nel mucchio, sotto lo scudo ombelicato
lo colpì con l’asta di bronzo e gli sciolse le membra,
e gli troncò la testa sopra il corpo di Ifidamante.
E così i figli di Antenore, per mano del re Atride,
la loro sorte compiendo, discesero nell’Ade.
Ma lui ancora si avventava su schiere di uomini
con l’asta, con la spada e con enormi pietre,
sinché dalla ferita fluiva sangue ancora caldo.
Ma quando la ferita ristagnò, si fermò il sangue,
dolori acuti invasero il vigore dell’Atride.
Come una donna in travaglio è trafitta dal dardo acuto,
penetrante, scoccato dalle Ilìtie che assistono ai parti,
figlie di Hera - doglie amare esse portano -; tali
dolori acuti invasero il vigore dell’Atride.

207
Balzò sul carro, e diede il compito all’auriga
di portarlo alle concave navi, era afflitto nel cuore.
Pure con forza gridò, perché lo sentissero i Dànai:
“Amici miei, consiglieri e capi degli Argivi,
adesso difendete le navi che il mare attraversano
dal fiero assalto, dal momento che Zeus mente accorta
non mi concede di battermi coi Troiani tutto il giorno”.
Disse così, e l’auriga i cavalli bella criniera
verso le concave navi frustò, ed essi volarono.
Schiumavano nel petto, si insozzavano di polvere,
portando il re ferito lontano dallo scontro.
Ettore come si accorse che Agamemnon se ne andava,
i Troiani e i Lici incitava, forte gridando:
“O Troiani e Lici e Dàrdani guerrieri,
siate uomini, amici, rammentate l’ardente vigore.
E’ andato via il guerriero più forte, e gran gloria mi ha dato
Zeus Cronìde; ora dritto i cavalli solidi zoccoli
sui prodi Dànai spingete, ne avrete maggior gloria”.
Detto così, destò in ognuno furore e ardimento.
E come un cacciatore i cani denti candidi
aizza contro un porco selvatico o un leone,
così contro gli Achei aizzava i Troiani magnanimi
Ettore figlio di Priamo, pari ad Ares sterminatore.
E lui stesso avanzava superbo in prima fila,
e piombò nella mischia, come raffica procellosa,
che si abbatte sul mare violaceo e lo sconvolge.
Chi dunque lui uccise per primo, uccise per ultimo,
Ettore figlio di Priamo, quando Zeus gli diede gloria?
Primo fu Asèo e poi Autònoo e poi Opìte,
e Dòlope figlio di Clito, e Ofeltio e Agelào,
Esimno e Oro, e poi Ippònoo, forte guerriero.
Questi furono i capi dei Dànai che uccise; e poi subito
la massa; e come Zefiro, quando spazza via le nubi
di Noto, il vento argenteo, con schianto di dura procella –

208
molto rigonfie le onde si accalcano, e in alto la spuma
si diffonde sotto l’urlo del vento errabondo -;
fitte così per mano di Ettore le teste cadevano.
Era in quel punto rovina e disfatta irreparabile
e sulle navi ripiombavano in fuga gli Achei,
se al Tidìde Diomede non si rivolgeva Odìsseo:
“Figlio di Tìdeo, abbiamo scordato l’ardente vigore?
Fermati, caro, accanto a me; ma quale sarebbe
onta, se Ettore elmo che splende prendesse le navi!”
E, di rimando, così gli rispose il possente Diomede:
“Resisterò e contrasterò; ma certo breve
il sollievo sarà, perché Zeus che aduna le nubi
vuole dare forza ai Troiani e non a noi”.
Disse così, e Timbrèo dal carro spinse a terra,
alla mammella sinistra con l’asta colpendolo; e Odìsseo
il suo scudiero colpì, Molìone pari a un dio.
Là li lasciarono: avevano cessato di combattere;
ed entrarono nella mischia: due cinghiali
che irrompono superbi sui cani da caccia; così,
con nuovo assalto uccidevano i Troiani; e resistevano
gli Achei fuggendo volentieri da Ettore splendido.
Presero allora il carro e due ottimi guerrieri,
figli di Mèrope di Percòte, che più di tutti
l’arte profetica conosceva e non voleva
che i suoi figli partissero per la guerra assassina; ma essi
non lo ascoltarono, spinti dalle Chere di nera morte.
Strappò loro il Tidìde Diomede famoso con l’asta
vita e respiro, e li spogliò delle splendide armi.
Tolse di mezzo allora Odìsseo Ippòdamo e Ipèiroco.
Rese in quel punto pari lo scontro il figlio di Crono,
che guardava dall’Ida: si ammazzavano gli uni gli altri.
E con l’asta il figlio di Tìdeo trafisse Agàstrofo,
l’eroe figlio di Pèone, all’anca; ma i cavalli
non gli erano vicini per fuggire, e l’errore fu grande.

209
Glieli teneva in disparte lo scudiero, ma lui a piedi
in prima fila infuriava, sino a che perdette la vita.
Ettore allora li scorse tra le file, e su di loro gridando
si mosse; lo seguivano le schiere dei Troiani.
Rabbrividì Diomede, possente nel grido di guerra,
vistolo, e subito disse a Odìsseo, che gli era vicino:
“Questa rovina su noi si riversa: Ettore forte.
Ma resistiamo e difendiamoci, stando qui fermi”.
Disse, e scagliò, palleggiando, la lancia lunga ombra,
e colse, non sbagliò, mirando dritto alla testa,
in cima all’elmo, ma il bronzo dal bronzo fu deviato,
e non raggiunse la bella pelle: la proteggeva
l’elmo a tre piastre con la visiera: lo donò Febo Apollo.
Ettore corse indietro, si mescolò tra la folla:
stette, caduto in ginocchio, si appoggiò con la mano robusta
al suolo, nera notte la vista gli ravvolse.
Mentre il Tidìde andava cercando la sorte dell’asta,
lungi, tra i primi, nel punto del suolo dov’era caduta,
riprese fiato Ettore, salì subito sul carro,
verso la massa lo spinse, sottraendosi al nero destino.
E con l’asta pressandolo, gli disse il possente Diomede:
“Cane, di nuovo sfuggisti alla morte, eppure vicino
il malanno ti è giunto: ti ha salvato Febo Apollo,
quello che devi pregare quando vai nel fracasso dei dardi.
Ma ti torrò di mezzo, se mi capita di incontrarti,
e a patto che anche per me ci sia un dio che mi protegga.
Ora sugli altri mi getterò, chiunque io trovi”.
Disse, e spogliò delle armi il Peònide guerriero.
Ma Alessandro, lo sposo di Elena bella chioma,
l’arco tendeva contro il Tidìde pastore di popoli,
stando appoggiato alla stele, accanto al sepolcro di Ilo
figlio di Dàrdano, antico sovrano del suo popolo.
Lui la corazza scintillante del forte Agàstrofo
stava togliendo dal petto, e lo scudo dalle spalle,

210
e l’elmo greve. L’altro tendeva la cocca dell’arco;
tirò, né vano il dardo gli dipartì di mano:
alla pianta del piede destro lo colse, la freccia
lo trapassò e si infisse al suolo; ridendo di gusto,
Paride dal nascondiglio sbucò fuori, e disse vantandosi:
“Toh sei rimasto colpito, né il dardo uscì invano; ma meglio
se, còlto al basso ventre, ti avessi strappato la vita!
Avrebbero i Troiani ripreso fiato dal flagello,
loro che temono te come capre belanti un leone”.
E a lui, senza turbarsi, rispose il possente Diomede:
“Arciere petulante, azzimato acchiappafemmine,
se ardissi confrontarti con me da solo con le armi,
né l’arco né lo stuolo dei dardi ti gioverebbero;
adesso mi hai graffiato la pianta del piede, e ti vanti.
Non me ne curo, quasi che donna o bimbo sciocchino mi avessero
colpito; è dardo ottuso quello di uomo imbelle o da nulla.
Ma se scagliato da me, quand’anche appena sfiori,
il dardo è sempre acuto e dà subito la morte.
Le guance della donna di lui sono piene di graffi,
orfani sono i figli, e di sangue la terra arrossando,
lui imputridisce, e più avvoltoi ha intorno che donne”.
Disse, e gli giunse accanto Odìsseo famoso con l’asta,
stette dinanzi, e lui, seduto dietro, la freccia
dal piede estrasse, e nel corpo dolore acuto si diffuse.
Balzò sul carro e diede ordine al suo auriga
di dirigersi alle concave navi; era afflitto nel cuore.
Solo rimase Odìsseo famoso con l’asta, nessuno
accanto a lui restò, tutti erano in preda al terrore.
E così disse, turbato, al suo magnanimo cuore:
“Ahimè, che fare? E’ grande male se me ne fuggo,
dal numero impaurito; ma è peggio se vengo preso
da solo; ha messo in fuga il Cronìde gli altri Dànai.
Ma che cosa è mai questo che va ragionando il mio cuore?
So bene che i codardi abbandonano lo scontro,

211
mentre chi vale in guerra, deve in ogni modo resistere
con tutte le sue forze, che colpisca o sia colpito”.
Mentre così ondeggiava nell’animo e nel cuore,
giunsero dei Troiani muniti di scudo le schiere,
lo misero nel mezzo, ma si fecero del male.
E come quando cani e giovani fiorenti
balzano addosso a un cinghiale, che sbuca dal fondo del bosco,
e affila i denti candidi nelle mascelle ricurve,
e gli si avventano standogli intorno, e stridore di denti
sorge, e lo affrontano, nonostante sia terribile;
in pari modo assaltavano Odìsseo caro a Zeus
i Troiani. E prima Deiopìte irreprensibile
lui colse sulla spalla, avventandosi con l’asta acuta,
e successivamente Toóne ed Ènnomo tolse di mezzo.
E poi Chersidamante, che saltava giù dal carro,
con l’asta, sull’addome, sotto lo scudo ombelicato,
colse; piombò nella polvere, e strinse col pugno la terra.
Là lo lasciò, e colpì con la lancia Càropo Ippàside,
ch’era fratello germano del benestante Soco;
gli si appressò per soccorrerlo Soco pari a un dio,
e fattosi vicino a Odìsseo, così disse:
“Molto lodato Odìsseo, di inganni e fatiche mai sazio,
oggi potrai vantarti per entrambi i figli di Íppaso,
di aver ucciso e disarmato tale coppia di eroi;
o perderai la vita, da questa mia lancia trafitto”.
Dopo aver detto così, lo colpì sullo scudo rotondo,
l’asta violenta attraversò lo scudo lucente,
e rimase infissa nella corazza molto ornata,
tutta la pelle squarciando sul fianco; non permise
Pallade Atena che penetrasse sino alle viscere.
Si rese conto Odìsseo che il colpo non era mortale,
e arretrando a Soco si rivolse con queste parole:
“Disgraziato, davvero ti spetta l’abisso di morte!
Mi hai fatto smettere di combattere con i Troiani,

212
ma io ti dico che proprio qui morte e nero destino
per te sarà quest’oggi, e dalla mia lancia domato,
mi darai gloria, e l’anima all’Ade famosi puledri”.
Disse così, e quell’altro se l’era data a gambe,
e a lui voltato conficcò la lancia nel dorso,
nel mezzo delle spalle, e la spinse dentro al petto.
Tonfo produsse cadendo, e si vantò lo splendido Odìsseo:
“Soco, rampollo di Íppaso prudente cavaliere,
ti ha preceduto la morte, non sei riuscito a evitarla.
Disgraziato, non certo il padre né la madre sovrana
gli occhi ti serreranno da morto; gli uccelli carnivori
ti dilanieranno, sbattendo fitte le ali.
Me, se muoio, gli splendidi Achei seppelliranno”.
Disse così, e di Soco prudente la lancia pesante
fuori dal corpo estrasse e dallo scudo ombelicato.
Sangue, allo strappo, di lui zampillò, si afflisse nel cuore.
I Troiani magnanimi, come videro il sangue di Odìsseo,
tutti si incoraggiarono a dirigersi contro di lui;
e lui, i compagni chiamando a gran voce, indietreggiò.
Tre volte emise un urlo, quanto può la testa di un uomo,
tre volte Menelao caro ad Ares udì che urlava,
e subito ad Aiante parlò, che gli stava vicino:
“ Aiante Telamonio, nato da Zeus, condottiero di popoli,
mi è pervenuta la voce di Odìsseo paziente,
quasi che fosse aggredito, ormai solo, dai Troiani,
perché tagliato fuori dalla mischia furibonda.
Ma entriamo nella massa, perché sarà meglio soccorrerlo.
Temo che, fra i Troiani rimasto solo, subisca qualcosa,
anche se forte, e grande rimpianto giunga ai Dànai”.
Disse, ed andava per primo, e dietro l’altro, simile a un dio.
E trovarono Odìsseo caro a Zeus, e intorno a lui
i Troiani a inseguirlo, come sui monti i fulvi sciacalli
stanno intorno a un cervo, munito di corna, ferito
dalla freccia dell’arco di un uomo, ma è riuscito a fuggire,

213
sino a che il sangue è caldo e le ginocchia lo sorreggono.
Ma non appena la freccia veloce lo prosterna,
gli sciacalli lo sbranano, mangiatori di carne cruda,
nella foresta ombrosa; ma un dio manda loro un leone
predatore, e fuggono gli sciacalli, e lui mangia la preda.
In pari modo intorno a Odìsseo accorto astuto
in molti e forti i Troiani incalzavano, ma l’eroe,
con la lancia avventandosi, respingeva il giorno spietato.
Aias gli venne vicino con lo scudo simile a torre,
gli si accostò; i Troiani fuggirono chi qua chi là,
e Menelao guerriero lo trasse via dal mucchio,
tenendolo per mano, sino a che lo scudiero i cavalli
portò vicino. Aiante, assalendo i Troiani, Dorìclo
colpì, bastardo di Priamo, e poi Pàndoco feriva,
e Lisandro feriva e Pìraso e Pilarte.
E come un fiume in piena si riversa nella pianura,
scendendo giù dai monti, e lo ingrossa la pioggia di Zeus,
e molte querce disseccate e molti pini
trascina, e molto fango rovescia dentro il mare;
tale inseguiva travolgendo lo splendido Aiante,
cavalli e uomini massacrando; e ancora Ettore
non lo sapeva, perché combatteva sul lato sinistro,
sulle rive del fiume Scamandro, dove moltissime
teste cadevano, e inestinguibile grido sorgeva
attorno al grande Nestore e a Idomèneo guerriero.
Ettore in mezzo a loro si muoveva, compiendo prodigi
con l’asta e con il carro, sgominava schiere di giovani.
Ma non indietreggiavano dal percorso gli splendidi Achei,
se Alessandro, lo sposo di Elena bella chioma,
non tratteneva il primato di Macàon, pastore di popoli,
colpendolo alla spalla destra con dardo a tre punte.
Molto per lui temettero gli Achei, spiranti furore,
che lo uccidessero e l’esito si ribaltasse dello scontro.
Subito a Nestore splendido così parlò Idomèneo:

214
“Nestore figlio di Nèleo, grande gloria degli Achei,
subito sali sul carro, e accanto a te salga Macàon,
e guida in fretta alle navi i cavalli solidi zoccoli:
uomo che sia anche medico vale molto più degli altri,
a estrarre i dardi e a spalmare i rimedi che leniscono”.
Disse, e gli diede ascolto il Gerenio cavaliere,
e subito salì sul carro, e accanto Macàon,
figlio di Asclepio irreprensibile guaritore.
Quindi i cavalli frustò che partissero, ed essi volarono
verso le concave navi, com’era caro al loro cuore.
Vide Cebrìone i Troiani nello scompiglio,
ritto sul carro accanto a Ettore, e così disse:
“Ettore, noi ci stiamo scontrando con i Dànai,
all’estremo margine del campo; ma gli altri Troiani,
sono in scompiglio, alla rinfusa, cavalli e soldati.
Imperversa Aiante Telamonio: l’ho ravvisato,
ampio intorno alle spalle porta scudo; ma anche noi
i cavalli e il carro spingiamo, dove davvero
i cavalieri e i fanti, coinvolti in aspra contesa,
si ammazzano a vicenda, sorge grido inestinguibile”.
Detto così, frustò i cavalli bella criniera
con la sonora frusta; ed essi, udendo il colpo,
presto portarono il carro veloce fra Troiani ed Achei,
calpestando cadaveri e scudi; e l’asse di sotto
tutto di sangue si imbrattava, e le sponde del cocchio:
spruzzi schizzati dagli zoccoli dei cavalli
e dai cerchioni. E voleva immergersi nel mucchio,
Ettore, dei guerrieri, e schiantarlo. Allora tumulto
duro gettò in mezzo ai Dànai, per niente arretrò con la lancia.
E lui ancora si avventava su schiere di uomini
con l’asta, con la spada e con enormi pietre,
ma evitava lo scontro con Aiante Telamonio.
Ma il padre Zeus sovrano infuse paura ad Aiante:
restò attonito, e dietro di sé gettò lo scudo

215
a sette strati, e tremò, e si guardò intorno, come una fiera,
sempre voltandosi indietro e a stento alternando i ginocchi.
E come da un recinto di buoi un fulvo leone
cercano di cacciare i cani e i contadini;
non gli consentono il grasso delle bestie di sottrarre,
stando svegli tutta la notte; e bramoso di carne,
lui si accanisce, ma nulla ottiene; frequenti dardi
gli vengono scagliati da molte mani gagliarde
e torce ardenti, che, pur animoso, gli fanno paura;
e al sorgere dell’alba si allontana, avvilito nel cuore;
Aias così dai Troiani arretrava, col cuore avvilito
e contrariato; temeva per le navi degli Achei.
E come un asino ai bordi di un campo resiste ai ragazzi,
ostinato, e molti bastoni su di lui si spezzano;
e lui nel grano folto entra a mietere; e coi bastoni
i ragazzi lo battono, ma infantile è quella forza;
e alla fine lo cacciano fuori, ma è sazio di cibo;
in pari modo il grande Aiante Telamonio
era inseguito sempre dai superbi Troiani e alleati,
che colpivano lo scudo nel mezzo con le lance.
Aias talvolta si rammentava dell’ardente vigore,
e si voltava indietro, e tratteneva i ranghi
dei Troiani domatori di cavalli, e talvolta fuggiva;
ma sbarrava a tutti la strada per le navi veloci.
Lui solo imperversava fra Troiani ed Achei, nel mezzo,
ritto, e le lance scagliate da mani ardite, alcune,
spinte in avanti con forza, nel grande scudo si piantavano;
molte poi anche nel mezzo, senza neanche sfiorare la bianca
pelle, aderivano al suolo, bramando saziarsi di carne.
Come lo vide Eurìpilo, lo splendido figlio di Evèmon,
essere sopraffatto da una gragnuola di colpi,
accanto a lui ristette, manovrò l’asta lucente,
e colpì Apisàone di Fausio, pastore di popoli,
sotto il diaframma, al fegato, e all’istante gli sciolse i ginocchi.

216
Gli balzò addosso Eurìpilo, gli tolse l’armi dalle spalle.
Ma come se ne accorse Alessandro pari a un dio,
che delle armi spogliava Apisàone, subito l’arco
tendeva contro Eurìpilo, e lo colpì alla coscia
destra; si ruppe il dardo, si appesantì la coscia,
e indietreggiò nel gruppo dei compagni, schivando la morte.
Pure con forza gridò, perché lo sentissero i Dànai:
“Amici miei, consiglieri e capi degli Argivi,
resistete voltandovi, sottraete al giorno spietato
Aiante, che è aggredito dai colpi; ma non credo
che allo scontro spietato sfuggirà; voi invece intorno
collocatevi al grande Aiante Telamonio”.
Disse così Eurìpilo, colpito; e intorno quelli
gli si accostarono con gli scudi appoggiati alle spalle,
e con le lance puntate; e Aias andò loro incontro,
e si fermò voltandosi, non appena rientrato nel gruppo.
Essi così lottavano, simili a fuoco ardente.
E le cavalle di Nèleo, sudate, portarono fuori
dalla mischia Nestore e Macàon, pastore di popoli.
Le vide e le riconobbe lo splendido Achille veloce;
lui stava sulla poppa della sua nave smisurata
a osservare l'estrema lotta e la disfatta penosa.
Subito si rivolse a Patroclo, il caro compagno,
dalla nave chiamandolo. E, uditolo dalla tenda,
simile ad Ares uscì, e fu l'inizio del suo male.
E gli parlò per primo il forte figlio di Menetio:
"Perché mi chiami, Achille? Hai forse bisogno di me?”
E, di rimando, così gli disse Achille veloce:
"Splendido figlio di Menetio, così caro al mio cuore,
ora, credo, si getteranno gli Achei ai miei piedi
a supplicarmi: incombe necessità intollerabile.
Ma corri, Patroclo caro a Zeus, e chiedi a Nestore,
chi è colui che trasporta fuori dallo scontro ferito.
Sembra davvero in tutto, a guardarlo da dietro, Macàon,

217
di Asclepio il figlio, non ho potuto vederlo in volto,
come un baleno mi sono le cavalle passate davanti".
Disse così, e dava ascolto Patroclo al caro compagno,
e corse lungo le tende e le navi degli Achei.
Quelli intanto alla tenda riparavano di Nestore,
e scesero dai carri sulla terra nutrice di molti.
Eurimedonte, scudiero del vecchio, disciolse i cavalli
dal carro, ed essi asciugavano il sudore dalle vesti,
stando alla brezza marina sulla riva. Quindi, entrati
dentro la tenda, si disposero a sedere sui seggi.
Preparò loro bevanda Ecamède bella chioma,
che portò il vecchio da Tènedo, quando Achille invase l'isola,
del magnanimo Arsìnoo la figlia, che gli Achei
per lui prescelsero, perché in consiglio era fra tutti il migliore.
Essa prima sospinse davanti a loro una tavola,
bella, dai piedi smaltati, levigata, e bronzeo bacile
sopra ci mise, e dentro cipolle, compagne del bere,
e giallo miele, e poi farina di orzo sacro.
Poi mise coppa bellissima, che il vecchio portava da casa,
adornata di borchie d'oro. E quattro manici
c'erano, e attorno a ciascuno di essi due colombe
d'oro beccavano, e infine c'erano sotto due sostegni.
Altri a stento l'avrebbe rimossa dalla tavola,
se piena, ma agevolmente il vecchio Nestore la sollevava.
Mescolava la donna a dea simile in quella coppa
vino di Pramno, e sopra vi grattò formaggio di capra,
con grattugia di bronzo, vi sparse bianca farina,
e a bere li invitò, preparata la mistura.
Essi bevvero e così scacciarono la sete che brucia,
e godevano assieme scambiandosi conversari.
E sulla soglia apparve Patroclo simile a un dio.
Come lo vide, il vecchio si alzò dallo splendido seggio,
lo prese per la mano e lo invitò a sedere.
Patroclo allora si schermì e così gli parlò:

218
"Vecchio divino, non posso sedermi, perciò non insistere.
E' permaloso assai, se la prende colui che mi manda
a informarmi chi porti ferito. Ma sono io stesso
che lo conosco, lo vedo: è Macàon, pastore di popoli.
Ora pertanto ritornerò a riferirlo ad Achille.
Vecchio divino, tu stesso lo sai di che uomo si tratta,
tremendo, un innocente facilmente incolperebbe."
Nestore, di rimando, cavaliere Gerenio, rispose:
"Perché compiange Achille i figli degli Achei,
quanti da frecce sono stati feriti? Lui forse non sa
della disfatta che si è abbattuta su noi? I migliori
giacciono presso le navi, colpiti da lungi o trafitti.
Il Tidìde è colpito da freccia, il possente Diomede,
da vicino colpiti sono Odìsseo guerriero e Agamemnon,
é ferito Eurìpilo da una freccia ad una coscia,
e Macàon, che tu vedi, l'ho estratto dalla mischia,
colpito da una freccia scoccata. Invece Achille,
prode com'è, non si cura dei Dànai, non ne ha compassione.
Forse aspetta che le navi veloci sulla battigia
siano incendiate dal fuoco nemico a nostro dispetto,
e noi, uno alla volta, siamo uccisi? Il mio vigore
pari a quello di un tempo non è più nelle curve mie membra!
Oh fossi giovane ancora e avessi la forza immutata,
come quando scoppiò una lite fra noi e gli Elèi
per un abigeato, quando uccisi Itimonèo,
il prode figlio di Ipèiroco, che in Elide abitava,
per rappresaglia! E mentre proteggeva le sue mandrie,
da un giavellotto fra i primi fu colpito per mano mia,
e stramazzò, e fuggirono d’intorno i contadini.
Molto bottino raccogliemmo dalla pianura:
ben cinquanta mandrie di buoi e altrettante di pecore,
altrettante di porci, bianchi denti, e altrettante di capre,
e poi centocinquanta cavalli dalla fulva criniera,
tutte femmine, e molte di esse col puledro.

219
Tutte a Pilo le spingemmo, roccaforte di Nèleo,
nella città, di notte, e gioì nel cuore Nèleo
ch’io avessi avuto tanta fortuna così giovane in guerra.
Allo spuntare del giorno, gli araldi insieme gridavano
che venisse chi crediti vantava nella splendida Elide.
Radunatisi allora, i capi dei Pilii facevano
la spartizione. Gli Epèi con molti erano in debito:
pochi eravamo in Pilo e per giunta malmenati.
Eracle, giunto, ci aveva malmenato con violenza,
gli anni passati, i migliori erano stati tolti di mezzo.
Dodici figli eravamo dell’eccellente Nèleo,
ed io solo restavo, tutti gli altri invece morirono.
Insuperbiti per questo, gli Epèi tunicati di bronzo
insolentivano e infamie tramavano contro di noi.
Prese il vecchio una mandria e un grosso gregge di pecore,
trascegliendolo, di trecento capi, e i pastori.
Grande era il debito verso di lui nella splendida Elide:
quattro cavalli per gare di corsa con il carro
partecipavano, e si apprestavano a gareggiare
per un tripode, e Augìa, sovrano di eroi, se li tenne,
e mandò via l’auriga, per i cavalli contrariato.
E perciò il vecchio, irato per le parole e per i fatti,
preda si scelse cospicua, e il resto lo diede al popolo
da spartirsi: nessuno senza il giusto andasse via.
Tutto ciò facevamo, e intorno alla città
sacrificavamo agli dèi. Ma il terzo giorno
giunsero insieme e in fretta coi cavalli dai solidi zoccoli
tutti. E tra loro vestivano le armi i due Molìoni,
ch’erano ancora ragazzi, inesperti di forza guerriera.
V’è una città, Trioessa, arroccata su colle scosceso,
presso l’Alfèo, lontano, ai confini di Pilo sabbiosa.
La cinsero d’assedio, bramosi di distruggerla,
ma quando avevano tutta attraversato la pianura,
presso di noi giunse Atena messaggera dall’Olimpo,

220
perché di notte ci armassimo, e raccolse a Pilo una schiera
non svogliata ma smaniosa di battersi. E Nèleo
non mi permise di armarmi, ma mi nascose i cavalli:
non conoscevo ancora, diceva, le azioni di guerra.
Ciò nonostante, fra i nostri cavalieri mi distinsi,
pur combattendo a piedi: Atena guidava il conflitto.
Inoltre, là c’è un fiume, il Minièo, che nei pressi di Arène
si getta in mare, dove noi attendemmo la splendida Aurora,
noi cavalieri dei Pilii, e le schiere dei fanti affluivano.
Ci rivestimmo in tutta fretta delle armi,
e a mezzodì giungemmo al sacro corso dell’Alfèo,
dove immolammo belle vittime a Zeus potentissimo,
un toro al fiume Alfèo e un toro a Posidone,
e inoltre una giovenca ad Atena dagli occhi lucenti;
quindi il pasto consumammo, divisi in reparti,
e ci addormentammo, armati di tutto punto,
lungo il corso del fiume. Nel frattempo gli Epèi magnanimi
cinsero la città, bramosi di distruggerla.
Prima però per loro un grande scontro di Ares apparve:
quando il sole ardente fu in alto sulla terra,
ci scontrammo in battaglia, invocando Zeus e Atena.
Nello scontro fra Pilii ed Epèi io uccisi per primo
un avversario, e gli presi i cavalli solidi zoccoli,
Mulio guerriero. Costui era genero di Augìa,
perché aveva sposato sua figlia, la bionda Agamède,
che conosceva i filtri, quanti ne nutre l’ampia terra.
Mentre mi assaliva lo colpii con la lancia di bronzo:
stramazzò nella polvere, ed io, salendo sul carro,
mi schierai fra i primi a combattere, ma gli Epèi magnanimi
chi qua chi là fuggirono, come videro ch’era caduto
il comandante dei cavalieri e il più prode in battaglia.
Io mi slanciai in avanti, somigliante a una procella,
e cinquanta carri catturai con ciascuno due uomini:
morsero il suolo coi denti, dalla mia lancia bersagliati.

221
E avrei ucciso i due figli di Actor, i due Molìoni,
se il loro padre, il dio Scuotiterra grande forza,
non li avesse salvati, avvolgendoli in fitta nebbia.
Zeus concesse quel giorno ai Pilii grande potenza:
li inseguimmo dunque attraverso la vasta pianura,
uccidendoli e raccogliendo le belle armi,
sino a che cavalcammo a Buprasio ricca di grano,
e alla rupe Olenia e al colle chiamato Alesio:
quivi Atena fece tornare indietro l’esercito,
e pure quivi uccisi l’ultimo uomo e lo lasciai.
Ma da Buprasio gli Achei riportarono a Pilo i cavalli,
ringraziando Zeus fra gli dèi e fra gli uomini Nestore.
Questo ero io fra i guerrieri, se pure lo ero. Ma Achille
trarrà da solo vantaggio del suo valore. Eppure credo
che piangerà amaramente, quando l’armata perirà.
Caro, così davvero Menetio ti raccomandava,
il dì che ti mandava da Ftia presso Agamemnon.
Noi ch'eravamo presenti, cioè io e lo splendido Odìsseo,
tutto dentro la reggia udivamo di quanto diceva.
Noi eravamo andati alla casa ben abitata
di Pèleo ad arruolare guerrieri per la fertile Acaia,
e così accadde che là trovammo l'eroe Menetio,
e te vicino ad Achille. E il vecchio Pèleo cavaliere
grasse cosce a Zeus fulminatore bruciava
nel cortile. Teneva in mano una coppa d'oro
e libava vino fulgente sulle vittime.
Voi due vi occupavate delle carni, e appena noi fummo
nell'atrio, ecco che Achille si alzò in piedi stupefatto,
e, presici per mano, ci invitò ad accomodarci,
ci offrì doni ospitali, che agli ospiti sono dovuti.
E dopo esserci deliziati di cibo e bevanda,
io cominciai il discorso, invitando voi due a seguirmi,
e acconsentiste voi due, ed essi molto vi ammaestravano.
Pèleo ad esempio al figlio Achille raccomandava

222
di essere sempre il migliore e di primeggiare sugli altri.
Ma a te Menetio, figlio di Actor, così diceva:
"Creatura mia, per stirpe ti è superiore Achille,
tu però sei più anziano, e lui certo è più forte di te.
Ma tu gli devi dire sagge parole, consigliandolo,
indirizzandolo, e lui ti seguirà per il meglio."
Questo ti suggeriva il vecchio, ma lo hai scordato;
parla adesso ad Achille divino, se mai ti ascolti.
Chissà se con l'aiuto di un dio tu riesca a commuoverlo,
parlandogli, prezioso è il consiglio di un compagno.
Se fugge nel suo cuore un oracolo divino,
che da parte di Zeus gli ha svelato la madre sovrana,
mandi almeno te subito, e, con te, gli altri soldati,
i Mirmìdoni, e tu possa esser luce per i Dànai;
e ti dia le sue armi bellissime per la guerra,
se per caso, per lui scambiandoti, si ritirino
dallo scontro i Troiani e respirino gli Achei
stremati – è sufficiente un breve respiro in battaglia-
Agevolmente respingerete, voi freschi, gli stanchi
verso la loro città dalle navi e dalle tende."
Disse, e sovreccitò il cuore di Patroclo in petto,
e tornò alle navi dell’Eàcide Achille di corsa.
Ma quando Patroclo, sempre correndo, giunse presso le navi
di Odìsseo, dove i giudizi si tenevano e le assemblee,
e si ergevano edificati altari agli dèi,
ecco che Eurìpilo gli venne incontro ferito a una coscia
da una freccia, il figlio di Euèmon nutrito da Zeus.
Zoppicava uscendo dallo scontro, e copioso il sudore
dalle spalle e dal capo scorreva, e dalla ferita
dolorosa nero sangue sgorgava, ma il cuore reggeva.
Vistolo, ne ebbe pietà il forte di Menetio,
ed, emettendo gemiti, alate parole diceva:
"Sventurati capi e condottieri dei Dànai,
ah, come lungi dai cari e dalla patria dovevate

223
col bianco grasso saziare a Troia i cani veloci!
Ma questo dimmi, Eurìpilo, eroe nutrito da Zeus,
resisteranno ancora gli Achei a Ettore immenso,
o saranno fra poco domati dalla sua lancia?"
E così gli rispose Eurìpilo ferito:
"Patroclo nato da Zeus, fra poco più non avranno
scampo gli Achei, ma accanto alle nere navi cadranno.
Tutti quanti quelli che prima erano i migliori
giacciono accanto alle navi colpiti da lungi o feriti
dai Troiani, il loro vigore sta sempre crescendo.
Ma tu mettimi in salvo, alla nera nave riportami,
estraimi dalla coscia la freccia, e il nero sangue
tergi con acqua tiepida, e spalma blandi farmaci,
buoni, che tu apprendesti, come dicono, da Achille,
e Achille da Chirone, il più giusto dei Centauri.
I due medici nostri, Macàon e Podalirio,
stanno, suppongo, il primo nella sua tenda, ferito,
bisognoso pertanto anche lui di un buon guaritore,
l'altro nella pianura, affrontando il duro scontro. "
E così gli rispose il forte figlio di Menetio:
"Ma come finiremo, che faremo, Eurìpilo eroe?
Io scappo via, per parlare ad Achille, come il Gerenio
Nestore mi suggerì, il guardiano degli Achei.
Ma non ti lascerò così ridotto allo stremo".
Disse, e alla vita cingendolo, condusse il pastore di popoli
nella tenda, lo scudiero lo vide e distese una pelle.
Poi lo fece sdraiare e gli estrasse col pugnale
dalla coscia la freccia acuta, e il nero sangue
terse con acqua tiepida, e vi applicò radice amara
triturata, che attenua il dolore; gli spasimi tutti
sparvero, si deterse la piaga, cessò il sangue.

224
LIBRO XII

L’assalto al muro.

Il muro a difesa delle navi eretto dagli Achei è destinato ad essere abbattuto. Ciò
accadrà inesorabilmente, come promesso da Zeus a Posidone nel libro VII. Nel
frattempo si combatte intorno ad esso: i Troiani sanno bene che, una volta sfondato
il muro, avranno accesso alle navi. Polidamante, suo consigliere, suggerisce ad
Ettore di attaccare il muro a piedi, onde evitare che cavalli e carri restino
imbottigliati in uno spazio ristretto. Ettore accetta il consiglio, e si procede
all’attacco. I due Làpiti, Polipète e Leònteo, stanno a difesa del muro, compiendo
prodezze. Si accende la mischia, quando appare nel cielo un prodigio: un’aquila,
che porta negli artigli un serpente, è costretta a lasciarlo cadere al suolo, perché
morsa da lui. Polidamante suggerisce un’interpretazione del segno sfavorevole per i
Troiani, ma Ettore gli risponde che l’unico auspicio che conta è quello di lottare
per la patria. Sarpèdone, capo dei Lici e figlio di Zeus, sferra il primo vero assalto al
muro, producendo in esso una breccia. Consente così ad Ettore di incitare i suoi a
salire su di esso; quindi, Ettore stesso scaglia un macigno sui battenti della porta,
schiantandoli. Dietro il loro comandante i Troiani si riversano in massa,
provocando la fuga degli Achei verso le navi.

Così dentro alla tenda il forte figlio di Menetio


il ferito Eurìpilo curava. E Argivi e Troiani
nella mischia frattanto lottavano. E non dovevano
restare ancora il fosso dei Dànai e l'ampio muro,
che avevano innalzato a difesa delle navi-
e scavarono il fosso senza offrire elette ecatombi
agli dèi-, perché munisse le navi veloci
e la abbondante preda. Ma contro gli dèi immortali
fu edificato, e perciò non doveva resistere a lungo.
Sino a che Ettore restò in vita e Achille adirato,

225
e la città di Priamo sovrano restò illesa,
sino ad allora il grande muro degli Achei resisteva.
Ma una volta che furono uccisi i migliori Troiani,
e degli Achei alcuni scomparvero ed altri rimasero,
e la città di Priamo fu distrutta il decimo anno,
e gli Argivi tornarono in patria sulle navi;
ecco che allora Apollo e Posidone decretarono
di sbriciolare il muro, scaricandovi furia di fiumi,
quanti dai monti dell'Ida affluiscono verso il mare:
il Reso e il fiume Eptàporo e il Carèso e ancora il Rodio,
e il Granìco e l'Esèpo e lo splendido Scamandro
e il Simoenta, dove molti scudi e molti elmi
caddero assieme alla stirpe dei semidèi nella polvere.
Di essi tutti le bocche in un punto riunì Febo Apollo,
e per nove giorni scagliò il flusso sul muro. E Zeus pioggia
incessante mandò, perché prima sprofondasse.
E lo Scuotiterra in persona, brandendo il tridente,
li guidava, e tutte le fondamenta gettava nei flutti,
fatte di tronchi, di massi, che gli Achei con fatica piantarono.
E tutte le spianò sull'impetuoso Ellesponto,
e nuovamente coprì di sabbia il grande arenile,
dopo aver sbriciolato il muro. Poi i fiumi rivolse
secondo la corrente, dove prima scorreva il bel flusso.
Questo dunque avrebbero Posidone e Apollo compiuto
in futuro. Ma allora ardevano scontro e tumulto
lungo il solido muro, e le travi dei bastioni
sotto i colpi stridevano. E di Zeus alle sferzate,
presso le navi gli Argivi si accalcavano stipati,
per paura di Ettore, datore possente di fuga:
lui non cessava di imperversare come tempesta.
E come quando in mezzo a cani e cacciatori
va su e giù un cinghiale oppure un leone, superbo
del suo vigore, e quelli come torre stringendosi assieme,
gli si parano innanzi lanciando con le mani

226
fitte lance, ma per niente il suo nobile cuore
si spaventa, si turba, ma lo uccide il suo stesso ardimento;
di qua di là si aggira, tentando le file degli uomini,
e, proprio dove attacca, le file degli uomini cedono;
Ettore similmente nella mischia supplicava
i compagni che il fosso varcassero. Ma i cavalli
piedi veloci non osavano, sul ciglio nitrivano
arrestandosi, perché temevano del fossato
ampio, non facile da vicino né a saltarsi,
né a oltrepassarsi: ripide sponde da ambo le parti
tutto lo percorrevano in lungo, e di sopra era irto
di aguzzi pali, che i figli degli Achei avevano messi
fitti e grandi, che fossero riparo dai nemici.
Non facilmente un cavallo, tirando il carro belle ruote,
vi sarebbe passato, neppure i fanti ne erano certi.
Polidamante, accostatosi al forte Ettore, gli disse:
“Ettore, e voi comandanti dei Troiani e degli alleati,
stoltamente spingiamo i cavalli al di là del fossato:
arduo davvero è varcarlo, vi sono in esso infissi
aguzzi pali, e accanto c’è il muro degli Achei.
Là per i cavalieri non è agevole né discendere
né combattere; è stretto, e credo che ci feriremo.
Se meditando il male per loro vuole distruggerli
Zeus che tuona dall’alto, e soccorrere i Troiani,
questo davvero vorrei che accadesse adesso, subito,
che morissero lungi da Argo senza gloria gli Achei.
Ma se indietro si rigirano e contrattaccano
dalle navi, e restiamo impigliati nel fondo fossato,
credo che neanche un messaggero riuscirebbe
a ritornarsene in città, se gli Achei si rivoltano.
Forza, a quello che dico ubbidiamo tutti quanti:
gli scudieri trattengano i cavalli sul fossato,
e noialtri a piedi ben armati di corazza,
Ettore tutti seguiamo compatti; certo gli Achei

227
non sosterranno: il termine della morte li sovrasta”.
Disse così, ed Ettore approvò l’accorto discorso;
e subito dal carro balzò a terra con le armi.
Gli altri Troiani non si raccolsero sopra i carri,
ma giù saltarono, come videro Ettore splendido.
Poi ciascuno l’ordine impartì al proprio auriga
di tenere i cavalli ben schierati sul fossato;
essi si distanziarono e poi si riordinarono,
in cinque gruppi, e seguivano i loro comandanti.
Assieme ad Ettore andarono e all’irreprensibile
Polidamante i più numerosi e i migliori: bramavano
il muro abbattere, presso le concave navi lottare.
Terzo Cebrìone procedeva; e accanto al carro
altro meno valente di Cebrìone lasciò Ettore.
Paride, Alcàtoo e Agenore comandavano un altro gruppo,
e il terzo gruppo Èleno e Deìfobo simile a un dio,
figli di Priamo entrambi, e come terzo Asio eroe,
Asio figlio di Írtaco, che maestosi cavalli portavano,
fulvi, da Arisba, sita sul fiume Selleènta.
Comandava il quarto gruppo il figlio valente
di Anchise, Enea, e assieme a lui i due figli di Antenore,
Archèloco e Acamante, esperti di ogni scontro.
Era a capo degli illustri alleati Sarpèdone,
e si era scelto Glauco e Asteropèo guerriero:
gli erano parsi senza dubbio i più valorosi
dopo di lui fra gli altri, perché su tutti lui spiccava.
Serrati fra di loro con gli scudi di pelle bovina,
dritti sui Dànai si mossero smaniosi, e ritenevano
di non fermarsi ma di piombare sulle nere navi.
Ecco che allora gli altri Troiani e gli illustri alleati
diedero retta a Polidamante irreprensibile,
ma non voleva l’Irtàcide Asio capo di eroi
là i cavalli lasciare e l’auriga, il suo scudiero,
ma con loro si appressò alle navi veloci,

228
stolto; lui non doveva, scampato alle Chere funeste,
orgoglioso dei suoi cavalli e del suo carro,
dalle navi ritornare a Ilio ventosa:
prima il destino orrendo lo ravvolse, per la lancia
di Idomèneo, il nobile figlio di Deucalìon.
Delle navi al lato sinistro si mosse: gli Achei
là dalla piana coi carri e i cavalli si ritiravano.
E là sospinse il carro e i cavalli; né delle porte
trovò serrati i chiavistelli e la lunga sbarra,
ma spalancate, ed uomini le guardavano, se qualche compagno
in fuga dallo scontro salvassero tra le navi.
E là diritto i cavalli diresse, e gli altri seguivano,
alto gridando; e pensavano che non avrebbero resistito
gli Achei, ma si sarebbero riversati sulle navi;
sciocchi: alle porte trovarono due fortissimi guerrieri,
ardimentosi figli dei Làpiti armati di lancia,
il figlio di Pirìtoo, il possente Polipète,
e Leònteo, simile ad Ares sterminatore.
Essi stavano entrambi davanti alle porte sublimi,
simili a querce dall’alta cima sulle montagne,
che per l’intero giorno al vento e alla piogga resistono,
ben piantate sulle grandi radici ampiamente diffuse;
in pari modo fidando nelle braccia e nel vigore,
il grande Asio attendevano che giungeva e non fuggivano.
Quelli diritto andavano al muro ben fermo, le pelli
sollevando di bue disseccate, con alto grido,
tutti intorno ad Asio sovrano, a Iàmeno, a Oreste,
e a Adamante figlio di Asio, a Toóne, a Enòmao.
I due incitavano gli Achei dalle belle gambiere,
stando all’interno, a combattere in difesa delle navi.
Ma non appena compresero che assaltavano il muro i Troiani,
e ne seguivano l’urlo e il panico dei Dànai,
essi allora, balzando dinanzi alle porte, attaccarono,
simili a due a cinghiali selvatici, che sui monti

229
reggono il tumultuoso assalto di uomini e cani,
balzando obliqui, e abbattono tutt’intorno la foresta,
alle radici schiantandola, e sorge stridore di denti,
sino a che li colpisce qualcuno e strappa loro la vita.
Così echeggiava sui loro petti il bronzo splendente,
quando erano colpiti, ma si battevano con forza,
fidando nei soldati di sopra e nel proprio vigore.
Quelli gettavano pietre dai solidi torrioni,
difendendo se stessi, le tende, le celeri navi;
e come cadono i fiocchi di neve a terra, che il vento
impetuoso, dissestando le nubi oscure,
fitti riversa sopra la terra nutrice di molti;
tali scorrevano colpi dalle mani, sia degli Achei
che dei Troiani, e gli elmi con suono secco risuonavano,
bersagliati dai massi, e gli scudi ombelicati.
E gettò un gemito e si percosse entrambe le cosce
Asio figlio di Írtaco, e irritato così disse:
“Zeus padre, per davvero anche a te piace mentire
completamente! Io non credevo che gli eroi Achei
retto avrebbero al nostro vigore e alle mani invincibili.
Essi però, come vespe variopinte o come api,
che abbiano fatto la casa su un sentiero accidentato,
la loro tana non lasciano, ma agli uomini resistono
che cacciare le vogliono, e si battono per i figli;
essi così, pur essendo due, non intendono cedere,
prima di uccidere o di essere uccisi, dalle porte”.
Disse, ma non persuase, così dicendo, la mente di Zeus:
gloria voleva ad Ettore concedere nel suo cuore.
Chi combatteva nei pressi di una porta, chi di quell’altra.
Arduo mi è ogni cosa narrare come un dio.
Fuoco tremendo si alzava da ogni parte intorno al muro
fatto di pietra; gli Argivi per forza, per quanto angosciati,
le navi difendevano; e gli dèi si rattristavano,
tutti quelli che nella lotta appoggiavano i Dànai.

230
Dunque i Làpiti rinfocolavano il conflitto e la mischia.
Qui di Pirìtoo il figlio, il possente Polipète,
Dàmaso con la lancia colpì attraverso l’elmo
guancia di bronzo, che non la trattenne, ma attraversandolo
l’asta di bronzo l’osso schiantò; il cervello dentro
tutto si sfracellò: lo abbatté mentre attaccava.
Subito dopo uccise Pilone e uccise Òrmeno;
e Leònteo, germoglio di Ares, ferì con l’asta
Ippòmaco di Antìmaco, cogliendolo alla cintura.
Quindi dal fodero estraendo la spada acuta,
Antìfate per primo, piombando nella mischia,
colpì da presso, e quello si accasciò supino al suolo.
Uccise poi Menóne e Iàmeno e Oreste:
uno sull’altro li stese sulla terra nutrice di molti.
E mentre quelli spogliavano i morti delle armi splendenti,
i giovani seguivano Polidamante ed Ettore,
quelli che erano i più numerosi e i più forti, e bramavano
il muro abbattere ed appiccare il fuoco alle navi;
ma ondeggiavano ancora, restando lungo il fosso.
Giunse un presagio per loro impazienti di passare:
tagliava un’aquila che alto vola a sinistra l’armata,
enorme serpe rosso stringendo tra gli artigli,
ancora vivo e viscido, che alla lotta non mollava.
E colpì al petto l’uccello che lo teneva, accanto al collo,
fatto uno scarto all’indietro; lungi da sé lo gettò a terra,
trafitta dal dolore, e lo scagliò tra la folla,
l’aquila, e volò via gridando fra soffi di vento.
Inorridirono alla vista del viscido serpe i Troiani,
là, in mezzo a loro, prodigio di Zeus che porta l’ègida.
Polidamante, accostatosi al forte Ettore, gli disse:
“Ettore, sempre tu mi riprendi in assemblea,
se do suggerimenti avveduti; e non è bello
che un popolano dica il contrario, né in consiglio
né in guerra; è bene invece che incrementi il tuo prestigio.

231
Ma adesso ti dirò come a me sembra essere il meglio.
Non andiamo a combattere con i Dànai per le navi,
perché, ritengo, così finirà, se giunse verace
per i Troiani impazienti di passare quel presagio:
tagliava un’aquila che alto vola a sinistra l’armata,
enorme serpe rosso stringendo tra gli artigli,
vivo, ma l’ha lasciato ancora prima che giungesse
nella sua tana, non è riuscita a portarlo ai suoi piccoli.
E così noi, se le porte e il muro degli Achei
abbatteremo con grande forza, e gli Achei cederanno,
non rifaremo in ordine dalle navi lo stesso percorso,
e lasceremo molti Troiani, che gli Achei
ammazzeranno col bronzo, in difesa delle navi.
Questo direbbe un indovino ispirato, che in cuore
chiaro sapesse il prodigio, da far credervi i soldati”.
E, di sbieco guardandolo, gli disse Ettore elmo che splende:
“Quello che dici, Polidamante, non condivido.
Anche discorsi migliori sei buono a formulare,
ma se davvero questo è il discorso che proponi,
proprio gli dèi ti devono aver tolto il comprendonio;
tu che mi aiuti a scordarmi di Zeus che tuona dall’alto,
del suo consiglio, di quanto mi promise col suo cenno.
Tu invece vuoi che dia retta agli uccelli dalle ali tese,
dei quali in alcun modo né mi occupo né mi curo,
se vanno a destra verso l’aurora e verso il sole,
o se a sinistra verso il tramonto tenebroso.
Noi diamo retta invece al volere del grande Zeus,
il quale regna su tutti i mortali e gli immortali.
Ottimo augurio è uno solo, lottare per la patria.
Ma perché hai paura del conflitto e della mischia?
Anche se tutti quanti venissimo ammazzati
presso le navi argive, tu non devi temere la morte,
non c’è un cuore in te guerriero, non reggi allo scontro.
Se però ti ritrai dalla mischia e ancora un altro

232
distogli dalla guerra convincendolo con parole,
dalla mia lancia colpito all’istante perirai”.
Disse così, e si mise a guidarli, ed essi seguivano
con grido terrificante, e Zeus che gode del fulmine
suscitò dai monti dell’Ida bufera di vento,
che sulle navi gettò un polverone, e la mente incantò
degli Achei: dava gloria a Ettore e ai Troiani.
In quei prodigi fidando e nella propria forza,
tentavano di rompere il muro degli Achei.
Tiravano giù i merli delle torri, i parapetti,
spiantavano i pilastri con le leve, che gli Achei
messi avevano in terra per primi, sostegno alle torri.
Cercavano di svellerli e speravano di rompere
il muro degli Achei, ma non arretravano i Dànai;
ma con gli scudi di pelle proteggevano i parapetti,
e di lì i nemici che attaccavano il muro colpivano.
I due Aianti davano ordini sui torrioni,
andando dappertutto, infondendo vigore agli Achei;
chi con parole gentili, chi con parole aspre,
rimproveravano quelli che vedevano arretrare:
“Cari, chi fra gli Argivi è il primo, chi sta nel mezzo,
chi è meno forte, dato che non tutti sono uguali
gli uomini in guerra: adesso il compito è per tutti.
E voi stessi potete capirlo. Nessuno indietro
in direzione si volga delle navi, udito il richiamo.
Ma procedete e a vicenda incoraggiatevi, se Zeus Olimpio
fulminatore ci concede di respingere
l’assalto e di inseguire i nemici sino in città”.
Così gridando, spronavano la lotta degli Achei.
E come i fiocchi della neve cadono fitti,
in un giorno di inverno, quando Zeus mente accorta fa scendere
la nevicata, agli uomini mostrando le sue frecce;
addormentati i venti, senza sosta riversa, sinché
vette ricopre di alti monti e cime di colli,

233
e piane erbose e campi dagli uomini coltivati;
e anche sul mare canuto, sui golfi, sulle rive
fiocca la neve, e l’onda la ferma lambendola; e il resto
tutto è ammantato: la tormenta imperversa di Zeus;
così volavano da ambo le parti fitte le pietre,
contro i Troiani e dei Troiani contro gli Achei,
e il fragore per tutta la muraglia si spandeva.
Ma neppure allora i Troiani e lo splendido Ettore
rompevano le porte del muro e la lunga sbarra,
se il figlio suo Sarpèdone Zeus mente accorta non spronava
contro gli Argivi, leone contro i buoi dalle corna ricurve.
E subito protese dinanzi a sé lo scudo rotondo,
bello, di bronzo, battuto a metallo, che un fabbro forgiò
e dentro molte pelli di bue vi aveva cucito
con filigrana d’oro, che correva intorno, in cerchio.
E protendendolo dinanzi a sé e scuotendo due lance,
come un leone si mosse nutrito sui monti, digiuno
da tanto tempo di carne, e lo spinge il suo nobile cuore
anche in un fitto recinto ad assaltare le greggi;
e se là dentro pure si imbatte nei guardiani di buoi,
che con i cani e con picche custodiscono le greggi,
non intende fuggire prima di avere tentato la stalla,
ma con un balzo afferra la preda, oppure lui stesso
viene colpito da picca lanciata da mano veloce;
tale il cuore spronava Sarpèdone simile a un dio
a scagliarsi sul muro e ad abbatterere i contrafforti.
E così disse subito a Glauco figlio di Ippòloco:
“Glauco, perché moltissimo noi due siamo riveriti
col primo posto in Licia, con carni e con coppe ricolme,
e tutti ci considerano come dèi, e un grande podere
coltiviamo in Licia, sulle rive dello Xanto,
bello di piantagione e di maggese che porta frumento?
Ora ci occorre restare con i Lici in prima fila,
ora dobbiamo la battaglia che brucia affrontare,

234
perché qualcuno dei Lici dura corazza possa dire:
“Non sono privi di gloria i governanti della Licia,
sì, i nostri re, che pecore pingui divorano e vino
di prima scelta bevono delizioso; ma anche eletta
forza c’è in loro: combattono con i Lici in prima fila!”
Mio caro, se noi due, sottraendoci a questo conflitto,
sempre dovessimo vivere esenti da morte e vecchiaia,
non davvero tra i primi proprio io combatterei,
né mai ti spingerei nella mischia che esalta i forti;
ma sempre stanno appostate le Chere di morte, moltissime,
cui non è dato ai mortali di sottrarsi né di sfuggire.
Ora muoviamoci; o gloria daremo al nemico o lui a noi”.
Disse; e Glauco gli diede retta e gli ubbidì.
Dritto si mossero, la grande armata dei Lici guidando.
Rabbrividì al vederle Menèsteo di Peteòo:
procedevano contro la sua torre, portando rovina.
Diede un’occhiata intorno alla torre, se scorgesse qualcuno
dei capi, onde stornare la rovina dai compagni,
e vide i due Aianti, insaziabili di guerra,
ritti in piedi, e Teucro, appena uscito dalla tenda,
accanto a loro, ma non lo sentivano, per quanto gridasse,
tanto il rumore era grande, da giungere sino al cielo,
degli scudi percossi e degli elmi chioma equina,
e delle porte, tutte sbarrate; e contro di esse
quelli premendo cercavano di entrare con forza infrangendole.
E subito mandava ad Aiante l’araldo Toòte:
“ Va’, splendido Toòte, a chiamare Aiante di corsa!
O meglio, tutti e due, perché l’ottimo sarebbe:
subitamente qua si aprirà l’abisso di morte.
A tal punto premono i Lici, che comunque
sempre infieriscono nelle mischie furibonde.
Ma se poi anche laggiù sono sorti tumulto e contesa,
anche da solo qui giunga il grande Aiante Telamonio,
e con lui Teucro lo segua, che nell’arco è tanto esperto.”.

235
Disse , e l’araldo, uditolo, non gli disobbedì,
ma corse lungo il muro degli Achei tunicati di bronzo,
e si fermò vicino ai due Aianti, e così disse:
“Aianti, capi degli Argivi tunicati di bronzo,
vi chiede il caro figlio di Peteòo nutrito da Zeus,
di andare là ad affrontare almeno per poco la lotta,
ma meglio tutti e due, perché l’ottimo sarebbe;
subitamente là si aprirà l’abisso di morte.
A tal punto premono i Lici, che comunque
sempre infieriscono nelle mischie furibonde.
Ma se poi anche quaggiù sono sorti tumulto e contesa,
anche da solo lì giunga il grande Aiante Telamonio,
e con lui Teucro lo segua, che nell’arco è tanto esperto”.
Disse, e gli diede ascolto il grande Aiante Telamonio;
subito al figlio di Oilèo alate parole diceva:
“ Aiante, resta qui col possente Licomède:
resistete i Dànai spronando, che forte combattano;
io invece andrò laggiù ad affrontare lo scontro;
ma presto tornerò, dopo aver dato loro soccorso”.
Detto così, andò via Aiante Telamonio,
e con lui Teucro, che gli era fratello per parte di padre,
e Pandìon, che di Teucro portava l’arco ricurvo.
Come alla torre giunsero di Menèsteo magnanimo,
penetrati all’interno del muro, li trovarono oppressi:
contro gli spalti andavano, pari a tenebrosa tempesta
i valorosi condottieri e capi dei Lici;
e si scontravano l’uno con l’altro, e ne nacque tumulto.
Primo Aiante figlio di Telamone uccise un uomo,
il magnanimo Èpicle, compagno di Sarpèdone
con un masso spigoloso: all’interno del muro
stava grande altissimo, sul parapetto; difficilmente
lo reggerebbe con entrambe le mani un uomo anche forte,
uno di quelli di adesso; ma, sollevatolo, lui lo scagliò:
l’elmo sfondò a quattro creste, e gli frantumò le ossa

236
tutte del cranio; e quello, somigliando a un tuffatore,
precipitò dalla torre sublime, lasciò il cuore le ossa.
E Teucro colpì Glauco, il possente figlio di Ippòloco,
con una freccia - stava attaccando l’alto muro –
là dove scorse il braccio scoperto: dallo scontro lo tolse.
Glauco dal muro saltò di nascosto: degli Achei nessuno
ferito lo vedesse e così potesse vantarsene.
Si addolorò Sarpèdone, non appena vide che Glauco
se n’era andato, ma non così si scordò dello scontro;
ma, còlto con la la lancia Alcmàon figlio di Tèstor,
lo trafisse, e ritrasse la lancia, e quello, seguendola,
cadde in avanti; le armi variopinte su di lui rimbombarono.
E Sarpèdone afferrò con le mani possenti lo spalto,
e tirò giù, ed intero se ne venne; ma di sopra
rimase nudo il muro, e a molti offrì il passaggio.
Aiante e Teucro con unico intento si mossero, e Teucro
lo colse con un dardo nella cinghia risplendente
del grande scudo, intorno al petto; ma Zeus le Chere
allontanò da suo figlio, che non cadesse accanto alle navi.
Aias, balzando, lo scudo colpì, ma non passò
l’asta da parte a parte, lo fermò mentre attaccava;
ma si ritrasse un poco dal parapetto, senza cedere,
perché il suo cuore sperava di conseguire gloria.
E rivolgendosi ai Lici pari a dèi, così li esortava:
“Lici, perché a tal punto allentate l’ardente vigore?
Mi riesce gravoso, per quanta forza io abbia,
di sfondare da solo e aprirmi il passaggio alle navi.
Dunque seguitemi, risulta migliore la fatica di molti”.
Disse, e temendo le rampogne del loro signore,
premettero più forte intorno a lui che era assennato.
Dall'altra parte, verso l’interno del muro, gli Argivi
rafforzavano i ranghi, ma ardua appariva l'impresa,
perché né i forti Lici potevano spezzare
la muraglia e aprirsi la strada verso il mare,

237
né i guerrieri dei Dànai potevano i Lici respingere,
dal momento che ad essa si erano avvicinati.
Ma come due che vengono a lite per i confini,
le misure tenendo in mano sullo spazio comune,
e sopra esigua terra si contendono entrambi il diritto,
così gli spalti li separavano e sopra di essi
sfondavano gli scudi di cuoio l'un l'altro sul petto,
scudi rotondi irsuti, e muniti di pelle leggera.
Molti ferite subivano nei corpi col bronzo spietato,
quando a qualcuno, voltatosi, restava nuda la schiena
fra i combattenti, ed altri molti attraverso lo scudo.
Da ogni parte i torrioni e gli spalti si impregnavano
del sangue degli eroi di entrambi, Troiani ed Achei.
Ma neppure così mettevano in fuga gli Achei,
ma resistevano come un'onesta operaia che tiene
peso di qua e lana di là, li solleva e pareggia,
per guadagnare misero profitto per i figli.
Pari così la battaglia si tendeva per loro e la guerra,
prima che Zeus concedesse superba gloria ad Ettore,
figlio di Priamo, che primo sul muro balzò degli Achei,
e diede un urlo fortissimo, che lo udissero i Troiani:
"Sfondate il muro, Troiani, domatori di cavalli,
e alle navi Argive appiccate il fuoco tremendo!"
Disse così, incitandoli, e tutti, uno ad uno, lo udirono,
mossero dritti al muro tutti in massa, quindi balzavano
sopra i merli, brandendo nelle mani le lance appuntite.
Ettore afferra un macigno, che stava davanti alle porte:
piatto di sotto, a punta sulla cima terminava.
E non agevolmente due uomini, anche gagliardi,
l'avrebbero dal suolo su un carro issato, due uomini
di adesso; lui, da solo, facilmente lo palleggiava,
lieve lo rese il figlio di Crono tortuosi pensieri.
Come un pastore porta senza sforzo una pelle d'ariete
con una mano, leggero è il peso che l'opprime,

238
tale il macigno Ettore, sollevato contro i battenti
che chiudevano le porte saldamente connesse, teneva,
altissimi battenti. Doppia sbarra da dentro incrociata
li fermava, ma solo una chiave bastava a serrarli.
Stette vicino e con sforzo immane nel mezzo li colse,
divaricando le gambe perché il colpo riuscisse più forte.
Ambo i cardini infranse, all'interno il macigno piombò
con la sua mole, le porte mugghiarono, le sbarre
non tennero, saltarono da una parte e dall'altra i battenti
sotto il colpo del masso. E balzò dentro lo splendido Ettore,
simile a rapida notte nell'aspetto. Splendeva nel bronzo
terrificante, che il corpo rivestiva, stringeva due lance.
Non lo avrebbe sfidato nessuno, tranne gli dèi,
quando balzò dalla porta: di fuoco gli ardevano gli occhi.
E incitava i Troiani, voltandosi verso la folla,
a scavalcare il muro, ed essi obbedivano all’ordine.
Subito alcuni lo scavalcarono ed altri attraverso
le robuste porte dilagarono. I Dànai fuggirono
verso le concave navi, e ne nacque una ressa infinita.

239
LIBRO XIII

La battaglia alle navi.

Zeus, contento dell’assalto dei Troiani al muro, se ne va in paesi lontani e pacifici,


per rasserenarsi. Posidone ne approfitta e corre in soccorso degli Achei, prendendo
le sembianze del veggente Calcante. Nell’allocuzione ai soldati, il dio esprime un
giudizio negativo nei confronti di Agamemnon, colpevole di averli scoraggiati.
Prodezze di Idomèneo, re dei Cretesi. Lo scontro si protrae, con alterni esiti: la
lotta è ancora incerta, ma comunque gli Achei per il momento, grazie al soccorso di
Posidone, riescono a contenere l’assalto troiano.

Zeus, accostati i Troiani ed Ettore alle navi,


li lasciò nello sforzo e nella pena accanto ad esse,
senza mai sosta, e lui stesso volse gli occhi splendenti lontano,
verso la terra dei Traci che allevano cavalli,
e dei Misi guerrieri e dei nobili Mungicavalle,
mangiatori di latte, e degli Abii, i più giusti fra gli uomini.
Verso Troia del tutto più non volse gli occhi splendenti:
non si aspettava nel suo cuore che fra gli immortali
avrebbe mai qualcuno soccorso Troiani o Dànai.
Né faceva il possente Scuotiterra cieca vedetta,
ma se ne stava stupito ad osservare guerra e scontro,
sulla cima più alta di Samotracia selvosa:
perché di là si mostrava l’intera montagna dell’Ida
e la città di Priamo e le navi degli Achei.
E là sedeva uscito dal mare, e gli Achei compiangeva
battuti dai Troiani, con Zeus era molto seccato.
E subito discese dalla montagna dirupata,
con passi rapidi: il grande monte e la selva tremavano
sotto i piedi immortali di Posidone che avanzava.

240
Tre volte si protese, alla quarta raggiunse la meta,
Aigài, dove una reggia negli abissi del mare magnifica
gli è stata edificata, splendente dorata incrollabile.
Giuntovi, al carro aggiogò due cavalli bronzei zoccoli,
celeri al volo, di criniera d’oro chiomati,
d’oro anche lui si rivestì, e prese la frusta
d’oro, ben lavorata, e salì sopra il suo cocchio.
Quindi si spinse sui flutti; e guizzavano i mostri marini
sotto di lui da ogni parte degli antri, ravvisando il sovrano,
e nella gioia il mare si apriva e i cavalli volavano,
celeri, e l’asse del carro di sotto non si bagnava;
essi di slancio alle navi degli Achei lo trasportavano.
Antro spazioso esiste negli abissi del mare profondo,
a metà strada tra Tènedo e Imbro dirupata;
là Posidone Scuotiterra fermò i cavalli,
li liberò dal cocchio, diede loro il cibo ambrosio
che lo mangiassero, e ai piedi gettò loro ceppi dorati
che non si sciolgono, infrangibili, perché aspettassero
che ritornasse il sovrano, e all’esercito acheo si diresse.
I Troiani in gruppo, come fiamma o come tempesta,
Ettore figlio di Priamo con ardore incessante seguivano
con urla fremebonde: le navi achee speravano
di prendere, di uccidere proprio là tutti i migliori.
Ma Posidone Gaiàoco, il dio che scuote la terra,
incitava gli Achei, uscito dal mare profondo,
nell’aspetto simile a Calcas e nella voce instancabile.
E per primi agli Aianti parlò, pur baldanzosi:
“Aianti, salverete l’armata degli Achei,
memori del coraggio, non del panico agghiacciante!
Io non temo in altro luogo le mani invincibili
dei Troiani, che in gruppo hanno scalato il grande muro:
tutti li fermeranno gli Achei dalle belle gambiere;
temo tremendamente che subiamo qualche danno,
dove li guida simile a fiamma quel rabbioso,

241
Ettore, che si vanta di esser figlio di Zeus possente.
Oh se a voi due un dio nell’animo ispirasse
con forza di resistergli e di esortare gli altri!
Ecco che, pur furioso, dalle navi sarebbe cacciato,
celeri, nonostante sia l’Olimpio che lo eccita”.
Disse così, e con lo scettro Gaiàoco Scuotiterra
toccandoli, di vigore possente li riempì,
agili rese le membra, i piedi e le braccia di sopra.
Lui stesso poi, come falco ali veloci si alza in volo,
che da una rupe elevata e ripida sollevatosi,
si getta ad inseguire per la pianura un altro uccello,
tale da loro disparve Posidone Scuotiterra.
Lo riconobbe per primo il veloce Aiante di Oilèo,
e si rivolse subito ad Aiante Telamonio:
“Aias, qualcuno degli dèi che stanno in Olimpo,
il veggente sembrando, ci esorta a batterci presso le navi,
ma non è Calcas profeta, che osserva il volo degli uccelli;
le impronte dei suoi passi e dei piedi facilmente
da dietro ho ravvisato, mentre andava; riconoscibili
sono gli dèi! E perciò il mio cuore dentro al petto
di più affrontare lo scontro e battersi desidera,
e i piedi in basso anelano e anelano in alto le mani”.
E, di rimando, gli disse Aiante Telamonio:
“Così anche a me le mani invincibili, intorno alla lancia,
anelano, è risorto il vigore, e di sotto coi piedi,
con ambedue, mi avvento, e affronto anche da solo
Ettore figlio di Priamo, ch’è sempre bramoso di scontro”.
Parlavano così fra di loro, l’un l’altro alternandosi,
gioiosi dell’ardore, che un dio loro infuse nel petto;
e intanto dietro Gaiàoco prese ad incitare gli Achei,
che riprendevano fiato accanto alle navi veloci.
Le loro membra si erano sfatte per la dura fatica,
e dentro al cuore afflizione nasceva, quando vedevano
i Troiani in gruppo aver scalato il grande muro,

242
e, guardando, di sotto le ciglia versavano lacrime:
più non pensavano di scampare; ma lo Scuotiterra,
giunto, infuse facilmente coraggio alle schiere possenti.
E giunse incoraggiando per primi Teucro e Lèito,
Penèleo l’eroe e Toante e Deìpiro,
e poi Merìone e Antìloco, esperti nel grido di guerra.
Dunque, così esortandoli, alate parole diceva:
“Vergogna, giovani Argivi, ragazzi! Ma io mi fido
di voi: se lotterete, le navi salverete;
ma se abbandonerete la guerra dolorosa,
adesso è apparso il giorno che i Troiani ci batteranno.
Ahi gran prodigio è questo che vedo coi miei occhi,
tremendo - mai credevo che si sarebbe compiuto -:
i Troiani giungere alle navi! Loro che un tempo
erano simili a cerve fuggitive, che di sciacalli,
di leopardi, di lupi nelle selve sono preda,
e perciò scappano, deboli, incapaci di lottare;
così i Troiani il vigore e le mani degli Achei
prima non erano in grado di affrontare, neanche per poco;
ora lottano lungi dalla città e alle concave navi;
colpa del capo e della mollezza dei soldati,
che, in disaccordo con lui, si rifiutano di difendere
le navi svelte, ma si fanno ammazzare accanto ad esse.
E se del tutto e nel senso più vero il solo colpevole
è l’eroe Atride, il più che possente Agamamnon,
per il fatto che ha oltraggiato il Pelide veloce,
questo non può voler dire che noi rinunziamo a combattere:
guariamo in fretta! Sono sanabili i cuori dei forti.
Bello non è che voi allentiate l’ardente vigore,
voi che siete i migliori nell’armata. Né io potrei
contestare un uomo che abbandona la battaglia:
lui vale poco. Invece me la prendo con voi nel mio cuore.
Cari, al più presto sciagura più grande ci procurerete,
con questa vostra mollezza. Ma nell’animo ponga ciascuno

243
ritegno e senso dell’onore: c’è un grande conflitto.
Presso le navi Ettore, possente nel grido di guerra,
forte si batte, ha infranto le porte e la lunga sbarra”.
In questo modo Gaiàoco esortandoli li incitò.
E intorno ai due Aianti si serrarono le schiere,
forti, che Ares avrebbe approvato, se fosse giunto,
e parimenti Atena, guidatrice di armate; i migliori,
prescelti fra i Troiani, aspettavano Ettore splendido,
lancia a lancia serrando, scudo a scudo, l’uno sull’altro:
scudo appoggiato a scudo, elmo ad elmo, uomo ad uomo;
gli elmi criniti sfioravano i pennacchi splendenti, al cenno
minimo: fitti a tal punto fra di loro si schieravano.
Le aste si intrecciavano, agitate da mani robuste,
ed essi diritto miravano, bramosi di scontrarsi.
I Troiani attaccarono in gruppo, guidati da Ettore,
proteso, simile a pietra rotolante da una rupe,
che un fiume vorticoso ha spinto dalla cima,
infranti per la pioggia infinita gli appigli del masso;
precipita dall’alto rimbalzando, e sotto risuona
la selva, e senza sosta quella corre, sino a che giunge
sulla pianura, ove cessa di rotolare, anche se spinta.
In pari modo Ettore di giungere facilmente
sino al mare, alle tende e alle navi achee, minacciava,
ammazzando; ma quando incappò nella schiera compatta,
ristette, ostacolato; e i figli degli Achei,
con spade bersagliandolo e con lance a doppia punta,
lo respinsero lungi, e fu costretto ad arretrare.
E diede un urlo fortissimo, che lo udissero i Troiani:
“O Troiani e Lici e Dàrdani guerrieri,
statemi accanto, gli Achei non a lungo ci fermeranno,
anche arroccandosi fra di loro come una torre,
ma alla mia lancia, suppongo, cederanno, se davvero
il dio più forte, lo sposo tonante di Hera, mi ha spinto”.
Disse così, e destava in ognuno furore e ardimento.

