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Universitad Nacional de Salta


Curso de Posgrado (Salta, 22 -24 agosto 2018)

Del héroe épico al héroe trágico

percorso 7 - Aiace dall’epica alla tragedia

Mito di Aiace: fonti dell’Aiace sofocleo e trattamento del materiale mitico da


parte del drammaturgo - Aiace è, naturalmente, personaggio omerico, presente sia
nell’Iliade che nell’Odissea. Nell’Iliade è il più forte degli Achei dopo Achille, il
“numero due” dell’armata di Agamennone. Perciò, quando Achille si ritira dal
combattimento, Aiace diventa il punto di riferimento dell’intero esercito. Nei canti
11-16, in cui è descritta la rotta degli Achei e la battaglia presso le navi, Aiace è il
“baluardo” dei suoi: è lui che, con la sua gigantesca figura e il suo impenetrabile
scudo, impedisce fisicamente ad Ettore e ai suoi di mettere e segno l’attacco decisivo
(la formula che lo definisce è ἕρκος ᾿Αχαιῶν). Nella battaglia delle navi è
affiancato dal suo fratellastro Teucro. Gli episodi in cui meglio emerge la sua
personalità sono il duello con Ettore nel canto VII [il duello si conclude senza un
vincitore; i due eroi si scambiano doni: Aiace dà ad Ettore una cintura, Ettore dona ad
Aiace una spada] e l’ambasceria ad Achille del IX canto, alla quale Aiace partecipa
con Odisseo e Fenice (parla per ultimo, con tono brusco). Nei giochi del XXIII canto
non si illustra particolarmente: perde da Polipeto nel disco, e non prevale su Odisseo
nel pugilato né su Diomede nel combattimento. Nell’Odissea compare nella nekyia:
la sua ombra si manifesta a Odisseo, che tenta di blandirlo con parole, ma non ottiene
risposta; Aiace è infatti ancora irato con lui a causa del giudizio delle armi.

Iliade IX 622-642
Tra loro Aiace,
il Telamonio simile a un dio, parlava così:
“Stirpe divina, figlio di Laerte, Odisseo ingegnoso,
andiamo: con questo viaggio non credo possiamo raggiungere
lo scopo del nostro discorso; bisogna portare al più presto
una riposta ai Danai, per quanto non sia positiva,
ai Danai che ora se ne stanno in attesa. Senonché Achille
ha reso feroce nel petto il suo cuore magnanimo;
ostinato, nemmeno si cura dell’affetto dei suoi compagni,
per cui l’onoriamo più di tutti gli altri, presso le navi.
Spietato! Eppure altri accetta un’ammenda
dall’uccisore di suo fratello oppure del figlio, una volta che è morto;
quello, pagato un alto compenso, resta lì nel paese,
all’altro si raffrena il cuore e l’animo impetuoso,
quando ha preso il riscatto; ma a te una rabbia infinita, perversa,
gli dèi hanno messo nel petto, a causa di una fanciulla,
una soltanto; e noi sette te ne offriamo, le più belle di tutte,
e molto altro ancora; ma tu placa il tuo animo,
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e rispetta la tua casa: siamo tuoi ospiti


da parte del popolo acheo, e più di tutti vogliamo
esserti cari e amici, tra quanti sono gli Achei”.

Odissea XI 541-554
Le anime degli altri morti se ne stavano afflitte, ciascuna le sue pene diceva Solo Aiace, figlio di
Telamone, rimaneva in disparte, adirato per la vittoria che io riportai quando presso le navi
andammo in giudizio per le armi di Achille: la dea sua madre le mise in palio, giudici furono i figli
dei Teucri e Pallade Atena. Non avessi mai vinto in quella contesa! Per quelle armi un tal uomo la
terra coperse, Aiace, che per aspetto e valore era il più grande tra tutti gli Achei, dopo il nobile
figlio di Peleo. A lui mi rivolsi con parole di affetto:
“Figlio del nobile Telamone, Aiace, neanche da morto hai potuto scordare l’ira per quelle
armi funeste? Furono la sciagura che gli dèi inflissero ai Danai, perché moristi tu, il loro baluardo;
e, morto, noi ti piangiamo sempre, come piangiamo Achille, il figlio di Peleo. Ma nessun è
colpevole, soltanto Zeus che odiava ferocemente l’armata dei Danai guerrieri e per te stabilì questa
sorte. Vieni ora, signore, ascolta le mie parole, vinci l’ira e il cuore orgoglioso”.
Così parlai, ma egli non mi rispose e verso l’Erebo andò tra le anime degli altri morti.

La morte per suicidio, in seguito alla sconfitta nella competizione con Odisseo per il
possesso delle armi di Achille, è un punto capitale della vicenda mitica di Aiace. La
figura dell’eroe è definita dal suo ruolo di “baluardo degli Achei” durante le varie fasi
della guerra (quindi corporatura imponente, scudo grande e impenetrabile, coraggio
indomito, indomabile fierezza) e dalla tragica morte in seguito al gesto di
ingratitudine dei compagni. In Omero il suicidio è solo accennato nella scena della
nekyia, mentre era trattato diffusamente nei poemi del Ciclo.
L’Etiopide di Arctino di Mileto narrava nella sezione finale la morte di Achille,
ucciso da Paride, e la zuffa scoppiata sul suo cadavere: era Aiace a caricarsi sulle
spalle il corpo dell'amico e trasportarlo alle navi, mentre Odisseo teneva lontani i
Troiani. Dopo il solenne funerale di Achille, Aiace e Odisseo si contendevano le sue
armi. Il riassunto che ne dà Proclo nella Crestomazia è molto chiaro (191-203 Allen),
anche se l’epitomatore tronca il racconto con le parole Ὀδυσσεῖ καὶ Αἴαντι στάσις
ἐμπίπτει e omette di narrare l’esito della contesa e il suicidio di Aiace, che pure
facevano parte del poema. La ragione, con ogni probabilità, sta nel fatto che subito
dopo Proclo inizia ad esporre la materia della Piccola Iliade di Lesche di Mitilene, il
cui primo episodio è appunto la contesa per le armi di Achille.

Proclo, Aethiopidos Enarratio 47, 20-30 Davies


Achille mette in rotta i Troiani e attacca la città, ma viene ucciso da Paride e da Apollo; sul suo
corpo si accende una furiosa zuffa, finché Aiace se lo carica sulle spalle e lo porta alle navi, mentre
Odisseo tiene lontani i Troiani. Poi seppelliscono Antiloco e rendono omaggio al corpo di Achille:
sopraggiunge Teti insieme alle Muse e alle Nereidi e canta il lamento per il figlio; poi Teti strappa
via dalla pira il figlio e lo porta nell'Isola Bianca; gli Achei chiudono con un tumulo la tomba e
indicono giochi, e tra Odisseo e Aiace insorge una contesa per le armi di Achille.

Proclo, Iliadis Parvae Enarratio 52, 3-5 Davies


Nasce la contesa per le armi, ed è Odisseo ad averle, per volontà di Atena; Aiace impazzisce, fa
strage del bestiame degli Achei e si uccide.
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Due frammenti della Piccola Iliade si riferiscono appunto alla contesa e al verdetto.
Par di capire che sia Teti stessa a mettere in palio le armi del figlio e che il giudizio
sia lasciato ai Troiani [così anche nell'Odissea]. Uno scolio al passo della nekyia dice
che Agamennone, riluttante ad assumersi l'ingrato compito di dirimere la contesa,
fece intervenire alcuni prigionieri troiani, chiedendo loro quale dei due contendenti
avesse recato loro maggiore danno: quelli risposero che era stato Odisseo, e quindi la
vittoria andò a costui. Secondo un'altra versione, che era quella adottata anche da
Lesche di Mitilene, gli Achei dietro consiglio di Nestore mandarono delle spie presso
le mura di Troia per ascoltare di nascosto i discorsi dei Troiani sui meriti dei due
contendenti. Le spie sentirono le parole di due ragazze che commentavano quanto
stava accadendo: una lodava Aiace per avere trasportato il corpo di Achille fuori della
mischia, l'altra le dava della sciocca, facendole notare che anche una donna avrebbe
potuto fare lo stesso, mentre non avrebbe saputo combattere (come invece aveva fatto
Odisseo). Le spie riferirono questi discorsi ai capi Achei, che decisero di assegnare la
vittoria a Odisseo. Il fr. 2 Bernabé della Piccola Iliade (citato in uno scolio ad
Aristofane, Cavalieri 1056) contiene appunto le parole delle due ragazze troiane.

Piccola Iliade, fr. 2 Davies (= 2, 1-2 Bernabé)


Αἴας μὲν γὰρ ἄειρε καὶ ἔκφερε δηϊοτῆτος
ἥρω Πηλεΐδην, οὐδ’ ἤθελε δῖος Ὀδυσσεύς.
Aiace infatti raccolse e portò fuori dalla mischia
l'eroe figlio di Peleo; il nobile Odisseo non ne volle sapere.

Piccola Iliade, fr. 2 Davies (= 2, 3-5 Bernabé)


πῶς ἐπεφωνήσω; πῶς οὐ κατὰ κόσμον ἔειπες;
καί κε γυνὴ φέροι ἄχθος, ἐπεί κεν ἀνὴρ ἀναθείη,
ἀλλ’ οὐκ ἂν μαχέσαιτο.
Che hai detto? Che sciocchezza|
Anche una donna porterebbe un peso, se un uomo glielo porgesse;
ma non sarebbe capace di combattere.

Nel poema Iliu Persis il racconto cominciava da un momento successivo alla morte di
Aiace; tuttavia, ci è pervenuto un frammento nel quale del medico Podalirio si dice
che fu il primo a riconoscere “gli occhi ardenti di Aiace”. Non conosciamo il
contesto, ma l'allusione agli occhi fiammeggianti e il fatto che si parli di un medico,
possono far pensare all'attacco di follia dell'eroe.

Iliu Persis, fr. 4, 7-8 Bernabé


ὅς ῥα καὶ Αἴαντος πρῶτος μάθε χωομένοιο
ὄμματά τ’ ἀστράπτοντα βαρυνόμενόν τε νόημα.
Lui per primo riconobbe gli occhi ardenti
di Aiace adirato e lo spirito appesantito.
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Sappiamo che in Esiodo c'era la prima menzione di un tema destinato a larga fortuna,
quello della nascita di Aiace, accordata da Zeus a Telamone su preghiera di Eracle.
La vicenda è narrata con abbondanza di dettagli da Pindaro nell'Istmica VI: l'inserto
mitico riguarda un momento della prima spedizione contro Troia [l'ode è per un
Egineta, quindi la scelta della saga degli Eacidi è obbligata], quando Eracle viene a
Salamina per invitare Telamone a partecipare all'impresa e lo trova mentre sta
celebrando le sue nozze con Eriboia. Accolto ospitalmente e invitato a libare da una
coppa d'oro, Eracle chiede a Zeus di concedere a Telamone un figlio forte e
coraggioso, “infrangibile” (ossia, invulnerabile) come la pelle del leone di Nemea,
suo primo trionfo. Zeus manda un segnale (un'aquila) per far intendere che la
preghiera sarà esaudita, ed Eracle spiega a Telamone il senso del prodigio e lo invita
a dare al nascituro un nome, Aiace, che esprima questo legame con l'aquila di Zeus
(aetòs = Aias). L'invulnerabilità di Aiace (che non c'è in Omero, e non c'è neppure in
Sofocle) è un elemento introdotto nel mito in un momento successivo, per marcare la
vicinanza con Achille: entrambi sono forti, invincibili, ed entrambi vanno incontro a
una tragica morte, causata dall'ingiusto comportamento dei capi Achei.

Pindaro, Istmica VI 35-54


Ordunque, nel chiamare l'Eacide
al viaggio per mare, lo trovò a convito di nozze.
Stava lì, nel vello leonino, e l'eroe
Telamone invitò il figlio di Anfitrione
dalla lancia possente a iniziare
con libagioni di nettare, e gli porse
la coppa del vino sbalzata in oro;
e quello, levando al cielo le mani invincibili,
pronunciò questo voto:
“Se mai, padre Zeus, udisti
le preghiere mie volentieri,
ora ti supplico, ora, con voti
ispirati, di accordare a quest'uomo
da Eriboia un figlio ardito, ospite mio per destino;
e nel corpo egli sia infrangibile
come questo vello che indosso della fiera
che un tempo, prima mia impresa, uccisi a Nemea;
e lo scorti il coraggio”.
Aveva parlato così, e il dio gli inviò
il re degli uccelli, un'aquila grande:
dolce gioia in petto lo punse,
e disse parlando come fosse indovino:
“Avrai, o Telamone, il figlio che chiedi,
e dal nome dell'uccello comparso tu chiamalo
fortissimo Aiace, terribile
nelle fatiche di guerra tra i popoli”.

Pindaro conosce anche la vicenda del suicidio, e la ricorda in vari passi (Nemea VII
24-30 [gli uomini hanno per lo più “un cuore cieco”: se conoscessero la verità, Aiace
non avrebbe dovuto suicidarsi, irato per il giudizio delle armi], Nemea VIII 23-32 [i
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valorosi sono colpiti dall'invidia, come dimostra l'esempio di Aiace: coraggioso ma


poco eloquente, egli dovette cedere al bugiardo Odisseo, che fu premiato dai “voti
segreti” degli Achei, benché Aiace avesse subito molte più ferite negli scontri coi
Troiani], Istmica IV 30-36). Nell'Istmica IV c'è una descrizione del suicidio, sia pure
sommaria (un lampo, secondo il gusto pindarico):

Pindaro, Istmica IV 30-36


Per chi non affronta le prove, non c'è che silenzio.
Ma anche per chi si cimenta c'è oscurità di destino,
prima di attingere la meta suprema:
perché la sorte dà questi esiti ed altri
e con l'arte di chi vale di meno
ha già atterrato, ghermendolo, chi vale di più. Sapete certo
il sanguinoso valore di Aiace: avendolo a tarda
notte reciso con la spada, egli muove rimprovero
ai figli degli Elleni che andarono a Troia.

Pindaro purifica la figura di Aiace da ogni elemento negativo o problematico: non fa


alcun riferimento alla follia, al massacro del bestiame, al tentativo di uccidere i capi
dell'esercito, all'ostilità di Atena. L'Aiace di Pindaro è un eroe senza macchia e senza
paura, vittima dell'invidia e dell'ingiustizia: privato dei suoi diritti, ricorre al suicidio
come forma estrema di protesta e di rivendicazione. La datazione dei tre epinici è
incerta, è però molto probabile che tutti e tre precedano il dramma di Sofocle.

La vicenda di Aiace ebbe molto successo tra i poeti tragici. Eschilo vi si ispirò per tre
tragedie, intitolate Hoplon krisis, Thressai e Salaminiai, che probabilmente
componevano una trilogia. Ne abbiamo pochi frammenti, che consentono solo una
ricostruzione molto sommaria. Nel primo dei tre drammi compariva anche Teti, che
verosimilmente metteva in palio le armi del figlio; e c'era una sorta di agone verbale
tra i due contendenti, con accuse reciproche. Le Thressai prendevano il nome dal
coro di schiave tracie e drammatizzavano il suicidio di Aiace (riferito da un
messaggero): in un primo tempo Aiace non riusciva a conficcarsi la spada nel corpo,
invulnerabile com'era, ma poi una divinità (Atena?) gli indicava il punto dove colpire,
cioè l’ascella. Il tema delle Salaminiai è incerto: forse il ritorno a Salamina di Teucro,
senza il fratello, e la sua cacciata in esilio da parte di Telamone.
Sappiamo che Sofocle trattò il mito di Aiace anche nel Teucro, che metteva in
scena il ritorno a Salamina del protagonista e poi la sua partenza per Cipro, sua nuova
patria. Tra i pochi frammenti, ce n'è uno in cui Telamone reagisce con dolore alla
notizia della morte di Aiace. Sofocle compose anche un Eurisace, di cui nulla è
rimasto; si è ipotizzato che Aiace, Teucro ed Eurisace formassero una trilogia, ma è
un'ipotesi poco probabile.

Nell'arte figurata Aiace è un soggetto molto diffuso, già in età arcaica e poi ancor più
in età classica. Nella maggior parte dei casi, gli artisti si ispirano agli episodi iliadici,
o comunque troiani: Aiace che affronta in duello Ettore, Aiace che porta sulle sue
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spalle il corpo di Achille, sottraendolo alla mischia, Aiace e Achille che giocano ai
dadi. A partire dai primi anni del VII secolo si diffonde la rappresentazione della
morte di Aiace: l'eroe è a terra, prono, appoggiato alle mani e alle ginocchia, con la
spada che gli attraversa il corpo. Questa iconografia rimane comune per tutta l'età
arcaica; ma dalla metà del VI secolo la ceramografia attica comincia a interessarsi ai
momenti che precedono il suicidio, cioè alla preparazione del suicidio. Una famosa
anfora a figure nere di Exekias mostra Aiace intento a fissare al suolo l'elsa della
spada, in atteggiamento teso e pensoso: la scena corrisponde a quella che si può
ricostruire dal monologo del personaggio nel dramma sofocleo. Alla prima metà del
V secolo risalgono due vasi a figure rosse che propongono gli istanti immediatamente
successivi: la spada è fissata e Aiace è inginocchiato davanti ad essa, con le mani
levate nel gesto della preghiera.

Anfora attica a f.n., decorata da Exekias;


Roma, Musei Vaticani 344; ca 540 a.C.

Anfora attica a f.n., decorata da Exekias


Boulogne, Musée municipal 558; ca 540 a.C.

3. Datazione – Non ci sono elementi oggettivi che consentano di datare l'Aiace con
certezza; si ricorre quindi a criteri stilistici, o a confronti esterni. Per Sofocle è stato
messo a punto un calcolo statistico che tiene conto del numero di trimetri terminanti
con iato (“iato interlineare”). Si è visto che nei drammi di datazione più alta il
numero di trimetri terminanti con iato e non seguiti da pausa è più basso: per
esempio, su 100 trimetri non seguiti da pausa nelle Trachinie la percentuale di quelli
con iato interlineare è 22,1; per le altre tragedie il dato è il seguente: Antigone 33,6;
Aiace 33,6; Edipo re 39,5; Elettra 40,6; Edipo a Colono 53,9; Filottete 57,7. Un altro
elemento utile è la frequenza delle antilabai, poiché si è visto che Sofocle tende a
inserirne sempre di più, mano a mano che avanza nella carriera. Per le antilabai i
numeri sono questi: Antigone 0; Trachinie 2; Aiace 8; Edipo re 10; Elettra 16;
Filottete 37; Edipo a Colono 44.
La parodo dell'Aiace si compone di un sistema anapestico seguito da un canto
corale; questo schema corrisponde a quello dei Persiani (472), delle Supplici (fra il
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470 e il 460) e dell'Agamennone (458) di Eschilo, e non ha paralleli negli altri


drammi di Sofocle. Anche questo è un elemento che sembra indicare una data di
composizione piuttosto alta. E la stessa indicazione emerge dallo studio della tecnica
dialogica. Tutti i drammi di Sofocle prevedono l'impiego di tre attori, perché tutti
hanno almeno una scena con tre personaggi contemporaneamente presenti. Ma
conversazioni a tre si hanno solo in Edipo re, Elettra, Filottete e Edipo a Colono: si
può quindi pensare che Trachinie, Aiace e Antigone riflettano uno stadio meno
evoluto di tecnica drammaturgica e quindi siano da assegnare a un periodo
precedente. Mettendo insieme tutti questi elementi, si può pensare a una data tra il
446 e il 444

4. Schema dell’Aiace - 1-133 prologo, articolato in tre scene: a) dialogo tra Atena e
Odisseo, nel corso del quale la dea spiega che cosa è accaduto ad Aiace e si offre di
mostrare a Odisseo il suo nemico nello stato di abiezione in cui si trova; b)
rispondendo alla chiamata di Atena, Aiace esce dalla sua tenda, ancora in stato di
delirio, e parla con la dea; c) nuovo dialogo tra Atena e Odisseo, che espone il suo
“apprendimento doloroso”: tutti gli uomini nn sono che ombre vane, in balia degli
eventi e degli dèi. Come osserva Sabina Mazzoldi, il prologo assolve a tre funzioni
principali: 1. informa gli spettatori sull’antefatto (anche se le informazioni non sono
compresse n una rhesis espositiva, ma disciolte nel dialogo); 2. presenta al pubblico
Aiace in preda a follia (ed è l’unico momento in cui ciò accade: in seguito, la follia di
Aiace è continuamente tematizzata, ma come qualcosa che appartiene al passato); 3.
anticipa il carattere “pietoso” di Odisseo, che torna nel finale ed è determinante per lo
scioglimento.