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Procedeva Deìfobo superbo in mezzo a loro,
figlio di Priamo, protendendo lo scudo rotondo,
e leggero coi piedi procedendo e proteggendosi.
E Merìone lo prese di mira con l’asta splendente,
e lo colpì, non lo mancò, sullo scudo rotondo
fatto di pelle, ma senza trapassarlo; molto prima
sulla punta si infranse l’asta lunga; allora Deìfobo
scostò da sé lo scudo di pelle, temendo in cuore
del valoroso Merìone la lancia; ma l’eroe
indietreggiò nel gruppo dei compagni, contrariato
terribilmente, per la sconfitta e per l’asta spezzata.
Prese ad andare lungo le tende e le navi achee,
per prendere altra lancia, che in tenda aveva lasciato.
E gli altri combattevano, si alzò grido inestinguibile.
E primo Teucro di Telamone uccise un uomo,
Imbrio guerriero, figlio di Mèntore dai molti cavalli;
a Pedèo abitava, prima che gli Achei giungessero,
e una bastarda di Priamo aveva in moglie, Medesicasta.
Ma non appena giunsero le navi ben calibrate
dei Dànai, tornò ad Ilio, e spiccava fra i Troiani,
e presso Priamo abitava, che lo onorava come un figlio.
Con l’asta lunga il figlio di Telamone lo colpì,
sotto l’orecchio, ed estrasse la lancia. Cadde come un frassino,
che sulla cima di un monte ben visibile da lungi
le fronde tenere a terra riversa, dal bronzo troncato;
cadde così, e rimbombarono su di lui le armi adorne di bronzo.
Gli piombò addosso Teucro, bramoso di disarmarlo,
ma su di lui che piombava scagliò Ettore l’asta splendente.
Quello, guardando davanti, evitò la lancia bronzea
di poco; e Amfìmaco, figlio di Ctèato, figlio di Actor,
mentre in battaglia entrava, colpì in vece sua nel petto.
Tonfo produsse cadendo, risuonò su di lui l’armatura.
Ettore allora piombò a strappare dalla testa
l’elmo aderente alle tempie di Amfìmaco magnanimo.

245
Ma su di lui che piombava partì Aias con l’asta splendente;
in nessun punto del corpo era esposto, ma tutto dal bronzo
terrificante era avvolto; lo colse al centro dello scudo,
e lo respinse con grande forza, e lui si ritrasse
dietro ad entrambi i cadaveri; gli Achei a sé li tirarono.
Stichio splendido e Menèsteo, capi ateniesi,
riportarono Amfìmaco nelle schiere degli Achei,
e i due Aianti Imbrio, frementi di ardente vigore;
e come due leoni dai cani denti aguzzi
strappano via una capra e fra densa boscaglia la portano,
alta sopra la terra tenendola fra le mascelle;
così tenendolo in alto i due Aianti, dall’elmo protetti,
lo disarmavano, e Aias di Oilèo dal morbido collo
la testa gli troncò, adirato per Amfìmaco,
e la scagliò roteandola come palla nella mischia;
cadde davanti ai piedi di Ettore nella polvere.
E allora Posidone andò in collera nel suo cuore
per il nipote caduto nella mischia furibonda;
prese ad andare lungo le tende e le navi achee
incoraggiando i Dànai, e apprestava dolori ai Troiani.
Gli si fece incontro Idomèneo famoso con l’asta,
che un compagno aveva soccorso, appena uscito
dallo scontro, ferito al ginocchio dal bronzo acuto;
lo avevano portato i compagni; e, dati ai medici
gli ordini, nella sua tenda andava, ma ancora bramava
scontrarsi; ma il possente Scuotiterra gli parlò,
sembrando nella voce Toante figlio di Andrèmone,
che sopra tutta Pleurone e Calidone scoscesa
regnava fra gli Etòli, come un dio onorato fra il popolo:
“Dei Cretesi Idomèneo consigliere, che ne è stato
delle minacce che i figli degli Achei ai Troiani facevano?”.
E gli rispose Idomèneo, condottiero dei Cretesi:
“Nessun uomo, Toante, per ora ne ha colpa, almeno
per quanto io ne sappia: siamo tutti capaci di batterci.

246
Nessuno è posseduto da meschina paura, o, cedendo
al panico, abbandona la dura battaglia; ma certo
deve piacere al potentissimo figlio di Crono
che senza gloria muoiano gli Achei lontano da Argo.
Ma tu, Toante, che prima eri tanto valoroso
e anche gli altri incitavi, se li vedevi arretrare,
non desistere adesso e incoraggiali uno ad uno”.
E così gli rispose Posidone Scuotiterra:
“Idomèneo, da Troia non possa più tornare,
ma possa diventare ludibrio per i cani,
chi oggi di proposito si rifiuti di combattere.
Ma prendi le tue armi e vieni; insieme dobbiamo
adoperarci, pur essendo due, per qualcosa di utile.
Unita insieme nasce virtù persino nei deboli,
e noi siamo capaci di combattere coi buoni”.
Detto così, ritornò nella pena degli uomini il dio.
E quando alla sua solida tenda giunse Idomèneo,
si rivestì delle armi bellissime, mise mano a due lance.
Prese ad andare simile al fulmine, che il Cronìde
nella sua mano brandisce e scuote dall’Olimpo che sfolgora,
segno mostrando ai mortali: sfavillano i suoi raggi.
Così sul petto di lui che correva il bronzo brillava.
Gli venne incontro Merìone, il suo valente scudiero,
molto vicino alla tenda; veniva in cerca di un’asta di bronzo,
per portarsela; e così gli parlò il prode Idomèneo:
“Figlio di Molo Merìone veloce, compagno carissimo,
perché giungesti abbandonando il conflitto e la mischia?
Forse colpito, ti affligge la punta di una freccia,
o qui giungesti per darmi notizia? Né io stesso
bramo restare nella mia tenda, ma combattere”.
E Merìone pieno di senno gli rispose:
“O consigliere Idomèneo dei Cretesi tunicati di bronzo,
giungo qui se per caso nella tenda una lancia è rimasta,
per portarmela; quella che avevo l’ho spezzata,

247
contro lo scudo scagliandola di Deìfobo superbo”.
E gli rispose Idomèneo, condottiero dei Cretesi:
“Lance, se proprio ne vuoi, ne trovi una oppure venti,
dentro la tenda appoggiate al muro risplendente,
armi troiane che ho tolto agli uccisi. Ma non amo
affrontare gli avversari stando lontano.
Proprio per questo ho lance e scudi ombelicati,
elmi e corazze che scintillano abbaglianti”.
E Merìone pieno di senno gli rispose:
“Anch’io nella mia tenda e nella nave nera
ho molte spoglie troiane, ma non vicine a prendersi.
E anch’io non posso dirmi dimentico del mio coraggio,
ma con i primi nella mischia che esalta i forti
sto fermo, ogniqualvolta si scatena di guerra il conflitto.
Forse a qualcuno degli Achei tunicati di bronzo
posso sfuggire, ma credo bene che tu mi conosca”.
E gli rispose Idomèneo, condottiero dei Cretesi:
“Conosco il tuo valore, perché mi dici questo?
Se fossero tutti i migliori prescelti presso le navi
per un agguato, dove meglio si scorge il valore,
e dove il vile e il forte appaiono nel modo più chiaro:
perché del vile muta la pelle in un modo o in un altro,
non è capace il suo cuore nel petto di non tremare,
ma si rannicchia e si sposta ora su un piede ora sull’altro,
e dentro al petto il cuore gli sussulta fortemente,
solo alla propria morte pensando, e gli stridono i denti;
al valoroso invece non cambia la pelle, né troppo
si turba, non appena si apposta nell’agguato,
brama gettarsi al più presto nella mischia dolorosa….;
nessuno allora disprezzerebbe il tuo ardimento.
Se combattendo tu fossi colpito da lungi o trafitto,
il colpo non cadrebbe sul collo di dietro o alla schiena,
bensì piuttosto al petto o al ventre ti coglierebbe,
mentre ti slanci in avanti in mezzo alla mischia tra i primi.

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Ma suvvia, smettiamola di cianciare come bimbi,
stando qui fermi, che qualcuno possa riprenderci.
Ma va’ nella tua tenda e prendi una lancia robusta”.
Disse così, e Merìone somigliante ad Ares violento
rapidamente una lancia di bronzo portò via dalla tenda,
poi dietro ad Idomèneo si mosse, bramoso di guerra.
E quale Ares sterminatore alla guerra procede
e il caro figlio, il Panico, possente e senza paura,
lo segue, che il guerriero più spavaldo mette in fuga,
e per andare in mezzo agli Èfiri dalla Tracia si armano,
o per andare dai Flegi magnanimi; e non danno ascolto
ad ambedue le parti: solo ad una danno gloria;
simili ad essi Merìone e Idomèneo, capi di eserciti,
andavano a combattere, rivestiti di bronzo splendente.
E per primo Merìone si rivolse all’altro e gli disse:
“Figlio di Deucalìon, dove pensi di entrare in battaglia?
Alla destra di tutta l’armata, oppure nel centro,
o a sinistra? Perché non penso che altrove altrettanto
siano incapaci a combattere gli Achei dai lunghi capelli”.
E gli rispose Idomèneo, condottiero dei Cretesi:
“Anche altri ci sono per difendere al centro le navi,
i due Aianti e Teucro, che è il migliore degli Achei
nella perizia dell’arco, ma altresì nel corpo a corpo.
Essi di lotta lo sazieranno, per quanto sfrenato,
Ettore figlio di Priamo, nonostante sia così forte.
Arduo molto gli riuscirà, per quanto smanioso,
vincere il loro vigore guerriero e le mani invincibili,
e appiccare il fuoco alle navi, purché non scagli
il Cronìde la fiaccola ardente sulle navi veloci.
Non cederebbe ad alcuno il grande Aiante Telamonio,
che sia mortale e si nutra del frumento di Demètra,
che ferire si possa col bronzo e coi pietroni.
Neanche ad Achille cederebbe distruttore
nel corpo a corpo; ma nella corsa non si può competere.

249
Quanto a noi, va’ a sinistra, perché al più presto sappiamo
se daremo gloria a qualcuno o lui a noi”.
Disse così, e Merìone, somigliante ad Ares violento,
prese ad andare, sino a che giunsero al posto indicato.
Come Idomèneo videro, pari a fiamma nel coraggio,
e assieme lui lo scudiero con le armi ben lavorate,
chiamandosi l’un l’altro, gli piombarono addosso compatti,
e si ingaggiò una lotta pareggiata presso le navi.
E come si alzano le tempeste ai venti che fischiano,
in un giorno in cui c’è gran polvere sulle strade,
ed essi grande nube di polvere sollevano;
così si accese lo scontro reciproco, ed essi bramavano
nella mischia distruggersi l’un l’altro col ferro acuto.
Di lance brulicava la battaglia annientatrice,
lunghe, che in mano brandivano, micidiali; gli occhi accecava
il bagliore del bronzo che dagli elmi lampeggiava,
dalle corazze appena lustrate, dagli scudi lucenti,
di loro che avanzavano compatti; ardito davvero
chi avesse visto con gioia lo scontro e non con pena.
Così su fronti opposti i due forti figli di Crono
preparavano per gli eroi affanni luttuosi.
Per i Troiani e per Ettore voleva Zeus vittoria,
per dare gloria ad Achille veloce; ma non del tutto
voleva che perisse l’armata achea davanti ad Ilio,
ma dava gloria a Teti e a suo figlio cuore intrepido.
Posidone, andando qua e là, incitava gli Argivi,
di nascosto emerso dal mare canuto, dolente
che i Troiani vincessero, con Zeus era molto seccato.
Era la stessa di ambedue la stirpe e la nascita,
ma era nato Zeus per primo e sapeva più cose,
l’altro perciò evitava di soccorrere apertamente,
e di nascosto incitava per l’esercito simile a un uomo.
Essi, tirando ora qua ora là, della lotta suprema
e della guerra che tutti pareggia la corda tendevano,

250
che non si spezza non cede, che a molti sciolse i ginocchi.
Dunque Idomèneo, già in parte canuto, i Dànai esortava,
e si avventò sui Troiani gettandoli nel panico.
Tolse di mezzo Otriòneo, che veniva da Cabèso,
ed era giunto da poco, al richiamo della guerra,
e domandava in moglie la più bella figlia di Priamo,
Cassandra, senza doni, ma con grandiosa promessa,
cacciare i figli degli Achei riluttanti da Troia.
Il vecchio Priamo allora promise e acconsentì:
la concedeva, e lui, fiducioso, combatteva.
Ma Idomèneo lo prese di mira con l’asta splendente,
e lo colpì che avanzava superbo; non valse a fermarla
la corazza bovina, che portava, e si infisse nel ventre.
Tonfo produsse cadendo; e si vantò Idomèneo, e disse:
“Otriòneo, al di sopra di tutti i mortali ti esalto,
se davvero tutto compirai di quanto promesso
al Dardànide Priamo: ti promise di darti sua figlia.
Anche noi mantenere sapremmo la nostra promessa,
e ti daremmo la figlia più bella del figlio di Àtreo,
facendola venire da Argo, se insieme con noi
Ilio tu distuggessi, la città ben abitata.
Ma vienmi dietro, che presso le navi che il mare attraversano
di nozze discutiamo: non siamo parenti da niente”.
Disse l’eroe Idomèneo, e nella mischia furibonda
per un piede lo trascinava; ma Asio a difenderlo
a piedi giunse, davanti ai cavalli; il suo scudiero
dietro alle spalle li teneva sbuffanti; e in cuore Idomèneo
desiderava colpire; ma lui lo prevenne cogliendolo
sotto il mento, alla gola, lo trapassò da parte a parte.
E cadde come cade una quercia oppure un pioppo,
o un pino eccelso, che sui monti i falegnami
tagliano con le scuri affilate per farne una chiglia;
giacque così disteso, davanti al carro e ai cavalli,
rantolando e stringendo la polvere insanguinata.

251
Il dominio di sé, che prima aveva, perdette l’auriga,
e non trovò il coraggio, per schivare le mani nemiche,
di rigirare i cavalli, e Antiloco ardito in battaglia
lo trapassò con l’asta in pieno, non valse a fermarla
la corazza bronzea, che portava, e si infisse nel ventre.
Quello ansimando cadde giù dal solido carro,
ed Antìloco figlio di Nestore magnanimo
spinse i cavalli sino agli Achei dalle belle gambiere.
Molto allora Deìfobo a Idomèneo si appressò,
contristato per Asio, e gli scagliò la lancia splendente.
Ma, guardando davanti, evitò la lancia di bronzo
Idomèneo: sotto lo scudo rotondo si nascose,
che portava, ben tornito, di pelle bovina
fatto e di bronzo abbagliante, adattato con due impugnature.
Si rannicchiò, e di sopra gli volò la lancia di bronzo;
secco stridore emise lo scudo al volare dell’asta,
né dalla mano pesante lo scagliò privo di effetto,
ma percosse Ipsènore di Íppaso, pastore di popoli,
sotto il diaframma, al fegato, e all’istante gli sciolse i ginocchi.
E con iattanza Deìfobo menò vanto, e disse gridando:
“Non certo invendicato giace Asio, ma penso che andando
alla casa di Ade, spietato guardaporta,
ora gioisca nel suo cuore: gli ho dato un compagno”.
Disse, e gli Argivi si afflissero per lui che si vantava,
e soprattutto del nobile Antìloco ciò scosse il cuore;
ma, pur così turbato, non si scordò del compagno,
e accorse e lo protesse e lo coprì con lo scudo,
e, sollevatolo due fedeli suoi compagni
sulle spalle, Meciste di Echio e lo splendido Alastor,
lo portarono che cupo gemeva alle concave navi.
Non cessava Idomèneo dal furore, ma sempre bramava
qualche Troiano gettare nella notte tenebrosa,
o lui stesso cadere, dagli Achei rovina stornando.
Di Esiète nutrito da Zeus il caro figlio,

252
l’eroe Alcàtoo, che era genero di Anchise,
perché gli diede la figlia maggiore, Ippodamìa,
che il padre amava di tutto cuore e la madre sovrana
dentro la casa; eccelleva fra tutte le coetanee
per bellezza lavori senno; e proprio per questo
se la sposò per l’ampia Troia il guerriero migliore;
lo domò costui Posidone sotto Idomèneo,
gli occhi lucenti incantandogli, gli inceppò le splendide membra:
non riusciva a fuggirsene indietro, né a scansarsi,
ma come stele o come albero chioma sublime
fermo immobile, lo colse con l’asta in pieno petto
Idomèneo eroe, e gli spezzò nel mezzo la veste
bronzea, che prima dal capo gli teneva lontana la morte;
secco frastuono essa diede, squarciata dalla lancia.
Tonfo produsse cadendo, restò infissa la lancia nel cuore,
che coi suoi spasmi imprimeva sussulti all’impugnatura
dell’asta. Ares violento alfine estinse il suo vigore.
E con iattanza Idomèneo menò vanto, e disse gridando:
“Dunque, Deìfobo, dobbiamo pensare che sia giusto
tre ammazzarne in cambio di uno? Eppure ti vanti.
Matto! Ma piazzati proprio tu stesso di fronte a me,
perché tu veda che stirpe di Zeus io qui sono giunto,
che per primo Minosse generò, custode di Creta,
poi generò Minosse Deucalìon irreprensibile,
e Deucalìon poi me mise al mondo, sovrano di molti,
nell’ampia Creta, e adesso mi portarono qui le navi,
per te rovina, per tuo padre, per gli altri Troiani”.
Disse così, e Deìfobo in due parti si divise,
se cercare qualche compagno fra i Troiani magnanimi,
ritornato sui suoi passi, o tentare da solo.
E riflettendo, gli parve meglio fare così:
andare in cerca di Enea; lo trovò ultimo nel gruppo,
che stava fermo, con lo splendido Priamo era sempre crucciato,
perché, pur valoroso fra gli uomini, non lo onorava.

253
E standogli vicino, alate parole diceva:
“Consigliere Enea dei Troiani, adesso occorre
difendere il cognato, se di lui ti prendi cura.
Ma vienmi dietro, e Alcàtoo difendiamo, che già un tempo
quale cognato in casa ti ha allevato da bambino;
perché Idomèneo famoso con l’asta gli ha tolto la vita”.
Disse, e il cuore sovreccitò di lui dentro al petto,
e se ne andò a cercare Idomèneo, bramoso di scontro.
Ma non fu preso Idomèneo dal panico come un bamboccio;
pari a un cinghiale li attese, che sui monti baldanzoso
ressa di uomini numerosi che assaltano aspetta
in uno spazio deserto, e sulla pelle il pelo gli vibra,
e gli occhi gli scintillano di fuoco, arrota i denti,
ben preparato a confrontarsi con cani e con uomini;
in pari modo Idomèneo famoso con l’asta aspettava
senza arretrare Enea che accorreva, e chiamava i compagni,
Ascàlafo vedendo e Afàreo e Deìpiro,
e Merìone e Antìloco, datori di battaglia.
E lui, così incitando, alate parole diceva:
“Presto, aiutatemi, cari, sono solo: tremendamente
temo l’assalto del rapido Enea, che mi viene addosso;
lui è bravissimo nello scontro ad uccidere uomini,
e possiede il fiore di giovinezza, la forza più grande.
Se fossimo coetanei, in aggiunta al mio coraggio,
subito lui e io riporteremmo grande gloria”.
Disse così, e tutti, con un solo cuore in petto,
attorno gli si fecero, con gli scudi appoggiati alle spalle.
Dall’altra parte Enea chiamava i suoi compagni,
Deìfobo vedendo e Paride e Agenore splendido,
che assieme a lui dei Troiani erano capi; quindi appresso
seguivano i soldati, come dietro l’ariete le pecore,
quando al ritorno dal pascolo bevono, e gioisce il pastore;
in pari modo gioiva nel petto il cuore di Enea,
come la schiera vide dei soldati che lo seguivano.

254
E si affrontarono corpo a corpo intorno ad Alcàtoo
con pertiche lunghissime; sui loro petti il bronzo
tremendo risuonava mentre loro si colpivano
nella reciproca zuffa. E due guerrieri al di sopra di tutti,
Enea e Idomèneo, somiglianti ad Ares, l’un l’altro
bramavano squarciarsi il corpo col bronzo spietato.
Primo fu Enea a scagliare la lancia contro Idomèneo,
ma, guardando davanti, evitò la lancia di bronzo,
e la lancia di Enea, vibrando, finì a terra,
sotto la spinta priva di effetto della mano pesante.
E in pieno ventre Idomèneo colpì Enòmao, e la piastra
schiantò della corazza, e il bronzo attinse le viscere;
precipitò nella polvere, e strinse la terra col pugno.
Idomèneo estrasse la lancia lunga ombra
dal cadavere, ma le altre bellissime armi
non riuscì a portar via dalle spalle, pressato dai colpi.
Salde se si muoveva non aveva più le gambe,
più non scattava dietro la lancia, né la schivava;
nel corpo a corpo riusciva a stornare il giorno spietato,
ma nella fuga non più dalla mischia lo portavano i piedi.
Mentre arretrava lento, gli lanciò la splendida lancia
Deìfobo, implacabile rancore nutriva per lui;
ma lo mancò anche allora, e colpì con l’asta Ascàlafo,
figlio di Eniàlio; la lancia pesante gli trapassò
le spalle, nella polvere cadde e strinse la terra col pugno.
Ares violento dalla voce possente nulla ancora sapeva
del proprio figlio caduto nella mischia furibonda,
ma sedeva in cima all’Olimpo, sotto nuvole d’oro,
incatenato al volere di Zeus, dove anche gli altri
degli immortali stavano separati dal conflitto.
E si affrontarono corpo a corpo intorno ad Ascàlafo.
Deìfobo sottrasse ad Ascàlafo l’elmo splendente,
ma Merìone, simile ad Ares violento, lo colse
con la lancia ad un braccio, balzando, e dalla mano

255
l’elmo con la visiera, cadendo a terra, rimbombò.
E Merìone, di nuovo balzando, pari ad avvoltoio,
gli strappò dall’estremo del braccio la lancia pesante,
e indietreggiò nel gruppo dei compagni. Allora Polìte,
suo fratello, cingendolo alla vita con le braccia,
lo portò via dallo scontro crudele, sinché giunse ai cavalli
rapidi, che a ridosso dello scontro e del conflitto
stavano assieme all’auriga e al carro variopinto.
Lo portarono in città che gemeva profondo,
tormentato, scorreva il sangue dal braccio ferito.
E gli altri combattevano, si levò grido inestinguibile.
Allora Enea con l’asta acuta puntò su Afàreo
di Calètore, che lo aveva attaccato, e lo colse alla gola:
si reclinò da una parte la testa, ma scudo ed elmo
rimasero allacciati, si sparse morte annientatrice.
Antìloco, spiando Toone che si era voltato,
lo aggredì e lo colpì, e gli recise tutta la vena
che correndo per tutta la schiena giunge dritta alla nuca.
Netta gliela recise; e supino nella polvere
precipitò, tendendo ambo le braccia ai cari compagni.
E gli fu addosso Antìloco, dalle spalle gli tolse le armi,
guardando intorno a sé; i Troiani, circondandolo,
il largo scudo colpivano scintillante, ma non riuscivano
a scalfire il tenero corpo col bronzo spietato
di Antìloco; Posidone scuotiterra il figlio di Nestore
proteggeva persino in mezzo ai molti colpi.
Non era privo mai di nemici, ma in mezzo a loro
si aggirava, la lancia non era mai ferma, ma sempre,
scossa, vibrava; lui sempre nel suo cuore progettava
di colpire qualcuno o di attaccare da presso.
Mentre mirava nel mucchio, non sfuggì ad Adamante di Asio,
che lo colpiva col bronzo acuto in mezzo allo scudo,
da vicino attaccando; ma gli infiacchì la punta,
strappandogli la vita, Posidone chioma azzurra.

256
L’asta rimase sospesa, come palo arso dal fuoco,
nello scudo di Antìloco, cadde al suolo l’altra metà,
e indietreggiò nel gruppo dei compagni, schivando la morte.
E Merìone con l’asta lo colpì che fuggiva, inseguendolo,
fra le vergogne e l’ombelico, dove massimamente
Ares è doloroso per i miseri mortali.
Quivi si infisse la lancia, e quello, assecondandola,
simile a bue si dibatteva, che sui monti i pastori
portano via con forza controvoglia, legato con funi.
Tale, colpito, per poco si dibatteva, non per molto,
sinché Merìone eroe, accostatosi, l’arma dal corpo
gli cavò fuori: allora la tenebra gli occhi gli avvolse.
Èleno da vicino con la spada, lunga, tracia,
colpì alla tempia Deìpiro, gli strappò l’elmo con la visiera,
che con un balzo a terra precipitò; fra i combattenti
un Acheo lo raccolse, che rotolava fra i piedi;
e notte tenebrosa i suoi occhi gli ravvolse.
Si addolorò Menelao, possente nel grido di guerra,
e minaccioso si volse contro Èleno eroe sovrano,
brandendo l’asta acuta; l’altro tese la cocca dell’arco.
E vennero a conflitto, il primo con l’asta di faggio,
volendolo colpire, e l’altro con l’arco e la freccia.
Il Priàmide colpì con la freccia sul petto la piastra
della corazza, ma volò via la freccia amara.
Come dall’ampio ventilabro sull’aia spaziosa
balzano fave dal guscio nerastro oppure ceci
per il sonoro vento o per il colpo di chi vaglia,
così dalla corazza di Menelao glorioso
molto sbalzata lontano volò via la freccia amara.
L’Atride Menelao, possente nel grido di guerra,
colpì la mano che l’arco levigato reggeva; e all’arco
l’asta di bronzo provenne diretta, attraverso la mano.
Indietreggiò nel gruppo dei compagni, schivando la morte,
con la mano pendente: trascinava la lancia di frassino.

257
E gliela tolse dalla mano il magnanimo Agènore,
e gli fasciò la mano con lana intrecciata di pecora,
fionda portata per il pastore di popoli dallo scudiero.
Dritto Pisandro verso il glorioso Menelao
procedeva, destino di morte lo conduceva
contro di te, Menelao, nella mischia furibonda.
E quando furono ormai vicini, entrambi avanzando,
l’Atride mancò il colpo, gli deviò di lato l’asta,
e Pisandro lo scudo di Menelao glorioso
colpì, ma non riuscì a trapassarlo col bronzo,
si oppose l’ampio scudo, si ruppe l’asta in cima,
e lui nel cuore si rallegrò e sperava di vincere.
L’Atride allora, sguainando la spada trapunta d’argento,
sopra Pisandro balzò, ma lui prese sotto lo scudo
una bell’ascia di bronzo, con un manico lungo d’ulivo,
ben levigato, e l’uno contro l’altro si azzuffarono.
L’uno colpì la cresta dell’elmo chioma equina,
proprio sotto il pennacchio, e l’altro sulla fronte,
alla radice del naso, e scricchiolarono le ossa,
caddero ai piedi gli occhi sanguinanti nella polvere;
si piegò in due cadendo, e piantandogli un piede sul petto,
Menelao lo spogliò delle armi e menò vanto:
“Così le navi dei Dànai svelti puledri lascerete,
Troiani tracotanti, di terribile mischia insaziabili,
o voi manchevoli per altra macchia e per altra vergogna,
macchia di cui contro me vi macchiaste, orrende cagne,
né paventaste di Zeus che forte tuona la dura collera,
Zeus ospitale, che un giorno la rocca ripida vi annienterà!
Voi che da stolti di moglie legittima e di molte ricchezze
mi rapinaste, per quanto foste stati da lei bene accolti!
E ora smaniate di poter sulle navi che solcano il mare
fuoco mortale gettare ed eroi achei ammazzare.
Ma prima o poi smetterete con Ares, per quanto arrabbiati!
Padre Zeus, che dicono superare per senno gli altri,

258
uomini e dèi, tutto questo da te solamente dipende.
A tal punto di uomini tracotanti ti compiaci,
i Troiani, di cui sempre il furore è selvaggio, né possono
mai satollarsi di carneficina e di guerra imparziale.
Di ogni cosa c’è sazietà , di sonno, di amore,
di canto delizioso, di danza irrerprensibile;
di tutto ciò ciascuno brama togliersi la voglia,
ma non di guerra, di cui i Troiani non si saziano”.
Disse così, e le armi dal corpo insanguinate
tolse, e le diede ai compagni Menelao irreprensibile,
quindi lui stesso fra i primi avanzò e si gettò nella mischia.
E qui gli saltò addosso il figlio del re Pilèmone,
Arpalìone, che aveva seguito per combattere
il padre a Troia, ma più non tornò nella sua patria.
Nel mezzo dello scudo dell’Atride con l’asta colpì,
da vicino, ma non riuscì a trapassarlo col bronzo,
e indietreggiò nel gruppo dei compagni, schivando la morte,
guardandosi: nessuno col bronzo lo raggiungesse.
Mentre fuggiva, Merìone gli scagliò un dardo punta di bronzo,
e lo colpì alla natica destra, quindi la freccia
attraversò la vescica diritta al di sotto dell’osso.
Abbandonandosi nelle braccia dei cari compagni
ed esalando il respiro, come verme sulla terra,
giacque disteso; scorreva il nero sangue e bagnava il suolo.
Attorno gli si misero i Paflàgoni magnanimi;
stèsolo sopra un carro, lo portarono a Ilio sacra,
mesti; con loro il padre procedeva, versando lacrime:
non esiste ricompensa per la morte di un figlio.
Paride molto nel cuore si sdegnò per l’uomo ucciso:
era stato suo ospite in mezzo a molti Paflàgoni.
E adirato scagliò una freccia punta di bronzo.
C’era un certo Euchènore, del veggente Poliìdo,
facoltoso e nobile, che stava di casa a Corinto;
lui ben conscio della Chera funesta salì sulla nave;

259
spesso glielo diceva il buon vecchio Poliìdo,
che morbo atroce morte gli avrebbe dato nella casa,
o che i Troiani lo avrebbero fra le navi achee domato.
E pertanto evitava la multa atroce degli Achei,
e il morbo odioso, per non soffrire in cuore dolori.
Tra la mascella e l’orecchio lo colpì; la vita subito
se ne partì dalle membra, la tenebra odiosa lo colse.
Essi così lottavano, simili a fuoco ardente;
Ettore caro a Zeus non era informato, ignorava
che alla sinistra delle navi i suoi guerrieri
erano uccisi dagli Argivi, e gloria subito
giungeva degli Achei, perché Gaiàoco Scuotiterra
incitava gli Argivi, li aiutava con la sua forza.
E stava là, ove la porta e il muro aveva sfondato,
la fitta schiera dei Dànai armati di scudo spezzando,
dove le navi sostavano di Aiante e di Protesilào,
tirate a secco sul lido del mare canuto; a monte
molto più basso il muro si ergeva, dove moltissimo
erano nello scontro loro stessi e i cavalli accaniti.
E proprio là i Beòti e gli Ioni lunghissime vesti,
e i Locresi, gli Ftii e gli splendidi Epèi a stento
dall’assaltare le navi lo frenavano, né riuscivano
a ricacciare Ettore splendido simile a incendio,
gli uomini scelti degli Ateniesi. Alla loro guida
c’era Menèsteo di Peteòo, e lo seguivano
Fida, Stichio, Bias valente; e tra gli Epèi,
il figlio di Filèo, Megète, e Amfìone e Drachio;
guidavano gli Ftii Medonte e Podarce guerriero.
L’uno, Medonte, era il figlio bastardo di Oilèo divino,
dunque fratello di Aiante, ed in Fìlaca abitava,
lungi dalla sua patria, e aveva ucciso un uomo,
della matrigna Eriòpide, moglie di Oilèo, fratello.
L’altro, Podarce, era figlio di Íficlo, figlio di Fìlaco.
Essi, rinchiusi nell’armi, guidando i magnanimi Ftii,

260
difendendo le navi, lottavano assieme ai Beòti.
Aias, il rapido figlio di Oilèo, neppure per poco
mai più si allontanava da Aiante Telamonio;
ma come in un maggese una coppia di buoi color vino
tirano in pieno accordo il solido aratro, ed ad entrambi
gronda abbondante sudore alla base delle corna;
solo il giogo ben levigato li tiene distanti,
mentre nei solchi procedono, sino al termine del campo;
in pari modo stavano quei due accostati l’un l’altro.
Numerosi e valenti Aiante Telamonio
seguivano compagni, reggendogli lo scudo,
quando stanchezza e sudore gli giungevano ai ginocchi.
Ma il magnanimo Oilìade i Locresi non seguivano,
il caro cuore non reggeva allo scontro da presso;
elmi di bronzo non avevano con chioma equina,
scudi rotondi non avevano né lance di frassino,
ma soltanto negli archi e nella lana intrecciata di pecora
fidando, sino ad Ilio li seguivano, e con quelli
fitto colpendo, le schiere spezzavano dei Troiani.
I primi dunque davanti con le armi ben lavorate
contro i Troiani lottavano e contro Ettore elmo di bronzo;
gli altri da dietro colpivano nascosti, né della lotta
i Troiani si rammentavano, sepolti dai dardi.
Penosamente allora dalle navi e dalle tende
i Troiani arretravano verso Ilio battuta dai venti,
se non parlava così Polidamante ad Ettore ardito:
“Ettore, è vano cercare di convincerti con le parole;
poiché il dio ti ha concesso più che agli altri prodezze di guerra,
proprio per questo pretendi di prevalere anche in consiglio.
Sì, ma non è possibile che abbia preso tutto tu solo.
A questo il dio concesse le gesta di guerra, a quest’altro
la danza, a un altro ancora la cetra, a un altro il canto,
a un altro ha messo in petto un senno Zeus voce possente
egergio, e molti uomini di esso si avvantaggiano,

261
ed esso molti ha salvato, e lui stesso ne è ben conscio.
E adesso ti dirò ciò che a me sembra essere il meglio.
Splende da tutte le parti per te la corona di guerra:
i Troiani magnanimi, oltrepassato il muro,
alcuni stanno armati in disparte, altri combattono
in pochi contro molti, dispersi tra le navi.
Ma, retrocesso, tu richiama qua i migliori;
così potremmo pensare a tutto il nostro piano,
cioè piombare addosso alle navi molti banchi,
se vorrà darci un dio la forza, oppure in seguito
allontanarci incolumi dalle navi; quanto a me,
temo davvero che saldino il conto di ieri gli Achei:
presso le navi rimane un Acheo mai sazio di guerra,
che suppongo non si asterrà dal conflitto più a lungo”.
Disse Polidamante, e piacque ad Ettore il saggio discorso,
e subito dal carro balzò a terra con le armi,
e, rivolgendosi a lui, alate parole diceva:
“Polidamante, tu qua trattieni tutti i migliori,
io nel frattempo andrò là e affronterò il conflitto;
tornerò subito, dopo aver dato loro buone istruzioni”.
Disse, e si mosse simile a montagna ammantata di neve,
gridando, e fra i Troiani e gli alleati volava,
ed essi verso l’amabile Polidamante di Pàntoo
tutti accorrevano, udita di Ettore la voce.
Deìfobo e la forza di Èleno sovrano,
ed Adamante di Asio ed Asio figlio di Írtaco,
in prima fila andava cercando, se mai li trovava.
Ma più non li trovò senza danno e ancora in vita:
presso le navi degli Achei alcuni giacevano
privi di vita, uccisi dalle mani degli Argivi,
altri stavano dentro le mura, feriti e colpiti.
Ma trovò subito al lato sinistro dello scontro crudele
lo splendido Alessandro, sposo di Elena bella chioma,
che incoraggiava i compagni e li incitava a combattere;

262
e, standogli vicino, alate parole diceva:
“Paride odioso, bello, donnaiolo, seduttore,
dove sono Deìfobo ed Èleno forte sovrano,
e Adamante di Asio ed Asio figlio di Írtaco?
E dove Itriòneo? Adesso muore da cima a fondo
Ilio ripida: per te è assicurato l’abisso di morte”.
E così gli rispose Alessandro simile a un dio:
“Ettore, ad incriminare un innocente ti induce la collera.
E qualche volta forse mi sottrassi alla battaglia,
ma non del tutto privo di coraggio mi ha fatto la madre;
sin da quando hai destato dei compagni l’attacco alle navi,
stando qui sin da allora ci scontriamo con i Dànai,
senza mai sosta; i compagni che tu cerchi sono morti.
Solamente Deìfobo ed Èleno forte sovrano
si sono ritirati, da lunghe lance feriti
nel braccio entrambi, il Cronìde alla morte li ha sottratti.
Ora comanda, come l’animo e il cuore ti spingono,
che noi ti seguiremo animosi, e ti assicuro
che al coraggio non manchremo, sino a che avremo forza.
Oltre le proprie forze neanche il prode può combattere”.
Disse, e l’eroe convinse il cuore del fratello,
e si avviarono dov’era più forte lo scontro e la mischia,
con Cebrìone irreprensibile e Polidamante,
con Falce, con Ortèo, con Polifète pari a un dio,
con Palmi e con Ascanio, con Mori di Ippotiòne,
giunti per dare il cambio da Ascania fertili zolle
l’aurora precedente, e Zeus li spinse a combattere.
E procedevano simili a bufera di venti impetuosi,
che assieme al tuono del padre Zeus piomba sulla piana,
e che si mescola con strepito immenso al mare, e molte
onde ribollono nella distesa che rumoreggia,
gonfie e bianche di spuma, prime queste e poi quest’altre;
tali i Troiani compatti, prima questi e poi quest’altri,
scintillanti di bronzo, seguivano i loro capi.

263
Ettore li guidava, pari ad Ares sterminatore,
figlio di Priamo, protendendo lo scudo rotondo,
ben intessuto di pelli, molto bronzo lo ricopriva;
l’elmo splendente ondeggiava intorno alle sue tempie.
Dappertutto, procedendo, tentava le schiere,
se gli cedessero mentre avanzava sotto lo scudo;
ma non turbava il cuore nel petto degli Achei.
Primo fu Aiante a sfidarlo, procedendo a grandi falcate:
“Matto, avvicinati; per quale motivo incuti terrore
agli Argivi? Non siamo neanche noi inesperti di guerra,
ma siamo stati domati dalla sferza nemica di Zeus.
Certo il tuo cuore spera di distruggere le navi,
ma anche per noi esistono le mani atte a difenderle.
Prima potrebbe la vostra città ben abitata
essere presa e devastata dalle nostre mani.
E ti assicuro che prossimo è il momento in cui, fuggendo,
Zeus padre pregherai e gli altri immortali che siano
i tuoi cavalli bella criniera più veloci dei falchi
a riportarti in città, impolverando la pianura”.
Mentre così parlava, gli volò sulla destra un uccello,
un’aquila che alto vola, e gridarono gli Achei,
risollevati al prodigio; ma proruppe lo splendido Ettore:
“ Aiante parolaio, sbruffone, cos’hai detto!
Foss’io davvero figlio di Zeus che porta l’ègida
per tutti i giorni, e mi avesse Hera sovrana partorito,
e ricevessi pari onore ad Atena e ad Apollo,
com’è sicuro che questo giorno a tutti gli Achei
rovina recherà, e anche tu vi morrai, se oserai
l’asta mia lunga affrontare, che morderà il tuo corpo di giglio
e sazierà col grasso e con la carne i cani e gli uccelli
dei Troiani, caduto alle navi degli Achei”.
Disse, e si mosse guidandoli, ed essi lo seguirono
con grido immenso, e dietro l’esercito acclamava.
Dall’altro lato gli Argivi gridavano, né del coraggio

264
si scordavano, pronti all’assalto dei prodi Troiani.
Giungeva al cielo e ai raggi di Zeus il clamore di entrambi.

265
Libro XIV

L’inganno a Zeus.

Nella tenda di Nestore, frattanto, si svolge una conversazione fra il vecchio e


Macàon, da lui curato. La preoccupazione è grande, per l’esito sfavorevole della
battaglia. La conversazione si estende ai guerrieri feriti, Odìsseo, Diomede e
Agamemnon, nel corso della quale quest’ultimo propone ancora una volta la fuga,
con la ferma reazione di Odìsseo. Agamemnon si ricrede, anche perché
incoraggiato dal dio Posidone, che ha assunto le sembianze di un vecchio,
duramente critico nei confronti di Achille. A questo punto, la dea Hera escogita di
ingannare Zeus, che si trova sul monte Ida, con la seduzione. E così, profumata e
agghindata di tutto punto, si reca da Afrodite, e le chiede di prestarle la fascia della
seduzione: ha da compiere una missione di riconciliazione fra una coppia divina, da
tempo divisa e che abita ai confini del mondo. In realtà Hera vuole sedurre Zeus,
suo coniuge e fratello, al fine di distrarlo dal suo proposito avverso agli Achei.
Ottenuto lo scopo da Afrodite, si reca dal Sonno, per chiedergli di andare con lei e
di addormentare Zeus. Il dio, pur riluttante e dietro la promessa di un allettante
compenso, acconsente e parte sul cocchio con la dea. Segue la scena di seduzione,
in seguito alla quale Zeus, cascato nel tranello, si addormenta. Il Sonno allora va ad
avvertire Posidone, il quale incita gli Achei alla riscossa. Subito l’esito della battaglia
si ribalta e ne segue una rotta dei Troiani, nella quale Ettore viene ferito da Aiante
Telamonio con un macigno. I compagni lo mettono in salvo sul carro, e lui rinviene
a stento, ma non può riprendere a combattere.

Né il grido sfuggì a Nestore, nonostante stesse bevendo,


ma all’Asclepìade figlio alate parole diceva:
“Pensa, Macàon splendido, come andrà: sempre più forte
presso le navi è il grido dei giovani fiorenti.
Ma adesso bevi, stando seduto, il vino fulgente,
sino a che il caldo lavacro Ecamède belle trecce
ti riscaldi e ti lavi la ferita sanguinante;
io nel frattempo andrò subito a informarmi alla vedetta”.

266
Disse così, e il solido scudo afferrò di suo figlio,
in tenda, Trasimède domatore di cavalli,
luccicante di bronzo; quello aveva lo scudo del padre;
l’asta robusta afferrò, appuntita di bronzo acuto,
e, uscito dalla tenda, assistette a evento indegno:
alla fuga costretti i primi, e i secondi a incalzarli,
i Troiani superbi; e la muraglia era abbattuta.
Come l’immenso mare si rigonfia d’onde mute,
il corso procelloso dei venti sonori spiando,
né di marosi rotola da una parte né dall’altra,
prima che giunga da Zeus qualche soffio decisivo;
così ondeggiava il vecchio, diviso in due parti nel cuore:
se nella schiera entrare dei Dànai veloci puledri,
o dall’Atride Agamemnon, pastore di popoli, andare.
E, riflettendo, gli parve meglio fare così:
andare dall’Atride. L’un l’altro si ammazzavano
nella contesa; sul corpo il duro bronzo risuonava
dei percossi da spade e da lance a doppia punta.
Si imbatterono in Nestore, il re nutrito da Zeus,
che risalivano lungo le navi, colpiti dal bronzo,
il Tidìde, Odìsseo e Agamemnon figlio di Àtreo.
Stavano in secco le navi, ben lungi dallo scontro,
sulla rive del mare canuto; ma le prime in pianura
tratte le avevano, e alzato il muro davanti alle poppe.
Non poteva, per quanto fosse vasto, il litorale
tutte le navi ospitare; le truppe stavano strette;
perciò su molte file le avevano tratte, e riempivano
del litorale la bocca, fra i due promontori racchiusa.
Venivano a osservare in gruppo la mischia e il conflitto,
stando appoggiati alle lance, e il loro cuore dentro al petto
si addolorava. E il vecchio sulla strada li incontrò,
Nestore, e afflisse il cuore nel petto degli Achei.
E, rivolgendosi a lui, così disse il possente Agamemnon:
“Nestore figlio di Nèleo, grande vanto degli Achei,

267
perché lasciando la guerra ammazzauomini qui giungi?
Temo che a me la parola mantenga Ettore violento,
quando, parlando in mezzo ai Troiani, minacciava
che dalle navi non sarebbe ad Ilio tornato,
prima di avere le navi incendiate e anche noi ammazzati.
Dunque così lui diceva, e adesso tutto si compie.
Ahimè, davvero anche gli Achei dalle belle gambiere
nutrono in cuore rancore per me, similmente che Achille,
né intendono combattere nei pressi delle navi”.
Nestore di rimando, cavaliere Gerenio, gli disse:
“Tutto questo è oramai accaduto, né altrimenti
Zeus in persona che tuona dall’alto potrebbe alterarlo.
Ecco, il muro è precipitato, in cui fidammo
che fosse indistruttibile per le navi e difesa a noi stessi;
presso le navi veloci essi affrontano scontro accanito,
senza mai sosta; anche ben osservando, non si capisce
da quale parte travolti gli Achei siano scompigliati,
tanto frammista è la strage, e il grido giunge al cielo.
Adesso riflettiamo come tutto andrà a finire,
sempre che aiuti in qualcosa la mente; ma io non consiglio
di entrare nella mischia; chi è ferito non combatte”.
E così gli rispose il sovrano di eroi Agamemnon:
“Nestore, presso le poppe delle navi ormai combattono,
né ci ha difeso il muro edificato né il fossato,
per cui penarono tanto i Dànai, sperando in cuore
che fosse indistruttibile per le navi e difesa a se stessi.
Certo così deve essere caro a Zeus potentissimo,
che senza gloria muoiano lungi da Argo gli Achei.
Io ben sapevo quando soccorreva i Dànai benevolo,
e lo so adesso, quando come fossero dèi beati
onora quelli e il nostro vigore ha legato e le mani.
Forza, a quello che dico ubbidiamo tutti quanti.
Le navi, quante prime sono a secco accanto al mare,
tiriamole, spingiamole tutte nel mare divino,

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e ormeggiamole in alto mare, sino a che giunga
notte immortale, se pure si asterranno dal conflitto
i Troiani; più tardi le spingeremo tutte in mare.
Onta non c’è nel sottrarsi, anche di notte, alla rovina:
meglio fuggendo scampare al disastro che essere preso”.
E, di sbieco guardandolo, gli disse il molto astuto Odìsseo:
“Quale parola, Atride, ti sfuggì dal recinto dei denti!
Rovinosa! Dovevi ad altra armata indegna
dare i tuoi ordini, non impartirne a noi, cui diede
Zeus dalla giovinezza alla vecchiaia da dipanare
guerre angosciose, sino a morirne ciascuno di noi.
Dunque a tal punto sei preparato ad abbandonare
Troia ampie strade, che tanto amaramente ci fa piangere?
Taci, che questo discorso non lo ascolti un altro Acheo,
tale che mai dovrebbe fare uscire dalla bocca
uomo capace di pensare cose giuste nel cuore,
e di tenere uno scettro, cui gli uomini obbediscano,
tutti quelli sui quali tu eserciti il comando!
Adesso biasimo il tuo discorso, per quanto hai detto,
tu che consigli, quando sono in atto lo scontro e la mischia,
di trarre in mare le navi buoni scalmi, perché meglio
il loro scopo raggiungano i Troiani, già vincenti,
e noi raggiunga l’abisso di morte; perché gli Achei
non sosterranno lo scontro, se si traggono in mare le navi,
ma guarderanno intorno, si asterranno dalla lotta.
E allora il tuo consiglio, capo di eserciti, ci annienterà”.
E così gli rispose il sovrano di eroi Agamamnon:
“Odìsseo, come il cuore mi hai toccato col rimprovero
duro! Ma io non spingo i figli degli Achei
le navi buoni scalmi a trarre in mare, se non vogliono.
Ora ci sia qualcuno che dia un consiglio migliore di questo,
giovane o vecchio che sia; mi riuscirà gradito”.
E parlò loro Diomede, possente nel grido di guerra:
“L’uomo è vicino, a lungo non cercheremo; se volete

269
prestarmi ascolto e non nutrite per me rancore,
per il fatto che sono il più giovane di età in mezzo a voi.
Anch’io mi vanto di essere di nobile stirpe di padre,
figlio di Tìdeo, che un tumulo di terra copre a Tebe.
A Pòrteo pervennero tre figli irreprensibili,
che a Pleurone abitavano e nella ricca Calidone,
Agrio e Melas, e il terzo era Èneo cavaliere,
il padre di mio padre, che in virtù li superava.
Quello restava là, ma mio padre venne ad Argo,
dopo aver molto vagato, come Zeus volle e gli altri dèi.
Con una figlia di Adrasto si sposò, e abitò in una casa
opulenta di fasto, e possedeva molte terre
fertili di frumento, con intorno molti frutteti,
e c’era molto bestiame. Ed eccelleva su tutti gli Achei
nell’asta, e forse l’avete sentito, se è proprio vero.
Dunque non ritenendomi di stirpe vile e imbelle,
non disprezzate il mio consiglio, se è ben detto.
Ritorniamo a combattere, pur feriti, è inevitabile,
ma entrati là, dobbiamo guardarci nella mischia
dai colpi, che ferita a ferita non si aggiunga;
e incitiamo gli altri ad entrare, che già da prima,
per confortare il cuore, si astengono, non combattono”.
Disse così; e quelli lo ascoltarono e gli diedero retta.
Si mossero, e Agamemnon, sovrano di eroi, li guidava.
Né faceva il possente Scuotiterra cieca vedetta,
ma in mezzo a loro andò somigliando a un uomo vecchio;
prese la mano destra di Agamamnon figlio di Àtreo,
e rivolgendosi a lui, alate parole diceva:
“Figlio di Àtreo, adesso il cuore funesto di Achille
gode nel petto, la strage e la fuga degli Achei
guardando: non c’è in lui comprendonio, neanche un poco.
Ma se ne vada alla malora, un dio lo stroppi.
Non sono ancora sdegnati con te gli dèi beati,
ma ancora i capi e i comandanti dei Troiani

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la vasta piana di polvere riempiranno: tu fuggire
sino in città li vedrai dalle navi e dalle tende”.
Disse, ed emise un grido, slanciandosi per la pianura.
Quanto gridano uomini, novemila o diecimila,
se in contesa di guerra ingaggiano zuffa di Ares,
tanta il possente Scuotiterra voce dal petto
fuori gettò, e a ciascuno degli Achei grande forza nel cuore
infuse, di combattere e di lottare senza sosta.
Lo vide Hera trono d’oro coi suoi occhi,
guardando dalla vetta dell’Olimpo, e riconobbe
all’istante il fratello e cognato che si affaccendava
nella mischia che esalta i forti, e gioiva nel cuore.
Ma vide Zeus che stava seduto sulla cima più alta
dell’Ida molte sorgenti, e le parve odioso al suo cuore.
Subito dopo ondeggiò, sovrana grandi occhi, Hera,
come ingannare la mente di Zeus che porta l’ègida;
e questo nel suo cuore le parve il partito migliore:
sopra l’Ida andare, dopo essersi bene agghindata,
se lui bramasse sdraiarsi accanto per fare l’amore
con il suo corpo, e il sonno soave e privo di angosce
sulle palpebre gli versasse e sull’animo accorto.
Andò nel talamo, edificato da Efesto, suo figlio,
che solidi battenti agli stipiti aveva adattato,
con segreto chiavistello, che altro dio non apriva.
E dopo essere giunta, rinserrò le porte splendenti:
prima deterse dal corpo adorabile con l’ambrosia
ogni bruttura, lo cosparse di olio abbondante,
immortale soave, da lei stesso profumato.
Quando lo agita in casa di Zeus dalla soglia di bronzo,
il profumo si spande per la terra e per il cielo.
Unse con esso il bel corpo e i capelli, e con le mani
intrecciatili, i riccioli pettinò che risplendevano,
belli ambrosii, che cadevano dal capo immortale.
Quindi indossò una veste ambrosia, che a lei Atena

271
intessuta aveva, ponendovi molti ricami;
e con fermagli d’oro sopra il petto la agganciava.
E poi si cinse di una cintura con cento frange;
quindi applicò orecchini nei lobi ben forati,
con tre perle, tre more; risplendeva immenso fascino.
Velo si pose in testa la splendida fra le dee,
incantevole, nuovo, rifulgeva come il sole.
Poi sandali eleganti si legò ai piedi ben fatti.
E dopo essersi messa sul corpo ogni ornamento,
uscì dalla sua stanza, e, chiamata a sé Afrodite
in disparte dagli altri dèi, così le disse:
“Mi darai retta, cara creatura, per quanto ti dico,
o ti rifiuterai, sdegnata nel tuo cuore,
perché soccorro i Dànai, e invece tu i Troiani?”.
E così le rispose la figlia di Zeus Afrodite:
“Hera, dea pregiatissima, del grande Crono progenie,
dimmelo quello che pensi, il mio cuore mi spinge a compierlo,
se posso compierlo e se è consentito che si compia”.
E a lei, tramando inganno, rispose Hera sovrana:
“Dammi l’amore e la brama. Con essa tutti quanti
hai in tuo dominio, immortali e uomini mortali.
Vado a vedere i confini della terra molto fertile,
Oceano, scaturigine degli dèi, e la madre Tethýs,
che mi nutrirono nella loro casa e mi allevarono,
prèsami dalle mani di Rea, quando Zeus ampia voce
spinse Crono sotto la terra e il mare infecondo.
Vado a trovarli e a risolvere una lite senza fine.
Già è da gran tempo che si astengono l’uno dall’altro,
dal letto e dall’amore, perché in cuore è entrata la collera.
Se con parole il loro cuore riuscissi a convincere
e se li riportassi a congiungersi nel letto,
sempre sarei da loro chiamata amica e rispettabile”.
E così le rispose Afrodite che ama il sorriso:
“Non posso, non mi spetta di oppormi al tuo discorso,

272
perché tu dormi fra le baccia del massimo, Zeus”.
Disse, e disciolse dal petto la fascia ricamata,
variopinta, dov’erano tutti quanti gli incantesimi,
là dov c’erano amore e brama e appuntamenti,
e persuasione, che ruba la mente anche dei saggi.
E gliela mise in mano, e così parlò, così disse:
“Eccoti, questa fascia tu mettitela al seno,
variopinta: là dentro c’è tutto; ed io non credo
che tornerai senza nulla aver fatto di quanto desideri”.
Disse così, e sorrise, sovrana grandi occhi, Hera,
e sorridendo si mise la fascia intorno al seno.
Poi se ne tornò a casa la figlia di Zeus, Afrodite;
Hera lasciò, lanciandosi, la vetta dell’Olimpo;
passando sulla Pièria e l’amabile Emazia, sui monti
piombò nevosi dei Traci che allevano cavalli,
vette sublimi, dove non toccava la terra coi piedi.
Dal monte Atos poi discese al mare ondoso,
e giungeva a Lemno, città di Toante divino;
là si incontrò con il Sonno, fratello della morte;
lo prese per la mano, gli rivolse parola, gli disse:
“Sonno, sovrano di tutti gli dèi e di tutti gli uomini,
già in precedenza ascoltasti la mia parola, ed anche adesso
su dammi retta, ed io per sempre ti sarò grata.
Gli occhi di Zeus splendenti addormenta sotto le ciglia,
subito, non appena mi sarò congiunta con lui.
Seggio bellissimo in dono ti darò, che non si distrugge,
d’oro; mio figlio storpio Efesto a regola d’arte
lo costruirà, con sotto uno sgabello per i piedi,
dove durante il banchetto appoggerai i piedi ben fatti”.
E, di rimando, così gli rispose il sonno profondo:
“Hera, dea pregiatissima, del grande Crono progenie,
io senza dubbio un altro degli dèi che vivono sempre
agevolmente addormenterei, pure le correnti
del fiume Oceano, che è scaturigine di tutti;

273
ma non mi accosterei a Zeus figlio di Crono,
né lo addormenterei, se lui non me lo chiede.
Già nel passato mi ha punzecchiato la tua ingiunzione,
il dì che proprio lui, il figlio di Zeus orgoglioso
salpò da Ilio, dopo aver distrutto la città dei Troiani.
Addormentai la mente di Zeus che porta l’ègida,
diffusomi in profondo; ma tu avevi teso trame,
soffi di venti avversi sul mare suscitandogli,
e a Cos ben abitata subito dopo lo portasti,
lungi da tutti i cari; e al risveglio Zeus si infuriava,
se la prendeva con tutti gli dèi, ma soprattutto
cercava me; e dal cielo mi gettava in fondo al mare,
se la Notte che doma dèi e uomini non mi salvava.
Mi rifugiai da lei, e Zeus si fermò, pur sdegnato:
ebbe ritegno di fare un torto alla rapida Notte.
Ora mi imponi quest’altro compito, anch’esso impossibile”.
E così gli rispose, sovrana grandi occhi, Hera:
“Sonno, perché nell’animo di questo ti preoccupi?
Credi che aiuterà i Troiani Zeus voce possente,
come per Eracle si incollerì che era suo figlio?
Ma suvvia, ti darò delle Càriti giovincelle
una che sia tua sposa, o che così venga chiamata,
Pasìtea, per la quale sospiri ogni dì senza sosta”.
Disse, e il Sonno si rallegrò e così le rispose:
“Giuralo adesso, sull’acqua inviolabile di Stige,
con una mano toccando la terra nutrice di molti,
e con l’altra il mare luccicante, così che tutti
gli dèi di sotto che assistono Crono ci siano testimoni,
che mi darai davvero delle Càriti giovincelle
una, Pasìtea, per la quale ogni giorno vaneggio.”
Disse, e gli diede ascolto la dea braccia candide Hera,
e, come chiesto, giurava, e nominò tutti gli dèi
che stanno giù nel Tartaro e che si chiamano Titani.
E dopo ch’ebbe giurato e terminato il giuramento,

274
partirono, lasciando le città di Lemno e di Imbro,
ravvolti nella nebbia e compiendo veloce il cammino.
Giunsero all’Ida molte sorgenti, madre di belve,
e a Lecto, ove lasciarono il mare e sull’asciutto
mossero, e in cima la selva sotto i piedi palpitava.
Là il Sonno si fermò, prima che lo vedessero gli occhi
di Zeus, e su un abete sublime salito, il più alto,
che sopra l’Ida per l’aria giungeva sino al cielo,
quivi sedette, ricoperto di rami di abete,
somigliando all’uccello canoro, che sui monti
càlcide gli dèi chiamano e gli uomini ciminde.
Rapidamente Hera raggiunse la cima del Gàrgaro
sull’Ida eccelso, e la vide Zeus che aduna le nubi.
Come la vide, la brama ravvolse il suo cuore compatto,
come quando la prima volta in amore si unirono
e se ne andarono a letto, di nascosto ai genitori.
E le si pose accanto, le rivole parola, le disse:
“Hera, di che bisognosa te ne giungi qui dall’Olimpo?
Non hai cavalli, non hai carri, su cui salire”.
E a lui, tramando inganno, rispose Hera sovrana:
“Vado a vedere i confini della terra molto fertile,
Oceano, scaturigine degli dèi, e la madre Tethýs,
che mi nutrirono nella loro casa e mi allevarono.
Vado a trovarli e a risolvere una lite senza fine.
Già è da gran tempo che si astengono l’uno dall’altro,
dal letto e dall’amore, perché in cuore è entrata la collera.
Proprio alle falde dell’Ida molte sorgenti se ne stanno
i miei cavalli, che mi porteranno per terra e per mare.
Ora a motivo di te sono giunta dall’Olimpo,
perché non te la prenda poi con me, se senza dirtelo,
me ne vado alla casa di Oceano flusso profondo”.
E, di rimando, rispose Zeus che aduna le nubi:
“ Anche più tardi, Hera, puoi dirigerti laggiù;
ora noi due mettiamoci a letto e facciamo l’amore.

275
Mai il desiderio di una dea o di una donna,
dentro al mio petto inondandomi il cuore, mi ha domato.
Neppure quando una volta amai la consorte di Issìone,
che partorì Pirìtoo, sapiente pari a un dio;
neppure quando Dànae belle caviglie, figlia di Acrisio,
che Pèrseo partorì, il più eccellente fra gli uomini;
neppure quando la figlia di Fenice, ben noto da lungi,
che partorì Minosse e Radamanti pari a un dio;
neppure quando Sèmele amai né Alcmène a Tebe,
che mise al mondo il figlio Eracle, mente eccelsa;
Sèmele mise Dionìso al mondo, gioia dei mortali;
ma neppure Demètra belle trecce, dea sovrana;
o quando amai Letò gloriosa, ma nappure te stessa,
come ti amo adesso, e mi assale la brama dolcissima”.
E a lui, tramando inganno, rispose Hera sovrana:
“Figlio di Crono tremendissimo, che mai dicesti!
Se veramente desideri unirti a me in amore e nel letto
dell’Ida sulle vette, tutto quanto sarà manifesto;
che sarà mai se alcuno degli dèi che vivono sempre
ci vedesse dormire, e recandosi da tutti gli dèi,
lo riferisse? Mai più tornerei a casa tua,
alzatami dal letto: ciò sarebbe assai disdicevole.
Ma se lo vuoi, se è proprio questo che ti sta a cuore,
c’è il talamo nuziale, che ti ha fatto Efesto, tuo figlio,
che solidi battenti agli stipiti ha adattato.
E perciò andiamo là, se è il letto che ti piace”.
E, di rimando, le disse Zeus che aduna le nubi:
“Hera, non devi temere che né un dio né un uomo possa
scorgerci, tale nube tutto intorno avvolgerò
d’oro; neppure il Sole sarà in grado di vederci,
di cui la luce è la più penetrante che ci sia.”
Disse, e il Cronìde prese fra le braccia la sua consorte,
e fece crescere sotto di loro la terra divina
erba novella, loto rugiadoso, croco, giacinto

276
soffice folto, che dal suolo li separava.
Quivi si stesero, e della nube si ammantarono
d’oro, bellissima, splendide stillavano rugiade.
E così il padre, tranquillo, sul Gàrgaro dormiva,
dal sonno e dall’amore domato: abbracciava sua moglie.
Andò di corsa alle navi degli Achei il Sonno profondo,
a riferire la nuova a Gaiàoco Scuotiterra,
e, standogli vicino, alate parole diceva:
“Ora di cuore, o Posidone, soccorri i Dànai,
per dare loro gloria, anche per poco, sino a che dorma
Zeus, dal momento che in molle sopore l’ho ravvolto:
Hera lo ha indotto con l’inganno a fare l’amore”.
Disse così, e se ne andò per le schiere famose degli uomini,
e incitò il dio ancora di più a soccorrere i Dànai.
Subito in prima fila Posidone balzò, incoraggiandoli:
“Argivi, ancora ad Ettore lasceremo la vittoria,
figlio di Priamo, che prenda la navi e ottenga gloria?
Così lui dice, così si vanta, perché Achille
presso le concave navi rimane, adirato nel cuore;
non ci sarà però per lui eccessivo rimpianto,
se noialtri ci esorteremo al soccorso reciproco.
Forza, a quello che dico ubbidiamo tutti quanti:
degli scudi migliori e più grandi rivestendoci,
e ricoprendoci la testa con gli elmi abbaglianti,
e afferrando con le mani le lance più lunghe,
procediamo; io stesso vi farò da guida, e vi dico:
Ettore figlio di Priamo non reggerà, per quanto furente.
Ogni guerriero che valga, ma con in spalla un piccolo scudo,
a un guerriero peggiore lo passi, e lo prenda più grande”.
Disse così, e gli diedero ascolto e gli ubbidirono.
E i re in persona schierarono le truppe, per quanto feriti,
il Tidìde, Odìsseo e Agamemnon figlio di Àtreo;
e in mezzo a tutti, si scambiavano le armi di Ares:
buono le buone vestiva, le peggiori ai peggiori le davano.

277
Com’ebbero sul corpo il lucido bronzo vestito,
si mossero, e li guidava Posidone Scuotiterra,
con nella mano robusta una spada tremenda affilata,
simile a folgore: non è consentito scontrarsi con lui
nella battaglia sinistra, blocca gli uomini il terrore.
Ettore splendido dall’altra parte schierava i Troiani.
Terribilissima lotta di guerra suscitarono
Posidone chioma azzurra e lo splendido Ettore,
soccorrendo l’uno i Troiani e l’altro gli Achei.
Si gonfiò il mare verso le tende e verso le navi
degli Argivi, con urlo immenso si scontrarono.
Né tanto l’onda del mare contro il lido rumoreggia,
sconvolta da ogni parte dal soffio potente di Bòrea,
né tanto grande è il fremito del fuoco fiammeggiante
dentro a montane gole, quando incendia la foresta;
né tanto il vento fra le querce eccelse chiome
sibila, che in misura grandissima freme infuriando,
quanto era grande il grido dei Troiani e degli Achei,
che urlavano tremendo, quando l’uno con l’altro cozzarono.
Primo lo splendido Ettore scagliò l’asta contro Aiante,
che si era volto dritto contro di lui, né lo mancò,
là dove si tendevano le due cinghie sopra il petto,
sia dello scudo che della spada con borchie d’argento,
che gli protessero la tenera pelle; si irritò Ettore
che senza effetto l’asta veloce gli uscisse di mano,
e indietreggiò nel gruppo dei compagni, schivando la morte.
Mentre arretrava, il grande Aiante Telamonio
prese un pietrone, fra quanti, puntelli alle celeri navi,
dei combattenti fra i piedi rotolavano, e, sollevatolo,
lo colpì al petto, sull’orlo dello scudo, vicino alla gola,
lo roteò come trottola, prese a girare da ogni parte.
Come una quercia precipita sotto i colpi del padre Zeus
dalle radici, e terribile si spande odore di zolfo,
e chi la guarda da vicino non ha più il coraggio,

278
tanto la folgore del grande Zeus è rovinosa;
tale il vigore di Ettore cadde a terra nella polvere;
l’asta gli cadde di mano, ma lo scudo e l’elmo rimasero
allacciati, intorno le armi adorne di bronzo suonarono.
Molto gridando i figli degli Achei gli si avventarono:
di trascinarlo speravano, con lance fitte bersagliandolo,
ma nessuno riuscì a colpire il pastore di popoli,
né da lungi né da presso, sino a che i migliori
giunsero: Polidamante, Enea e lo splendido Agènore,
e Sarpèdone, capo dei Lici, e Glauco perfetto.
Anche degli altri nessuno lo trascurò, ma a lui dinanzi
scudi rotondi protesero, e i compagni, sollevandolo
a braccia, fuori dallo scontro lo estrassero, sinché giunse ai cavalli
rapidi, che a ridosso dello scontro e del conflitto,
stavano assieme all’auriga e al carro variopinto;
e lo portarono che cupo gemeva sino in città.
E come giunse al guado del fiume dal bel flusso,
il vorticoso Xanto, che generò Zeus immortale,
dal carro lo deposero sul suolo, e gli versarono
acqua: riprese fiato, riaprì gli occhi per guardare;
stando seduto sulle ginocchia, vomitò nero sangue;
subito cadde all’indietro per terra, e a lui nera notte
gli occhi ravvolse; il colpo ancora il cuore gli straziava.
Gli Argivi, come videro che Ettore si allontanava,
sui Troiani con più forza balzarono, bramosi di scontro.
Quivi primissimo Aiante veloce, il figlio di Oilèo,
Satnio colpì, balzando su di lui con l’asta di faggio;
naiade ninfa perfetta lo partorì per Ènope,
che pascolava il gregge sulle rive del Satnioenta.
Giuntogli accanto il figlio di Oilèo famoso con l’asta,
lo colpì al fianco; lui cadde all’indietro, e attorno a lui
ingaggiarono Troiani e Dànai una mischia furente.
Polidamante di Pàntoo, che agita l’asta, gli venne
in soccorso, e colpì di Protoènore di Arèilico

279
la spalla destra, che fu trapassata dall’asta pesante;
precipitò nella polvere, stringendo la terra col pugno.
E si vantò con iattanza Polidamante, e disse gridando:
“Non credo che del figlio magnanimo di Pàntoo
dalla mano pesante sia partito un dardo a vuoto,
ma un Argivo se lo porta in corpo, e penso proprio
che appoggiandosi ad esso scenderà nella casa di Ade”.
Disse, e gli Argivi si afflissero per lui che si vantava,
e soprattutto del nobile Aiante ciò scosse il cuore,
del Telamonio: accanto Protoènore gli era caduto.
Subito a lui che si ritirava scagliò l’asta splendente.
Polidamante però evitò il destino di morte,
con uno scarto di lato, ma raggiunse il figlio di Antènore,
Archèloco: gli dèi gli decretarono la morte.
Nel punto fu colpito che collega la testa col collo,
l’estrema vertebra, e gli recise entrambi i tendini.
Di lui che cadde la testa, la bocca e il naso assai prima
a terra caddero di quanto le gambe e le ginocchia.
Aias allora gridò a Polidamante senza macchia:
“Polidamante, rifletti e dimmelo infallibile:
morto è quest’uomo al posto di Protoènore, ne è degno?
Certo non sembra dappoco né è nato da gente dappoco,
ma è fratello di Antènore, domatore di cavalli,
oppure è figlio; perché gli somiglia davvero parecchio”.
Disse riconoscendolo, e dolore colse i Troiani.
Colpì con l’asta Acàmas, in soccorso del fratello,
il beòta Pròmaco; lo trascinava per i piedi.
E con iattanza Acàmas menò vanto, e disse gridando:
“Argivi chiacchieroni, mai satolli di minacce,
non solamente a noi toccherà fatica e pianto,
ma prima o poi sarete anche voi in pari modo ammazzati.
Considerate attentamente come dorme Pròmaco,
dall’asta mia domato, perché non resti troppo a lungo
per mio fratello l’ammenda non pagata; ed è ciò che si prega:

280
che resti in casa un parente che sia vindice del male”.
Disse, e gli Argivi si afflissero per lui che si vantava,
e soprattutto del nobile Penèleo ciò scosse il cuore;
e su Acàmas si avventò, che non resse all’assalto
del sovrano Penèleo; e quello colpì Ilionèo,
il figlio di Forbante molte greggi, che moltissimo
Ermès amava fra i Troiani e gli diede ricchezza.
Unico figlio la madre gli diede, cioè lui, Ilionèo.
Lo colpiva alla base dell’occhio, sotto il ciglio;
gli sfranse la pupilla, e l’asta trapassò
l’occhio e la nuca: si accovacciò stendendo le braccia.
E Penèleo, sfoderando la spada acuta,
la spinse in mezzo al collo, e fece cadere per terra
la testa assieme all’elmo; ancora la lancia pesante
stava nell’occhio, e quello, protesala come un papavero,
si rivolse ai Troiani vantandosi, e così disse:
“Dite per me, o Troiani, del nobile Ilionèo
al caro padre e alla madre di piangerlo per casa;
neanche la moglie di Pròmaco, il figlio di Alegènor,
del ritorno del caro marito godrà, quando noi
Achei da Troia con le navi torneremo”.
Disse così, e un tremore prese tutti per le membra,
e ciascuno badava a sfuggire all’abisso di morte.
Ditemi adesso, Muse che abitate le sedi di Olimpo,
chi primo fra gli Achei portò via le spoglie cruente,
dopo che della battaglia mutò l’esito lo Scuotiterra.
Primo fu Aiante Telamonio a colpire Irtio,
figlio di Girtio, capo dei Misii magnanimi,
e poi Antìloco uccise Falce e uccise Mèrmero,
e Merìone uccise Mori e Ippotione,
Teucro poi uccise Protoòne e Perifète,
e l’Atride uccise Iperènor, pastore di popoli;
al fianco lo colpì, e il bronzo raggiunse le viscere,
devastandole; l’anima per la ferita aperta

281
fuori di botto sprizzò, la tenebra gli occhi gli avvolse.
Aias ne uccise moltissimi, il celere figlio di Oilèo:
pari non c’era nessuno a incalzare con i piedi
gli uomini in fuga, quando Zeus li spinse al panico.

282
LIBRO XV

Il contrattacco alle navi.

Ma Zeus si ridesta dal sonno, e dalla cima del monte si rende conto di ciò che sta
accadendo: tra l’altro, anche Ettore è stato ferito. Il dio allora investe di insulti e di
terribili minacce Hera che lo ha raggirato, ma la dea giura che Posidone ha agito di
testa sua. Zeus, soddisfatto e riappacificato, le ordina di andare in Olimpo e di
mandargli Iris e Apollo. I quali, giunti da Zeus sull’Ida, ricevono due incarichi: Iris
andrà da Posidone e gli impartirà l’ordine di ritirarsi dal conflitto; Apollo rimetterà
in sesto Ettore e gli infonderà ardore guerriero, dato che è giunto il momento di
incendiare le navi. A missione compiuta, Ettore riprende a combattere più motivato
di prima, sino a che Apollo, brandendo la sacra ègida, guida i Troiani a smantellare
il muro e a dirigersi verso le navi, tirate a secco sul litorale. Nel disordine generale,
solo Aiante Telamonio tenta l’ultima difesa delle stesse. La nave di Protesilào è
attaccata dal fuoco, gettato da Ettore. Patroclo, sempre nella tenda di Eurìpilo
ferito, assiste alla scena e corre verso le navi di Achille per informarlo della disfatta.

E com’ebbero oltrepassato i pali e la fossa,


tutti fuggendo, e molti ne avevano i Dànai ammazzati,
si arrestarono, come in attesa, accanto ai carri,
in preda al panico, verdi di terrore. E Zeus si destò
sopra la vetta dell’Ida, accanto ad Hera trono d’oro;
e ritto balzò in piedi, e vide Troiani ed Achei,
i primi che arretravano, e i secondi che dietro incalzavano,
cioè gli Argivi, e in mezzo a loro Posidone sovrano.
E vide Ettore giacere nella piana, e intorno i compagni,
e lui che respirava con affanno e privo di sensi,
sputando sangue, dal non più fiacco degli Achei colpito.
Vistolo, lo compianse il padre di uomini e dèi,
e in modo orrendo e di sbieco guardandola, disse ad Hera:
“Davvero perfido, Hera ostinata, il tuo raggiro:
Ettore splendido ha escluso dallo scontro, li ha gettati nel panico.
Non so se questo spiacevole marchingegno non sarai

283
per prima tu a pagarlo, oltre a prenderti delle frustate.
Non ti ricordi quando stavi appesa dall’alto, e due incudini
ti feci scendere ai piedi, e una catena infrangibile
aurea ti misi intorno alle mani; tu per aria
restavi appesa; e fremevano gli dèi per il vasto Olimpo,
ma da vicino scioglierti non potevano: chi coglievo,
lo gettavo dal varco celeste, e così giungeva
male in arnese in terra; e neppure il mio cuore lasciava
il dolore straziante per Eracle divino,
sì proprio lui, che, convinte le tempeste col vento Bòrea,
per il mare spedisti infecondo, con perfido intento,
e infine lo portasti sino a Cos ben abitata.
Ma io lo trassi in salvo e indietro lo portai,
pur dopo molte prove, ad Argo che nutre cavalli.
Io ti rammento ciò, perché tu smetta di ingannare,
e veda bene che non ti giovano amore e letto,
come in disparte dagli dèi ingannandomi hai fatto”.
Disse, e rabbrividì, sovrana grandi occhi, Hera
E rivolgendosi a lui, alate parole diceva:
“Questo ora sappia la Terra e il vasto cielo di sopra,
e la scorrente acqua dello Stige, che è il più grande
e il più tremendo giuramento per gli dèi beati,
e la tua sacra testa, e il letto di ambedue,
legittimo, sul quale giammai spergiurerei;
non è per mio volere che Posidone Scuotiterra
i Troiani ed Ettore tormenta, e aiuta gli altri;
ma è soltanto il suo cuore che lo incita e lo spinge;
visti gli Achei battuti presso le navi, li ha compianti;
ma anche a lui potrei dare un mio suggerimento:
che vada dove tu, nere nubi, gli comandi”.
Disse così, e sorrise il padre di uomini e dèi,
e, di rimando, a lei alate parole diceva:
“Se fosse mai che in futuro, sovrana grandi occhi Hera,
in pieno accordo comune sedessi fra gli immortali,

284
per certo Posidone, se altra cosa pur bramasse,
subito adeguerebbe la sua mente al tuo e al mio cuore.
Ma se è conforme al vero e a franchezza quanto dici,
allora recati in mezzo alla stirpe degli dèi
e Iris convoca assieme ad Apollo arciere famoso,
perché la prima al campo degli Achei tunicati di bronzo
si rechi e riferisca a Posidone sovrano
che la smetta di guerreggiare, se ne torni a casa;
e Febo Apollo inciti Ettore allo scontro,
gli infonda ancora ardimento, e si scordi del dolore
che adesso lo tormenta nell’animo, e gli Achei
respinga indietro, incutendo in loro imbelle fuga.
Fuggendo, irromperanno sulle navi molti banchi
di Achille figlio di Pèleo, che manderà il suo compagno
Patroclo, e lo ucciderà con l’asta lo splendido Ettore,
davanti a Ilio, dopo che avrà ucciso molti giovani,
tanti, compreso il mio, lo splendido Sarpèdone.
Achille splendido irato allora Ettore ucciderà.
Da quel momento in poi io stesso un contrattacco
incessante in atto metterò, sino a quando gli Achei
Ilio scoscesa prenderanno, per i piani di Atena.
Prima non smetterò dalla collera, né mai ad altro
degli immortali consentirò che soccorra i Dànai,
prima che sia compiuto il desiderio del Pelide,
che gli promisi in passato, accennando col mio capo,
il dì che la dea Teti mi si prostrò ai ginocchi,
supplicando che Achille distruttore di rocche onorassi”.
Disse, e gli diede ascolto la dea braccia candide Hera,
e dalle cima dell’Ida si mosse verso l’Olimpo.
Come la mente guizza di un uomo, che sopra molta
terra recatosi, concepisca pensieri assennati:
“Oh fossi là, oppure fossi là”, e fa mille progetti;
tanto rapidamente volò Hera sovrana, affrettandosi.
Giunse all’Olimpo scosceso, e vi trovò dentro riuniti

285
gli dèi immortali nella casa di Zeus, ed essi al vederla
tutti balzarono in piedi, e le porsero la coppa.
Lei però lasciò gli altri, ma la accettò soltanto
da Temi bella guancia: le andò incontro per prima correndo,
e, rivolgendosi a lei, alate parole diceva:
“Hera, perché sei venuta? Mi sembri preoccupata;
certo ti ha messo paura il figlio di Crono, il tuo sposo”.
E così le rispose la dea braccia candide Hera:
“Non rammentarmi questo, dea Temi; anche tu lo sai,
quanto il cuore di lui è superbo e a stento si placa.
Ma tu da’ inizio al giusto banchetto degli dèi nella sala,
e ascolterai assieme a tutti gli immortali
quali sciagure Zeus proclama; inoltre dico
che non a tutti ugualmente piacerà in cuore, né ai mortali
né agli dèi, se ancora qualcuno banchetta con gioia”.
Detto così, si mise a sedere Hera sovrana,
e si turbarono in casa di Zeus gli dèi. E sorrise
sì con le labbra, ma non rasserenava la fronte
sui cupi sopraccigli; e parlò a tutti indispettita:
“Sciocchi, che ci opponiamo a Zeus senza criterio,
che ci industriamo a fermarlo, provando a contrastarlo
con la parola o con la forza; ma lui si apparta,
non bada, non se ne cura; e dice che fra gli immortali
è di gran lunga il più forte per possanza e per vigore.
Dunque tenetevi il male che lui manda a ciascuno di voi;
e penso che per Ares quel male si sia già compiuto,
perché gli è morto un figlio, che gli era il più caro fra gli uomini,
Ascàlafo, che Ares violento dice di essere suo”.
Disse così, e Ares si percosse le cosce fiorenti
con le mani distese, e piangendo così disse:
“Non vi irritate con me, o abitanti d’Olimpo, se vado
presso le navi achee a vendicare mio figlio,
anche se, per destino di Zeus trafitto dal fulmine,
giacessi fra i cadaveri nel sangue e nella polvere”.

286
Disse, e a Terrore e a Panico diede incarico di aggiogare
i cavalli, e lui si vestì delle armi splendenti.
E allora anche più grande e più dolorosa la rabbia
di Zeus per gli immortali sarebbe stata e la collera,
se, nel timore per tutti gli dèi, non fosse balzata
nell’atrio Atena, alzandosi dal seggio ove sedeva.
Gli strappò l’elmo dal capo e lo scudo dalle spalle,
e ripose la lancia, dalla mano robusta agguantandola,
bronzea, e con parole aggrediva Ares violento:
“Pazzo demente, sei perso; ma allora per davvero
hai orecchie per sentire, ma niente cervello e ritegno!
Non senti ciò che dice la dea braccia candide Hera,
che è giunta proprio in questo istante da Zeus Olimpio?
Oppure vuoi tu stesso, colmando molti mali,
tornartene in Olimpo, per forza e contrariato,
a seminare per tutti gli altri danni su danni?
Subito lui lascerà i superbi Troiani e gli Achei,
e sull’Olimpo verrà a gettarci nello scompiglio,
ci acciufferà uno ad uno, colpevoli e innocenti.
Basta perciò con la collera per tuo figlio, dammi retta.
Già chi per forza e per mani è migliore di tuo figlio
o è stato ucciso o in seguito lo sarà: è davvero arduo
di tutti gli uomini salvare la stirpe o la progenie”.
Disse così, e sul trono fece sedere Ares violento;
ed Hera chiamò Apollo che uscisse dalla sala
assieme a Iris, la messaggera degli immortali,
e rivolgendosi a loro, alate parole diceva:
“Zeus vi ordina di andare ambedue al più presto sull’Ida,
e non appena sarete arrivati al cospetto di Zeus,
lui vi darà istruzioni su quanto c’è da fare”.
Dopo aver detto così, di nuovo sul trono sedette
Hera sovrana; e quei due si slanciarono volando;
giunsero all’Ida molte sorgenti, madre di belve,
e il Cronìde trovarono ampia voce sulla cima del Gàrgaro,

287
seduto, nuvola profumata lo incoronava.
Giunti dunque al cospetto di Zeus che aduna le nubi,
stettero; né vedendoli entrambi si sdegnò in cuore:
subito avevano ai detti della cara sposa ubbidito.
Dunque per prima a Iris alate parole diceva:
“Va’, Iris rapida, a dire a Posidone sovrano
tutto preciso, non essere infedele messaggera.
Imponigli di smettere dallo scontro e dalla guerra,
e di tornare in mezzo agli dèi o nel mare divino.
E se non ubbidirà, non si atterrà al mio comando,
bene rifletta nel suo animo e nel suo cuore:
per quanto sia possente, non può sostenere il mio assalto,
dato che affermo di essere di molto più forte di lui,
nonché più anziano di nascita; ma in cuore non ha scrupolo
a dirsi pari a me, mentre gli altri se ne guardano”.
Disse, e ubbidì la rapida Iris dai piedi di vento,
e scese dalle vette dell’Ida a Ilio sacra.
E come quando vola giù dalle nubi la neve o la grandine,
gelida sotto il soffio di Bòrea progenie dell’etere,
tale Iris rapida in fretta il volo spiccò celermente,
e, accostatasi, disse al glorioso Scuotiterra:
“Questo messaggio ti porto, Gaiàoco chioma azzurra,
recandolo da parte di Zeus che porta l’ègida:
di smetterla ti impone dallo scontro e dalla guerra,
e di tornare in mezzo agli dèi o nel mare divino.
E se non ubbidirai, non ti atterrai al suo comando,
minaccia di venire lui stesso ad affrontarti
a viso aperto, e ti invita a sottrarti alle sue mani,
dato che afferma di essere di molto più forte di te,
nonché più anziano di nascita; ma in cuore non hai scrupolo
a dirti pari a lui, mentre gli altri se ne guardano”.
Molto turbato, rispose il glorioso Scuotiterra:
“Ahimè, troppo ha parlato con superbia, pur valente,
se mi indurrà con la forza, me che ho onore pari a lui!

288
In tre siamo fratelli Cronìdi, che Rea partorì:
Zeus e poi io, e terzo Ade che regna sui morti.
Tutto in tre parti fu diviso; ciascuno ebbe in sorte
un terzo; a me toccò di abitare nel mare canuto
sempre; e ad Ade toccò la caligine nebbiosa,
e l’ampio cielo e l’etere e le nubi a Zeus toccarono;
restano a tutti comuni la terra e il vasto Olimpo.
Io non vivrò secondo la mente di Zeus, ma tranquillo,
per possente che sia, si mantenga nel suo terzo,
e non mi incuta timore con le mani, quasi io fossi un vile.
Cosa migliore sarebbe che le figlie come i figli,
che ha messo al mondo, con aspre parole rimbrottasse:
essi ascoltarlo dovranno per forza mentre dà ordini”.
E così gli rispose Iris rapida dai piedi di vento:
“Proprio così per davvero, Gaiàoco Scuotiterra,
questa risposta a Zeus porterò, implacabile dura,
o cederai? Flessibile è la mente di chi vale;
sai bene che le Erini sempre seguono gli anziani”.
E così le rispose Posidone Scuotiterra:
“Dea Iris, per davvero tutto ciò lo hai detto a proposito,
e questo è buono, che un messaggero dica cose sensate.
Ma dolore nell’animo e nel cuore mi affligge tremendo,
quando uno pari e che ha avuto in sorte uguale porzione,
lui con parole odiose lo vuole denigrare.
Per questa volta cederò, nonostante adirato,
ma ti dirò altra cosa, una minaccia che viene dal cuore:
se contro me e contro Atena predatrice,
e contro Hera ed Ermès e contro Efesto sovrano,
Ilio scoscesa risparmierà né intenderà
distruggerla, in tal modo dando grande gloria agli Argivi,
sappia che il nostro risentimento sarà irrimediabile”.
Disse, e lo Scuotiterra abbandonò l’armata achea,
e giunto al mare, si immerse, e lo rimpiansero gli eroi achei.
E si rivolse ad Apollo Zeus che aduna le nubi:

289
“Va’ adesso, Febo caro, da Ettore armato di bronzo,
dato che ormai Gaiàoco Scuotiterra nel mare divino
se n’è andato, così evitando l’impervia collera
da parte mia; questo scontro lo conobbero anche altri,
che adesso sono dèi di là sotto, intorno a Crono.
Molto più vantaggioso per me, nonché per lui,
che abbia ceduto alla mia forza, per quanto adirato,
poiché senza sudore non si sarebbe conclusa.
Ma adesso afferra l’ègida sfrangiata nelle mani,
e scuotendola getta il panico fra gli eroi achei,
e dello splendido Ettore, Arciere, prenditi cura,
grande vigore infondi in lui, sino a che gli Achei
fino alle navi giungano fuggendo e all’Ellesponto.
Da quel momento io stesso penserò fatto e parola,
perché respiro traggano di nuovo gli Achei dalle pene”.
Disse così, né disobbedì Apollo a suo padre,
e scese dalle vette dell’Ida simile a falco,
svelto uccisore di colombe, l’uccello più rapido.
E trovò il figlio di Priamo prudente, lo splendido Ettore,
seduto, non sdraiato, che da poco respirva,
riconosceva i compagni, l’affanno e il sudore cessavano:
lo risvegliava la mente di Zeus che porta l’ègida.
E gli si pose accanto, e gli disse Apollo arciere:
“Ettore figlio di Priamo, perché stai in disparte dagli altri,
privo di forza? Quale preoccupazione ti sorprende?”
E a lui, perdendo forze, diceva Ettore elmo che splende:
“Chi sei, fortissimo dio, che mi fai questa domanda?
Non sai che presso le navi degli Achei mi colse nel petto
Aias possente nel grido di guerra con un masso,
che gli uccidevo i compagni, e mi spense l’ardente vigore?
Io mi credevo che i morti e la casa di Ade quest’oggi
avrei visto, perché esalavo l’estremo respiro.”.
E così gli rispose il sovrano Apollo arciere:
“ Fatti coraggio, tale è l’assistente che il Cronìde

290
dall’Ida ti ha mandato per proteggerti e aiutarti,
Febo Apollo spada dorata, io che da tempo
ti sto assistendo e assieme a te la tua rocca scoscesa.
Ora suvvia, comanda ai molti cavalieri
di spingere alle concave navi i veloci cavalli,
ed io davanti andando, ai cavalli spianerò
tutto il cammino, e in fuga volgerò gli eroi achei”.
Disse così, e infuse gran vigore al pastore di popoli.
Come cavallo di scuderia, nutrito alla greppia,
rotta la corda, corre scalpitando per la pianura,
abituato a lavarsi nelle belle correnti del fiume;
erge superbo la testa e la criniera sulle spalle
tutta intorno si agita, e, fiero del proprio splendore,
subito le agili gambe lo portano ai pascoli usati;
così alternava Ettore i piedi e le ginocchia,
i cavalieri incitando, udita ch’ebbe la voce del dio.
E come quando i cani e gli uomini dei campi
braccano un cervo munito di corna o una capra selvatica,
e li protegge un roccione scosceso o una selva ombrosa,
perché non era destino che li prendessero; ma appare
sulla strada alle loro grida un leone chiomato,
e li mette subito in fuga, per quanto bramosi;
in pari modo i Dànai sino ad allora compatti incalzavano,
colpendo con le spade e con le lance a doppia punta;
ma come videro Ettore che esplorava le schiere degli uomini,
si turbarono e a tutti dinanzi ai piedi cadde il cuore.
E così fra di loro parlava Toante di Andrèmone,
di gran lunga il più forte degli Etòli, esperto a tirare,
bravo nel corpo a corpo, pochi Achei lo superavano
in assemblea, quando i giovani gareggiavano a parole.
E lui, con alto senno, così parlò, così disse:
“Ahimè, grande prodigio io vedo coi miei occhi,
quale di nuovo in piedi si è alzato, evitando la morte,
Ettore! Eppure il cuore sperava di ciascuno

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che lui cadesse per mano di Aiante Telamonio.
Ma nuovamente un dio ha salvato e preservato
Ettore, che di molti Dànai ha già sciolto i ginocchi,
cosa che, credo, ancora avverrà; perché non senza
Zeus forte tuono sarebbe in prima fila tanto smanioso.
Forza, a quello che dico ubbidiamo tutti quanti:
la massa dell’esercito spingiamola verso le navi;
ma quanti ci vantiamo di essere i migliori,
restiamo, se riusciamo, affrontandolo, a respingerlo,
le lance protendendo; io credo che, pur fremente,
avrà paura di immergersi dei Dànai nella schiera”.
Disse così, e tutti lo ascoltarono e gli diedero retta.
I compagni di Aiante e di Idomèneo sovrano,
di Teucro e di Merìone e di Megète pari ad Ares,
serravano le schiere, chiamando a sé i migliori,
per fronteggiare Ettore e i Troiani; ma di dietro
la massa ritornava alle navi degli Achei.
I Troiani attaccarono compatti, guidati da Ettore,
che procedeva a gran passi, e davanti andava Apollo,
di nube rivestito alle spalle, e brandendo l’ègida,
dura, tremenda, irsuta, splendente, che il fabbro Efesto
diede a Zeus da portare per atterrire gli uomini.
Questa tenendo nelle mani, guidava l’esercito.
Resistettero compatti gli Argivi, e si alzò un grido
d’ambo le parti acuto, e guizzavano le frecce
dagli archi, e molte lance, da mani ardimentose,
alcune si piantavano nella carne di giovani audaci;
molte a metà, prima ancora di sfiorare la candida pelle,
al suolo si fermavano, bramose di saziarsene.
E finché Febo Apollo tenne ferma in mano l’ègida,
d’ambo le parti fioccavano i dardi e cadevano gli uomini.
Ma quando, in faccia guardando gli Achei dai veloci puledri,
la scosse e diede lui stesso un gran grido, il cuore incantò
ad essi in petto, e si scordarono dell’ardente vigore.

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Come nel fondo della nera notte una coppia di belve
mandria di buoi scompiglia o grande gregge di pecore,
all’improvviso, quando non è presente il guardiano;
in pari modo gli Achei, scoraggiati, fuggirono, e Apollo
panico infuse, ai Troiani e ad Ettore dando gloria.
Ed uno uccise l’altro, si diffuse ovunque la mischia.
Ettore allora uccise Stichio e Arcesilào,
il primo capo dei Beòti tunicati di bronzo,
l’altro fedele compagno di Menèsteo magnanimo.
Quindi Enea uccise Medonte e uccise Iaso.
L’uno, Medonte, era figlio bastardo di Oilèo divino,
dunque fratello di Aiante, ed in Fìlaca abitava,
lungi dalla sua patria, e aveva ucciso un uomo,
della matrigna Eriòpide, moglie di Oilèo, fratello.
Iaso, invece, comandante degli Ateniesi,
era chiamato figlio di Sfelo, figlio di Bùcolo.
Polidamante colpì Mecìsteo, Polìte Echio,
in prima fila, Agènore splendido uccise Clonio.
Paride colse Dèioco sul fondo della spalla,
mentre fuggiva tra i primi, parte a parte passò il bronzo.
E mentre delle armi li spogliavano, gli Achei,
sopra la fossa scavata riversandosi e sui pali,
di qua di là fuggivano e passavano il muro, costretti.
Ettore allora incitò con urla possenti i Troiani
ad assalire le navi e a lasciare le spoglie cruente:
"Quello che scorgerò star lontano dalle navi,
gli somministrerò la morte sul posto, e i parenti,
uomini e donne, lo priveranno della sorte del fuoco,
lo sbraneranno i cani davanti alla nostra città".
Detto così, e brandendo la frusta, incitò i cavalli,
incoraggiando i Troiani in mezzo alle file, e con lui
tutti gridando, guidavano i cavalli che tirano i carri
con immenso fracasso. E davanti Febo Apollo
gli argini del profondo fossato coi piedi abbatteva

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agevolmente, e colpendo nel mezzo si aprì un varco
vasto e ampio, quanto è il percorso di un tiro di lancia,
quando un uomo mette alla prova il proprio vigore.
I Troiani per esso affluivano a schiere, e Apollo,
con l'eletta ègida, avanti: e il muro abbattevano,
come un fanciullo in riva al mare fa con la sabbia,
che, dopo aver costruito per gioco castelli, di nuovo
poi con le mani e coi piedi li distrugge, sempre per gioco.
Così tu Apollo, signore dell'arco, la molta fatica
e la pena degli Achei cancellando, li spingesti alla fuga.
Tutti allora immobili ristettero accanto alle navi,
a vicenda chiamandosi per nome e, le mani levando
agli dèi tutti, alzarono suppliche ciascuno a suo modo.
E Nestore Gerenio, guardiano degli Achei,
così pregava, tendendo le mani al cielo stellato:
"Padre Zeus, se alcuno in Argo ricca di grano
ti ha mai bruciato grasse cosce di bue o di pecora,
pregando di tornare, e tu promettesti e accennasti,
ora rammentalo e storna da noi il giorno spietato,
non consentire ai Troiani di distruggere gli Achei!".
Disse così pregando, e tuonò forte Zeus, mente accorta,
la preghiera del vecchio, il figlio di Nèleo, ascoltando.
E, come udirono il tuono di Zeus che porta l'ègida,
i Troiani più forte assalirono, bramosi di scontro.
Come talora una grande onda del mare infinito
sulle fiancate si abbatte di una nave, se la spinge
la violenza del vento, che fa gonfiare i marosi,
così i Troiani, urlando a gran voce, attaccarono il muro,
e aizzando i cavalli alle navi, si azzuffavano
con le lance a due punte corpo a corpo, loro dai carri,
dalle nere navi gli Achei, una volta saliti,
con lunghe pertiche che si trovavano sulle navi,
aste navali robuste, con la punta ricoperta di bronzo.
Patroclo, sino a quando gli Achei e i Troiani lottavano

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lungo il muro, ancora lontano dalle navi veloci,
sino ad allora restò nella tenda dell'amabile Eurìpilo;
lo confortava parlandogli, sulla dolorosa ferita
farmaci riversava lenitori di spasimi atroci.
Quando però si accorse che i Troiani attaccavano il muro
e che regnavano panico e urla fra gli Achei,
emise allora un gemito e si percosse le cosce
con le mani distese, e piangendo così disse:
"Più non posso restare, Eurìpilo, nonostante
tu ne senta il bisogno. E' scoppiata una grande contesa.
Ora ti assista il tuo scudiero. Ed io frattanto
vado da Achille in fretta, per incitarlo a combattere.
Chissà se con l'aiuto di un dio io riesca a commuoverlo,
parlandogli, prezioso è il consiglio di un compagno".
Detto così, lo portavano i piedi. Ma gli Achei
resistevano sempre all'assalto, ma non riuscivano
a respingerli dalle navi, per quanto pochi.
Ma neppure i Troiani riuscivano a spezzare
lo schieramento dei Dànai e mirare alle navi e alle tende.
E come un regolo che raddrizza una trave di nave,
nelle mani di un carpentiere esperto, che ha tutta
la competenza, grazie ad Atena che lo ispira;
altrettanto era pari fra di loro il confronto e il conflitto;
e chi per questa nave si batteva, chi per quella.
Ettore si scagliò contro Aiante ardimentoso.
Per una stessa nave si battevano, e non riuscivano,
l’uno a scacciarlo e ad appiccare il fuoco alla nave,
l’altro indietro a ricacciarlo, un dio lo assisteva.
Allora Aiante splendido Calètore figlio di Clitio,
che avvicinava il fuoco alla nave, colpì al petto con l’asta.
Tonfo produsse cadendo, la torcia gli cadde di mano.
Ettore, appena vide coi suoi occhi suo cugino
caduto nella polvere davanti alla nave nera,
incoraggiò Troiani e Lici, gridando a gran voce:

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“O Troiani e Lici e Dàrdani guerrieri,
non arretrate dallo scontro proprio adesso,
ma salvate il figlio di Clitio; gli Achei lo spogliano
delle armi, caduto nel conflitto per le navi”.
Disse, e diresse contro Aiante la lancia splendente,
ma sbagliò il colpo, e colse Licòfrone figlio di Mastor,
ch’era di Aiante scudiero, di Citèra; accanto a lui
stava, perché aveva ucciso un uomo nella sacra Citèra;
sopra l’orecchio alla testa lo colpì col bronzo acuto,
che stava ritto vicino ad Aiante; prono nella polvere
precipitò dalla nave per terra, e le membra si sciolsero.
Rabbrividì Aiante allora, e disse al fratello:
“Teucro caro, ci è stato ammazzato il figlio di Mastor,
un fedele compagno, che, proveniente da Citèra,
onoravamo al pari dei genitori in casa nostra.
Lo ha ammazzato il magnanimo Ettore; dove sono i dardi
di breve morte e l’arco, che ti diede Febo Apollo?”
Disse, e quello comprese e gli fu accanto correndo,
con l’arco fra le mani ricurvo e con la faretra
piena di frecce, e subito le scagliava sui Troiani.
E colpì Clito, il nobile figlio di Pisènor,
il compagno di Polidamante, figlio illustre di Pàntoo,
che gli teneva le redini con le mani e badava ai cavalli,
proprio là dove le schiere più fitte si scontravano,
per favorire Ettore e i Troiani; ma assai presto
gli giunse il male, e nessuno poté stornarlo, anche volendolo.
Assai penoso il dardo lo raggiunse dietro al collo.
Precipitò dal carro, i suoi cavalli indietreggiarono,
squassando il carro vuoto. Lo vide subito il sovrano
Polidamante, e per primo si mosse davanti ai cavalli,
e ad Astìnoo figlio di Protiàone li consegnò,
e lo esortava a tenerli assai vicini, sempre guardandolo;
poi si gettò lui stesso nella mischia in prima fila.
Teucro incoccò altra freccia per Ettore armato di bronzo;

296
e dallo scontro presso le navi degli Achei lo toglieva,
se lo colpiva e la vita gli strappava quand’era più prode.
Ma non sfuggì alla mente compatta di Zeus, che protesse
Ettore, e strappò il vanto a Teucro Telamonio:
corda gli ruppe ben tesa dell’arco irreprensibile,
mentre mirava su lui; fu deviato in altra parte
il dardo punta di bronzo, e l’arco gli cadde di mano.
Teucro allora rabbrividì, e disse al fratello:
“Ahimè, completamente i nostri progetti di lotta
annienta un dio, che l’arco mi ha fatto cadere di mano,
la corda mi ha spezzato appena tesa, che stamane
avevo avvinto, perché reggesse il diluvio di frecce”.
E così gli rispose Aiante Telamonio:
“Caro, tu lascialo l’arco per terra e le fitte frecce,
dato che un dio che è avverso agli Achei ha tutto travolto.
Ma in mano afferra la lunga lancia e in spalla lo scudo,
e coi Troiani combatti ed incita gli altri guerrieri:
perché non prendano senza penare, pur vincitori,
le navi buoni scalmi; ma battiamoci nello scontro!”
Disse così, e l’altro ripose l’arco dentro la tenda,
e sulle spalle si mise lo scudo a quattro fasce,
e sulla testa robusta posse l’elmo ben lavorato,
di crine equino, terribile sopra ondeggiava il pennaccchio;
prese poi l’asta robusta, munita di punta di bronzo.
Si mise in marcia e presto, correndo, fu accanto ad Aiante.
Ettore, come si accorse che il dardo aveva fallito,
incitava i Troiani e i Lici a gran voce gridando:
“O Troiani e Lici e Dàrdani guerrieri,
siate uomini, amici, rammentate l’ardente vigore,
presso le concave navi; perché ho visto coi miei occhi
di un uomo valoroso grazie a Zeus fallire il dardo.
Facilmente riconoscibile è di Zeus la forza,
sia per coloro cui conceda gloria suprema,
sia per coloro che voglia sminuire e non soccorrere;

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come ora sminuisce gli Argivi e ci soccorre.
Presso le navi battetevi compatti; e chi di voi
da lungi o da vicino colpito incontri la morte,
muoia; non è sconveniente, mentre lotta per la patria,
morire; ma saranno moglie e figli in avvenire
salvi, e intatti la casa e gli averi, se gli Achei
per nave se ne andranno nella cara terra patria”.
Disse così, e destava in ognuno furore e ardimento.
Dall’altra parte Aiante così esortava i compagni:
“Vergogna, Argivi; adesso le vie sono due: o morire,
o preservarci e scacciare la rovina dalle navi.
O forse ancora sperate che se Ettore elmo che splende
prende le navi, a piedi tornerà ciascuno in patria?
Oppure non sentite che incita tutta l’armata
Ettore, in preda alla smania di appiccare il fuoco alle navi?
E certo non li invita alla danza ma a combattere.
Non esiste per noi migliore progetto o pensiero
che ingaggiare il corpo a corpo con forza e vigore.
Meglio morire una volta per tutte oppure vivere,
che piano piano annientarsi nella mischia furibonda,
nei pressi delle navi con guerrieri a noi inferiori”.
Disse così, e destava in ognuno furore e ardimento.
Ettore allora uccise Schedio di Perimède,
comandante dei Focesi, ed Aiante Leodàmas,
capo di fanteria, di Antènore nobile figlio;
Polidamante uccise Oto di Cillène,
compagno del Filìde, degli Epèi magnanimi capo.
Vistolo, gli fu addosso Megète; ma si scansò
Polidamante di lato, andò a vuoto il suo colpo; Apollo
non consentì che morisse in prima fila il figlio di Pàntoo;
Cresmo colpì in pieno petto invece con la lancia;
tonfo produsse cadendo, e dalle spalle gli tolse le armi;
ma gli fu subito addosso Dòlope, esperto di lancia,
figlio di Lampo, che fu generato da Lampo fortissimo,

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figlio di Laomedonte, esperto di ardente vigore;
colse il Filìde nel mezzo dello scudo con la lancia,
spiccando un balzo da presso; lo protesase la spessa corazza,
che portava ben connessa di piastre; un tempo Fìleo
se la portò da Èfira, dal fiume Selleènta.
Gliela donò un ospite, il sovrano di eroi Eufète,
che la portasse in guerra, in difesa dai nemici.
E anche allora dal corpo di suo figlio la morte stornò:
Megète lo colpì sulla punta dell’elmo bronzeo,
folto di chioma equina, con l’asta di faggio, e recise
la cresta equina; ed essa tutta intera nella polvere
cadde per terra, nuova fiammante, splendente di porpora.
E mentre Dòlope continuava a combattere, sperando di vincere,
ecco che giunse all’altro in soccorso Menelao bellicoso.
Stette con l’asta celato dietro a lui, e lo colse alla spalla,
e penetrò sino dentro al petto la punta bramosa,
spingendosi in avanti, e Dòlope cadde bocconi.
I due balzarono per strappargli dalle spalle
le armi di bronzo; ed Ettore incitava i suoi fratelli,
tutti, ma rampognava prima il figlio di Icetàon,
il forte Melanippo, che i buoi dai passi ritorti
pascolava a Percòte, quando ancora i nemici non c’erano.
Ma non appena giunsero le navi ben pareggiate
dei Dànai, tornò ad Ilio, e spiccava fra i Troiani,
e presso Priamo abitava, che lo onorava come un figlio.
Ettore dunque lo rampognò e così gli disse:
“Dunque così, Melanippo, cederemo? Nemmeno si turba
il caro cuore per il cugino che è stato ucciso?
Non vedi come si danno da fare per le armi di Dòlope?
Ma vienmi dietro, non è più possibile da lungi combattere
con gli Argivi; o li massacriamo o sarà distrutta
Troia scoscesa da cima a fondo con i suoi cittadini”.
Disse, e guidava e l’altro lo seguiva, pari a un dio.
E incitava gli Argivi il grande Aiante Telamonio:

299
“Siate uomini, amici, ponete vergogna nel cuore,
e ritegno reciproco, nelle mischie furibonde;
se si ha ritegno, sono più i salvi che gli uccisi.
Ma se si fugge, né gloria rimane né coraggio”.
Disse, e bramosi di difendersi, quelle parole
misero in cuore, e con siepe di bronzo le navi sbarrarono.
Ma suscitava Zeus i Troiani; ed incitò
Menelao possente nel grido di guerra Antìloco:
“Non c’è nessuno, Antìloco, fra gli Achei di te più giovane,
né più veloce a correre né più valido a combattere.
Guarda se puoi, balzandogli addosso, di colpire un Troiano”.
Disse così, e retrocesse, ma fu di sprone all’altro:
che fece un balzo in prima fila, lanciò l’asta splendente,
intorno a sé guardando; i Troiani indietreggiarono,
quando l’eroe scagliò l’arma, ma il colpo non fu vano:
il figlio di Icetàone, il superbo Melanippo,
mentre avanzava, colse nel petto alla mammella.
Tonfo produsse cadendo, la tenebra gli occhi gli avvolse.
E gli fu addosso Antìloco, come cane che su un cervo
balza, ferito, che mentre salta fuori dalla sua tana,
il cacciatore ha trafitto e gli ha sciolto le membra; così,
o Melanippo, Antìloco bellicoso ti balzò addosso,
per disarmarti, ma non sfuggì allo splendido Ettore,
che incontro gli si mosse correndo nella mischia;
ma non lo attese Antìloco, pur ardimentoso guerriero,
e tremò pari a belva che ha compiuto qualcosa di male:
ha ucciso i cani oppure il bovaro accanto alla mandria,
e fugge prima che si raduni la folla degli uomini.
Così tremò il Nestòride, e su di lui i Troiani ed Ettore
con grido immenso dardi che fanno gemere riversavano.
Ristette rivolgendosi, giunto al gruppo dei compagni.
E i Troiani, leoni che mangiano carne cruda,
sulle navi piombavano, compivano il piano di Zeus,
che sempre in loro destava gran furore, il cuore incantava

300
degli Argivi, negava loro gloria, incitava i Troiani.
Nel suo cuore voleva concedere ad Ettore gloria,
perché il fuoco tremendo appiccasse alle concave navi
indomabile il figlio di Priamo e compisse di Teti
la sciagurata preghiera. Ciò aspettava Zeus mente accorta:
luce di navi in fiamme vedere coi suoi occhi.
Solo allora avrebbe provocato dalle navi
contro i Troiani riscossa e gloria per i Dànai.
Ciò meditando, contro le concave navi destava
Ettore figlio di Priamo, già lui stesso smanioso di battersi.
Simile ad Ares imperversava, o a incendio che annienta,
quando sui monti imperversa e dove la selva è più densa.
Schiuma alla bocca aveva, ed ambedue gli occhi
sotto le ciglia selvagge lampeggiavano, e intorno alle tempie
l'elmo di Ettore sussultava terribilmente,
di lui che si batteva. Dal cielo c'era ad assisterlo
Zeus, che pure fra tanti eroi lui solo onorava,
gli dava gloria, poiché assai poco gli restava
di vita. Ormai per lui affrettava il giorno fatale
Pallade Atena per mano del figlio di Pèleo, con forza.
Cercava di spezzare i ranghi, tentando là dove
vedesse più compatta la massa e più forti le armi.
Ma non riuscì a spezzarli, per quanto lo bramasse.
Reggevano lo scontro a muraglia, simili a scoglio
ripido e di gran mole, accanto al mare canuto,
che sostiene il rapido assalto dei venti che urlano,
i flutti che si gonfiano, che gli si scagliano addosso;
così ai Troiani i Dànai resistevano e non fuggivano.
Lui, come ardendo di fuoco, fece un balzo dentro la mischia:
piombò, come talvolta piomba ondata su nave veloce,
aspra, nutrita dai venti sotto i nembi; e la nave intera
sotto la schiuma sparisce, e il soffio tremendo del vento
sopra la vela dà fremiti, e tremano i naviganti
atterriti nel cuore, manca poco che morte li avvolga;

301
tale nei petti il cuore degli Achei si dilaniava.
Ettore, come leone sterminatore assalta le vacche
pascolanti lungo un prato di vasta palude,
molte- e il mandriano non sa combattere contro la belva
per la carcassa di una vacca dalle corna ricurve,
ma procede sempre con le prime e le ultime vacche,
e pertanto la belva, balzando al centro, divora
una di esse, e le altre fuggono- ; così gli Achei
come di incanto fuggirono da Ettore e dal forte Zeus,
tutti. Ed uccise il miceneo Perifète soltanto,
il caro figlio di Coprèo, ch’era solito andare
ambasciatore di Eurìsteo sovrano da Eracle forte.
Nacque da padre molto peggiore questo figlio migliore
per virtù di ogni genere, perché veloce e bravo a combattere,
e primeggiava fra i Micenei per intelligenza.
Gloria altissima diede costui allora ad Ettore.
Voltosi indietro, urtò nell’orlo dello scudo,
che portava lungo sino ai piedi, a difesa dai colpi:
inciampò, quindi cadde supino, e l’elmo intorno
rimbombò tremendo sulle tempie del caduto.
Ettore, come lo vide, di corsa gli fu accanto,
e gli infisse nel petto la lancia e lo uccise nel mezzo
dei suoi compagni, che, pur angosciati, prestargli soccorso
non poterono: troppo temevano lo splendido Ettore.
Giunsero in faccia alle navi, ed avevano intorno le ultime,
prima tirate a secco, e su di esse si riversarono.
Si ritrassero gli Argivi dalle prime navi, costretti,
ma resistettero in blocco, accanto alle loro tende,
non si dispersero per il campo. Vergogna e sgomento
li tratteneva, senza mai tregua si incoraggiavano.
E Nestore Gerenio, guardiano degli Achei,
in nome dei genitori, assai ciascuno implorava:
"Siate uomini, amici, ponete vergogna nel cuore
per gli altri uomini e si rammenti ciascuno di voi

302
dei figli, della moglie, degli averi, dei suoi genitori,
per chi li ha ancora vivi e per chi li ha ormai perduti.
Ora per tutti questi che qui non ci sono, vi supplico,
con coraggio resistete, non datevi al panico."
Disse così, e destava in ognuno furore e ardimento.
Tolse allora dagli occhi la densa caligine Atena,
incantamento divino. D’ambo le parti rifulse la luce,
tanto sopra le navi che sopra la mischia crudele.
Ettore ravvisarono, possente nel grido di guerra,
e i compagni, sia quanti restando indietro non lottavano,
sia quelli che lottavano accanto alle navi veloci.
Ma ciò proprio non piacque nel cuore al magnanimo Aiante,
stare là dove s'erano ritirati gli altri Achei,
ma percorreva i ponti delle navi a grandi falcate,
una pertica enorme per scontro navale brandendo,
fatta di pezzi connessi da anelli, di ventidue cubiti.
Come talvolta un uomo, che, esperto nel cavalcare,
quattro cavalli, presi fra molti, ha assieme aggiogato,
dalla pianura li stimola verso una grande città
per una strada assai frequentata, e molti lo ammirano,
sia uomini che donne, e lui senza sosta, sicuro,
cambia saltando dall'uno all'altro, e quelli volano;
tale su molti ponti di navi veloci muoveva
Aias a grandi falcate, e la sua voce andava al cielo.
Sempre gridando terribilmente i Dànai incitava,
che difendessero navi e tende. Ma neanche Ettore
nel folto dei Troiani, robuste corazze, rimase,
ma, come aquila fulva su schiera di uccelli alati
piomba dall'alto mentre si nutrono lungo un fiume
-oche o gru o cigni dal collo affusolato-,
Ettore, simile ad essa, puntò su nave prora azzurra,
con impeto assalendola. E Zeus da dietro lo spinse
con la sua grande mano, assieme a lui incitava l’armata.
Aspra battaglia di nuovo si accese intorno alle navi.

303
Li avresti detti guerrieri e campioni infaticabili,
tanto era lo slancio con cui lottavano entrambi.
Questo pensavano nello scontrarsi fra loro: gli Achei
non credevano di salvarsi ma di morire,
i Troiani speravano, ciascuno nel suo cuore,
di incendiare le navi, gli eroi achei di sterminare.
Questo pensando entrambi, gli uni gli altri si azzuffavano.
Ettore afferra la poppa di una nave che solca il mare,
bella, veloce, quella che condusse Protesilào
sino a Troia, ma nella sua patria non lo ricondusse.
Per quella nave e intorno ad essa Troiani ed Achei
si combattevano corpo a corpo, né si aspettavano
colpi di frecce intorno, né giavellotti a distanza,
ma, piazzati vicino l'un l'altro, con unico cuore,
con le scuri affilate, con le asce si affrontavano,
con le grandi spade e con le lance a doppia punta.
E molte belle spade, munite di manico scuro,
dalle mani cadevano a terra, dalle spalle,
mentre si combattevano, e grondava la terra di sangue.
Ettore, afferrata quella poppa, non la mollava,
stretto teneva in mano l'aplustre e incitava i Troiani:
"Fuoco portate e insieme voi stessi il grido levate.
Zeus ci dà adesso il giorno, che tutti gli altri ripaga,
di prendere le navi, che, contro il volere divino
giunte, ci nocquero tanto, per la viltà degli anziani,
che, quando volevo attaccare le navi, mi fermavano
e l'esercito tenevano a bada. Ma se allora
ottenebrò le vostre menti Zeus voce possente,
è proprio lui che adesso ci sprona e ci spinge a combattere".
Disse, e i suoi con più forza attaccarono gli Argivi.
Aias non più resisteva, oramai travolto dai dardi,
ma retrocesse un poco, su un banco di sette piedi,
credendo di morire, lasciò il ponte della nave.
Quivi ristette in guardia, con l’asta tenendo lontani

304
i Troiani, che non portassero il fuoco instancabile,
e gridando terribilmente i Dànai incitava:
"O carissimi Dànai, eroi, scudieri di Ares,
siate uomini, amici, rammentate l'ardente vigore.
Forse crediamo che dietro di noi ci sia chi ci soccorra?
Forse muraglia più forte, che il disastro risparmi agli eroi?
Non c'è vicino nessuna città ben munita di torri,
dove poterci rifugiare con aiuto del popolo,
ma siamo nella piana dei Troiani corazze robuste,
riversati sul mare, ben lontani dalla patria.
Sta nelle mani la luce, non nella mollezza in battaglia".
Disse così, e fremente con l’asta di faggio incalzava,
e chi si avvicinasse dei Troiani alle concave navi
col fuoco ardente, per obbedire al comando di Ettore,
Aias con l’asta lunga lo affrontava e lo colpiva;
dodici ne colpì da vicino davanti alle navi.

305
LIBRO XVI

Patroclo

Patroclo, in pianto dirotto, si presenta ad Achille e gli riferisce quanto sta


accadendo. Alla sua richiesta di poter indossare le armi di Achille e di portare
soccorso agli Achei, Achille acconsente, ma gli raccomanda di non spingersi oltre:
un dio avverso dall’Olimpo potrebbe colpirlo. Infine si augura che Troiani ed
Achei possano tutti morire, lasciando vivi solo loro due a compiere l’impresa di
abbattere Troia. Nel frattempo la situazione precipita, l’incendio divampa e anche
Aiante è costretto a ritirarsi, bersaglato da tutte le parti. Patroclo allora si arma e,
alla testa dei Mirmìdoni, parte all’attacco. Subito l’esito del conflitto si capovolge e
la rotta dei Troiani è inevitabile. Ma è giunto il momento fissato per la morte di
Sarpèdone, capo dei Lici e figlio di Zeus. Il dio ne è consapevole, e fa scendere
sulla terra una pioggia di lacrime color sangue. In uno scontro con Patroclo, sulla
cui identità regna ancora incertezza, Sarpèdone cade, e intorno al suo cadavere,
oggetto di contesa, si accende una mischia. Alla fine Zeus manda il Sonno e la
Morte, che sottraggono il cadavere e lo portano in Licia. Ma è giunto anche il
momento per la morte di Patroclo. Il che accade subito dopo che quest’ultimo
uccide Cebrìone, auriga di Ettore, in uno scontro a due. Interviene allora Apollo in
persona, che gli sferra un colpo violento alla schiena. Denudato delle armi, Patroclo
viene colpito da Euforbo, in modo non grave; ma subito Ettore se ne accorge, e lo
finisce con un colpo di lancia. Caduto a terra, Patroclo viene da lui deriso, ma gli
predice la morte per mano di Achille. Quindi spira.

Così lottavano intorno alla nave buoni scalmi.


Patroclo si presentò ad Achille pastore di popoli,
lacrime calde versando, come polla di acqua bruna,
che dall'alto di rupe scoscesa fiotti cupi riversa.
Vistolo, lo compianse lo splendido Achille veloce,
e, rivolgendosi a lui, alate parole diceva:
"Patroclo, perché piangi, tanto simile a bimba piccina
che corre dietro alla madre e la prega di prenderla in braccio,
le sta attaccata alla veste, le impedisce di camminare,

306
e, piangendo, la guarda di sotto, sinché in braccio la prenda?
Simile ad essa, Patroclo, stai versando tenere lacrime.
Forse porti notizia ai Mirmìdoni, oppure a me stesso,
oppure hai un'ambasciata da Ftia che conosci tu solo?
Dicono vivo ancora Menetio, figlio di Actor,
e vive Pèleo, figlio di Èaco, in mezzo ai Mirmìdoni.
Ci darebbero entrambi dolore, se fossero morti.
O forse piangi per gli Argivi, che stanno morendo
presso le concave navi, a causa della loro arroganza?
Dimmelo, non tenerlo celato, anch'io voglio saperlo."
E, tra profondi gemiti, così dicesti, Patroclo cavaliere:
"Figlio di Pèleo, Achille, il più forte degli Achei,
non irritarti, tale è la pena che li ha colti!
Eccola. Tutti quelli che erano prima i migliori,
giacciono fra le navi colpiti da lungi o trafitti.
Il Tidìde è colpito da freccia, il possente Diomede,
da vicino colpiti sono Odìsseo guerriero e Agamemnon,
è ferito Eurìpilo da una freccia ad una coscia.
Medici esperti di rimedi di loro si curano,
sanano le ferite. Ma tu sei insensibile, Achille.
Collera mai mi prenda, quale quella che vai covando,
uomo tremendo! Chi mai trarrà giovamento da te,
se dagli Argivi non stornerai l'orrendo flagello?
Non hai pietà! Non fu Pèleo, guidatore di carri, tuo padre,
né Teti fu tua madre, l’azzurro mare ti generò,
i dirupi rocciosi, perché duro hai dentro il cuore.
Se fuggi nel tuo cuore un oracolo divino,
che da parte di Zeus ti ha svelato la madre sovrana,
manda almeno me subito, e, alla testa dei Mirmìdoni,
gli altri soldati, ch'io possa esser luce per i Dànai.
Dammi da mettere sulle mie spalle la tua armatura,
se per caso, per te scambiandomi, si ritirino
dallo scontro i Troiani e respirino gli Achei
stremati –è sufficiente un breve respiro in battaglia-.

307
Agevolmente respingeremo, noi freschi, gli stanchi
verso la loro città dalle navi e dalle tende".
Disse così implorando, completamente folle:
morte funesta e destino estremo per sé invocava.
E a lui, molto turbato, rispose Achille veloce:
"Ah Patroclo divino, che cosa hai mai tu detto!
Non mi importa di oracolo divino, ch'io possa conoscere,
né che da parte di Zeus mi ha svelato la madre sovrana,
ma dolore nell'animo e nel cuore mi affligge tremendo,
quando un uomo vuole offendere un altro suo pari,
e strappargli premio perché lo sovrasta in potenza.
Ho qui dolore acuto, che ho sofferto nel profondo.
La fanciulla che i figli degli Achei come premio mi diedero,
presa con la mia lancia, distruggendo una forte città,
sì, questa dalle mani mi ha strappato il possente Agamemnon,
figlio di Àtreo, quasi ch'io fossi un meschino spiantato.
Ma ciò che è stato lasciamo andare. Non era possibile
l'ira serbare intatta nel cuore. Davvero pensavo
che mai avrei potuto mitigare lo sdegno se prima
non giungessero scontro e guerra sin qui, alle mie navi.
Vesti sulle tue spalle le armi mie gloriose,
guida i Mirmìdoni bramosi di guerra nel combattimento,
se nera nube dei Troiani avvolge le navi
con forza, e sul frangente del mare, serrati, gli Argivi
si riversano in una lingua sottile di terra.
Dei Troiani la città tutta intera si è mossa
con ardimento: non scorgono il frontale del mio elmo
lampeggiare vicino. Ma presto, fuggendo, i fossati
di morti riempirebbero, se solo il possente Agamemnon
fosse con me più gentile. E invece, come combattono!
Nelle mani di Diomede, il figlio di Tìdeo,
più non infuria la lancia, che storni rovina dai Dànai;
non sento più la voce del figlio di Àtreo venire
dalla sua testa odiosa, ma di Ettore massacratore

308
mi rimbomba, che ordina ai Troiani, ed essi col grido
tutta la piana invadono, e sbaragliano gli Achei.
Ma Patroclo, anche così, dalle navi stornando rovina,
piomba su loro con forza! Non accada che il fuoco ardente
appicchino alle navi e ci strappino il caro ritorno.
Bada però, dammi retta sino in fondo su quanto ti dico,
così da procurarmi grande onore e grande gloria
presso i Dànai tutti, che a me la fanciulla bellissima
restituiscano e splendidi doni ancora vi aggiungano.
Cacciali via dalle navi e poi torna. Se anche accadesse
che ti desse gloria lo sposo tonante di Hera,
non volere senza di me combattere contro
i bellicosi Troiani, mi torresti una parte di onore,
e neppure inebriandoti della strage e della guerra,
devi guidare sino ad Ilio, incalzando i Troiani.
Dall'Olimpo qualcuno degli dèi che vivono sempre
contrastarti potrebbe; molto li ama Apollo arciere.
Ma tornatene indietro, non appena che alle navi
luce avrai fatto, e lasciali per la piana da soli combattere.
Padre Zeus e Atena e Apollo, oh potesse accadere
che non sfuggisse alla morte un Troiano, per quanti essi sono,
e degli Argivi nessuno, e noi due soli alla morte sfuggissimo,
per poter sciogliere solo noi due i sacri veli di Troia!".
Parlavano così fra di loro, l'un l'altro alternandosi.
Aias non più resisteva, oramai travolto dai dardi.
Lo vincevano la mente di Zeus e i Troiani superbi
bersagliandolo, orrendo fragore intorno alle tempie
l'elmo splendente percosso mandava, veniva colpito
sempre sui saldi guanciali. La spalla sinistra era stanca
a forza di reggere lo scudo lucente, ma non riuscivano,
pur con i dardi incalzandolo, a farlo indietreggiare.
Ansimava penosamente, da ogni parte scorreva
abbondante il sudore sulle membra, oramai gli mancava
il respiro, dovunque male a male gli si aggiungeva.

309
Ditemi adesso, o Muse, che abitate le sedi di Olimpo,
come la prima volta piombò il fuoco sulle navi.
Ettore si avvicinò e di Aias la lancia di frassino
con la grande spada colpì in cima, sotto la punta;
di netto la recise, e Aiante Telamonio
l’asta mozzata in mano palleggiò, e lungi da essa
rimbombò la punta di bronzo cadendo per terra.
Nel cuore irreprensibile seppe l’opera degli dèi,
e rabbrividì: così stroncava i suoi piani di guerra
Zeus che tuona dall’alto, e vittoria accordava ai Troiani.
Poi si sottrasse al tiro, e appiccarono il fuoco instancabile
alla nave veloce, arse fiamma senza più spegnersi.
E così l'incendio divampò alla poppa. Ma Achille
ambedue le cosce si batté e a Patroclo ingiunse:
"Presto, divino Patroclo, guidatore di cavalli,
vedo accanto alle navi la vampa del fuoco che annienta.
Che non le prendano, o non ci sarà più scampo per noi!
Vesti le armi, affrèttati, che io raduno l'esercito".
Disse, e Patroclo si rivestì di bronzo splendente.
Prime intorno alle gambe si mise le gambiere,
belle, ben rafforzate di copricaviglia d’argento,
seconda la corazza si rivestì sopra il petto,
colorata, stellata, dell’Eàcide veloce;
spada con borchie d’argento si appese sulle spalle
bronzea, quindi lo scudo, ch’era grande e poderoso.
Sopra la testa possente mise un elmo ben lavorato,
con coda equina. Ondeggiava terribile sopra il pennacchio.
Prese due lance robuste, che alla mano si adattavano;
ma non prese la lancia dell’Eàcide senza macchia,
greve robusta grande - nessun altro degli Achei
la palleggiava, ma il solo Achille ne era capace -,
del frassino del Pèlio, che Chirone diede al padre,
dalla cima del Pèlio, perché strage facesse di eroi.
Incaricò Automedonte di aggiogare al più presto i cavalli-

310
lo aveva in pregio moltissimo, dopo Achille ammazzauomini-,
fedelissimo e pronto nello scontro a eseguire i suoi ordini.
E sottomise al giogo Automedonte i veloci cavalli,
Sauro e Pezzato, che volavano assieme al vento.
Li aveva generati a Zefiro l’Arpìa Podarge,
che sul prato pascolava lungo il flusso di Oceano.
Legava poi in aggiunta l’irreprensibile Pèdaso,
da Achille depredato dalla città di Eetione:
era mortale, ma seguiva cavalli immortali.
Nel frattempo Achille era intento ad armare i Mirmìdoni,
di tenda in tenda qua e là recandosi; e simili a lupi
mangiatori di carne cruda, che hanno forza indicibile,
che grande cervo cornuto sui monti hanno ammazzato,
e lo sbranano; a tutti il muso rosseggia di sangue;
poi tutti in branco si recano a una polla di acqua scura,
a lambire l’acqua scura con le lingue sottili
in superficie, ed eruttano sangue; in essi il cuore
è intrepido nel petto, ma il ventre è appesantito;
tali le guide dei Mirmìdoni e i loro capi
attorno allo scudiero dell’Eàcide veloce
accorrevano, e Achille guerriero stava nel mezzo,
incoraggiando i cavalli e gli uomini scudati.
Cinquanta erano le navi veloci, quelle che Achille
caro a Zeus aveva guidato a Troia; e in ciascuna
cinquanta stavano uomini agli scalmi, suoi compagni.
E cinque capi aveva nominato, di cui si fidava,
per dare gli ordini; lui in persona era il sovrano.
Menèstio corazza smagliante comandava la prima schiera,
ch’era figlio del fiume Sperchèo, ingrossato da Zeus:
la bella Polidòra, figlia di Pèleo, lo partorì,
donna che a un dio in amore si unì, lo Sperchèo instancabile;
ma ufficialmente a Boro, il figlio di Perière,
che la condusse in matrimonio con doni infiniti.
Era a capo della seconda schiera Eudòro guerriero,

311
da nubile, la bella Polimèla danzatrice,
la figlia di Filante; di lei il potente Argifonte
arse d’amore, vedendola in mezzo alle compagne,
nella danza di Artemide freccia d’oro, strepitante.
Sopra salito, accanto le si sdraiò furtivo
Ermès benigno, e splendido figlio lei gli diede,
Eudòro, ch’era celere nella corsa e gran guerriero.
E non appena Ilitia, la dea che assiste ai parti,
lo estrasse fuori alla luce, e lui vide i raggi del sole,
allora il forte vigore di Èchecle figlio di Actor
se la portò a casa sua, dopo aver dato doni infiniti,
e lo cresceva il vecchio Filante e lo allevava,
riempiendolo di affetto, quasi fosse figlio suo.
E della terza schiera era capo Pisandro guerriero,
figlio di Mèmalo, che spiccava fra i Mirmìdoni
nell’uso della lancia, subito dopo il compagno di Achille.
Il vecchio cavaliere Fenice guidava la quarta;
Alcimedonte senza macchia di Laerce la quinta.
E quando Achille ebbe ordinato tutti quanti,
con cura assieme ai capi, vi aggiunse un brutale comando:
“Mirmìdoni, nessuno dimentichi le minacce
che lanciavate ai Troiani vicino alle navi veloci
quand’ero incollerito, e ciascuno mi accusava:
“Matto Pelide, la madre ti ha allevato con la bile;
senza pietà, che i compagni controvoglia trattieni alle navi!
Su ritorniamo a casa con le navi che solcano il mare
di nuovo; collera devastante ti ha invaso il cuore”.
Sempre, appartati, questo dicevate; adesso è apparsa
la grande impresa di guerra, cui tanto aspiravate.
Ora ciascuno combatta i Troiani con cuore intrepido.”.
Disse così, e destava in ognuno furore e ardimento.
I ranghi si serrarono di più, sentito il re.
E come un uomo rafforza il muro con pietre connesse
dell’alta casa, per contenere la violenza dei venti,

312
così si rinserrarono elmi e scudi ombelicati.
Scudo appoggiato a scudo, elmo ad elmo, uomo ad uomo;
gli elmi criniti sfioravano i pennacchi splendenti, al cenno
minimo: fitti a tal punto fra di loro si schieravano.
Davanti a tutti due guerrieri si preparavano,
Patroclo e Automedonte, che avevano un unico cuore:
combattere alla testa dei Mirmìdoni. Ma entrò
Achille nella tenda e tolse il coperchio a una cassa
bellissima, istoriata, che Teti piedi d’argento
gli mise sulla nave da portare, piena di tuniche
e di mantelli, riparo dai venti, e di coltri lanose.
C’era una coppa lavorata là dentro, né altro
che fosse uomo beveva da essa vino fulgente,
né libasse ad altro dio che non fosse Zeus padre.
Presala dunque dalla cassa, la pulì con lo zolfo,
e poi la risciacquò nelle belle correnti d’acqua,
si risciacquò anche lui le mani; e il vino fulgente
attinse, e ritto in mezzo al cortile pregò e versò il vino,
guardando al cielo; e a Zeus non sfuggì che gode del fulmine:
“Sovrano Zeus Pelasgico, Dodonèo, tu che vivi lontano
e regni su Dodona procellosa; e intorno i Selli
vivono, i tuoi profeti, piedi sozzi, che dormono in terra,
la preghiera che ti rivolgevo esaudisti in passato
e mi onorasti colpendo degli Achei la grande armata,
anche adesso di nuovo esaudiasci il mio desiderio.
Io stesso resterò nel campo delle navi,
ma il mio compagno invio assieme a molti Mirmìdoni,
perché combatta. Tu dàgli gloria, Zeus voce possente,
rafforzandogli il cuore nel petto, perché anche Ettore
sappia davvero se anche da solo è capace di battersi
il mio scudiero, o se le mani sue invincibili
infuriano soltanto se anch’io vado allo scontro di Ares.
Ma quando dalle navi avrà stornato battaglia e tumulto,
illeso mi ritorni allora alle navi veloci,

313
di tutto punto armato e coi bellicosi compagni”.
Disse così pregando, e Zeus mente accorta lo udì,
e una cosa concesse, ma un’altra la negò:
che dalle navi Patroclo stornasse guerra e scontro
gli concesse, ma gli negò che salvo tornasse.
E dopo aver libato e pregato a Zeus padre, rientrò
nella tenda e depose la coppa nella cassa,
poi si fermò all’ingresso della tenda: voleva nel cuore
l’orrida mischia vedere dei Troiani e degli Achei.
Quelli, armati, con Patroclo magnanimo si mossero,
sino a che sui Troiani con superbia si avventarono.
Si dispersero subito, come vespe sui sentieri,
che i ragazzi, quasi per abitudine, infastidiscono,
sempre disposti a scherzare – hanno il nido sulla strada -,
sciocchi, per molti preparano un pericolo comune:
se un viandante, passando per caso lì vicino,
senza volere le smuove, con cuore ardimentoso
esse tutte gli volano addosso, in soccorso dei figli.
Con questo cuore i Mirmìdoni, con tale intento, dalle navi
si riversavano, grido si alzava inestinguibile.
E Patroclo esortava i compagni, gridando a gran voce:
“Mirmìdoni, compagni di Achille figlio di Pèleo,
siate uomini, amici, rammentate l’ardente vigore,
per dare onore al figlio di Pèleo, che è il più forte
degli Argivi presso le navi, coi forti scudieri;
si renda conto l’Atride, il più che possente Agamemnon,
del suo delirio, il migliore degli Achei non aver onorato”.
Disse così, e destava in ognuno furore e ardimento.
Irruppero compatti sui Troiani; e attorno le navi
tremendo rimbombarono alle grida degli Achei.
Come i Troiani videro il forte figlio di Menetio,
lui con il suo scudiero, che armati risplendevano,
si accese il cuore a tutti, si sbandarono le schiere,
supponendo che presso le navi Achille veloce

314
deposto avesse la collera, preferendo l’amicizia,
e si guardarono intorno come sfuggire all’abisso di morte.
E Patroclo fu il primo a scagliare la lancia splendente
dritto nel mezzo, dove più fitti si azzuffavano,
nei pressi della poppa di Protesilào magnanimo.
E colpì Pirecme, che i Pèoni guidatori di carri
condotto aveva da Amidóne e dall’Assio ampio flusso;
alla spalla destra lo colse, e nella polvere
cadde supino gemendo, e i compagni intorno, i Pèoni,
se ne fuggirono, il panico in tutti infuse Patroclo,
ucciso il loro comandante, ch’era primo in battaglia.
Li cacciò via dalle navi, e spense il fuoco ardente.
Mezza riarsa la nave fu là abbandonata, e fuggirono
i Troiani con strepito immenso; e i Dànai si sparsero
lungo le concave navi con tumulto indescrivibile.
E come quando da vetta eccelsa di grande montagna
nuvola spessa spazza via Zeus fulminatore;
tutte le cime allora appaiono e le alte pendici
e le vallate; in cielo si è infranto l’etere immenso;
così, respinto il fuoco nemico dalle navi,
i Dànai un poco respirarono, ma sosta non ebbe
la lotta, e in nessun modo i Troiani, messi in fuga
dagli Achei cari ad Ares, erano in rotta dalle nere navi,
ma ancora resistevano, dalle navi cedendo per forza.
Qui uomo colpì uomo, nella mischia ormai diffusa
dei capi, e primo alla coscia il forte figlio di Menetio
colse Arèiloco, che si voltava, con l’asta di faggio,
ed il bronzo la trapassò da parte a parte;
e l’asta spezzò l’osso, e lui bocconi a terra
precipitò. Menelao guerriero colpiva Toante
nel petto nudo, accanto allo scudo, e gli sciolse le membra.
Il Filìde, spiando Ànficlo che lo attaccava,
lo anticipò e lo colse in cima alla gamba, ove il muscolo
nell’uomo è più compatto: intorno alla punta dell’asta

315
i tendini si sfecero, la tenebra gli occhi gli avvolse.
E dei figli di Nestore Antiloco colpì Antimnio
con l’asta acuta, e il bronzo gli si spinse dentro il fianco;
precipitò in avanti; e Maris con l’asta da presso
su Antiloco balzò, adirato per il fratello,
stando davanti al cadavere. Trasimède pari a un dio
lo prevenne, e non sbagliò, e lo colse alla spalla
presto; la punta dell’asta lacerò alla cima del braccio
i muscoli e schiantò fin nel profondo l’osso.
Tonfo produsse cadendo, la tenebra gli occhi gli avvolse.
In questo modo domati da due fratelli, discesero
all’Èrebo due nobili compagni di Sarpèdone,
figli guerrieri di Amisòdaro, che la Chimera
allevò indomabile, di molti uomini rovina.
Aiante Oilìade fece un balzo su Cleobùlo:
vivo lo prese, travolto nella mischia; e subito a lui
sciolse il vigore, colpendolo al collo con la spada impugnata.
Tutta si riscaldò la spada col sangue, e sugli occhi
la morte color porpora calò e il destino supremo.
Penèleo e Licone si corsero incontro, e con l’asta
sbagliarono a vicenda, scagliando ambedue inutilmente;
corsero poi entrambi con le spade; allora Licone
colpì il cimiero equino dell’elmo, ma la sua spada
si ruppe all’elsa; e Penèleo lo percosse sotto l’orecchio
al collo, e tutta la spada vi si immerse; resse soltanto
la pelle, a lato la testa penzolò, le membra si sciolsero.
E Merìone, raggiunto Acamante coi piedi veloci,
lo colse che saliva sul carro alla spalla destra;
precipitò dal carro, si diffuse sugli occhi la nebbia.
E Idomèneo colpì alla bocca col bronzo spietato
Erimante; diritta l’asta bronzea trapassò
sotto il cervello e fracassò le candide ossa.
Gli saltarono fuori i denti, gli si riempirono
gli occhi di sangue; dalla bocca e dalle narici

316
a bocca aperta lo emise; nera nube di morte lo avvolse.
Questi i capi dei Dànai che uccisero un uomo ciascuno.
E come lupi rapaci su agnelli o su capretti
si gettano, strappandoli alle madri, che per la follia
del pastore sui monti si spersero, e quelli, vedendole,
razzia ne fanno subito, prive di forza come sono;
tali piombarono i Dànai sui Troiani, e a fuga chiassosa
quelli pensarono, dimenticarono l’ardente vigore.
E sempre il grande Aiante contro Ettore armato di bronzo
desiderava scagliare la lancia; ma, esperto di guerra,
quello, coperto alle ampie spalle dallo scudo taurino,
il ronzio delle frecce spiava e il frastuono dell’aste;
profondamente sapeva alterna la vittoria in battaglia,
ma anche così resisteva, voleva salvi i fedeli compagni.
E come nube sale dall’Olimpo verso il cielo,
figlia dell’etere splendido, quando Zeus prepara tempesta,
così si sprigionarono tumulto e fuga dalle navi,
e in disordine passarono il fosso, e i veloci cavalli
Ettore via si portavano con le armi, e abbandonava
l’armata, trattenuta contro voglia dal fosso: e molti
veloci cavalli, trainando i carri, il timone spezzarono
in cima, e abbandonarono i carri dei padroni.
E Patroclo implacabile, incitando i Dànai, inseguiva,
ai Troiani meditando rovina; e fra panico e urla
tutte le strade riempivano, tagliati fuori; e in alto un turbine
sino alle nubi si alzava; e i cavalli duri zoccoli
lungi da navi e da tende, verso la rocca si tendevano.
Patroclo là dove vide l’esercito più sconvolto,
là sopraggiunse urlando, e cadevano sotto gli assi
precipitando dai carri, e i cocchi si ribaltavano.
Ma diritti corsero sopra il fosso i veloci cavalli
immortali che a Pèleo gli dèi diedero, splendido dono,
protesi avanti; il cuore contro Ettore lo spronava.
Mirava a lui, ma i cavalli veloci lo allontanavano.