134-200 parodo. Il coro è composto dai compagni di Aiace, marinai di Salamina, che
hanno raccolto voci sull’assalto dato dal loro signore ai capi di bestiame, durante la
notte. I coreuti si chiedono se questo gesto di follia sia esito dell’azione di un dio –
Artemide o Ares – offeso dalla protervia di Aiace (si introduce così il motivo
dell’hybris, che ha parte importante negli episodi successivi). La parodo ha una
sezione in anapesti, in cui i coreuti denunciano la malignità di Odisseo, capace solo di
sparlare nell’ombra, e si dicono certi che Aiace saprà ridurlo al silenzio; segue una
triade strofica in metro lirico, in cui prevalgono i pensieri negativi (il coro cede
progressivamente all’angoscia, via via che si fa strada l’idea della punizione divina).
Osserva la Mazzoldi che la parodo è l’omologo, in prospettiva ribaltata, del prologo:
oggetto del discorso è sempre Aiace, ma il punto di vista non è più quello dei nemici,
ma quello dei suoi amici più devoti.

201-595 primo episodio. La prima scena (201-347) consiste in un dialogo tra


Tecmessa e il coro, prima in forma di kommòs (metro lirico) poi in recitativo.
Rispondendo alle domande dei coreuti, la donna racconta ciò che è successo nella
notte. Tecmessa è testimone oculare dell'accaduto, poiché ha assistito all'uscita
improvvisa di Aiace e poi al suo ritorno nella tenda e al massacro degli armenti. Il
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racconto è reduplicato: viene prima anticipato, in modo concentrato, nella sezione


lirica, e poi sviluppato in forma più estesa e lucida nella sezione in trimetri, in una
lunga rhesis [Sofocle anticipa il modulo euripideo dell'eroina che si esprime prima in
modo irrazionale, e recupera poi il pieno controllo di sé e analizza con lucidità la
propria condizione: Alcesti, Fedra, Medea, ecc.]. Con grande sapienza tecnica,
attraverso il racconto di Tecmessa Sofocle dà consistenza allo spazio retroscenico: gli
accadimenti del retroscena si integrano con lo spazio visibile aglio spettatori. La
seconda scena (348-595) vede l'arrivo di Aiace, che prima in modo convulso
(kommòs) poi in forma più pacata (trimetri) prende coscienza di quel che ha fatto e
riflette sulla situazione in cui si trova. L'idea del suicidio prende consistenza, fino ad
apparire l'unica soluzione possibile (le due altre opzioni, ritorno immediato a
Salamina, senza bottino e senza onore, o “bella morte” con le armi in pugno, in un
solitario assalto alle mura di Troia, vengono scartate perché incompatibili con lo
statuto eroico: l'eroe non può rinunciare alla gloria e non può ridursi a zimbello di
quanti lo odiano). Tecmessa tenta di dissuaderlo, prima con una rhesis modellata sul
discorso di Andromaca in Iliade VI, poi in una sticomitia. Aiace non si lascia piegare,
chiede che gli venga condotto il figlio Eurisace e si congeda da lui, spiegando ai
presenti che cosa dovranno fare delle sue armi dopo la sua morte. Tecmessa,
disperata, tenta ancora una volta di persuaderlo, in una concitata antilabé troncata
dalla battuta lapidaria di Aiace (“Se credi di poter educare ora il mio carattere, sei
davvero pazza”).

596-645 primo stasimo. I coreuti non hanno compreso che la decisione di suicidarsi è
stata presa da Aiace in piena lucidità, anzi è una conseguenza della riacquistata
lucidità; commiserano l'eroe per la malattia mandatagli dagli dèi e concludono che è
meglio per lui morire, e nascondersi nell'Ade, piuttosto che dare triste spettacolo della
propria follia.

646-692 secondo episodio. Con un vero colpo di teatro, Sofocle riporta in scena
Aiace, che compare con la spada in mano e parla ai coreuti e a Tecmessa (uscita
anch'essa dalla tenda). L'eroe pronuncia la famosa Trugrede, il discorso ingannatore
nel quale le sue vere intenzioni sono abilmente dissimulate. Dice di avere cambiato
completamente idea, toccato dalle parole della sua donna: andrà sulla riva del mare a
purificarsi e poi in un luogo deserto, per nascondere nella terra la spada (“che la notte
e Ade la custodiscano, sotto”); aggiunge una serie di considerazioni ispirate – almeno
apparentemente – a massime di saggezza: tutto cambia, anche le forze naturali si
adattano al mutare delle situazioni, e quindi è giusto anche per gli uomini arrendersi
al potere di chi è più in alto. Aiace invita Tecmessa a rientrare nella tenda, per
pregare gli dèi; affida ai coreuti un suo messaggio per il fratello Teucro e si allontana
con parole ambigue (“vado dove devo andare, tra poco saprete che ho trovato la
salvezza dalla mia disgrazia”.
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693-718 secondo stasimo. Il coro canta la sua gioia, perché Aiace ha deposto l'ira e si
è riconciliato con gli dèi. Il canto è in forma di hyporchema, con invocazioni a Pan e
ad Apollo perché vengano a unirsi alla danza di festa (

719-865 terzo episodio. L'episodio è diviso in due parti. Nella prima il ruolo più
importante è svolto da un Messaggero, che viene a riferire quanto è accaduto nel
campo acheo: Teucro è tornato dalla spedizione di guerra, ed è stato informato della
follia del fratello. Calcante gli ha però detto che il pericolo per Aiace è destinato a
non protrarsi oltre lo spazio di un giorno: se l'eroe arriverà indenne all'indomani, sarà
poi salvo per sempre; di qui la raccomandazione agli amici di tenere Aiace sotto
stretta sorveglianza, ben protetto dentro la tenda. Il Messaggero rievoca anche due
risposte tracotanti date da Aiace nel passato, a Telamone (che lo invitava a cercare
l'aiuto degli dèi nelle battaglie) e ad Atena (che lo spronava a gettarsi nella mischia,
sotto la sua protezione). Le parole del Messaggero, che contengono illuminazioni
inquietanti sia per il passato che per il futuro, gettano il coro nello sconforto. I
coreuti, accompagnati da Tecmessa, si allontanano in fretta, in cerca di Aiace; la
scena rimane deserta. Lo spazio scenico viene ridefinito (non sappiamo con quali
accorgimenti registici): non è più il tratto di campo davanti alla tenda di Aiace ma un
luogo solitario in prossimità del mare. Aiace, in totale solitudine, pronuncia il
monologo che precede il suicidio: descrive la spada, piantata in terra dalla parte
dell'elsa e pronta ad accogliere il suo “salto” mortale, poi supplica Zeus ed Hermes,
per avere da loro un “dolce sonno”. Il monologo prosegue con l'invocazione alle
Erinni, dee della vendetta, e la preghiera al Sole, cui viene chiesto di portare ai
genitori dell'eroe, a Salamina, la notizia della sua morte. Dopo un'apostrofe a
Thanatos, l'ultimo saluto è rivolto ancora al Sole, a Salamina, ad Atene e ai luoghi
della Troade.

866-878 epiparodo. I coreuti rientrano, divisi in due semicori: la ricerca di Aiace si è


rivelata infruttuosa, né a oriente né a occidente si è trovata traccia di lui.

879-1184 quarto episodio. Inizia la seconda parte della tragedia, incentrata sul
ritrovamento del corpo di Aiace e sul dibattito circa il trattamento da riservare al
cadavere. C'è prima un kommòs tra il coro e Tecmessa, che contiene il ritrovamento
del corpo, e poi un vero e proprio threnos, nel quale il lamento viene intonato a due
voci, in amebeo: il coro rievoca il giudizio per le armi, origine di ogni male, e
contrappone al dolore degli amici la gioia feroce degli Atridi e di Odisseo; Tecmessa
risponde che Aiace è morto per volere degli dèi, e che gli Atridi presto lo
rimpiangeranno. La scena successiva vede l'arrivo di Teucro, che ha avuto notizia
della morte del fratello e in una lunga rhesis manifesta il suo dolore, ma anche la sua
preoccupazione per le conseguenze negative che anche lui dovrà subire, quando
Telamone lo rimprovererà aspramente e lo caccerà dalla patria. Teucro poi osserva
che Aiace è morto trafitto dalla spada donatagli da Ettore, come Ettore è stato
trascinato nella polvere da Achille dopo essere stato legato al carro con la cintura
donatagli da Aiace: un curioso contrappasso, che ben esprime la crudele attitudine
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degli dèi verso i mortali. A questo punto arriva in scena Menalo e inizia il duello
verbale tra lui e Teucro, con a tema i funerali di Aiace (che Menelao vorrebbe
impedire). Lo scontro è in forma di agone, con due rheseis seguire da sticomitia.
Menelao accusa Aiace di insubordinazione e tradimento, per la sua scarsa
propensione ad obbedire ai capi, Teucro sostiene che il fratello aveva pieno diritto di
agire in autonomia, obbedendo solo al proprio codice d'onore. L'episodio si chiude
con l'entrata in scena di Tecmessa e di Eurisace, che danno inizio ai riti funebri.

1185-1222 terzo stasimo. Il coro maledice la guerra e il suo inventore: la guerra non è
che una sequenza di dolori e affanni, cancella ogni gioia della vita. I coreuti hanno
perso il solo loro baluardo, Aiace; il loro unico desiderio ora è tornare a casa, salutare
il Sunio e la città di Atene.

1223-1420 esodo. L'esodo è composto da tre scene. Nella prima c'è un nuovo scontro
verbale, questa volta tra Agamennone e Teucro; ciascuno dei due pronuncia una
rhesis: Agamennone minimizza l'apporto dato da Aiace alla guerra (era uno dei tanti,
e non più forte degli altri) e manifesta tutto il suo disprezzo per Teucro, un bastardo,
mezzo barbaro, che pretende di trattare alla pari con principi di nobile nascita; Teucro
ribatte, ricordando le occasioni in cui Aiace col suo valore ha salvato Achei e
ribaltando su Agamennone l'accusa di scarsa nobiltà. Sopraggiunge Odisseo: la scena
prende ora la forma di un dialogo tra Agamennone e il nuovo venuto, che succede a
Teucro nel ruolo di difensore dei diritti del morto. Prima un dialogo in disticomitia,
poi una battuta più lunga di Odisseo, poi una serrata sticomitia portano alla resa di
Agamennone, che acconsente alla volontà di Odisseo e si allontana. Odisseo a questo
punto vorrebbe unirsi a Teucro nei riti di sepoltura, ma Teucro – pur esprimendogli
sincera gratitudine – gli fa osservare che la sua presenza potrebbe offendere il defunto
(c'è qui un'evidente “citazione” della scena odissiaca della nekyia). Odisseo si
allontana; l'ultima scena vede l'uscita di Teucro e del coro, che si avviano alla
sepoltura: Teucro dà disposizioni per il funerale, il coro commenta con una massima
di sapore universale (“è impossibile prevedere il futuro, per i mortali”).

5. Messa in scena - L’Aiace è caratterizzato da una messa in scena articolata, con


alcune soluzioni che non ritornano altrove – per quel che sappiamo – nel teatro di
Sofocle. Il dato più evidente che contraddistingue la tragedia è il cambio di scena che
si attua nel corso del terzo episodio (tra il v. 814 e il v. 815), con l’uscita del Coro
dall’orchestra (la cosiddetta metastasis). A metà del terzo episodio, sentite le parole
del Messaggero (che riferisce la profezia di Calcante), il Coro si allontana per andare
in cerca del protagonista. Lo spazio scenico resta quindi vuoto per qualche secondo e,
prima che ricompaia in scena l’attore che impersona Aiace, si procede a un cambio di
arredo e/o scenografia, per cui l’azione si svolge non più davanti alla tenda di Aiace
ma in un solitario boschetto presso il mare. In più, Aiace entra in scena solo e
pronuncia uno dei pochissimi monologhi in senso stretto (cioè in assoluta solitudine)
che ci sono noti nel teatro greco antico [se si prescinde da situazioni prologiche, gli
unici altri esempi sono il discorso pronunciato da Oreste in Eumenidi 235-43 (una
11

semplice preghiera ad Atena, cui segue subito l’arrivo del Coro) e il monologo di
Menelao che segue la metastasis del coro a partire dal v. 386 dell’Elena].
Nella prima parte della tragedia la vicenda è ambientata davanti alla tenda di
Aiace, che occupa una estremità del campo acheo a Troia. La definizione dello spazio
interviene subito, già ai vv. 3-4 pronunciati da Atena (“Anche ora, eccoti vicino alla
tenda di Aiace, presso le navi poste all’estremità del campo”). La posizione appartata
del quartiere di Aiace è una reminiscenza iliadica (Iliade VIII 223-225: Agamennone,
per farsi sentire da tutti, sale sulla nave di Odisseo, che occupa la posizione mediana,
mentre Aiace e Achille sono alle due estremità opposte; Iliade XI 5-9: gli stessi versi,
con le stesse parole, sono usati per Eris, che sale sulla nave di Odisseo per rendersi
udibile a tutti). Quel che gli spettatori vedevano all’inizio dell’azione era l’esterno
della tenda di Aiace, quindi una facciata che probabilmente dava l’idea della
particolarità della costruzione: una sorta di casa-tenda, simile alla tenda di Achille
quale si può ricostruire attraverso il XXIV dell’Iliade; nella facciata si apriva una
porta (v. 11 “non è più necessario che tu spii dentro quella porta”). Nell’interno della
tenda ci doveva essere una colonna centrale a sostegno del tetto (Aiace al v. 108 dice
di averci legato Odisseo: in realtà è un ariete, come spiega poi Tecmessa).
Una delle due eisodoi porta al campo degli Achei, l’altra alla campagna aperta,
che si estende fino al mare. Questa disposizione è funzionale allo sviluppo della
vicenda, perché consente ad Aiace di allontanarsi senza dover attraversare
l’accampamento; ma ha anche un valore simbolico, perché i due poli opposti – la
solitudine della costa troiana e la società dei compagni – formano due linee che si
incrociano davanti alla tenda del protagonista. L’eisodos dell’accampamento è molto
“attiva” nella prima parte: la usano Odisseo nel prologo, il Coro nella parodo e il
Messaggero nel terzo episodio. Aiace, ovviamente, non se ne serve: è passato di lì
nella notte, come spiegano Atena e Tecmessa, per spingersi fino al quartiere degli
Atridi e massacrarli; presa coscienza di quanto è accaduto, l’eroe rifiuta ogni contatto
con gli antichi compagni. La seconda eisodos diventa attiva con l’uscita di Aiace;
dopo di lui la usano anche una metà del Coro e Tecmessa, per andare sulle sue tracce
(al v. 814, sentito il Messaggero). Dopo il cambio di scena, c'è una ridefinizione delle
eisodoi; o meglio, una continua a essere la via d'accesso al campo degli Achei, come
in precedenza, mentre l'altra ora porta alla tenda di Aiace (ed è usata da Tecmessa ed
Eurisace, e poi da Teucro.
Un'altra peculiarità della messa in scena sta nel fatto che nel primo episodio lo
spazio interno della tenda diventa visibile. Il Coro, invitato da Tecmessa a entrare
nella tenda (v. 329 “Entrate nella tenda, cercate di dargli aiuto, se potete”), si ferma
nei pressi dell’ingresso, intimorito dalle grida di Aiace che provengono dall’interno, e
chiede che venga aperta la porta (vv. 344-345 “Mi sembra che sia rinsavito: aprite la
porta, se mi vede, forse proverà vergogna”), ordine che Tecmessa esegue (vv. 346-
347 “Ecco, apro; puoi vedere in quale stato è e che cosa ha fatto”). Aiace appare al
Coro in tutta la sua disperazione, e la scena a porta aperta copre tutto il primo
episodio, al termine del quale Aiace ordina ripetutamente che la porta venga richiusa
(vv. 579-581 “Ora prendi il bambino, presto, chiudi la porta e non restare a piangere
12

davanti alla tenda: alle donne piace lamentarsi. Chiudi la porta, presto”; 593
“Chiudete, chiudete, presto!”).
Come fosse realizzata, in termini scenici, l’apertura della porta (e come
l'interno diventasse visibile), è un problema molto dibattuto. Alcuni studiosi
ipotizzano l'uso dell’ekkyklema, cioè della piattaforma mobile: l'eroe uscirebbe fuori
dalla tenda, seduto sulla piattaforma, coperto di sangue e circondato dalle carcasse
degli animali uccisi. Non tutti però sono d'accordo: Di Benedetto, per esempio, ritiene
molto improbabile che l’ekkyklema venisse usato nelle rappresentazioni tragiche del
V secolo. L'alternativa è che la porta si aprisse e dal varco così spalancato il Coro (e
anche il pubblico, sia pure in misura minore) avesse avesse la possibilità di spingere
lo sguardo nell'interno. È anche possibile (è l'ipotesi di Di Benedetto – Medda) che
l'apertura della porta comportasse la rimozione di un diaframma o lo scostamento di
un tendaggio, così da consentire una più ampia visione dello spazio interno, nel quale
risultavano visibili le carcasse degli animali uccisi da Aiace. Quanto alla comparsa (e
all'uscita) di Atena nel prologo, anche qui le opinioni sono contrastanti. La dea
potrebbe entrare dalla stessa eisodos da cui è entrato, prime di lei, Odisseo, e tenersi
per un certo tempo discosta da lui, per rivolgergli la parola solo in un secondo
momento. I più però pensano che l'apparizione di Atena avvenisse dal theologheion,
cioè da una piattaforma posta al di sopra dell'edificio scenico (come è la norma delle
apparizioni divine).
Nel corso del terzo episodio Tecmessa e il Coro, informati dal Messaggero
della profezia di Calcante – che ha raccomandato a Teucro, se vuole salvare Aiace
dalla rovina, di trattenerlo all’interno della tenda per tutta quella giornata – si
precipitano fuori scena per cercare l’eroe. Nell’orchestra vuota compare, da solo,
Aiace, che si trova adesso nel boschetto presso il mare. Che tra il v. 814 e il v. 815
l’aspetto della scena cambiasse, è fuori di dubbio. L’allontanamento del Coro forniva
l’occasione di modificare 1'apparecchiatura scenica per la sostituzione della tenda
con il boschetto. La cosa poteva essere realizzata con la rimozione della facciata della
tenda e la concomitante collocazione di elementi atti a raffigurare un boschetto;
oppure questi elementi potevano essere collocati davanti alla tenda. Quello che è
certo è che la tenda nella seconda parte del dramma è menzionata come situata fuori
scena: Teucro vi invia Tecmessa perché prenda il piccolo Eurisace e lo porti presso il
cadavere del padre (i due tornano in scena, da una delle eisodoi, nel quarto episodio).
Il boschetto che costituiva la nuova scenografia doveva offrire un qualche
riparo dietro il quale potesse cadere Aiace, il cui corpo, subito dopo la morte, non era
visibile né al Coro né agli spettatori; infatti è Tecmessa che trova Aiace e grida
dall’interno del boschetto. Quando Teucro arriva in scena nel quarto episodio, però, il
corpo deve essere diventato visibile, giacché nella rhesis che inizia al v. 992 il dato
visivo è richiamato con forza, e questo sarebbe impossibile se il cadavere fosse
ancora nascosto a chi parla. Pertanto, è necessario ipotizzare che il cadavere venga a
un certo punto spostato. Lo spostamento avviene probabilmente tra i versi in cui il
Coro per l’ultima volta domanda a Tecmessa dove si trova il corpo di Aiace (vv. 912-
914 “Dov'è, dunque, dov'è Aiace, l'inflessibile, Aiace dal triste nome?”) e la
successiva battuta del Coro che apre il lamento funebre, il quale presuppone la
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presenza del morto (vv. 925-936). È probabile che il momento preciso in cui il corpo
viene portato in scena sia subito prima del v. 915, dove inizia un breve discorso in cui
Tecmessa esprime l’intenzione di velare il cadavere per renderne la vista meno
insopportabile (“Nessuno deve vederlo; con questo mantello lo coprirò”).
Il cambio di scena, con l’evocazione nella seconda parte della tragedia di un
ambiente disabitato, è funzionale alla messa in atto del suicidio: Aiace non vuole farsi
vedere nel mentre si toglie la vita (si deve dunque pensare che dopo il monologo dei
vv. 815-865, pronunciato nell’imminenza del suicidio, il protagonista si nascondesse
alla vista degli spettatori, spostandosi dentro il boschetto lì vicino). Ma l’ambiente
che si crea con il cambio di scena è anche specificamente adatto al quadro che
conclude la tragedia, con la famiglia di Aiace (il fratello, il figlio, la compagna) tutta
riunita nell’atto di compiere il rito funebre, un rito che è presentato come strettamente
privato e come esposto alla possibilità minacciosa di interventi esterni.

La metastasis del Coro [cfr. V. Di Benedetto – E. Medda, La tragedia sulla scena,


Torino 1997, pp. 239-240] - Nella maggior parte dei drammi che conosciamo il Coro
occupa lo spazio scenico dell’orchestra per tutta la durata del dramma, dalla parodo
fino alla fine della tragedia. In alcune tragedie, però, il Coro lascia 1’orchestra nel
corso della rappresentazione, e vi rientra in un momento successivo. La scena dunque
resta per breve tempo priva della presenza corale e a disposizione per i soli attori.
Questo procedimento, che l’erudizione antica definisce metastasis (cioè
“spostamento”, “cambiamento di luogo”), può coincidere con un cambio di scena,
come avviene nelle Eumenidi e nell’Aiace. In queste due tragedie il Coro lascia
l’orchestra e poi un attore compare nell’orchestra vuota, che adesso – dopo un rapido
riassetto della scenografia – rappresenta un luogo diverso da quello della scena
precedente. Poco tempo dopo il Coro torna nell’orchestra, facendo il suo “secondo
ingresso” (epiparodos) nella nuova sede dell’azione drammatica. La motivazione che
il testo adduce per l’uscita del Coro dall’orchestra è, in entrambi i casi, la ricerca di
un personaggio che si è allontanato poco prima dalla scena. E la metastasis del Coro
corrisponde in questi due casi allo spostamento del Coro da un luogo a un altro (da
Delfi ad Atene nelle Eumenidi, dalla tenda di Aiace al boschetto presso il mare
nell’Aiace), di modo che sia il punto di partenza sia quello di arrivo risultano
coincidenti con uno spazio scenico che rappresenta, in successione, due luoghi
diversi.
Nelle due tragedie euripidee che presentano la metastasis (Alcesti ed Elena),
essa non si accompagna a un cambio di scena e il Coro, che lascia l’orchestra per
raggiungere un luogo posto nello spazio extrascenico, fa poi ritorno nello spazio
scenico che ancora rappresenta lo stesso luogo di prima. Nel quarto episodio
dell’Alcesti il Coro esce da una delle eisodoi insieme ad Admeto, per accompagnare
il cadavere di Alcesti alla pira, e ritorna poi con lui per la stessa via; nel primo
episodio dell’Elena il Coro lascia invece l’orchestra per entrare insieme con Elena
nella casa di Teoc1imeno, e l’epiparodos consiste nel successivo arrivare del Coro
dalla casa, ancora insieme con Elena.
14

Nel terzo stasimo del Reso pseudo-euripideo il Coro delle sentinelle si


allontana dall’orchestra, per andare a svegliare gli uomini a cui tocca il successivo
turno di guardia; e il rientro del Coro nell’orchestra avviene in modo concitato, sotto
forma di caccia affannosa al nemico che ha fatto irruzione nel campo.
È interessante osservare che in tre casi di metastasis su cinque il Coro si
allontana dall’orchestra assieme a un personaggio (nell’Aiace, nell’Alcesti e
nell’Elena rispettivamente Tecmessa, Admeto ed Elena). Diverso è il caso delle
Eumenidi e del Reso, ma nel caso delle Eumenidi il Coro delle Erinni ha un ruolo
autonomo ed è coinvolto direttamente nell’azione drammatica. Si noti anche che, a
parte il Reso, negli altri casi lo spazio scenico, privo della presenza del Coro, è
sfruttato da un attore che entra in scena da solo e pronuncia un monologo.

Molto ardita – e innovativa – è la decisione di mostrare in scena gli istanti che


precedono il suicidio, contrariamente alla norma che affida il racconto di fatti come
questi ai messaggeri. La novità del procedimento era già evidente allo scoliaste al v.
815, che ne offre una duplice motivazione: desiderio del poeta di discostarsi dal
trattamento dato della morte dell’eroe da Eschilo nelle Θρῆσσαι e ricerca di
ἔκπληξις.

Scolio al v. 815 dell’Aiace (p. 185 Christodoulou)


La scena si sposta in un luogo deserto dove Aiace, predisposta la spada, pronuncia un discorso
prima di morire: sarebbe infatti ridicolo che entrasse in scena e si gettasse sulla spada senza parlare.
Peraltro, una simile scelta è rara nella tragedia antica, perché di solito i fatti sono riferiti da
messaggeri. Qual è il motivo [di questa scelta]? Prima di Sofocle, Eschilo nelle Thressai aveva
affidato a un messaggero l'annuncio della morte di Aiace: forse dunque Sofocle offrì il suicidio alla
vista del pubblico perché voleva innovare e non seguire pedissequamente <...> o forse volle colpire
l'immaginazione.

Anche se si possono nutrire dubbi sulla validità di queste spiegazioni, resta il fatto
che quel lettore antico conosceva molte più tragedie di noi, e poteva constatare la
peculiarità della scelta sofoclea nell’ambito del corpus tragico. La novità sussiste
anche nel caso che l’atto suicida vero e proprio rimanesse nascosto agli
spettatori,

6. Lettura e commento dei vv. 430-865

Il primo monologo di Aiace (vv. 430-480) – Il discorso, di una lucidità che contrasta
con la tensione emotiva del kommòs precedente, analizza la situazione in cui l'eroe
versa dopo l'umiliazione inflittagli da Atena. Si distinguono due parti, di cui la prima
considera il passato (che cosa è successo e che cosa sarebbe potuto accadere se la
fortuna fosse stata diversa), mentre la seconda guarda avanti, a ciò che Aiace può fare
ora, e si conclude con una chiara – seppur implicita – anticipazione del proposito
suicida. Questa seconda parte è stata anticipata, nei suoi contenuti, dalle battute
pronunciate da Aiace nel kommòs: tra i lamenti, l'eroe ha presentato se stesso come
un uomo senza più onore, odiato dai vecchi compagni e deriso dai nemici, inviso
15

ormai anche agli dèi. Nel kommòs Aiace ha lamentato la rovina della sua carriera
eroica (“Tutto il mio passato muore”, traduce Maria Grazia Ciani il v. 405 τὰ μὲν
φθίνει) e ha constatato che per lui non c'è altra via d'uscita se non la morte (“Ombra
di morte, che per me sei luce, Erebo che per me splendi come il sole, prendetemi con
voi nella vostra dimora”, vv. 394-396); ha anche dato l'ultimo saluto ai luoghi e ai
fiumi della Troade (“mai più vedrete quest'uomo”, v. 421-422). Tutti questi punti
sono ripresi nella rhesis. Guardando al passato, Aiace ricorda l'impresa troiana di
Telamone e la confronta con il proprio insuccesso; ricorda l'esito per lui negativo del
giudizio delle armi, e si dice certo che le cose sarebbero andate diversamente, se
fosse stato Achille a giudicare; lamenta l'attacco di follia, che gli ha impedito di
vendicarsi dei suoi nemici, come già si accingeva a fare. Al v. 450 la cerniera νῦν δ’
segna il cambio di prospettiva: Aiace è deriso, odiato, disprezzato. Tutto è chiuso, per
lui: non può tornare il patria, non può cercare una “bella morte” in battaglia. La
morte, peraltro, è l'unica scelta: quando la vita non ha più senso, non resta che morire
(“Vivere bene o morire bene: questo deve fare un uomo bennato”, vv. 479-480).
Aiace pensa al suicidio, è chiaro: e lo capiscono i suoi interlocutori, che subito
tentano di dissuaderlo (“Lascia che gli amici ti persuadano ad abbandonare questi
pensieri, a rinunciare ai tuoi piani”, gli dice il Corifeo ai vv. 483-484, nella battuta
intercalare che separa la rhesis di Aiace da quella di Tecmessa).

v. 430 – L'idea che il nome sia “eponimo” della persona che lo porta, perché ne
“dice” le qualità, è molto radicata nella mente greca. Finglass cita, tra i molti,
l'esempio dei vv. 224-226 del Fetonte, in cui Climene è disperata per la morte del
figlio e accusa Helios (il padre) di averlo fatto morire: Climene osserva che ad Helios
ben si adatta il nome di Apollo (il “distruttore”).

Euripide, Fetonte 224-226 Diggle


ὦ καλλιφεγγὲς Ἥλι’, ὥς μ’ ἀπώλεσας
καὶ τόνδ’· Ἀπόλλων δ’ ἐν βροτοῖς ὀρθῶς καλῆι,
ὅστις τὰ σιγῶντ’ ὀνόματ’ οἶδε δαιμόνων.
O Helios splendente di luce, come hai distrutto me
e costui: giustamente sei chiamato Apollo tra i mortali,
da chi conosce i nomi silenti degli dèi.

Secondo Omero, Iliade V 638-642, 648-651 [episodio del duello tra Tlepolemo di
Rodi, figlio di Eracle, e il re dei Lici Sarpedone], Telamone andò a Troia insieme ad
Eracle, che guidò una spedizione di sole sei navi e pochi guerrieri, ma riuscì
nell'impresa di conquistare la città e saccheggiarla; il motivo fu la frode commessa da
Laomedonte, che aveva promesso a Eracle i famosi cavalli di Troo, come ricompensa
per la liberazione della figlia Esione, ma poi non aveva mantenuto la promessa. In
che cosa consistesse “il premio più bello dell'armata”, assegnato a Telamone come
ricompensa del suo valore, lo spiega Teucro [parlando ad Agamennone] ai vv. 1299-
1303 “Sono figlio di Telamone, l'eroe che in guerra fu il primo per valore e per
16

questo ha come sposa una donna di stirpe reale, la figlia di Laomedonte, che è mia
madre: giela offerse il figlio di Alcmena, Eracle, come dono privilegiato”.
v. 439 – La formulazione οὐδ’ ἔργα μείω χειρὸς ἀρκέσας ἐμῆς lascia
qualche dubbio; vuol dire “dopo avere compiuto imprese del mio braccio non minori”
(sc. di quelle compiute da Telamone), ma il verbo ἀρκέω significa “respingere,
allontanare, proteggere”, oppure “bastare”, e quindi non sembra adeguato al contesto.
Vero è che ai vv. 589-590 Aiace dice a Tecmessa che lui non è in debito di alcun
servizio agli dèi e usa il verbo ἀρκεῖν nel senso di “compiere un servizio”. I due
passi, quindi, si sostengono a vicenda.

Sofocle, Aiace 589-590


ἄγαν γε λυπεῖς. οὐ κάτοισθ’ ἐγὼ θεοῖς
ὡς οὐδὲν ἀρκεῖν εἴμ’ ὀφειλέτης ἔτι;
Mi irriti. Non sai che ormai io
non sono debitore di alcun servizio agli dèi?

Al v. 446 c'è un dubbio testuale a proposito di ἔπραξαν. La formulazione αὔτ’


Ἀτρεῖδαι φωτὶ παντουργῷ φρένας ἔπραξαν dovrebbe significare “gli Atridi le
diedero / assegnarono a un uomo dal cuore disonesto”; però πράσσω non è attestato
con questo valore nella letteratura classica (c'è un esempio in Polibio IV 17, 12
τούτοις ἔπραττον τὴν πόλιν, e poi altri esempi in autori successivi). Di qui la
proposta di correggere ἔπραξαν in ἔπρασαν (da πέρνημι “vendere”); però
ἔπρασαν è una forma attestata solo nel greco tardo, e inoltre qui non c'entra molto
l'idea di “vendere”: l'accusa che Aiace rivolge agli Atridi non è di avere venduto, cioè
scambiato con denaro, le armi di Achille, ma di averle fatto oggetto di un accordo
poco pulito. Sabina Mazzoldi fa notare che in Tucidide ci sono esempi di πράσσω
τινί con il significato di “macchinare con qualcuno”, significato che – tutto sommato
– può anche essere esteso al passo dell'Aiace.
v. 449 – Finglass propone un confronto con Omero, Iliade I 231-232
δημοβόρος βασιλεὺς ἐπεὶ οὐτιδανοῖσιν ἀνάσσεις· ἦ γὰρ ἂν, Ἀτρεΐδη, νῦν
ὕστατα λωβήσαιο. “Un re che divora il suo popolo! Ma comandi su uomini da
nulla: se no, Atride, questa sarebbe la tua ultima insolenza!” Gli occhi stravolti sono
un tipico sintomo della pazzia (nei testi medici e poi anche in letteratura); l'aggettivo
διάστροφοι per definire gli occhi roteanti del pazzo torna in Euripide Eracle 868
καὶ διαστρόφους ἑλίσσει σῖγα γοργωποὺς κόρας “rotea in silenzio gli occhi
stravolti, minacciosi” (nella descrizione che Lyssa fa, dall'esterno, della pazzia di
Eracle; e poi il particolare dello sguardo stravolto torna anche nel racconto del
Messaggero). Atena ferma Aiace, che sta per colpire i suoi nemici, scagliandogli
contro la follia; nell'Eracle la situazione è ribaltata, perché quando l'eroe – travolto
dalla follia – sta per completare la strage dei suoi uccidendo anche Anfitrione, Atena
17

interviene colpendolo al petto con un masso e facendolo precipitare in un sonno


profondo.
v. 456 – Molto simile è la formulazione in Sofocle, Elettra 696-697 καὶ
ταῦτα μὲν τοιαῦθ’· ὅταν δέ τις θεῶν / βλάπτῃ, δύναιτ’ ἂν οὐδ’ ἂν ἰσχύων
φυγεῖν “Così sono andate le cose; ma quando un dio vuol fare del male, nessuno per
quanto forte gli può sfuggire” (parla il Pedagogo, che sta dando a Clitennestra la falsa
notizia della morte di Oreste a Delfi, durante la corsa dei carri). Il proposito che
Aiace per un attimo considera, e cioè il ritorno immediato in patria, ricorda le parole
di Achille nel IX canto dell'Iliade, quando l'eroe rispondendo alle proposte di Odisseo
dice che non rimarrà più a Troia a faticare per gli ingrati Atridi, ma l'indomani
metterà in mare le sue navi e in tre giorni farà ritorno a Ftia. Non ci sono
corrispondenze verbali tra i due passi, ma il contenuto è molto simile [Sofocle si
ispira all'Achille omerico per connotare il suo Aiace].
vv. 457-468 – Sabina Mazzoldi osserva che questo passo riprende e amplifica
il topos già presente nel kommòs (vv, 403-404), cioè la ricerca – e il rifiuto – delle
possibili vie di scampo. La prima opzione in campo, cioè il ritorno in patria, è
respinta perché contraria al codice eroico dell'aidòs: Aiace si vergognerebbe di
presentarsi a suo padre senza premi di vittoria, quindi senza gloria (così Ettore nel
XXII canto dell'Iliade, allontanando da sé la tentazione di evitare lo scontro con
Achille, va col pensiero a quello che potrebbero dire di lui i Troiani e le Troiane). Il
caso di Achille, nel IX dell'Iliade, è diverso: Achille è stato offeso da Agamennone,
quindi per lui il fatto stesso di rimanere a Troia, di esporsi agli sguardi degli Achei
dopo l'umiliazione che gli è stata inflitta, è motivo di vergogna; peraltro Achille
sottolinea le grandiose imprese da lui compiute nei lunghi anni di guerra (le molte
città conquistate e saccheggiate) e fa notare che partirà dalla Troade con le navi
cariche di bottino. Anche nell'Odissea il tema del bottino è “attivo”; in più occasioni
Odisseo teme di presentarsi a Itaca senza nulla tra le mani: per esempio in XI 358-
359 dice ad Alcinoo (che lo invita a restare e gli promette doni) che “sarebbe molto
meglio per lui non tornare in patria a mani vuote”, e nei “discorsi cretesi” insiste sullo
splendido bottino che Odisseo ha accumulato e che è custodito per lui a Efira. Aiace,
se tornasse a Salamina senza la corona della vittoria, si esporrebbe anche a un
confronto per lui penalizzante con il padre Telamone, che aveva espugnato Troia
insieme a Eracle: la “vergogna” sarebbe ancora più marcata. Nel pensiero
aristocratico arcaico è radicata infatti l'idea che un figlio non debba tralignare, non
debba essere inferiore a suo padre (e ai suoi antenati) e anzi se possibile lo superi. È
un'idea strettamente connessa con la concezione della continuità tra le generazioni: i
singoli individui passano e muoiono (come le foglie), ma il genos resta. La miglior
cosa che si possa augurare a un figlio è di “essere migliore di suo padre”: così fa
Ettore in Iliade VI 479 (“E un giorno dica qualcuno: è molto meglio del padre”) e
così fa anche Aiace nel secondo monologo, rivolgendosi al piccolo Eurisace (vv. 550-
551 “Io spero solo che tu sia più fortunato di tuo padre, figlio mio, ma per il resto che
tu sia come lui, e che non ti comporti da vile”). Anche nell'atletismo (che nel
sentimento aristocratico è pur sempre un campo di affermazione dell'areté: atleta e
18