317
E come tutta la nera terra è gravata da un turbine,
in un giorno d’autunno, quando pioggia violenta riversa
Zeus, nell’intento di nuocere agli uomini, sdegnato,
se con violenza in piazza emettono storte sentenze
e scacciano giustizia, degli dèi lo sguardo non curano,
e tutti i loro fiumi traboccano scorrendo,
e i torrenti scavano allora molte pendici,
e verso il mare ribollente scorrendo, gemono
precipiti dai monti, danneggiando il lavoro degli uomini;
in pari modo forte le cavalle troiane gemevano.
Patroclo dunque, dopo aver spezzato le prime schiere,
verso le navi di nuovo li spingeva, né lasciava
che in città ritornassero, pur bramandolo, ma nel mezzo
fra le navi e il fiume e l’alto muro tenendoli,
li massacrava, così traendo vendetta su molti.
E Prònoo per primo colpì con la lancia splendente,
nel petto nudo, accanto allo scudo, e gli sciolse le membra.
Tonfo produsse cadendo; e poi Tèstore figlio di Ènope,
per secondo assalendolo – nel carro ben connesso
stava accucciato col cuore sconvolto -; e gli scapparono
le briglie dalle mani; con l’asta lo colse da presso
alla mascella destra, i denti trapassandogli,
lo sollevò con l’asta al di sopra della sbarra,
come fa un uomo su uno scoglio, che un pesce sacro
fuori dal mare tira con la lenza o col lucido bronzo;
così dal carro lo tirava con la lancia splendente,
a bocca aperta, sbattendolo al suolo; cadde e perse la vita.
Con un masso colpì Erilào che lo attaccava,
nel mezzo della testa; in due parti tutta si infranse
dentro l’elmo pesante, precipitò bocconi per terra,
e su di lui si diffuse la morte annientatrice.
Quindi Erimante e poi Amfòtero e poi Epalte
e poi Tlepòlemo Demostòride ed Echio e Piri,
Ífeo e poi Euippo e Polimèlo Argèade,

318
tutti li stese sulla terra nutrice di molti.
Come Sarpèdone vide i compagni senza cintura
domati dalle mani del figlio di Menètio,
si rivolse ai Lici pari agli dèi per rampognarli:
“Vergogna Lici, dove fuggite? Questo è il momento!
Ora quest’uomo io stesso affronterò; voglio sapere
chi è mai costui che domina, e che ha fatto molto male
ai Troiani, e a molti e valorosi ha sciolto i ginocchi”.
Disse così, e dal carro balzò a terra con le armi.
Dall’altra parte Patroclo, appena lo vide, balzò
dal carro; e simili a due avvoltoi adunchi artigli,
becco ricurvo, che rissano su alta rupe stridendo,
così gridando l’uno sull’altro si scagliarono.
Come li vide il figlio di Crono tortuosi pensieri,
li compianse, e ad Hera parlò, sorella e sposa:
“Ahimè, il più caro fra gli uomini, Sarpèdone, è destino
che cada sotto i colpi di Patroclo Menetìade.
Il cuore mio angosciato in due parti si divide:
se ancora vivo sottrarlo allo scontro lacrimoso
e nella fertile terra di Licia deporlo, o lasciare
che dalle mani del figlio di Menetio sia domato”.
E così gli rispose sovrana grandi occhi Hera:
“Figlio di Crono tremendissimo, che mai dicesti!
Uomo mortale, da tempo votato al suo destino,
tu vorresti liberarlo dalla morte crudele?
Fallo. Ma certo non tutti noi dèi ti approveremo.
Ma ti dirò altra cosa, e tu imprimila nella tua mente.
Se tu rimandi vivo Sarpèdone a casa sua,
bada che in seguito qualche altro dio non voglia
mettere in salvo suo figlio dalla mischia furibonda.
Molti combattono figli di immortali intorno alla grande
città di Priamo, in cui getterai tremendo sdegno.
Ma se colui ti è caro, e per lui il tuo cuore si affligge,
lascialo almeno morire nella mischia furibonda

319
sotto le mani di Patroclo, il figlio di Menetio;
quando però lo avrà lasciato il respiro e la vita,
manda la Morte e il Sonno profondo che lo portino,
e vadano nel ricco paese dell’ampia Licia,
dove fratelli e amici gli daranno sepoltura,
con una tomba e una stele; e questo è l’onore dei morti”.
Disse, e le diede ascolto il padre di uomini e dèi;
e gocce versò a terra sanguigne, onde onorare
il figlio suo, che Patroclo a Troia fertili zolle
stava per ammazzare, lontano dalla patria.
E come furono ormai vicini, entrambi avanzando,
ecco che allora Patroclo l’illustre Trasimèlo,
ch’era scudiero valente di Sarpèdone sovrano,
colpì con l’asta al basso ventre, e gli sciolse le membra.
Ma Sarpèdone sbagliò il colpo con l’asta splendente,
lui per secondo avventandosi; e ferì il cavallo Pèdaso
alla spalla destra con l’asta; ansimando nitrì;
cadde gemendo nella polvere, volò via la vita.
Gli altri due si ritrassero, stridette il giogo, si confusero
le briglie, poiché il terzo giaceva nella polvere.
Ma Automedonte famoso con l’asta trovò un rimedio:
la lunga spada estratta dalla coscia robusta, balzando
senza indugi, recise la fune al terzo cavallo:
gli altri si raddrizzarono e si tesero sotto le redini,
e di nuovo nella lotta mortale i due si trovarono.
Sbagliò Sarpèdone di nuovo il colpo con l’asta splendente,
corse la punta al di sopra della spalla sinistra di Patroclo,
ma non lo colse; per secondo si mosse col bronzo
Patroclo, e dalla mano partì il colpo non inutile:
colpì dove il diaframma serra il cuore palpitante.
E cadde come cade una quercia oppure un pioppo,
o un pino eccelso, che sui monti i falegnami
tagliano con le scuri affilate per farne una chiglia;
tale davanti ai cavalli e al carro giaceva disteso,

320
e rantolava stringendo la polvere insanguinata.
Come un leone, entrato nella mandria, uccide un toro
fulvo, animoso, in mezzo alle vacche dai passi ritorti,
e lui muore gemendo sotto le fauci del leone;
in pari modo il capo dei Lici astati, da Patroclo
ucciso, agonizzava, e chiamava il caro compagno:
“Glauco carissimo, bravo fra i bravi, adesso occorre
che lottatore di lancia tu sia e guerriero valente;
ora tremenda guerra si brami, se vali davvero.
Incita adesso per prima cosa i capi dei Lici,
andando dappertutto, a battersi per Sarpèdone;
quindi tu stesso per me devi batterti con l’asta di bronzo.
Vergogna e disonore per te sarò in futuro,
per tutti i giorni sempre, se gli Achei mi spoglieranno
delle armi, abbattuto nel campo delle navi.
Ma resisti con forza, e incita tutto l’esercito”.
Mentre ancora così parlava, la morte lo avvolse,
agli occhi e al naso; e Patroclo, calcando col piede sul petto,
dal corpo l’asta estrasse, e il diaframma la seguì:
e gli strappò al contempo la vita e la punta dell’asta.
Trattennero i Mirmìdoni i cavalli che ansimavano,
pronti a fuggire, lasciato il carro dei padroni.
Terribile dolore venne a Glauco, all’udire quel grido,
e il cuore si turbò, perché non poteva soccorrerlo.
Presolo con la mano, si premeva il braccio; dolore
gli dava la ferita, che Teucro gli inferse col dardo,
quando assaliva l’alto muro, stornando rovina
dai compagni; e, pregando, così disse ad Apollo arciere:
“Ascoltami, o sovrano che stai nella fertile Licia,
oppure a Troia; ma tu da ogni parte puoi ascoltare
un uomo nell’angoscia; sì, perché sono angosciato.
Ho questa piaga orrenda, e tutto intorno il braccio
da sofferenze acute è straziato, né a me il sangue
può ristagnarsi, e mi pesa la spalla grazie ad esso.

321
Non ce la faccio a tenere la lancia né a combattere,
se coi nemici mi scontro; è morto un uomo fortissimo,
Sarpèdone, che Zeus, che è suo padre, non soccorre.
Ma tu, sovrano, questa piaga orrenda guariscimi,
metti a tacere il mio strazio, dammi forza; ed io, chiamando
i miei compagni Lici, li esorterò a combattere,
ed io stesso mi batterò per il cadavere”.
Disse così pregando Glauco, e lo udì Febo Apollo;
subito fece cessare lo strazio, e alla piaga orrenda
il nero sangue fece stagnare, e gli infuse vigore.
Glauco allora comprese nel cuore e ne gioì,
che il grande dio aveva ascoltato lui che pregava.
Per prima cosa i comandanti dei Lici incitò,
andando dappertutto, a battersi per Sarpèdone;
quindi a gran passi andava a cercare fra i Troiani
Polidamante figlio di Pàntoo e Agenore splendido;
e anche da Enea si recò e da Ettore vestito di bronzo;
e stando a loro accanto, alate parole diceva:
“Ettore, adesso del tutto hai scordato gli alleati,
che lungi dagli amici e dalla patria a causa tua
consumano la vita; ma tu non intendi difenderli.
Giace Sarpèdone, il comandante dei Lici scudati,
che proteggeva con la giustizia e la forza la Licia:
l’ha domato con l’asta Ares bronzeo per mano di Patroclo.
Ma, cari, difendetelo, adiratevi nel cuore:
non lo disarmino, non ne oltraggino il cadavere
i Mirmìdoni, contrariati per i morti fra i Dànai,
che abbiamo ucciso presso le navi veloci con l’asta”.
Disse, e dolore colse i Troiani nel profondo,
indomabile intollerabile, perché un sostegno
era per la città, pur straniero; e molti uomini
lo seguivano, e lui era primo in battaglia; attaccarono
dritto con impeto i Dànai, ed Ettore li guidava,
sdegnato per Sarpèdone; ma gli Achei incoraggiava

322
di Patroclo Menetìade lo spigoloso cuore.
E si rivolse per primo ai due Aianti, pur bramosi:
“Aianti, proprio a voi sia caro adesso combattere,
quali eravate un tempo fra gli eroi, ma ancora più forti.
Giace colui che per primo balzò sul muro acheo,
Sarpèdone; potessimo impadronircene e oltraggiarlo,
strappargli dalle spalle le armi, e fra i compagni
qualcuno abbattare che lo difende col bronzo spietato”.
Disse, ma già da sé smaniavano di respingerli.
Dopo che ebbero serrate le file da enterambe le parti,
i Troiani e i Lici e i Mirmìdoni e gli Achei,
cozzarono l’un l’altro disputandosi il cadavere,
con urla terrificanti, e le armi strepitavano.
Notte funesta Zeus distese nella mischia suprema,
perché sul caro figlio pena funesta di scontro ci fosse.
Primi i Troiani respinsero gli Achei dagli occhi vivaci,
e fu colpito non certo il peggiore fra i Mirmìdoni,
del magnanimo Àgacle il figlio, lo splendido Epìgeo,
che regnava a Budèo, città ben abitata,
prima; ma, poi, ucciso un valente cugino, era andato
da Pèleo come supplice e da Teti piedi d’argento.
E lo mandarono al seguito di Achille ammazzauomini
alla volta di Ilio bei puledri contro i Troiani.
Mentre toccava il cadavere lo colpì lo splendido Ettore,
in testa con un masso; e in due parti si spaccò
all’interno del solido elmo; e sul cadavere
cadde bocconi, lo avvolse la morte annientatrice.
Giunse dolore a Patroclo per il compagno caduto,
e in prima fila fece un balzo, simile a un falco
celere, che cornacchie e stornelli mette in fuga;
tale facesti un balzo, Patroclo cavaliere,
sui Lici e sui Troiani, adirato per il compagno.
E colpì Stenelào, di Itèmone il caro figlio,
al collo con un masso, e i tendini gli infranse.

323
Indietreggiarono le prime file e lo splendido Ettore.
E quanto il tiro si stende di un giavellotto lungo,
che un uomo lancia per provarsi in una gara
oppure in guerra, sotto i nemici annientatori,
tanto i Troiani si ritrassero, e gli Achei li respinsero.
Per primo Glauco, comandante dei Lici astati,
si rigirò, e tolse di mezzo il magnanimo Bàticle,
il figlio di Calcone, che in Ellade abitava,
e spiccava per fasto e per ricchezza fra i Mirmìdoni.
Glauco nel mezzo del petto lo percosse con la lancia,
voltosi all’improvviso, quando lui lo afferrava inseguendolo;
tonfo produsse cadendo, fitta pena per gli Achei:
morto era un prode, ma gioirono molto i Troiani;
e gli si misero intorno compatti; ma gli Achei
la forza non scordarono, dritto tesero il loro vigore.
E Merìone uccise un combattente troiano,
Laògono, di Onètor forte figlio, che sacerdote
era di Zeus Idèo, come un dio onorato dal popolo.
Tra la mascella e l’orecchio lo colpì; e la vita subito
si dileguò dalle membra, lo prese il buio odioso.
Enea contro Merìone scagliò la sua lancia di bronzo,
sperava di colpirlo sotto lo scudo mentre avanzava,
ma lui, guardando di fronte, schivò la lancia di bronzo,
e si chinò in avanti; alle spalle l’asta lunga
al suolo si piantò, e vibrava sulla punta;
Ares violento alla fine ne spense la veemenza.
L’arma di Enea, vibrando, finì a terra, dal momento
che dalla mano robusta era inutilmente partita.
Si incollerì nel cuore Enea, e così disse:
“Merìone, celermente, pur essendo un ballerino,
per sempre smettere ti facevo, se ti colpivo”.
E così gli rispose Merìone famoso con l’asta:
“Enea, per quanto tu sia forte, è certo difficile
di tutti gli uomini spegnere il vigore, chiunque di fronte

324
venga a combattere; perché anche tu sei nato mortale.
Se riusirò a colpirti al centro col bronzo acuto,
subito, pur possente e fiducioso nelle braccia,
mi darai gloria, e l’anima all’Ade famosi puledri”.
Disse, ma il forte figlio di Menetio lo rampognò:
“Merìone, perché parli così, pur valoroso?
Caro, non certo parole oltraggiose terranno lontani
i Troiani dal morto; ne avrà prima qualcuno la terra.
Sta nella braccia la guerra e nelle parole il consiglio.
E non ci servono adesso parole, ma solo combattere”.
Detto così, precedeva, e l’altro dietro pari a un dio.
Come si leva il fracasso dei tagliatori di querce,
nelle gole del monte, e lontano giunge il suono,
tale il frastuono dall’ampia terra si levava
del bronzo, delle pelli di bue ben lavorate,
colpiti dalle spade e dalle lance a doppia punta.
Neppure un uomo accorto poteva riconoscere
lo splendido Sarpèdone, di dardi di sangue di polvere
del tutto ricoperto dalla testa alla punta dei piedi.
Sempre intorno al cadavere si accalcavano, come le mosche
ronzano intorno ai vasi di latte nella stalla,
in primavera, quando i secchi di latte traboccano;
in pari modo si accalcavano attorno al cadavere,
né dallo scontro supremo distese Zeus gli occhi lucenti,
ma sempre a loro guardava e nel cuore rifletteva,
molto dubbioso riguardo all’uccisione di Patroclo,
se dovesse lo splendido Ettore, nello scontro supremo,
uccidere anche lui su Sarpèdone pari a un dio
col bronzo, e dalle spalle dovesse strappargli le armi,
o se dovesse affliggere ancora aspramente più uomini.
E riflettendo, gli parve meglio fare così:
che il valoroso scudiero di Achille figlio di Pèleo
i Troiani ancora ed Ettore armato di bronzo
respingesse alla rocca, e a molti togliesse la vita.

325
E ad Ettore per primo infuse un cuore imbelle:
salì sul carro e si mise a fuggire, e gli altri a fuggire
incitava: conobbe la sacra bilancia di Zeus.
Neppure i forti Lici resistevano, ma fuggivano
tutti, al vedere il loro re colpito al cuore
giacere in mezzo ai cadaveri; perché molti su di lui
caddero, quando il Cronìde suscitò la contesa suprema.
Tolsero dalle spalle di Sarpèdone le armi
bronzee risplendenti, e le diede da portare
alle concave navi il forte figlio di Menetio.
E si rivolse ad Apollo Zeus che aduna le nubi:
“Adesso, caro Febo, vieni e netta il nero sangue,
metti Sarpèdone fuori tiro, e poi lontano
portalo, lungi, e lavalo nelle correnti del fiume,
e ungilo di ambrosia, e di vesti immortali rivestilo.
Ad accompagnatori veloci che lo portino
consegnalo, ai gemelli Sonno e Morte, i quali subito
lo deporranno nel ricco paese dell’ampia Licia,
dove parenti e amici gli daranno sepoltura,
con una tomba e una stele; e questo è l’onore dei morti”.
Disse, ed Apollo non certo disobbedì a suo padre:
scese dai monti dell’Ida verso l’orrido conflitto.
Subito mise lo splendido Sarpèdone fuori tiro,
lo portò lungi a lavarlo nelle correnti del fiume,
e lo unse d’ambrosia, lo vestì di vesti immortali.
Ad accompagnatori veloci che lo portassero
lo consegnò, ai gemelli Sonno e Morte, i quali subito
lo deposero nel ricco paese dell’ampia Licia.
E Patroclo, spronati i cavalli e Automedonte,
inseguiva Troiani e Lici; e fu accecato,
sciocco! Se avesse seguito il consiglio del Pelide,
certo sarebbe sfuggito al nero destino di morte.
Ma la mente di Zeus che porta l’ègida è sempre più forte:
mette in fuga anche il prode e gli strappa via la vittoria

326
agevolmente, e altra volta lo spinge egli stesso a combattere.
E anche allora gli accese il cuore dentro al petto.
E chi per primo, chi per ultimo uccidesti,
Patroclo, quando gli dèi alla morte ti chiamarono?
Primo fu Adrasto e poi Autònoo e poi fu Ècheclo,
Pèrimo figlio di Mega, e poi Mulio e Pilarte;
questi li uccise, e tutti gli altri si volsero in fuga.
Troia alte porte allora prendevano gli Achei,
sotto le mani di Patroclo – con l’asta imperversava -,
se Febo Apollo sulla torre ben edificata
non si piantava, meditandogli morte e aiutando i Troiani.
Tre volte su un appiglio si gettò dell’alto muro
Patroclo, e indietro lo respinse tre volte Apollo
con le sue mani immortali, lo scudo fulgente colpendo.
Ma quando pari a un demone per la quarta volta si spinse,
tremendamente gridando alate parole diceva:
“Indietro, Patroclo nato da Zeus! Non è destino
che la città dei Troiani superbi cada per la tua lancia,
né per quella di Achille, che di te è di molto più forte.”.
Disse così, e Patroclo retrocesse molto indietro,
l’ira schivando di Apollo che scaglia da lontano.
Ettore tratteneva alle porte Scee i cavalli
solidi zoccoli, incerto se combattere, spingendoli
nella mischia, o serrare l’esercito dentro le mura.
Mentre così rifletteva, gli si accostò Febo Apollo,
rassomigliando a un uomo gagliardo e forte, ad Asio,
zio materno di Ettore, domatore di cavalli,
ch’era fratello di Ecuba e figlio di Dimante,
ed abitava in Frigia, lungo il flusso del Sangario.
E a lui rassomigliando, così di Zeus gli disse il figlio:
“Ettore, perché mai desisti? Tu non devi!
Oh se di quanto lo sono di meno, di te fossi più forte!
Non certo odiosamente avresti lasciato la guerra!
Spingi, suvvia, i cavalli unghie solide contro Patroclo,

327
se tu riuscissi ad ucciderlo e ti desse gloria Apollo!”
Disse così, e il dio ritornò nel cimento degli uomini.
Ettore splendido diede ordine al prode Cebrìone
di sferzare i cavalli allo scontro; e intanto Apollo
si immerse nella mischia e scombinìo agli Argivi
orrendo infuse, e ai Troiani e ad Ettore diede gloria.
Ettore gli altri Dànai lasciava, non li uccideva,
ma dirigeva i cavalli unghie solide contro Patroclo.
Dall’altra parte Patroclo dal carro balzò a terra,
l’asta brandendo nella sinistra, e con l’altra una pietra
lucida ruvida prese, avvolta tutta nella mano,
e la scagliò con impeto, né si scansò dall’uomo,
né sbagliò il colpo, ma l’auriga di Ettore colse,
Cebrìone, figlio bastardo di Priamo glorioso,
che gli teneva le briglie, col masso aguzzo sulla fronte.
La pietra ruppe entrambi i sopraccigli, né gli resse
l’osso, e gli caddero gli occhi per terra nella polvere,
davanti ai piedi. E quello, sembrando un tuffatore,
precipitò dal bel carro, la vita lasciò le sue ossa.
E così lo schernisti, o Patroclo cavaliere:
“Ah come agile è l’uomo, come sa fare bene l’acrobata!
Certo davvero che se si trovasse nel mare pescoso,
molti costui ne sazierebbe pescando ostriche,
facendo tuffi dalla nave, anche in mare agitato,
come adesso in pianura dai cavalli fa l’acrobata.
Allora c’è anche a Troia chi sa fare acobazie!”
Disse, e verso l’eroe Cebrìone s’era già mosso,
col piglio di un leone, che devastando la stalla,
viene colpito al petto, la sua forza stessa lo uccide.
Con pari piglio, Patroclo, su Cebrìone ti avventasti.
Dall’altra parte Ettore balzò dal carro con le armi;
e per Cebrìone lottavano, somigliando a due leoni,
che sulla cima di un monte, per una cerva uccisa,
entrambi spinti dalla fame, superbi si affrontano;

328
in pari modo per Cebrìone due datori di guerra,
Patroclo figlio di Menetio e lo splendido Ettore,
bramavano tagliarsi il corpo col bronzo spietato.
Ettore per la testa lo afferrò, non lo lasciava;
Patroclo per un piede lo teneva; e pure gli altri
Troiani e Dànai mischia ingaggiavano suprema.
E alla maniera che Euro e Noto fra di loro gareggiano
tra le gole dei monti a squassare profonda foresta,
fatta di querce di frassini e di cornioli cortecce sottili,
che i lunghi rami tra di loro si scagliano addosso,
con frastuono immenso dei rami che si schiantano;
in pari modo Troiani ed Achei, l’un l’altro avventandosi,
uccidevano, né alcuno pensava alla fuga funesta.
Molte lance acute si piantavano intorno a Cebrìone,
e molte frecce alate, guizzando via dagli archi;
e molte grandi pietre colpivano gli scudi
dei combattenti per lui, che in vortice di polvere
giaceva, grande per grande tratto, di ogni cosa dimentico.
Sino a quando il sole ascendeva nel cielo, fioccavano
da ambo le parti i dardi e cadevano i guerrieri.
Ma quando il sole calò, all'ora di sciogliere i buoi,
di gran lunga più forti risultavano gli Achei.
Trascinarono fuori di tiro l’eroe Cebrìone
dalla mischia troiana e lo spogliarono delle armi.
Patroclo sui Troiani si avventò, meditando rovina.
Per tre volte li assalì, pari ad Ares ardente,
terribilmente gridando, per tre volte ben nove ne uccise.
Ma quando per la quarta volta balzò come un dio,
ecco che, Patroclo, della tua vita apparve la fine.
Febo gli venne incontro nella mischia furibonda,
tremendo. Lui però nel tumulto non lo vide,
dentro fitta nebbia ravvolto incontro gli venne.
Dietro gli stette, alla schiena lo colpì e alle ampie spalle
con la mano distesa, e gli si rigirarono gli occhi.

329
L'elmo gettò per terra dalla testa Febo Apollo,
ed esso, rotolando, fece strepito sotto gli zoccoli,
l'elmo con la visiera, e i pennacchi di sangue e di polvere
si imbrattarono. Prima di allora non era possibile
che si imbrattasse quell'elmo chiomato nella polvere,
ma capo e fronte bellissima di un uomo divino, di Achille,
proteggeva. E Zeus ad Ettore allora lo diede
da portare sul capo, ma gli era vicina la morte.
Tutta la lancia, lunga ombra, nelle mani si infranse,
greve grande robusta appuntita; e dalle spalle
cadde per terra lo scudo, guarnito di cinghia di cuoio;
la corazza gli sciolse Apollo re, il figlio di Zeus.
Fu preso da vertigine, le splendide membra si sciolsero.
Attonito ristette, e da dietro con l’asta affilata
gli colpì la schiena fra le spalle da presso un Dàrdano,
Euforbo, figlio di Pàntoo, che fra i coetanei spiccava
per l’asta, per i cavalli e per i piedi veloci,
e già ben venti uomini aveva gettato dal carro,
quando, giungendo la prima volta, apprese a combattere.
Questo fu il primo a colpirti, o Patroclo cavaliere.
Non ti abbatté, ma corse via e si mischiò nella calca,
l’asta di frassino estratta dal corpo. Non seppe affrontare
Patroclo, nonostante disarmato, nella carneficina.
Patroclo allora, colpito dalla mano del dio e dalla lancia,
indietreggiò nel gruppo dei compagni, schivando la morte.
Ettore subito, appena che vide il magnanimo Patroclo
indietreggiare, perché ferito dal bronzo acuto,
gli si appressò attraverso le file, e con la lancia
lo colpì al basso ventre, lo passò parte a parte col bronzo.
Tonfo produsse cadendo, e straziò il cuore degli Achei.
Come quando un leone vince in scontro un cinghiale instancabile-
-sulle pendici di un monte tutti e due, superbi, combattono
per una polla d’acqua, entrambi vogliono bere-,
con la sua forza il leone abbatte il cinghiale che ansima,

330
così al superbo figlio di Menetio, di tanti uccisore,
Ettore, figlio di Priamo, strappò con la lancia la vita.
E a lui, menando vanto, alate parole diceva:
"Patroclo, tu credevi di abbattere la mia città,
di strappare alle donne troiane il libero giorno
e di portarle sulle navi nella tua patria terra.
Sciocco! In loro difesa i cavalli veloci di Ettore
per lo scontro si tendono sugli zoccoli, ed io con la lancia
sui Troiani intrepidi eccello e così li preservo
dal dì fatale. Qui te gli avvoltoi divoreranno.
Matto! Achille, per quanto egli valga, non ti ha avvantaggiato,
lui che, restando, chissà quante cose ti deve aver detto:
"Non mi tornare indietro, Patroclo cavaliere,
presso le navi, prima di aver lacerato la veste
insanguinata di Ettore massacratore sul petto."
Questo ti ha detto, e tu, stolto quale sei, ti sei fatto convincere."
E tu, perdendo forze, gli dicesti, Patroclo cavaliere:
"Ettore, vantati pure adesso. Ma a darti vittoria
fu Zeus, figlio di Crono, e Apollo, che mi hanno domato
agevolmente. Le armi mi hanno tolto dalle spalle.
Se mi avessero venti uomini pari a te affrontato,
tutti, domati dalla mia lancia, sarebbero morti.
Ma la Moira funesta e il figlio di Letò mi hanno ucciso,
e fra gli uomini Euforbo. Tu terzo sei giunto a spogliarmi.
Ma altro ti dirò, e tu imprimilo nella tua mente:
neanche per te c'è da vivere molto, perché oramai
morte ti sta vicina e destino crudele, domato
dall'irreprensibile Achille, nipote di Èaco".
Mentre ancora così parlava, la morte lo avvolse.
L'anima dalle membra volando discese nell'Ade,
la sorte sua piangendo, lasciando forza e giovinezza.
E a lui ch'era già morto diceva lo splendido Ettore:
"Patroclo, ma perché mi predici l'abisso di morte?
Chissà se Achille, il figlio di Teti bella chioma,

331
dalla mia lancia colpito, nella morte non debba precedermi."
Disse, e la lancia di bronzo strappò dalla ferita,
premendo il piede, e spinse il corpo al suolo supino.
Subito con la lancia si mosse su Automedonte,
scudiero pari a un dio dell’Eàcide veloce,
pronto a colpirlo, ma lo portavano i cavalli veloci
immortali, splendido dono degli dèi al Pelide.

332
LIBRO XVII

Il combattimento intorno al cadavere di Patroclo.

Intorno al cadavere di Patroclo si accende una mischia selvaggia fra le due parti per
il suo possesso, le cui fasi alterne si concludono alla fine dell’interminabile giornata,
col ritorno di Achille. Menelao fa la guardia alla salma e uccide Eufrobo, il primo a
colpire Patroclo. Ma Menelao è costretto a ritirarsi, perché sopraffatto da Ettore e
dai Troiani. Cerca allora Aiante, al fine di organizzare con lui una difesa adeguata
del cadavere, il quale corre il rischio di essere oltraggiato. Nel frattempo Ettore
indossa le armi di Achille, rivestendosi inconsapevolmente della propria morte,
cosa che Zeus, che sta osservando dall’alto, sa perfettamente. Il dio inoltre riversa
una fitta nebbia sul campo, quasi ad indicare l’aspetto disperato della lotta. I cavalli
immortali di Achille, donati dagli dèi a suo padre Pèleo il giorno delle nozze con la
dea Teti, rimpiangono a calde lacrime Patroclo, il loro gentile auriga, e si rifiutano
di tirare il carro. Rimasti sotto la guida del nuovo auriga, Automedonte, scudiero di
Patroclo, restano pertanto immobili, in preda al pianto e allo sconforto. Ma Zeus
dal cielo li compiange, emettendo una sentenza negativa sulla condizione del genere
umano. Ai cavalli restituirà vigore ed essi riporteranno il loro auriga alle navi.
Aiante Telamonio si rende conto che Zeus si accanisce contro gli Achei, e prega il
dio di volere almeno dissipare la nebbia, se è destino che devono tutti morire.
Zeus, impietosito, accoglie la sua preghiera, e lo scontro torna a svolgersi nella luce.
Aiante allora può mandare Antìloco, figlio di Nestore, da Achille, perché gli riporti
la notizia. Ma, per fare questo, è costretto a dare incarico a Menelao di informarlo.
Menelao parte alla ricerca di Antìloco, che si trova lontano dal cadavere, ma subito
ritorna, per non lasciare solo Aiante. Quest’ultimo poi propone un piano, al fine di
strappare la salma ai Troiani. Menelao e Merìone solleveranno il cadavere, e i due
Aianti copriranno la loro ritirata.

333
Non sfuggì a Menelao caro ad Ares, figlio di Àtreo,
Patroclo ucciso nella mischia dai Troiani.
Si mosse in prima fila rivestito di bronzo splendente,
e gli girava attorno come vacca attorno al vitello,
primipara, in lamento, inesperta ancora di figli;
tale girava il biondo Menelao intorno a Patroclo.
E l’asta protendeva dinanzi e lo scudo rotondo,
bramoso di ammazzare chiunque lo affrontasse.
Ma neanche il figlio di Pàntoo, lancia di frassino, si scordò
di Patroclo irreprensibile caduto; accanto a lui
stette, e così si rivolse a Menelao caro ad Ares:
“Atride Menelao divino, capo di popoli,
arretra, lascia il morto e le spoglie insanguinate!
Nessuno dei Troiani e dei nobili alleati
prima Patroclo con l’asta ha colpito nella mischia suprema;
lascia ch’io dunque riporti bella gloria fra i Troiani;
tranne che io non ti colga e ti strappi la vita dolcissima”.
E a lui, molto turbato, disse il biondo Menelao:
“Padre Zeus, non è bello pavoneggiarsi in eccesso.
Furia non c’è né di pantera né di leone
né di cinghiale, pensiero funesto, che più di tutti
cuore grandissimo ha in petto e della sua forza si gloria,
quanto quella dei figli di Pàntoo lancia di frassino.
Eppure neanche Iperènor domatore di cavalli
trasse vantaggio dalla sua giovinezza, dopo avermi affrontato,
e mi diceva che ero il guerriero peggiore dei Dànai.
Non penso sia tornato a casa coi suoi piedi
a rallegrare la moglie e gli eletti genitori.
Ed anche il tuo vigore scioglierò, se mi starai
di fronte; ma piuttosto di arretrare ti consiglio,
di ritirarti nel gruppo, di non starmi qui davanti,
prima che danno ti colga; l’accaduto lo sa anche lo sciocco”.
Disse ma non lo convinse, e a sua volta gli diceva:
“Ora, divino Menelao, mi pagherai

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di mio fratello, che uccidesti, e meni vanto
di aver creato una vedova nel cuore del talamo nuovo,
e hai dato pianto e dolore tremendo ai genitori.
Ma tregua diverrei al pianto di quegli infelici,
se, presa la tua testa e le armi, le porrò
di Pàntoo nelle mani e della splendida Fròntide.
Ma non più a lungo intentata rimarrà questa fatica
né senza prova, per la vittoria o per la fuga”.
Com’ebbe così detto, colpì lo scudo rotondo;
ma il bronzo non lo ruppe, gli si piegò la punta
nello scudo possente; per secondo si mosse col bronzo
l’Atride Menelao, dopo aver supplicato Zeus padre;
mentre arretrava, lo colse nel fondo della gola,
e fece forza, in tutta la mano possente fidando;
attraverso il morbido collo si spinse la punta.
Tonfo produsse cadendo, risuonò su di lui l’armatura,
di sangue si imbrattarono, pari a quelle delle Càriti,
le chiome, e i riccioli che fibbie d’oro e d’argento allacciavano.
E come un uomo coltiva una pianta fiorente d’ulivo,
in luogo solitario, dove c’è abbondanza d’acqua,
albero bello e rigoglioso, e la scuotono i soffi
di venti di ogni sorta, e tutta di fiori biancheggia;
ma un vento all’improvviso giungendo con gran turbine
la svelle dalla base e la distende al suolo;
in pari modo Euforbo lancia di frassino, figlio di Pàntoo,
l’Atride Menelao lo uccise e gli tolse le armi.
Come leone nutrito sui monti, baldanzoso,
rapisce di una mandria pascolante la vacca migliore;
prima la afferra coi denti robusti e le spezza il collo,
subito dopo il sangue e le viscere tutte le succhia,
mentre la sbrana, e cani e mandriani intorno a lui
gridano molto, ma discosti, non hanno il coraggio
di affrontarlo, sono afferrati da verde terrore;
in pari modo a nessuno il cuore dentro al petto

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il glorioso Menelao ardiva affrontare.
E facilmente le armi illustri del figlio di Pàntoo
l’Atride avrebbe preso, se con lui non si fosse sdegnato
Febo Apollo, che Ettore pari ad Ares violento gli spinse
contro, rassomigliando a Mente, capo dei Cìconi.
E, rivolgendosi a lui, alate parole diceva:
“Ettore, adesso tu corri inseguendo l’irraggiungibile:
i cavalli dell’Eàcide fiero; ma sono difficili
da domare per gli uomini mortali e da guidare,
tranne che per Achille, generato da madre immortale.
Frattanto Menelao, il figlio di Àtreo guerriero,
accanto a Patroclo, ha ucciso il migliore dei Troiani,
Euforbo figlio di Pàntoo, gli ha spento l’ardente vigore”.
Disse così, e il dio ritornò nel cimento degli uomini.
Cupo dolore si avvolse intorno al nero cuore
di Ettore; guardò in giro fra i ranghi, e riconobbe
colui che le armi elette toglieva, e l’altro a terra
disteso; il sangue dalla ferita aperta scorreva.
Si mosse in prima fila, rivestito di bronzo splendente,
levando acute grida, somigliante al fuoco di Efesto
inestinguibile; e il grido acuto non sfuggì all’Atride;
e così disse, turbato, al suo magnanimo cuore:
“Ahimè, se queste armi bellissime abbandono,
e Patroclo, che giace a motivo del mio onore,
chiunque sia che mi veda dei Dànai mi biasimerà.
Ma se combatto da solo contro Ettore e contro i Troiani
per senso di vergogna, temo di essere accerchiato,
uno da molti. Tutti li guida Ettore elmo che splende.
Quando un uomo vuole combattere contro il destino
con chi è onorato da un dio, presto in grande sventura precipita.
Perciò nessuno dei Dànai mi biasimerà, se mi vede
da Ettore arretrare: lui combatte sospinto da un dio.
Ma che cos’è mai questo che va ragionando il mio cuore?
Se almeno udissi il grido di Aiante valoroso,

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andando entrambi insieme, potremmo ingaggiare il conflitto,
e, pur contro il destino, il cadavere riportare
ad Achille figlio di Pèleo: il minore dei mali”.
Mentre così ondeggiava nell’animo e nel cuore,
gli giunsero le schiere troiane, guidate da Ettore.
Indietreggiava Menelao, lasciava il cadavere,
sempre voltandosi indietro, come leone folta chioma,
che cani e uomini cercano di cacciare dalla stalla
con lance e grida, e il fiero cuore di lui dentro al petto
si gela, e contrariato si allontana dal recinto;
così da Patroclo il biondo Menelao si allontanava.
Si fermò e si voltò, come giunse in mezzo al gruppo
dei suoi compagni, cercando il grande Aiante Telamonio.
E subito lo scorse sulla sinistra dello scontro,
che incoraggiava i compagni e li incitava a combattere:
raccapricciante terrore gettò in loro Febo Apollo.
Si mise a correre, lo raggiunse e così disse:
“Aiante caro, vien qua. Per Patroclo caduto
adoperiamoci: dobbiamo portare ad Achille il cadavere
nudo; le armi le tiene Ettore elmo che splende”.
Disse, e il cuore sovreccitò di Aiante sagace;
si mosse in prima fila, col biondo Menelao.
Ettore, tolte a Patroclo le armi elette, lo trascinava
per strappargli col bronzo acuto dalle spalle la testa,
e, sottratto il cadavere, gettarlo alle cagne troiane.
Aias gli venne vicino con lo scudo simile a torre;
Ettore allora arretrò nel gruppo dei compagni,
balzò dal carro ed affidava le armi bellissime
ai Troiani da portare in città, grande gloria per lui.
Aias col grande scudo avvolse il Menetìade,
e ristette, simile a un leone in mezzo ai cuccioli,
che mentre guida i piccoli nella foresta, si imbatte
in cacciatori; e lui della propria forza va fiero,
tutta la fronte corruga, celando entrambi gli occhi;

337
in pari modo Aiante l’eroe Patroclo soccorreva.
Dall’altra parte il figlio di Àtreo, Menelao caro ad Ares,
ristette, grande angoscia accrescendo dentro al petto.
Glauco figlio di Ippòloco, capo dei Lici, con dure parole
Ettore allora rampognò, di sbieco guardandolo:
“Ettore, eccelli in bellezza, ma sei molto al di sotto in battaglia,
e perciò grande gloria consegui ma sei pronto alla fuga.
Ora rifletti come salverai la città e la rocca
da solo, assieme agli uomini che sono nati ad Ilio.
Dei Lici più nessuno a combattere coi Dànai
andrà in difesa della città; non c’è gratitudine
per chi combatte sempre, senza sosta, coi nemici.
Come un guerriero inferiore salveresti dalla mischia,
tu sciagurato, che un ospite e assieme un compagno, Sarpèdone,
abbandonasti, che fosse preda agli Argivi e bottino?
Era di grande aiuto alla città e a te stesso, da vivo;
da morto, non ardisti tenergli i cani lontani.
E adesso se c’è un Licio che sia disposto ad obbedirmi,
torniamo a casa, ai Troiani si aprirà l’abisso di morte.
E se ci fosse nei Troiani l’ardore potente,
senza paura, quale è quello che possiedono
gli uomini pronti a lottare coi nemici per la patria,
Patroclo subito sottrarremmo sin dentro a Troia.
E se costui arrivasse alla città di Priamo sovrano,
morto, e lo trascinassimo lontano dalla mischia,
subito le armi belle di Sarpèdone gli Argivi
ci ridarebbero, e lui lo porteremmo ad Ilio.
Di tale uomo è morto lo scudiero, tra gli Argivi
primo assoluto presso le navi, coi forti scudieri!
Tu però non ardisti affrontare il magnanimo Aiante,
né guardarlo negli occhi nella calca dei nemici,
né misurarti con lui, perché di te è più forte”.
E, di sbieco guardandolo, rispose Ettore elmo che splende:
“Glauco, perché quale sei, mi hai parlato con tanta insolenza?

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Ahimè, credevo che fossi superiore a tutti gli altri,
a quanti abitano nella Licia fertili zolle.
Ma ora biasimo il tuo pensiero, per quanto hai detto,
che in grado non sarei l’immenso Aiante di affrontare.
Non tremo alla battaglia né allo strerpito dei cavalli;
ma la mente di Zeus che porta l’ègida è sempre più forte:
mette in fuga anche il prode e gli strappa via la vittoria
agevolmente, e altre volte lo spinge egli stesso a combattere.
Vienmi vicino, mio caro, stammi accanto e osserva i fatti,
se tutto il giorno un vigliacco sarò, come tu dici,
o se a qualcuno dei Dànai, pur smanioso di scontrarsi,
impedirò di combattere intorno al morto Patroclo”.
Disse così, e incitò i Troiani, forte gridando:
“O Troiani e Lici e Dàrdani guerrieri,
siate uomini, amici, rammentate l’ardente vigore,
sino a ch’io vesta le armi di Achille irreprensibile,
belle, che a forza ho strappate a Patroclo, uccidendolo”.
Disse, e se ne andò via Ettore elmo che splende,
fuori dall’arduo scontro, e di corsa raggiunse i compagni,
presto, non lontano, coi suoi rapidi piedi inseguendo:
le armi elette del figlio di Pèleo alla rocca portavano.
E lungi dallo scontro lacrimoso le armi cambiava,
e consegnò le sue da portare a Ilio sacra
ai bellicosi Troiani, e lui vestiva le armi immortali
del Pelide Achille, che gli dèi che stanno in cielo
donarono a suo padre, e lui le diede a suo figlio,
vecchio, ma il figlio non invecchiò nelle armi del padre.
E in disparte lo vide Zeus che aduna le nubi
armarsi con le armi di Achille Pelide divino,
e, scuotendo la testa, così parlò al proprio cuore:
“Infelice, non percepisci nel cuore la morte,
che ormai ti sta vicina! Tu indossi le armi immortali
di un uomo forte, del quale anche gli altri hanno paura;
gli hai ucciso il compagno gentile e valoroso,

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strappandogli le armi dal capo e dalle spalle,
senza riguardo; ma adesso grande forza ti concederò,
come compenso del fatto che, tornando dallo scontro,
Andromaca le armi del Pelide non avrà”.
Disse, e accennò coi neri sopraccigli il figlio di Crono,
e adattò le armi al corpo di Ettore; Ares
tremendo battagliero penetrò, e di ardore e di forza
le membra si riempirono, e fra gli eletti alleati
forte gridando si mosse; e apparve a tutti loro
splendente nelle armi del figlio di Pèleo magnanimo.
E andando incoraggiava ciascuno con parole:
Mestle esortava e Glauco e Medonte e poi Tersìloco,
Asteropèo e poi Disènor e poi Ippòtoo;
Forci, Cromio, Èunomo interprete di uccelli,
e tutti incoraggiandoli, alate parole diceva:
“Ascoltatemi, stirpi infinite dei nostri alleati,
non certo bisognoso della folla o in cerca di essa,
vi ho radunati tutti, ciascuno del suo popolo,
ma perché dei Troiani le consorti e i figli piccini
difendiate di tutto cuore dagli Achei bellicosi.
Con doni e con il cibo consumo in questo modo
il popolo, ed accresco il coraggio di ognuno di voi.
Pertanto ognuno dritto deve volgersi contro il nemico,
o per morire o per salvarsi: è l’incontro di guerra.
Ma chi, per quanto morto, porterà Patroclo fra i Troiani,
domatori di cavalli, e Aiante gli ceda,
io gli darò metà delle spoglie, e l’altra metà
me la terrò; e la gloria sia per lui quanto la mia”.
Disse così, e diritto sui Dànai si gettarono,
le lance protendendo; speravano nel cuore
di strappare il cadavere ad Aiante Telamonio,
stolti; davvero a molti su quel corpo egli tolse la vita.
Aias parlò a Menelao possente nel grido di guerra:
“Mio caro, Menelao, nutrito da Zeus, più non spero

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che neppure noi due scamperemo dal conflitto.
Non temo tanto per il cadavere di Patroclo,
che dei Troiani i cani e gli uccelli sazierà,
quanto per la mia testa io temo, che danno subisca,
e per la tua: una nube di guerra ogni cosa ravvolge,
Ettore intendo; ma a noi si spalanca l’abisso di morte.
Ma adesso convoca i primi dei Dànai, se ti sentono”.
Disse, e obbedì Menelao possente nel grido di guerra,
e gridò penetrante, che i Dànai lo sentissero:
“Amici miei, consiglieri e capi degli Argivi,
che accanto ai figli di Àtreo, Agamemnon e Menelao,
bevete a spese pubbliche ed esercitate il comando
sul popolo, e perviene da Zeus a voi gloria e onore,
difficile mi resta distinguere ciascuno
di voi capi, a tal punto contesa di guerra divampa.
Ma venga ognuno da sé e si indigni nel suo cuore
che Patroclo divenga ludibrio alle cagne troiane”.
Disse, e il veloce Aiante di Oilèo chiaramente lo udì,
e primo giunse diritto di corsa nella carneficina;
poi Idomèneo e lo scudiero di Idomèneo,
Merìone, pari ad Ares sterminatore di uomini.
E chi direbbe i nomi degli altri nel suo cuore,
di quanti Achei dopo questi ridestarono lo scontro?
I Troiani si volsero in gruppo, guidati da Ettore,
e come sulla foce di un fiume ingrossato da Zeus
strepita l’onda contro corrente, e intorno mugghiano
le rive dirupate, mentre il mare al largo urla;
con tale grido i Troiani procedevano; ma gli Achei
intorno al Menetìade ristettero con unico cuore,
serrati negli scudi di bronzo; intorno a loro
sugli elmi risplendenti il Cronìde fitta nebbia
versò; neppure prima aveva odiato il Menetìade,
quando era vivo ed era scudiero dell’Eàcide;
e detestò che preda divenisse di cagne nemiche

341
troiane; ed incitò pertanto i compagni a difenderlo.
Primi i Troiani respinsero gli Achei dagli occhi vivaci:
fuggirono e lasciarono il morto; ma i fieri Troiani
con le lance nessuno colpirono, pur bramandolo,
ma il morto trascinarono; e solo per poco gli Achei
dovevano astenersene: li fece rivoltare
Aias, che per aspetto e per imprese su tutti gli altri
Dànai eccelleva, dopo il Pelide irreprensibile.
Dritto si mosse fra i primi, somigliando ad un cinghiale,
forte, che cani e giovani fiorenti sopra i monti
agevolmente disperde, rivoltandosi per gli anfratti;
tale il figlio del nobile Telamone, Aiante splendido,
agevolmente, assalendole, disperse le schiere troiane,
ch’erano accorse intorno a Patroclo; e molto aspiravano
a trascinarlo sino in città e riceverne gloria.
Allora Ippòtoo, lo splendido figlio di Leto Pelasgo,
per un piede lo trascinava nella mischia suprema,
con una cinghia legatolo alla caviglia attorno ai tendini,
per compiacere Ettore e i Troiani; ma assai presto
gli giunse il male, e nessuno lo stornò, pur desiderandolo.
Si scagliò su di lui il Telamonio nella mischia,
e lo colpì da vicino sull’elmo dalla guancia di bronzo;
cedette l’elmo equino intorno alla punta dell’asta,
dalla grande lancia colpito e dalla mano robusta,
e colò via il cervello lungo l’asta dalla ferita,
sanguinolento, il vigore gli si sciolse e dalle mani
lasciò cadere il piede di Patroclo magnanimo
a terra; cadde quindi supino sul cadavere,
ben lungi da Larissa fertili zolle; né ai genitori
rese il compenso alle cure; la sua vita fu brevissima,
dalla lancia di Aiante magnanimo domato.
Ettore contro Aiante scagliò la lancia splendente,
ma lui, guardando davanti, schivò la lancia di bronzo,
appena; e colpì Schèdio, il figlio del magnanimo

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Ífito, il primo dei Focesi, che abitava
a Panopèo famosa, e regnava su molti uomini.
Alla clavicola in pieno lo colpì, e da parte a parte
la punta bronzea trapassò la spalla in basso.
Tonfo produsse cadendo, risuonò su di lui l’armatura.
Aiante colpì Forci, il figlio valente di Fènope,
che stava intorno a Ippòtoo, al centro del ventre, e la piastra
schiantò della corazza, e il bronzo attinse le viscere;
precipitò nella polvere, e strinse la terra col pugno.
Le prime file arretrarono assieme allo splendido Ettore;
alto gli Argivi gridarono e tirarono i cadaveri
di Forci e Ippòtoo, e sciolsero le armi dalle spalle.
E nuovamente sotto la spinta degli Achei cari ad Ares
i Troiani risalivano ad Ilio dal terrore domati,
e gli Argivi acquistavano gloria, oltre al cenno di Zeus,
grazie alla propria forza e al valore, se Apollo in persona
non incitava Enea, somigliando a Perifante,
l’araldo figlio di Èpito, che accanto al vecchio padre
di Enea invecchiava portando messaggi e volendogli bene.
E lui sembrando, gli disse il figlio di Zeus Apollo:
“Enea, in che modo salvereste anche contro il dio
Ilio scoscesa, come altri uomini ho già visto
fidare nella forza nel valore nel coraggio,
nel loro numero, e con un popolo senza paura?
Per noi molto di più che per gli Achei Zeus vuole
vittoria; ma tremate immensamente, non lottate”.
Disse così, ed Enea riconobbe Apollo arciere,
guardandolo nel viso, e ad Ettore forte gridò:
“Ettore, e tutti voi capi dei Troiani e degli alleati,
vergogna adesso è questa, che sotto gli Achei cari ad Ares
i Troiani risalgano ad Ilio dal terrore domati.
Ma ancora adesso un dio, accostandosi, mi dice
che il sommo Zeus signore dello scontro ci soccorre;
dunque attacchiamo diritti i Dànai, e che tranquilli

343
Patroclo morto alle navi si portino non consentiamo”.
Disse così, e con un balzo si collocò in prima fila;
essi allora si volsero e si opposero agli Achei.
Enea colpì a sua volta Leiòcrito con l’asta,
di Arisbante, compagno valente di Licomède;
e lo compianse caduto Licomède caro ad Ares,
gli si piantò vicino, e lanciò la lancia splendente,
e Apisàon di Íppaso colpì, pastore di popoli,
sotto il diaframma, al fegato, e gli sciolse all’istante i ginocchi.
Era venuto dalla Peonia fertili zolle,
e dopo Asteropèo era lui ch’era primo in battaglia.
E lo compianse caduto il pugnace Asteropèo;
dritto si mosse, disposto a combattere gli Achei,
ma ormai non era possibile: con gli scudi da ogni parte
stavano intorno a Patroclo, protendevano le lance.
Aiante si muoveva da ogni parte, dando ordini:
che nessuno arretrasse dal cadavere imponeva,
e che nessuno da solo davanti agli altri combattesse,
ma attorno a Patroclo stessero, lottando da vicino.
Così l’immenso Aiante disponeva, e la terra di sangue
purpureo si imbrattava, e cadevano gli uni sugli altri,
insieme fra i Troiani e i valorosi alleati,
e i Dànai; che lottavano non senza spargere sangue,
ma molto di meno cadevano, perché badavano sempre
gli uni dagli altri a stornare nel gruppo l’abisso di morte.
E si azzuffavano simili al fuoco; e non avresti
pensato che esistessero ancora sole e luna:
stavano tutti i più forti rinserrati nella nebbia,
nella battaglia intorno al Menetìade caduto.
Gli altri Troiani e gli altri Achei dalle belle gambiere
tranquilli combattevano a ciel sereno, e si stendeva
la luce penetrante del sole, né appariva
nube per terra o sui monti; e combattevano a tratti,
i colpi dolorosi evitando tra di loro,

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stando a distanza; ma quelli al centro dolori soffrivano
per nebbia e per battaglia, sfiniti dal bronzo spietato,
tutti i migliori. Ma due soltanto non sapevano,
entrambi valorosi eroi, Trasimède ed Antìloco,
che Patroclo irreprensibile era morto, ma credevano
che vivo combattesse i Troiani in prma fila.
Onde evitare la morte e la fuga dei compagni,
lottavano in disparte, come Nestore aveva ordinato,
spingendoli lontano dalle nere navi alla lotta.
Grave conflitto di guerra toccò agli altri per tutto il giorno,
penoso: di fatica e di sudore senza sosta
gambe ginocchi e piedi di sotto di ciascuno
e mani ed occhi si imbrattavano mentre lottavano,
attorno al prode scudiero dell’Eàcide veloce.
E come quando qualcuno ai suoi uomini consegna
una gran pelle di toro da stendere, impregnata di grasso;
presala, dunque, distanziandosi, la distendono
in cerchio, e presto l’umido si disperde e penetra il grasso,
per effetto dei molti che tirano, e tutta si stende;
in pari modo qua e là entro piccolo spazio il cadavere
tiravano ambedue: il loro cuore molto sperava,
dei Troiani ad Ilio di trascinarlo, e degli Achei
sino alle concave navi; e intorno a lui una mischia
nacque selvaggia; né Ares condottiero né Atena li avrebbero
biasimati, neppure se fossero molto adirati.
Tale di uomini e di cavalli Zeus per Patroclo
stese quel giorno orrendo cimento; e ancora nulla
di Patroclo caduto sapeva lo splendido Achille:
molto lontano combattevano dalle navi veloci,
sotto le mura di Troia; non pensava nel suo cuore
che fosse morto, ma che una volta arrivato alle porte,
se ne sarebbe tornato; lui per niente supponeva
che la rocca avrebbe distrutto senza di lui,
né assieme a lui; dalla madre l’aveva udito spesso in segreto,

345
quando il pensiero del grande Zeus gli riportava.
Ma allora il male orrendo quale accadde non gli disse
la madre, che il compagno più caro gli era morto.
Senza mai sosta intorno alla salma con le lance appuntite
andavano allo scontro, gli uni gli altri si ammazzavano.
E c’era chi diceva fra gli Achei tunicati di bronzo:
“ Cari, non è onorevole per noi tornare indietro
presso le concave navi, ma la terra nera qui stesso
per tutti si spalanchi, e per noi molto meglio sarebbe
se ai Troiani domatori di cavalli lo lasciassimo:
se lo trascinino nella loro città e acquistino gloria”.
Ed anche fra i Troiani magnanimi qualcuno diceva:
“Cari, se pure è destino che si muoia su costui
tutti egualmente, che almeno nessuno abbandoni la lotta”.
Così diceva qualcuno, e destava il vigore di tutti.
Quelli così lottavano ancora, e ferreo tumulto
al cielo bronzeo giungeva per l'etere infecondo;
e i cavalli di Achille, lontani dalla mischia,
piangevano, da quando avevano visto abbattuto
l'auriga nella polvere da Ettore massacratore.
Eppure Automedonte, il figlio gagliardo di Diòre,
spesso con l'agile frusta colpendoli li toccava,
spesso parole dolci proferiva, spesso minacce,
ma tornare verso le navi e all'ampio Ellesponto
non volevano, né alla guerra in mezzo agli Achei.
Ma, come stele resta immobile, che sopra una tomba
di un uomo oppure di una donna sia stata innalzata,
così stavano immobili assieme al carro bellissimo,
inclinando la testa verso il suolo; e lacrime calde
giù dalle palpebre a terra scorrevano, nel rimpianto
del loro auriga, e la folta criniera si imbrattava,
d'ambo le parti cadendo dal collare lungo il giogo.
Li vide piangere il figlio di Crono e ne ebbe pietà,
e, scuotendo la testa, così parlò al proprio cuore:

346
"Infelici, perché vi demmo ad un mortale,
Pèleo sovrano, voi, da vecchiaia immuni e da morte?
Forse perché coi mortali infelici soffriste dolori?
Niente c'è al mondo di più miserevole dell’uomo,
di tutto quanto respira e si muove sulla terra.
Ma su di voi e sul carro istoriato il figlio di Priamo,
Ettore, certo non salirà, non posso permetterlo.
Non è già tanto che abbia le armi e che se ne vanti?
Furia vi imprimerò nelle ginocchia e nel cuore,
perché salviate dalla battaglia Automedonte
sino alle concave navi. E agli altri gloria di uccidere
darò, sino a che giungano alle navi buoni scalmi,
e cali il sole e sopraggiunga la notte sacra.”
Disse, e ispirò nei cavalli una furia portentosa.
Essi allora, scuotendo la polvere dalle criniere,
fra i Troiani e gli Achei riportarono il carro veloce.
Pur contrariato per il compagno, Automedonte
combatteva scagliandosi coi cavalli come avvoltoio
sulle oche, e si sottraeva al tumulto troiano,
e facilmente si dava a inseguire in mezzo alla mischia.
Però non uccideva, quando si slanciava a inseguire:
stando da solo sul cocchio sacro, non gli era possibile
agire con la lancia e guidare i cavalli veloci.
Alla fine lo vide un compagno coi suoi occhi,
Alcimedonte, figlio di Laerce, figlio di Èmone;
ristette dietro al carro e disse ad Automedonte:
“Automedonte, quale dio un consiglio aberrante
ti ha messo dentro al petto, e ti ha tolto il comprendonio?
Quale è quello per cui tu combatti in prima fila,
da solo; e il tuo compagno è stato ucciso, ed Ettore indossa
le armi sulle spalle dell’Eàcide e se ne gloria”.
E così gli rispose Automedonte figlio di Diòre:
“Alcimedonte, chi fra gli Achei esiste pari
nel governare dei cavalli immortali lo slancio e l’ardore,

347
tranne Patroclo, che aveva intelletto dagli dèi,
quando era vivo? Adesso la morte e il destino lo afferrano.
Ma la frusta ora impugna e le redini splendenti,
ed io dal carro giù scenderò e combatterò”.
Detto così Alcimedonte fece un balzo sul carro da guerra,
e celermente prese in mano la frusta e le redini;
e balzò giù Automedonte; ma lo scorse lo splendido Ettore,
e subito parlava a Enea che gli stava vicino:
“ Dei Troiani tunicati di bronzo Enea consigliere,
i due cavalli ho visto dell’Eàcide veloce
spuntare nel conflitto con aurighi inadeguati.
Entrambi spereremmo di prenderli, se nel cuore
lo vuoi davvero; e se noi due li attaccheremo,
non oseranno affrontarci faccia a faccia nello scontro”.
Disse, e gli diede ascolto il nobile figlio di Anchise,
ed avanzarono dritto con le spalle coperte di pelli,
bovine secche e dure, e c’era sopra molto bronzo disteso.
E assieme a loro Cromio e Arèto pari a un dio
andavano, e speravano assai nel cuore di uccidere
gli aurighi e catturare i cavalli superba cervice,
stolti; non senza versare il proprio sangue Automedonte
dovevano lasciare; e lui, invocando Zeus padre,
di forza e di coraggio si riempiva nel nero cuore;
e subito ad Alcimedonte diceva, il suo compagno:
“Alcimedonte, non lungi da me trattieni i cavalli,
fa’ che mi sbuffino dietro alla schiena; perché non credo
che Ettore Priàmide desisterà dal suo furore,
prima di aver messo mano ai cavalli bella criniera
di Achille, e, uccisi noi due, di aver messo in fuga le schiere
argive, a meno che in prima fila non sia ucciso lui stesso”.
Disse così, e chiamò i due Aianti e Menelao:
“ Aianti capi degli Argivi e Menelao,
il cadavere affidatelo ai guerrieri migliori:
che lo circondino, lo difendano dalle schiere,

348
e preservateci, sinché siamo vivi, dal giorno spietato.
Ora ci stanno addosso nella guerra lacrimosa
Ettore, Enea, che sono i più forti dei Troiani;
ma tutto questo sta sulle ginocchia degli dèi.
Io scaglierò; di Zeus tutto il resto sarà cura”.
Disse, e scagliò, palleggiando, la lancia lunga ombra,
e di Arèto lo scudo rotondo colpì; non trattenne
lo scudo l’asta, che parte a parte trapassò,
e penetrò attraverso la cintura nel basso ventre.
E come un uomo gagliardo, con in mano una scure affilata,
dietro le corna sferra un colpo a un bove selvaggio,
e tronca tutto il muscolo, e quello cade sobbalzando;
tale con un sobbalzo quello cadde supino, e la lancia
acuta molto vibrò nelle viscere, e gli sciolse le membra.
Ettore su Automedonte scagliò la lancia splendente,
ma, lui guardando di fronte, schivò la lancia di bronzo,
e si chinò in avanti; alle spalle l’asta lunga
al suolo si piantò, e vibrava sulla punta;
Ares violento alla fine ne spense la veemenza.
E si gettavano ormai con le spade in un corpo a corpo,
se non li separavano, già animosi, i due Aianti,
che nella mischia entrarono, richiamati dal compagno.
Presi allora dalla paura, si ritrassero
Ettore ed Enea e Cromio pari a un dio,
e lasciarono Arèto con il petto lacerato,
a terra; Automedonte, somigliante ad Ares violento,
lo spogliò delle armi, e menò vanto in questo modo:
“Almeno un poco il cuore ho alleviato per il morto
Menetìade, pur avendo ucciso un uomo da meno”.
Disse, e prese e depose le spoglie insanguinate
sul carro, e vi salì lui stesso lordato di sangue
nei piedi e nelle mani, leone che un toro ha sbranato.
Di nuovo intorno a Patroclo si distese la mischia suprema,
tremenda lacrimosa, e Atena destava il conflitto,

349
scesa dal cielo, l’aveva mandata Zeus voce possente
per incitare i Dànai: la sua mente era mutata.
Come distende per i mortali un’iride scura
Zeus giù dal cielo, che presagio sia di guerra
o di tempesta gelida, che le opere degli uomini
sulla terra fa cessare, e danneggia il bestiame;
tale la dea, avvolgendo se stessa in nube oscura,
nel gruppo degli Achei si insinuò, esortando ciascuno.
E primo al figlio di Àtreo, esortandolo, parlava,
il forte Menelao, che stava a lei da presso,
pari a Fenìce nell’aspetto e nella voce instancabile:
“Proprio per te, Menelao, sarà onta e disonore,
se il compagno fedele di Achille risplendente
sotto le mura di Troia i cani rapidi sbraneranno.
Forte resisti, e tutto l’esercito incoraggia!”
E Menelao, possente nel grido di guerra, rispose:
“Fenìce, babbo anziano, o fosse mai che Atena
mi desse forza e mi stornasse l’assalto dei colpi!
Sarei disposto allora a fare la guardia e ad assistere
Patroclo: lui morendo mi ha assai toccato il cuore.
Ma Ettore del fuoco ha il tremendo vigore, e non cessa
di uccidere col bronzo; e Zeus gli accorda gloria”.
Disse, e si rallegrò la dea Atena dagli occhi lucenti,
che l’avesse invocata per prima fra tutti gli dèi,
e nelle spalle e nei ginocchi potenza gli infuse,
e l’audacia della mosca gli mise nel cuore:
essa, per quanto cacciata dalla pelle umana, insiste
nel morsicare, dolce le risulta il sangue umano;
di tale audacia gli fece pieno il nero cuore.
Si mise accanto a Patroclo, e scagliò la lancia splendente.
C’era fra i Troiani Podès di Eetione,
facoltoso e nobile; e assai Ettore fra il popolo
lo stimava: gli era compagno nei banchetti.
Alla cintura lo colse il biondo Menelao,

350
mentre guizzava alla fuga, lo passò parte a parte col bronzo.
Tonfo produsse cadendo; e l’Atride Menelao
trasse la salma dai Troiani sino a suoi compagni.
Ettore, standogli accanto, lo incoraggiava Apollo,
simile a Fènope figlio di Asio, che fra tutti
gli ospiti gli era carissimo, e aveva casa ad Abìdo;
e lui sembrando, così gli disse Apollo arciere:
“Ettore, chi altro mai degli Achei ti temerà?
Sei scappato davanti a Menelao, che prima
era guerriero dappoco, e ora da solo se ne va
strappando il morto ai Troiani; ti ha ammazzato un compagno fedele,
valoroso fra i primi, Podès di Eetione”.
Disse così, e nera nube di strazio lo ravvolse;
si mosse in prima fila, rivestito di bronzo slendente.
Allora il figlio di Crono prese l’ègida ornata di frange,
baluginante, e l’Ida di nuvole ravvolse,
e lampeggiò e tuonò forte, e l’ègida agitò,
e vittoria diede ai Troiani, e mise in fuga gli Achei.
Per primo fu Penèleo il beòta a darsi alla fuga:
sempre proteso in avanti, fu colpito con l’asta alla spalla,
a fior di pelle, e l’osso appena gli sgraffiò
la punta di Polidamante; ma da vicino
Ettore colpì Lèito sul polso: di Alectrìon
magnanimo era figlio, e lo tolse dalla lotta.
Si guardò intorno e tremò: non sperava più nel cuore
di combattere coi Troiani con la lancia.
E Idomèneo colse Ettore proteso su Lèito
sulla corazza, nel petto, accanto alla mammella.
Si infranse l’asta lunga sulla punta, e i Troiani gridarono,
ed Ettore scagliò su Idomèneo di Deucalìon
che stava ritto sul carro, e lo mancò di poco;
ma colpì l’attendente e auriga di Merìone,
Cèrano, che lo seguiva da Litto ben edificata –
prima era giunto, lasciando le navi ben calibrate,

351
a piedi, e grande gloria avrebbe concesso ai Troiani,
se presto Cèrano non avesse guidato i cavalli veloci –,
e gli fu luce e il giorno spietato gli stornò,
ma lui morì per mano di Ettore massacratore:
fra la mascella e l’orecchio lo trafisse, e della lancia
la punta espulse i denti e recise a mezzo la lingua.
Precipitò dal carro, scivolarono a terra le briglie.
E Merìone le prese a sua volta nelle mani,
ripiegandosi verso terra, e disse a Idomèneo:
“Adesso frusta, sino a che giunga alle navi veloci;
lo riconosci anche tu: la vittoria non è più degli Achei”.
Disse così, e Idomèneo portò i cavalli bella criniera
verso le concave navi, la paura lo avvinse nel cuore.
Non sfuggì ad Aiante magnanimo né a Menelao
che concedeva Zeus ai Troiani l'alterna vittoria.
Prese a parlare il grande Aiante Telamonio:
"Ahimè, oramai persino chi fosse il più sciocco di tutti
capirebbe che il padre Zeus favorisce i Troiani.
Di tutti loro i colpi vanno a segno, chiunque li scagli,
che sia capace o meno, perché è Zeus che li raddrizza.
Colpi che invece per tutti noi vanno a vuoto, inutili.
Ma adesso escogitiamo anche noi un piano migliore,
perché possiamo sottrarre il cadavere, e noi stessi
ritorniamo, per dare conforto ai nostri compagni,
che sgomenti qui guardano, e non pensano che il furore
di Ettore massacratore e le mani inattaccabili
fermeremo, ma che piomberà sulle nere navi.
Ci fosse almeno qualcuno che andasse a informare al più presto
il Pelìde – perché non credo neppure che sappia-
della notizia luttuosa, che è morto il suo caro compagno.
Ma noi non siamo in grado di vederne fra gli Achei,
tutti ravvolti ugualmente nella nebbia, assieme ai cavalli.
Libera i figli degli Achei, padre Zeus, dalla nebbia!
Rendi sereno il cielo, e da' di guardare con gli occhi!