guerriero son le due facce della stessa persona) il ritorno a casa dello sconfitto è
inglorioso e vergognoso: in Pindaro ricorre l'immagine dell'atleta sfortunato, che
sfugge gli sguardi di parenti e amici (come in Pitica VIII 85-87, dove a proposito
degli avversari di Aristomene, giovane lottatore egineta, si dice “Non ebbero un lieto
ritorno, e la madre non li accolse con un bel sorriso, ma camminavano rasente ai muri
nei vicoli, schivando gli amici”. I commentatori confrontano le parole di Aiace con
quelle di Edipo nell'Edipo re (vv. 1371-1373) “Se avessi la vista, non so con quali
occhi avrei potuto guardare, nell'Ade, mio padre e la mia sventurata madre”. È
singolare che Filottete, invece, desideri solo ritornare a casa sua e essere restituito a
suo padre Peante, al quale ha mandato molti messaggi, supplicandolo di venirlo a
prendere a Lemno: questo è il segno di quanto l'eroe sia prostrato, umiliato dalla
malattia e dalla sofferenza.
L'altra opzione è un attacco solitario alle mura di Troia, in cerca della “bella
morte” (Finglass propone un confronto con Iliade XXII 304-305, in cui Ettore, prima
dell'assalto finale ad Achille, dice “Che almeno non abbia a morire senza battermi,
ma compiendo qualcosa di grande, che si sappia anche in futuro”). Sofocle, forse,
allude a una tradizione – di cui abbiamo testimonianza da Cicerone Tusculane IV 23
– secondo la quale Aiace in preda a follia avrebbe attaccato i Troiani, finendo ucciso
da un freccia di Paride. Simile anche il racconto di Filostrato in Eroico 35, 12:
“Quando Aiace impazzì, i Troiani temettero, più del solito, che si lanciasse contro le
mura e le abbattesse; pregarono Poseidone e Apollo, giacché questi avevano prestato
la loro opera alla costruzione del muro, di difendere la rocca della città e di trattenere
Aiace nel caso riuscisse ad arrivare agli spalti”. Peraltro, in Iliade IX 48-49 Diomede
reagendo alle parole sfiduciate di Agamennone dice che, se anche gli altri Achei se ne
andranno, “allora solo noi due, Stenelo e io, combatteremo fino a trovare la fine di
Troia, perché siamo venuti con l'aiuto del dio”.
v. 464 – Sabina Mazzoldi osserva che γυμνὸν è molto forte: l'eroe omerico è
γυμνός (“nudo, inerme”) quando non è più in grado di combattere e di agire secondo
lo statuto eroico; quindi, quando è cadavere o è disarmato (“nudo” è Patroclo in
Iliade XVI 815, perché è stato disarmato da Apollo e si offre ai colpi di Euforbo e di
Ettore; “nudo” è detto ancora Patroclo da Antiloco in Iliade XVIII 21, perché il suo
cadavere è stato spogliato delle armi da Ettore); interessante il caso di Iliade XXII
124-125: Ettore dopo avere pensato per un attimo di togliersi le armi e di supplicare
Achille, capisce che sarebbe un gesto insensato, perché Achille subito lo
ammazzerebbe “nudo e indifeso come una donna”. Aiace che si presenta senza
vittoria e senza gloria a Telamone (e senza le armi di Achille, che gli sarebbero
spettate di diritto) non è diverso da un Ettore che si presenta senz'armi ad Achille: è
un comportamento femmineo, poco virile.
v. 472 ἄσπλαγχνος – L'aggettivo significa “senza viscere”, quindi per
metafora “senza coraggio, vile”. Le “viscere” (oltre ad essere la porzione più
prelibata della vittima sacrificale) sono sede degli affetti e delle emozioni; peraltro
qui si sta parlando della physis di Aiace, che deve dimostrare a Telamone di essere
davvero suo figlio, sua carne; quindi, ἄσπλαγχνος si carica di un valore molto
19

forte, assume un'evidenza espressiva persino cruda: Aiace deve far capire a tutti che
lui proviene dalle “viscere” di suo padre.
vv. 473-474 – La stessa idea contenuta in questi versi ritorna in un frammento
di Eschilo che potrebbe essere parte di una battuta pronunciata da Aiace: Hoplon
krisis fr. 177 Radt τί γὰρ καλὸν ζῆν βίοτον ὃς λύπας φέρει; (“Che vantaggio ci
può essere nel vivere una vita che porta solo dolori?”); Finglass propone un confronto
anche con Sofocle, fr. 952 Radt ὅστις γὰρ ἐν κακοῖσιν ἱμείρει βίου, ἢ δειλός
ἐστιν ἢ δυσάλγητος φρένας (“Infatti chi, pur trovandosi nei mali, è attaccato alla
vita, o è un vigliacco o ha un cuore insensibile”).
vv. 475-476 – È questo un passo difficile e controverso. Il senso generale è
chiaro, alla luce anche del contesto gnomico in cui questi versi sono inseriti: subito
prima si è detto che è ignobile voler vivere quando la vita non offre che mali, e subito
dopo si dice che non vale nulla un uomo che si nutre di vane speranze; quindi, in
questa gnome mediana Aiace vuol dire che il semplice aggiungere giorno a giorno ha
poco senso in sé, e può essere utile solo nella misura in cui avvicina alla morte (cioè
alla liberazione). Il testo però è problematico. L'interpretazione standard è che la vita,
intesa come successione di giorni, è un percorso che si conclude con la morte: la
morte è una sorta di linea a cui ogni singolo giorno può portare più vicini o da cui
può allontanare. Sul piano grammaticale il genitivo τοῦ γε κατθανεῖν sarebbe retto
da ἀναθεῖσα, mentre il participio προσθεῖσα si completerebbe con un sottinteso
dativo τῷ κατθανεῖν. Ci sono però difficoltà linguistiche (ἀνατίθημι nel senso di
“allontanare” non sembra attestato) e concettuali, perché il senso così ricostruito non
è perfettamente in linea con quanto si va dicendo prima e dopo. Sabina Mazzoldi
propone di intendere προσθεῖσα κἀναθεῖσα come due sinonimi (“offrendo e
aggiungendo”) e di accogliere la correzione di Blaydes πλὴν τοῦ κατθανεῖν
invece di τοῦ γε κατθανεῖν: “che gioia può offrire un giorno che si succede a un
altro giorno, che cosa può offrire o aggiungere se non la morte?”

τί γὰρ παρ’ ἦμαρ ἡμέρα τέρπειν ἔχει


προσθεῖσα κἀναθεῖσα τοῦ γε κατθανεῖν;
πλὴν τοῦ κατθανεῖν; Blaydes

vv. 479-480 – Finglass propone un confronto con vari passi tragici, in cui la
medesima gnome è riproposta, tra i quali Tr. Adesp. fr. 537 Nauck-Snell κατθανεῖν
γὰρ εὐκλεῶς ἢ ζῆν θέλοιμ' ἂν δυσκλεῶς.

Il discorso di Tecmessa risponde, ovviamente, alla rhesis di Aiace. Le sue parole


sono ricche di pathos, sono intese a suscitare emozioni, a non lasciare indifferente il
cuore dell'eroe. Tecmessa però usa anche argomenti, ed è molto abile nel non mettere
in discussione i valori cui si è richiamato Aiace, ma anzi nel far riferimento a sua
volta ad essi, solo con un ribaltamento di prospettiva. Ossia, mentre Aiace ha messo
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al centro se stesso, dentro una rete di rapporti d'onore che si proiettano


inevitabilmente su di lui, unico fuoco di ogni relazione, Tecmessa cerca di
accompagnare Aiace in una ricognizione di tutti coloro che si aspettano
legittimamente qualcosa da lui e che devono quindi essere, di volta in volta, oggetto
di attenzione. Aiace ha molto insistito sulla “competizione” per la gloria con il padre
Telamone: gli sarebbe impossibile – ha spiegato – presentarsi a Telamone, glorioso
eversore di Troia, in abito di sconfitto (“nudo”, cioè senza bottino e disarmato).
Tecmessa invece insiste sulla pietà filiale che deve legare Aiace al padre: l'eroe
dovrebbe vergognarsi ( αἴδεσαι, v. 506) di abbandonare il vecchio Telamone,
bisognoso d'aiuto, e la madre, che chiede agli dèi il ritorno a casa del figlio. Il
pensiero del padre “trascina” inevitabilmente quello del figlio, in virtù della
medesima norma di fedeltà ai valori del genos: il piccolo Eurisace si aspetta,
legittimamente, protezione e sostegno; la morte del padre lo esporrebbe a umiliazioni
e offese. Questo, che è il nucleo centrale della rhesis, è preceduto e seguito da due
sezioni in cui il discorso verte su Tecmessa stessa, alla quale pure Aiace è legato da
obblighi e doveri: c'è un legame affettivo, naturalmente, dal momento che Tecmessa
è la sua compagna e la madre di suo figlio; ma la donna è anche una “conquista della
lancia”, è parte del bottino di guerra che Aiace si è guadagnato con la forza del
braccio [è il suo geras, come Briseide è per Achille: nel IX canto, rispondendo a
Odisseo, Achille ricorda che i “premi scelti” dati da Agamennone agli altri principi
rimangono in loro possesso, mentre a lui Agamennone ha tolto la “amata compagna”,
ἄλοχον θυμερέα, quella compagna che gli era carissima benché fosse una
“conquista della lancia”, ὡς καὶ ἐγὼ τὴν ἐκ θυμοῦ φίλεον δουρικτητήν περ
ἐοῦσαν]: dunque, sarebbe doppiamente vergognoso per lui lasciare che Tecmessa
finisca schiava di altri. Con molta abilità, Tecmessa nel finale della rhesis ricorda la
“dolcezza” che Aiace ha avuto da lei (ἀνδρί τοι χρεὼν μνήμην προσεῖναι,
τερπνὸν εἴ τί που πάθοι, vv. 521-522) e che deve contraccambiare: anche questo
punto, oltre a richiamare la relazione amorosa tra i due, tocca il tema dell'areté
aristocratica, perché il contraccambio (amoibé) – cioè il rendere bene per bene e male
per male – è un principio fondamentale della Weltanschauung arcaica. I
commentatori fanno notare che l'intero discorso di Tecmessa è giocato su
reminiscenze omeriche: ci sono molti punti di contatto (e anche vere e proprie
“citazioni”) con l'episodio di Ettore e Andromaca nel VI canto dell'Iliade. Peraltro
Sofocle è molto abile nell'evocare il modello omerico e prendere le distanze da esso,
in modo tale che il gioco di scarto evidenzi l'originalità della sua creazione. Come
nota Sabina Mazzoldi, non si deve confondere la moglie con la concubina, Ettore che
combatte per la difesa della patria, con Aiace che ha attentato alla vita dei compagni,
il desiderio di battersi fino alla morte per non venire meno alle attese dei concittadini
con la decisione di uccidersi per sottrarsi al disonore. Se ci si tiene all'imitatio
omerica, si deve considerare un altro punto: la homilìa del VI canto è il modello
conclamato (e ostentato), ma anche il IX canto è “attivo”, poiché la coppia Aiace –
Tecmessa. Trova il suo omologo più vicino nella la coppia Achille – Briseide.
21

vv. 485-486 – L'incipit è nel segno della mutevolezza della sorte, tema
ricorrente nella poesia sapienziale arcaica, e nella tragedia. Tecmessa cita l'exemplum
della sua vicenda personale, nella speranza che la contingenza dell'esempio possa
colpire Aiace, che il discorso, quindi, sia intonato con efficacia. Anche Deianira, nei
versi iniziali delle Trachinie, fa riferimento alla sua stessa vita per dimostrare una
gnome (gli uomini non conoscono il futuro, lei invece sa che il suo futuro sarà, in
ogni caso, doloroso). Per la formula “ero libera, e ora sono schiava, perché così ha
voluto la tyche” [formula incipitaria utile come captatio benevolentiae] Finglass cita
l'esempio di Achille Tazio V 17, 3 “Ἐλέησόν με,” ἔφη, “δέσποινα, γυνὴ
γυναῖκα, ἐλευθέραν μέν, ὡς ἔφυν, δούλην δὲ νῦν, ὡς δοκεῖ τῇ Τύχῃ·” καὶ
ἅμα ἐσιώπησε (Leucippe, che è ora ridotta in condizione di schiavitù, e lavora
come schiava nel podere di Melite, si rivolge così a Melite stessa); l'esempio è solo
uno dei molti che si potrebbero fare, ma è interessante, perché introduce il tema della
conoscenza dei tragici da parte dei romanzieri.
v. 490 – Il termine λέχος designa il letto nuziale e quindi viene di solito usato
per definire la relazione tra marito e moglie (in tutte le implicazioni: sessuale,
affettiva, sociale); ma può riferirsi anche al rapporto di concubinato (cfr. Iliade I 31
ἐμὸν λέχος ἀντιόωσαν, dice Agamennone di Criseide). Tecmessa gioca
sull'ambiguità del termine: lei è una schiava, una preda di guerra, una “compagna di
letto”; ma ha dato un figlio ad Aiace e tra loro si è instaurato un rapporto di affetto e
di familiarità che la avvicina a una moglie legittima. Anche al v. 492 l'invocazione a
Zeus “custode del focolare” fa intendere che Tecmessa considera ormai se stessa
come un membro della famiglia.

vv. 500-504 – Qui è applicato il modulo della “tij-Rede”, che è tipicamente


omerico (ed epico): un pensiero o un commento è attribuito a un imprecisato tij,
all’interno di un gruppo più ristretto o di una moltitudine, e le sue parole interpretano
il sentimento comune; chiunque altro potrebbe dire le stesse cose. Il modulo è
efficace, perché dà voce alla massa. Un esempio (non in Omero, ma in un imitatore di
Omero) è nel poemetto Ero e Leandro di Museo, ai vv. 73-85, in cui uno dei giovani
che affollano il tempio di Afrodite esprime l'ammirazione che tutti provano per la
bellissima Ero:

Museo, Ero e Leandro 73-85


Un ragazzo, ammirato, parlò in questo modo:
“Anche a Sparta sono stato, la città dove le donne,
dicono, fanno gare di bellezza: ma non ho mai visto
una fanciulla così splendida e flessuosa.
È una delle Grazie, compagne di Afrodite.
La guardo e la riguardo, senza saziare gli occhi:
ah, salire sul letto di Ero, e poi morire!
Se avessi Ero come compagna, in casa mia,
non vorrei poi essere un dio nell’Olimpo.
Se non mi è concesso toccare la tua sacerdotessa,
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Afrodite, dammi una moglie che le assomigli”.


Così diceva uno dei giovani; ma tutti smaniavano
di Ero, pur dissimulando ciascuno la ferita.

Nel nostro caso, l'imitatio omerica è particolarmente forte perché fa evidente


riferimento ai versi famosi del VI dell’Iliade in cui Ettore, appunto utilizzando una
tij-Rede, evoca il quadro di Andromaca ridotta in schiavitù:

Omero, Iliade VI 456-465


Allora, vivendo in Argo, dovrai per altra tessere tela,
e portar acqua di Messeìde o Iperéa,
costretta a tutto: grave destino sarà su di te.
E dirà qualcuno che ti vedrà lacrimosa:
“Ecco la sposa d’Ettore, ch’era il più forte a combattere
fra i Troiani domatori di cavalli, quando lottavano per Ilio!”
Così dirà allora qualcuno; sarà strazio nuovo per te,
priva dell’uomo che schiavo giorno avrebbe potuto tenerti lontano.
Morto, però, m’imprigioni la terra su me riversata,
prima ch’io le tue grida, il tuo rapimento conosca!

Sofocle, scopertamente, omerizza. Ma le due situazioni (i due “quadri”, si potrebbe


dire, che Ettore e Tecmessa dipingono, immaginando un futuro non troppo lontano)
presentano una differenza decisiva: in Omero è Ettore a usare la tij-Rede per
manifestare la sua preoccupata tenerezza, mentre in Sofocle Tecmessa ricorre allo
stesso artificio per cercare di scalfire l'indifferenza di Aiace. Ettore e Andromaca si
corrispondono profondamente: condividono lo stesso codice di valori, condividono la
stessa sfera di affetti; Tecmessa e Aiace “parlano” la lingua dei due personaggi
omerici, ma non riescono a comunicare veramente, perché Aiace è impermeabile a
ogni approccio esterno.
v. 503 – Finglass propone un confronto con Trachinie 284 ἐξ ὀλβίων ἄζηλον
εὑροῦσαι βίον (Lica presenta a Deianira le prigioniere di Ecalia, divenute schiave
da ricche che erano, figlie di padri potenti): in entrambi i passi viene evocato lo
spettacolo di donne prima invidiate e ora umiliate.
vv. 505 – Tecmessa lancia il tema della vergogna: lo spettacolo di lei e di
Eurisace schiavi sarà una vergogna per Aiace e per il suo genos. Ma anche
l'abbandono del padre e della madre sarà per lui motivo di disonore: Tecmessa si
riferisce qui all'idea della γηροβοσκία, cioè all'obbligo che i figli hanno di
provvedere ai genitori invecchiati, pagando il debito contratto nei primi anni di vita. I
commentatori fanno notare che anche nell'evocazione dei due anziani genitori
(Telamone ed Eribea) affiorano suggestioni omeriche: del XXIV canto dell'Iliade, in
cui Priamo per commuovere il cuore di Achille gli ricorda il vecchio Peleo (vv. 485-
492), dell'XI canto dell'Odissea, in cui l'ombra di Anticlea spiega a Odisseo quanto
sia penosa la condizione di Laerte, che e ne sta in campagna, in compagnia dei servi,
vivendo miseramente (vv. 187-196).
23

Iliade XXIV 485-492


Priamo, in atto di supplice, gli rivolse questo discorso:
“Ricordati del padre tuo, Achille pari agli dèi,
come me avanti negli anni, sulla soglia triste di vecchiaia:
forse anche a lui danno guai i popoli intorno
accerchiandolo, e non c'è nessuno a proteggerlo dalla rovina.
Eppure tuo padre, sapendo che tu sei vivo,
gioisce nell'animo suo, e spera di giorno in giorno
di vedere suo figlio tornare da Troia”

Odissea XI 187-196
Nei campi rimane tuo padre,
e non scende in città: non ha coperte
né variopinti tappeti per il suo letto;
dorme, d'inverno, dove stanno gli schiavi,
nella cenere vicino al fuoco, coperto da misere vesti;
quando invece viene l'estate, e poi l'autunno fecondo,
allora nella sua vigna, sul colle, dovunque
vi sono per terra giacigli di foglie cadute,
lì egli giace e soffre, e mentre piange la tua sorte
il dolore gli cresce nel petto; è vecchio ormai.

Peraltro nel XXIII dell'Iliade c'è una scena in cui i due anziani genitori di Ettore,
Priamo ed Ecuba, supplicano il figlio di avere pietà e rispetto per la loro canizie
(τάδε τ' αἴδεο καί μ' ἐλέησον, dice Ecuba al v. 82), e non affrontare in duello
Achille; ma Ettore non si lascia piegare, perché il sentimento di vergogna (αἰδέομαι
Τρῶας καὶ Τρῳάδας ἑλκεσιπέπλους, v. 105) che prova nei confronti dei suoi
concittadini è più forte del “rispetto pietoso” verso i genitori. La preghiera di
Tecmessa gioca sugli stessi sentimenti: ma, naturalmente, la determinazione suicida
di Aiace è ben diversa dalla determinazione guerriera di Ettore. Finglass fa notare che
nella sua replica Aiace non nega di avere un dovere di γηροβοσκία verso suo padre
e sua madre, ma assicura che sarà Eurisace ad assumerlo su di sé, quando sarà tornato
a Salamina e sarà cresciuto in età (vv. 568-571).
vv. 510-513 – Qui il termine di confronto è con il threnos che Andromaca
pronuncia quando vede il corpo di Ettore trascinato dal carro di Achille: dopo avere
compianto se stessa e la sua cattiva stella, la donna si preoccupa del bimbo ancora
piccolo, che avrà una vita difficile, ben diversa da quella che avrebbe avuto se avesse
potuto crescere sotto la protezione del padre. Anche Tecmessa è convinta che un
orfano sia svantaggiato rispetto a un bambino che può contare sulla presenza del
padre. Ad Atene, peraltro, era in vigore una legislazione che aveva come scopo
proprio la salvaguardia dei diritti dei minori rimasti orfani di padre [cosa che doveva
capitare con una certa frequenza: si è calcolato che il 40% degli Ateniesi maschi
24

restavano orfani di padre prima di avere raggiunto la maggiore età; dal punto di vista
legale, solo la morte del padre “contava” per definire lo statuto di orfano, dal
momento che la madre non aveva giurisdizione sui figli; la parola greca orphanòs è
normalmente tradotta con l’equivalente moderno “orfano”, ma sarebbe più corretto
dire “senza padre, orfano di padre”]. In molti casi, capitava che ci fosse un fratello
maschio già in età adulta, e allora toccava a lui il compito di fare da tutore per i
fratelli più piccoli. Se no, bisognava procedere alla nomina di un epitropos (o di più
epitropoi). Vi provvedeva l’arconte eponimo, seguendo procedure previste dal codice
civile.

Iliade XXII 487-505


Se sfuggirà alla guerra lacrimosa degli Achei,
per lui sempre affanno, sempre strazio in futuro
sarà: altri gli prenderanno i campi.
Il giorno che lo fa orfano, priva il bambino d’amici:
davanti a tutti abbassa la testa, sono lacrimose le guance;
nel suo bisogno il fanciullo cerca gli amici del padre,
tira uno per il mantello, per la tunica un altro:
fra quanti provano pietà, qualcuno gli offre un istante
la tazza, e gli bagna le labbra, non gli bagna il palato.
Ma chi ha padre e madre lo caccia dal banchetto,
picchiandolo con le mani, con ingiurie insultandolo:
“Via di qua! Non banchetta il tuo padre con noi!”
Torna in pianto il bambino alla vedova madre,
Astianatte, che prima sulle ginocchia del babbo
mangiava solo primizie e scelti bocconi:
e quando prendeva sonno e smetteva i suoi giochi,
dormiva nel letto, cullato dalla nutrice,
in una morbida cuna, col cuore pieno di gioia:
e ora soffrirà, e quanto!, perduto il padre caro.

vv. 514-519 – La menzione del figlio, che la morte di Aiace lascerebbe orfano
ed esposto a ogni sopruso o offesa, permette a Tecmessa di tornare a parlare di sé
(Ringkomposition), poiché lei stessa è nella medesima situazione: anche per lei Aiace
è il solo sostegno; ed è anche il solo affetto, dal momento che tutta la sua famiglia è
distrutta. In questo passaggio il modello iliadico è fortissimo: Andromaca, all'inizio
del suo discorso, ricorda a Ettore che la sua città, Tebe Ipoplacia, e l'intero suo clan
familiare sono stati spazzati via da Achille; il marito riassume dunque per lei tutti gli
affetti. Lo stesso vale per Tecmessa ed Aiace, con la differenza che il distruttore della
patria di Tecmessa è Aiace stesso. Non abbiamo testimonianze letterarie arcaiche su
questa versione del mito, secondo la quale Aiace avrebbe distrutto la patria di
Tecmessa; Ditti Cretese (IV secolo d.C.) attribuisce ad Aiace l'uccisione del padre di
Tecmessa.
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Iliade VI 407-432
Misero, il tuo coraggio t’ucciderà, tu non hai compassione
del figlio così piccino, di me sciagurata, che vedova presto
sarò, presto t’uccideranno gli Achei,
balzandoti contro tutti: oh, meglio per me
scendere sotto terra, priva di te; perché nessun’altra
dolcezza, se tu soccombi al destino, avrò mai,
solo dolori! il padre non l’ho, non ho la nobile madre.
Il padre mio Achille glorioso l’ha ucciso,
e la città ben fatta dei Cilici ha atterrato,
Tebe alte porte; egli uccise Eezione,
ma non lo spogliò, ché n’ebbe paura in cuore;
e lo fece bruciare con le sue armi belle,
e gli versò la terra del tumulo sopra; piantarono olmi intorno
le ninfe montane, figlie di Zeus egioco.
Erano sette i miei fratelli dentro il palazzo:
ed essi tutti in un giorno scesero all’Ade di freccia,
tutti li uccise Achille glorioso rapido piede,
accanto ai buoi gambe storte, alle pecore candide.
La madre - che regnava sotto il Placo selvoso -
poi che qui la condusse con tutte le ricchezze,
la liberò, accettando infinito riscatto,
ma là in casa del padre, la colpì Artemide arciera.
Ettore, tu sei per me padre e nobile madre
e fratello, tu sei il mio sposo fiorente;
ah, dunque, abbi pietà, rimani qui sulla torre,
non fare orfano il figlio, vedova la sposa.

vv. 520-524 – La perorazione finale è affidata al tema della riconoscenza:


Aiace dovrebbe ricordarsi della “dolcezza” (τερπνόν) che Tecmessa gli ha dato [la
connotazione sessuale è chiara: cfr. Iliade IX 336-337 ἔχει δ' ἄλοχον θυμαρέα·
τῇ παριαύων τερπέσθω (“se la goda pure”, dice Achille parlando di Agamennone
che si è preso Briseide)]. Tecmessa, anche in questo passaggio, è molto abile nel
ribaltare la prospettiva di Aiace: l'eroe si ritiene vittima della poca riconoscenza degli
Achei, che non hanno ricompensato il grande aiuto da lui sempre fornito, non hanno
quindi contraccambiato charis con charis [cfr. Iliade IX 316-317, dove Achille dice
οὐκ ἄρα τις χάρις ἦεν μάρνασθαι δηΐοισιν ἐπ' ἀνδράσι νωλεμὲς αἰεί].
L'idea che un uomo debba mostrare gratitudine alla donna che gli si è concessa, è
espressa anche da Ecuba nell'Ecuba di Euripide: Agamennone si è preso come
concubina Cassandra e passa le notti con lei; quale charis le verrà da questi abbracci?
(τῶν ἐν εὐνῇ φιλτάτων ἀσπασμάτων χάριν τίν' ἕξει παῖς ἐμή;)

Euripide, Ecuba 826-830


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Al tuo fianco dorme mia figlia,


la profetessa, quella che i Frigi chiamano Cassandra.
In che considerazione terrai le notti d'amore,
signore? O che favore trarrà mia figlia dai dolcissimi
abbracci nel letto, e quale vantaggio io da mia figlia?

La risposta di Aiace a Tecmessa (ossia il secondo monologo) è preceduta da una


sticomitia e seguita da una sticomitia che si trasforma in antilabé. È questo uno
stilema tipicamente tragico, che conosce un’evoluzione nel corso del V secolo [ne
tratta Massimo Di Marco nel suo manuale La tragedia greca. Forma, gioco scenico,
tecniche drammatiche, II ediz., Roma (Carocci) 2009, pp. 237-255]. In Eschilo la
sticomitia è ancora piuttosto rigida, soprattutto nei drammi più antichi (Persiani, Sette
a Tebe): è un blocco di versi non integrato con la sequenza scenica che lo contiene;
l’uso si fa però progressivamente più scaltrito, e nell’Orestea il poeta dà prova di una
raggiunta maestria. Esemplare è la scena delle Coefore che culmina con il matricidio
di Oreste (vv. 875-930). Il ritmo è concitato: il Servo di Clitennestra entra ad
avvertire la regina del pericolo, Clitennestra si fa incontro a Oreste per tentare di
dissuaderlo e mostra al figlio il seno che lo ha allattato; Pilade ricorda ad Oreste gli
oracoli di Apollo, irrevocabili; Oreste accetta l’esortazione di Pilade e comunica a sua
madre il verdetto di condanna. A questo punto si inserisce la sticomitia (vv. 908-930),
chiusa da una battuta distica di Oreste che è una sorta di suggello oracolare:

Eschilo, Coefore 908-930


CLITENNESTRA Io ti allevai e con te voglio invecchiare.
ORESTE Vorresti vivere con me nella mia stessa casa, dopo aver ucciso mio padre?
CLITENNESTRA La Moira, o figlio, fu corresponsabile di questi fatti.
ORESTE Anche questa morte, dunque, l’ha stabilita la Moira.
CLITENNESTRA Non hai alcuno scrupolo delle maledizioni di tua madre, o figlio?
ORESTE No. Eri mia madre, e mi hai cacciato nella sventura.
CLITENNESTRA No, non ti ho cacciato via: ti ho mandato in casa di un ospite.
ORESTE Fui venduto indegnamente, io che avevo un padre libero.
CLITENNESTRA Dov’è allora il prezzo che ne ebbi in cambio?
ORESTE Ho vergogna a rinfacciartelo chiaramente.
CLITENNESTRA Ed invece di’ anche le follie di tuo padre.
ORESTE Non accusare chi sopportava le fatiche della guerra, mentre tu te ne stavi seduta
nella reggia.
CLITENNESTRA È doloroso per le mogli essere separate dal marito, o figlio.
ORESTE Ma la fatica dell’uomo nutre le donne che restano sedute in casa.
CLITENNESTRA È chiaro, figlio: vuoi uccidere tua madre.
ORESTE Sarai tu ad uccidere te stessa, non io.
CLITENNESTRA Bada, guardati dalle cagne rabbiose di tua madre.
ORESTE E a quelle di mio padre come potrei sfuggire, se non compio questa azione?
CLITENNESTRA Sembra che, ancor viva, io pianga invano sulla mia tomba.
ORESTE La sorte di mio padre fissa per te questa morte.
CLITENNESTRA Ohimè, questa serpe ho generato e allevato io stessa!
ORESTE Buon profeta era il terrore che nasceva dai sogni. Uccidesti chi non dovevi: ciò che
non dovresti ora patisci.
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Sofocle è un assoluto maestro nell’uso della sticomitia, che corrisponde bene a una
drammaturgia interessata a mettere in evidenza l’ethos dei personaggi, anche
attraverso forti polarizzazioni. In Sofocle la sticomitia si libera della severa e rigida
simmetria che è tipica di Eschilo, e si adatta con maggiore libertà allo sviluppo
dell’intreccio e della sceneggiatura. Per esempio, il ritmo monostico può essere
interrotto da battute distiche o tristiche, per rimarcare i passaggi salienti o le cerniere
dialettiche. Sofocle introduce poi l’antilabé (cioè la spezzatura del verso in due
battute) e la sticomitia a tre. Euripide segna, rispetto a Sofocle, un ritorno alla
tradizione: nei suoi drammi lo schema monostico è di gran lunga prevalente. Anche
nelle ultime tragedie la scelta va quasi sempre a una monosticomitia di tipo “severo”
(pure nei casi in cui il metro non è il trimetro giambico, ma il tetrametro trocaico).
Bisogna comunque distinguere tra i drammi in cui i personaggi agiscono isolatamente
e tra essi vi è solo scontro (per esempio Medea, Ippolito, Ecuba) e quelli costruiti
sull’intreccio e sull’intrigo (Ione, Ifigenia in Tauride, Elena). Nel primo caso la
dimensione espressiva prevalente è quella della rhesis, e la sticomitia è usata, oltre
che per brevi scene d’annunzio o di informazione, come elemento di articolazione
degli agoni dialettici. Nei “drammi d’intrigo” la sticomitia ha un uso più largo e più
incisivo: connota le scene di riconoscimento o le scene di inganno. Tipico di Euripide
è poi l’uso per così dire “comico” della sticomitia (già nell’Alcesti, nel dialogo
prologico tra Apollo e Thanatos e nelle scene in cui compare Eracle, o negli Eraclidi,
nella scena tra Iolao che va in battaglia e il Servo), particolarmente accentuato nei
drammi dell’ultima fase.

Il dialogo tra Aiace e Tecmessa serve a introdurre (e giustificare) l'arrivo di Eurisace


e quindi il discorso di Aiace al figlio, che di fatto è un monologo dal momento che il
bimbo non è in grado di parlare. Un'altra sua funzione è ribadire l'atteggiamento
chiuso di Aiace: l'eroe sembra non avere neppure sentito l'appassionata rhesis della
sua donna, le si rivolge con durezza, persino con asprezza, mettendo bene in chiaro
che da lei si attende solo pronta obbedienza. Il dialogo “copre” l'arrivo in scena di
Eurisace, che entra – accompagnato da un servitore – dal passaggio che dà verso il
campo (non arriva dall'interno della tenda, perché Tecmessa spiega di averlo mandato
via, per allontanarlo dal padre). L'ingresso di Eurisace non è immediato, e questo
ritardo suscita l'impazienza di Aiace, che se ne lamenta. La reazione dell'eroe è
coerente con il suo carattere brusco, e con lo stato di tensione in cui si trova; quindi, è
un tratto realistico, di caratterizzazione psicologica. Ma l'impazienza ha anche una
funzione tecnica, è funzionale al gioco scenico. Nella drammaturgia greca l'ingresso
dei nuovi personaggi è sempre “controllato” da chi è già sulla scena, che si assume il
compito di presentare al pubblico i nuovi venuti. Di Benedetto spiega che questo
procedimento è anche in rapporto con la configurazione del teatro greco: le parodoi
erano ampie, e visibili agli spettatori, quindi chi arrivava ci metteva del tempo per
entrare in scena, e questo intervallo doveva essere “coperto”. Molto vivace, per
esempio, è l'entrata di Ismene nell'Edipo a Colono. Antigone, che è nell'orchestra,
avvista la sorella quando questa si trova ancora al di là della parodos; dopo un moto
di sorpresa, dice al padre di avere avvistato una donna che cavalca una puledra
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dell'Etna, con la testa coperta da un copricapo di foggia tessalica; ha l'impressione


che si tratti di Ismene – dice – ma non ne è certa. Quando però Antigone vede la
donna farle cenni di saluto (dei quali informa Edipo) l'incertezza si dissolve; a questo
punto Ismene sta entrando nell'orchestra attraverso la parodos e diventa “attiva”.
v. 534 – Con amara ironia Aiace osserva che l'uccisione del figlio sarebbe stato
il degno coronamento del suo destino. La tragedia conosce casi simili: Agave, in
preda al furore bacchico, scambia suo figlio Penteo per un leone e lo fa a pezzi; ma la
vicenda che più si avvicina al mito di Aiace è quella di Eracle: travolto da un attacco
di folli, Eracle scambia i suoi figlioletti per i figli dell'odiato Euristeo e li massacra.
La strage dei figli è narrata da un Messo, il cui racconto è ricco di particolari orridi.

La seconda rhesis di Aiace contiene le “disposizioni testamentarie” dell'eroe. Mentre


il primo monologo è totalmente autoreferenziale, poiché Aiace parla solo di sé e di
ciò che gli è capitato e di quanto gli rimane da fare, in questo altro discorso l'eroe si
rivolge a vari interlocutori, chiamandoli in causa con esplicite formule di apostrofe.
La prima parte è un saluto al piccolo Eurisace, che sta vivendo gli anni migliori
dell'esistenza, quelli dell'inconsapevolezza e dell'innocenza [in questo commento (“la
vita è bella quando si è troppo piccoli per capirla”) affiora di nuovo l'amarezza: Aiace
è profondamente deluso per il fallimento della sua carriera eroica], ma in futuro dovrà
affrontare le inevitabili lotte che attendono ogni uomo, e sarà chiamato a dimostrare
la nobiltà del suo sangue. Aiace affida il bimbo al fratello Teucro, che è per lui in
questi momenti l'unico punto di riferimento certo: Teucro dovrà allevare Eurisace e
poi portarlo a Salamina, perché sia Eurisace a provvedere a Telamone e Eribea nella
loro vecchiaia. Teucro, che è lontano, impegnato in una spedizione di guerra, non è
apostrofato direttamente; diretto invece è l'appello ai coreuti, ai quali Aiace chiede di
riferire a Teucro le sue volontà. Poi l'eroe dà disposizioni riguardo alle sua armi, che
non dovranno essere messe in palio tra gli Achei, ma sepolte con lui; lo scudo
toccherà invece a Eurisace, al quale Aiace di nuovo si rivolge con un'apostrofe
diretta. Le ultime parole sono rivolte a Tecmessa, alla quale l'eroe comanda – con una
certa bruschezza, e con un tono imperioso anticipato già nella battuta dei vv. 527-528
– di rientrare nella tenda con il piccolo e di chiudere la porta, troncando lamenti e
pianti.
Le parole pronunciate da Aiace dimostrano che il suicidio è per lui un punto
fermo, una decisione definitiva e senza ritorno. L'eroe fa di Teucro il suo esecutore
testamentario e incarica i marinai di Salamina di fare da tramiti, poiché –
evidentemente – al ritorno di Teucro lui sarà ormai morto. Tecmessa non è riuscita a
fare breccia nel cuore del suo uomo: gli ha ricordato i familiari, e Aiace nella risposta
li enumera uno per uno, ma solo per tracciare il profilo della loro situazione dopo la
sua morte. Il monologo gira attorno a un punto centrale, in cui si esprime il
messaggio per i presenti: Aiace non può più fare nulla per nessuno, le sue
responsabilità verso gli altri sono venute meno; ne è rimasta una sola, verso se stesso,
e consiste nel darsi la morte, per restituirsi a quella condizione di incoscienza e
insensibilità in cui versa Eurisace. La lode della felice incoscienza del bimbo suona
sinistra; ma male auguranti si rivelano anche le parole con cui in precedenza
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Tecmessa (vv. 271-277) ha spiegato ai coreuti che il risveglio dalla follia è per Aiace
doloroso, mentre nell'ottundimento della mente si incontra una certa felicità.
vv. 545-559 – Il discorso di Aiace al figlio è modellato su quello di Ettore ad
Astianatte. Anche qui c'è una palese imitazione omerica: Aiace parla a Eurisace in
presenza di Tecmessa, quindi si riproduce il “quadretto” familiare della scena
iliadica, e anche Aiace prega che il figlio possa crescere e seguire il suo esempio. Ma
il gioco di scarti interviene in misura massiccia, e il pubblico è ben consapevole di
come la situazione – proprio perché ostentatamente sovrapposta a quella omerica che
fa da modello – se ne distacchi in modo netto. Come Ettore è affettuoso e dolce,
pronto ad adattarsi ai sentimenti del bimbo, così Aiace si mostra severo con Eurisace,
al quale “detta” comportamenti e emozioni: il piccolo è “filtrato” – da un punto di
vista scenico – attraverso la prospettiva paterna, che è l'unica a lasciare traccia nel
testo teatrale (quali siano le vere reazioni di Eurisace, che cosa faccia, come gestisca,
non viene né detto né suggerito). Se Astianatte ha paura dell'elmo di Ettore e si gira di
scatto, provocando la reazione intenerita dell'eroe, Eurisace “deve” – lo dice il padre!
– sopportare con coraggio la vista del sangue [subito dopo, peraltro, Aiace decide
che il figlio è troppo piccolo per capire il bene e il male, la gioia e il dolore, e questa
attribuzione di inconsapevolezza gli dà agio di gestire a suo piacimento il futuro del
bimbo, percepito come un'entità neutra]. Ettore sente Astianatte come figlio suo e di
Andromaca, e nell'atteggiamento che assume (sul piano affettivo e mentale) davanti
al bimbo tiene conto della presenza materna: nella preghiera si augura che lo
spettacolo di Astianatte vittorioso possa dare gioia alla madre (oltre che appagare le
attese paterne), e dopo la preghiera consegna il bimbo ad Andromaca. Aiace non
rende Tecmessa partecipe del rapporto che lo lega al figlio; il ruolo di madre, in
buona sostanza, si riduce al compito di “trasportatrice”: Tecmessa è colei che porta
Eurisace al padre, quando questi lo vuole, e che poi lo conduce via, ancora a
comando.

Iliade VI 466-483
E dicendo così, tese al figlio le braccia Ettore illustre:
ma indietro il bambino, sul petto della balia bella cintura
si piegò con un grido, atterrito all’aspetto del padre,
spaventato dal bronzo e dal cimiero chiomato,
che vedeva ondeggiare terribile in cima all’elmo.
Sorrise il caro padre, e la nobile madre,
e subito Ettore illustre si tolse l’elmo di testa,
e lo posò scintillante per terra;
e poi baciò il caro figlio, lo sollevò fra le braccia,
e disse, supplicando a Zeus e agli altri numi:
“Zeus, e voi numi tutti, fate che cresca questo
mio figlio, così come io sono, distinto fra i Teucri,
così gagliardo di forze, e regni su Ilio sovrano;
e un giorno dica qualcuno: 'È molto più forte del padre!',
quando verrà dalla lotta. Porti egli le spoglie cruente
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del nemico abbattuto, goda in cuore la madre!”