352
Poi nella luce facci morire, se questo ti piace".
Disse così, e si commosse il padre per lui che piangeva,
subito sciolse la nebbia e disperse la foschia,
tornò a brillare il sole e intera la zuffa riapparve.
Aias parlò a Menelao, possente nel grido di guerra:
"Osserva, Menelao nutrito da Zeus, se mai scorgi
ancora vivo Antiloco, del magnanimo Nestore figlio,
e spronalo che vada al più presto da Achille prudente,
per dirgli che il compagno più caro che avesse gli è morto".
Disse, e obbedì Menelao possente nel grido di guerra.
Come un leone si mosse che si muove da un recinto,
stanco di provocare sia uomini che cani,
che grassa carne di buoi gli impediscono di attaccare,
tutta la notte vegliando. E lui, bramoso di preda,
assalta, ma fa poco, perché mani vigorose
scagliano fitti giavellotti contro di lui,
e torce ardenti, di cui ha paura, per quanto accanito,
e solo all'alba si allontana, avvilito nel cuore.
Tale partì Menelao, possente nel grido di guerra,
a malincuore da Patroclo. Temeva che gli Achei.
lo lasciassero preda dei nemici per fuga funesta.
Molto raccomandava a Merìone e ai due Aianti:
"Aianti, condottieri degli Achei, e tu, Merìone,
adesso della gentilezza del misero Patroclo
ci si rammenti; lui sapeva esser dolce con tutti,
quando era vivo. Ma ora la morte e il destino lo afferrano."
Detto così, se ne andò il biondo Menelao,
osservando da tutte le parti, simile all'aquila,
ch’è la più acuta a guardare fra gli uccelli, come dicono;
cui, pur stando in alto, non sfugge una lepre veloce,
sotto macchia frondosa acquattata. Ma addosso le piomba
e l’afferra in un istante e le strappa la vita.
Così per te, Menelao nutrito da Zeus: gli occhi fulgidi
in ogni dove guardavano per la massa dei compagni,

353
se scorgessero ancora vivo il figlio di Nestore.
Subito lo notò sulla parte sinistra del fronte,
che esortava i compagni e li spronava a combattere.
E gli fu accanto, e gli disse il biondo Menelao:
"Vienmi vicino, o Antiloco, nutrito da Zeus, per apprendere
una notizia luttuosa – che non fosse mai accaduto!-
Già tu stesso, credo, guardandoti intorno comprendi
che sciagura il dio scaraventa sui Dànai e ai Troiani
dà la vittoria. E' morto il migliore degli Achei,
Patroclo, e grande rimpianto di sé negli Achei ha lasciato.
Corri tu, dunque, alle navi degli Achei, per dire ad Achille
se lui possa al più presto portare in salvo il cadavere
nudo. Le armi le tiene Ettore elmo che splende".
Disse, ed Antiloco rabbrividì, udito che ebbe.
Non riuscì a lungo a parlare ed entrambi gli occhi
si riempirono di lacrime, gli mancò la florida voce.
Pure il comando di Menelao non trascurò.
Si mise a correre e diede le armi all'irreprensibile
Laòdoco: i cavalli duri zoccoli gli voltava.
E lui piangente i piedi dallo scontro allontanarono,
per dare il triste annuncio ad Achille, figlio di Pèleo.
Ma, Menelao nutrito da Zeus, non piacque al tuo cuore
di aiutare i compagni stremati da quando Antiloco
era partito, e grave rimpianto ne nacque nei Pilii;
ma mandò da loro lo splendido Trasimède
e lui stesso tornò accanto a Patroclo eroe.
Corse e ristette di fronte agli Aianti, e disse loro:
"Lui l'ho già mandato presso le rapide navi,
perché vada da Achille veloce; il quale non credo
che verrà subito, pur adirato con Ettore splendido.
Non potrebbe, privo d'armi, affrontare i Troiani.
Ora frattanto escogitiamo un piano migliore,
sia come strapperemo la salma, sia come noi stessi
ci sottrarremo all'assalto troiano e al destino di morte".

354
E, di rimando, gli disse il grande Aiante Telamonio:
"Tutto a proposito hai detto, nobilissimo Menelao.
Dunque tu con Merìone, prontamente sollevate
il cadavere, alla mischia sottraendolo; noi di dietro
lotteremo coi Troiani e con lo splendido Ettore,
noi due con pari cuore e pari nome e che anche in passato
l'aspra battaglia di Ares affrontiamo restando vicini".
Disse, e quelli sollevarono da terra il cadavere
molto in alto. E l’armata troiana emise un urlo,
come videro che gli Achei lo sollevavano.
Simili a cani scattarono, che contro un cinghiale ferito
si gettano, davanti a giovani cacciatori.
Ed essi prima corrono, bramosi di sbranarlo,
ma quando lui si volta, fidando nel proprio vigore,
arretrano di botto, scappando chi qua chi là.
Così sino ad allora i Troiani seguivano in massa,
con spade destreggiandosi e con lance a doppia punta.
Ma appena i due Aianti si rigiravano contro
per affrontarli, mutavano colore, nessuno più osava
fare un balzo in avanti e battersi per il cadavere.
Pieni di ardore, dunque, il cadavere portavano
verso le concave navi. E il conflitto si tendeva
simile a incendio, selvaggio, che improvviso si sprigiona
e assalta una città, si frantumano le case
nell'immensa fiammata, la fa fremere la forza del vento.
Tale frammisto tumulto di cavalli e di guerrieri
senza mai tregua, mentre procedevano, li incalzava.
Essi però, come muli, che supremo vigore vestendo,
lungo sentiero in mezzo alle rocce da un monte trascinano
tronco o albero grande, navale, e, mentre faticano,
il loro cuore è oppresso dallo sforzo e dal sudore,
con altrettanto ardore la salma portavano. E dietro
gli Aianti stavano, simili a dosso selvoso, che s'alza
di traverso sulla pianaura, all'acqua resiste,

355
rapinose correnti di fiumi in piena trattiene,
in un istante le correnti di tutti devia
verso la piana, né, pur scorrendo con forza, lo abbattono;
in pari modo gli Aianti da dietro l'assalto arginavano
dei Troiani, che li incalzavano, e primi fra tutti
c'erano il figlio di Anchise, Enea, e lo splendido Ettore.
E come fugge una nube di cornacchie o di stornelli,
lugubre urlando, se vede un falco sopraggiungere,
che porta strage ai piccoli uccelli; in tal modo, respinti
da Enea e da Ettore, i giovani Achei si allontanavano,
lugubre urlando, dimentichi del loro ardore guerriero.
Molte armature belle dei Dànai che fuggivano
lungo il fossato cadevano; e la lotta non cessava.

356
LIBRO XVIII

Le armi di Efesto.

Antiloco, incaricato di recare la notizia ad Achille, ancora ignaro ma che già se


l’aspetta, giunge alla tenda dell’eroe e gliela comunica. La reazione di Achille è
terribile. Nella più profonda disperazione, chiama la madre, la quale, accompagnata
dalle sorelle Nereidi, emerge dal mare e interroga il figlio, che non cessa di
singhiozzare. Achille dichiara di non voler più vivere, aspetta soltanto di potersi
vendicare. Ma non ha più le armi. Teti gli promette che andrà da Efesto, il fabbro
divino, a chiedergli di fabbricarne delle nuove. E parte per l’Olimpo. Continua a
infuriare la battaglia per il corpo di Patroclo, sul quale Ettore ormai sta per mettere
le mani. Ma Iris appare ad Achille e lo esorta a intervenire, nonostante privo di
armi. Achille lancia un urlo per tre volte, incutendo terrore ai Troiani. Essi allora si
riuniscono in assemblea, nel corso della quale Polidamante giustamente suggerisce
ad Ettore di far rientrare l’esercito in città, onde evitare lo scontro diretto con
Achille. Al che Ettore risponde seccato che è meglio combattere. La proposta di
Ettore prevale, anche se risulterà rovinosa. Intanto Achille piange sul cadavere di
Patroclo, ormai recuperato, seguito da tutti i Mirmìdoni, che lo compiangono per
l’intera notte. Teti si reca alla fucina di Efesto, sull’Olimpo, come promesso a suo
figlio. Vi trova il dio indaffarato e servito da due ancelle d’oro, due automi. E’
intento a preparare venti tripodi dotati di capacità di muoversi da soli. Teti espone
al dio il motivo della sua richiesta, ma il dio sa bene quanto egli debba a Teti: la dea
lo ha aiutato nei momenti peggiori della sua esistenza. Efesto si mette dunque al
lavoro. Descrizione delle armi e del meraviglioso scudo. Efesto consegna l’opera a
Teti, la quale scende immediatamente a portarla al figlio.

357
Essi così lottavano, simili a fuoco ardente;
e il veloce Antiloco messaggero giunse ad Achille,
e lo trovò davanti alle navi eccelse poppe
che immaginava nel cuore proprio quello che era accaduto.
E, turbato, diceva al suo magnanimo cuore:
"Povero me, perché mai gli Achei dai lunghi capelli
presso le navi si accalcano, fuggendo per la piana?
Non compiano gli dèi l'orribile presentimento,
come una volta mia madre mi predisse, che il migliore
dei Mirmìdoni, con me ancora vivo, avrebbe lasciato,
dalle mani dei Troiani colpito, la luce del sole!
Certo è caduto il figlio gagliardo di Menetio,
misero. Gli suggerivo di respingere il fuoco nemico,
di tornare alle navi e di non scontrarsi con Ettore."
Mentre così rifletteva nell'animo e nel cuore,
ecco che gli fu accanto il figlio del nobile Nestore,
lacrime calde versando, e gli diede angosciosa notizia:
"Ahimè, figlio di Pèleo prudente, davvero luttuosa
apprenderai notizia- che non fosse mai accaduto!-
Giace Patroclo a terra, si combatte per il cadavere
nudo, le armi le tiene Ettore elmo che splende".
Disse così, e nera nube di strazio lo ravvolse.
Cenere arsa con ambedue le mani afferrata,
se la versò sul capo, sporcando il volto bellissimo,
sopra la veste nettarea la cenere cupa si sparse.
Lui stesso nella polvere, per lungo tratto disteso,
giaceva e con le mani si strappava i capelli, sconciandosi.
Le schiave poi, che Achille con Patroclo aveva predato,
urlavano trafitte nel cuore, e dalla porta
correvano intorno ad Achille prudente e con le mani
si battevano il petto, le membra si scioglievano.
Dall’altra parte Antiloco se ne stava, in pianto, le mani
trattenendo di Achille, che gemeva nel nobile cuore:

358
temeva che col ferro potesse tagliarsi la gola.
Urlo terribile emise; e lo udì la madre sovrana,
che stava accanto al vecchio padre negli abissi marini,
e anch'ella scoppiò in pianto, e le dee la circondarono,
tutte le figlie di Nèreo, che stavano in fondo al mare.
C’era Turchina, c’era Festiva, c’era Ondivaga,
e Isolana e Speiò e Svelta e Marina grandi occhi,
c’erano Cresta dell’Onda e Costiera e c’era Maremma,
Mèlita c’era e Ièra e Anfìtoe, e c’era Splendente,
e Donatrice e Primiera e poi Forzuta e Potente,
e c’era Accoglitrice e Anfìnome e Bella Madre,
Dòride, Pànope, e c’era Galatèa la rinomata,
e Infallibile e Veritiera e Bella Regina,
c’erano pure Clìmene e Ianìra e poi Ianassa,
Mera c’era e Oritìa e Selvaggia belle trecce,
e le altre figlie di Nèreo, che stavano in fondo al mare.
Si riempì la grotta splendente di loro, ed insieme
si battevano il petto, e Teti diè inizio al lamento:
“Ascoltate, sorelle Nereidi, perché tutte
conosciate quale angoscia mi affligge nel cuore.
Povera me infelice, quale grande eroe ho generato,
che figlio ho messo al mondo, possente irreprensibile,
l'eroe primo fra tutti! Lui crebbe come un virgulto,
lo allevai come pianta sul solco di un vigneto,
e lo mandai con le concave navi ad Ilio a combattere
i Troiani. Ma non lo riavrò ancora una volta
a casa sua, nella reggia del padre Pèleo tornato.
Per tutto il tempo che è vivo e vede la luce del sole,
pene patisce, né io sono in grado di porgergli aiuto.
Ma adesso andrò a vedere la mia creatura e a sentire
quale dolore lo ha colto, astenendosi dal conflitto."
Detto così, lasciò la grotta, e le altre tutte
si mossero con lei, piangendo. E l'onda del mare
si apriva attorno, e quando giunsero alla fertile Troia,

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sulla riva salivano in fila, dove in secco sostavano
fitte le navi dei Mirmìdoni intorno ad Achille.
E a lui che singhiozzava fu accanto la madre sovrana,
e fra lamenti acuti prese la testa di suo figlio,
e, continuando a piangere, alate parole diceva:
"Perché piangi, creatura? Quale pena ti giunge sul cuore?
Dimmelo, non celarla. Già tutto è stato compiuto
da Zeus, come tu stesso chiedesti, tendendo le mani:
che i figli degli Achei arretrassero sino alle navi,
bisognosi di te, e soffrissero indegne sventure".
E, tra profondi gemiti, rispose Achille veloce:
"Madre, sì, è vero, proprio tutto l'Olimpio ha compiuto.
Ma che dolcezza ne traggo, se è morto il mio caro compagno,
Patroclo, che al di sopra di tutti i compagni onoravo,
pari a me stesso? Io l'ho perduto, e lo ha ammazzato
Ettore, e lo ha spogliato delle armi, possenti stupende
belle, che diedero a Pèleo gli dèi come splendidi doni,
il dì che in letto di mortale ti fecero entrare.
Oh se tu fossi rimasta fra le immortali marine,
e Pèleo avesse preso in moglie una donna mortale!
Ora invece angoscia infinita avrai nel cuore
per questo figlio morto, che non riavrai un'altra volta
a casa ritornato, perché il cuore più non mi spinge
a vivere fra gli uomini, sino al momento in cui
Ettore, dalla mia lancia trafitto, non perda la vita,
non paghi l'uccisione di Patroclo Menetìade".
E a lui così diceva, versando lacrime, Teti:
"Breve destino avrai, creatura, per quanto hai detto.
Dopo quella di Ettore, la tua sorte è già segnata."
E a lei, molto turbato, rispose Achille veloce:
"Ora vorrei morire, che non ho saputo soccorrere
il mio compagno ucciso! Ben lungi dalla patria
si è spento, non mi ha avuto difensore dal suo male.
E poiché mai più tornerò nella mia cara patria,

360
né sono stato luce a Patroclo e agli altri compagni,
che numerosi da Ettore splendido sono stati domati,
ma resto accanto alle navi, peso inutile per la terra,
io che son quale nessuno degli Achei tunicati di bronzo,
in battaglia, nell'assemblea ci son altri migliori…
Oh se sparisse dagli uomini e dagli dèi la discordia,
e l'ira, che costringe anche chi è assennato a infuriarsi,
e che, più dolce ancora di gocce di miele stillante,
dentro ai petti degli uomini simile a fumo si gonfia,
come mi ha adesso irritato il sovrano di eroi Agamemnon!
Ma ciò che è stato lasciamolo andare, per quanto crucciati,
reprimendo il cuore nel petto come si conviene.
Adesso andrò a cercare l'uccisore di chi mi era caro,
Ettore. Poi la morte accoglierò, e sarà proprio quando
Zeus vorrà darmela assieme agli altri dèi immortali.
Neanche la forza di Eracle riuscì a sfuggire alla morte,
che pure fu il più caro a Zeus Cronìde sovrano,
ma la domò il destino e la collera odiosa di Hera.
E così anch'io, se pari destino mi è assegnato,
giacerò morto. Ma adesso io cerco bella gloria,
voglio che qualche donna vita sottile troiana o dardanide,
asciugandosi il pianto con ambedue le mani
dalle tenere guance, fitti gemiti diffonda.
Sapranno che da troppo mi astengo dal conflitto.
Non trattenermi pertanto, anche amandomi; non mi convinci."
E così rispondeva la dea, Teti piedi d'argento:
"Sì, davvero, creatura, non è certo una cosa sbagliata
dai compagni allo stremo stornare l'abisso di morte.
Ma le tue belle armi le possiedono i Troiani,
armi di bronzo, abbaglianti, che Ettore elmo che splende
sulle spalle si porta, se ne gloria. Ma non credo
che potrà vantarsene a lungo, gli è accanto la morte.
Tu per adesso astienti dal gettarti nel gorgo di Ares,
prima di avermi vista con questi tuoi occhi tornare.

361
All'alba qui sarò, al sorgere del sole,
le belle armi a portarti da parte di Efesto sovrano".
Dopo aver detto questo, si dipartì da suo figlio,
e, rivolta alle sorelle marine, così diceva:
"Voi adesso immergetevi nel vasto seno del mare,
per rivedere il vecchio marino e la casa paterna,
e tutto raccontategli. Intanto al vasto Olimpo
andrò da Efesto, artefice glorioso, se fosse disposto
a dare al figlio mio armi nobili scintillanti".
Disse, e subito quelle nell'onda del mare si immersero,
e lei salì all’Olimpo, la dea Teti dai piedi d’argento,
per procurare le armi illustri al figlio suo.
Lei sull’Olimpo i piedi la portavano. Ma gli Achei,
in scompiglio infinito, da Ettore massacratore
fuggivano e giungevano alle navi e all’Ellesponto.
E gli Achei dalle belle gambiere non avrebbero
strappato il morto Patroclo, scudiero di Achille, dai colpi:
di nuovo lo raggiunsero l’esercito e i cavalli,
ed Ettore figlio di Priamo, pari al fuoco per la forza.
Tre volte da dietro lo prese per i piedi lo splendido Ettore,
bramoso di tirarlo, gridando verso i Troiani,
tre volte i due Aianti, rivestiti di ardente vigore,
dal morto lo respinsero; ma lui sempre baldanzoso,
si gettava nel vortice talvolta, talaltra a sua volta
stava e gridava, ma non arretrava neppure di un passo.
Come da un corpo morto non riesce un fulvo leone
i pastori a tenere lontani, se affamato,
in pari modo gli Aianti guerrieri non riuscivano
a scoraggiare il Priàmide Ettore dalla salma.
E lo traeva e ne riscuoteva immensa gloria,
se Iris rapida piedi di vento al figlio di Pèleo
di corsa non giungeva dall’Olimpo a dirgli di armarsi,
di Zeus e degli altri dèi all’insaputa: l’aveva mandata
Hera; e standogli accanto, alate parole diceva:

362
“Sorgi, Pelide, il più spaventevole degli uomini,
e Patroclo difendi, per il quale orrenda mischia
arde davanti alle navi; si ammazzano gli uni gli altri,
gli uni a difesa del cadavere del caduto,
gli altri di trascinarlo sino ad Ilio ventosa
tentano, i Troiani. E soprattutto lo splendido Ettore
arde di trascinarlo; il suo cuore lo spinge la testa
a piantarla su un palo, recisa dal tenero collo.
Ma suvvia, cosa aspetti? Nel tuo cuore abbia accesso il ritegno
che Patroclo diventi sollazzo alle cagne troiane.
Onta per te, se il cadavere ritornasse sfigurato!”
E così le rispose lo splendido Achille veloce:
“Chi degli dèi, dea Iris, ti ha mandato messaggera?”
E gli rispose la rapida Iris piedi di vento:
“Hera mi ha mandato, di Zeus la consorte gloriosa.
Ma il Cronìde, che siede sublime, e tutti gli altri immortali,
che dimorano sull’Olimpo nevoso, non lo sanno”.
E, di rimando, così le disse Achille veloce:
“Ma come andrò allo scontro? Le mie armi le hanno loro,
e non mi consentiva mia madre ch’io mi armassi
prima ch’io l’abbia vista tornare coi miei occhi;
mi prometteva da parte di Efesto una bella armatura.
E poi non so di chi potrei indossare le elette
armi, se non lo scudo di Aiante Telamonio.
Ma pure lui, suppongo, si batte in prima fila,
con l’asta intorno a Patroclo caduto massacrando”.
E gli rispose la rapida Iris dai piedi di vento:
“Ben lo sappiamo anche noi che le armi elette possiedono,
ma pure va’ sul fossato e mostrati ai Troiani:
che talora temendoti, si astengano dal conflitto
i Troiani, e un poco i guerrieri achei respirino,
stremati – è sufficiente un breve respiro in battaglia –“.
Detto così, se andò via la celere Iris,
e Achille caro a Zeus balzò in piedi, e Atena intorno

363
alle spalle possenti gettò l’ègida ricca di frange,
e intorno al capo una nube gli avvolse la splendida dea
dorata, e fece effondere da lui un bagliore raggiante.
E come fumo salendo da una città si diffonde nell’etere,
lontano, sopra un’isola, dai nemici cinta d’assedio,
e tutto il giorno con Ares detestabile contendono,
fuori città; ma appena il sole è tramontato,
fitti divampano fuochi, e il bagliore verso l’alto
si slancia rapido, tanto che lo scorgono i vicini,
sì da venire a soccorrerli con le navi dalla rovina;
tale dal capo di Achille saliva all’etere raggio di luce.
Stette a difesa del muro, sulla fossa: non si mescolava
con gli Achei, al saggio consiglio materno ubbidiva.
E, fermo, lanciò un grido; e in disparte Pallade Atena
pure gridò: suscitò nei Troiani scompiglio indicibile.
E come il suono giunge indistinto, se squilla la tromba,
quando si assedia una città per annientarla,
limpida in pari modo fu la voce dell’Eàcide.
E non appena udirono la voce dell’Eàcide,
a tutti mancò il cuore; e i cavalli bella criniera
subito i carri voltarono, prevedendo dolori nel cuore.
Stupirono gli aurighi, come videro il fuoco instancabile
brillare sulla testa del figlio di Pèleo magnanimo,
tremendo; lo accendeva Atena dagli occhi lucenti.
Tre volte sul fossato gridò forte lo splendido Achille,
tre volte si sbandarono i Troiani e gli illustri alleati.
Dodici allora morirono guerrieri tra i migliori
sotto i carriaggi propri e le lance; ma gli Achei
Patroclo finalmente lontano dai colpi strapparono,
lo posero su un letto, e gli stavano intorno i compagni
piangenti; e assieme a loro li seguiva Achille veloce,
versando calde lacrime, come vide il caro compagno
giacere sopra il feretro, trafitto dal bronzo acuto;
con i cavalli e col carro lo aveva mandato a combattere,

364
ma non poté più accoglierlo di nuovo, ritornato.
Hera sovrana grandi occhi mandò indietro, che tornasse
alle correnti d’Oceano, contro voglia, il sole instancabile;
il sole tramontò, e gli Achei splendidi cessarono
dalla contesa suprema e dal conflitto che tutti pareggia.
Dall’altro lato i Troiani, dalla mischia suprema staccatisi,
i rapidi cavalli dai carri liberarono,
e in assemblea si raccolsero, prima di occuparsi del pasto.
Fu un’assemblea di uomini in piedi, nessuno osava
sedersi, tutti un tremito li possedeva, perché Achille
era riapparso, da troppo mancava dallo scontro penoso.
Prese a parlare Polidamante pieno di senno,
figlio di Pàntoo; lui solo guardava il prima e il dopo;
era compagno di Ettore, nella stessa notte nati;
l’uno eccelleva parlando, l’altro molto di più nelle armi.
E lui, con alto senno, così parlò, così disse:
“Cari, dovete riflettere bene; perché vi consiglio
di andare adesso in città, senza attendere l’alba divina
presso le navi in pianura; distiamo troppo dalle mura.
Sino a quando fu adirato con lo splendido Agamemnon
quell’uomo, era più facile scontrarsi con gli Achei;
godevo io stesso se pernottavo alle navi veloci,
sperando che le navi bel calibrate avremmo preso.
Adesso temo tremendamente il Pelide veloce;
cuore superbo qual è, non intenderà certamente
nella pianura restare, dove Troiani e dove Achei
nel mezzo entrambi si spartiscono il furore di Ares,
ma verrà a battersi per la città e per le donne.
Ma andiamo nella rocca, datemi retta; andrà così:
ora la notte ambrosia ha fermato il Pelide veloce;
ma se domani ancora ci troverà che qui sostiamo,
di tutto punto armato spiccandosi, allora qualcuno
bene lo conoscerà; giungerà a Ilio sacra
chi fuggirà, volentieri. Ma cani e avvoltoi sbraneranno

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molti Troiani. Giammai mi giunga ciò agli orecchi.
Ma se, per quanto angosciati, diamo retta alle mie parole,
di notte nella piazza terremo l’armata: la rocca,
le torri e le alte porte e i battenti incardinati
possenti levigati sprangati ci proteggeranno.
Al sorgere dell’alba, rivestiti delle armi,
sui bastioni ci collocheremo; e per lui sarà duro,
se vuole, giunto dalle navi, per le mura combattere.
Ritornerà alle navi, i cavalli superbi sfiancando
con ogni tipo di corsa, aggirandosi sotto le mura.
Dentro di lui il suo cuore non gli consentirà di accanirsi,
e non ci annienterà, prima i cani lo dilanieranno”.
E di sbieco guardandolo, gli disse Ettore elmo che splende:
“Polidamante, non mi piace quello che dici,
di rinchiuderci ancora una volta dentro la rocca.
Non siete sazi di starvene chiusi dentro le mura?
Prima chiamavano la città di Priamo tutti
gli uomini parlanti città ricca di oro e di bronzo;
ora si sono dissolti i bei tesori delle case,
molte ricchezze in Frigia e nell’amabile Peonia
sono vendute, da quando il grande Zeus ha preso a odiarci;
ora il figlio di Crono tortuosi pensieri mi ha dato
il vanto presso le navi di cacciare in mare gli Achei;
sciocco, non manifestare in pubblico questi pensieri;
nessuno dei Troiani ti darà retta, non lo consentirò.
Forza, a quello che dico ubbidiamo tutti quanti.
Consumate ora il pasto sul campo, divisi in drappelli,
rammentatevi della guardia, ed ognuno sia sveglio.
Chi dei Troiani si cruccia delle troppe ricchezze, raccoltele,
le distribuisca a tutto l’esercito per uso comune;
meglio goderne qualcuno di loro, che non gli Achei.
Al sorgere dell’alba, rivestiti delle armi,
presso le concave navi risvegliamo aguzzo Ares.
Se per davvero alle navi si è destato lo splendido Achille,

366
caro gli costerà, se lo vorrà; io dallo scontro
duro non fuggirò, ma di fronte gli starò,
sia che riporti gran vittoria, sia che io la riporti.
Imparziale è Enialio, uccide chi sta per uccidere”.
Ettore argomentava così, e i Troiani acclamarono,
stolti; tolse Pallade Atena loro il senno:
perché approvarono Ettore, che malamente suggeriva,
e nessuno Polidamante, che meglio parlava.
E consumarono il pasto sul campo. Ma gli Achei
tutta la notte Patroclo compiansero gemendo.
In mezzo a loro il Pelide diede inizio al fitto compianto,
sul petto del compagno ponendo le mani omicide,
sempre gemendo e forte, somigliando a un leone chiomato,
cui un cacciatore di cervi nella fitta foresta ha rapito
i cuccioli; e si cruccia di essere tardi arrivato,
e molte gole percorre, le tracce di quell’uomo,
se le trovasse, cercando; e aspra collera lo prende;
tale parlava ai Mirmìdoni tra gemiti profondi:
“Ahimè vana parola pronunziai quel giorno quando
incoraggiavo l’eroe Menetio in casa sua!
Dicevo che gli avrei riportato a Opunte suo figlio,
pieno di gloria per Ilio distutta e col giusto bottino.
Ma Zeus non compie tutti i desideri degli umani:
a entrambi è destinato che stessa terra arrossiamo,
proprio qui a Troia, poiché al ritorno nella mia casa
neppure me accoglierà il vecchio Pèleo cavaliere,
né più la madre Teti; qui la terra mi coprirà.
E poiché, Patroclo, dopo di te me ne andrò sotto terra,
non ti seppellirò prima di aver qui portato le armi
e la testa di Ettore, l’uccisore tuo superbo.
Dodici ucciderò davanti alla tua pira
giovani eletti Troiani, adirato per te ucciso.
Intanto giacerai accanto alle concave navi,
e intorno a te Troiane e Dàrdane vita sottile

367
notte e giorno piangeranno versando lacrime,
quelle che conquistammo con forza e lunga lancia,
ricche città distruggendo di uomini parlanti”.
Disse così, e ordinò ai compagni lo splendido Achille
di mettere sul fuoco un gran tripode, perché al più presto
Patroclo ripulissero del sangue raggrumato.
Essi misero un tripode per il bagno sul fuoco che arde,
l’acqua versarono, e prèsala, vi accesero sotto la legna.
Ravvolse il fuoco il ventre del tripode, e si scaldava
l’acqua; ed appena si mise a bollire nel bronzo lucente,
lavarono la salma, la cosparsero di olio,
riempirono le piaghe con balsamo di nove anni.
Distesolo sul letto, di un morbido lino lo avvolsero,
dal capo sino ai piedi, e, al di sopra, di un bianco lenzuolo.
E per l’intera notte, intorno ad Achille veloce
i Mirmìdoni Patroclo compiansero gemendo.
E Zeus così parlò ad Hera, sorella e consorte:
“Alfine sei riuscita, sovrana grandi occhi Hera,
a ridestare Achille veloce; allora davvero
proprio da te sono nati gli Achei dai lunghi capelli”.
E così gli rispose, sovrana grandi occhi, Hera:
“Figlio di Crono tremendissimo, che mai dicesti!
Anche un uomo si adopera contro un altro sino in fondo,
pur mortale e pur ignorando altrettanti disegni;
ed io che meno vanto del primato fra le dee,
per due ragioni, per nascita e perché sono chiamata
tua moglie, e tu su tutti gli immortali signoreggi,
come, adirata contro i Troiani, non dovevo tramare?”
Parlavano così, tra di loro, l’un l’altro alternandosi,
e giungeva alla casa di Efesto Teti piedi d’argento,
incrollabile astrale, splendidissima fra gli immortali,
di bronzo, che da solo il dio storpio s’era fatta.
E lo trovò che si aggirava sudato tra i mantici,
indaffarato; in tutto venti tripodi preparava,

368
per collocarli alla parete della casa ben fatta;
e metteva ruote dorate alla base di ognuno,
perché da soli entrassero nel consesso degli dèi,
e da soli tornassero a casa, stupendo a vedersi.
Erano quasi del tutto compiuti; soltanto le ornate
anse mancavano, le stava forgiando, e batteva gli attacchi.
Mentre su ciò faticava con grande competenza,
ecco gli venne accanto la dea Teti dai piedi d’argento;
Charis dal velo splendente la vide e le andò incontro,
bella, che aveva lo Zoppo illustre presa in moglie;
la prese per la mano, le rivolse parola, le disse:
“Teti dal lungo peplo, perché giungi a casa nostra,
rispettabile e cara? Raramente accadeva in passato.
Ma stammi dietro, perch’io ti offra doni ospitali”.
Disse, e la conduceva la splendida fra le dee,
e la fece sedere su un trono con borchie d’argento,
bello istoriato. Sgabello c’era anche per i piedi.
Subito Efesto chiamò, artigiano illustre, e gli disse:
“Vieni qui subito, Efesto, c’è Teti che ti cerca”.
E, di rimando, così le disse lo Zoppo illustre:
“Dea rispettabile e venerabile ho dunque in casa,
che mi salvò quand’ero nel dolore, caduto lontano,
per volontà di mia madre, faccia di cagna, che mi volle
celare ch’ero storpio; e soffrivo dolori nel cuore,
se in seno al mare non mi accoglievano Eurìnome e Teti,
Eurìnome di Oceano che scorre circolare.
Per nove anni forgiavo per loro monili in gran copia,
fibbie, collane ricurve, orecchini, braccialetti,
dentro la concava grotta, e intorno il flusso d’Oceano
all’infinito scorreva ribollente di spuma, e nessuno
né degli dèi lo sapeva né degli uomini mortali.
Ma lo sapevano Teti ed Eurìnome, che mi salvarono.
Adesso viene a casa mia; ed io il compenso
a Teti bella chioma ho il dovere di pagare.

369
Porgile dunque adesso dinanzi bei doni ospitali,
mentre i mantici riporrò con gli altri arnesi”.
Disse così, e si alzò dall’incudine il mostro sbuffante
e claudicante, di sotto si agitavano le esili gambe.
Poi tolse via dal fuoco i mantici e tutti raccolse
in una cassa d’argento gli attrezzi, con cui lavorava;
poi il viso ed ambedue le mani si deterse
con una spugna, e il collo robusto e il petto villoso;
la tunica indossò, prese il grosso bastone, e sortì
claudicante; due ancelle sostenevano il sovrano,
d’oro, rassomiglianti a ragazzine vive.
Esse intelletto possiedono nel petto, hanno voce e vigore,
grazie agli dèi immortali sanno compiere lavori.
Per il sovrano dunque si affaccendavano, e lui con fatica
a Teti si appressò, si sedette sul trono splendente,
la prese per la mano, le rivolse parola, le disse:
“Teti dal lungo peplo, perché giungi a casa mia,
rispettabile e cara? Raramente accadeva in passato.
Dimmi che hai in mente, il mio cuore mi spinge ad esaudirti,
se sono in grado di farlo, e comunque devo farlo”.
E rispondeva a lui, versando lacrime, Teti:
“Efesto, mai nessuna delle dee che sono in Olimpo
ha sopportato nel suo cuore dolori angosciosi,
quanti fra tutte Zeus Cronìde me ne ha assegnati.
Mi ha sottomesso, sola fra tutte le ninfe, a un uomo,
Pèleo figlio di Èaco, e ho subito il letto di un uomo
davvero controvoglia, che adesso, da triste vecchiaia
prostrato, giace nella sua casa; ma ben altro a me capita:
mi ha dato un figlio da generare e da allevare,
l’eroe primo fra tutti! Lui crebbe come un virgulto,
lo allevai come pianta sul solco di un vigneto,
e lo mandai con le concave navi ad Ilio a combattere
i Troiani. Ma non non lo riavrò ancora una volta
a casa sua, nella reggia del padre Pèleo tornato.

370
Per tutto il tempo che è vivo e vede la luce del sole,
pene patisce, né io sono in grado di porgergli aiuto.
La fanciulla che in dono i figli degli Achei gli diedero,
dalle mani gli ha strappato il possente Agamemnon.
Si consumava il cuore per lei; ma presto i Troiani
presso le navi rinchiusero gli Achei, non li lasciavano
uscire fuori; allora lo pregarono gli anziani
argivi, e molti enumeravano splendidi doni.
Ma lui si rifiutava di stornare la rovina,
e tuttavia le sue armi indossare fece a Patroclo,
e lo mandò a combattere, e gli aggiunse un grande esercito.
Per tutto il giorno lottarono intorno alle porte Scee;
e avrebbero distrutto la città in quel giorno, se Apollo
ucciso non avesse il forte figlio di Menetio,
che in prima fila faceva strage, dando a Ettore gloria.
Per questo vengo alle tue ginocchia, se tu volessi
dare a mio figlio, che ha breve destino, scudo ed elmo,
belle gambiere, di copricaviglia rafforzate,
e una corazza; tutto gli ha perso il fedele compagno,
domato dai Troiani; e lui giace per terra prostrato”.
E, di rimando, così gli disse lo Zoppo illustre:
“Coraggio, nel tuo cuore di ciò non ti curare.
Oh se mi fosse possibile dalla morte odiosa lontano
celarlo, quando a lui giungerà il destino orribile,
come invece bellissime armi avrà, che chiunque
dei mortali ammirerà, non appena le veda!”
Disse così, e là la lasciò, e corse ai mantici,
li rigirò sul fuoco, e ordinò che lavorassero.
I mantici soffiarono tutti i venti sulle fornaci,
soffi mandando variati, per attizzare il fuoco,
a volte pronti ad assecondarlo, a volte il contrario.
come voleva Efesto e come il lavoro esigeva.
Rame gettava indistruttibile nel fuoco e stagno,
e oro pregiato e ancora argento; e subito dopo

371
la grande incudine pose sul ceppo, e con una mano
afferrò un forte maglio, e con l’altra le tenaglie.
Per prima cosa fece uno scudo grande robusto,
in ogni parte istoriandolo, e vi mise uno splendido orlo,
triplice, scintillante, e una tracolla d'argento.
Cinque fasce aveva in tutto lo scudo, e vi incise
molti ornamenti, grazie alla sua suprema perizia.
E vi raffigurò la terra il cielo il mare,
e il sole infaticabile e la luna al plenilunio,
e ancora tutti i segni che fanno al cielo corona,
le Pleiadi e le Íadi e di Orione la forza,
e l'Orsa, che anche chiamano con altro nome Carro,
e gira intorno a se stessa, ma guarda verso Orione,
ed è la sola che non si bagna nei lavacri d'Oceano.
Due città poi vi fece di uomini parlanti,
belle, e c'erano nozze e banchetti nella prima;
per la città guidavano alla luce di fiaccole ardenti
dal talamo le spose, si alzava il canto: "Imeneo!"
Giovani danzatori volteggiavano, e in mezzo a loro
flauti e cetre effondevano il suono, e in piedi le donne,
ritte davanti all'uscio, guardavano ammirate.
Era riunito il popolo nella piazza, dove una lite
sorgeva, litigavano due uomini per una ammenda
di un morto. E il primo asseriva di aver pagato tutto
pubblicamente, e l'altro che nulla aveva avuto.
E ricorrevano per la sentenza al giudice entrambi,
e applaudivano a entrambi i presenti, chi all'uno chi all'altro.
C'erano araldi che li trattenevano. E i vecchi sedevano
su pietre levigate, disposti in sacro cerchio,
scettro tenendo in mano degli araldi, voci sonore.
Con questi in mano si alzavano e a turno sentenziavano.
Stavano due talenti d'oro posti nel mezzo,
da dare a chi di loro pronunziava più giusta sentenza.
L'altra città due eserciti la cingevano di assedio,

372
splendidi nelle armi, e due pareri loro piacevano:
o distruggerla, oppure dividersi tutto il bottino,
che racchiudeva dentro le mura la bella città.
Ma quelli non cedevano e si armavano per un agguato.
Stavano ritte a difesa sulle mura le care spose,
i figli piccoli e gli uomini consunti da vecchiaia.
Gli altri andavano, e Ares li guidava, e Pallade Atena,
d'oro entrambi, e pure dorate indossavano vesti,
belli e grandi, ricoperti di armi, essendo due dèi,
tutti e due ben distinti. Più piccoli erano gli uomini.
Quando giunsero al luogo prescelto per l'agguato,
al fiume, ove le mandrie andavano ad abbeverarsi,
proprio lì si appostavano, serrati nelle armi splendenti.
V'erano poi in disparte da loro due spie dell'esercito,
quando le greggi scorgessero e i buoi dalle corna ricurve.
Presto le mandrie giunsero e due pastori le seguivano,
suonando la zampogna. Non sospettavano inganni.
Appena che le videro, le assalirono e subitamente
fuori tagliarono le mandrie di buoi e le belle greggi
di bianche pecore, e tolsero di mezzo i due pastori.
Gli altri, allora, udito un trambusto nei pressi dei buoi,
mentre sedevano in assemblea, sui cavalli veloci
balzati, li inseguivano e presto li raggiungevano;
lungo le rive del fiume ingaggiavano il combattimento,
e si colpivano reciprocamente con lance di bronzo.
Lotta e Tumulto si incontravano, e Morte funesta,
che ora afferrava un vivo ferito, ora un non ferito,
ora tirava un morto per i piedi in mezzo alla mischia.
Rossa di sangue umano portava veste sulle spalle,
vivi sembravano nell'incontrarsi e nello scontrarsi,
a vicenda l'un l'altro si strappavano i cadaveri.
Morbido poi vi poneva maggese, di terra grassa,
ampio, da arare tre volte; e in esso parecchi aratori
coppie di buoi spingevano, girandoli in su e in giù.

373
E ogni qual volta girando giungevano all'orlo del campo,
coppa di vino dolcissimo nella loro mano porgeva,
avvicinandosi, un uomo; e solco per solco giravano,
intenti a giungere al termine di quel profondo maggese.
Dietro la terra nereggiava, terra arata pareva,
pur essendo tutta d'oro, davvero stupendo!
Poi vi poneva un podere regale, dove mietevano
i mietitori, tenendo in mano falci affilate.
E dei manipoli, alcuni cadevano fitti sui solchi,
altri venivano dai legatori raccolti in covoni.
Tre legatori c'erano, ritti, mentre ragazzi
spigolavano dietro, portando altre spighe a bracciate,
senza sosta ne depositavano. E il re in mezzo a loro,
in silenzio stringendo lo scettro sul solco, gioiva.
In disparte gli araldi, sotto una quercia apprestavano il pasto:
un grosso bue immolato, e sopra le donne spargevano
bianca farina d'orzo, come pasto ai mietitori.
Poi vi poneva una grande vigna, stracolma di uva,
bella, dorata, carica dappertutto di grappoli neri,
che si reggeva da un capo all'altro su pali d'argento.
Vi tracciò intorno un fossato di smalto e una siepe di stagno;
c’era solo un sentiero che ad essa conduceva:
i portatori lo attraversavano per la vendemmia.
E ragazze assieme a ragazzi con animo lieto
in canestri intrecciati portavano il frutto dolcissimo.
In mezzo a loro un altro ragazzo con cetra arguta
graziosamente suonava e cantava con limpida voce
una bella canzone, e, battendo il tempo, seguivano
gli altri insieme, cantando gridando e saltellando.
Poi vi raffigurò una mandria di buoi, corna dritte;
erano fatte tutte d'oro le vacche e di stagno,
e dalla stalla, muggendo, muovevano verso il pascolo,
lungo un fiume rumoreggiante e un canneto flessuoso.
Quattro pastori dorati andavano assieme alle vacche,

374
e li seguivano nove cani dai piedi veloci.
Due spaventosi leoni in mezzo alle prime vacche
toro mugghiante abbrancavano e cercavano di trascinarlo,
lui che muggiva. E i cani e i giovani lo seguivano,
ma quelli, lacerata la pelle del grande animale,
viscere e nero sangue ne succhiavano; allora i pastori
li inseguivano, aizzando i cani veloci.
Questi si ritraevano dal mordere i leoni,
e stando molto vicino, abbaiavano e se ne guardavano.
Quindi lo Zoppo illustre un pascolo vi raffigurò,
grande, di pecore candide, in una valle bellissima,
con stalle e chiusi e con capanne coperte da un tetto.
Poi lo Zoppo illustre una pista scolpì per la danza,
simile quella che una volta nell'ampia Cnosso
Dèdalo costruì per Ariadne riccioli belli.
Lì ragazzi e ragazze, che valgono molti buoi,
danzavano tenendosi per mano all'altezza del polso.
Vesti sottili vestivano le ragazze, e i ragazzi vestivano
tuniche ben lavorate, brillanti di olio soave.
Belle ghirlande portavano le prime, e spade i secondi,
tutte d'oro, che stavano appese a cinture d'argento.
Ora essi correvano, con piedi esperti, alla danza,
molto agilmente, come vasaio seduto che prova
nelle mani la ruota ben fatta, per vedere se gira;
ora correvano in fila incontrandosi gli uni con gli altri.
Si accalcava gran folla per la danza fascinosa,
deliziandosi allo spettacolo, e intanto due acrobati
volteggiavano nel mezzo, dando inizio alla festa.
Vi mise infine la grande potenza del fiume Oceano,
proprio al margine estremo del grande solido scudo.
Quindi, dopo aver fatto lo scudo grande e robusto,
più splendente di vampa di fuoco corazza gli fece,
elmo possente gli fece che aderisse bene alle tempie,
bello, istoriato, e sopra un cimiero dorato vi mise,

375
e anche gambiere gli forgiò di stagno flessibile.
Quand'ebbe completato lo Zoppo illustre le armi,
alla madre di Achille, sollevandole in alto, le porse,
ed ella come falco balzò dall'Olimpo nevoso,
portandosi le armi luccicanti da parte di Efesto.

376
LIBRO XIX

La fine dell’ira.

Sorta l’aurora, Teti con le armi torna dal figlio, e lo trova piangente, steso a terra e
abbracciato a Patroclo. Solo mostrandogli le armi, riesce a distoglierlo, accendendo
in lui la brama di vendetta. Si procede al solenne ripristino, nel quale Agamemnon
si dichiara pentito, ma attribuisce la colpa ad Ate, la Follia, che si insinua nella
mente umana e la travolge. Ella sedusse anche Zeus, raggirato da Hera. Achille ha
fretta di entrare nello scontro e si dichiara già pronto. Ma Odìsseo gli obietta che
non si può combattere a digiuno. Achille gli risponde che lui non toccherà cibo
prima di aver portato a termine la vendetta; essi pertanto mangino pure, se
vogliono. Vengono portati i doni promessi, fra i quali anche Briseide. Achille
sembra non accorgersene, ma la fanciulla, alla quale Achille ha ucciso oltre ad altri
parenti lo sposo designato, appena vede Patroclo morto, lo compiange, definendolo
“sempre dolce”, e rammentando che lui le aveva promesso di convincere Achille a
farla sua sposa a Ftia. Ma il dolore di Achille non si placa: in una nuova allocuzione
al cadavere, l’eroe dichiara che mai proverà un dolore altrettanto grande, né per la
morte del padre, né per quella del figlio. Atena interviene su Achille, nutrendolo
con nettare e ambrosia, perché non perda le forze durante il combattimento.
Achille allora si arma e incita i cavalli. Uno di essi, Sauro, per volontà di Hera, parla
e gli comunica che fra breve verrà ucciso. Achille risponde che lo sa ma che porterà
a temine la vendetta.

Peplo di croco Aurora dal flusso d’Oceano sorgeva


per portare agli immortali e ai mortali la luce.
E lei giungeva alle navi, portando i doni del dio;
e trovò il figlio disteso, a Patroclo abbracciato,
e che piangeva acuto, ed intorno molti compagni
pure piangevano. A loro si appressò la splendida dea;
lo prese per la mano, gli rivolse parola, gli disse:
“Lasciamolo, creatura, per quanto contrariati,
giacere; è stato ucciso per volere degli dèi.

377
Ma tu ricevi le armi illustri da parte di Efesto,
quali, bellissime, mai nessun uomo sulle spalle ha indossato”.
Disse così, e la dea le armi davanti ad Achille
depose, e tutte, com’erano variopinte, risuonarono.
Tutti i Mirmìdoni li prese un tremito, nessuno osava
dritto guardare, ma arretrarono. Invece Achille,
come le vide, di più dalla bile fu preso, e i suoi occhi
tremendi come fiamma sotto le palpebre luccicarono:
gioì di avere in mano le splendide armi del dio.
E dopo aver gioito e ammirato le armi istoriate,
ecco che allora a sua madre alate parole diceva:
“Madre, le armi un dio me le ha date, quali è chiaro
che sono opera degli immortali, di un mortale no certo.
Ed io senz’altro le indosserò. Ma terribilmente
temo che nel frattempo nel forte Menetìade
attraverso le piaghe del bronzo le mosche insinuandosi,
facciano nascere vermi, e sconcino il cadavere –
perché la vita è estinta -, e tutta la carne marcisca”.
E, di rimando, gli disse la dea Teti dai piedi d’argento:
“Creatura, tu non devi di questo preoccuparti:
cercherò io di tenere lontana quella razza selvaggia,
le mosche, che i caduti in guerra si divorano;
e se persino giacesse sino al compiersi di un anno,
sempre avrà il corpo inalterato, persino più bello.
Tu però, convocati gli eroi achei in assemblea,
l’ira deponi per Agamemnon pastore di popoli,
e àrmati subito per la guerra, di forza rivèstiti”.
Disse così, e gli infuse vigore oltre misura,
e ambrosia e rosso nettare a Patroclo istillò
per le narici, perché il corpo non si disfacesse.
Lungo la riva del mare si avviò lo splendido Achille,
terribilmente gridando, e suscitò gli eroi Achei.
E anche quelli che prima rimanevano al campo navale,
i timonieri, che reggevano i timoni,

378
i dispensieri, addetti a distribuire il cibo,
anch’essi all’assemblea si recarono, perché Achille
era riapparso, da troppo mancava dallo scontro penoso.
E giunsero due scudieri di Ares zoppicando,
il Tidide bellicoso e lo splendiodo Odìsseo,
che si appoggiavano all’asta, avevano ancora ferite
dolorose. E sedettero, procedendo, in prima fila.
Giunse per ultimo il sovrano di eroi Agamemnon,
pure ferito. Nella mischia furibonda
con l’asta bronzea lo aveva colpito Coòne di Antenore.
E non appena gli Achei si furono insieme riuniti,
alzatosi fra loro, così disse Achille veloce:
“Atride, forse è stato meglio per tutti e due,
per me e per te, che fossimo esacerbati nel cuore
da lite degradante, adirati per una fanciulla?
Oh se l’avesse Artemide sulle navi uccisa di freccia,
il giorno che la presi, una volta distrutta Lirnesso!
Tanti Achei non avrebbero morso la terra infinita
sotto le mani nemiche, per colpa di me incollerito.
Per Ettore e per i Troiani sì vantaggio! Ma gli Achei
ricorderanno suppongo a lungo la nostra lite.
Ma ciò che è stato lasciamolo andare, per quanto crucciati,
reprimendo il cuore nel petto come si conviene.
Ora depongo la collera, giacché non devo restare
per sempre senza sosta adirato. Adesso presto
tu convoca alla guerra gli Achei dai lunghi capelli:
voglio tentare i Troiani, muovendomi contro di loro,
se vogliono alle navi pernottare; ma non credo
che volentieri qualcuno poserà le ginocchia, fuggendo
dall’aspra guerra sotto la spinta della mia lancia”.
Disse così, e si allietarono gli Achei dalle belle gambiere
che avesse desistito dall’ira il Pelide magnanimo.
E così loro parlò il sovrano di eroi Agamemnon,
stando seduto sul seggio, senza alzarsi in mezzo a loro:

379
“Amici miei, o Dànai eroi, scudieri di Ares,
bello è ascoltare un uomo che si alza, non sta bene
interromperlo: ciò dà fastidio persino a chi è esperto.
In gran fracasso di uomini chi mai potrebbe udire
o dire? Anche un esperto parlatore è danneggiato.
Mi spiegherò col figlio di Pèleo; ma voi altri
fate attenzione, Argivi, e ciascuno di voi mi capisca.
Spesso lo stesso discorso mi facevano gli Achei,
mi censuravano. Io però non mi sento colpevole,
ma Zeus, la Moira e l’Erini che si aggira nella tenebra:
essi nell’assemblea mi gettarono in cuore Follia
selvaggia, il dì che il premio io stesso ad Achille strappai.
Che avrei potuto fare? E’ il dio che compie ogni cosa.
Figlia maggiore di Zeus è Follia, che tutti acceca,
rovinosa, dai morbidi piedi, e neppure per terra
procede, ma cammina fra le teste degli umani,
danno recando agli uomini, uno sì e uno no ne incatena.
E una volta anche Zeus fu accecato, lui che dicono
ottimo essere fra uomini e dèi; ma anche lui
Hera, che è femmina, lo trasse in inganno con un marchingegno,
e ciò fu quando Alcmene per dare alla luce il fortissimo
Eracle stava, a Tebe coronata di belle mura.
E così disse a tutti gli dèi, menando vanto:
“Ascoltatemi, voi dèi tutti e voi dee tutte,
perch’io vi dica ciò che nel petto il cuore mi spinge.
Oggi Ilitia che assiste ai parti un uomo alla luce
darà, che regnerà su tutti i confinanti,
della stirpe degli uomini che discendono dal mio sangue”.
E a lui, tramando inganno, rispose Hera sovrana:
“Tu mentirai, compimento non darai a quanto dici;
giura pertanto, Olimpio, il giuramento supremo,
che regnerà veramente su tutti i confinanti
chi in questo giorno cadrà tra i piedi di una donna,
della stirpe degli uomini che discendono dal tuo sangue!”

380
Disse così; e Zeus non comprese il marchingegno,
ma giurò il gran giuramento, e così fu accecato.
Hera lasciò con un balzo la vetta dell’Olimpo,
e giunse subito ad Argo achea, dove sapeva
che la valente sposa di Stènelo figlio di Pèrseo
di un caro figlio era pregna, ed era già al settimo mese.
Lo fece uscire alla luce che non era ancora maturo,
tenne sospeso il parto di Alcmene, trattenne le Ilitie,
e, lei stessa annunciandolo, così disse a Zeus Cronìde:
“Zeus padre fulminatore, ti dirò questa cosa nel cuore:
è nato già quell’uomo eccellente, che sugli Argivi
regnerà, Eurìsteo, figlio di Stènelo, figlio di Pèrseo,
tua stirpe; non è indegno di regnare sugli Argivi”.
Disse, e dolore acuto lo trafisse dentro al petto;
e subito Follia afferrò per le chiome splendenti,
sdegnato nel suo cuore, e giurò il giuramento supremo,
che sull’Olimpo mai più in futuro e al cielo stellato
sarebbe ritornata Follia che tutti acceca.
Disse così, e con le mani roteandola dal cielo stellato
la scagliò; e giunse subito alle opere degli uomini.
Ma pur sempre di lei si lagnava, se vedeva suo figlio
sopportare indegne fatiche, per le prove di Eurìsteo.
E così anch’io, quando il grande Ettore elmo che splende
sterminava gli Argivi alle poppe delle navi,
non potevo scordare Follia, che mi ha accecato.
Ma poiché mi accecai, e Zeus mi tolse il comprendonio,
subito voglio piacerti e donarti ammenda infinita.
Ma sorgi alla battaglia e ridesta gli altri guerrieri;
doni, gli stessi, ti darò tutti quanti, quelli che ieri
nella tua tenda lo splendido Odìsseo ti promise.
E, se ti piace, aspetta, per quanto bramoso di Ares,
e gli scudieri i doni dalla mia nave prenderanno
e porteranno a te, che tu veda se ti piacciono”.
E, di rimando, così gli disse Achille veloce:

381
“Colmo di gloria Atride, sovrano di eroi Agamemnon,
i doni, se vorrai, consegnali, come ti pare,
o trattienili presso di te; ora del conflitto
rammentiamoci subito; non c’è posto per le ciaccole
né per gli indugi; ancora c’è molto di incompiuto.
Come ciascuno di nuovo vedrà Achille in prima fila
con l’asta bronzea distruggere le schiere dei Troiani,
così ciascuno memore combatta contro l’uomo”.
E, di rimando, gli disse il molto astuto Odìsseo:
“Pur valoroso, Achille pari a un dio, non incitare
i figli degli Achei digiuni contro Ilio,
per combattere i Troiani; non durerà poco
lo scontro, non appena si azzufferanno le schiere
degli uomini, e vigore infonda un dio in entrambi.
Ordina invece che gli Achei alle navi veloci
di vino e di cibo pasteggino, che sono vigore e coraggio.
Uomo nessuno c’è che sino al tramonto del sole
sia in grado di combattere, se non ha prima mangiato.
Se pure nel suo cuore brama scontro, le sue membra,
senza che se ne accorga, si aggravano, sete e fame
subentrano, gli cedono, se procede, le ginocchia.
Invece l’uomo che sia sazio di vino e di cibo,
è in grado di scontrarsi tutto il giorno coi nemici,
è intrepido il suo cuore nel petto e le sue membra,
prima che tutti non smettano di combattere, non cedono.
Sciogli pertanto l’armata, e dà ordine che si prepari
il pasto; nel frattempo il sovrano di eroi Agamemnon
faccia portare in assemblea, perché tutti gli Achei
vedano i doni con gli occhi, e tu possa rinfrancarti.
Poi giuri il giuramento, levatosi fra gli Argivi,
che mai si unì in amore, salito sul suo letto,
come è costume, o sovrano, fra gli uomini e le donne;
così il tuo cuore nel tuo petto si rassereni.
Poi in seguito ti offra banchetto nella tenda,

382
ricco, che tu non abbia di meno di quanto ti spetta.
Figlio di Àtreo, poi in futuro sii più giusto
anche per gli altri; nulla c’è di male per un re
che vada incontro a un uomo che lui prima ha insolentito”.
E così gli rispose il sovrano di eroi Agamemnon:
“ Gioisco, Laertìade, a sentire ciò che dici.
Tutto a proposito hai spiegato e messo in chiaro.
Pronuncerò il giuramento, perché il cuore a ciò mi spinge.
E non spergiurerò per il dio; ma intanto Achille
qui resti, nonostante desideroso di Ares;
restate tutti insieme riuniti, sino a che i doni
giungano dalla tenda e stipuliamo il patto.
Raccomando proprio a te e ti suggerisco:
scelti i più nobili giovani fra tutti quanti gli Achei,
porta dalla mia tenda i doni, quanti ad Achille
ieri di dargli promettemmo; e porta le donne.
Presto Taltibio mi porti dal vasto campo degli Achei
un cinghiale: a Zeus e al Sole lo si immoli”.
E, di rimando, così gli disse Achille veloce:
“Colmo di gloria Atride, sovrano di eroi Agamemnon,
un’altra volta e meglio vi occuperete di questo,
non appena una pausa ci sarà nella battaglia,
e nel mio petto non ci sarà così grande furore.
Giacciono ancora dilaniati tutti quelli che uccise
Ettore figlio di Priamo, quando Zeus gli diede gloria,
e mi invitate voi due a mangiare. Invece io
incito adesso a combattere i figli degli Achei,
anche digiuni; e appena il sole sarà tramontato,
grande banchetto allestiremo, ripagata l’offesa.
Prima per la mia gola non potrà giammai passare
né cibo né bevanda, perché è morto il mio compagno:
nella mia tenda, dilaniato da bronzo acuto,
verso la soglia rivolto giace, e intorno i compagni
gemono; nel mio cuore non mi importa tutto questo,

383
ma strage, sangue e gemito penoso degli umani”.
E, di rimando, gli disse il molto astuto Odìsseo:
“Figlio di Pèleo, Achille, il più forte degli Achei,
di me migliore e non di poco di me più capace
con l’asta, tuttavia superarti potrò quanto a senno
di molto: sono di te più anziano e so più cose.
Dunque sopporti il tuo cuore i miei suggerimenti:
presto subentra negli uomini sazietà nella battaglia,
dove moltissima paglia il bronzo a terra riversa,
ma pochissima messe, quando inclina Zeus la bilancia,
ch’è delle guerre degli umani il dispensiere.
Gli Achei non è ammissibile che piangano il morto col ventre;
davvero troppi e troppo folti tutti i giorni
cadono; e quando mai trarranno il fiato dall’affanno?
Invece è giusto dare sepoltura se uno muore,
con cuore duro, dopo aver pianto un solo giorno.
Ma quanti sopravvivono alla guerra detestabile,
devono ricordarsi di bevanda e di cibo; ancor meglio
contro i nemici si combatterà e incessantemente,
di bronzo indistruttibile rivestiti; e nessun guerriero
si fermi ad aspettare un secondo incitamento;
pessimo quello sarebbe, per colui che rimanesse
presso le navi argive; ma irrompendo tutti in massa,
sui Troiani domatori di cavalli aspro Ares destiamo”.
Disse; e con sé prese il figlio del valoroso Nestore,
e Megète figlio di Fìleo e Poante e Merìone,
e Licomède figlio di Creonte, e Melanippo.
E di Agamemnon Atride alla tenda si avviarono,
e alla parola, detto fatto, corrispose l’evento;
e dalla tenda portarono i sette tripodi promessi,
venti lebèti lucenti e dodici cavalli,
e poi le donne, capaci di opere perfette,
sette, e infine l’ottava, Briseide bella guancia.
Dieci interi talenti d’oro Odìsseo pesò,

384
e precedette, e portavano i giovani Achei gli altri doni.
Li misero nel mezzo dell’adunanza, e si alzò in piedi
Agamemnon; Taltibio, ch’era simile a un dio per la voce,
con tra le braccia un cinghiale, stava accanto al pastore di popoli.
E l’Atride, estratto il coltello con la mano,
che stava appeso accanto al gran fodero della spada,
i peli del cinghiale recise, poi levando
le mani a Zeus pregava; tutti intorno in silenzio sedevano,
conformemente al rito, gli Argivi, e il re ascoltavano.
E così disse, pregando e guardando il vasto cielo:
“Lo sappiano Zeus padre, degli dèi il supremo e l’ottimo,
e la Terra e il Sole e le Erini, che puniscono
sotto la terra chiunque pronunzi falso giuramento:
giammai sulla ragazza Briseide ho messo mano,
né allo scopo di servirmi del letto, né ad alcun altro;
ma se ne stava tranquilla e illibata nella mia tenda.
E se spergiuro, gli dèi mi diano dolori, moltissimi,
quanti ne danno se uno li inganna spergiurando”.
Disse, e recise la gola del cinghiale col bronzo spietato,
che Taltibio nel grande abisso del mare canuto,
pasto ai pesci, scagliò, roteandolo; allora Achille,
alzatosi, parlava agli Argivi bellicosi:
“Zeus padre, grandi follie agli uomini tu ispiri!
Altrimenti il mio cuore nel petto mai l’Atride
sconvolto non avrebbe, né avrebbe mai strappato,
spietato, la ragazza a me nolente. Ma Zeus
forse voleva che a molti Achei giungesse morte.
Ora recatevi al pasto, per poi ricongiungervi ad Ares”.
Disse così, e di fretta disciolse l’assemblea;
ed essi si dispersero ciascuno alla sua nave.
Dei doni si curarono i Mirmìdoni magnanimi,
e li portarono alla nave di Achille divino.
Dentro la tenda li posero, sistemarono le donne,
e spinsero i cavalli nella mandria i valenti scudieri.

385
Quindi Briseide, simile all’aurea Afrodite,
appena vide Patroclo dilaniato dal bronzo acuto,
forte gemette gettandosi su di lui, e con le mani
il petto e il collo morbido e il bel volto si graffiava.
E così disse piangendo la donna pari alle dee:
“Patroclo, graditissimo più di tutti al mio povero cuore,
vivo da questa tenda uscendo ti ho lasciato,
e adesso morto ti ritrovo, o capo di popoli,
al mio ritorno; come da male a me male si aggiunge!
L’uomo che il padre e la madre sovrana mi assegnarono,
davanti alla città dilaniato da bronzo acuto
l’ho visto; e tre fratelli che l’unica madre mi diede,
carissimi, che al giorno funesto andarono incontro.
Ma quando Achille veloce uccise mio marito
e distrusse la città del divino Minète,
non mi lasciavi piangere, mi dicevi che di Achille
mi avresti fatto sposa, e che mi avresti portato
per nave a Ftia, con banchetto di nozze fra i Mirmìdoni.
Perciò ti piango morto senza sosta, tu sempre dolcissimo”.
Disse così piangendo, e gemevano intorno le donne,
per Patroclo a parole, ma ciascuna per sua pena.
E intorno a lui si riunirono gli anziani achei, supplicandolo
che mangiasse, ma lui si rifiutava gemendo:
“ Vi supplico, se alcuno mi dà retta dei compagni;
non mi incitate a saziare di cibo e di bevanda
il caro cuore; tremendo dolore mi sovrasta.
Sino al tramonto del sole resisterò e sopporterò”.
Disse, e fece che gli altri re si allontanassero;
ma i due Atridi restarono e lo splendido Odìsseo e Nestore
e Idomèneo e il vecchio Fenice cavaliere,
per consolarlo così disperato; ma si rifiutava,
prima di immergersi nella voragine della guerra cruenta.
E rammentando, fitto sospirava, e così disse:
“Tu nel passato, misero, dei compagni a me il più caro,

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dentro la tenda allestivi per me una cena gradita,
presto e con cura, quando si affrettavano gli Achei
a portare ai Troiani domatori di cavalli la guerra.
Ora tu giaci dilaniato, e pertanto il mio cuore
cibo e bevanda rifiuta, nonostante dentro non manchino,
per il rimpianto di te. Non potrei soffrire più grande
pena, neppure se sapessi ch’è morto mio padre,
che forse adesso a Ftia sta versando tenere lacrime
per nostalgia di questo suo figlio, che in terra straniera
contro i Troiani combatte per Elena ributtante;
o il caro figlio, che adesso a Sciro viene allevato,
se pure è ancora vivo, Neottòlemo pari agli dèi.
Prima il mio cuore nel petto nutriva la speranza
che solo io sarei morto lungi da Argo che nutre cavalli,
qua nella Troade, e tu a Ftia saresti tornato,
perché mio figlio nella nera nave veloce
da Sciro riportassi: gli avresti mostrato ogni cosa,
le mie ricchezze, i domestici, la casa dall’alto soffitto.
Ma credo che ormai Pèleo o sia senz’altro morto,
oppure che, rimasto un soffio di vita, si crucci
della vecchiaia odiosa e stia aspettando sempre
la dolorosa notizia: di sapere la mia morte”.
Disse così pregando, e gli anziani in risposta gemevano,
ciascuno rammentando ciò che a casa aveva lasciato.
Li vide piangere e li compianse il figlio di Crono,
e subito ad Atena alate parole diecva:
“Creatura, dell’eroe ti sei dimenticata
del tutto, nel tuo cuore non ti curi più di Achille?
Lui se ne sta davanti alle navi eccelse poppe,
il suo caro compagno piangendo; invece gli altri
vanno a mangiare, lui resta affamato, senza cibo.
Ma subito corri e versagli nettare e ambrosia amabile
dentro al petto, perché la fame non lo prenda”.
Disse così, e spronava Atena già impaziente:

387
simile a procellaria ali tese, voce acuta,
precipitò dal cielo per l’etere. Intanto gli Achei
velocemente nel campo sia armavano, e dentro al petto
nettare e ambrosia amabile ad Achille lei versò,
che la molesta fame non giungesse alle ginocchia.
Poi alla solida casa del padre assai potente
se ne tornò. E si riversarono dalle navi veloci.
E come fitti fiocchi di neve di Zeus volteggiano
gelidi sotto l’impulso di Bòrea nato dall’etere,
simili gli elmi fitti, scintillando luminosi,
dalle navi sortivano, e gli scudi ombelicati,
e le corazze dalle solide piastre e le lance di frassino.
Giungeva al cielo il luccichìo, tutta la terra rideva
al lampeggiare del bronzo; dai piedi sorgeva il fragore
degli uomini; ed in mezzo si armava lo splendido Achille.
I suoi denti persino stridevano, e i suoi occhi
mandavano bagliori come fiamma di fuoco, il suo cuore
angoscia insopportabile lo inondava; e contro i Troiani
fremendo, si vestì delle armi donate da Efesto.
Prime intorno alle gambe si mise le gambiere,
belle, ben rafforzate di copricaviglia d’argento,
seconda la corazza si rivestì sopra il petto;
spada con borchie d’argento si appese sulle spalle,
bronzea, quindi lo scudo, ch’era grande e poderoso,
prese; da lungi bagliore mandava come di luna.
E quale appare bagliore dal mare ai naviganti
come di fuoco che arde, che brucia in alto sui monti,
dentro una stalla deserta – se li portarono via
per il mare pescoso le tempeste, lontano dai cari -,
tale saliva all’etere il bagliore dello scudo
bello istoriato di Achille; poi l’elmo, sollevatolo,
sul capo si posò, pesante; come astro splendeva
l’elmo dal ciuffo equino, e ondeggiava la criniera
d’oro, che folta Efesto faceva scendere attorno al pennacchio.

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Fece una prova delle sue armi lo splendido Achille,
se mai gli si adattassero, se le splendide gambe corressero;
come ali gli divennero, sollevarono il pastore di popoli.
Dalla custodia infine estrasse la lancia paterna,
greve robusta grande –nessun altro degli Achei
la palleggiava, ma il solo Achille ne era capace -,
del frassino del Pelio, che Chirone diede al padre,
dalla cima del Pelio, perché strage facesse di eroi.
Àlcimo ed Automedonte si occuparono dei cavalli,
li aggiogarono, misero bei collari, ed applicarono
i morsi alle mascelle, e tirarono indietro le redini
verso il carro ben connesso; e afferrò con la mano
la frusta lucida, maneggevole, e salì sopra il carro,
Automedonte; Achille gli andò dietro ben armato,
splendido nelle armi, a Iperìon radioso simile,
e gettò un urlo terribile ai cavalli di suo padre:
“Sauro e Pezzato, illustri figli di Podarge,
diversamente pensate di salvare l’auriga, nel gruppo
dei Dànai riportandolo, quando sazi saremo di guerra,
senza lasciarlo come Patroclo morto avete lasciato!”
Da sotto il giogo il cavallo dagli zoccoli frementi,
Sauro, abbassò ad un tratto la testa, e la criniera,
cadendo dal collare, lungo il giogo giunse al suolo;
e parlante lo rese la dea braccia candide Hera:
“ Davvero ancora ti salveremo, Achille tremendo;
ma ti è vicino il giorno di morte; e noi non siamo
responsabili, ma un grande dio e la Moira sovrana;
né per lentezza nostra o per trascuratezza
i Troiani hanno tolto le armi dalle spalle di Patroclo;
ma degli dèi il migliore, di Letò bella chioma il figlio:
lo ha ucciso in prima fila, a Ettore ha dato gloria.
E noi potremmo correre assieme ai soffi di Zefiro,
che il più veloce dicono che sia, ma ti è assegnato
di essere domato da un dio e da un uomo con forza”.

389
Parlò così, e la voce le Erini gli arrestarono;
e a lui, molto turbato, rispose Achille veloce:
“Sauro, perché mi predici la morte? Non ti spetta.
Sì, lo so bene anch’io che devo qui morire,
lungi dal caro padre e dalla madre; ma lo stesso
prima non smetterò di saziare di guerra i Troiani”.
Disse, e, gridando, i cavalli duri zoccoli spinse fra i primi.

390
LIBRO XX

La battaglia degli dèi.

Con il rientro di Achille, si riaccende la lotta. Zeus comunica agli dèi, riuniti a
concilio, che ormai il divieto imposto loro di soccorrere una parte o l’altra è abolito:
essi possono agire nei confronti dei loro protetti a piacimento. A seguito di ciò, i
due schieramenti divini si affrontano da due luoghi di osservazione, intervenendo di
volta in volta nel conflitto e spesso scontrandosi fra di loro, con veri e propri
episodi di zuffe e alterchi fra divinità. Enea sfida Achille. Ne nasce un alterco, in
cui i due eroi esibiscono le loro discendenze divine. Si viene allo scontro, ma Enea
non può morire, in quanto destinato a perpetuare la stirpe di Dàrdano. A tal fine,
interviene Posidone, il quale mette in salvo Enea, sollevandolo di peso e
depositandolo in un altro luogo del campo. Achille, sgomento per il prodigio,
continua la strage, uccidendo Polidoro, il più giovane figlio di Priamo, e pertanto
fratello di Ettore. Il dolore di quest’ultimo è grande, a tal punto da osare di sfidare
Achille. Al quale non sembra vero di trovarsi dinanzi al suo detestato nemico, ma
in realtà si illude: non è ancora giunto il suo momento. E così Atena devia la lancia
di Achille, ed Ettore, per ora, si mette in salvo. Achille allora riprende la lotta,
compiendo una strage.

Lungo le navi ricurve così gli Achei si armavano,


figlio di Pèleo, insaziabile di scontro, intorno a te;
e i Troiani in disparte, sul rialzo della piana.
Zeus diede ordine a Temi di chiamare gli dèi a consiglio,
dall’alto dell’Olimpo dirupato; e da ogni parte
aggirandosi, nella reggia di Zeus li fece andare.
Neppure uno dei fiumi mancava, tranne Oceano,
né delle ninfe che hanno dimora nelle belle foreste,
e abitano le sorgenti dei fiumi e i prati erbosi.
E appena giunti alla reggia di Zeus che aduna le nubi,
sedettero sotto i portici levigati, che a Zeus padre

391
Efesto aveva fatto con l’arte sua perfetta.
E si riunirono nella casa di Zeus. Ma lo Scuotiterra
sordo non fu alla dea, ma dal mare giunse a loro,
e si sedette nel mezzo, e sul piano di Zeus fece inchiesta:
“Perché, fulminatore, convocasti gli dèi a consiglio?
Forse progetti qualcosa sui Troiani e sugli Achei?
Ardono ormai fra di loro la guerra e la battaglia”.
E, di rimando, gli disse Zeus che aduna le nubi:
“Hai colto, Scuotiterra, il mio piano in fondo al petto,
perché vi ho convocati; pur morenti, essi mi premono.
Ma io me ne starò in un anfratto dell’Olimpo,
seduto, e allieterò, guardando, il mio cuore. Voi altri
andate pure all’incontro coi Troiani e con gli Achei,
onde recare aiuto a entrambi, come più vi piace.
Se Achille coi Troiani combatterà da solo,
neanche un istante resisteranno al Pelide veloce;
anche in passato dal tremito erano presi soltanto al vederlo.
Ora che in cuore è sconvolto per il compagno dalla collera,
temo che contro il destino distrugga anche le mura”.
Disse così il Cronìde; e ridestò uno scontro selvaggio.
E scesero alla guerra gli dèi, coi cuori divisi.
Hera nel campo delle navi e Pallade Atena
e Posidone Gaiàoco andarono, e il Benigno,
Ermès, che si distingue per spiccata intelligenza.
Con loro Efesto andava, superbo della sua forza,
ma claudicante, di sotto si agitavano le esili gambe.
Ares elmo che splende andò dai Troiani, e con lui
Apollo chioma intonsa e Àrtemis saettatrice,
e Letò e Xanto e Afrodite che ama il sorriso.
Sinché gli dèi restavano in disparte dai mortali,
gli Achei di molto prevalevano, perché Achille
era riapparso, da troppo mancava dallo scontro penoso.
Tremito orrendo invase le membra di ciascuno
dei Troiani, non appena videro il Pelide veloce,

392
splendido nelle armi, pari ad Ares distruttore.
Ma appena giunsero in mezzo agli uomini gli Olimpii,
violenta si destò la contesa che aizza, e talvolta
stando al di là del muro lungo il fosso Atena gridava,
talaltra dalle rive sonore altamente ululava.
Dall’altro lato urlava Ares, pari a nera procella,
aspro incutendo coraggio ai Troiani dalla rocca,
o lungo il Simoenta sul Bel Poggio scorrazzando.
Così gli dèi beati, incitando chi l’uno chi l’altro,
li aizzarono, e scatenarono orrenda contesa.
Tuonò terribilmente il padre di uomini e dèi,
dall’alto; e pure di sotto Posidone diede una scossa
alla terra infinita e alle vette scoscese dei monti.
E tutte le pendici dell’Ida molte sorgenti
tremarono e le cime, e Troia e le navi achee.
E di sotto temette il sovrano degli Inferi Ade,
e, tremebondo, dal trono balzò, e gridava: la terra
non gli spaccasse sul capo Posidone Scuotiterra,
sì che le case apparissero ai mortali e agli immortali
orripilanti ammuffite, che persino gli dèi detestano.
Tale il fracasso si destò degli dèi, contrapposti in contesa.
E dunque faccia a faccia a Posidone sovrano
Febo Apollo si posizionò, con le sue frecce alate,
e faccia a faccia a Enialio la dea Atena dagli occhi lucenti;
e così a Hera si oppose freccia d’oro, strepitante,
Àrtemis saettatrice, la sorella dell’Arciere;
e si dispose contro Letò Ermès, forte e benigno;
e contro Efesto il grande fiume gorghi profondi,
che Xanto gli dèi chiamano, e gli uomini Scamandro.
E così si schieravano gli dèi. Frattanto Achille
bramava immergersi nella mischia contro Ettore
figlio di Priamo; il suo cuore lo spingeva a satollare
Ares guerriero munito di scudo col suo sangue.
Ma dritto Apollo che aizza le armate Enea suscitò

393
contro il Pelide, e gli infuse intrepido vigore;
e sembrò nella voce Licàon figlio di Priamo.
E lui sembrando, gli disse il figlio di Zeus Apollo:
“Dei Troiani Enea consigliere, dove sono finite
le minacce, ai capi troiani promesse, bevendo,
che Achille figlio di Pèleo avresti in duello affrontato?”
E, di rimando, a lui Enea così rispose:
“Figlio di Priamo, perché mi spingi a ciò che non voglio,
ad affrontare in duello il figlio di Pèleo sfrenato?
E non certo è la prima volta che Achille veloce
affronterò; con l’asta mi mise in fuga già in passato
dall’Ida, quando fece assalto alle nostre mandrie,
e distrusse Lirnesso e Pèdaso; allora Zeus
mi trasse in salvo, mi diede vigore e agili gambe;
mi avrebbero domato le mani di Achille ed Atena,
che, precedendolo, luce gli dava, e lo incitava
Lèlegi e Troiani con l’asta di bronzo ad uccidere.
Dunque che un uomo affronti Achille non è consentito,
sempre lo assiste un dio, che gli storni la rovina.
Ben altrimenti dritto vola il tiro di lui, né desiste
prima di penetrare nella carne di un uomo. Se un dio
pari rendesse le sorti di guerra, non facilmente
mi vincerebbe, per quanto si vanti di essere bronzeo”.
E gli rispose il figlio di Zeus, Apollo sovrano:
“Eroe, suvvia anche tu gli dèi che vivono sempre
prega; anche tu sei figlio, come dicono, di Afrodite,
figlia di Zeus; lui proviene da una dea di rango inferiore:
figlia di Zeus la prima, la seconda del vecchio marino.
Dritto tu porta il tuo bronzo infrangibile; né in alcun modo
devi lasciarti deviare da insolenze e da minacce”.
Disse così, ed infuse gran vigore al pastore di popoli.
Si mosse in prima fila, rivestito di bronzo splendente;
ma ad Hera candide braccia non sfuggì di Anchise il figlio,
che si muoveva contro il Pelide nella mischia degli uomini.

394
E, radunati gli dèi, così a loro si rivolse:
“Posidone ed Atena, fra voi due considerate
nella vostra mente, come andranno queste cose:
Enea si è mosso, rivestito di bronzo splendente,
contro il Pelide; ve lo ha spinto Febo Apollo.
Forza, suvvia, respingiamolo indietro per quanto è possibile,
da quel posto; oppure qualcuno di noi ad Achille
stia accanto, grande forza gli infonda, perché in cuore
non venga meno, e sappia che i più forti dèi lo amano,
fra gli immortali, e che invece sono inutili quelli che è un pezzo
che assistono i Troiani nella guerra e nella carneficina.
Tutti giungemmo qui dall’Olimpo per azzuffarci
in questo scontro, perché lui non soffra dai Troiani
oggi; a sua volta in seguito soffrirà quanto la Sorte
gli ha già filato alla nascita, quando la madre lo diede alla luce.
Ma se Achille non lo saprà dalla voce di un dio,
avrà paura, se un dio lo affronterà nella battaglia.
Gli dèi sono tremendi, se si rendono palesi”.
E così le rispose Posidone Scuotiterra:
“Hera, non te la prendere fuori luogo, non è il caso.
Non vorrei spingere gli altri dèi alla contesa,
noi contro gli altri, dato che siamo di molto più forti.
Ma piuttosto appartiamoci e mettiamoci a sedere,
in posto di vedetta, spetterà agli uomini la guerra.
Ma se cominceranno Ares e Febo Apollo,
o tratterranno Achille, gli impediranno di combattere,
subito anche per noi comincerà il conflitto,
la zuffa; e credo proprio che del tutto sbaragliati
torneranno in Olimpo, nel consesso degli dèi,
domati dalla forza delle nostre mani invitte”.
Disse così, e s’avviò per primo il dio chioma azzurra,
verso il bastione rotondo di Eracle divino,
alto, quello che i Troiani e Pallade Atena
avevano elevato, perché al mostro marino sfuggisse,

395
quando dal litorale lo braccava verso la piana.
Qui Posidone sedette, e gli altri dèi con lui,
rivestiti alle spalle di una nube impenetrabile.
Quelli dell’altro fronte del Bel Poggio sul ciglio sedettero,
intorno al forte Febo e ad Ares di rocche eversore.
Così da ambo le parti sedevano riflettendo
sui loro piani, ed entrambi allo scontro penoso esitavano
di dare inizio; ma Zeus, seduto in alto, li incitava.
Tutta la piana di uomini e di cavalli si riempì,
e scintillava di bronzo; rombava il suolo sotto i piedi
degli uomini allo scontro; due eroi, di gran lunga i migliori,
l’uno con l’altro si vennero incontro, bramosi di battersi,
Enea figlio di Anchise, da una parte, e lo splendido Achille.
Primo fu Enea che minaccioso gli mosse incontro,
l’elmo robusto squassando; e lo scudo poderoso
davanti al petto tenendo, vibrava la lancia di bronzo.
Dall’altra parte il Pelide gli fu addosso, come un leone
feroce, che un paese brama uccidere, tutto raccolto
intero nei suoi uomini, e sulle prime quello altero
avanza, ma se alcuno dei forti giovani con l’asta
lo coglie, in sé si raggomitola a fauci aperte,
gli viene bava ai denti, e gli geme il forte cuore,
e fianchi e lombi con la coda da entrambe le parti
si fustiga, e incoraggia se stesso alla battaglia,
e diritto con occhi fulgenti si avventa furioso,
se uccidere qualcuno, o morire lui stesso, attaccando.
Così di Achille il furore incalzava e il suo intrepido cuore
ad affrontare faccia a faccia Enea magnanimo.
E quando furono ormai vicini, entrambi avanzando,
primo gli si rivolse lo splendido Achille veloce:
“Enea, perché di tanto ti sei spinto fuori dal gruppo?
Forse il tuo cuore ti incita a scontrarti con me, giacché speri
sui Troiani domatori di cavalli al posto di Priamo
di regnare? Ma ammesso pure che mi uccidessi,

396
non certo Priamo per questo passerebbe a te il potere.
I figli non gli mancano, ed è sano di mente, non sciocco.
Forse i Troiani ti diedero un podere, migliore degli altri,
bello di piante e di maggese, perché lo abitassi,
se riuscirai ad uccidermi? La qual cosa è difficile, credo.
Già un’altra volta, ti dico, tu sfuggisti alla mia lancia.
Tu non rammenti quando eri solo, lontano dai buoi,
e ti stanai dai monti dell’Ida coi piedi veloci,
a precipizio; e tu scappavi e non ti voltavi,
ma a Lirnesso corresti ai ripari; ed io la distrussi,
alle calcagna braccandoti con Atena e con Zeus padre;
e portai via le donne, strappai loro il libero giorno.
Ma Zeus ti trasse in salvo e assieme a lui gli altri dèi.
Che non ti salveranno per due volte, non credo, per quanto
ti prema. Ma piuttosto di arretrare ti consiglio,
di ritirarti nel gruppo, di non starmi qui davanti
prima che danno ti colga; l’accaduto lo sa anche lo sciocco”.
Ed Enea così gli rispose e cosi disse:
“Pelide, non sperare di impaurirmi come un bimbo
con le tue chiacchiere, sono capace bene anch’io
di ripagarti con insulti e contumelie.
Entrambi conosciamo la stirpe e i genitori,
ascoltando i racconti famosi dei mortali.
Tu non hai visto i miei di persona, né io i tuoi.
Dicono che sei figlio di Pèleo irreprensibile
e che tua madre è Teti marina belle trecce;
invece io di essere figlio del magnanimo
Anchise meno vanto, e mia madre è la dea Afrodite.
Gli uni o gli altri quest’oggi la morte piangeranno
del caro figlio; non credo che, dopo aver lottato
con parole puerili, ce ne andremo dal conflitto.
Ma se tu vuoi conoscere anche questo, perché bene sappia
la mia stirpe, sono molti gli uomini che la conoscono.
Zeus che aduna le nubi generò per primo Dàrdano,

397
che Dardania fondò, perché ancora non si ergeva
la sacra Ilio in pianura, città di uomini parlanti,
ma le pendici abitavano dell’Ida molte sorgenti.
Dàrdano un figlio poi generò, il re Erittonio,
che fu davvero il più ricco fra gli uomini mortali:
tremila pascolavano nella prateria cavalle,
femmine tutte, fiere delle loro vivaci puledre.
Di loro Bòrea si innamorò mentre erano al pascolo,
e le montò, sembrando un cavallo azzurra criniera;
ingravidate, dodici puledre generarono,
che quando saltellavano sulla piana datrice di frutti,
sfioravano la punta delle spighe, senza spezzarle;
poi quando saltellavano sul vasto dorso del mare,
correvano lambendo i frangenti del mare canuto.
Ed Erittonio Troo generò, re dei Troiani;
nacquero poi da Troo tre figli irreprensibili,
Ilo e Assàraco e Ganimede pari a un dio,
il quale fu il più bello fra gli uomini mortali.
E gli dèi lo rapirono, che facesse a Zeus da coppiere,
grazie alla sua bellezza, e vivesse fra gli immortali.
E Ilo generò Laomedonte irreprensibile,
e Laomedonte Titòno generò a sua volta e Priamo
e Lampo e Clitio e poi Icetàon germoglio di Ares.
Assàraco poi Capi generò, che fu padre di Anchise;
me generò poi Anchise e Priamo lo splendido Ettore.
Di questa stirpe, di questo sangue mi vanto di essere.
Ma il valore agli uomini è Zeus che lo accresce e lo toglie,
così come gli aggrada, perché è il più potente di tutti.
Ora, suvvia, smettiamola di cianciare come bimbi,
stando nel mezzo della mischia furibonda.
Perché ad entrambi è consentito lanciare improperi,
tanti, che neanche una nave a cento banchi sosterrebbe.
Sciolta è la lingua dei mortali, e ci sono parole,
le più svariate, un pascolo ricco di qua e di là;

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qualunque cosa tu dica, tale e quale ascolterai.
Ma che bisogno abbiamo di contese e di liti fra noi,
cioè di contendere l’uno con l’altro, come fanno le donne,
quando col cuore mangiato dalla voglia di altercare,
andando per la via, se ne dicono di tutte,
vere e non vere? Ma questo è l’effetto della bile.
Non mi distoglierai dallo scontro che desidero,
prima di aver combattuto col bronzo l’un l’altro; ma presto
mettiamoci alla prova ambedue con l’asta bronzea”.
Disse, e la lancia pesante lanciò sullo scudo robusto,
terribile: gemette lo scudo intorno alla punta.
Scansò dal sé il Pelide lo scudo con la mano possente,
impaurito; pensava che la lancia lunga ombra
di Enea magnanimo lo trapassasse agevolmente,
sciocco; non sospettava nell’animo e nel cuore
che non è facile i doni gloriosi degli dèi
per gli uomini mortali domare e sottomettere.
Neppure allora di Enea prudente la lancia pesante
ruppe lo scudo: l’oro, ch’era dono del dio, la trattenne;
ma trapassò due strati, altri tre ne rimanevano,
cinque ne aveva messi, uno sull’altro, lo Sciancato;
due erano di bronzo, e due, all’interno, di stagno;
uno soltanto d’oro, che trattenne la lancia di frassino.
Quindi scagliava Achille la lancia lunga ombra
per secondo, e colse Enea nello scudo rotondo,
proprio sull’orlo, ove il bronzo correva più sottile,
e più sottile la pelle bovina; lo trapassò
il frassino del Pelio, risuonò sotto il colpo lo scudo.
Enea si rannicchiò spaventato e allontanò
da sé lo scudo; al di sopra delle spalle l’asta spinta
si infisse al suolo, dopo aver passato il doppio giro
dell’ampio scudo; ma lui evitò la lunga lancia.
Ristette, ma infinito gli si avvolse dolore sugli occhi,
turbato che vicina s’era infissa la lancia; e Achille

399
gli balzò addosso furioso, la spada acuta sfoderando,
terribilmente gridando; ma afferrò con la mano un macigno
grande Enea, che non porterebbero due uomini
di adesso. Lui, da solo, facilmente lo palleggiava.
Allora Enea col masso lo colpiva mentre attaccava,
sull’elmo o sullo scudo, che gli aveva stornato la morte;
e gli strappava il Pelide la vita con la spada,
se Posidone Scuotiterra non se ne accorgeva;
e parlò subito agli dèi immortali, e così disse:
“ Ahimè, quale dolore per il magnanimo Enea,
che presto all’Ade scenderà, dal Pelide domato,
fiducioso nelle parole di Apollo arciere!
Stolto; ché lui non lo salverà dalla morte luttuosa.
Ma perché mai costui senza colpa soffre dolori
in modo sciocco, per mali di altri? Eppure fa sempre
doni graditi agli dèi, che abitano il vasto cielo.
Ora suvvia, mettiamolo al sicuro dalla morte,
che non si adiri il figlio di Crono, se Achille per caso
lo uccide; il suo destino è quello di salvarsi,
che senza seme non svanisca la stirpe di Dàrdano:
lo predilesse il figlio di Crono più dei suoi figli,
di tutti quelli che gli nacquero da donne mortali.
E’ gravemente in odio la stirpe di Priamo al Cronìde:
ora la forza di Enea sui Troiani regnerà,
e i figli dei suoi figli, e quelli che dopo verranno”.
E così gli rispose, sovrana grandi occhi, Hera:
“Pensa tu stesso, Scuotiterra, dentro al tuo cuore,
a Enea, sia che lo ponga in salvo, sia che lasci
che sia domato da Achille Pelide, per quanto valente.
E molti giuramenti abbiamo già giurato
fra tutti gli immortali, cioè io e Pallade Atena,
che mai l’estremo giorno dai Troiani storneremo,
neppure quando Troia arda tutta di fuoco violento,
incendiata, e i figli degli Achei guerrieri la brucino”.

400
E non appena ebbe udito Posidone Scuotiterra,
prese ad andare allo scontro e nel folto delle lance,
e giunse dove Enea e il prode Achille si trovavano,
subitamante, quindi una nebbia sugli occhi versò
ad Achille figlio di Pèleo; e la lancia di frassino
bronzea estrasse dallo scudo di Enea magnanimo,
e davanti ai piedi di Achille la ripose;
poi spinse Enea da terra in alto sollevandolo.
A molte schiere di eroi, a molte di cavalli
Enea, sotto la spinta delle mani del dio, balzò sopra,
per giungere all’estremo dello scontro furibondo,
dove i Caucòni si stavano armando per la guerra.
E a lui si fece accanto Posidone Scuotiterra;
e, rivolgendosi a lui, alate parole diceva:
“Enea, chi tra gli dèi ti induce come un pazzo
ad affrontare in duello il figlio di Pèleo superbo,
di te più forte e più gradito agli immortali?
Ma tu indietreggia, quando con lui ti dovessi incontrare,
per non discendere all’Ade, anche contro il tuo destino.
Ma quando Achille avrà raggiunto il destino di morte,
soltanto allora dovrai combattere fra i primi;
questo perché nessun altro Acheo ti ucciderà”.
Disse così, e là lo lasciò, rivelata ogni cosa.
E subito disperse la nebbia dagli occhi di Achille,
portentosa. E non appena rivide con gli occhi,
così parlò, turbato, al suo magnanimo cuore:
“Ahimè, grande prodigio io vedo coi miei occhi:
giace per terra l’asta, ma più non vedo l’uomo
contro il quale l’ho scagliata, bramando di ucciderlo.
Anche Enea certamente era caro agli dèi immortali;
io invece supponevo che a vuoto si vantasse.
Alla malora! Coraggio non troverà di ritentare
chi si compiace anche adesso di aver evitato la morte.
Ma suvvia, dando ordini ai Dànai bellicosi,

401
gli altri Troiani affronterò e metterò alla prova”.
Disse, e balzò nel mezzo delle schiere, incitando ciascuno:
“Non rimanete lungi dai Troiani, splendidi Achei,
ma uomo contro uomo procedete, bramosi di battervi.
Arduo è per me, per quanto forte io possa essere,
un tale numero di uomini inseguire, con tutti scontrarmi.
Neppure Ares, che è un dio immortale, neppure Atena
tale voragine di carneficina affronterebbero.
Però per quanto io possa, con le mani e con i piedi,
e con la forza, vi dico, non cederò neanche un attimo;
ma attaccherò le schiere diritto, e proprio non penso
che sarà lieto il Troiano, che si appressi alla mia lancia”.
Così esortava; e lo splendido Ettore i Troiani incitava
gridando; prometteva che Achille avrebbe affrontato:
“Troiani intrepidi, non temete il figlio di Pèleo;
anch’io a parole potrei combattere con gli immortali;
ma è arduo con la lancia, perché sono di molto più forti.
A tutte le parole neanche Achille darà compimento,
una la compirà, ma un’altra la lascerà a mezzo.
Io gli andrò incontro, se pure sembra fuoco nelle mani,
se fuoco nelle mani, e furore di ferro fiammante”.
Disse spronandoli; ed essi protesero innanzi le lance,
i Troiani; si mischiò il furore, si alzò il grido di guerra.
Standogli accanto, ad Ettore così disse Febo Apollo:
“Ettore, non ti spingere in prima fila contro Achille;
invece aspettalo nella mischia e nel parapiglia,
che non ti scagli l’asta e non ti colga con la spada!”
Disse, e si mosse Ettore nuovamente nella calca,
tremante, appena udì la voce del dio che parlava.
E Achille sui Troiani si avventò, rivestito di forza,
terribilmente gridando. E per primo colse Ifitìon,
nobile figlio di Otrìnteo, condottiero di grande armata,
che ninfa naiade a Otrìnteo partorì, distruttore di rocche,
sotto il nevoso Tmolo, nel paese fecondo di Ide.

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Dritto lo colse Achille con l’asta, mentre attaccava,
nel mezzo della testa, che in due parti si spaccò.
Tonfo produsse cadendo, e menò vanto lo splendido Achille:
“A terra, figlio di Otrìnteo, il più tremendo dei guerrieri!
Qui hai avuto la morte, e la nascita sulla palude
Gigèa, dov’è il podere di tuo padre, sulle rive
del fiume Illo pescoso e dell’Ermo vorticoso”.
Disse vantandosi, e all’altro sugli occhi si avvolse la tenebra.
Sotto le ruote i cavalli degli Achei lo maciullarono,
sulla testa della carneficina; e subito dopo
Demoleonte, nobile capo, di Antenore figlio,
colse alla tempia, attraverso l’elmo dalla guancia di bronzo;
ma l’elmo bronzeo non tenne, da parte a parte trapassò
la punta, e schiantò l’osso, spingendosi; il cervello
tutto si spappolò; lo abbatté che si slanciava.
Quindi colpì alla schiena con la lancia Ippodamante,
che gli fuggiva davanti, spiccato un balzo giù dal carro;
quello esalò la vita e mugolò, come fa il toro,
che mugola se i giovani lo trascinano all’altare
del sovrano Eliconio; e Scuotiterra si compiace;
così muggiva, e il nobile cuore lasciò le sue ossa.
E andò con l’asta Achille su Polidòro pari a un dio,
figlio di Priamo; il padre non lo lasciava combattere,
perché tra i figli egli era il più giovane di nascita,
inoltre gli era carissimo, vinceva tutti nella corsa;
e allora ingenuamente, per mostrare la sua bravura,
faceva il matto fra i primi, sino a che perdette la vita.
Lo colpì in pieno con l’asta lo splendido Achille veloce,
mentre fuggiva, alla schiena, proprio dove i ganci dorati
della cintura si intrecciano e la corazza è doppia.
La punta della lancia spuntò dritta dall’ombelico;
cadde in ginocchio emettendo un gemito, e una nube lo avvolse,
cupa, e stringeva fra le mani le viscere, su se stesso piegandosi.
Ettore, come vide il fratello Polidòro

403
che teneva nelle mani le viscere, ripiegato per terra,
nebbia sugli occhi gli si riversò, non ebbe la forza
di rigirarsi lontano, ma venne di fronte ad Achille,
impugnando la lancia pari a fiamma; allora Achille
lo vide, ebbe un sussulto, menò vanto, e così disse:
“Ecco colui che più degli altri ha straziato il mio cuore,
che il mio compagno onorato mi ha ucciso; non più a lungo
ci acquatteremo l’un l’altro dai sentieri della guerra”.
Disse, e di sbieco guardandolo, si rivolse allo splendido Ettore:
“Fatti vicino e presto toccherai i confini di morte!”
E, per nulla turbato, gli disse Ettore elmo che splende:
“Pelide, non sperare di impaurirmi come un bimbo
con le tue chiacchiere; sono capace bene anch’io
di ripagarti con insulti e contumelie.
Ma tutto questo sta sulle ginocchia degli dèi,
se, pur essendo inferiore, ti strapperò la vita,
cogliendoti con l’asta; anche il mio colpo è acuminato”.
Disse, e scagliò, palleggiando, la lancia; ma con un soffio
Atena la deviò da Achille ardimentoso,
insufflando lievissimamente; e ad Ettore splendido
tornò, e ricadde davanti a suoi piedi; allora Achille
fece uno scatto in avanti, bramoso di ammazzarlo,
tremendamente gridando; ma Apollo lo sottrasse
agevolmente – era un dio -, e lo avvolse in fitta nebbia.
E per tre volte scattò lo splendido Achille veloce
con l’asta bronzea, per tre volte la nebbia profonda
colpì; ma quando la quarta volta balzò pari a un dio,
con voce spaventevole alate parole diceva:
“Di nuovo, cane, sfuggisti alla morte; eppure accanto
ti è giunto il male; ma ancora ti ha salvato Febo Apollo,
che certo invochi quando ti immergi nel rombo dei dardi.
Ma prima o poi ti ammazzerò, se ancora ti incontro,
e se anche a me c’è qualche dio che porge assistenza.
Ora mi avventerò sugli altri, quelli che trovo”.

404
Disse, e sul collo, nel mezzo, colpì Drìope col giavellotto.
Quello precipitò ai suoi piedi; e là lo lasciò.
Ma con la lancia al ginocchio Demùco di Filètor,
grande e valente, colpì, trattenutolo; quindi subito,
trafiggendolo con la grande spada, gli tolse la vita.
Quindi Laògono e Dàrdano, i due figli di Biante,
presi di mira, dal carro entrambi spinse a terra,
l’uno con l’asta, il secondo da presso con spada, colpendoli.
Uccise Troo di Alastor, che cadde ai suoi ginocchi,
che lo prendesse chiedendo, lo risparmiasse vivo,
non lo ammazzasse, sentendo pietà di lui suo coetaneo;
sciocco, ignorava che non lo avrebbe mai convinto:
uomo non era di sentimenti né dolci né teneri,
ma senza freno; e quello i ginocchi gli toccava,
intento a supplicarlo; ma lo colse con la spada
al fegato; che fuori gli sprizzò, e il nero sangue la veste
sgorgando gli riempì; lo ravvolse sugli occhi la tenebra,
mentre esalava la vita. Colpì Mulio con la lancia
all’orecchio; uscì all’istante dall’altro orecchio
la punta bronzea. E uccise Ècheclo figlio di Agenore,
colpendolo alla testa con la spada munita di elsa.
Tutta si riscaldò col sangue la spada, e sugli occhi
la morte rosso porpora calò e il destino spietato.
Poi colse Deucalìon dove i tendini convergono
del gomito, e passò da una parte e dall’altra del braccio
la punta bronzea; ristette con il braccio appesantito,
guardando in faccia la morte; e con la spada colpendolo al collo,
la testa gettò a terra assieme all’elmo, e dalle vertebre
fuori schizzò il midollo; e lui giacque a terra disteso.
Poi contro il figlio di Pìreo si mosse irreprensibile,
Rigmo, che proveniva dalla Tracia fertili zolle.
Col giavellotto lo colse in pieno; si infisse nel ventre
il bronzo; precipitò dal carro; e Arèitoo scudiero,
mentre voltava i cavalli, alla schiena col bronzo acuto

405
colse; dal carro lo spinse, e i cavalli si adombrarono.
E come incendio immane imperversa per valli profonde
di un monte inaridito, e brucia la densa foresta,
e il vento travolgente dappertutto alimenta la fiamma,
tale con l’asta infuriava dappertutto, simile un dio,
inseguendo e ammazzando; la nera terra scorreva di sangue.
E come quando si aggiogano i buoi dalla fronte spaziosa
per trebbiare orzo bianco nell’aia ben fatta, e subito
sotto i piedi dei buoi mugghianti i chicchi si sgranano,
così di Achille magnanimo i cavalli duri zoccoli
insieme morti e scudi calpestavano; e l’asse di sotto
tutto di sangue si imbrattava, e le sponde dei cocchi;
spruzzi schizzati dagli zoccoli dei cavalli
e dai cerchioni. E aspirava a conseguire gloria
il Pelide, con le mani invincibili lorde di sangue.

406
LIBRO XXI

La battaglia sul fiume.

I Troiani si dividono in due gruppi: alcuni cercano rifugio in città, altri giungono al
fiume Xanto, altro nome dello Scamandro, cadendo nella corrente. Achille cattura
dodici ragazzi troiani, da immolare per le esequie di Patroclo. Segue l’incontro con
Licàon, un figlio di Priamo. Achille lo aveva catturato, poi lo aveva venduto, poi era
stato riscattato, e infine era fuggito per ritornare a casa. Achille lo riconosce, nel
momento in cui, spogliatosi delle armi, cerca di fuggire. Achille si chiede se sta
assistendo a un prodigio. Licàon lo supplica di risparmiarlo, ricorrendo a vari
argomenti. Ma Achille gli obietta che non c’è ragione che Licàon viva, dato che
Patroclo, che era migliore di lui, è morto; d’altra parte anche ad Achille capiterà la
stessa sorte: prima o poi sarà colpito anche lui, per quanto bello e forte. Di fronte
ad argomenti del genere, Licàon si rende conto che è inutile sperare. Achille lo
abbatte e lo getta ai pesci, perché se ne cibino. E’ la sorte di tutti. Achille, dopo aver
ucciso Asteropèo, capo dei Pèoni, viene da loro attaccato lungo il fiume
Scamandro. A questo punto il fiume reagisce con violenza alla strage: ingolfato dai
cadaveri, non può più scorrere né giungere alla foce. Pertanto si gonfia e insegue
Achille, il quale corre il rischio di essere travolto. Lo soccorrono Posidone e Atena,
ma lo Scamandro invoca l’aiuto del fratello affluente Simoenta, il quale aggiunge la
sua corrente all’altra per travolgere l’eroe. E questa sarebbe la fine di Achille, se
non intervenisse Hera: la dea esorta Efesto, suo figlio, a scagliare un incendio
portentoso sul fiume. Efesto ubbidisce, e il fuoco dissecca le piante, i cadaveri e le
armi che le acque trascinano. Quindi i due fiumi tornano a scorrere entro gli argini
consueti. Si riaccende allora la zuffa fra dèi, con reciproci insulti e scontri fisici, che
rasentano la farsa. Alla fine Apollo si prende cura della sorte dei Troiani. Priamo
dà ordine ai guardiani di tenere aperte le porte per favorire il rientro degli uomini
in fuga. Si esegue l’operazione, con l’aiuto di Apollo. Il quale incita Agenore ad
affrontare Achille. Ma Apollo sottrae Agenore dallo scontro, avvolgendolo nella
nebbia e portandolo via. Quindi, assunto l’aspetto di Agenore, il dio inganna
Achille, facendosi credere il guerriero troiano. Achille, sviato, lo insegue,
consentendo, senza volerlo, che i Troiani rientrino incolumi in città.

407
Ma quando giunsero al guado del fiume dal bel flusso,
lo Xanto vorticoso, che generò Zeus immortale,
Achille, in due tagliati i nemici, li inseguiva
per la pianura in città, dove il giorno prima fuggivano
gli Achei travolti, quando infuriava lo splendido Ettore;
e là si riversavano i Troiani in fuga; e una nebbia
Hera, per trattenerli, distese fitta; ma gli altri
sul fiume si accalcavano, profondi gorghi d’argento,
e dentro vi cadevano con gran tonfo, e le correnti
riecheggiavano, e intorno le sponde mugghiavano, ed essi
di qua e di là, in balia dei gorghi, urlando nuotavano.
E come volano le locuste all’impulso del fuoco,
fuggendo verso il fiume, e la fiamma divampa instancabile,
sorta all’istante, e nell’acqua si acquattano; in simile modo
di Xanto vorticoso la corrente, grazie ad Achille,
si riempiva del chiasso frammisto di cavalli e di uomini.
E lui divino lasciò la lancia là sulla riva,
ai tamerischi appoggiata, e si gettò pari a un dio con la sola
spada con sé; e meditava imprese funeste nel cuore,
colpi assestava a chi capita, e gemito tristo sorgeva
dei colpiti da spada, e l’acqua era rossa di sangue.
E come a un gigantesco delfino gli altri pesci
sfuggendo, riempiono i recessi di un porto accogliente,
presi dal panico, e lui divora quelli che acciuffa;
tali i Troiani lungo il corso del fiume tremendo
sotto le rive si acquattavano. E quando fu stanco
di strage, dodici prese ragazzi vivi dal fiume,
ammenda per la morte di Patroclo Menetìade.
Fuori li trasse attoniti alla pari di cerbiatti,
e li legò di dietro, con cinghie ben connesse,
che loro stessi portavano attorno alle morbide tuniche;
e li diede ai compagni da portare alle conceve navi.
Poi nuovamente si spinse, bramoso di scannare.

408
Qui si incontrò con un figlio di Priamo Dardànide,
mentre fuggiva dal fiume, Licàon, che lui stesso
dalla vigna del padre aveva preso, contro voglia,
fatta irruzione di notte; con bronzo acuto i rami nuovi
di caprifico tagliava, come sponde per il carro.
Male imprevisto gli giunse addosso lo splendidio Achille;
che allora lo condusse a Lemno ben costruita,
per nave; lo vendette, e lo comprò poi il figlio di Iason.
Di là lo rese libero un ospite, a gran prezzo,
Eetione di Imbro, lo mandò alla splendida Arisbe.
Donde fuggendo riuscì a tornare nella casa paterna.
Undici furono i giorni che godette dei suoi cari,
da Lemno ritornato; di nuovo al dodicesimo
di Achille nelle mani un dio lo gettò; che doveva
spedirlo all’Ade, nonostante lui non volesse.
E non appena lo vide lo splendido Achille veloce,
nudo, privo di scudo, di elmo, persino di lancia –
tutto per terra aveva gettato, fuggiasco dal fiume,
sfinito dal sudore, spezzato in due dalla stanchezza -,
così parlò, turbato, al suo magnanimo cuore:
“Ahimè, grande prodigio io vedo coi miei occhi!
Dunque i Troiani magnanimi, tutti quelli che ho ammazzato,
risorgeranno davvero dal buio tenebroso,
come costui ch’è riuscito a fuggire dal giorno spietato,
venduto a Lemno sacra; la distesa del mare canuto
non lo trattenne, che pure tanta gente contro voglia trattiene.
Ora però suvvia, dell’asta mia la punta
assaggerà, per modo ch’io veda nel cuore e comprenda
se anche di lì ugualmente tornerà, o se la terra feconda
lo tratterrà, come normalmente trattiene chi è forte”.
Così ondeggiava immobile; e gli fu accanto stranito,
l’altro, bramoso i ginocchi di toccargli; sperava nel cuore
di sottrarsi alla morte, al male, al nero destino.
E sollevò la lunga lancia lo splendido Achille,

409
nell’atto di colpirlo; quello corse, afferrò le ginocchia,
curvandosi; la lancia al di sopra della spalla
si piantò a terra, bramosa di assaggiare carne umana;
con una mano toccando le ginocchia, supplicava;
con l’altra l’asta acuta tratteneva, non mollava.
E, rivolgendosi a lui, alate parole diceva:
“Sono ai tuoi piedi, Achille; ti chiedo rispetto, pietà;
per te io sono un supplice, o nutrito da Zeus, di riguardo;
presso di te per primo di Demètra il frutto assaggiai,
il dì che nella vigna ben fatta mi prendesti,
mi conducesti lontano da mio padre e dai miei cari,
a Lemno sacra, e ti diedi di cento buoi il compenso.
Ora tre volte tanta pagai pena; ed è questo il giorno,
da quando ritornato sono ad Ilio, già dodicesimo,
dopo aver molto sofferto. E adesso la Moira funesta
nelle tue mani mi ha messo: devo essere odioso a Zeus padre,
che a te mi riconsegna. A brevissima vita mia madre
mi generò, Laòtoe, del vecchio Alte la figlia,
di Alte, che sui Lèlegi bellicosi signoreggia,
l’erta città di Pèdaso abitando, sul Satnioenta.
Priamo sposò una figlia di lui, e ancora altre.
Due figli ne nascemmo, che entrambi avrai uccisi;
tra i combattenti in prima fila il primo uccidesti,
sì, Polidoro pari a un dio, con l’asta acuta;
ora il malanno a me giungerà, perché non penso
che alle tue mani mi sottrarrò: mi ci ha spinto un demone.
Ma ti dirò altra cosa, e tu imprimila nella tua mente:
di non uccidermi, perché non sono germano di Ettore,
che il tuo compagno gentile e forte ti ha ammazzato”.
Proprio così parlava lo splendido figlio di Priamo,
con parole di supplice, ma udì risposta amara:
“Sciocco, non devi parlare di riscatto, neppure accennarmene.
Prima che Patroclo andasse incontro al giorno fatale,
sino ad allora al mio cuore era gradito risparmiare

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i Troiani; e molti ne presi vivi, per poi venderli.
Ma adesso non c’è alcuno di quanti un dio nelle mani
dinanzi ad Ilio mi getta, che sfuggirà alla morte,
nessuno dei Troiani, tanto meno i figli di Priamo.
Muori anche tu, amico mio; perché tanto ti lamenti?
Patroclo è morto, lui che di te era assai migliore;
e non lo vedi tu stesso come sono bello e grande?
Figlio di nobile padre, mi partorì una dea come madre.
E anche su me la morte incombe e il destino supremo.
Sarà un’aurora, sarà una sera, sarà un meriggio,
quando qualcuno in battaglia strapperà anche a me la vita,
colpendomi con l’asta o con freccia da un arco scoccata”.
Disse così, e gli si sciolsero le ginocchia e il caro cuore:
lasciò cadere l’asta, si accasciò tendendo le mani,
entrambe, e Achille sfoderò la spada acuta,
e lo trafisse sul collo, alla clavicola, e tutta dentro
la spada immerse a due tagli; quello prono cadde al suolo,
lungo disteso; sgorgava il nero sangue e bagnava la terra.
Presolo per un piede, lo gettò nel fiume Achille,
e a lui, menando vanto, alate parole diceva:
“Adesso giaci là, fra i pesci; che della ferita
ti leccheranno il sangue, noncuranti; né tua made
ti piangerà composto sul catafalco, ma Scamandro
ti porterà fra i vortici nel vasto seno del mare;
e sotto il nero fremito dell’onde spunterà
un pesce, a divorare di Licàon il candido grasso.
Crepate; sino a quando Ilio sacra prenderemo,
continuerete a fuggire, ed io dietro a massacrarvi.
E neppure il fiume bella corrente argentei vortici
vi salverà; è da tempo che immolate molti tori,
vivi cavalli solidi zoccoli nei gorghi gettate.
Comunque, morirete di mala morte, sino a che tutti
mi pagherete la morte di Patroclo e i guai degli Achei,
quelli che presso le concave navi uccideste in mia assenza”.

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Disse, e il fiume ancora di più si infuriò nel suo cuore;
e meditava in cuore come il piano ostacolare
di Achille splendido, e di stornare dai Troiani il malanno.
Ma nel frattempo il Pelide con la lancia lunga ombra
balzò su Asteropèo, bramoso di ammazzarlo,
il figlio di Pelègon. Fu l’Assio ampia corrente
a generarlo con Peribèa, la figlia maggiore
di Acessàmeno; il fiume gorghi profondi a lei si unì.
Achille lo aggredì; e quello, uscendo dal fiume,
gli si parò dinanzi con due lance; vigore gli infuse
Xanto, sdegnato con lui per i giovani ammazzati,
nella corrente da Achille massacrati senza pietà.
E quando furono ormai vicini, entrambi avanzando,
primo gli si rivolse lo splendido Achille veloce:
“Chi sei, da dove vieni, tu che ardisci contrastarmi?
Figli di sventurati affrontano il mio furore”.
E gli rispose lo splendido figlio di Pelègon:
“Figlio di Pèleo magnanimo, perché mi domandi la stirpe?
Giungo dalla Peonia, ricche zolle, che è lontana,
i Pèoni conducendo, lunga lancia; e per me questa
è l’undicesima aurora, da che sono giunto ad Ilio.
La stirpe mia proviene dall’Assio ampia corrente,
l’Assio che sulla terra fa scorerre l’acqua più bella.
Lui generò Pelègon, famoso con l’asta, che dicono
mio padre. Ma battiamoci adesso, splendido Achille”.
Disse così, minaccioso, e protese lo splendido Achille
il frassino del Pelio; e l’altro con due lance,
Asteropèo l’eroe, tirò, perché era ambidestro.
Con una lancia lo scudo colpì, ma non lo ruppe
da parte a parte; fu l’oro, dono del dio, che la trattenne.
Al gomito di striscio con l’altra lo colse del braccio,
destro; sprizzò il nero sangue, ma passò oltre e si confisse
al suolo l’asta, desiderosa di saziarsi di carne.
Achille per secondo scagliò la lancia di frassino

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dritta su Asteropèo, bramoso di ammazzarlo;
e invece non lo colse, ma colpì l’alta riva del fiume,
sino a metà si conficcò la lancia di frassino.
Estrasse dalla coscia la spada aguzza allora il Pelide,
e su di lui avventandosi, fece un balzo; l’asta di Achille
quello dal suolo a svellere non riusciva con la mano pesante.
Tre volte la agitò nell’intento di sfilarla,
tre volte desistette sfinito; la quarla voleva
l’asta di frassino dell’Eàcide piegare e spezzare.
Ma prima Achille da presso con la spada gli tolse la vita.
Lo colse al ventre accanto all’ombelico, e tutte a terra
si sparsero le viscere, la tenebra gli occhi gli avvolse,
mentre ansimava. Achille sopra il petto gli balzò,
poi lo spogliò delle armi, menò vanto, e così disse:
“Giaci così; è difficile del Cronìde assai potente
coi discendenti lottare per chi è nato soltanto da un fiume.
Dici di essere stirpe di un fiume ampia corrente,
ma io mi vanto del grande Zeus di essere stirpe.
Uomo che regna su molti Mirmìdoni mi ha generato,
Pèleo, figlio di Èaco, e di Zeus era Èaco figlio.
E come Zeus è più forte dei fiumi che scorrono al mare,
così è più forte la stirpe di Zeus di quella di un fiume.
Adesso un grande fiume ti è vicino, se pure è capace
di darti aiuto. Non è possibile col Cronìde lottare;
neppure l’Achelòo potente con lui si misura,
neppure Oceano potentissimo, profonda corrente,
dal quale tutti i fiumi e tutto il mare intero
e tutte le sorgenti e tutti i pozzi sgorgano;
sì, ma anche lui paventa del grande Zeus la folgore,
e il tuono terrificante, che dal cielo fragoreggia”.
Disse così, e dal suolo divelse la lancia di bronzo,
e quello lasciò là, dopo avergli strappato la vita,
disteso sulla sabbia, e l’acqua nera lo copriva.
Anguille e pesci si industriavano attorno a lui,

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grasso strappavano e rosicchiavano intorno alle reni.
Quindi si mosse contro i Pèoni guidatori di carri,
che lungo il fiume fuggivano vorticoso, come videro
il loro capo ucciso nella mischia furibonda
per le mani e per la spada del figlio di Pèleo.
Quindi colpì Tersìloco e Midòne e poi Astìpilo,
Mneso colpì e Trasio e Enio e Ofeleste.
E più Pèoni avrebbe ucciso Achille veloce,
se il fiume, gorgo profondo, sdegnatosi, non avesse
così parlato, simile a un uomo, dal fondo del vortice:
"Vinci davvero, Achille, ma commetti più soprusi
di tutti gli uomini. Eppure gli dèi ti proteggono sempre.
Se ti ha concesso il Cronìde di uccidere tutti i Troiani,
spingili lungi da me e fanne strage per la pianura.
Pullula di cadaveri oramai la mia amena corrente,
né più riesco a versare il mio flusso nel mare divino,
stipato dai cadaveri. E tu ammazzi sconciamente.
Smettila dunque, che sono sgomento, o signore di eserciti!"
E, di rimando, così gli parlò Achille veloce:
"Sarà così, come tu mi domandi, o Scamandro divino,
ma non la smetterò di ammazzare i Troiani superbi,
prima di averli serrati in città, e di avere sfidato
Ettore, sia che mi uccida o che invece sia io ad ucciderlo".
Detto così, si scagliò sui Troiani, simile a un dio.
E il fiume, gorgo profondo, così si rivolse ad Apollo:
"Ahimè, figlio di Zeus, arco d'argento, non ti attieni
ai dettami del figlio di Crono, che assai ti ingiungeva
di assistere e soccorrere i Troiani, sino a che giungesse
la sera, che si attarda, e oscurasse la terra feconda".
Disse, ed Achille, famoso con l’asta, nel mezzo saltò,
dalla riva balzando. Gli fu addosso furibondo
il fiume, tutta sconvolse la corrente, sospinse i cadaveri,
molti, ammonticchiati com'erano, uccisi da Achille;
lungi da sé li gettava, mugghiando come toro,

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sopra le rive, e i vivi li salvava nelle belle correnti,
dentro i capaci e profondi vortici nascondendoli.
Onda tremenda attorno ad Achille si alzò procellosa,
sullo scudo la corrente cozzava, né sui suoi piedi
lui poteva più reggersi. Allora afferrò con le mani
florido olmo possente, che, divelto dalle radici,
tutta la sponda travolse, ostacolò la bella corrente
con i suoi rami intrecciati, e fece da argine al fiume,
dentro intero precipitandovi. Guizzato dal vortice,
lui si gettò a volare per la piana coi rapidi piedi,
preso dal panico. Né il gran dio desisteva, ma, torbido,
lo abbrancava, per far rinunciare Achille splendido
al suo progetto e per stornare dai Troiani rovina.
Spiccò un balzo il figlio di Pèleo quanto un tiro di lancia,
con lo scatto dell'aquila nera, la cacciatrice,
ch'è insieme tra i volatili il più forte e il più veloce.
Simile a lei spiccò un balzo Achille, e il bronzo sul petto
orribilmente risuonò; lui si sottraeva
e fuggiva, ma quello lo incalzava con strepito immenso.
E come quando un uomo, che irriga da scura sorgente
orti e giardini con l'acqua, governa la corrente,
vanga tenendo in mano e togliendo dal corso gli ostacoli,
e, mentre l'acqua defluisce, il terriccio che è sotto
si disperde, e l'acqua, veloce correndo, gorgoglia
lungo il terreno scosceso, e precede il giardiniere;
così dalla corrente del fiume era Achille incalzato,
pur veloce. Degli uomini sono ben più forti gli dèi.
Ogniqualvolta lo splendido Achille veloce, sostando,
voleva rigirarsi, per rendersi conto se tutti
gli immortali che abitano l’ampio cielo lo inseguivano,
ecco che il grande flutto del fiume ingrossato da Zeus
lo aggrediva alle spalle, e lui balzava in alto
col cuore in pena: il fiume gli troncava le ginocchia,
violento, gli toglieva la terra sotto i piedi.

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Gemito emise il Pelìde, guardando il vasto cielo:
"Zeus padre, dunque nessuno degli dèi si leva a salvarmi,
me sventurato, dal fiume? Ma succeda, se deve succedere.
Fra i celesti però nessuno ne è responsabile
quanto mia madre, che mi incantò con le sue menzogne:
mi predisse che sotto le mura dei Troiani guerrieri
sarei morto colpito dalle frecce veloci di Apollo.
Mi avesse ucciso Ettore, il più forte di quanti qui crebbero!
Mi avrebbe ucciso un prode e lui un prode avrebbe spogliato.
Ora invece è destino ch'io sia preso da morte indegna,
trascinato da un fiume come ragazzo guardiano di porci,
che la corrente travolge mentre lo guada nella tempesta."
Disse così, ma in un istante Posidone e Atena
gli si misero accanto, somigliando a esseri umani,
la mano nella mano gli presero, lo incoraggiarono.
E incominciò a parlare Posidone scuotiterra:
"Figlio di Pèleo, basta tremare e avere paura,
tale soccorso ti daremo noi due tra gli dèi,
col consenso di Zeus, cioè io, Posidone, ed Atena.
Non è destino che tu muoia domato dal fiume,
ma fra breve desisterà, lo vedrai tu stesso.
Noi ti daremo un consiglio appropriato, se lo seguirai.
Non allontanare le tue mani dall'orrido scontro,
prima di aver serrato nelle splendide mura di Ilio
chi sfuggirà dei Troiani. E tu, a Ettore tolta la vita,
torna di nuovo alle navi; a te il vanto concediamo."
Detto così, ambedue tra gli immortali tornarono.
E spinto dal consiglio divino, Achille si mosse
verso la piana, che era inondata dall'acqua diffusa;
molte le armi belle dei giovani massacrati
galleggiavano coi cadaveri. E in alto i ginocchi,
contro corrente urtando, balzavano, né lo fermava
il fiume che ampio scorreva; gran vigore Atena gli infuse.
Né lo Scamandro smise la sua furia, ma ancora di più

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si adirava col figlio di Pèleo, gonfiava i suoi flutti,
sollevandosi in alto, e invitò il Simoenta gridando:
"Caro fratello, in due conteniamo la iattanza
di querst’uomo! Fra poco la città di Priamo sovrano
distruggerà, i Troiani non riusciranno a resistergli.
Porgimi aiuto, presto! Riempi il tuo percorso
di acqua sorgiva, e sospingi i torrenti tutti quanti,
suscita grande ondata, scatena di tronchi di sassi
grande tumulto, così da fermare quell'uomo selvaggio,
che ora si impone e pretende di essere pari agli dèi.
Forza, credo, non gli gioverà, e neppure bellezza,
né belle armi, che andranno a giacere nell'acquitrino,
tutte sepolte nella fanghiglia, e poi lui stesso
nella sabbia lo avvoltolerò, di ghiaia coprendolo,
infinita, e neppure sapranno gli Achei raccogliere
le ossa, tanto fango gli riverserò di sopra.
Quella sarà la sua tomba, non ci sarà bisogno per lui,
quando gli Achei gli faranno le esequie, di un tumulo funebre."
Disse, e fu addosso ad Achille dall'alto, furibondo,
ribollendo di schiuma, di sangue e di cadaveri.
Livido allora il flutto del fiume, ingrossato da Zeus,
si protendeva e ormai travolgeva il figlio di Pèleo.
Ed Hera lanciò un grido, temendo per Achille,
che non lo travolgesse il grande fiume, gorgo profondo.
Subito si rivolse a Efesto, il caro suo figlio:
"Sorgi, creatura mia storpia. Già da tempo lo pensavo,
che Xanto vorticoso potesse sfidarti in battaglia.
Corri in aiuto al più presto, e suscita grande fiammata.
Io nel frattempo di Zèfiro e di Noto biancheggiante
farò venire dal mare una procella rovinosa,
tale che bruci i corpi dei Troiani e le loro armi,
scatenando un incendio funesto. Tu lungo le rive
ardi le piante, dà fuoco a lui stesso, per niente riesca,
né con parole gentili, né con minacce, a placarti.

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Non desistere dalla tua furia, se prima io non t'abbia
gridato. Solo allora desisti dal fuoco instancabile."
Disse così, ed Efesto forgiava un incendio divino.
Prima la fiamma divampò nella piana, bruciò i cadaveri,
molti, che stavano là ammonticchiati, uccisi da Achille.
Tutta la piana si prosciugò, si fermò l'acqua splendida.
Come quando Bòrea autunnale all'istante prosciuga
orto appena irrigato, e gioisce chi lo coltiva,
così si prosciugava l'intera pianura, e i cadaveri
arsero. Poi la fiamma splendente al fiume si volse.
Gli olmi i salici ardevano, ardevano i tamerischi,
ardeva pure il loto, ardevano il cìpero il giunco,
che intorno alle correnti del fiume abbondanti crescevano.
E le anguille soffrivano, e i pesci dentro i vortici,
che nel mezzo delle belle correnti qua e là saltellavano,
consumati dal fuoco di Efesto molto ingegnoso.
Pure la forza del fiume ardeva, e così disse:
"Degli dèi nessuno, Efesto, può con te misurarsi,
ed io neppure potrei lottare col fuoco fiammante.
Smettila di contendere. I Troiani lo splendido Achille
dalla città li scacci, che mi importa di lotta e di aiuto?"
Così parlava riarso, e il bel corso ribolliva,
come caldaia bolle per effetto di molto fuoco,
grasso liquefacendo di porco che ha morbida carne,
e da ogni parte trabocca, pur posando su secco legname;
tale il bel corso del fiume bruciava, e l'acqua bolliva.
Scorrere più non voleva, ma ristagnava, la fiamma
lo tormentava con forza di Efesto avveduto. Ma, Hera
supplicando molto, alate parole diceva:
"Hera, perché tuo figlio sulla mia corrente infierisce
più che sugli altri? Certo non io sono responsabile
quanto lo sono gli altri che soccorrono i Troiani.
Io cesserò di farlo, certamente, se me lo comandi.
Ma che la smetta anche lui. Ed io farò giuramento

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che mai più stornerò il nero giorno dai Troiani,
neanche se Troia ardesse nella morsa del fuoco violento,
tutta, per mano dei figli degli Achei, guerrieri di Ares."
E, non appena ebbe udito la dea braccia candide Hera,
subito si rivolse ad Efesto, il caro suo figlio:
" Smettila, Efesto, creatura gloriosa, perché non è giusto
dio immortale colpire a causa dei mortali".
Disse così, ed Efesto estinse l'incendio divino.
L'onda allora tornò a rifluire nella bella corrente.
Quando il furore di Xanto fu domato ed ambedue
smisero, poiché Hera li fermò, per quanto adirata,
cadde contesa pesante in mezzo agli altri dèi,
terribile, in due parti il loro cuore si divise;
e si azzuffarono con grande fracasso, l’ampia terra gemeva,
il vasto cielo suonò come tromba, e Zeus ascoltava,
seduto sull’Olimpo; e il cuore scoppiò a ridere
di gioia, come vide gli dèi azzuffarsi in contesa.
E non rimasero a lungo lontani: fu il lacerascudi
Ares a cominciare, che si mosse contro Atena,
brandendo l’asta bronzea; e le rivolse contumelie:
“Perché, mosca canina, aizzi gli dèi a contesa
con arroganza folle, e il tuo cuore assai ti spinge?
Non ti ricordi quando il Tidìde Diomede a ferirmi
spingesti, e un’asta risplendente brandendo tu stessa,
dritta su me la puntasti, lacerando la mia bella pelle?
Credo che adesso mi risarcirai di quanto mi hai fatto”.
Disse così, e colpì sopra l’ègida ricca di frange
terrificante; neppure la folgore di Zeus la doma.
Là con la lunga lancia colpì Ares distruttore;
fece uno scarto Atena, prese un masso con la mano pesante,
giacente sulla piana, nero grande spigoloso:
posto lo avevano gli uomini di un tempo come confine;
con esso Ares violento colpì al collo, e gli sciolse le membra.
Cadde, e coprì sette pletri, e si insudiciò le chiome,

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e rimbombò l’armatura; scoppiò a ridere Pallade Atena,
e menò vanto, e a lui alate parole diceva:
“Non mi hai capito ancora, scioccone, quanto posso
vantarmi di essere a te superiore; e tu ti confronti
col mio furore! Le Erini soddisferai di tua madre:
medita mali per te, incollerita perché gli Achei
abbandonasti e soccorri i Troiani tracotanti”.
Disse, e rivolse indietro i suoi occhi risplendenti;
e Afrodite, la figlia di Zeus, lo prese per mano
che assai si lamentava, a fatica si riaveva.
E appena che la vide la dea braccia candide Hera,
prontamente ad Atena alate parole diceva.
“Ahimè, di Zeus creatura che porta l’ègida, l’Infaticabile,
guarda la mosca canina che guida Ares distruttore
via dal conflitto crudele attraverso la mischia: su, acciuffala!”
Disse, ed Atena balzò, si rallegrò nel cuore,
la tallonò, la colpì nel petto con la mano pesante;
e a lei si sciolsero le ginocchia e il caro cuore;
e così entrambi giacevano sulla terra nutrice di molti;
e lei, menando vanto, alate parole diceva.
“Così se la passassero tutti quelli che i Troiani
soccorrono: combattono con gli Argivi forti corazze!
Sono arroganti, sono altezzosi, proprio come Afrodite,
giunta in aiuto di Ares, per opporsi al mio furore.
Ma da un bel pezzo noialtri avremmo finito la guerra,
distruggendo la rocca di Ilio ben edificata”.
Disse così, e sorrise la dea braccia candide Hera.
E si rivolse ad Apollo il possente Scuotiterra:
“Febo, perché rimaniamo distanti? Non si addice,
se gli altri hanno già iniziato! Che vergogna se tornassimo
senza pugnare all’Olimpo, casa di Zeus dalla soglia di bronzo!
Da’ inizio, sei più giovane di età; per me non è bello,
perché sono più anziano di nascita e conosco più cose.
Sciocchino, testa vuota per davvero! Non rammenti

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quante sventure noi patimmo per colpa di Ilio,
noi soli tra gli dèi, quando per Laomedonte illustre,
giunti da parte di Zeus, faticammo a salario fissato
un anno intero, e lui dava ordini e nient’altro.
Io intorno alla città dei Troiani edificai
il muro, largo, bellissimo: la città fosse imprendibile.
E Febo, i buoi dalle corna ricurve e dai passi ritorti
tu pascolavi, dell’Ida selvoso fra gli anfratti.
Ma quando il termine atteso del compenso le stagioni
portarono, l’infame Laomedonte ci sottrasse
tutto il compenso, e ci scacciava con minacce.
Ci minacciò persino di legarci piedi e mani
e che ci avrebbe venduti presso isole lontane;
diceva che ad entrambi mozzato avrebbe le orecchie col bronzo.
Così ce ne tornammo indietro sdegnati nel cuore,
pieni di rabbia per il compenso promesso e non dato.
E tu vuoi farti bello al suo popolo, e non cerchi
assieme a noi che i tracotanti Troiani periscano
di mala morte, assieme ai figli e alle spose onorate”.
E così gli rispose il sovrano Apollo arciere:
“O Scuotiterra, non certo mi crederesti in senno
se a motivo dei mortali mi mettessi a combattere,
dei miserabili, che somiglianti alle foglie, un momento
nello splendore fioriscono, quando mangiano il frutto dei campi,
e in un momento svaniscono languenti. Ma al più presto
smettiamo di lottare; che fra loro si accapiglino”.
Ciò detto, indietro si ritrasse, aveva riguardo
di cimentarsi col fratello di suo padre.
Ma lo sgridò la sorella, la sovrana delle fiere,
Àrtemis la cacciatrice, e lo offese in questo modo:
“Arciere, fuggi, e la vittoria a Posidone
tutta hai concesso, gli hai conferito vana gloria.
Sciocchino, perché porti quell’arco? A che ti serve?
Che io più non ti senta nella casa di tuo padre

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vantarti, come hai fatto in passato fra gli dèi immortali,
che te la senti di scontrarti con Posidone!”
Disse così, e per niente rispose Apollo arciere;
ma incollerita allora la sposa onorata di Zeus
la cacciatrice attaccò con furore irriguardoso:
“Come ti arrischi, cagna spudorata, di affrontarmi?
Dura col mio furore ti sarò da sopportare,
per quanto tu sia arciera: leonessa per le donne
ti ha fatto Zeus, ti ha concesso di uccidere quelle che vuoi.
Ma senz’altro è più facile uccidere belve sui monti,
cerve selvatiche, che combattere coi più forti.
Se vuoi imparare la guerra, ecco qua, perché tu sappia
quanto ti sono più forte, se ti opponi al mio furore”.
Ciò detto, le afferrò con la sinistra ambo le mani
al polso, e con la destra le tolse l’arco dalle spalle,
e con le frecce la pestava alle orecchie ridendo;
quella si rigirava, e le frecce veloci cadevano.
Se ne fuggì la dea fra le lecrime, come colomba
che vola via dal falco verso una roccia cava,
il nido; che lei fosse catturata non era destino.
Così fuggì fra le lacrime, arco e frecce abbandonando.
E si rivolse a Letò il messaggero Argifonte:
“Letò, non voglio scontrarmi con te; perché è difficile
con la consorte di Zeus che aduna le nubi azzuffarsi;
ma corri pure a pavoneggiarti fra gli dèi immortali
di avermi sopraffatto con la tua sovrana forza”.
Disse così, e Letò raccoglieva le frecce ricurve
cadute e sparpagliate in vorticosa polvere;
e, raccolto l’arco della figlia, tornò indietro.
Giunse in Olimpo alla casa di Zeus, pavimento di bronzo,
in pianto la ragazza, e sulle ginocchia del padre
sedette, e le tremava la veste immortale. La trasse
a sé il Cronìde padre, e le chiese con dolce sorriso:
“Chi degli dèi, creatura, ti ha fatto questo torto,

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quasi tu avessi commesso davanti a tutti un male?”
E gli rispose la dea bella ghirlanda, strepitante:
“Padre, tua moglie Hera candide braccia mi ha colpita:
sempre fra gli immortali zuffa suscita e conflitto”.
Parlavano così fra di loro, l’un l’altro alternandosi;
e allora Febo Apollo si introdusse in Ilio sacra:
temeva per il muro della città ben costruita,
che i Dànai lo abbattessero quel dì contro il destino.
E gli altri dèi che vivono sempre in Olimpo tornarono,
alcuni incolleriti, altri inverce tripudianti,
e intorno al padre sedettero nere nubi. Invece Achille
Troiani insieme e cavalli duri zoccoli ammazzava.
E come quando al vasto cielo il fumo sale
di una città incendiata, soffia l’ira degli dèi,
e a tutti pena adduce, e a molti apporta angosce;
in pari modo Achille dava pena ed angosce ai Troiani.
E il vecchio Priamo se ne stava sulla torre divina,
quando vide Achille immenso, e inseguiti da lui
nello scompiglio i Troiani fuggire: più scampo non c’era.
Allora emise un gemito e discese dalla torre,
lungo le mura esortando le esperte guardie delle porte:
“ Tenete spalancate le porte, perché in fuga
gli uomini possano entrare in città; Achille è vicino,
sgomina; adesso credo che giungerà rovina.
Ma quando chiusi nelle mura respireranno,
subito allora sprangate i ben solidi battenti:
temo che resti serrato anche lui, quel maledetto”.
Disse, e le porte aprirono, rimossi i chiavistelli:
le porte spalancate furono luce; perché Apollo
fuori balzò, per stornare dai Troiani la rovina.
Essi diritto verso la città e le alte mura,
arsi di sete, ammantati di polvere, dalla pianura
fuggivano; con l’asta lui incalzava incontenibile,
rabbia suprema al cuore lo prendeva: aspirava alla gloria.