Dopo che disse così, mise in braccio alla sposa
il figlio suo.

vv. 548-549 – Il processo di crescita di Eurisace è definita dal verbo


πωλοδαμνεῖν, che significa “addestrare, ammaestrare” ma etimologicamente allude
alla doma dei cavalli; quindi, Aiace si rappresenta l'educazione del figlio come una
“doma”, caratterizzata da una “cruda” disciplina e intesa a far emergere la vera
“natura” del bimbo. L'eroe insiste sul fatto che Eurisace debba diventare “simile” a
lui (l'aggettivo ὁμοῖος di v. 551 è già contenuto in ἐξομοιοῦσθαι di v. 549), e
questo è significativo, perché fa capire come l'eroe consideri il figlio una sorta di
prolungamento biologico. I commentatori osservano che la tradizionale opposizione
nomos – physis scompare agli occhi di Aiace: se Eurisace è nato da lui, cioè è suo per
physis, non potrà che assomigliargli nei comportamenti; e viceversa se rivelerà gli
stessi “modi” del padre, questa sarà la prova della sua naturale appartenenza a lui.

vv. 550-551 – Ettore chiede a Zeus che Astianatte possa essere salutato come
un guerriero più forte del padre; Aiace, che pure è (o è stato) in competizione con suo
padre Telamone e ha sperato di ottenere una gloria più grande, si limita a pregare che
Eurisace possa essere in tutto simile a lui, anche se più fortunato. La differenza tra le
due formulazioni è molto significativa. I due passi, quello omerico e quello sofocleo,
sono oggetto di “imitazione combinata” da parte di Caritone, che mette in bocca a
Calliroe una preghiera nella quale al bimbo è augurata sia una fortuna migliore
(Aiace) sia una gloria maggiore (Ettore). Caritone, con molta abilità, fa dialogare i
suoi due ipotesti: Il figlio di Calliroe non morirà (come invece è il destino di
Astianatte), e però sarà allevato da Dionisio, quindi crescerà lontano dal padre (come
è destino che avvenga per Eurisace).

Caritone III 8, 8
δὸς δή μοι γενέσθαι τὸν υἱὸν εὐτυχέστερον μὲν τῶν γονέων, ὅμοιον δὲ τῷ
πάππῳ· πλεύσειε δὲ καὶ οὗτος ἐπὶ τριήρους στρατηγικῆς, καί τις εἴποι,
ναυμαχοῦντος αὐτοῦ, “κρείττων Ἑρμοκράτους ὁ ἔκγονος”. Concedi che mio
figlio sia più fortunato dei suoi genitori, ma simile al nonno; e anche lui navighi sulla
trireme ammiraglia, e qualcuno dica, dopo una sua battaglia navale “il nipote è
migliore di Ermocrate”.

vv. 552-554 – L'idea che, soprattutto nelle situazioni dolorose, lo stato di


incoscienza sia un vantaggio, perché consente di ignorare la sofferenza, è radicata nel
pensiero tragico: i commentatori citano, come possibile termine di confronto, il fr.
205 Ka di Euripide φρονῶ δ' ἃ πάσχω, καὶ τόδ' οὐ σμικρὸν κακόν· τὸ μὴ
εἰδέναι γὰρ ἡδονὴν ἔχει τινά νοσοῦντι, κέρδος δ' ἐν κακοῖς ἀγνωσία
(“capisco ciò che soffro, è questo è un male non piccolo; infatti il non sapere procura
un certo piacere al malato, e nelle disgrazie l'ignoranza è un guadagno”). Di questo
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privilegio sono partecipi i giovani (e ancor più i giovanissimi): se ne occupa già la


poesia arcaica, come appare dal fr. 2 di Mimnermo e dal “Lamento di Danae” (= fr.
271 Poltera) di Simonide.

Mimnermo, fr. 2, 1-5


E noi, come le foglie genera la stagione fiorita
di primavera, quando presto si scalda ai raggi del sole,
simili a quelle per poco tempo i fiori di giovinezza
godiamo, finché dagli dèi non sappiamo il male
né il bene.

Simonide, fr. 271 Poltera


Quando nell’arca
ben lavorata
l’impeto del vento
e l’acqua agitata
la trascinarono al largo, Danae piangendo
distese amorosa le mani su Perseo
e disse: “O figlio, quale pena soffro!
Tu dormi; te ne stai assopito, piccolino mio,
in questo freddo legno chiuso dai chiodi,
nella notte senza luce
e nel buio bruno.
E non senti l’acqua profonda
dell’onda che ti passa
sopra i capelli, non senti il rombo
del vento: dormi, con il bel viso
avvolto nella rossa vestina di lana.
Se avessi coscienza dei pericoli,
porgeresti il tuo tenero
orecchio alla mia voce.
Ti prego, dormi, bimbo mio,
e dorma anche il mare, e dorma il male senza fine.
Ma tu manda un segno,
padre Zeus;
e qualunque parola temeraria
io urli, perdonami,
la ragione m'abbandona”.

Dopo il v. 554 la tradizione manoscritta riporta un verso (554b) che gli editori
moderni concordemente, o quasi, espungono: τὸ μὴ φρονεῖν γὰρ κάρτ'
ἀνώδυνον κακόν. Il verso appare sospetto perché ripete, in sostanza, quanto già
detto subito prima e non si inserisce sintatticamente nel giro del discorso (è un
inciso); si ritiene perciò che sia in origine una glossa, una citazione da un'altra
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tragedia, annotata in margine per la vicinanza concettuale con il passo e poi scivolata
indebitamente nel testo
vv. 558-559 - Anche nelle Trachinie Deianira si rivolge alle fanciulle del Coro
sentendosi forte di una superiore esperienza, e quindi di una superiore conoscenza.
Lo status adolescenziale è descritto come uno stato di grazia fisico e spirituale, che si
giova di un suo proprio spazio. Che il soffio del vento possa “nutrire”, è immagine
abbastanza diffusa in letteratura: cfr. Platone, Repubblica 401cd ἵνα ὥσπερ ἐν
ὑγιεινῷ τόπῳ οἰκοῦντες οἱ νέοι ἀπὸ παντὸς ὠφελῶνται, ὁπόθεν ἂν αὐτοῖς
ἀπὸ τῶν καλῶν ἔργων ἢ πρὸς ὄψιν ἢ πρὸς ἀκοήν τι προσβάλῃ, ὥσπερ
αὔρα φέρουσα ἀπὸ χρηστῶν τόπων ὑγίειαν [bisogna dare spazio agli artisti
capaci di proporre immagini belle e nobili] “affinché i giovani, quasi abitando in un
luogo salubre, ne traggano ogni giovamento, quando dalle opere belle arriva alla loro
vista o al loro udito una sorta di brezza che da luoghi sani apporta salute”. La chiosa
μητρὶ τῇδε χαρμονήν corrisponde all’omerico “goda in cuore la madre” ed è
l’unico passaggio in cui Aiace fa una concessione all’affettività di Tecmessa.

Sofocle, Trachinie 141-149


Penso che tu sia qui perché conosci la mia pena;
però quanto io mi consumo il cuore,
possa tu non saperlo mai, non sperimentarlo mai.
Ora non lo sai, perché la giovinezza si alimenta
in spazi solo suoi, dove né il caldo del sole,
o pioggia, o un alito di vento la turbano,
ma cresce la sua vita nel piacere, priva di affanni,
fino a che una fanciulla viene chiamata
a essere donna [...]

v. 563 - Il genitivo τροφῆς dipende da ἄοκνον, come spiega Jebb nel suo
commento (ἄοκνον è considerato un “aggettivo di abbondanza”): il senso è che
Teucro, pur lontano al momento, sarà comunque (ἔμπα) “pieno di attenzione /
risoluto nel prendersi cura” del ragazzo.
v. 569 – Eribea è anche il nome della fanciulla che nel Ditirambo 3 (= 17) di
Bacchilide naviga verso Creta con Teseo, Minosse e gli altri giovani ateniesi destinati
al Minotauro: Minosse le sfiora la guancia con la mano, e Teseo interviene a
difenderla. Un’altra tradizione fa di Eribea (o Peribea) la moglie di Teseo.
v. 571 – Questo verso (μέχρις οὗ μυχοὺς κίχωσι τοῦ κάτω θεοῦ) è
discusso e spesso secluso dagli editori. Le ragioni sono due: μέχρις (ovvero μέχρι)
non si trova mai nella tragedia; la sequenza iniziale μέχρις οὗ è metricamente
sospetta (darebbe un “anapesto strappato” in prima sede). Si è pensato che il verso sia
un’aggiunta successiva, introdotta da un critico zelante preoccupato di precisare
γηροβοσκὸς εἰσαεί del verso precedente).
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vv. 574-576 – Si è pensato che questi versi, con l’insistita descrizione di


Eurisace intento a maneggiare lo scudo paterno, possano alludere alla cerimonia che
si svolgeva nel teatro in occasione delle Dionisie subito prima delle rappresentazioni
tragiche: gli orfani, figli di Ateniesi caduti in battaglia e allevati perciò a spese dello
stato, sfilavano davanti agli spettatori con indosso l’armatura oplitica, fornita loro
dalla città.
v. 580 – I commentatori osservano che Aiace ama introdurre gnomai, quando
parla di Tecmessa. Anche al v. 293 Tecmessa racconta che Aiace nella notte, in
risposta ai suoi tentativi di trattenerlo nella tenda, le ha risposto con “l’eterno
ritornello”: γύναι, γυναιξὶ κόσμον ἡ σιγὴ φέρει (“Donna, alle donne è il silenzio
che si addice”). L’idea che le donne indulgano al pianto e al lamento, più degli
uomini, è diffusa in tragedia: cfr. per esempio Medea 928 γυνὴ δὲ θῆλυ κἀπὶ
δακρύοις ἔφυ (“La donna è una creatura delicata, facile alle lacrime”), dove Medea
– che sta simulando – somministra a Giasone quei luoghi comuni che Giasone tanto
ama quando parla delle donne. Aristotele teorizza questa idea in Historia animalium
608b.8-11 διόπερ γυνὴ ἀνδρὸς ἐλεημονέστερον καὶ ἀρίδακρυ μᾶλλον, ἔτι
δὲ φθονερώτερον καὶ μεμψιμοιρότερον, καὶ φιλολοίδορον μᾶλλον καὶ
πληκτικώτερον [il filosofo sta spiegando che le caratteristiche femminili e
maschili, che si ritrovano anche nelle specie animali, sono particolarmente evidenti
negli esseri umani] “perciò la donna è più pietosa dell’uomo, e più facile al pianto, ed
è anche più invidiosa, più incline alla critica e all’insulto e più impulsiva”).
La distinzione tra la medicina magica e quella scientifica si definisce a partire
dalla seconda metà del V secolo. Un testo molto significativo è il trattatello De morbo
sacro, attribuito tradizionalmente a Ippocrate; l’autore polemizza con quanti
considerano l’epilessia una malattia “divina” (cioè mandata dagli dèi) e spiega che si
tratta di una superstizione fondata sull’ignoranza, e anche sulla mala fede di quei
cialtroni che pretendono di curare l’epilessia con incantesimi e magie (cfr. 1, 10-11
“Mi sembra che coloro che per primi hanno fatto di questa una malattia sacra fossero
uomini simili agli attuali maghi, purificatori, accattoni e ciarlatani che fingono di
essere particolarmente rispettosi degli dèi e di possedere un sapere superiore a quello
degli altri. Costoro dunque si ammantano della divinità, che adducono a
giustificazione della loro mancanza di risorse, poiché non hanno cosa somministrare
per giovare ai malati; e perché non appaia che non sanno nulla, giudicano questo
male sacro e, pronunciate parole opportune, fissano la terapia in una direzione a essi
favorevole, somministrando purificazioni e incantesimi [καθαρμοὺς
προσφέροντες καὶ ἐπαοιδάς]”). Nel Prometeo di Eschilo (vv. 478-483) proprio
l’invenzione della scienza medica è indicata come il merito più grande del Titano,
nella sua opera di civilizzazione: è una prospettiva molto interessante, perché la storia
della civiltà umana è letta nei termini “laici” di una crescita in consapevolezza.

Eschilo, Prometeo 478-483


τὸ μὲν μέγιστον, εἴ τις ἐς νόσον πέσοι,
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οὐκ ἦν ἀλέξημ’ οὐδέν, οὔτε βρώσιμον


οὐ χριστὸν οὐδὲ πιστόν, ἀλλὰ φαρμάκων
χρείαι κατεσκέλλοντο, πρίν γ’ ἐγώ σφισιν
ἔδειξα κράσεις ἠπίων ἀκεσμάτων,
αἷς τὰς ἁπάσας ἐξαμύνονται νόσους·
Il mio merito più grande: se qualcuno cadeva ammalato,
non vi era alcun rimedio, né alimento
né unguento né pozione, ma per mancanza
di farmaci deperivano, prima che io mostrassi
loro le misture dei lenimenti efficaci,
con le quali guariscono tutte le malattie.

Più o meno negli stessi anni il pio Pindaro nella III Pitica si esprime in termini molto
diversi. L’epinicio narra il mito di Asclepio, medico straordinario, capace di guarire
ogni affezione. Ai vv. 50-53 sono elencati i rimedi conosciuti dall’arte medica di
Asclepio, incantesimi, pozioni, unguenti e interventi chirurgici: “E quanti vennero a
lui compagni di piaghe congenite o feriti nelle membra dal lucido bronzo o dal getto
di pietre o disfatti nel corpo da febbri estive o dal gelo, li congedava disciolti dall’uno
o dall’altro dolore, gli uni curando con blandi incantesimi, altri con pozioni benefiche
o fasciando le membra con farmaci, altri con azioni chirurgiche rimise in piedi”
(τοὺς μὲν μαλακαῖς ἐπαοιδαῖς ἀμφέπων, τοὺς δὲ προσανέα πίνοντας, ἢ
γυίοις περάπτων πάντοθεν φάρμακα, τοὺς δὲ τομαῖς ἔστασεν ὀρθούς).
Sembra chiaro che nel passo pindarico gli incantesimi e gli interventi chirurgici sono
posti sullo stesso piano, come strumenti a disposizione del “guaritore” e utilizzabili in
alternativa, a suo discernimento. Pindaro qui “arcaizza”, riproducendo uno stato della
medicina di tipo omerico: nel XIX dell’Odissea, narrando in una digressione la
vicenda del ferimento di Odisseo adolescente durante una caccia al cinghiale, il poeta
racconta come i figli di Autolico curino il ragazzo con una medicina “mista”, fatta di
magia e di medicamenti.

Odissea XIX 455-462


τὸν μὲν ἄρ’ Αὐτολύκου παῖδες φίλοι ἀμφεπένοντο,
ὠτειλὴν δ’ Ὀδυσῆος ἀμύμονος ἀντιθέοιο
δῆσαν ἐπισταμένως, ἐπαοιδῇ δ’ αἷμα κελαινὸν
ἔσχεθον, αἶψα δ’ ἵκοντο φίλου πρὸς δώματα πατρός.
τὸν μὲν ἄρ’ Αὐτόλυκός τε καὶ υἱέες Αὐτολύκοιο
εὖ ἰησάμενοι ἠδ’ ἀγλαὰ δῶρα πορόντες
καρπαλίμως χαίροντα φίλην ἐς πατρίδ' ἔπεμπον
εἰς Ἰθάκην.
I figli di Autolico si presero cura di lui,
legarono abilmente la ferita del divino Odisseo
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glorioso, e con un incantesimo fermarono il nero


sangue; poi lo condussero a casa del padre.
Autolico e i figli di Autolico lo guarirono
con buona arte, gli diedero splendidi doni
e presto lo rimandarono contento a Itaca,
sua patria.