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Troia alte porte allora prendevano gli Achei,
se Febo Apollo non incitava Agenore splendido,
figlio di Antenore, uomo forte e irreprensibile.
Ardimento gli infuse nel cuore, accanto gli stette,
perché stornasse da lui le dure Chere della morte.
Stando appoggiato alla lancia, era avvolto da fitta nebbia.
E non appena vide Achille distruttore di rocche,
ristette, e molto il cuore si sconvolse a lui che attendeva;
e così disse, turbato, al suo magnanimo cuore:
“Povero me, se fuggo davanti ad Achille supremo,
là dove gli altri sono travolti nel tumulto,
mi prenderà lo stesso, mi sgozzerà come un vile.
Se invece li lasciassi inseguire da Achille Pelide,
me ne fuggissi lontano dal muro da un’altra parte,
verso la piana di Ilio, sino a quando raggiunga le gole
dell’Ida per nascondermi nel fitto della selva;
e poi, giunta la sera, lavatomi dentro al fiume,
e, deterso il sudore, ad Ilio ritornassi…..
Ma che cosa è mai questo che va ragionando il mio cuore?
Non mi vedesse fuggire dalla città alla piana,
non mi acciuffasse, braccandomi dietro coi piedi veloci!
Non più sarebbe possibile evitare la morte e il destino.
Troppo è più forte rispetto a tutti quanti gli uomini.
Potrei pure affrontarlo in duello di fronte alle mura:
corpo all’acuto bronzo possiede anche lui vulnerabile,
ed una sola vita, mortale lo dicono gli uomini;
eppure Zeus Cronìde gli conferisce gloria”.
Disse, e raccolto in sé, Achille aspettava; e il suo cuore
forte si disponeva a combattere e scontrarsi.
E come sbuca pantera dal fondo della macchia
e affronta faccia a faccia il cacciatore, e nel suo cuore
non trema né ha paura, nonostante oda latrare;
e se quello la previene, ferendola o colpendola,
pure trafitta dalla lancia, non desiste

424
dal suo coraggio, prima di scontrarsi o di morire;
in pari modo lo splendido Agenore del nobile Antenore,
fuggire non voleva, prima di affrontare Achille,
ma protendeva davanti a sé lo scudo rotondo,
e lo prendeva di mira con l’asta, e gli gridava:
“Certamente tu speri nel cuore, splendido Achille,
di abbattere quest’oggi la città dei superbi Troiani;
sciocchino, molti affanni a causa sua ti giungeranno:
dentro di essa siamo in molti e valenti guerrieri,
che per i cari genitori le spose i figli
Ilio difenderanno; e tu qui incontrerai il tuo destino,
per guerriero terribile e animoso che tu sia”.
Disse, e scagliò un giavellotto acuto con la mano pesante;
sotto la gamba lo colpì sul ginocchio, non lo mancò;
a lui di stagno appena battuto la gambiera
terribilmente suonò, rimbombò all’indietro il bronzo,
respinto, non passò, lo impedivano i doni del dio.
Poi il Pelide si mosse contro Agenore pari a un dio,
secondo; Apollo non gli concesse ancora gloria:
glielo sottrasse, lo ravvolse di molta nebbia,
lo accompagnò al sicuro lontano dal conflitto;
con un raggiro inoltre separò dalla folla il Pelide.
Rassomigliando in tutto ad Agenore, l’Arciere
davanti ai piedi gli stette, e lui si spinse a inseguirlo;
per la pianura ferace lo inseguiva senza sosta,
verso Scamandro, fiume dai gorghi profondi, volgendo,
di poco precedendolo; così Apollo lo incantava:
sempre pensava di raggiungerlo coi suoi piedi.
Gli altri Troiani, in preda al panico, giunsero in massa
lieti alla rocca, e fu piena la città di rifugiati;
fuori dalla città e dal muro non osarono
aspettarsi l’un l’altro, vedere chi era scomparso,
chi morto nello scontro; di slancio si riversavano
dentro città, chiunque fosse salvo per forza e ginocchi.

425
LIBRO XXII

La morte di Ettore.

I Troiani si riversano in città, mentre Achille insegue inutilmente il falso Agenore.


Tutti rientrano, ma solo Ettore resta immobile davanti alle porte Scee, aspettando
Achille. Ormai è giunto per lui il momento di affrontarlo. Invano dagli spalti
Priamo ed Ecuba lo supplicano di rientrare: Ettore è irremovibile. Ma mentre
Achille si avvicina, nella mente di Ettore si instaura un conflitto: affrontarlo o
fuggire? Prevale la prima ipotesi. Quando Achille è quasi giunto, Ettore però si dà
alla fuga intorno alle mura. Gli dèi osservano dall’alto, e Zeus compiange l’eroe. Ma
Atena pretende di scendere per soccorrere Achille. Zeus lo consente, e la dea si
precipita giù. Achille che insegue ed Ettore che fugge compiono per tre volte il giro
delle mura. Al quarto, Zeus prende la bilancia d’oro e vi pone le due sorti: si
abbassa quella di Ettore. Atena allora si accosta ad Achille e gli assicura assistenza.
Assume quindi l’aspetto di Deifobo, un fratello di Ettore, il quale cade nel tranello,
cioè crede che il fratello lo assisterà nello scontro. Ettore si ferma e afferma ad
Achille che lo affronterà. Ma Achille non accetta condizioni sul trattamento del
cadavere. Si procede al duello, nel corso del quale Achille recupera la lancia,
andata a vuoto, perché Atena gliela restituisce. Il che non accade per Ettore, in
quanto Deifobo, creduto tale, non c’è. Ettore allora comprende che per lui è giunta
la fine. Attacca allora Achille con la spada, ma Achille lo precede, colpendolo con
l’asta nel punto più vulnerabile, e cioè alla gola. Ettore cade a terra, e, morente, lo
supplica di restituire il cadavere ai genitori. Achille replica che mai lo farà, ma lo
getterà in pasto ai cani. Ettore allora, spirando, gli predice la prossima morte.
Achille escogita un oltraggio al cadavere: lo trascina intorno alle mura, coi piedi
legati al carro. A quella vista, Ecuba e Priamo danno inizio al pianto generale.
Andromaca ancora nulla sa, ma nella parte più riposta della casa sta preparando un
bagno caldo al marito. Sente le urla della suocera e si precipita sul muro seguita
dalle ancelle. Alla vista del marito trascinato, perde i sensi. Riavutasi, dà luogo a un
lungo compianto su quella che sarà la propria sorte e del piccolo Astianatte. Fanno
coro al lamento tutte le donne che le stanno intorno.

426
Così in città i Troiani, atterriti come cerbiatti,
tergevano il sudore, bevevano, si dissetavano,
affacciati ai bei parapetti. Frattanto gli Achei
si avvicinavano al muro, appoggiati alle spalle gli scudi.
Ettore lo incatenò la Moira funesta a restare
là, dirimpetto ad Ilio, davanti alle porte Scee.
E fu allora che al figlio di Pèleo parlò Febo Apollo:
"Figlio di Pèleo, perché mi insegui coi piedi veloci,
tu, che sei mortale, un dio immortale? Per niente
hai capito che sono un dio, e ti ostini a incalzarmi.
Più non ti preme lo scontro coi Troiani, che hai messo in fuga
e che si sono raccolti in città, e tu sei stato sviato.
Ma non mi ucciderai, perché non soggiaccio alla morte."
E a lui, molto turbato, rispose Achille veloce:
"Mi hai raggirato, Arciere, il più funesto di tutti gli dèi,
dal muro distogliendomi. Ma quanti avrebbero ancora
morso coi denti la terra, prima d'essere in Ilio rientrati!
Grande gloria mi hai strappato, ponendoli in salvo
agevolmente, perché non temi che poi pagherai.
Te la farei pagare davvero, se ne avessi la forza."
Disse, e con grande baldanza si mosse verso la rocca,
come cavallo scattando, vincitore alle gare col carro,
che agile corre distendendosi per la pianura;
così Achille alternava i piedi e le ginocchia.
Lo vide il vecchio Priamo per primo, coi suoi occhi,
per la pianura procedere, simile alla stella
che sorge a tarda estate, e i suoi fulgidissimi raggi
fra molte stelle brillano nel fondo della notte.
Cane la chiamano di Orione comunemente,

427
la più fulgente di tutte, ma è un sinistro presagio,
e molta febbre porta ai mortali sventurati.
Tale il bronzo di lui lampeggiava mentre correva.
Gemito emise il vecchio, si colpì il capo con le mani,
sollevandole in alto, e fra i gemiti molto gridava,
supplicando suo figlio. Ma lui, davanti alle porte,
immoto stava, bramoso di scontrarsi con Achille.
Pietosamente il vecchio gli parlò, tendendo le mani:
"Ettore, non aspettare quell'uomo, ti prego, creatura,
solo, lontano dagli altri, per incontrare la morte,
dal Pelìde domato; lui di te è più forte, e di molto,
non ha pietà! O se gli dèi lo amassero al pari di quanto
io l’amo! I cani e gli avvoltoi lo sbranerebbero,
morto: la pena se ne uscirebbe dal mio cuore.
Lui che mi ha reso privo di tanti prodi figli,
tolti di mezzo, venduti nelle isole lontane.
Adesso ben due figli, Licàon e Polidòro
non vedo fra i Troiani rifugiati nella rocca,
che Laòtoe, nobile donna, mi partorì.
Se nel campo nemico sono vivi, certamente
li riscatteremo con bronzo, con oro, ne ho tanto;
molto il vecchio Alte famoso ne ha dato a sua figlia.
Se invece sono morti e già stanno nella casa di Ade,
questo è per me e per sua madre dolore: li generammo.
Ma per gli altri del popolo sarà molto minore dolore,
se anche tu non morirai, abbattuto da Achille.
Ma entra fra le mura, creatura, per proteggere
i Troiani e le Troiane; non dare gloria
al Pelìde, e non mettere a rischio la tua vita!
Abbi di me pietà, che, misero, ancora ragiono,
me, che il padre Cronìde annienterà nell'estrema vecchiaia,
con destino orrendo, dopo aver visto molti mali:
i figli uccisi, le figlie come schiave trascinate,
i letti devastati, e i piccoli ancora infanti

428
contro il suolo sbattuti nella mischia furibonda,
le nuore tratte dalle mani degli Achei detestabili.
Ultimo me davanti alle porte i cani famelici
dilanieranno, quando qualcuno col bronzo acuto
mi colpirà da vicino, da lungi, la vita strappandomi-
i miei cani da guardia, che allevavo alla mia tavola,
che, dopo aver tracannato il mio sangue, ancora inquieti,
si sdraieranno nell'atrio-. A chi è giovane tutto si addice,
massacrato da Ares, lacerato da bronzo acuto,
se giace. Anche se morto, tutto è bello ciò che si vede.
Ma quando il capo canuto, ma quando la barba canuta
e le vergogne di un vecchio ammazzato i cani oltraggino,
questa per i mortali sventurati è la vista più orrenda."
Disse il vecchio, e, tirandoli con le mani, si strappava,
i capelli canuti. Ma Ettore non lo ascoltava.
In disparte la madre gemeva, piangendo dirotto.
Si aprì la veste e con l'altra mano il seno protese,
e a lui, sempre piangendo, alate parole diceva:
"Ettore mio, creatura, questo seno rispetta, pietà
di me, che te l'offersi un dì per calmare il tuo pianto.
Rammentalo, creatura, respingi il tuo nemico
stando dentro le mura, non sfidarlo allo scoperto.
Non ha pietà! Se lui ti uccidesse, non potrei più piangere
sul catafalco te, la mia gioia, che ho partorito,
né lo potrebbe la sposa, ricca dote. Lontano da noi
presso le navi argive cani veloci ti sbraneranno."
Così, piangendo, parlavano entrambi al caro figlio,
supplicandolo molto. Ma Ettore non li ascoltava:
lui aspettava Achille immenso, che si avvicinava.
Come serpente montano nella tana aspetta l'uomo-
ha pasteggiato veleni, è in preda a orrendo furore,
getta uno sguardo terribile, avvolgendosi intorno alla tana-;
con pari inestinguibile furore non indietreggiava
Ettore, appoggiando lo splendido scudo al bastione,

429
e così disse, turbato, al suo magnanimo cuore:
" Povero me, se ora varcassi le porte e le mura,
Polidamante primo fra tutti mi rampognerebbe,
lui che mi suggerì di guidare in città i Troiani,
in questa notte funesta, in cui si mosse lo splendido Achille.
Ma non gli diedi ascolto. E sarebbe stato assai meglio.
Ora, poiché con la mia follia ho rovinato il mio popolo,
dei Troiani e delle Troiane lunghissimi pepli
ho vergogna, che uno peggiore di me possa dire:
"Ettore, nella sua forza fidando, ha distrutto il suo popolo."
Così diranno. E allora per me molto meglio sarebbe
affrontare Achille e tornarmene avendolo ucciso,
o con gloria cadere per la città da lui colpito.
E se mai deponessi lo scudo ombelicato
e così l'elmo pesante, e appoggiata al muro la lancia,
io stesso andassi incontro ad Achille irreprensibile,
Elena gli promettessi, e le ricchezze con lei,
tutti quanti i tesori che Alessandro portò a Troia
nelle concave navi - così ebbe inizio la contesa-,
perché gli Atridi li portassero via, e inoltre agli Achei
altri ne distribuissi, che questa città tiene in serbo,
e se strappassi giuramento agli anziani di Troia
di non nascondere nulla, ma di mettere tutto in comune,
quante ricchezze nasconde l'amabile nostra città…
Ma che cosa è mai questo che va ragionando il mio cuore?
Se lo supplicherò, non avrà di me compassione,
non mi rispetterà, mi ucciderà disarmato,
come se fossi una donna, disvestito delle armi.
Qua non è certo questione di sussurrare con lui
su ciò che capita, come fanno ragazza e ragazzo,
perché ragazza e ragazzo sussurrano tra loro.
Meglio è invece accettare con lui la contesa al più presto.
Vedremo a chi dei due l'Olimpio darà gloria."
Così pensava aspettando, e Achille già era vicino,

430
simile a Enialio, dio guerriero armato di elmo;
sopra la spalla destra palleggiava la lancia del Pelio
tremenda, tutt'intorno il bronzo gli splendeva
come bagliore di fuoco fiammante o di sole che sorge.
Lo vide Ettore e fu preso dal tremito, non poté più resistere.
Si lasciò le porte indietro e si diede alla fuga;
ma lo incalzò il Pelìde, fidando nei piedi veloci.
Come sui monti un falco, il più celere dei volatili,
agevolmente si slancia su trepida colomba,
essa gli si sottrae, ma lui, stridendo acuto,
la incalza da vicino, il cuore lo spinge a ghermirla;
simile a lei, smanioso, volava dritto, ed Ettore in fuga,
sotto le mura di Troia, alternava i veloci ginocchi.
Oltrepassarono il posto di vedetta e il caprifico
ventoso, sempre dal muro discosti, per la carraia,
e alle due fonti giunsero, belle acque: due sorgenti
sgorgano quivi dello Scamandro vorticoso.
Versa acqua calda la prima, e il fumo si innalza da essa
tutto d’intorno, come se fosse da fuoco che brucia.
L'altra d'estate versa acqua fredda, simile a grandine,
simile a gelida neve, od anche ad acqua ghiacciata.
Anche ci sono accanto ad esse bei lavatoi,
larghi, di pietra, dove gli splendidi indumenti
lavavano le spose dei Troiani e le belle figlie,
prima, quando era pace, e non erano giunti gli Achei.
Di là pure passarono, uno in fuga e l'altro inseguendo.
Prode era chi fuggiva, ma più forte era l'inseguitore,
rapido. Né disputavano per una vittima, per una pelle bovina,
premi in palio per gare di corsa, ma per la vita
di Ettore, domatore di cavalli, essi correvano.
Come cavalli, campioni di corse, dai solidi zoccoli,
girano intorno alla meta celermente, e c'è un ricco premio:
un tripode o una donna, in onore di un defunto;
così tre volte intorno alla città di Priamo giravano

431
con i piedi veloci. E gli dèi tutti quanti guardavano,
e prese la parola Zeus, padre di uomini e dèi:
"Ahi cosa vedo coi miei occhi, un uomo a me caro
lungo le mura inseguito! Il mio cuore è addolorato
per Ettore, che spesso mi ha bruciato cosce di buoi
sopra le vette ricche di anfratti dell'Ida ed ancora
sulla rocca in città, e adesso lo splendido Achille
per la città di Priamo lo insegue coi piedi veloci.
Ora però riflettete, o dèi, date un vostro parere,
se dobbiamo sottrarlo alla morte o dobbiamo lasciarlo
nelle mani di Achille Pelìde, per quanto sia prode".
E, di rimando, gli disse la dea Atena dagli occhi lucenti:
"Padre fulminatore, nere nubi, che mai dicesti!
Uomo mortale, da tempo votato al suo destino,
tu vorresti liberarlo dalla morte crudele?
Fallo. Ma certo non tutti noi dèi ti approveremo".
E, di rimando, le disse Zeus che aduna le nubi:
"Tritogenìa, creatura, coraggio, non ho parlato
sinceramente e voglio con te rivelarmi gentile.
Fa’ come crede meglio il tuo cuore, e non tardare".
Così dicendo, Atena, già da tempo impaziente, spronava,
e dalle cime d'Olimpo lei discese con un balzo.
Ettore senza sosta era braccato da Achille veloce.
E come quando un cane insegue sui monti un cerbiatto,
dopo averlo stanato, per anfratti e per vallate,
e se quello si appiatta, per nascondersi, sotto un cespuglio,
corre sulle sue tracce senza sosta, sino a che non lo trovi;
Ettore in pari modo non sfuggì al veloce Pelìde.
E ogni qual volta tentasse di gettarsi in direzione
delle porte di Dàrdano, sotto le solide torri,
se per caso da sopra lo difendessero coi dardi,
sempre Achille gli tagliava la strada, nella piana deviandolo,
mentre lui stesso verso la città senza sosta volava.
Come taluno nel sogno non riesce a inseguire chi fugge,

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non può sottrarsi chi fugge, non riesce a inseguire chi insegue;
l'uno così non riusciva a raggiungerlo e l'altro a sfuggirgli.
E come Ettore sarebbe sfuggito al destino di morte,
se nell’estremo istante non gli veniva accanto Apollo,
che gli infuse ardimento e rese agili le ginocchia?
E accennava col capo ai suoi lo splendido Achille,
che non scagliassero contro Ettore dardi amari,
perché nessuno gli togliesse la gloria, e lui fosse secondo.
Ma quando giunsero per la quarta volta alle fonti,
ecco che allora il padre distese l'aurea bilancia,
e vi mise sopra due Chere di morte crudele,
quelle di Achille e di Ettore, domatore di cavalli;
la sollevò nel mezzo, e di Ettore il giorno fatale
verso l'Ade inclinò, lo abbandonò Febo Apollo.
Giunse dal figlio di Pèleo la dea Atena dagli occhi lucenti,
e, standogli vicino, alate parole diceva:
"Credo adesso, o splendido Achille, amato da Zeus,
che grande gloria agli Achei ridaremo davanti alle navi,
se Ettore uccideremo, per quanto mai sazio di lotta.
Ora non è più possibile che ci sfugga dalle mani,
anche se in ogni maniera ci provasse Apollo arciere,
rotolandosi ai piedi di Zeus che porta l’ègida.
Ora tu fermati e prendi respiro, che io nel frattempo
vado da lui a convincerlo ad affrontarti in duello".
Disse Atena, e lui diede ascolto e fu lieto nel cuore,
e si fermò, appoggiandosi all’asta dalla punta di bronzo.
Lei lo lasciò, se ne andò a raggiungere lo splendido Ettore,
assumendo l'aspetto di Deìfobo e la voce sonora,
e, standogli vicino, alate parole diceva:
"Caro, davvero ti affligge Achille veloce, con gli agili
piedi inseguendoti intorno alla città di Priamo.
Ma su, fermiamoci, difendiamoci, resistiamo!"
E così le rispose il grande Ettore, elmo che splende:
"Anche prima, Deìfobo, tu eri di molto il più caro

433
dei fratelli, che Priamo ed Ecuba generarono.
Ora di più di prima io ti tengo in onore nell'animo,
tu che osasti per amor mio, appena mi hai visto,
uscire dalle mura, mentre gli altri se ne stanno al sicuro."
E, di rimando, gli disse la dea Atena dagli occhi lucenti:
"Caro, davvero tanto il padre e la madre sovrana
mi supplicavano, l'uno dopo l'altra, assieme ai compagni,
di rimanere là; a tal punto sono tutti sgomenti.
Ma il mio cuore di dentro si struggeva di cupa angoscia.
Ora bramosi combattiamo, né ci sia risparmio
delle lance, perché possiamo vedere se Achille
ci uccida, l'uno e l'altro, e le spoglie cruente si porti
presso le concave navi, o soccomba, dalla tua domato".
Disse così, e lo guidava, tramando l'inganno, Atena.
E quando furono ormai vicini, entrambi avanzando,
per primo fu a parlare Ettore elmo che splende:
"Figlio di Pèleo, non più fuggirò, come ho fatto tre volte,
intorno alla gran rocca illustre di Priamo, né osai
attendere il tuo assalto. Ma adesso mi spinge il mio cuore
ad affrontarti, che io ti uccida o che sia tu ad uccidermi.
Ora invochiamo gli dèi, che i migliori testimoni
e garanti saranno dei nostri reciproci patti.
Io non strazierò indegnamente il tuo corpo, se Zeus
di resisterti mi concede, e io ti strappo la vita,
ma, dopo averti spogliato delle armi illustri, Achille,
restituirò il cadavere agli Achei. Anche tu fa' lo stesso."
E, di sbieco guardandolo, gli rispose Achille veloce:
"Ettore maledetto, non osare parlarmi di accordi.
Patti fedeli fra uomini e leoni non ci sono,
né ci sono fra lupi e agnelli sentimenti concordi,
ma si detestano l'uno con l'altro senza mai tregua.
Così non è possibile fra noi due amicizia, né patti
mai ci saranno fra noi, prima che uno dei due non cada,
del proprio sangue Ares, guerriero scudato, saziando.

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Ora rammenta intero il tuo valore. Proprio adesso bisogna
che ti dimostri guerriero potente e ardimentoso.
Scampo tu più non hai, perché subito Pallade Atena
con la mia lancia ti abbatterà. E pagherai i lutti,
tutti, per i compagni, che uccidesti infuriando con l’asta."
Disse, e scagliò, palleggiando, la lancia lunga ombra,
ma, guardando di fronte, la schivò lo splendido Ettore,
si piegò prevedendola, volò sopra la lancia di bronzo.
Rimase infissa al suolo, e la divelse Pallade Atena,
e la ridiede ad Achille, ma Ettore, pastore di popoli,
non se ne accorse, e disse ad Achille irreprensibile:
"Mi hai mancato, e per niente, Achille pari agli dèi,
conoscevi da Zeus la mia sorte. E lo andavi dicendo!
Ma un millantatore sei soltanto e un chiacchierone,
perché mi spaventassi e scordassi il valore e il vigore.
Tu, mentre fuggo, non mi pianterai sulla schiena la lancia;
spingila dritta qua, in mezzo al petto, mentre ti affronto,
se un dio te lo concede. Ma ora evita tu la mia lancia
bronzea. Vorrei che tutta si immergesse nel tuo corpo.
Per i Troiani sarebbe allora più lieve la guerra,
se fossi tu annientato: sei per loro l'angoscia più grande."
Disse, e scagliò, palleggiando, la lancia lunga ombra,
e colpì lo scudo di Achille nel mezzo, centrandolo,
ma dallo scudo la lancia fu respinta. Si indignò Ettore,
che a vuoto il lancio veloce gli fosse uscito di mano.
Fermo ristette, turbato, non aveva altra lancia di frassino.
A gran voce Deìfobo, bianco scudo, a sé chiamava,
lunga lancia chiedeva, ma non era più vicino.
Ettore allora comprese nel suo cuore e così disse:
"Ahimè, davvero gli dèi mi hanno chiamato alla morte.
Mi credevo di avere accanto l'eroe Deìfobo,
ma lui è dentro le mura, mi ha raggirato Atena.
Ora non mi è lontana la morte crudele, è vicina,
non la posso evitare. E' da tempo che ciò stava a cuore

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a Zeus e al figlio di Zeus Arciere, che nel passato
mi proteggevano. Invece adesso il destino mi afferra.
Ma non intendo morire senza lotta e senza gloria,
voglio compiere qualcosa di grande, che lo sappiano i posteri".
Dopo aver detto così, sfoderò la spada affilata,
che gli stava appesa al fianco, pesante, robusta,
si raccolse e attaccò, come aquila, che in alto vola,
punta sulla pianura attraverso le nuvole scure,
per ghermire tenero agnello o spaurito leprotto.
Proprio così attaccò, brandendo la spada affilata.
Anche Achille scattò, col cuore pieno di furore
selvaggio. Aveva il petto ricoperto dallo scudo
bello, ben lavorato, oscillava l'elmo splendente,
a quattro cime, bella ondeggiava la criniera
d'oro, che folta Efesto faceva scendere intorno al pennacchio.
Come assieme alle stelle nel fondo della notte
Espero avanza, che è la stella più bella del cielo,
così la punta aguzza della lancia brillava, che Achille
impugnava, per Ettore splendido meditando la morte,
il bel corpo spiandone, dove più si mostrasse scoperto.
Tutto il corpo era ricoperto dalle armi di bronzo,
belle, che a Patroclo aveva tolte, dopo averlo ucciso.
Ma dove la clavicola separa il collo dalle spalle,
là c’era il varco, la gola, ch’è il punto ove morte è più rapida.
Là lo splendido Achille colpì lui che lo attaccava,
con la lancia, e la punta il collo tenero gli trapassò.
L'arma pesante di bronzo però non gli recise
la trachea, così da potere parlare e rispondere.
Precipitò nella polvere, e menò vanto lo splendido Achille:
" Ettore, ti credevi, quando Patroclo disarmavi,
al sicuro, non ti curavi di me che non c’ero.
Sciocco, lontano da lui difensore molto più forte
presso le concave navi io me ne restavo in disparte,
io che ti ho tolto la vita. Te cani e avvoltoi sconciamente

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dilanieranno, lui lo seppelliranno gli Achei."
E a lui, perdendo forze, diceva Ettore elmo che splende:
"Per la tua vita ti supplico, per le ginocchia, per i genitori,
non lasciare che i cani mi divorino presso le navi
degli Achei, ma accetta oro e bronzo in abbondanza,
doni che ti faranno il padre e la madre sovrana,
e il mio corpo restituisci a casa, perché
i Troiani e le spose Troiane gli concedano il rogo".
E, di sbieco guardandolo, gli rispose Achille veloce:
"Cane, non mi pregare per ginocchia e per genitori.
Cuore e furore, chissà, mi indurrebbero a fare a pezzi
le tue carni e a mangiarle crude, tanto male mi hai fatto;
come non c'è chi i cani scanserà dalla tua testa,
neanche se dieci volte venti volte più grande portassero
riscatto, qui davanti, e ne promettessero ancora;
neanche se a peso d'oro intendesse riscattarti
Priamo, figlio di Dardano, neanche allora la madre sovrana,
lei che ti ha partorito, ti piangerà sul catafalco,
ma tutto intero cani e avvoltoi ti sbraneranno."
E, ormai morente, Ettore, elmo che splende, gli rispose:
"Bene ti conoscevo guardandoti, non era possibile
persuaderti, hai certo nel petto un cuore di ferro.
Bada però che io non divenga motivo di sdegno
per gli dèi, quel giorno che Paride e Febo Apollo
ti uccideranno, per quanto sia prode, alle porte Scee".
Mentre ancora così parlava, la morte lo avvolse.
L'anima dalle membra volando discese nell'Ade,
la sorte sua piangendo, lasciando forza e giovinezza.
E a lui ch'era già morto così disse lo splendido Achille:
"Muori; la morte mia accetterò allora
quando Zeus lo vorrà e gli altri dèi immortali".
Disse, ed estrasse la lancia di bronzo dal cadavere,
in disparte la mise, dalle spalle gli tolse le armi
insanguinate. Accorrevano gli altri figli degli Achei

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ad ammirare il corpo e il bellissimo aspetto di Ettore,
e nessuno, accostandosi, si asteneva dal colpirlo,
e qualcuno guardando così ripeteva al vicino:
"Ah se è più morbido Ettore adesso da tastare,
rispetto a quando il fuoco ardente appiccava alle navi!"
Così diceva ciascuno, e, accostandosi, lo trafiggeva.
Dopo averlo spogliato, il veloce splendido Achille,
stando in mezzo agli Achei, alate parole diceva:
"Amici miei, consiglieri e capi degli Argivi,
poiché m'hanno concesso gli dèi di domare quest'uomo,
che tanto male ha fatto, più di quanto tutti gli altri,
esploriamo adesso armati intorno alle mura,
per capire la mente dei Troiani, quale mai essa sia,
se lasceranno la rocca dopo la morte di quest'uomo,
o se resisteranno, nonostante l'assenza di Ettore.
Ma che cosa è mai questo che va ragionando il mio cuore?
Giace cadavere accanto alle navi non pianto, insepolto,
Patroclo. Mai di lui mi dimenticherò, sino a quando
resterò in mezzo ai vivi, mi reggerò sui ginocchi.
E se laggiù, nell'Ade, ci si scorda di chi è morto,
anche laggiù mi ricorderò del mio caro compagno.
Suvvia, ragazzi Achei, intoniamo adesso il peana
e torniamo alle concave navi, portiamo costui.
Grande gloria è la nostra: abbiamo ucciso lo splendido Ettore,
che i Troiani in città veneravano come un dio.”
Disse, e per Ettore splendido meditò oltraggio indegno.
Gli forò di entrambi i piedi i tendini, dietro,
tra la caviglia e il tallone, vi passò due cinghie di cuoio,
poi al carro lo legò, e lasciò trascinare la testa.
Quindi, salito sul carro, sollevando le armi superbe,
i cavalli frustò che partissero, ed essi volarono.
Nube di polvere intorno a lui si levò, trascinato,
le nere chiome si sparsero, e la testa, un tempo bellissima,
tutta giaceva in mezzo alla polvere. Ma Zeus allora

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data l'aveva ai nemici, che la sconciassero nella sua patria.
Così di polvere tutta si imbrattava la testa. E la madre
si strappò i capelli, gettò via lo splendido velo
lungi da sé, diede un grido fortissimo, alla vista del figlio.
Gemiti miserandi emise il padre, e il popolo intorno
per l’intera città era preda di gemiti e pianti.
Ciò che accadeva era molto simile a come se Ilio
ripida ardesse da cima a fondo, consunta dal fuoco.
Tratteneva il popolo a stento il vecchio straziato,
che smaniava per uscire dalle porte di Dàrdano.
Tutti quanti implorava, rotolandosi in mezzo allo sterco,
e, chiamando per nome ciascuno, così diceva:
"Cari, scostatevi, e, pur preoccupati, lasciate ch’io esca
dalla città e che vada alle navi degli Achei
a supplicare quell'uomo superbo tracotante.
Lui forse avrà riguardo dell'età, sentirà compassione
della vecchiaia. Anche lui ha un padre, mio coetaneo,
Pèleo, che lo generò e lo nutrì, perché fosse rovina
per i Troiani. Ma a me soprattutto ha dato afflizione.
Tanti figli mi ha ammazzato nel fiore degli anni.
Ma non tanto io piango tutti gli altri, per quanto angosciato,
quanto uno solo – aspra pena che nell'Ade mi getterà-
Ettore. Oh almeno fosse morto nelle mie braccia!
Ci saremmo saziati di pianti e di lamenti,
la madre misera che lo partorì e pure io stesso."
Così diceva piangendo, e gemevano i cittadini.
Ecuba fra le Troiane diede inizio al fitto compianto:
"Misera me, creatura! Come ancora potrò vivere,
ora che tu sei morto? Tu che sempre, notte e giorno,
eri il mio orgoglio per la città e salvezza per tutti,
per Troiani e per Troiane, che come un dio
ti accoglievano. Ed anche per loro eri fulgida gloria,
quando eri vivo. Adesso la morte e il destino ti afferrano."
Così diceva piangendo. Ma di nulla sapeva la sposa.

439
Messaggero nessuno ancora da lei era giunto,
a dirle che lo sposo fuori porta era rimasto.
Ma nel profondo dell'alto palazzo ordiva una tela
doppia, di porpora, e vi intesseva infiorati ricami.
Alle ancelle belle trecce aveva ordinato
di mettere sul fuoco un grande tripode, perché per Ettore,
reduce dalla battaglia, fosse pronto un bagno caldo.
Misera, non sapeva che Atena occhi lucenti,
lungi dal bagno, lo aveva domato per mano di Achille.
Gemiti udì provenire e singhiozzi dalla torre,
le tremarono le membra, le cadde a terra la spola.
E subito alle ancelle belle trecce così diceva:
"Presto, mi seguano in due, ch'io veda cos'è successo.
Ho sentito la voce della nobile suocera, e il cuore
sino alla bocca mi balza nel petto, e le ginocchia
si irrigidiscono. Un male incombe sui figli di Priamo.
Lungi dalle mie orecchie la parola! Ma terribilmente
temo che al prode mio Ettore, da solo, lo splendido Achille
abbia tagliato la via e per la pianura lo insegua,
e lo faccia cessare dall'audacia dolorosa
che lo possiede da sempre. Lui mai se ne stava con gli altri,
ma avanti a tutti correva, a nessuno cedendo in coraggio."
Disse così, e si gettò fuori di casa simile a folle,
con il tumulto nel cuore, e le ancelle insieme con lei.
E come fu alla torre e in mezzo alla calca degli uomini,
si fermò sul muro guardandosi intorno, e lo vide
trascinato davanti alla città. I cavalli veloci
lo traevano indegnamente alle concave navi.
Notte sopra gli occhi la avvolse tenebrosa,
cadde all'indietro, perdette i sensi esalando il respiro.
Lungi dal capo le caddero i nastri risplendenti,
il diadema, la cuffia, assieme alla benda intrecciata,
e il velo, che le aveva donato l'aurea Afrodite,
il dì in cui Ettore, elmo che splende, l'aveva condotta

440
dalla casa di Eetione, portandole doni infiniti.
Le cognate e le mogli dei cognati, standole intorno,
la reggevano, disfatta dal dolore sino alla morte.
E quando poi rinvenne e la vita tornò nel suo petto,
disse così fra le lacrime in mezzo alle donne troiane:
"Ettore, misera me, per quale destino nascemmo
ambedue, tu nella casa di Priamo a Troia,
ed io a Tebe, sotto il Placo ricoperto di selve,
nella casa di Eetione, che mi allevò bambina,
sventurati entrambi. Non doveva mettermi al mondo.
Ora laggiù, nell'Ade, nei recessi della terra
tu te ne vai, e mi lasci nel lutto detestabile,
vedova dentro casa. E il figlio è ancora piccino,
che generammo insieme, sventurati. Né tu potrai dargli,
Ettore, aiuto, né lui a te, perché sei morto.
Anche se sfuggirà alla guerra lacrimosa
con gli Achei, ci saranno affanni e dolori per lui
sempre pronti, gli toglieranno persino gli averi.
Il dì di orfano priva un bambino di tutti gli amici.
Tiene la testa bassa, ha le guance rigate di pianto,
nel bisogno si accosta il bambino ai compagni del padre,
tira il mantello ad uno, a un altro tira la tunica.
Uno di quelli che sente pietà gli avvicina la coppa,
lui si bagna appena le labbra, ma non il palato.
Chi ha madre e padre lo caccia malamente dal convito,
con le mani lo batte, aggiungendo parole oltraggiose:
"Vattene, qua tuo padre non c'è a banchettare con noi!"
Il bambino in lacrime se ne torna alla vedova madre,
Astianatte, che prima sulle ginocchia di suo padre
solo midollo mangiava e grassa carne di pecora.
E quando il sonno lo prendeva, già sazio di giochi,
si addormentava sul letto, tra le braccia della balia,
sopra una morbida culla, con il cuore stracolmo di gioia.
Ora dovrà soffrire molti mali, ha perduto suo padre,

441
Astianatte, che chiamano con questo nome i Troiani,
perché tu solo le porte e le lunghe mura salvavi.
Ora te, presso le navi e lontano dai genitori,
vermi divoreranno, quando i cani si saranno saziati,
nudo. Eppure nella tua casa rimangono vesti
raffinate, sottili, tessute da mani di donne.
Tutte le voglio bruciare nel fuoco che distrugge:
più non ti serviranno, non te ne vestirai,
ma ti saranno di gloria per Troiani e per Troiane".
Disse così piangendo, e gemevano intorno le donne.

442
LIBRO XXIII

I giochi funebri per Patroclo.

La scena si sposta al campo acheo, dove Achille esorta i Mirmìdoni a piangere


Patroclo, mentre lui saluta il compagno prima del rogo. Seguono due banchetti
funebri, ai quali però Achille non prende parte, rifiutando persino di lavarsi.
All’alba Agamemnon manderà a tagliare alberi per la pira. Giunta la notte, Achille
si addormenta sfinito sulla riva del mare. Gli appare allora in sogno l’ombra di
Patroclo, che, dopo avergli raccomandato di dar corso al più presto alla
cremazione, gli rammenta che fra poco toccherà anche a lui di morire. Ma non
dimentichi di disporre che le ossa di ambedue siano per sempre mescolate
nell’urna che a suo tempo la madre Teti gli diede. Dopo essersi per un istante
abbracciati, l’ombra scompare. Raccolta la legna, si procede al rogo. Tutti si
recidono la chioma, compreso Achille, che la dona al suo compagno, e non al
fiume Sperchèo, come aveva promesso. Quindi si procede all’immolazione delle
bestie e dei giovani catturati, ma la pira non prende fuoco. Allora Iris si reca dai
venti Bòrea e Zefiro e chiede loro di soffiare. La pira si accende, e per tutta la notte
si completa la cremazione, mentre Achille non cessa di piangere. Sorta l’aurora e
spento il rogo, le ossa di Patroclo vengono raccolte e messe nell’urna stabilita.
Achille raccomanda ai compagni che il sepolcro provvisorio sia modesto; quello più
grande lo eleveranno alla sua morte, e sarà unico per sé e per Patroclo. Compiuto il
rito, Achille procede ai giochi funebri. Essi sono i seguenti: corsa dei carri, pugilato,
lotta, corsa, combattimento con la lancia, getto del peso, tiro al piccione, lancio del
giavellotto.

443
Così piangevano quelli in città. Frattanto gli Achei,
giunti che furono alle navi e all’Ellesponto,
si dispersero verso la propria nave ciascuno.
Ma ai Mirmìdoni Achille non permise di disperdersi,
e così parlò ai compagni bramosi di guerra:
“O miei fidi compagni, Mirmìdoni svelti puledri,
non sciogliamo dai carri i cavalli solidi zoccoli,
ma, accostandoci con i cavalli e con i carri,
su Patroclo piangiamo, perché questo è l’onore dei morti.
Poi, quando avremo goduto del pianto doloroso,
sciolti i cavalli, qui ceneremo tutti quanti”.
Disse, e insieme levarono gemiti, guidati da Achille.
Per tre volte i cavalli, belle criniere, condussero intorno
al cadavere in pianto, infuse brama di gemito Teti.
Si bagnavano di lacrime la sabbia, le armi degli uomini,
tale era l’uomo che rimpiangevano, datore di panico.
In mezzo a loro il Pelìde diede inizio al fitto compianto,
sul petto del compagno ponendo le mani omicide:
“Patroclo, anche nelle case di Ade sii felice, addio.
Tutte le mie promesse ora porto a compimento:
tratto qui Ettore, lo darò in pasto, crudo, ai cani,
dodici nobili figli dei Troiani davanti al rogo
sgozzerò, adirato perché tu sei stato ucciso”.
Disse, e per Ettore splendido meditò oltraggio indegno:
prono lungo il letto del Menetìade lo distese,
dentro la polvere; gli altri si spogliavano delle armi,
bronzee, lucenti, sciolsero i cavalli alti nitriti,
e sedettero accanto alla nave del rapido Eàcide,
in gran numero e lui offrì loro lauto banchetto.
Molti candidi buoi, sgozzati con il ferro,
rantolavano, molte pecore e capre belanti,
molti maiali forti zanne, fiorenti di grasso,
si abbrustolivano, stando distesi, alla fiamma di Efesto:
da ogni parte a fiotti scorreva il sangue attorno al cadavere.

444
Quindi il figlio di Pèleo, il sovrano piedi veloci,
presso Agamemnon splendido condussero i capi Achei,
convincendolo a stento, adirato per il compagno.
E, come furono giunti alla tenda di Agamemnon,
subito diedero ordine agli araldi, voce sonora,
di collocare sul fuoco un gran tripode, se il Pelìde
convincessero a detergersi del sangue rappreso.
Ma ostinato si rifiutava con giuramento:
“No, per Zeus, il sommo e il più forte fra gli dèi,
non è ammissibile ch’io mi accosti al lavacro del capo,
prima che Patroclo abbia posto sul rogo e versata la terra
e recisa la chioma, perché un dolore pari a questo
mai più sul cuore mi giungerà, sino a che sarò vivo.
Ora dunque obbediamo al banchetto detestabile.
E all’aurora tu manda, Agamemnon, sovrano di eroi,
a raccogliere legna, tutta quella che necessita,
perché il morto discenda alla caligine tenebrosa,
sino a che il fuoco instancabile, bruciandolo, lo strappi
ai nostri occhi presto, e gli uomini tornino all’opera.”
Disse, e quelli gli diedero ascolto e gli obbedirono.
Prontamente prepararono il pasto e, divisi in gruppi,
mangiavano, né alcuno mancò della giusta porzione.
E come di bevanda e di cibo furono sazi,
se ne andò ciascuno a dormire nella sua tenda.
Ma si distese il Pelìde sulla riva del mare sonante
fra profondi gemiti, assieme a molti Mirmìdoni,
in uno spazio aperto, dove l'onda lambiva la spiaggia.
Lo prese allora il sonno, che scioglie le angosce del cuore.
Dolce lo avvolse – aveva le splendide membra spossate,
Ettore aveva inseguito sotto Ilio battuta dai venti-.
Ecco che a lui venne l’anima di Patroclo derelitto,
simile in tutto a lui nell'aspetto, negli occhi bellissimi,
nella voce, negli abiti che di consueto vestiva.
Si fermò al di sopra del capo e così disse:

445
"Dormi, Achille, di me ti sei dimenticato.
Non mi trascuravi da vivo, mi trascuri da morto.
Prima che puoi seppelliscimi, passerò le porte dell'Ade.
Mi tengono lontano le ombre, i simulacri dei morti,
non mi consentono di unirmi a loro al di là del fiume,
ma vado errando intorno alla casa di Ade, ampie porte.
Dammi la mano, te lo chiedo piangendo. Mai più accadrà
che tornerò dall'Ade, una volta gettato sul rogo.
Vivi mai più, seduti in disparte dai cari compagni,
ci scambieremo consigli l'un l'altro. Ma la Chera
detestata mi ha colto, che ebbi in sorte dalla nascita.
E anche per te è destino, o Achille pari agli dèi,
di morire sotto le mura dei ricchi Troiani.
Ma altra cosa ti chiedo e raccomando, se vuoi darmi ascolto.
Le ossa mie non metterle dalle tue separate, Achille,
ma insieme, come insieme nella vostra casa crescemmo,
quando, ancora piccino, Menetio mi condusse
a casa tua da Opunte per un doloroso omicidio,
il giorno in cui uccisi il figlio di Amfidamante,
sciocco, ma non volevo, adirato giocando agli astràgali.
E in casa sua mi accolse Pèleo cavaliere,
e mi allevò con cura, mi nominò tuo scudiero.
Dunque un'unica urna le nostre ossa racchiuda,
l'urna d'oro a due anse, che ti diede la madre sovrana."
E, di rimando, così rispondeva Achille veloce:
"Perché, testa diletta, sei giunto accanto a me,
perché mi dai questi ordini, uno ad uno? Certamente
obbedirò in ogni cosa, farò tutto come mi chiedi.
Ma fatti più vicino, e almeno per un attimo
stiamo abbracciati e saziamoci di pianto disperato".
Dopo aver detto così, le braccia protendeva,
ma nulla prese. L'anima sotto terra, simile a fumo,
sparve stridendo. Achille si ridestò sgomento,
forte batté le mani, e disse rattristato:

446
" Ahi, dunque è tutto vero che resta giù, nell'Ade,
l'anima e il simulacro, ma dentro non c'è più la vita.
Tutta l'intera notte di Patroclo derelitto
mi è stata accanto l'anima, che piangeva e singhiozzava,
e mi impartiva ordini, del tutto simile a lui."
Disse così, e in tutti suscitò desiderio di pianto.
E apparve Aurora dita di rosa a loro piangenti
tutti intorno al cadavere miserando. E il possente Agamemnon
mule poi mandava e uomini a fare legna
dalle tende tutte, e li guidava Merìone,
uomo valente, ch’era lo scudiero del forte Idomèneo.
Si avviarono, scuri tenendo che tagliano selve,
e corde ben ritorte; in testa andavano i muli,
e molto andarono, in andirivieni, per vie traverse.
Quando poi giunsero alle valli dell’Ida, ricco di fonti,
ecco che allora querce, eccelse chiome, con bronzo affilato
giù abbatterono in fretta; e quelle con molto fragore
se ne cadevano. Allora gli Achei le tagliavano a pezzi
e alle mule le legavano, ed esse fendevano
il terreno, bramando la piana, fra dense boscaglie.
I taglialegna portavano i tronchi, come Merìone
lo scudiero del forte Idomèneo aveva ordinato.
Li gettavano in fila, sulla riva, dove Achille
meditava per Patroclo grande tomba e per se stesso.
Dopo aver da ogni parte accumulato legna infinita,
tutti insieme sedevano aspettando. Allora Achille
presto ordinava ai Mirmìdoni, che amano la guerra,
che si armassero, che aggiogassero ognuno i cavalli
al proprio carro, e quelli si alzarono e si armarono
e montarono sopra i carri, guerrieri ed aurighi,
i cavalieri davanti, e una nube seguiva di fanti,
infinita; nel mezzo i compagni portavano Patroclo.
Tutti coprirono il morto di capelli, che gettavano
recidendoli, e Achille gli teneva di dietro la testa,

447
affranto: accompagnava all’Ade l’amico perfetto.
E, come giunsero al luogo che aveva Achille indicato,
lo deposero e legna ammucchiarono in abbondanza.
Altro allora pensò lo splendido Achille veloce:
stando discosto dal rogo, si recise i biondi capelli,
che nutriva fiorenti in onore del fiume Sperchèo,
e, turbato, disse così verso il mare vinoso:
“Sperchèo, mio padre Pèleo invano ti promise
che, una volta tornato nella cara terra patria,
avrei reciso la chioma e offerto una sacra ecatombe:
non castrati cinquanta montoni sacrificando
alle sorgenti, dov’è il recinto e l’altare fragrante.
Così pregava il vecchio, ma il progetto non compisti.
Ora, poiché non tornerò nella cara patria,
la mia chioma la voglio offrire a Patroclo eroe.”
Disse, e la chioma nelle mani del caro compagno
pose, e in essi tutti destò desiderio di pianto.
E su di loro piangenti calava la luce del sole,
se, accostatosi, Achille non parlava ad Agamemnon:
“Figlio di Àtreo, poiché gli Achei a te ubbidiranno
più di tutti, è sempre possibile saziarsi di pianto.
Ora dal rogo allontanali e disponi per la cena,
ci occuperemo di tutto noi, cui spetta del morto
avere cura. Rimangano qui soltanto i capi.”
E, com’ebbe udito il sovrano di eroi Agamemnon,
subito li disperse per le navi ben calibrate.
Chi si curava del morto restò, e ammucchiarono legna,
e di cento piedi per cento ammassarono un rogo,
e sulla cima posero il morto, angosciati nel cuore.
Molte pecore grasse, molti buoi dai passi ritorti
scotennarono e prepararono davanti alla pira;
prese il grasso da tutti, ne avvolse il magnanimo Achille
da capo a piedi la salma, e poi ammassò le carcasse.
Poi vi poneva anfore piene di miele e di olio,

448
appoggiandole al catafalco, e quattro cavalli,
teste superbe, gettò nella pira, gemendo profondo.
Nove cani domestici il padrone possedeva,
due di essi gettò nel fuoco, dopo averli sgozzati,
e poi dodici nobili figli di Troiani magnanimi,
trucidati col bronzo: meditava gesti orrendi.
Quindi la ferrea furia del fuoco, perché divorasse,
vi gettò, e gemette, e chiamò per nome il compagno:
“Patroclo, anche nelle case di Ade sii felice, addio!
Tutte le mie promesse ora porto a compimento:
dodici nobili figli di Troiani magnanimi, tutti
li divora la fiamma con te. Ma Ettore al fuoco
non lo consegnerò, perché lo divori, ma ai cani.”
Disse così, minacciando. Ma i cani non si curavano,
li teneva lontani la figlia di Zeus, Afrodite,
sempre, di notte e di giorno, e lo ungeva con olio di rosa,
immortale, perché, trascinato, non si scorticasse.
E una nube oscura fece scendere Febo Apollo
sulla pianura dal cielo, e coprì tutto il terreno
occupato dal morto, perché la furia del sole
non disseccasse la pelle attorno ai muscoli e ai tendini.
Ma la pira di Patroclo morto non avvampava;
altro allora pensò lo splendido Achille veloce:
stando lontano dal rogo, rivolse preghiera a due venti,
Bòrea e Zèfiro, e promise loro bei sacrifici.
Molto pregava, libando con una coppa tutta d’oro,
che giungessero, perché i morti al più presto bruciassero
e la legna prendesse fuoco; e subito Iris,
le preghiere udendo, riportò il messaggio ai venti.
Stavano tutti a casa di Zèfiro impetuoso,
banchettando, e Iris si arrestò mentre correva
sopra la soglia di pietra. E appena quelli la videro,
tutti balzarono in piedi, e ognuno a sé la chiamava.
Lei rifiutò di sedersi, e parlò loro in questo modo:

449
“No, non mi siedo, perché sto andando alle correnti di Oceano,
presso gli Etiopi, dove si stanno svolgendo ecatombi
agli immortali, per ricevere ciò che mi spetta.
Achille prega Bòrea e Zèfiro fragoroso
di venire, e promette loro bei sacrifici,
perché attizzino il fuoco alla pira ov’è disteso
Patroclo, che gli Achei stanno piangendo tutti quanti.”
Dopo aver detto così, se ne andò, e quelli si alzarono
con strepito infinito, spingendo davanti le nuvole.
Subito giunsero a soffiare sul mare, e le onde si alzavano
sotto il sibilo acuto, e furono a Troia ferace,
e sulla pira balzarono: crepitava il fuoco divino.
Tutta la notte destarono la fiamma dentro al rogo,
sonoramente soffiando, tutta la notte Achille veloce,
vino dal cratere dorato con coppa a due anse
attingendo, al suolo lo versava, bagnando la terra
e invocando l’anima di Patroclo derelitto.
Come un padre piange bruciando le ossa del figlio,
sposo, che, morto, ha afflitto i miseri genitori,
così Achille piangeva sulle ossa del compagno,
trascinandosi attorno alla pira e piangendo dirotto.
Quando la stella mattutina annuncia la luce
e, poco dopo, Aurora, peplo di croco, sul mare si stende,
ecco che allora la pira si attenuò, si spense la fiamma,
se ne tornarono indietro i venti a casa loro,
lungo il mare di Tracia, che gemeva rigonfio di flutti.
Si allontanò allora dalla pira il figlio di Pèleo,
si coricò sfinito, e gli fu addosso il dolce sonno.
Poi tutti insieme si radunarono intorno all’Atride.
Ma ridestarono Achille il rumore e il suono dei passi,
e si alzò a sedere e così a loro si rivolse:
“Figlio di Àtreo e voi altri capi di tutti gli Achei,
prima di tutto spegnete la pira con vino splendente,
là dove stava la furia del rogo; subito dopo

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le ossa di Patroclo, figlio di Menetio, raccogliamo,
riconoscendole bene: sono del tutto inconfondibili.
Lui giaceva in mezzo alla pira, gli altri bruciavano
in disparte, all’estremo, insieme cavalli e uomini.
Dentro un’urna d’oro poniamole e in strato di grasso,
doppio, sino a quando mi inabissi io stesso nell’Ade.
Tomba non troppo grande desidero che mi facciate,
una appena adeguata. Più tardi voi Achei
ampia ed eccelsa mi eleverete, quanti di voi
dopo di me rimarrete sulle navi molti banchi”.
Disse così, e quelli obbedirono al rapido Achille.
Prima di tutto spensero la pira con vino fulgente,
quanta era giunta la fiamma e s’era sparsa la cenere densa.
Poi, piangendo, le bianche ossa del compagno gentile
in urna d’oro raccolsero, con doppio strato di grasso,
dentro la tenda le misero, coprendole di morbido lino.
Delimitarono i margini, gettarono le fondamenta
della tomba, intorno alla pira, e versarono terra.
Ed, elevato il tumulo, tornarono. Ma Achille
li trattenne, li fece sedere su ampio spiazzo,
premi portò dalle navi, portò tripodi e lebèti,
muli, cavalli, buoi dalle possenti teste,
e poi donne dalle belle cinture, e ferro canuto.
Primi propose splendidi premi per i veloci
cavalieri: una donna, esperta in opere perfette,
ed un tripode ad anse, di ventidue misure,
per il primo; per il secondo una cavalla
di sei anni, non domata, incinta di mula;
poi per il terzo propose un lebète, intatto dal fuoco,
bello, di quattro misure, ch’era ancora tutto bianco.
Due talenti d’oro propose per il quarto,
e per il quinto un coppa non toccata dal fumo, a due anse.
Stette in piedi diritto e così parlò agli Argivi:
“Figlio di Àtreo e voi altri Achei dalle belle gambiere,

451
ecco i premi per i cavalieri che gareggeranno.
Se per un altro adesso gareggiassimo noi Achei,
certo il primo premio mi porterei nella tenda.
Voi sapete quanto i miei cavalli sono migliori:
sono immortali. Fu Posidone che li diede
a mio padre Pèleo, che poi me li ha lasciati.
Ma starò fermo e così i cavalli dai solidi zoccoli,
che hanno perduto il vanto glorioso di tale auriga,
tenero, che assai spesso versava liquido olio
sulle loro criniere, lavati con limpida acqua.
Ora lo piangono immobili ambedue, e le loro chiome
sfiorano il pavimento, non si muovono dolenti.
Ma tutti voi nel campo preparatevi, chi fra gli Achei
nei cavalli confida e nei carri ben connessi”
Disse il Pelìde, e, veloci, si raccolsero i cavalieri.
Primo fra tutti si mosse Eumèlo, sovrano di eroi,
il caro figlio di Admèto, che nell’arte equestre eccelleva.
Dopo di lui il figlio di Tìdeo, il possente Diomede:
aggiogava i cavalli di Troo, che aveva strappato
ad Enea, quella volta che Apollo lo aveva salvato.
Terzo seguiva l’Atrìde, il biondo Menelao,
stirpe divina; aggiogava al suo carro veloci cavalli:
Ete, la prima, di Agamemnon, e il suo, Podargo.
Ad Agamemnon la diede il figlio di Anchise, Echepòlo,
perché non lo seguisse ad Ilio battuta dai venti,
ma rimanesse tranquillo a casa: molta opulenza
Zeus gli diede, ed egli abitava nella vasta Sicione.
Menelao la mise sotto il giogo, bramosa di corse.
Quarto i cavalli bella criniera bardò Antiloco,
splendido figlio di Nestore, sovrano grande cuore,
figlio di Nèleo. I cavalli dai piedi veloci a Pilo
erano nati e tiravano il carro. Suo padre, accostandosi,
dava consigli da saggio a lui che già era saggio:
“Ti prediligono, Antiloco, per quanto ancora giovane,

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sia Zeus che Posidone, ti insegnarono l’arte equestre,
tutta; non c’è bisogno che te la insegni anch’io.
Bene intorno alla meta sai girare, ma i cavalli
sono assai lenti a correre, e perciò potrebbero nuocerti.
Sono migliori i cavalli degli altri, ma loro non sanno
escogitare astuzie migliori delle tue.
Ora perciò, mio caro, devi metterti in cuore ogni astuzia,
onde evitare che ti sfuggano i premi di mano.
E’ con l’astuzia che eccelle il taglialegna, non con la forza;
è con l’astuzia che il pilota nel mare vinoso
tiene dritta la nave veloce in balia dei venti;
e con l’astuzia l’auriga ha la meglio sull’auriga.
Ma colui che si fida dei cavalli e del suo carro,
fa un giro largo, di qua di là, da sprovveduto.
I cavalli si sbandano nella corsa, non li trattieni.
Ma chi conosce i raggiri, pur spingendo i cavalli peggiori,
sempre mirando alla meta, gira stretto, non gli sfugge
quando occorre lasciare che si lancino a briglia sciolta,
ma saldamente li guida, tiene d’occhio chi precede.
Ti indicherò chiaramente la meta, non può sfuggirti.
C’è un legno secco, alto due braccia, che si leva da terra,
forse di quercia o di pino, che alla pioggia non marcisce.
Due pietre bianche vi stanno appoggiate d’ambo i lati
sull’incrocio, la pista è tutt’intorno liscia.
Forse è la tomba di uno ch’è morto in tempo passato,
oppure è il limite posto dagli uomini in antico.
Ora la meta ne ha fatto il veloce splendido Achille.
Tieni vicini ad essa carro e cavalli, spronandoli,
e tu stesso piègati sopra il carro ben connesso
dalla parte sinistra, e il cavallo che sta a destra
incitalo gridando, e con le mani allenta le briglie.
Sfiori quasi la meta il cavallo di sinistra,
tanto che sembri che giunga appena a toccarla il mozzo
della ruota perfetta, ma in realtà non devi urtarla,

453
per non ferire i cavalli e per non spezzare il carro.
Gioia certo per gli altri, ma per te soltanto biasimo
questo sarebbe; mio caro, devi essere saggio e prudente.
Perché se puoi passare vicino alla meta, inseguendo,
non c’è nessuno che possa raggiungerti né oltrepassarti,
neanche se ti lanciasse di dietro lo splendido Arìon,
il veloce cavallo di Adrasto, di stirpe divina,
o i cavalli di Laomedonte, qui da noi i migliori.”
Detto così, al suo posto Nestore, figlio di Nèleo,
se ne tornò, dopo aver spiegato ogni cosa a suo figlio.
Quinto Merìone bardò i cavalli belle criniere.
Quindi sui carri salirono e gettarono le sorti.
Le scuoteva Achille, e balzò la sorte di Antiloco,
figlio di Nestore, e subito dopo quella di Eumèlo,
poi toccò all’Atride Menelao dalla lancia gloriosa,
poi ancora toccò a Merìone, infine, da ultimo,
al Tidìde, il più forte, toccò di lanciare i cavalli.
Si disposero in linea, e Achille segnò la meta,
lungi, nella pianura pareggiata, e vi pose Fenice,
pari agli dèi, in vedetta, scudiero di suo padre,
che sorvegliasse la corsa e gli riferisse il vero.
Tutti insieme le fruste sollevarono sopra i cavalli,
con le briglie li stimolarono, con le parole,
fortemente, e quelli si slanciarono per la pianura,
lontano dalle navi, celermente. Al di sotto del petto
si levava la polvere come nube, come procella,
le criniere ai soffi del vento si agitavano.
Sulla terra feconda i carri a volte correvano,
e altra volta balzavano in alto, e gli aurighi sul carro
stavano ritti, a ciascuno il cuore palpitava,
desiderosi di vincere, ciascuno gridava ai cavalli,
che volavano per la pianura, alzando la polvere.
E, compiuto che ebbero il percorso i cavalli veloci
sino al mare canuto, il valore di ciascuno

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ecco che allora fu chiaro, la corsa si fece serrata,
e le veloci cavalle di Eumèlo già erano in testa,
poi i cavalli maschi di Diomede procedevano,
quelli di Troo, di poco lontani, anzi vicinissimi.
Sempre sembravano prossimi a saltare sopra il carro,
e col fiato scaldavano di Eumèlo il dorso e le ampie
spalle, e appoggiando la testa addosso a lui, volavano.
E superato l’avrebbe il Tidìde o reso incerta la gara,
se con lui non si fosse adirato Febo Apollo,
che dalle mani gli fece cadere la frusta lucente:
lacrime dalla rabbia gli colarono giù dagli occhi,
perché vedeva correre le cavalle sempre più forte,
mentre, correndo senza pungolo, i suoi rallentavano.
Ma ad Atena l’inganno non sfuggì, che Febo Apollo
aveva teso al Tidìde, e si accostò al pastore di popoli,
gli ridiede la frusta, e infuse vigore ai cavalli.
Poi, sdegnata, si pose accanto al figlio di Admèto,
e la dea gli infranse il giogo a metà; le cavalle
si sbandarono di qua di là, cadde a terra il timone,
e lui stesso dal carro fu sbalzato accanto alla ruota,
riportando ferite ai gomiti, al naso, alla bocca,
e sulle sopracciglia sbattendo la fronte: i suoi occhi
furono pieni di lacrime, gli mancò la florida voce.
Lo superò il Tidìde coi cavalli solidi zoccoli,
molto si avvantaggiò sugli altri: Pallade Atena
ai suoi cavalli infuse vigore e a lui diede gloria.
Dietro veniva l’Atride, il biondo Menelao.
Grido allora lanciò Antiloco ai cavalli del padre:
“Anche voi due correte, sforzatevi il più possibile!
Io non pretendo che gareggiate proprio con quelli,
coi cavalli del Tidìde prudente, ai quali Atena
ora ha infuso velocità, e a lui ha dato gloria.
Raggiungete i cavalli dell’Atride, non vi fate
sorpassare, presto! Non vi copra di vergogna

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Ete, che è femmina! Ma, o valorosi, restate arretrati?
Ma questo vi dirò, che accadrà immancabilmente:
cibo da Nestore, pastore di popoli, più non avrete,
ma senza indugio vi ucciderà con bronzo acuto,
se per colpa vostra riporteremo un infimo premio.
Ma impegnatevi e affrettatevi quanto potete.
Escogiterò per il resto io stesso qualche cosa,
nella strettoia cercherò di infilarmi, non mi sottrarrò.”
Disse, e quelli, temendo il rimprovero del padrone,
accelerarono per un poco, quando, ad un tratto,
il prode Antiloco vide davanti la strada restringersi.
C’era un crepaccio sul suolo, ove, raccolta, l’acqua piovana
aveva rotto la strada, tutto il suolo si avvallava.
Per di là Menelao guidava, evitando uno scontro.
Ma fuori pista Antiloco i cavalli solidi zoccoli
deviava, e un poco inclinando, lo incalzava.
Ebbe paura il figlio di Àtreo, e gridò ad Antiloco:
“Senza criterio, Antiloco, tu guidi. Trattieni i cavalli!
Stretta è la strada, ma presto sarà larga e potrai superarmi.
Bada di non rovinare ambedue, se urti il mio carro.”
Disse così, ma Antiloco spingeva ancora più forte,
incitando i cavalli, come se non avesse sentito.
Quanto spazio percorre un disco, che da sopra le spalle
lancia un giovane, che mette alla prova il proprio vigore,
tanto i cavalli corsero. Ed ambedue cedettero,
quelli del figlio di Àtreo; lui stesso smise di spingerli,
perché i cavalli solidi zoccoli non urtassero,
non rovesciassero i carri ben connessi e loro stessi
non cadessero nella polvere, bramosi di vincere.
Gli si rivolse, aggredendolo, Menelao con dure parole:
“Dei mortali, Antiloco, nessuno è di te più funesto.
Alla malora! Non bene noi Achei ti credevamo
saggio. Ma niente compenso senza previo giuramento”.
Disse, e gridò ai suoi cavalli, e così a loro si rivolse:

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“Non rallentate, non vi fermate, per quanto afflitti.
Si stancheranno i piedi e i ginocchi prima di voi
a quelli là, perché manca la giovinezza a entrambi.”
Disse, e quelli, temendo il rimprovero del padrone,
accelerarono un poco, e presto si fecero sotto.
Nel frattempo gli Argivi, seduti in cerchio, guardavano
i cavalli: volavano per la piana, alzando la polvere.
Primo li vide Idomèneo, il condottiero dei Cretesi,
che sedeva discosto dal cerchio, in alto, in vedetta,
e da lontano, sentendo la voce d’uno che incitava,
lo riconobbe e vide ben chiaro il cavallo davanti,
ch’era rosso in tutto il corpo, ma sulla fronte
un bianco segno spiccava, rotondo come la luna.
Stette in piedi diritto e così parlò agli Argivi:
“Amici miei, consiglieri e capi degli Argivi,
sono io solo che vedo i cavalli, oppure anche voi?
Altri mi sembra che siano i cavalli in testa alla gara,
altro mi sembra l’auriga. Può darsi che qualcosa
le ha danneggiate in pianura, quelle ch’erano prima in testa.
Io le ho viste girare per prime intorno alla meta,
ora però non riesco a vederle, eppure i miei occhi
la pianura troiana percorrono in lungo e in largo.
O le briglie ha perduto l’auriga, o non ha potuto
bene guidarle intorno alla meta, o non è riuscito
a voltare. Penso che sia caduto spezzando il carro,
e abbiano perso il controllo le cavalle, infuriate nel cuore.
Ma guardate anche voi, stando in piedi, perché neanch’io
riesco a ravvisarlo, ma mi sembra che sia l’eroe
di stirpe etolica, re degli Argivi, il figlio di Tìdeo,
il possente Diomede, domatore di cavalli”.
Aias, il rapido figlio di Oilèo, lo aggredì aspramente:
“Perché parli a sproposito, Idomèneo? Sono lontane
le cavalle che corrono per la piana con le ali ai piedi!
Certo non devi essere il più giovane fra gli Argivi,

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né i tuoi occhi ci vedono acuto dalla tua testa.
Ciò nonostante straparli sempre; ma esprimerti a vanvera
non ti si addice, ci sono altri di te ben migliori.
Stanno in testa le stesse cavalle ch’erano prima,
quelle di Eumèlo, e lui stesso procede tenendo le redini.”
Gli rispose irritato il condottiero dei Cretesi:
“Aias, bravissimo nella rissa, sciocco, ma in tutto
inferiore agli Argivi, perché la tua mente è ostinata!
Vieni, che ci scommettiamo un tripode oppure un lebete,
e l’Atride Agamemnon nominiamo arbitro entrambi,
quali cavalli precedono, e a tuo scorno capirai.”
Disse, e si alzò di scatto il rapido Aias di Oilèo
irritato, per ricambiarlo con dure parole.
E sarebbe tra i due la lite andata oltre,
se non si fosse Achille in persona interposto, dicendo:
“Non più scambiatevi dure parole fra di voi,
Aias e Idomèneo, insultandovi, non è bello!
Biasimereste un altro, se così si comportasse.
Ma anche voi, sedendo in cerchio, state a osservare
i cavalli. Fra poco, protesi alla vittoria,
arriveranno, e allora ognuno potrà riconoscere
i cavalli degli Argivi, in testa e indietro.”
Disse, e il Tidìde, correndo, era ormai vicinissimo, e sempre
li spingeva frustandoli da sopra la spalla; e compivano
i cavalli, ergendosi in alto, celermente il cammino;
sempre colpivano getti di polvere l’auriga,
e l’intarsiato carro di stagno e d’oro seguiva
i cavalli dai celeri piedi, e non era profonda,
anzi leggera la traccia che lasciava dietro i cerchioni,
dentro la polvere lieve: affrettandosi volavano.
Poi si fermò nel mezzo della pista, e molto sudore
dalle criniere e dal petto dei cavalli colava per terra.
E lui stesso a terra balzò dal carro splendente
e appoggiò la frusta al giogo. Né perse tempo

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il forte Stènelo, ma con un balzo prese il premio,
e consegnò la donna da portar via ai compagni
e il tripode munito di anse; poi sciolse i cavalli.
Dopo di lui coi cavalli giunse Antiloco Nelèio,
che superò Menelao non per velocità, ma per frode;
ma anche così Menelao gli fu dietro coi cavalli.
Quanto dista dalla ruota un cavallo che tira
il suo padrone col carro, distendendosi per la pianura -
gli ultimi peli della coda sfiorano il cerchio,
perché corre assai vicino, e non c’è molto
spazio in mezzo, mentre per la vasta pianura procede -;
di altrettanto Menelao dal nobile Antiloco
era distante. Prima lo era stato di un tiro di un disco;
ma lo raggiunse presto: si avvaleva del bel furore
di Ete, la cavalla bella criniera di Agamemnon.
Se fosse stata per ambedue la corsa più lunga,
l’avrebbe oltrepassato, senza la minima incertezza.
Ma Merìone, il valente scudiero di Idomèneo,
da Menelao glorioso era indietro di un tiro di lancia.
Più lenti erano i suoi cavalli bella criniera,
e lui stesso era il meno capace nella gara col carro.
Ultimo infine arrivò fra tutti il figlio di Admèto,
trascinando il bel cerro e spingendo le cavalle.
Vistolo, lo compianse il veloce splendido Achille,
e fra gli Argivi, alzatosi, alate parole diceva:
“Ultimo spinge i cavalli duri zoccoli il migliore;
dobbiamo dargli certo un premio, come si merita:
il secondo; il primo se lo prenda il figlio di Tìdeo.”
Disse, e tutti approvarono così come aveva deciso.
E la cavalla gli dava, come avevano gli Achei
approvato, se il figlio del magnanimo Nestore, Antiloco,
non si alzava e non reclamava giustizia ad Achille:
“Molto Achille mi cruccerò se farai veramente
quanto hai detto: mi stai defraudando del mio premio,

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per il danno che ha avuto costui al carro e ai cavalli,
pur essendo valente! Ma avrebbe dovuto pregare
gli immortali, in tal caso non avrebbe corso per ultimo.
Se lo compiangi, se ti risulta caro al tuo cuore,
molto oro c’è nella tenda, molto bronzo,
e ancora pecore, donne, cavalli solidi zoccoli.
Prendine pure, da dargliene, o anche un premio maggiore,
e anche all’istante, così gli Achei ti loderanno.
Ma la cavalla non gliela darò. Per essa si provi
chi di voi sia disposto a venire con me alle mani”.
Disse così, e sorrise il veloce splendido Achille
benevolmente ad Antiloco, che gli era caro compagno.
E, di rimando, a lui alate parole diceva:
”Se tu mi suggerisci, Antiloco, di dare dell’altro
che mi appartenga a Eumèlo, ebbene lo farò.
Gli darò una corazza che tolsi ad Asteropèo,
bronzea, cinta di un orlo di stagno risplendente
tutto intorno: sarà un dono di grande valore”.
Disse, e al caro compagno Automedonte diede l’incarico
di prelevarla dalla tenda: vi andò e la portò,
e la pose in mano a Eumèlo, che la prese con gioia.
Ma si alzò in mezzo a loro Menelao, contrariato nel cuore,
assai crucciato con Antiloco; allora l’araldo
gli mise in mano lo scettro e fece cenno che tacessero
gli Argivi; e Menelao pari a un dio così si espresse:
“Tu che una volta eri saggio, Antiloco, cos’hai fatto!
Il mio valore hai disonorato, hai rovinato
i cavalli, mandando davanti i tuoi che di molto
erano loro inferiori. Ma ora, o capi degli Argivi,
esprimete un giudizio pubblico, non parziale,
perché nessuno dica fra gli Achei tunicati di bronzo:
“Menelao con menzogna ha fatto violenza ad Antiloco,
e se ne va con la cavalla, perché inferiori
erano i suoi, ma lui prevale per forza e violenza”.