La sticomitia che chiude l’episodio esprime la totale incomunicabilità tra i due


personaggi. Il ritmo del dialogo accelera (passando all’antilabè) mentre Tecmessa,
che ha esaurito i suoi argomenti, si dà alle suppliche, provocando l’irritazione di
Aiace. Sabina Mazzoldi osserva che nell’homilìa del VI dell’Iliade Andromaca e
Ettore sanno fin dall’inizio come si concluderà il loro incontro (lui andrà a rischiare
la vita in battaglia, come sempre, lei tornerà a casa, a occuparsi dei lavori donneschi),
ma poiché sono partecipi degli stessi sentimenti e degli stessi valori, trovano
comunque modo di esprimersi con tenerezza e affetto; Tecmessa, invece, non riesce a
capire la scelta di Aiace ed è quindi “bloccata” in una opposizione sterile.
v. 584 – La lingua di Aiace è τεθηγμένη (“affilata”) perché l’eroe si è
mostrato inflessibile. La stessa metafora si ritrova nei Sette a Tebe 715, dove Eteocle
dice τεθηγμένον τοί μ' οὐκ ἀπαμβλυνεῖς λόγῳ (“non smusserai con le tue
ciance chi è ben affilato”), quando si avvia alla morte nel duello con Polinice e
respinge le suppliche delle donne. Nel caso di Aiace, però, la metafora della lama
affilata è particolarmente forte, perché appunto con la spada, affilata per l’occasione,
l’eroe sta per suicidarsi: cfr. v. 820 σιδηροβρῶτι θηγάνῃ νεηκονής (“affilata
sulla cote che divora il ferro”).
vv. 596-645 primo stasimo – Aiace rientra nella tenda, la cui porta viene
richiusa (e il retroscena viene “chiuso” alla vista degli spettatori). Tecmessa ed
Eurisace escono anch’essi, con ogni probabilità dalla parodos da cui è entrato il
bimbo, ossia quella che dà accesso al campo degli Achei. È improbabile che
Tecmessa entri nella tenda con Aiace perché questi l’ha respinta, o comunque ha
preso le distanze da lei, e poi perché tutti si attendono, a questo punto, che l’eroe si
uccida: il suo ingresso nella tenda e l’invito perentorio a chiudere la porta sembrano
preludere all’esecuzione del gesto fatale, così chiaramente annunciato. Aiace,
peraltro, non potrebbe suicidarsi in presenza di Tecmessa: dunque, se i due si
allontanassero insieme la tensione del momento e la spasmodica attesa degli
spettatori si allenterebbero.
Peraltro, va detto che i movimenti scenici di Tecmessa (e di Eurisace) tra I e II
episodio sono oggetto di discussione. Per lo più si ritiene che anche madre e figlio si
allontanino, subito dopo l’uscita di Aiace, e che il coro esegua lo stasimo a scena
vuota (come è la norma tragica). È però vero che, in questo caso, Tecmessa (ed
Eurisace) devono rientrare con Aiace dopo lo stasimo: questo è certo, almeno per
Tecmessa, perché Aiace al v. 652 usa il deittico πρὸς τῆσδε τῆς γυναικός per
riferirsi alla sua donna, e poi ai vv. 684-685 si rivolge a lei con un’apostrofe diretta
invitandola ad “andare dentro e a pregare gli dèi”. Quindi la presenza in scena di
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Tecmessa per tutta l’estensione del II episodio è fuori di dubbio [ma è probabile che
con lei ci sia anche Eurisace: un trattamento separato di madre e figlio in questa parte
del dramma non è molto verosimile, dal momento che al v. 578 Aiace “consegna” il
figlio alla donna, mettendoglielo letteralmente in mano]. Se le cose stanno così, il
rientro in scena di Tecmessa ed Eurisace (dalla stessa parodos da cui sono usciti alla
fine del I episodio) è “silente”: Aiace esce dalla tenda e comincia a parlare, e sono le
sue parole stesse a spiegare il motivo del suo arrivo in scena; Tecmessa entra a sua
volta, ma non spiega le ragioni della sua presenza. Appunto sulla base di queste
considerazioni Finglass ritiene che in realtà Tecmessa ed Eurisace rimangano in
scena alla fine del I episodio, e che la donna non abbia bisogno di giustificare la sua
presenza, nel II episodio, per il semplice motivo che non è mai uscita. L’ipotesi di
Finglass non è inverosimile; d’altra parte, dopo lo stasimo (se è a scena vuota) si può
anche immaginare una “ripartenza” dell’azione, una sorta di “secondo prologo” con
un totale ribaltamento – almeno in apparenza – della situazione, e quindi una nuova
entrata dei personaggi per dare vita a una vicenda che riparte da zero.
La prima strofe contrappone lo splendore di Salamina, la patria lontana,
all’infelicità dei coreuti, che da anni combattono in terra straniera e non possono
attendersi altro se non la morte. L’antistrofe sposta il discorso su Aiace: Salamina
l’ha mandato a combattere e a conquistarsi gloria, ma l’eroe è stato travolto dalla
disgrazia: la follia mandata dagli dèi ha cancellato i suoi meriti e il suo nome. La
seconda strofe descrive il dolore della madre alla notizia della malattia e
dell’umiliazione del figlio: le parole usate per descrivere lo strazio di Eribea
rimandano al lessico del lamento funebre (goos, threnos). L’antistrofe formula
l’augurio che Aiace possa morire e “nascondersi nell’Ade” per sottrarsi alla vergogna
e al disonore; i coreuti immaginano peraltro l’infelicità del padre Telamone, in tale
eventualità. Lo stasimo è giocato su una contrapposizione di spazi: la lontana
Salamina, luogo di luce e polo d’attrazione, e la terra di Troade, l’hic et nunc dei
coreuti, contrassegnato negativamente come luogo di isolamento, sofferenza e morte.
Questa tensione, così efficacemente proposta, evoca l’analoga tensione tra i due spazi
di Aiace, quello condiviso con la comunità achea, in cui l’eroe ha vissuto per anni e
in cui si impianta la sua tenda (uno spazio prima di onore e ora di disonore), e quello
della remota campagna marina, lo spazio solitario in cui Aiace si prepara a cercare
rifugio, protezione e morte. Questo secondo spazio non è ancora “attivo”
scenicamente, ma già prende consistenza nella mente del protagonista: lo stasimo
predispone gli spettatori alla sua attivazione. I coreuti, d’altra parte, non hanno capito
quale sia lo stato d’animo di Aiace: nel corso dell’episodio si sono opposti ai suoi
pensieri di morte, mentre ora concludono che sia meglio per lui morire piuttosto che
dare triste spettacolo della propria follia; essi credono infatti che Aiace sia ancora in
preda al delirio e che i propositi suicidi siano un segno del suo offuscamento mentale.
vv. 646-692 – II episodio e Trugrede . Al v. 646 Aiace rientra in scena,
sorprendendo il pubblico, che si aspetta la notizia della sua morte. L’eroe, che
impugna la spada donatagli da Ettore (la stessa con la quale si ucciderà), si rivolge ai
coreuti e a Tecmessa, e pronuncia un lungo monologo, dai contenuti sorprendenti:
egli dice infatti di essersi ammorbidito per effetto delle preghiere della sua donna, e
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di avere cambiato idea, abbracciando le ragioni della vita. È evidente il legame tra
queste parole e le battute finali della sticomitia precedente: alla supplica estrema di
Tecmessa πρὸς θεῶν, μαλάσσου (“In nome degli dèi, ammorbidisciti”), Aiace ha
risposto con un rifiuto stizzito e sarcastico (“Sei pazza, se pensi di poter educare il
mio carattere, adesso!”). A distanza di poche decine di versi accade – a quanto pare –
proprio quello che pareva impensabile: Aiace si è addolcito, il suo spirito “affilato
come una spada” (l’immagine della spada torna al v. 651, con l’accenno all’ “acciaio
temprato”) ha ceduto alla voce degli affetti e alla seduzione della vita. Gli
appassionati discorsi di Tecmessa (echeggiati dal coro), il richiamo ai doveri verso i
familiari, cioè quegli argomenti che Aiace sembrava non avere neppure udito, ora
trovano ascolto e risultano persuasivi. O per lo meno questo dice Aiace, all’avvio
della rhesis. Poi l’eroe illustra quanto si accinge a fare: andrà a purificarsi in riva al
mare, per sottrarsi alla collera di Atena, e cercherà un luogo deserto dove seppellire
per sempre la spada, quella spada che gli fu donata da Ettore e che non gli ha portato
fortuna. Segue una sezione gnomica, in cui Aiace espone la nuova sophìa che
l’esperienza del dolore gli ha insegnato: ha imparato a cedere al più forte, secondo
una legge di natura che non ammette eccezioni. E ha imparato la legge del tempo e
dell’alternanza: niente è sempre uguale a se stesso, ma tutto trascorre nel suo
opposto; l’inverno cede all’estate, la notte al giorno, il sonno alla veglia. Questo vale
anche per gli uomini, per i loro sentimenti e i loro propositi: gli amici non sono amici
per sempre, e i nemici possono anche trasformare l’odio in amore. Questa è l’essenza
del sophronein, che anche Aiace vuole abbracciare. Il monologo si chiude con una
doppia apostrofe a Tecmessa e al coro: alla donna è chiesto di rientrare e di pregare
gli dèi perché tutto si compia secondo i desideri di Aiace, i coreuti sono invitati a
chiamare in causa Teucro al suo ritorno, perché “si prenda cura” di Aiace. Poi anche
l’eroe si allontana [subito dopo Tecmessa, che già al v. 685 lascia la scena obbedendo
all’invito] con parole ambigue (“Vado dove devo andare”; “Tra poco saprete che ho
trovato la mia salvezza”). La scena rimane vuota, e il coro può cantare il secondo
stasimo.
L’interpretazione del monologo ha impegnato da sempre i critici. L’opinione
prevalente (e ora dominante) è che Aiace simuli, pronunci appunto una Trugrede, un
discorso ingannevole, inteso a tranquillizzare Tecmessa e i coreuti, per avere maggior
agio di compiere ciò che ha fermamente stabilito di fare, cioè il suicidio. In passato,
si è sostenuta anche l’interpretazione opposta, e cioè che il discorso sia sincero, che
Aiace sia stato davvero indotto a un ripensamento e che davvero abbia deciso di
abbandonare i propositi suicidi e piegarsi alla volontà dei capi, per continuare a
vivere e non abbandonare i suoi. Naturalmente, gli interpreti che assumono questa
posizione devono poi ipotizzare un nuovo ripensamento dell’eroe, che conduce al
suicidio: quindi una doppia sorpresa per il pubblico (e per i personaggi del dramma),
una sorta di doccia scozzese, con una doppia conversione prima in positivo poi in
negativo. Un simile andamento ondivago non è senza esempi in Sofocle (l’Elettra e il
Filottete sono costruiti, appunto, su un’alternanza di speranza e disperazione). Ma la
debolezza di questa interpretazione appare chiara se si analizza in profondità il
discorso di Aiace, intessuto di ambiguità e costruito con la sistematica adozione dell’
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“ironia tragica”. Già la gnome incipitaria è rivelatrice: “il tempo che non ha fine
nasconde la verità, rivela tutti i segreti”. Con questo ironico ossimoro l’eroe vuol dire
che il tempo produce un costante movimento fenomenico attraverso il quale esso
genera (o porta alla luce) le cose nascoste e, rivelatele, le nasconde, L’atto stesso di
rivelarle è anche l’atto che le nasconde. È difficile non vedere come questo
indovinello formi una cornice entro la quale il discorso doppio di Aiace acquista
senso e valore. Quando, per esempio, Aiace lascia in dubbio, con lo stesso verbo
οἰκτίρω, se prova pietà per Tecmessa e dunque ha deciso di risparmiarle la
vedovanza oppure prova pietà per lei che presto sarà vedova (vv. 652-653 οἰκτίρω
δέ νιν χήραν παρ’ ἐχθροῖς παῖδά τ’ ὀρφανὸν λιπεῖν), egli rivela e al tempo
stesso nasconde la ragione della sua pietà. Tutta la rhesis è giocata su questa
ambiguità ossimorica.
Peraltro, è molto acuta la lettura di quei critici che, come Di Benedetto,
riconoscono una “sincerità” alla rhesis di Aiace, nella misura in cui l’eroe nel corso
del monologo arriva a riconoscere che esistono un’assiologia e una Weltanschauung
diverse dalla sua e non prive, forse, di una loro dignità, ma si rende conto anche – e
con assoluta chiarezza – che quei valori sono del tutto estranei al suo mondo, alla sua
educazione: Aiace “descrive” questo altro modo di vivere e per un attimo – entro il
contenitore delle finzione – prende in considerazione la possibilità di farlo proprio,
ma subito riconosce che se lo facesse dovrebbe negare e rinnegare l’intera propria
esistenza. Tuttavia (come Di Benedetto precisa) non c’è lotta con questa diversa
visione del mondo, non c’è dibattito interiore, non c’è tensione tra super-io e livello
inconscio. Aiace non ha cambiato idea, non sta riconsiderando il proposito suicida:
attribuisce a sé quei giudizi e quegli atteggiamenti mentali che Tecmessa e i coreuti
gli hanno proposto come possibili o come preferibili, per valutarli ancora una volta e
respingerli ancora una volta. La forma di questa valutazione (negativa) è l’ambiguità,
è il dire simulato, la Trugrede.
Finglass si chiede come potesse essere la reazione degli spettatori, cioè che
cosa essi fossero indotti a pensare sentendo il monologo (e tentando di armonizzarlo
con la loro conoscenza del mito), e propone quattro possibili scenari. Lo spettatore
ateniese può pensare che: 1. Aiace ha cambiato idea, ha scelto di vivere, e riuscirà a
sopravvivere (nuova versione del mito); 2. Il cambiamento è parziale: Aiace non si
uccide, ma poi sarà messo a morte dagli Achei; 3. Aiace è sincero, davvero ha deciso
di non suicidarsi, ma poi qualcosa interverrà per fargli cambiare di nuovo idea, e alla
fine si ucciderà; 4. Aiace sta mentendo, in realtà la sua decisione è presa e non
cambierà. Finglass ritiene che la risposta 1. presupponga un’audacia notevole da parte
del poeta; le risposte 2 e 3 danno spazio alla libertà di riscrittura del mito che la
tragedia si consente [lo studioso fa l’esempio dell’accecamento di Edipo; nell’Edipo
re di Sofocle il protagonista si acceca per sua scelta, mentre nell’Edipo di Euripide
erano i servi di Laio ad accecarlo]. Peraltro, conclude Finglass, mano a mano che il
monologo procede, lo spettatore si rende conto che la risposta giusta è l’ultima: le
parole di Aiace sono sempre più sfuggenti, ingannevoli, doppie, fanno intendere che
il personaggio non pensa ciò che dice.
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La Trugrede è un esempio di metateatro. Propriamente, si ha metateatro


quando dentro la vicenda del dramma viene inserita una recita di secondo grado, che
è concepita e proposta come tale (come recita, ossia come finzione): il pubblico è
messo in condizione di “controllare” questo teatro nel teatro, dall’inizio alla fine e
completamente, mentre i personaggi (o alcuni dei personaggi) subiscono la finzione e
ne sono ingannati. Un caso clamoroso di metateatro è nell’Aspis: il servo Davo, per
mandare a vuoto il piano di Smicrine (che vorrebbe sposare lui la sorella di
Cleostrato, diventata ereditiera), mette in piedi una vera commedia nella commedia;
istruisce gli altri membri della famiglia, assegnando loro le parti da interpretare, e
recluta un finto medico, per far credere a Smicrine che suo fratello Cherestrato è
morto. Menandro si diverte a “mimare” dentro la commedia i procedimenti della
commedia stessa. Lo scopo non è, naturalmente, quello di denunciare l’illusorietà del
teatro, la sua non verità. Al contrario, il disvelamento e l’apparente smascheramento
dei procedimenti e delle convenzioni teatrali si propongono in realtà di riaffermare la
“verità” dell’arte drammatica. Il teatro comico è doppiamente “vero”, perché
riproduce la realtà (sia pure attraverso convenzioni) e perché non ha paura di mettere
in scena i suoi meccanismi.
Qualcosa di simile si ritrova anche in Sofocle. Nel Filottete tutta la prima parte
del dramma è l’attuazione del disegno di Odisseo, inteso a ingannare il protagonista.
Odisseo spiega a Neottolemo che dovrà mentire a Filottete, dovrà interpretare una
parte (e il “regista” Odisseo suggerisce anche le battute e le intonazioni), facendogli
credere di essere sulla via del ritorno in patria, dopo un litigio violento con gli Atridi.
La “commedia” scritta da Odisseo viene interpretata diligentemente, anche con
l’intervento di un nuovo “attore”, il finto mercante. Neottolemo però, che è un
giovane di nobili sentimenti e solo a fatica si è piegato ai voleri di Odisseo, getta la
maschera e rivela la verità quando Filottete è colpito da un attacco del male che
sempre lo tormenta: la pietà per l’eroe sofferente fa venire fuori la sua vera physis.
Nell’Elettra il ritorno di Oreste avviene di nascosto, dentro una rete di finzioni:
il Pedagogo e Oreste stesso, nel prologo, concertano le linee della “recita” che si
preparano interpretare. Poi il Pedagogo si presenta al palazzo e rivolgendosi a
Clitennestra e a Elettra dà la notizia della morte di Oreste e racconta (con una
narrazione molto dettagliata, studiata per dare apparenza di verità alla menzogna [lo
stesso si può dire del falso racconto di Neottolemo]) come il giovane sia stato vittima
di un incidente fatale durante la gara dei carri a Delfi. Più avanti entra in scena Oreste
che, facendosi passare per focese, consegna a Elettra l’urna funeraria che dovrebbe
contenere le ceneri del fratello. La verità poi viene fuori, come nel Filottete, per la
sua stessa forza dirompente: la vista della sofferenza di Elettra induce Oreste a
rivelarsi, ad abbracciarla.
Nel Filottete e nell’Elettra la simulazione (il metateatro, cioè) è tematizzata fin
dall’inizio: ci sono “registi” e “interpreti”, e personaggi destinati a essere l’uditorio
privilegiato (quindi le vittime) della recita. Gli spettatori sono messi in condizione di
seguire tutte le fasi dell’allestimento, di assistere alla recita avendo piena
consapevolezza che si tratta di una recita, e di condividere – in termini affettivi – il
sollievo dei personaggi (Filottete e Neottolemo, Oreste e Elettra) quando la finzione
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finisce e la verità dei sentimenti erompe. Il caso delle Trachinie è un po’ diverso.
Lica (l’araldo che porta a Deianira la notizia della vittoria di Eracle a Ecalia e che dà
dei fatti una versione “adattata”) non mente con la stessa audacia di Neottolemo o
Oreste e – soprattutto – non comunica in scena (e quindi al pubblico) la sua
intenzione di mentire. Non c’è quindi la “prova” e poi la messa in scena di una recita,
ma lo smascheramento, a posteriori, di una bugia, quando il Nunzio spiega a Deianira
che l’araldo non le ha detto tutta la verità. L’intero episodio è costruito su una
contrapposizione tra verità e menzogna, tra apparenza e realtà. Lica non mente (in
senso stretto) a Deianira, ma riferisce i fatti in modo capzioso, con la precisa
intenzione di ingannare la moglie di Eracle e indurla a credere cose che la donna
farebbe bene a non credere. È forte la somiglianza con la Trugrede dell’Aiace: anche
qui la simulazione non è preparata da un “regista”, e il discorso ingannevole viene
proposto in presa diretta ai personaggi in scena e al pubblico; anche Aiace, come
Lica, non mente fino in fondo, ma rimaneggia la verità secondo l’orizzonte d’attesa
dell’interlocutore.
Il valore teatrale della Trugrede è innegabile: è un discorso ingannevole che
rallenta l’azione, illude i personaggi, sconcerta il pubblico. La gioia dei coreuti, che
credono alle parole di Aiace, crea una letizia destinata a trasformarsi in dolore e
disperazione, tanto più forti in quanto esito di un subitaneo ribaltamento. Come
nell’Edipo re, nell’Antigone e nelle Trachinie, Sofocle acutizza la catastrofe
facendola precedere da un momento di serena sospensione. Giusto il commento di
Sabina Mazzoldi: “Nell’Aiace il suicidio, scontato prima del monologo, si
drammatizza proprio attraverso la sua momentanea sospensione, che è negazione per
Tecmessa e per il coro”.
vv. 646-649 – Aiace intona il suo discorso con il tema del tempo e del
cambiamento incessante che lo scorrere del tempo produce sulle cose. Queste parole
sembrano richiamare, a prima vista, quelle del coro nella prima strofe del precedente
stasimo: il “tempo che si prolunga senza fine” ricorda infatti il “tempo senza calcolo
di mesi” che i marinai di Salamina hanno trascorso a Troia, consumandosi in
un’attesa priva di speranza. Ma c’è una differenza di fondo: l’attesa dei Greci in
Troade è una sequenza sempre uguale a se stessa, mentre Aiace saluta l’onnipotenza
di un tempo che sgretola ogni certezza; e l’amara speranza di arrivare all’Ade, cantata
dai coreuti, si ribalta nella prospettiva di chi afferma che non c’è nulla di insperato,
che tutto è possibile. Peraltro, la formulazione scelta da Aiace, così oscura nella sua
densità, è intimamente ambigua: la luce trascorre nella tenebra, e la tenebra nella
luce, un polo rimanda al suo opposto; quindi [la conseguenza non è tratta
esplicitamente, ma è lasciata non detta] la scelta di vita che sembra fare capolino dai
discorsi di Aiace rimanda a una latente pulsione di morte. La gnome κοὐκ ἔστ’
ἄελπτον οὐδέν rimanda ad Archiloco, fr. 122, 1-4, in cui il poeta commentando
un’eclissi di sole osserva che, da quando Zeus ha oscurato il cielo nel bel mezzo del
giorno, non c’è più nulla che si possa definire impossibile. E vagamente
“archilochea” è anche l’idea che nella vita degli uomini non ci sia nulla di
immutabili, ma viga una legge di avvicendamento (che in Archiloco prende il nome
di “ritmo”).
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Archiloco, fr. 122, 1-4 West


χρημάτων ἄελπτον οὐδέν ἐστιν οὐδ’ ἀπώμοτον
οὐδὲ θαυμάσιον, ἐπειδὴ Ζεὺς πατὴρ Ὀλυμπίων
ἐκ μεσαμβρίης ἔθηκε νύκτ’, ἀποκρύψας φάος
ἡλίου.
Niente è inatteso, né impossibile,
né stupefacente, da che Zeus padre degli Olimpi
di mezzogiorno fece notte, subito nascondendo la luce
del sole.

Come nota Finglass, Aiace non ha giurato alcunché, in realtà, ma la sua feroce
determinazione ha la stessa forza di un giuramento; anche in altri passi di Sofocle,
inoltre, un’affermazione recisa o una promessa può essere “promossa” a giuramento,
in un momento successivo del dramma (per esempio in Trachinie 378 Deianira, che
ha appena saputo dal Nunzio notizie più precise sulla presa di Ecalia e sulle vere
ragioni che hanno spinto Eracle ad attaccare la città, gli chiede se davvero la ragazza
condotta al palazzo è senza nome “come giurava chi l’ha portata qui” [Lica in realtà
non ha giurato, ha solo detto di non conoscerne il nome].
vv. 651-652 – Finglass intende στόμα è nel senso di “punta” di un’arma,
“filo” della spada (come in Iliade XV 389 κατὰ στόμα εἱμένα χαλκῷ, detto delle
pertiche “rivestite di bronzo sulla punta” con le quali i Troiani si battono nella
mischia presso le navi). La proposta è suggestiva, perché ci sarebbe allora
un’ulteriore ripresa dell’immaginario metallurgico, che assimila Aiace a una spada
affilata (ora smussata dalle suppliche di Tecmessa). Non tutti gli interpreti intendono
così: Albini traduce “ho addolcito le mie parole di fronte a questa donna”. La frase
ἐθηλύνθην στόμα πρὸς τῆσδε τῆς γυναικός fa riferimento alla rhesis di
Tecmessa nel I episodio, quella rhesis a cui Aiace si è mostrato insensibile nella sua
replica immediata, e di cui ora invece loda la forza suasiva. Alcuni (non molti, in
verità) pensano invece a una conversazione che potrebbe avere avuto luogo nella
tenda, durante l’esecuzione dello stasimo; ma già si è visto che una simile
ricostruzione dell’azione scenica è assai poco credibile: alla fine del I episodio è
improbabile che Tecmessa segua Aiace nella tenda (dopo che lui l’ha congedata così
bruscamente), e ancor più improbabile è che i due possano conversare
tranquillamente, dopo che Aiace ha chiuso la bocca alla donna con battute perentorie.
L’ambiguità dei vv. 654-660 è sottolineata da tutti commentatori.
Particolarmente sinistra è l’allusione ai riti purificatori e ai lavacri; λουτρόν, infatti,
designa l’acqua usata per la libagione ai morti e in Sofocle è impiegato per lo più in
connessione con la morte; molto significativo è il confronto con i vv. 158-161
dell’Alcesti, nei quali l’Ancella descrive i comportamenti della sua padrona nel
giorno del trapasso: “Quando si accorse che il giorno fatale era venuto, lavò il
candido corpo con l’acqua pura del fiume [ὕδασι ποταμίοις λευκὸν χρόα
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ἐλούσατο], poi dalle casse di cedro prese una veste e i gioielli e sia abbigliò con
eleganza”. Oscure e funeste sono anche le parole usate per descrive il seppellimento
della spada; nel finale della sua seconda rhesis Aiace aveva detto di volere che le sue
armi fossero sepolte con lui: quindi qui Tecmessa e i coreuti possono pensare che
l’eroe voglia dare corso a quella sua volontà; ma nell’equazione stabilita da Aiace il
seppellimento della spada equivale al seppellimento del corpo, quindi alla morte. Al
di là dell’ironia tragica, quel che Aiace intende veramente fare è piantare l’elsa della
spada nel terreno e poi immergere la lama della spada nel suo corpo: un doppio
“seppellimento” dunque, ben diverso da quello lasciato credere agli amici. E
funeraria è anche l’allusione alla Notte e a Ade quali “custodi” della spada: in
particolare l’avverbio κάτω al v. 660 è un “puntatore” molto negativo. L’immagine
di un luogo “non calcato da piede umano” richiama il passo del prologo dell’Ippolito
in cui il protagonista descrive il prato incontaminato, non tocco da ferro, dal quale è
stata colta la corona di fiori offerta ad Artemide: la purezza asettica del buen retiro
allude al prato di asfodeli dell’Ade, a un luogo lontano dal mondo dei vivi.
vv. 661-662 – Ancora un’allusione omerica: Aiace qui si riferisce al suo duello
con Ettore, narrato nel canto VII dell’Iliade; al termine dello scontro (che si conclude
senza un vincitore e senza un vinto, perché il calare della sera impone
un’interruzione) i due eroi si scambiano doni.