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Anzi, io stesso darò il giudizio, e inoltre credo
che nessuno dei Dànai si opporrà, perché sarà retto.
Vieni qua, com’è usanza, Antiloco nutrito da Zeus:
stando davanti ai cavalli e al carro e la flessibile
frusta in mano tenendo, con cui poc’anzi guidavi,
e toccando i cavalli, per Gaiàoco Scuotiterra
giura: “Non ho ostacolato con l’inganno il tuo carro, volendolo!”
E così gli rispose Antiloco pieno di senno:
“Calmati adesso, perché di molto sono più giovane,
re Menelao, di te! Tu sei più anziano e più forte.
Tu sai di quali eccessi l’età giovanile fiorisce.
Rapida assai è la mente, ma fragile il comprendonio.
Dunque sopporti il tuo cuore. Perché la cavalla io stesso,
quella che ho vinto, ti consegnerò; e se vuoi dell’altro
che mi appartenga, subito, al più presto consegnartelo
preferisco, o nutrito da Zeus, piuttosto che sempre
poi caderti dal cuore, essere in colpa con gli dèi.”.
Disse, e portò la cavalla il magnanimo figlio di Nestore,
la consegnò nelle mani di Menelao. Il suo cuore
si raddolcì, quale fosse rugiada sopra le spighe,
quando le messi stanno crescendo per i campi che fremono.
Proprio così, Menelao, si raddolcì il tuo cuore,
e, rivolto ad Antiloco, alate parole dicevi:
“Sì, rinuncerò alla mia indignazione, Antiloco:
mai non fosti in passato né pazzo né sconsiderato;
ora la giovinezza ha avuto la meglio sul senno.
Evita d’ora innanzi, però, di ingannare i più forti.
Perché nessuno degli Achei mi avrebbe dissuaso.
Ma tu molto hai sofferto, per davvero, hai molto patito,
tu e tuo fratello e il tuo ottimo padre, a causa mia.
Alla tua preghiera perciò cederò, e la cavalla
ti darò, nonostante sia mia, perché tutti costoro
sappiano che il mio cuore non è altero né inflessibile”.
Disse così, e consegnò a Noèmon, compagno di Antiloco,

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la cavalla, e prese per sé il lebete splendente.
E Merìone si prese i due talenti d’oro,
quarto arrivato. Restava ancora la coppa a due anse,
quinto premio. Achille lo diede a Nestore, in mezzo
agli Argivi portandolo, e, accostatosi, gli disse:
“Anche per te ci sia quest’oggetto, o vecchio, a ricordo
del funerale di Patroclo, perché mai più lo vedrai
fra gli Argivi; e questo premio io te lo assegno
semplicemente, così, senza lotta né pugilato,
senza dover lanciare giavellotto, senza dovere
correre: fastidiosa vecchiaia ormai ti sovrasta”.
Disse, e gli mise la coppa nelle mani, e la accolse con gioia,
e rivolgendosi a lui, alate parole diceva:
“Tutto davvero, creatura, hai detto come dovevi.
Le mie membra non sono più salde e i piedi e le mani,
caro, dalle mie spalle più non scattano agilmente.
Oh fossi ancora giovane e il vigore fosse intatto,
come quando gli Epèi seppellirono il forte Amarìnceo
a Buprasio, e i figli indissero gare in suo onore!
Là nessuno mi fu alla pari, né fra gli Epèi
né fra gli stessi Pilii né fra i magnanimi Etòli.
Vinsi al pugilato Clitomède, il figlio di Ènopo
e nella lotta Ancèo di Pleuròne, che mi si oppose.
Íficlo nella corsa sorpassai, pur bravo a correre,
e nel lancio dell’asta Filèo vinsi e Polidoro.
Mi superarono solo nei cavalli i due figli di Actor,
superiori di numero e bramosi di vittoria,
perché restava in palio il premio più bello di tutti.
Erano due, gemelli, e uno era sempre l’auriga,
sempre sempre, mentre l’altro incitava i cavalli.
Ero così a quel tempo. Ma ora siano i giovani
ad affrontare simili imprese; alla triste vecchiaia
devo ubbidire; allora spiccavo fra gli eroi.
Adesso va’ ed onora il compagno con le gare.

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Io volentieri accetto il dono e il mio cuore gioisce,
che ti ricordi di me, che ti apprezzo, e che non ti scordi
dell’onore che è giusto che io riscuota dagli Achei.
Ed abbondanti grazie gli dèi ti rendano in cambio”.
Disse così, e il Pelide nel gran gruppo degli Achei
tornò, poich’ebbe udito l’elogio del figlio di Nèleo.
Quindi la gara indisse del pugilato penoso;
mula paziente portando con sé, la legò nella lizza,
di sei anni, non doma, da domarsi assai difficile,
e metteva in palio al vinto una coppa a due anse.
Dritto ristette, e così agli Argivi si rivolse:
“Figli di Àtreo e voi altri Achei dalle belle gambiere,
due uomini, i più forti, per questi premi invitiamo,
duri a pestare levando i pugni; a chi dunque Apollo
conferirà resisternza, e gli Achei tutti ne convengano,
se ne ritorni nella tenda con la mula paziente;
il vinto invece si porterà la coppa a due anse”.
Disse così, e subito si alzò un uomo forte e grande,
pugile esperto, Epèo, ch’era figlio di Panopèo.
Costui toccò la mula paziente, e così disse:
“Si faccia avanti chi si porterà la coppa a due anse;
dico che nessun altro Acheo, al pugilato vincendomi,
si porterà la mula: sono il migliore e me ne vanto.
Non basta che in battaglia non primeggio? Non è dato
essere un uomo che in ogni cosa abbia piena esperienza.
Ma questo vi dirò che sarà immancabilmente:
con un diretto la pelle gli sfonderò e le ossa,
e perciò che gli amici lo assistano in gruppo, vicini,
per riportarselo via, malridotto da queste mie mani”.
Disse così, e tutti se ne stavano muti, in silenzio.
Solo Eurìalo si alzò, uomo simile a un dio, ad affrontarlo,
il figlio del sovrano Mecìsteo, figlio di Tàlao;
lui giunse a Tebe un tempo per Èdipo caduto,
al funerale; tutti i Cadmèi allora sconfisse.

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Il Tidìde famoso con l’asta si affaccendava
a incoraggiarlo, molto desiderava che vincesse.
Per prima cosa il cinto gli depose, e subito dopo
cinghie gli diede ben ritagliate di bove da pascolo.
Ed indossati i cinti, nel mezzo della lizza
le braccia sollevarono, si scontrarono con colpi
di mani poderose, si incrociarono mani pesanti;
e scricchiolìo tremendo ci fu di mascelle, e il sudore
fluiva da ogni parte dalle membra. Lo splendido Epèo,
attaccando, alla guancia colpì lui che lo studiava.
Non resistette: in un attimo le splendide membra cedettero;
e come sotto il brivido di Bòrea un pesce sbalza
sul litorale ricoperto di alghe, e il nero flutto lo avvolge;
così colpito, fu sbalzato; e il magnanimo Epèo
lo raddrizzò afferrandolo col braccio; e lo assistettero
i compagni, lo trassero dalla lizza, con le gambe afflosciate,
che nero sangue sputava e la testa ciondolava;
in mezzo a loro lo adagiarono, privo di sensi;
infine andarono e portarono la coppa a due anse.
Terzo premio allora propose il figlio di Pèleo,
ai Dànai presentandolo, per la lotta dolorosa:
al vincitore un gran tripode, adatto per il fuoco,
che fra di loro gli Achei valutavano dodici buoi;
e per il vinto pose nel mezzo come premio una donna,
esperta in molte opere, che valeva quattro buoi.
Dritto ristette, e così agli Argivi si rivolse:
“Si alzino in piedi i due che affronteranno questa gara”.
Disse, e in piedi si alzò il grande Aiante Telamonio,
e il molto astuto Odìsseo si alzò, esperto di inganni.
Ed indossati i cinti, nel mezzo della lizza
si afferrarono per le braccia poderose,
come due travi ad angolo, che un bravo architetto ha connesso
di un’alta casa, per ripararla dalla forza dei venti.
E scricchiolavano i loro dorsi dalle mani violente

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stirati con durezza, e colava giù il sudore,
lividi fitti lungo i fianchi e sulle spalle
rossi di sangue si diffondevano; ma essi sempre
alla vittoria miravano e al tripode ben fatto.
Odìsseo non riusciva a smuoverlo o al suolo gettarlo,
né Aiante Odìsseo, la cui forza resisteva.
Ma quando ormai tediavano gli Achei dalla belle gambiere,
ecco che disse allora il grande Aiante Telamonio:
“Laertìade divino, Odìsseo ricco di astuzie,
sollèvami, oppure io te; del resto Zeus avrà cura”.
Disse, e lo alzava; ma Odìsseo non si scordò dell’inganno,
ma lo colpì al polpaccio da dietro; gli sciolse le gambe,
all’indietro lo fece cadere, e Odìsseo gli cadde
sul petto; tutti stavano a osservare sbalorditi.
E per secondo il molto paziente splendido Odìsseo
lo alzò, e lo mosse appena da terra, non vi riusciva,
ma gli pegò il ginocchio, e caddero entrambi al suolo,
l’uno accostato all’altro, e si imbrattarono di polvere.
E per la quarta volta si gettavano a lottare,
se Achille stesso non si alzava e non li fermava:
“Non vi sfinite, non continuate danneggiandovi;
di entrambi è la vittoria, ricevete premi uguali,
e andate, perché possano gareggiare anche altri Achei”.
Disse così, ed essi lo ascoltarono ed ubbidirono;
detersero la polvere e indossarono le tuniche.
E altri premi il Pelide propose per la corsa:
un cratere d’argento cesellato, di sei misure:
assai vinceva per bellezza su tutta la terra;
ben lavorato l’avevano gli esperti Sidoni, e i Fenici
l’avevano portato sopra il mare tenebroso;
approdarono in porto, e lo diedero in dono a Toante;
Eunèo figlio di Iason lo diede a Patroclo eroe,
prezzo per il riscatto di Licàon figlio di Priamo;
lo pose premio Achille in onore del suo compagno,

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per chi si dimostrasse il più rapido nella corsa.
Secondo premio pose un bove grosso e pingue,
e come ultimo mezzo talento d’oro dispose.
Dritto ristette, e così agli Argivi si rivolse:
“Si alzino in piedi quelli che affronteranno questa gara”.
Disse, e in piedi subito si alzò il celere Aiante di Oilèo,
e il molto astuto Odìsseo e Antìloco figlio di Nestore,
che nella corsa superava tutti i giovani.
Ristettero allineati, e Achille indicò la meta.
Sin dallo scatto la loro corsa fu tesa; ma subito
l’Oilìade precedeva, e, dietro, lo splendido Odìsseo
alle calcagna, come sta vicina al petto di donna,
bella cintura, la spola che lei attira con le mani,
attraverso l’ordito passando la trama, e l’accosta
al petto; tale Odìsseo vicino correva, e da dietro
le impronte calpestava, prima che le coprisse la polvere.
E gli soffiava sulla testa lo splendido Odìsseo,
sempre correndo veloce, e acclamavano tutti gli Achei
la brama sua di vincere, e lo incitavano allo sforzo.
E quando furono all’ultimo tratto, allora Odìsseo
Atena occhi lucenti invocò dentro al suo cuore:
“Ascoltami propizia, in soccorso, o dea, ai miei piedi!”
Disse così pregando, e lo udì Pallade Atena;
svelte gli rese le membra, le gambe e le braccia di sopra.
E quando stavano per balzare sopra il premio,
ecco che Aiante in corsa scivolò –sgambetto di Atena! -,
dove si alzava il letame dei buoi sacrificati,
che per Patroclo aveva ucciso Achille veloce;
e di bovino letame si riempì bocca e narici.
Vinse così il cratere il paziente splendido Odìsseo,
giunto per primo, e Aiante splendido il bove si prese.
Ristette, e fra le mani tenendo il corno del bue,
queste parole disse agli Argivi, sputando letame:
“Ahimè, mi ha sgambettato la dea, lei che da sempre

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assiste Odìsseo come una mamma e lo protegge”.
Disse così, e su di lui tutti risero di cuore.
Ritirava dunque Antìloco l’ultimo premio,
sorridendo, e parlò agli Argivi in questo modo:
“Questo dirò a tutti voi, miei cari, che sapete
che gli immortali onorano gli uomini più anziani.
Rispetto a me di poco Aiante è nato prima,
lui appartiene alla generazione di chi precede.
Vispo vecchietto lo definiscono, e per gli Achei
arduo è contendergli con i piedi, eccetto Achille”.
Disse così, e riconobbe onore ad Achille veloce,
e Achille, di rimando, proferì queste parole:
“Non avrai detto, Antìloco, un elogio fuori luogo:
mezzo talento ancora aggiungerò al tuo premio”.
Disse, e lo consegnò nelle sue mani, e quell’altro con gioia
lo accolse. Poi il Pelide una lancia lunga ombra
pose nel mezzo della pista, uno scudo ed un elmo,
le armi di Sarpèdone, da Patroclo depredate.
Dritto ristette, e così agli Argivi si rivolse:
“Per questi premi invitiamo due uomini, i più forti,
che, rivestite le armi e impugnato il bronzo che taglia,
si affrontino l’un l’altro davanti a tutto il gruppo;
chi arriverà per primo a toccare la bella pelle
e a sfiorare le viscere e il nero sangue con le armi,
a lui consegnerò questa spada con borchie d’argento,
bella, di Tracia, che portai via ad Asteropèo;
le altre armi entrambi se le porteranno in comune;
poi nelle tende offriremo loro un banchetto squisito”.
Disse, e in piedi si alzò il grande Aiante Telamonio,
quindi il figlio di Tìdeo si alzò, il possente Diomede.
E quando poi in disparte dal gruppo si furono armati,
l’uno con l’altro si vennero incontro, bramosi di battersi,
con sguardo truce guardandosi; stupirono tutti gli Achei.
E quando furono orami vicini, entrambi avanzando,

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scattarono tre volte, si affrontarono tre volte.
Allora Aiante inferse un colpo allo scudo rotondo,
ma non attinse la pelle, lo impedì la corazza di dentro.
Il Tidìde invece al di sopra del grande scudo
sempre sfiorava il collo con la punta dell’asta fulgente.
E fu così che gli Achei, temendo per Aiante,
imposero di smetterla e di prendersi premi uguali.
Ma l’eroe diede al figlio di Tìdeo la grande spada,
assieme al fodero e alla cinghia ben tagliata.
Quindi il Pelide pose un blocco di ferro massiccio,
che un dì lanciare usava Eetiòne grande forza;
ma in seguito lo uccise il veloce splendido Achille,
e lo portò sulle navi assieme alle altre ricchezze.
Dritto ristette, e così agli Argivi si rivolse:
“Si alzino in piedi quelli che affronteranno questa gara.
Se stanno assai lontani i pingui campi di chi vince,
per cinque anni interi avrà modo di servirsene:
pastori ed aratori non avranno bisogno di andare
a rifornirsi di ferro in città, ne disporranno”.
Disse così, e si alzò il guerriero Polipète,
e subito Leònteo vigoroso, pari a un dio,
e poi Aiante Telamonio, e lo splendido Epèo.
In fila si disposero, e afferrò il blocco lo splendido Epèo,
lo roteò e lo lanciò; e risero tutti gli Achei.
Per secondo lanciò Leònteo, germoglio di Ares,
terzo a sua volta il grande Aiante Telamonio,
con la mano possente, e superò i segnali di tutti.
Ma quando prese il blocco il bellicoso Polipète,
quanto lontano scaglia un bovaro il suo bastone,
ed esso vola roteando in mezzo alla mandria,
di tanto superò l’intera lizza; ed essi gridarono.
Si alzarono i compagni del possente Polipète
e portarono il premio del re alle concave navi.
Anche agli arcieri Achille propose il livido ferro,

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e collocò dieci scuri e dieci scuri semplici,
e un albero piantò di una nave prora azzurra,
lungi dall’arenile, e una trepida colomba
per una zampa legò con corda sottile, e incitava:
“Chiunque coglierà la trepida colomba,
tutte le scuri si prenda e se le porti a casa;
e chi invece la corda coglierà, mancando l’alato,
risultando inferiore, le mezze scuri si prenda”.
Disse così, e si alzò la forza di Teucro sovrano,
e poi Merìone, il forte scudiero di Idomèneo.
Prese le sorti, in un elmo di bronzo le agitarono,
e Teucro uscì per primo, e subito la freccia
lanciò con forza, ma non promise ad Apollo sovrano
un’ecatombe eletta di agnelli primi nati.
E pertanto non colse l’alato, fu il dio a negarglielo;
colse però la corda cui l’uccello per la zampa
era legato: l’amaro dardo recise la corda.
E spiccò il volo verso il cielo l’alato, e ricadde
la corda al suolo; allora gridarono gli Achei.
Di tutta fretta Merìone di mano gli strappò
l’arco, la freccia l’aveva da un pezzo, quando l’altro tirava;
e promise senza indugio ad Apollo arciere
un’ecatombe eletta di agnelli primi nati;
sotto le nubi scorse la trepida colomba,
e sotto l’ala in pieno la colse che volteggiava;
la trapassò la freccia, che subito sul suolo
davanti ai piedi di Merìone si infisse; l’uccello,
sull’albero posatosi della nave prora azzurra,
il collo reclinò, le fitte ali si richiusero,
rapida dalle membra volò la vita; lungi dall’albero
cadde; e i soldati assistevano ricolmi di stupore.
Dunque Merìone si prese le scuri, tutte e dieci,
Teucro le mezze scuri portò sulle concave navi.
Quindi il Pelide una lancia lunga ombra mise in palio

469
e un lebete intatto dal fuoco, del prezzo di un bue,
a fiori cesellato, e si alzarono i lanciatori:
per primo il figlio di Àtreo, il più che possente Agamemnon,
e poi Merìone, il forte scudiero di Idomèneo;
e ad essi si rivolse il veloce splendido Achille:
“Atride, ben sappiamo quanto tutti gli altri superi,
e quanto sei il migliore per la forza dei tuoi lanci;
ma tu portando questo premio alle concave navi,
va’ pure, e l’asta la daremo a Merìone eroe,
se questo vuoi nel cuore, perché io te lo domando”.
Disse, e gli diede ascolto il sovrano di eroi Agamemnon:
diede a Merìone la lancia di bronzo, e quindi l’eroe
consegnò all’araldo Taltibio il bellissimo premio.

470
LIBRO XXIV

Il riscatto di Ettore.

Terminati i giochi, Achille non riesce a prendere sonno, pensando a Patroclo. Sorta
l’aurora, infierisce sul cadavare di Ettore, trascinandolo, legato al carro, per tre volte
intorno alla tomba del compagno. Questa operazione si ripete ormai da troppi
giorni. Apollo tiene lontana ogni offesa dalla salma, e gli dèi, che osservano
dall’alto, sono indignati per questo comportamento, tranne Posidone, Hera e
Atena. Zeus allora decide di inviare Iris da Teti, perché si rechi all’Olimpo: Zeus
deve parlarle. Giunta dal dio, riceve da lui l’incarico di recarsi da Achille per
indurlo a desistere: Achille restituisca il cadavere ai genitori in cambio di adeguato
riscatto, astenendosi da ogni eccesso o violenza. La dea si reca dal figlio, e lo trova
in una condizione penosa, quasi di uno che si rifiuti di vivere. Teti gli riporta il
volere di Zeus, e Achille accetta. Quindi Iris si reca da Priamo, e gli suggerisce da
parte di Zeus di recarsi di notte alla tenda di Achille accompagnato soltanto da un
vecchio araldo, e con due carri, sul secondo dei quali siano caricati i doni di
riscatto. Loro accompagnatore sarà Ermès, il “messaggero Argifonte”. Priamo
comunica la sua intenzione alla moglie Ecuba, la quale, impaurita, lo sconsiglia. Ma
Priamo è determinato. I due coniugi scelgono i doni del riscatto, quindi vengono
allestiti i due carri, uno per il sovrano e l’altro per Idèo, il vecchio araldo. Infine i
due coniugi invocano Zeus, il quale manda loro il fausto prodigio dell’aquila. I due
vecchi si avviano nella notte, ma Ermès, prese le sembianze di un giovane, va
incontro a loro per soccorrerli, fingendosi scudiero di Achille. Il dio informa
Priamo dello stato del cadavere del figlio, assolutamente integro: gli dèi si occupano
di lui. Quindi compie il prodigio di addormentare le guardie al campo dei
Mirmìdoni, nonché quello di aprire le porte che assicurano la tenda di Achille.
Alla fine rivela la sua vera identità e se torna sull’Olimpo. Idèo resta fuori sul carro,
e Priamo entra non visto, apparendo improvvisamente ad Achille e ai compagni, i
quali rimangono stupiti. Si prostra ai suoi piedi, gli afferra le mani e gliele bacia,
dando luogo a una accorata supplica. Achille, rammentando suo padre e Patroclo,
prorompe in irrefrenabili singhiozzi, mosso a pietà per il vecchio, che discosta da sé
con dolcezza. La stanza risuona dei loro gemiti. Saziatisi di pianto, Achille e Priamo

471
procedono, in peno accordo, alla cena e alla consegna del cadavere, in cambio dei
doni. Achille stesso si dimostra preoccupato, se gli Achei si accorgessero di quanto
sta accadendo nella sua tenda. Quindi Priamo chiede ad Achille una tregua, per le
esequie solenni, di dodici giorni, pienamente accordata. Quando ancora non è
spuntato il giorno, i due vecchi si avviano per il ritorno, sino a che giungono in
città, accolti dal lutto generale. Si procede al compianto da parte di Ecuba, di
Andromaca e di Elena, la quale ricorda la gentilezza e la bontà di Ettore nei suoi
confronti. Si procede quindi al rito della cremazione e della sepoltura, descritto in
tutte le sue fasi e in tutti i suoi dettagli. Esso si conclude con un sontuoso banchetto
funebre nella reggia di Priamo. Tutto questo per celebrare la sepoltura di Ettore
“domatore di cavalli”.

Poi l’assemblea si sciolse, e tutti si dispersero


alle navi veloci, e ciascuno si preoccupava
di godersi il pasto e il dolce sonno. Ma Achille,
memore del suo caro compagno, piangeva, né il sonno,
che tutti doma, lo prendeva, ma si rivoltava
di qua di là, rimpiangendo la forza e il furore di Patroclo,
quanti dolori aveva dipanato e sofferto con lui,
guerre di uomini e flutti penosi traversando;
e, rammentandosi tutto, versava pianto copioso,
ora stando disteso sul fianco, e un’altra volta
stando supino, oppure prono, e talvolta si alzava
e vagabondava sulla riva del mare. L’aurora
non gli sfuggiva apparire sul mare e sulla spiaggia:
ed allora, aggiogati al carro i cavalli veloci,
Ettore, per trascinarlo, legava dietro al carro,
e, trascinato tre volte intorno alla tomba di Patroclo,
nella tenda tornava a riposare e lo lasciava
steso a faccia in giù nella polvere. Ma Apollo,
impietosito, ogni offesa gli teneva lontana dal corpo,
anche se morto, e tutto lo ricopriva con l’ègida
d’oro, perché, a forza di trascinarlo, non lo scorticasse.
Così Achille, infierendo, straziava Ettore splendido.

472
E, guardando, si impietosivano gli dèi beati,
e incitavano l’Argifonte vista acuta a sottrarlo.
Questo piaceva a tutti gli altri, tranne che ad Hera
e a Posidone e alla fanciulla dagli occhi lucenti,
ma continuavano a detestare la sacra Ilio,
Priamo e il popolo a causa della follia di Alessandro,
che oltraggiò le dee, quando giunsero nella capanna,
e lui scelse colei che gli diede la trista lussuria.
Ma quando giunse, da quel giorno, la dodicesima aurora,
Febo Apollo allora parlò fra gli dèi immortali:
“ Siete malvagi, o dèi, e crudeli! Forse che a voi
non bruciò Ettore cosce di buoi e di capre perfette?
E non osate adesso preservarlo, nemmeno da morto,
sì che lo veda la sposa, la madre e pure il figlio,
il padre Priamo e tutto il popolo: perché subito
lo brucerebbero e lo onorerebbero con le esequie.
Ma lo spietato Achille, o dèi, voi volete soccorrere,
che non possiede né mente sana né cuore flessibile
dentro al petto, ma ha sentimenti di leone selvaggio,
che, cedendo alla grande violenza e al gagliardo suo cuore,
va nelle mandrie di mortali per prendersi il cibo.
Così Achille ha perduto la pietà, né in lui il rispetto
è rimasto, che molto fa danno e giova agli uomini.
Tutti possono perdere qualcuno anche più caro,
come ad esempio un fratello carnale oppure un figlio,
ma prima o poi la smette di piangere e di lamentarsi.
Hanno messo negli uomini le Moire un cuore paziente.
Lui lo splendido Ettore, da che gli ha tolto la vita,
attaccandolo al carro, trascina intorno alla tomba
del suo compagno, e questo non è bello né onorevole.
Badi che non ci adiriamo con lui, per quanto nobile!
Contro la terra muta si accanisce in preda alla furia!”
Gli rispose sdegnata la dea braccia candide, Hera:
“Il tuo discorso sarebbe accettabile, arco d’argento,

473
se Achille ed Ettore volete onorare in pari misura.
Ettore, da mortale, ha succhiato mammella di donna;
invece Achille è figlio di una dea, che io in persona
con affetto ho allevato, e l’ho data in sposa a un uomo,
Pèleo, che al cuore degli immortali fu assai caro.
Tutti voi alle nozze partecipaste e anche tu banchettavi
con la tua cetra in mano, sempre infìdo, compagno dei perfidi.”
E, di rimando, le disse Zeus che aduna le nubi:
“Hera, non devi affatto prendertela con gli dèi!
Non sarà uguale l’onore dovuto, ma anche Ettore
era agli dèi il più caro fra i mortali che stanno ad Ilio.
Anche per me non mancava mai di doni graditi,
né mai altare era privo per me della giusta porzione
di libagioni e di grasso, cioè l’onore che ci spetta.
Ma tralasciamo l’idea di sottrarre – non è praticabile-
di nascosto ad Achille il prode Ettore, perché sempre,
notte e giorno ugualmente, la madre gli corre in aiuto.
Ma se qualcuno di voi chiamasse Teti a me vicino,
perch’io le dica una saggia parola, e cioè che Achille
doni da Priamo voglia accettare e liberi Ettore...”
Disse così, e si slanciò ad annunziare Iris veloce,
pari a procella, e tra Samo e Imbro dirupata
nel mare scuro balzò, e ne gemette la distesa.
Nel più profondo abisso si immerse, simile al piombo
che, fissato a un corno di rustico bue, nel mare
scende a portare la morte ai pesci divoratori.
E trovò Teti in concava grotta, e intorno le altre
dee marine stavano insieme sedute, e nel mezzo
lei piangeva la sorte del nobile figlio: doveva
lungi dalla patria perire, nella fertile Troia.
Standole accanto, così le disse la rapida Iris:
“Alzati, Teti, ti chiama Zeus, inesausti pensieri.”
E così le rispose la dea Teti dai piedi d’argento:
“Per qual motivo mi chiama il gran dio? Perché ho ritegno

474
a mescolarmi agli immortali: ho angoscia infinita.
Ma verrò, né l’appello sarà vano, qualunque sia”.
Detto così, prese il velo la splendida fra le dee,
scuro, né veste esisteva più nera. Allora si mosse
Iris veloce dai piedi di vento, e andando avanti
la guidava, attorno si ritraeva l’onda del mare.
Sul litorale emersero, si slanciarono verso il cielo,
e trovarono il figlio di Crono, ampia voce, con tutti
gli altri dèi beati, che vivono sempre, seduti.
Presso Zeus padre sedette, le fece posto Atena.
Hera le mise in mano una bella coppa d’oro
e le parlò gentilmente, Teti bevve e poi la rese.
E prese la parola il padre di uomini e dèi:
“Sei venuta in Olimpo, dea Teti, per quanto angosciata,
con un dolore implacabile nel cuore, lo so bene anch’io.
Ma ti dirò ugualmente perché ti ho convocata.
Da nove giorni c’è contesa sul corpo di Ettore
e su Achille, distruttore di rocche, fra gli immortali.
Spingono l’Argifonte, vista a acuta, a sottrarre il cadavere.
Ma questo vanto io ho intenzione di darlo ad Achille,
per serbarmi la tua amicizia e il rispetto in futuro.
Scendi subito al campo e dà istruzioni a tuo figlio.
Digli che sono sdegnati gli dèi, ed io più di tutti
gli immortali sono incollerito: con animo folle
presso le concave navi tiene Ettore, non lo libera.
Ma di me tema e si decida a liberarlo!
Iris frattanto io manderò a Priamo magnanimo,
perché si rechi alle navi degli Achei e riscatti suo figlio,
e porti doni ad Achille, che gli addolciscano il cuore.”
Disse, e gli diede ascolto la dea Teti dai piedi d’argento,
e dalle cime d’Olimpo lei discese con un balzo.
Giunse alla tenda del figlio, e dentro lo trovò
che profondo gemeva, e attorno i suoi compagni
erano affaccendati a preparare il pasto:

475
immolavano un lanoso montone nella tenda.
Si sedette accanto a lui la madre sovrana,
con la mano lo accarezzò, gli parlò e così disse:
“Sino a quando, creatura mia, piangendo e affliggendoti,
il tuo cuore ti mangerai, di cibo dimentico
e di letto? Eppure è bello unirsi in amore
a una donna! Ma non andrai lontano a lungo,
già la morte ti sta accanto e il destino crudele.
Ma comprendimi bene, di Zeus sono messaggera.
Dice che sono sdegnati gli dèi, e lui più di tutti
gli immortali è incollerito: con animo folle
presso le concave navi tieni Ettore, non lo liberi.
Lascialo andare, dunque, e accetta il riscatto del morto!”
E, di rimando, così le rispose Achille veloce:
“Ebbene sia, chi porta il riscatto si prenda il cadavere,
se l’Olimpio stesso così vuole nel fondo del cuore”.
E così in mezzo alle navi frattanto la madre e il figlio
molte parole alate si scambiavano tra loro.
E il Cronìde allora mandò Iris a Ilio sacra:
“Va’, Iris rapida, lascia le sedi dell’Olimpo,
va’ ad annunziare a Priamo magnanimo che alle navi
degli Achei si rechi a riscattare suo figlio
e porti doni ad Achille, che gli addolciscano il cuore!
Vada da solo, nessuno lo accompagni dei Troiani;
solo un araldo lo segua, un anziano, che sappia guidare
mule e carro belle ruote, e quindi il corpo
di chi fu ucciso dallo splendido Achille in città si riporti.
Non si curi nel cuore di morte né di paura:
tale accompagnatore gli daremo, l’Argifonte:
sarà lui che lo guiderà alla tenda di Achille.
Quando lo avrà condotto sin dentro alla sua tenda,
lui non lo ucciderà, ma tratterrà tutti gli altri:
pazzo non è, né sconsiderato, né senza pietà,
ma sicuramente risparmierà un uomo che supplica.”

476
Disse, e si mosse Iris procellosa ad annunziare.
Giunse alla reggia di Priamo, e vi trovò lamento e pianto.
Dentro il cortile i figli, seduti intorno al padre,
irroravano di pianto le vesti, e in mezzo il vecchio,
avviluppato stretto nel mantello, e molto sterco
c’era intorno alla testa e al collo del vegliardo,
che, rotolandosi, aveva raccolto con le sue mani.
Per la casa le figlie e le nuore davano in gemiti,
rammentando quelli che, molti e valorosi,
per mano degli Achei avevano perso la vita.
Stette accanto a Priamo la messaggera di Zeus
e gli parlò sottovoce, un tremore gli prese le membra:
“Fatti coraggio, Priamo Dardànide, non temere!
Non sono giunta per annunziarti una sciagura,
ma pensando al tuo bene: di Zeus sono messaggera,
di lui che, pur lontano, si cura di te, ti compiange.
Di riscattare lo splendido Ettore ti impone l’Olimpio,
doni portando ad Achille, che gli addolciscano il cuore.
Andrai da solo, nessuno ti accompagni dei Troiani,
solo un araldo ti segua, anziano, che sappia guidare
mule e carro belle ruote, e quindi il corpo
di chi fu ucciso dallo splendido Achille in città si riporti.
Non ti curare nel cuore di morte né di paura:
tale accompagnatore ti daremo, l’Argifonte:
sarà lui che ti guiderà alla tenda di Achille.
Quando ti avrà condotto sino dentro alla sua tenda,
lui non ti ucciderà, ma tratterrà tutti gli altri:
pazzo non è, né sconsiderato, né senza pietà,
ma sicuramente risparmierà un uomo che supplica.”
Detto così, se ne andò via la celere Iris.
Subito lui diede ordine ai figli di preparare
il carro belle ruote con le mule e di legarvi una cesta.
Poi lui stesso discese nel ripostiglio profumato,
dal soffitto di cedro, che celava molti tesori.

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Ecuba poi fece giungere, la sua sposa, e così disse:
“Cara, mi è giunto da Zeus Olimpio un messaggero,
perché mi rechi alle navi degli Achei e riscatti mio figlio,
e porti doni ad Achille, che gli addolciscano il cuore.
Questo tu dimmi, qual è il tuo pensiero su quanto ti ho detto.
Tremendamente mi spinge il desiderio, mi spinge il mio cuore
a recarmi alle navi, al vasto campo degli Achei”.
Disse, e gemito emise la donna e così gli rispose:
“Ahi, dov’è andato tutto il tuo senno, per cui una volta
eri famoso tanto fra gli stranieri quanto fra i sudditi?
Come pretendi di andare alle navi achee da solo,
al cospetto di un uomo che molti e valorosi
figli ti ha massacrato? Tu possiedi un cuore di ferro.
Se ti avrà in suo potere, se ti guarderà con gli occhi-
è crudele, inaffidabile – non avrà compassione
né rispetto. Piuttosto, affliggiamoci da lontano,
stando seduti in casa. Per questo la Moira crudele
ha ordito il filo, quando io stessa l’ho partorito:
perché saziasse, lungi dai genitori, i cani veloci,
presso quell’uomo violento, il cui fegato in mezzo vorrei
divorare azzannandolo: così solo avrei ammenda
per mio figlio. Perché non lo uccise in quanto vile,
ma difendeva i Troiani e le Troiane vita sottile,
né meditò la fuga o di mettersi al riparo.”
E le rispose il vecchio Priamo, simile a un dio:
“Non trattenermi, voglio andare, non fare l’uccello
del malaugurio in casa tu stessa. Non mi convincerai.
Se me l’avesse imposto un altro fra i mortali,
o veggente o divinatore o sacerdote,
la direi una menzogna e me ne guarderei;
ma io stesso ho udito la dea, l’ho vista davanti.
Andrò io stesso, non c’è alternativa. E se è mio destino
presso le navi perire degli Achei tunicati di bronzo,
bene, lo voglio. Mi uccidesse Achille all’istante,

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abbracciato mio figlio e saziata la brama di pianto!”
Disse, e apriva i bei coperchi delle casse.
Dodici estrasse pepli bellissimi ch’erano dentro,
dodici semplici mantelli e altrettante coperte,
altrettanti candidi drappi e altrettante tuniche.
Poi soppesò dieci interi talenti e li mise da parte,
e due tripodi che splendevano e quattro lebèti
e una coppa bellissima, che gli donarono i Traci,
quando andò ambasciatore, gran dono; ma non certo
nella casa il vecchio la risparmiò: voleva in cuore
riscattare suo figlio. E i Troiani tutti dal portico,
aggredendoli con male parole, teneva lontani:
“Via di qua, miserabili canaglie! Non c’è a casa vostra
tanto da piangere, per venire a darmi tormento?
Forse non basta che Zeus Cronìde mi inflisse un dolore,
quello di perdere il figlio migliore? Lo vedrete anche voi:
sarà più facile d’ora innanzi per gli Achei
sterminarvi, se lui è morto. Ma io stesso,
prima ch’io veda la mia città saccheggiata e distrutta
con i miei occhi, possa discendere nell’Ade!”
Disse così, e con lo scettro li spingeva, ed essi uscivano,
perché pressati dal vecchio. E, gridando, inveiva sui figli,
su Èleno, su Paride, sullo splendido Agatone,
e su Pàmmone e Antìfono, possente nel grido di guerra,
su Polìte e Deìfobo e Ippòtoo e Dio illustre;
a loro nove il vecchio, gridando, dava questi ordini:
“Presto, figli degeneri, poltroni! Oh foste tutti
morti presso le navi veloci al posto di Ettore!
Io sono davvero infelicissimo, che ho generato
nobili figli nell’ampia Troia, e non ne ho più nessuno:
Mèstore simile a un dio e Troilo guidatore di carri,
Ettore, ch’era un dio tra gli uomini, che non sembrava
essere figlio di uomo mortale ma di un dio.
Ares li ha uccisi, e mi sono rimasti gli incapaci,

479
i bugiardi, i ballerini, buoni solo a danzare,
a rubacchiare agnelli e capretti in patria loro.
Non volete dunque allestirmi il carro al più presto,
e caricare tutta la roba, che mi metta in cammino?”
Disse così, e tremando alle contumelie del padre,
fuori estrassero il carro da mule, belle ruote,
bello, nuovo, e vi legarono sopra una cesta,
e dal piolo staccarono il giogo per le mule,
fatto di bosso, a pomo, connesso con molti anelli,
e portarono anche la cinghia di nove cubiti.
Posero il giogo sopra il timone ben levigato,
alla punta, e infilarono l’anello al puntale, e girarono
per tre volte la cinghia da una parte e dall’altra del pomo,
poi la legarono forte, la ripiegarono al gancio.
Presili dal ripostiglio, sul carro ben levigato
ammucchiarono i doni infiniti per il corpo di Ettore,
e le mule da tiro aggiogarono, solidi zoccoli,
che un dì donarono i Misii a Priamo, splendido dono.
Misero poi sotto il giogo i cavalli, che il vecchio Priamo
in persona allevava nella greppia ben levigata.
Priamo dunque e l’araldo, che avevano fitti pensieri,
si facevano aggiogare le bestie nell’alta casa,
quando Ecuba si avvicinò, con cuore affranto,
che porgeva con la destra un vino soave
in coppa d’oro, perché libassero prima di andare.
Si fermò davanti ai cavalli e così disse:
“Prendi, liba a Zeus padre, e prega di tornare
dalle mani nemiche, giacché il tuo cuore ti spinge
verso le navi, nonostante io sia contraria.
Chiedi inoltre al figlio di Crono, nere nubi,
che sta sull’Ida e vede la Troade tutta quanta,
che invii l’uccello, rapido messaggero, a lui carissimo
fra gli uccelli, e di cui la forza è la più grande,
dalla parte destra, perché lo veda, e in esso fidando,

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possa recarti alle navi dei Dànai, veloci cavalli.
E se Zeus ampia voce non ti darà il suo messaggero,
in nessun modo di andare io ti suggerirei,
di recarti alle navi degli Argivi, per quanto bramoso.”
E, di rimando, le disse Priamo simile a un dio:
“Non disobbedirò al consiglio che mi dai.
Buono è alzare le mani a Zeus, se avesse pietà.”
Disse così, e alla dispensiera diede ordine il vecchio
di versare acqua pura sulle mani; e si accostò
la dispensiera, tenendo in mano la brocca con l’acqua.
Lui si lavò, dalle mani della sposa prese la coppa,
e pregava, stando in mezzo al cortile, e versava,
con gli occhi al cielo, il vino, e diceva queste parole:
“Padre Zeus, che regni dall’Ida, glorioso, grandissimo,
fa’ ch’io giunga da Achille come amico e gli desti pietà,
e invia l’uccello, rapido messaggero a te carissimo
fra gli uccelli, e di cui la forza è la più grande,
dalla parte destra, perché lo veda, e in esso fidando,
possa recarmi alle navi dei Dànai, veloci puledri”.
Disse così pregando, e Zeus mente accorta lo udiva,
e prontamente mandò l’aquila, uccello perfetto,
il cacciatore nero, che chiamano anche “lo scuro”.
Quanto è larga una porta di stanza dall’alto soffitto,
ben serrata da chiavi, di un ricco, tanto le ali
si stendevano d’ambo le parti. E apparve loro
per la città slanciarsi alla destra. Ed essi la videro
e gioirono e si scaldò il loro cuore nel petto.
Affrettandosi, il vecchio se ne salì sopra il suo carro
e lo spinse dall’atrio e dal portico sonoro.
Tiravano le mule il carro a quattro ruote
davanti a lui, le guidava il saggio Idèo, e i cavalli
stavano dietro, che il vecchio incitava con la frusta,
rapidi per la città, e tutti i cari lo seguivano
molto piangendo, quasi che andasse verso la morte.

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Scesi che furono dalla città e giunti alla piana,
se ne tornarono tutti indietro alla volta di Ilio,
figli e generi; ma non sfuggirono a Zeus ampia voce
i due comparsi nella pianura: visto il vecchio,
lui lo compianse e subito così disse a Ermès, suo figlio:
“Dal momento che, Ermès, ti risulta graditissimo
fare da guida a un uomo e dai ascolto a chi tu vuoi,
recati là, e alle concave navi degli Achei
Priamo conduci, ma che nessuno se ne accorga
degli altri Dànai, prima che giunga dal Pelide.”
Disse così, e ubbidì il Messaggero Argifonte.
Subito intorno ai piedi si legò i bellissimi sandali,
immortali dorati, che sul mare lo portavano
e sulla terra infinita, assieme ai soffi del vento.
Prese la verga – con essa ammalia gli occhi degli uomini,
quelli che vuole, e gli altri, se dormono, li ridesta-.
Questa tenendo in mano, volava il forte Argifonte.
E alla Troade subito giunse e all’Ellesponto.
Prese ad andare simile a un ragazzo di rango regale,
di primo pelo, la cui giovinezza è piena di grazia.
Oltrepassato il grande sepolcro di Ilo, fermarono
mule e cavalli, per farli bere lungo il fiume;
e oramai la tenebra aveva avvolto la terra.
Ad un tratto l’araldo vide Ermès che gli stava vicino,
e, rivolto a Priamo, così gli parlò, così disse:
“Bada, Dardànide, qui ci vuole mente accorta!
Vedo un uomo e penso che subito ci ucciderà
Ma su, fuggiamo con il carro, oppure, toccandogli
le ginocchia, supplichiamolo, se avesse pietà”.
Disse, e la mente del vecchio si turbò, tremendamente
si sgomentò, si rizzarono i peli sulle membra ricurve;
si arrestò stupefatto, ma gli venne incontro il Benigno,
prese la mano del vecchio, gli rivolse parola, gli chiese:
“Dove, babbo, stai dirigendo i cavalli e le mule

482
per la notte divina, quando dormono gli altri mortali,
e non temi gli Achei che spirano furore,
e che ti sono avversi e sono pronti ad aggredirti?
Se nella celere notte nera ti vedesse portare
uno di loro tante ricchezze, che mai faresti?
Né tu sei giovane, e vecchio è pure colui che ti segue,
per respingere un uomo che sia primo a provocarvi.
Non ti farò per niente del male; al contrario, da un altro
voglio difenderti, perché a mio padre ti rassomiglio.”
E gli rispose il vecchio Priamo simile a un dio:
“Stanno così le cose, creatura, come tu dici.
Ma ancora un dio ha disteso su di me la propria mano,
che mi ha messo sulla strada un viandante del genere
di buon augurio, quale sei tu, così bello d’aspetto
e dalla mente saggia e di genitori beati.”
E così gli rispose il Messaggero Argifonte:
“Tutto davvero, o vecchio, hai detto come si deve.
Ma dimmi almeno questo, e dillo con franchezza,
se ti porti questi tesori, molti e fastosi,
presso stranieri, perché, se possibile, ti restino intatti,
o se tutti oramai lasciate Ilio sacra,
perché temete: tale guerriero, il migliore, è morto,
il figlio tuo, che non era inferiore nello scontro agli Achei.”
E gli rispose il vecchio Priamo simile a un dio:
“Ma tu chi sei, mio ottimo, chi sono i tuoi genitori?
Come hai parlato del destino del mio povero figlio!”
E così gli rispose il Messaggero Argifonte:
“Mi stai tentando, o vecchio: mi chiedi di Ettore splendido.
Molte volte l’ho visto nello scontro, gloria di eroi,
proprio con questi occhi, quando respingeva gli Argivi
alle navi, uccidendoli, massacrandoli con bronzo acuto.
Noi restavamo fermi ad ammirare, perché Achille
non ci lasciava combattere, crucciato con l’Atride.
Io sono suo scudiero, ci portò una solida nave,

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una sola, e sono Mirmìdone, mio padre è Polictor.
E’ possidente e vecchio, alla pari di come tu sei.
Lui ha sei figli, e dopo di loro io sono il settimo.
Sorteggiando, a me è toccato di seguirli sin qui.
Dalle navi ora giunsi in pianura, perché all’alba
attaccheranno battaglia gli Achei dagli occhi vivaci
alla città. Stando fermi, si annoiano, né riescono
a trattenerli, smaniosi come sono, i capi Achei”.
E gli rispose il vecchio Priamo simile a un dio:
“Se davvero di Achille Pelide tu sei scudiero,
tutta la verità dimmi allora sinceramente,
se mio figlio è ancora presso le navi, o se, oramai
fattolo a pezzi, Achille lo ha gettato alle sue cagne.”
E così gli rispose il Messaggero Argifonte:
“Vecchio, né cani e neppure uccelli lo hanno ancora mangiato,
ma lui giace tuttora vicino alla nave di Achille,
dentro la tenda, e questo è il dodicesimo giorno
che giace là, ma il corpo non è putrefatto né i vermi
lo divorano, che rodono i corpi dei morti in battaglia.
Ma purtroppo intorno alla tomba del caro compagno
lui lo trascina indegnamente, quando sorge l’aurora.
Sì, ma non lo sfigura, lo vedresti anche tu se vi andassi,
come fresco lui giace, e tutto il sangue è deterso,
non è contaminato, le ferite che ricevette
si sono chiuse, ma quanti gli affondarono dentro il bronzo!
Sono gli dèi beati che si curano di tuo figlio,
anche se morto, perché era caro al loro cuore.”
Disse così, e il vecchio gioì, e così gli rispose:
“Buono davvero, creatura, è offrire i doni dovuti
agli immortali, perché mio figlio, se pure è vissuto,
mai si scordò nel palazzo degli dèi che stanno in Olimpo,
e perciò nella morte si rammentarono di lui.
Orsù, accetta da parte mia questa bella coppa,
e tu proteggimi e guidami, con l’aiuto degli dèi,

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sino a che giunga nella tenda del figlio di Pèleo.”
E così gli rispose il Messaggero Argifonte:
“Vecchio, tu tenti la mia giovinezza; non mi convincerai:
doni da te non accetterò, di nascosto da Achille.
Ho timore, sento ritegno nel mio cuore
a strappargli qualcosa, che non mi venga poi un danno.
Ma ti farei da guida e giungerei alla nobile Argo,
con ogni cura scortandoti con nave veloce o a piedi,
e nessuno potrebbe attaccarti, nuocendo alla guida”.
Disse così, e il Benigno con un balzo salì sopra il carro
e agevolmente afferrò con le mani la frusta e le redini,
e ai cavalli e alle mule infuse ardimento e vigore.
Quando poi giunsero al muro e al fossato davanti alle navi,
si affaccendavano già le guardie intorno alla cena,
ma su di esse il sonno versò il Messaggero Argifonte,
tutte, e le porte in un botto spalancò e rimosse le sbarre
ed introdusse Priamo e gli splendidi doni sul carro.
Quindi giunsero alla tenda del figlio di Pèleo,
alta, che i Mirmìdoni costruirono al loro sovrano,
legno tagliando di abete, e sopra vi adagiarono
tetto di canne frondose, recise da una palude.
Grande cortile poi costruirono per il loro sovrano
con fitti pali; una sola sbarra di abete chiudeva
l’uscio, e ben tre Achei occorrevano per collocarla
e tre Achei per toglierla, la gran sbarra della porta,
tre degli altri: Achille la collocava da solo.
E così Ermès Benigno dischiuse al vecchio la porta,
introdusse gli splendidi doni per il Pelìde,
e poi scese dal carro a terra e così disse:
“Vecchio, davvero un dio immortale sono qui giunto:
sono Ermès, mio padre mi ha mandato da te come guida.
Ora indietro me ne tornerò, non voglio che Achille
qui mi veda, perché sarebbe censurabile
che un immortale mostrasse il suo affetto per i mortali.

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Tu introduciti e abbraccia le ginocchia del Pelìde,
pregalo per suo padre, per sua madre bella chioma
e per il figlio, così da commuovere il suo cuore.”
Disse, ed Ermès se ne tornò sul vasto Olimpo.
Priamo allora balzò a terra giù dal carro,
e lasciò sul posto Idèo, perché custodisse
i cavalli e le mule, e il vecchio andò dritto alla tenda,
dove sedeva Achille caro a Zeus, e lo trovò dentro;
i compagni sedevano in disparte; due soltanto,
Automedonte eroe e Àlcimo germoglio di Ares,
si affaccendavano intorno a lui; aveva appena finito
di mangiare e di bere, c’era ancora approntata la tavola.
Entrò non visto il grande Priamo, e, standogli accanto,
le ginocchia prese di Achille, baciò le sue mani,
terribili omicide, che tanti suoi figli gli uccisero.
Come talvolta un uomo, travolto da cupa follia-
ha ucciso un uomo in patria- , emigra in terra straniera
nella casa di un ricco e stupore invade i presenti;
così alla vista di Priamo pari a un dio Achille stupì.
Anche gli altri presenti stupirono, scambiandosi sguardi.
E Priamo, supplicandolo, gli rivolse queste parole:
"Achille pari a un dio, rammentati di tuo padre,
che ha la mia stessa età, sulla soglia di odiosa vecchiaia.
Forse adesso le genti che gli stanno intorno lo assediano,
lo premono, e nessuno lo assiste, si leva a difenderlo.
Ma lui almeno, sentendo che sei ancora in vita,
nel suo cuore gioisce, e ogni giorno continua a sperare
di rivedere l'amato figlio tornare da Troia.
Invece io sono infelicissimo, che ho generato
nobili figli nell'ampia Troia, e non ne ho più nessuno.
Erano ben cinquanta quando giunsero gli Achei,
di essi diciannove mi nacquero da un' unica moglie,
altri li partorirono altre donne nella mia reggia.
Alla più parte Ares violento ha tolto la vita.

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L’unico che mi restava, baluardo di città e cittadini,
tu lo uccidesti che combatteva per la sua patria,
Ettore. Adesso giungo alle navi degli Achei
da te, per liberarlo, portando infinito riscatto.
Abbi rispetto, Achille, per gli dèi, di me abbi pietà,
rammenta tuo padre. Io sono di lui ben più miserando,
io che ho osato ciò che nessuno osò mai dei mortali,
alla mia bocca portare la mano che ha ucciso i miei figli."
Disse, e destò desiderio di pianto in lui per il padre.
Prese la mano Achille e scostò il vecchio dolcemente.
Rammentavano entrambi, il primo Ettore massacratore,
fitto piangendo rannicchiato ai piedi di Achille;
ma piangeva Achille talvolta suo padre e talvolta
Patroclo, e si spandevano per la casa i loro singhiozzi.
Quando si fu saziato di pianto lo splendido Achille,
e il desiderio di lacrime se ne andò dalle sue membra,
dal suo seggio si alzò, sollevò con la mano il vecchio,
preso da compassione per il capo ed il mento canuto,
e, rivolgendosi a lui, alate parole diceva:
"Misero, quante pene hai sofferto nel tuo cuore!
Come hai osato alle navi degli Achei venire da solo,
agli occhi di colui che molti e prodi figli
ti ha massacrato! Davvero tu possiedi un cuore di ferro.
Ma adesso siedi su questo seggio, e nel frattempo
lasciamo riposare le pene, per quanto angosciati,
perché non c'è profitto alcuno nel pianto agghiacciante.
Questo gli dèi hanno dato ai miseri mortali,
vivere nell'angoscia. Loro sono immuni da pene.
Giacciono nella reggia di Zeus per terra due vasi,
l'uno contiene i mali che dispensa, l'altro i beni.
A chi Zeus fulminatore li dispensa mescolati,
vanno le cose talvolta male e talvolta bene;
ma a chi dà solo dolori, diventa un miserabile,
una mostruosa fame lo spinge sulla terra,

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e vaga disprezzato da dèi e da mortali.
In pari modo gli dèi diedero a Pèleo splendidi doni
sin dalla nascita. Su tutti gli uomini si distingueva
per ricchezza, per fasto, e regnava sui Mirmìdoni,
e a lui, che era mortale, assegnarono sposa una dea.
Ma un dio gli riservò anche un male, di non avere
discendenza in casa di figli che regnino; un figlio
unico gli generò, di breve vita; mentre invecchia,
non lo soccorrerò, perché, lontano dalla patria,
sono qui a Troia a dare tormento a te e ai tuoi figli.
Anche tu, vecchio, l'ho udito, un tempo fosti felice .
Per quanto spazio è racchiuso fra Lesbo, ove Màcaro ha sede,
e Frigia tutto intorno e l'infinito Ellesponto,
dicono, o vecchio, che tu eccellevi per ricchezza e per prole.
Quando però i Celesti ti hanno portato il dolore,
sempre intorno alla rocca ci sono battaglie e massacri.
Resisti, più non piangere senza tregua nel tuo cuore;
nulla conseguirai a straziarti per tuo figlio,
non lo risusciterai, anzi prima avrai altra afflizione".
E gli rispose il vecchio Priamo simile a un dio:
“No, non mi fare sedere, o nutrito da Zeus, mentre Ettore
giace nella tua tenda negletto, ma al più presto
lascialo, ch’io lo veda coi miei occhi, e tu il riscatto
prendi che ti ho portato. E tu possa tornare e raggiungere
la patria tua, perché mi hai lasciato sin dall’inizio
continuare a vivere e vedere la luce del sole”.
E, di sbieco guardandolo, gli disse Achille veloce:
“Non mi irritare, vecchio; sono proprio io che intendo
liberarti Ettore. Mi è giunta da Zeus messaggera,
sì, la madre mia, la figlia del vecchio marino.
E, lo so bene, Priamo, anche tu non puoi nasconderlo,
alle navi veloci degli Achei qualche dio ti ha guidato.
Non oserebbe venire mortale, pur molto fiorente,
nel nostro campo, non sfuggirebbe alle guardie, la sbarra

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non toglierebbe facilmente dalla mia porta.
Dunque non irritare il mio cuore dilaniato,
vecchio, ch’io non ti consenta di sostare nella mia tenda,
per quanto tu sia supplice, e violi i comandi di Zeus.”
Disse così, e temette il vecchio e obbediva al comando.
Come un leone balzò dalla porta il figlio di Pèleo,
non da solo, perché due scudieri lo seguivano,
Automedonte eroe e Àlcimo, che soprattutto,
morto Patroclo, fra i compagni Achille onorava.
Essi allora disciolsero dal giogo mule e cavalli,
fecero entrare nella tenda l’araldo del vecchio,
lo fecero sedere e dal carro ben levigato
presero per il riscatto di Ettore doni infiniti.
Ma due drappi lasciarono e una tunica ben tessuta
per avvolgerne il morto e riportarlo a casa.
Poi chiamò le domestiche per lavare il cadavere e ungerlo,
ma in disparte, perché Priamo non vedesse suo figlio,
sì da non trattenere la collera con cuore straziato
nel rivederlo, ad Achille sovreccitando il cuore
tanto da ucciderlo e così violare i comandi di Zeus.
Lo lavarono le domestiche e lo unsero d’olio,
indi lo avvolsero con il bel drappo e con la tunica,
e Achille stesso lo sollevò e lo depose sul feretro,
e i compagni insieme sul carro ben levigato.
E scoppiò in pianto Achille, chiamò per nome il suo compagno:
“Patroclo, non ti crucciare con me, se vieni a sapere,
pur nell’Ade, che ho liberato lo splendido Ettore
per suo padre: mi ha offerto un riscatto non spregevole,
e anche di questo avrai la parte che ti spetta.”
Disse così, e tornò nella tenda lo splendido Achille,
e sedette sul seggio istoriato da cui s’era alzato,
sulla parete opposta, e così si rivolse a Priamo:
“Vecchio, come chiedevi, tuo figlio è liberato.
Giace sul catafalco, e al sorgere dell’alba

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tu lo vedrai e lo porterai. Ora diamoci al pasto.
Anche Niobe bella chioma si diede al cibo,
lei che perdette dodici figli nella sua casa,
sei e sei, maschi e femmine, nel fiore di giovinezza.
I primi sei li uccise Apollo con l’arco d’argento,
adirato con Niobe, le altre Àrtemis saettatrice,
perché Niobe si paragonava a Letò bella guancia.
Due, diceva, ne aveva partoriti, lei, invece, tanti,
ma, pur essendo due, glieli massacrarono tutti.
Per nove giorni giacquero nel sangue, e non c’era nessuno
per seppellirli: il Cronìde mutò le genti in pietre.
Li seppellirono il decimo gli dèi che stanno in cielo;
poi, sfinita dal pianto, si sovvenne Niobe del cibo.
Ora in mezzo alle rocce, sui monti desolati,
sopra il Sìpilo, dove si dice vi siano le dimore
delle Ninfe che danzano intorno all’Achelòo,
là, fatta pietra, smaltisce il dolore dagli dèi assegnato.
Dunque adesso anche noi pensiamo, o splendido vecchio,
al cibo; il caro figlio più tardi potrai piangere,
portato ad Ilio. E allora, quante lacrime verserai!”
Disse, e, balzato, Achille sgozzò una candida pecora;
i compagni, scuoiatola, la prepararono a dovere,
la tagliuzzarono ammodo, la infilarono negli spiedi,
perfettamente la abbrustolirono, poi tolsero tutto.
Automedonte prese il pane e lo distribuì
sulla tavola nei bei canestri, Achille la carne.
Essi le mani tendevano sui cibi pronti, imbanditi.
E come di bevanda e di cibo furono sazi,
Priamo, stirpe di Dardano, guardava Achille ammirato,
quant’era bello e grande: sembrava pari agli dèi.
Dal canto suo Achille ammirava Priamo Dardanide,
al guardarne il nobile aspetto ed ascoltandolo.
Quando si furono compiaciuti, entrambi guardandosi,
per primo parlò il vecchio Priamo simile a un dio:

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“Dammi al più presto, o nato da Zeus, un letto, che almeno
di dolce sonno possiamo godere, su di essi sdraiati.
Mai mi si sono chiusi gli occhi sotto le palpebre,
da che mio figlio ha perso la vita per tua mano,
ma senza sosta io piango e smaltisco angosce infinite,
rotolandomi in mezzo allo sterco nel cortile.
Solo adesso ho gustato il cibo e il vino fulgente
mi è passato in gola. Mai prima l’avevo gustato”.
Disse, e Achille ordinò ai compagni e alle domestiche
di collocare i letti sotto il portico, e di porvi sopra
drappi di porpora, belli, e di stendervi coperte
e, in cima a tutte quante, mantelli villosi di lana.
Le domestiche uscirono tenendo in mano una fiaccola,
e in tutta fretta prepararono due letti.
E così disse, quasi scherzando, Achille veloce.
“Dormirai, caro vecchio, qua fuori, che non venga
qualche Acheo consigliere, di quelli che vengono sempre
qui presso a me a sedersi per discutere, com’è rituale;
se nella rapida notte nera uno di loro
ti vedesse, subito Agamemnon pastore di popoli
informerebbe e potrebbe ostacolare il riscatto del morto.
Ma dimmi almeno questo, e dillo con franchezza:
per quanti giorni vuoi rendere omaggio a Ettore splendido,
perché sino ad allora io attenda e trattenga l’esercito?”
E gli rispose il vecchio Priamo simile a un dio:
“Se tu desideri ch’io renda omaggio ad Ettore splendido,
così facendo, Achille, mi fai cosa graditissima.
Sai che siamo assediati e che da lungi, dal monte, dobbiamo
trasportare la legna e i Troiani sono atterriti.
Per tre giorni interi vorremmo piangerlo in casa,
e seppellirlo il decimo e il popolo faccia un banchetto,
l’undicesimo vorremmo alzare a lui un tumulo,
e il dodicesimo combatteremo, se necessario.”
E così gli rispose il veloce splendido Achille:

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“Vecchio, anche questo così sarà fatto, come comandi:
sospenderò la guerra per il tempo che hai richiesto.”
Detto così, afferrò del vecchio per il polso
la mano destra, perché non temesse più nel suo cuore;
poi nel vestibolo della tenda si addormentarono
Priamo e l’araldo, che in cuore avevano fitti pensieri.
E nella solida tenda, nel fondo, dormì Achille:
si coricò accanto a Briseide bella guancia.
E gli altri dèi e gli uomini che combattono sui carri
tutta la notte dormivano, domati da morbido sonno.
Ma non così fu preso dal sonno Ermès Benigno:
meditava nel cuore come potesse dalle navi
Priamo accompagnare sfuggendo ai sacri custodi.
Stette sul suo capo e gli disse queste parole:
“Vecchio, tu non ti curi del pericolo e dormi nel mezzo
dei nemici, poiché Achille ti ha risparmiato.
Hai riscattato tuo figlio poc’anzi, gli hai dato molto,
ma per te vivo tre volte altrettanto pagare dovrebbero
i tuoi figli che ancora ti restano, se Agamemnon
figlio di Àtreo di te sapesse e così tutti gli Achei.”
Disse, e temette il vecchio e destava dal sonno l’araldo.
Ed Ermès aggiogò per loro il carro e le mule,
li spingeva lui stesso nel campo e nessune li vide.
E come giunsero al guado del fiume dalla bella corrente,
il vorticoso Xanto, generato da Zeus immortale,
ecco che allora Ermès se ne tornò sul vasto Olimpo,
e Aurora peplo di croco si spandeva per tutta la terra.
Essi i cavalli guidavano in mezzo ai pianti e ai lamenti
in città, le mule portavano il morto, e nessuno
se ne accorse, tra gli uomini e le donne bella cintura;
prima Cassandra, simile all’aurea Afrodite, salita
sulla rocca di Pergamo, distinse il caro padre
ritto sul carro, e accanto l’araldo banditore.
Vide anche lui, che giaceva sul feretro, sopra il carro,

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e proruppe in gemiti, emise grida per la città:
“Su Troiani e Troiane, venite a vedere Ettore,
se mai gioiste quando tornava vivo dallo scontro,
lui ch’era grande gioia per la città e per tutto il popolo!”
Disse, e nessuno rimase in città, né uomo né donna,
tutti, schiacciati da immenso dolore, davanti alle porte
si riversarono incontro a colui che lo portava.
Prime la cara moglie e la madre sovrana i capelli
si strappavano, gettandosi sul carro belle ruote
e gli abbracciavano il capo, la folla intorno piangeva.
E per tutto quel giorno, sino al tramonto del sole,
Ettore avrebbero pianto lacrimando, davanti alle porte,
se non parlava al popolo dal carro così il vecchio:
“Fatemi dunque passare con le mule! Dopo di pianto
vi sazierete, quando l’avrò portato a casa!”
Disse così, e si scostarono e fecero largo al carro.
Poi lo condussero nella nobile casa e lo deposero
su un catafalco traforato, e accanto cantori
misero che intonassero il compianto, e quelli cantavano
nenia funerea, e le donne con lamenti accompagnavano.
Diede inizio al compianto Andromaca bianche braccia,
con fra le mani il capo di Ettore massacratore:
“Sposo, ancora da giovane vai via dalla vita e mi lasci
vedova nella casa, e il figlio è ancora piccino,
che io e te generammo, sventurati. Ma non credo
che giungerà a giovinezza: la città da cima a fondo
verrà distrutta, perché tu sei morto, il difensore,
che con le spose fedeli e i bambini la preservavi.
Loro al più presto sulle concave navi se ne andranno,
ed io con loro. E tu, dal canto tuo, creatura,
mi seguirai, dove sosterrai indegne fatiche,
servo di un padrone inamabile, oppure un Acheo
ti getterà, afferrandoti per una mano, dalla torre,
fine amara, adirato perché gli uccise un fratello

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o il padre o un figlio Ettore: davvero molti Achei
presero a morsi la terra spaziosa per colpa di Ettore!
Non era amabile il padre tuo nella mischia odiosa!
Proprio per questo per la città lo piangono gli uomini:
pianto atroce e dolori hai dato ai tuoi genitori,
Ettore; e a me soprattutto hai lasciato amara angoscia:
non mi hai teso sul punto di morte le braccia dal letto,
non mi hai detto una sola parola, che sempre potessi
ricordare le notti e i giorni, bagnata di pianto.”
Disse così piangendo, e gemevano intorno le donne.
Ecuba fra le Troiane diede inizio al fitto compianto:
“Ettore, tu il più caro di tutti i miei figli al mio cuore,
anche quando eri vivo tu fosti caro agli dèi,
che persino nel destino di morte di te si curarono.
Altri miei figli li vendeva Achille veloce,
se ne prendeva uno, al di là del mare infecondo,
a Samo ad Imbro oppure a Lemno coperta di nebbia.
Ma, poiché ti ebbe tolto la vita col bronzo affilato,
ti trascinava attorno alla tomba del caro compagno,
Patroclo, che gli uccidesti; ma non l’ha resuscitato!
Ora fresco e intatto tu giaci in questa casa,
rassomigliante a un uomo che Apollo arco d’argento,
trafiggendolo con i suoi teneri dardi, uccise.”
Così diceva piangendo e suscitava un pianto infinito.
Terza fu Elena, infine, a dare inizio al compianto:
“Ettore, di gran lunga il più caro dei miei cognati,
dal momento che sposo mi è Paride simile a un dio,
che mi ha portato a Troia.......Oh che fossi prima morta!
Questo per me è ormai il ventesimo anno da quando
me ne partii di là e dissi addio alla patria.
Mai da te ho sentito parola malvagia o offensiva;
anzi, se qualcun altro in casa mi rimproverava,
fra le cognate e i cognati e fra le mogli dai bei pepli,
o la suocera – il suocero fu sempre dolce come un padre-,

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tu li fermavi rabbonendoli con le parole,
grazie alla tua gentilezza, al tuo dolce modo di esprimerti.
E piango te assieme a me, infelice, afflitta nel cuore,
perché nessuno esiste oltre te nell’ampia Troia
buono né amico con me, tutti quanti mi detestano.”
Così diceva piangendo, e gemeva folla immensa.
Si rivolse allora al popolo il vecchio Priamo:
"Ora portate la legna in città, o Troiani, e nel cuore
non temete un agguato degli Argivi, perché Achille,
dalle nere navi congedandomi, mi assicurava:
prima della dodicesima aurora non ci attaccherà".
Disse così, e quelli ai carri buoi e muli
aggiogavano e poi si riunivano di fronte alla rocca.
Per nove giorni raccolsero quantità di legna infinita,
e quando poi rifulse radiosa la decima aurora,
fuori portarono il forte Ettore fra le lacrime,
collocarono il corpo sulla pira e accesero il fuoco.
E come, mattutina, apparve Aurora dita di rosa,
si riunì il popolo intorno alla pira del nobile Ettore.
E non appena tutti si furono insieme riuniti,
per prima cosa estinsero il rogo con vino fulgente,
tutto, dove la furia s'era alzata del fuoco. Poi subito,
i fratelli e i compagni, piangendo, raccoglievano
le bianche ossa, scendevano fitte per le guance le lacrime.
Dopo averle raccolte, le misero in urna dorata,
dentro morbidi drappi di porpora ravvolgendole.
Questa poi collocarono in fossa profonda, e di sopra
la ricoprirono con fittissime grandi pietre.
Presto elevarono un tumulo, e ovunque vegliavano guardie,
che prima non piombassero gli Achei dalle belle gambiere.
Elevato il tumulo, tornarono. E tutti, riuniti,
consumavano sontuoso banchetto nella reggia
di Priamo, il re nutrito da Zeus. Così celebravano
la sepoltura di Ettore, domatore di cavalli.

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