Iliade VII 303-305


Ὣς ἄρα φωνήσας δῶκε ξίφος ἀργυρόηλον
σὺν κολεῷ τε φέρων καὶ ἐϋτμήτῳ τελαμῶνι·
Αἴας δὲ ζωστῆρα δίδου φοίνικι φαεινόν.
Detto così, gli donò una spada a borchie d’argento,
e la portò con il fodero e con la cinghia ben lavorata.
Aiace invece gli diede una cintura splendente di porpora.

L’idea che i doni di un nemico non portino bene è una gnome espressa anche in
Medea 618 κακοῦ γὰρ ἀνδρὸς δῶρ' ὄνησιν οὐκ ἔχει (Giasone ha offerto il suo
aiuto economico a Medea e ai figli, ma la donna rifiuta sdegnosamente).
vv. 666-667 – L’intenzione ironica con cui sono pronunciate queste parole
(come osserva Sabina Mazzoldi) risulta chiara anche dall’inversione dei verbi:
εἴκειν, di solito riferito a uomini, è usato per gli dèi, mentre σέβειν, che è verbo
sacrale, esprime il rispetto da riservare agli Atridi. Aiace si esprime alla prima
persona plurale, e ciò dà un tono sentenzioso al suo dire, ma esprime anche una
distanza tra le parole e il sentimento di chi le pronuncia.
vv. 669- 676 – L’elenco delle “forze terribili” che devono sottomettersi alla
legge universale dell’alternanza è concepito in modo tale da proporre coppie fatte da
poli negativi e poli positivi: la negatività riguarda l’inverno, la notte, la tempesta, il
sonno; connotazione positiva hanno l’estate, il giorno, la calma, la veglia. Il discorso
sembra ispirato a una filosofia ottimistica: il male non è eterno, o prima o poi deve
cessare e lasciare il posto al bene. Ma lo stato d’animo di Aiace è amaro: la
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conclusione a cui vuole arrivare, la nuova “verità” che ha finalmente scoperto, è il


valore relativo dell’amicizia. La morale eroica, anzi il presupposto stesso della
coscienza eroica, si regge sulla tensione costante tra amici e nemici: vivere significa
amare e beneficare gli amici, odiare e danneggiare i nemici. Aiace è stato tradito dai
suoi amici: il suo mondo è distrutto, le parole che pronuncia sono “abbellimenti” che
girano attorno a questa rivelazione sconvolgente.
v. 677 – Aiace ha imparato la saggezza. La situazione ha punti di contatto con
il IV episodio dell’Alcesti, in cui dopo che il coro ha lasciato l’orchestra per
accompagnare Admeto al funerale di Alcesti, prende corpo la scena tra il Servo ed
Eracle. Nella rhesis con la quale risponde alle accuse del Servo, Eracle espone la sua
“filosofia di vita”, una saggezza spicciola che ogni uomo di buon senso deve fare sua:
e appunto questa sophìa anche il Servo dovrebbe imparare, se non vuole che la vita
per lui sia una continua sofferenza. La “lezione” di Eracle insiste sulla precarietà
della condizione umana: gli uomini sono in balia della tyche, per loro non c’è nulla di
certo e nessuno può sapere che cosa gli porterà il domani; perciò è saggio colui che
vive giorno dopo giorno, senza guardar troppo lontano e, da mortale, “nutre pensieri
mortali”. Il contenuto della sophìa di Aiace sembra simile: bisogna sapersi piegare, è
sciocco assumere atteggiamenti troppo rigidi, dal momento che mutevolezza e
cangiamento sono le leggi universali del cosmo. Mentre però Eracle crede nella verità
di quanto insegna (e ne dà poi una dimostrazione pratica quando strappa Alcesti a
Thanatos e la riconsegna ad Admeto), Aiace prende le distanza dalla propria “verità”
nel momento stesso in cui la espone.
vv. 682-683 – Si è pensato che nelle parole messe in bocca ad Aiace si possano
celare allusioni alla vita politica ateniese, sia in forma di riferimento oggettivo sia con
intenzione polemica: l’idea dell’avvicendamento può alludere all’annualità delle
cariche pubbliche, mentre la constatazione che amicizia e inimicizia non durano a
lungo può nascondere un’amara denuncia della spregiudicatezza con cui ad Atene si
facevano e disfacevano alleanze politiche.
vv. 684-692 – Nei versi conclusivi della rhesis l’ambiguità è massima. Quando Aiace
invita Tecmessa a pregare gli dèi perché “diano compimento” a ciò cha gli sta a
cuore, l’eroe pensa ai suoi veri propositi, ma la formula da lui usata è tale da
tranquillizzare la donna, che vi coglie una conferma del ravvedimento del compagno:
come possibile termine di confronto i commentatori citano Agamennone 973-974 in
cui Clitennestra chiede agli dèi di portare a termine (τελεῖν) le sue richieste, cioè
l’uccisione del marito: Ζεῦ Ζεῦ τέλειε, τὰς ἐμὰς εὐχὰς τέλει· μέλοι δέ τοι σοι
τῶνπερ ἂν μέλλῃς τελεῖν. Al v. 690 le parole ἐγὼ γὰρ εἶμ’ ἐκεῖσ’ ὅποι
πορευτέον (“vado dove devo andare”) richiamano l’allure del v. 654 (ἀλλ’ εἶμι
πρός τε λουτρὰ καὶ παρακτίους λειμῶνας) e i coreuti sono indotti a pensare
che a questo, ossia al rituale di purificazione, alluda Aiace. Naturalmente, l’eroe ha in
mente ben altro, e la sua frase non può che suonare sinistra per il pubblico, come la
menzione della “salvezza” al v. 692: σῴζομαι è detto anche da chi trova scampo
nella morte, come in Ifigenia in Aulide 1440 σέσωσμαι, κατ' ἐμὲ δ' εὐκλεὴς ἔσῃ.
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vv. 693-718 secondo stasimo. Tecmessa (con Eurisace) al v. 686 rientra nella
tenda per la porta della skené; Aiace esce per la parodos che dà verso la campagna
solitaria e il mare. La scena rimane vuota e il coro intona il II stasimo. Il canto è in
forma di hyporchéma, con invocazioni a Pan e ad Apollo perché vengano a unirsi alla
danza di festa: infatti il coro è pieno di gioia, perché Aiace ha deposto l'ira e si è
riconciliato con gli dèi. Nella strofe Pan è invitato a venire, lasciando il monte
Cillene, sua sede abituale; e lo stesso invito è rivolto ad Apollo delio, al quale il coro
chiede di attraversare il mare Icario per raggiungere la Troade. Nell’antistrofe sono
spiegate le ragioni della gioia: è accaduto ciò che sembrava impossibile, l’eroe ha
mutato il suo animo; il sole è tornato a splendere sull’armata degli Achei.
Sappiamo che l’iporchema era un canto danzato nel quale la danza aveva
particolare importanza e godeva di una sorta di indipendenza dal canto. L’iporchema
era considerato cretese [anche il coro dell’Aiace fa riferimento a Cnosso], ed era una
forma melica usata soprattutto nel culto apollineo, come il peana. La differenza tra
peana e iporchema – spiega Plutarco – è che nel peana la danza è un elemento
secondario rispetto alla musica e al canto e non ha carattere pantomimico, mentre
nell’iporchema la musica fa solo da sfondo all’esecuzione danzata, che è il nucleo
fondamentale della performance. Anche, il peana è più solenne e religioso, mentre
l’iporchema è vorticoso, ha un ritmo indiavolato e tono più ludico. In linea di
massima, l’esecuzione iporchematica prevede due forme: 1) c’è un cantante al centro,
e intorno a lui i ballerini danzano, interpretando plasticamente le parole del canto
(come nell’Odissea, con Demodoco e i giovani Feaci); 2) uno o più musicisti
suonano, il coro danza e alcuni solisti eseguono passi particolarmente espressivi e
acrobatici. Luciano, de saltatione 16 dice che a Delo i sacrifici e le cerimonie non
avvenivano mai senza danza: “Riunendosi al suono del flauto e della cetra, i cori dei
fanciulli si muovevano in evoluzioni circolari, mentre i migliori di essi venivano
prescelti per interpretare il canto con i gesti. I canti composti per queste danze corali
si chiamavano iporchemi e la poesia lirica ne annoverava moltissimi”. Un esempio
famoso di iporchema delio era la “danza della gru”, eseguita per la prima volta da
Teseo e dai suoi compagni a Delo, dopo la vittoria sul Minotauro: una danza fatta di
avvolgimenti e contorcimenti che imitavano le volute del Labirinto (Plutarco, Vita di
Teseo 21), oppure i movimenti sinuosi del serpente. Plutarco testimonia che veniva
eseguita ancora ai suoi tempi.
Apollo delio è dunque tradizionalmente associato all’esecuzione di iporchemi,
e questo spiega l’invocazione che il coro gli rivolge; inoltre, è il dio Peana, il
guaritore, colui che ristabilisce l’ordine: è il dio che dà la vittoria, che riaccende il
sole nel cielo dopo l’eclisse (lo stasimo ha anche i “colori” del peana, dunque). Pan è
il dio della danza sfrenata, ed è associato a riti orgiastici come quelli di Cibele
(Misia) e dei Cureti (Creta). È originario dell’Arcadia, ma entra nel pantheon attico in
occasione della battaglia di Maratona, in cui dà un aiuto decisivo agli Ateniesi (e gli
viene perciò dedicato un culto in una grotta vicina al luogo della battaglia); è però
associato anche a Salamina, in quanto frequentatore dell’isoletta di Psittalea. È poi il
dio che dispensa una forma di follia (il timor “panico”): questa somma di attributi e
prerogative spiega la sua evocazione da parte dei marinai di Aiace.
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vv. 719-865 terzo episodio – L'episodio è diviso in due parti. La prima occupa i
vv. 719-814: in questa sezione il ruolo più importante è svolto da un Messaggero, che
viene a riferire quanto è accaduto nel campo acheo: Teucro è tornato dalla spedizione
di guerra, ed è stato informato della follia del fratello. Calcante gli ha però detto che
il pericolo per Aiace è destinato a non protrarsi oltre lo spazio di un giorno: se l'eroe
arriverà indenne all'indomani, sarà poi salvo per sempre; di qui la raccomandazione
agli amici di tenere Aiace sotto stretta sorveglianza, ben protetto dentro la tenda. Il
Messaggero rievoca anche due risposte tracotanti date da Aiace nel passato, a
Telamone (che lo invitava a cercare l'aiuto degli dèi nelle battaglie) e ad Atena (che
lo spronava a gettarsi nella mischia, sotto la sua protezione). Le parole del
Messaggero, che contengono illuminazioni inquietanti sia per il passato che per il
futuro, gettano il coro nello sconforto. I coreuti sollecitano l’intervento di Tecmessa,
che esce dalla porta della skené [forse in compagnia di Eurisace: lo farebbe pensare
l’apostrofe di v. 809] ed entra in scena: il Messaggero le ripete brevemente quanto ha
già narrato al coro. Tecmessa si rende conto di essersi ingannata sulle intenzioni di
Aiace; angosciata, incita i coreuti ad andare in cerca dell’eroe, battendo ogni palmo di
terreno, a oriente e occidente, e assicura che lei stessa si unirà alla ricerca.
Tecmessa e i coreuti escono. Sia l’orchestra che la scena rimangono vuote. Lo
spazio scenico viene ridefinito (non sappiamo con quali accorgimenti registici): non è
più il tratto di campo davanti alla tenda di Aiace ma un luogo solitario in prossimità
del mare. Aiace, in totale solitudine, pronuncia il monologo che precede il suicidio:
descrive la spada, piantata in terra dalla parte dell'elsa e pronta ad accogliere il suo
“salto” mortale, poi supplica Zeus ed Hermes, per avere da loro un “dolce sonno”. Il
monologo prosegue con l'invocazione alle Erinni, dee della vendetta, e la preghiera al
Sole, cui viene chiesto di portare ai genitori dell'eroe, a Salamina, la notizia della sua
morte. Dopo un'apostrofe a Thanatos, l'ultimo saluto è rivolto ancora al Sole, a
Salamina, ad Atene e ai luoghi della Troade.
vv. 815-865 Tod-Monolog – Taplin lo definisce il prologo della seconda parte
del dramma e insieme l’esodo della prima parte. L’arrivo in scena di Aiace sorprende
(ancora una volta!) il pubblico, che si aspettava la notizia della sua morte: è la terza
volta che ciò accade, dopo la Trugrede nel II episodio e l’arrivo del Messaggero nel
III. Nei primi versi l’eroe descrive, con grande precisione e pacatezza, i preparativi
del suicidio; Finglass osserva che questa minuzia quasi maniacale è un tratto di
verismo psicologico: un uomo che ha visto crollare il proprio mondo (e che quindi ha
perso ogni certezza) è indotto a “riportare ordine” ponendo grande cura nei gesti
minimi. La calma di Aiace è quasi sovrannaturale, e produce un effetto di
straniamento; data anche l’assenza del coro, è come se tempo e spazio fossero
sospesi: gli spettatori sono chiamati a vivere un attimo indefinitamente lungo, in cui
l’intera vicenda di Aiace trova compimento e conclusione. Dopo la descrizione dello
scenario sacrificale, e l’attenzione posta alla spada (strumento del sacrificio), iniziano
le invocazioni. Quella alle Erinni rimette in moto la violenza degli affetti, perché
esprime l’odio di Aiace per gli Atridi e il suo desiderio di vendetta. La seconda parte
del monologo, dissoltasi ormai la fissità surreale della prima sezione, dà largo spazio
ai sentimenti, in un crescendo di pathos. La lunga serie degli addii si conclude con il
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saluto alla Troade, cioè ai luoghi nei quali l’eroe ha trascorso gli anni decisivi della
sua vita e con i quali si sente in stretta sintonia. È un modulo caro a Sofocle, che lo
ripropone nel Filottete: nell’esodo il protagonista, avviandosi verso Troia, saluta in
tono commesso la grotta che è stata sua casa per dieci anni e l’isola di Lemno, luogo
di sofferenza e isolamento, ma anche di riscatto. Sul piano drammaturgico, il Tod-
Monolog sostituisce (come osserva Sabina Mazzoldi) la rhesis del messaggero che
secondo la prassi consueta dovrebbe riferire la morte del protagonista: con una
trovata spettacolare, Sofocle attribuisce questo ruolo ad Aiace medesimo, che
“racconta” il suicidio in presa diretta; ciò che nelle Thressai era narrato, qui viene
“mimato” davanti all’uditorio.
v. 815 - σφαγεύς è termine tecnico del linguaggio sacrale: compare già nelle
tavolette micenee, dove designa il sacerdote officiante. Nella tragedia accade spesso
che il lessico del sacrificio sia usato per connotare un’uccisione particolarmente
violenta e crudele (che di sacrificale non ha nulla, e anzi è manifestazione di
empietà): l’uso improprio dei termini rituali evidenzia la perversione di quanto
accade o sta per accadere. Per esempio, ai vv. 451-453 dell’Eracle Megara dice εἶεν·
τίς ἱερεύς, τίς σφαγεὺς τῶν δυσπότμων; ἕτοιμ' ἄγειν τὰ θύματ' εἰς Ἅιδου
τάδε (“Ebbene, chi è il sacerdote, chi l’immolatore degli sventurati? Ecco le vittime,
pronte a farsi condurre all’Ade”), con riferimento alla condanna a morte che Lico ha
decretato contro la famiglia di Eracle. Anche nel Ciclope Polifemo presenta il suo
pasto cannibalesco come un banchetto sacrificale, definendo il focolare un “altare” e
se stesso “il dio della grotta”.
v. 821 – Finglass osserva che il verbo περιστείλας indica l’atto di fissare
l’elsa della spada nel terreno, costruendo tutt’attorno un monticello di terra ben
pigiata: è forte la tentazione di pensare che qui Sofocle “descriva” il cratere di
Exekias, in cui Aiace è impegnato proprio in questa azione.
v. 825 – Non è infrequente che l’orante, per facilitare la concessione della
grazia, faccia notare che la richiesta non è particolarmente impegnativa. Un esempio
è Posidippo 104, 1 A-B στῆθι τεταρπόμενος - γέρας εὔμετρον, οὐ μέγα σ'
αἰτῶ - (“Di grazia, fermati: ti chiedo un favore modesto, non grande”), dove torna il
termine γέρας [ma la preghiera è rivolta al passante, e non a un dio].
vv. 829-830 - La preoccupazione per la sorte del proprio corpo è tipica
dell’eroe omerico: la “gloria” (kleos), che è il fine irrinunciabile dell’eroe, è connessa
con la memoria, e la memoria non può prescindere dal culto funerario; di qui il
timore, che i personaggi omerici esprimono, per un trattamento oltraggioso del
cadavere . L’esempio più noto è Iliade XXII 338-343 “Per la vita ti prego, per le
ginocchia, per i tuoi genitori, non lasciare che i cani mi sbranino accanto alle navi
degli Achei, accetta invece il bronzo e l’oro, i doni che ti faranno mio padre e la mia
nobile madre, ma da’ indietro il mio corpo alla mia casa, perché mi onorino, da
morto, i Troiani e le loro donne”; Sofocle sembra però avere in mente – per la
formulazione usata qui – il proemio dell’Iliade (I 4-5) αὐτοὺς δὲ ἑλώρια τεῦχε
κύνεσσιν οἰωνοῖσί τε πᾶσι. Peraltro, anche nel sentimento comune (e in epoche
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successive) rimane molto forte l’idea che lo strazio del corpo sia uno sfregio
irrimediabile (per esempio, negli epigrammi per i marinai o pesactori scomparsi in
mare).
v. 833 – Il balzo fatale di Aiace è definito πήδημα (“salto”); con metafora
simile Teucro, quando si vede davanti il corpo del fratello, usa il termine πέσημα (v.
1033 πρὸς τοῦδ' ὄλωλε θανασίμῳ πεσήματι). Quest’idea del “salto mortale”
(Aiace “balza” incontro alla morte) è una novità sofoclea, che sfrutta – ma variandola
in maniera macabra – l’mmagine dello scatto in avanti del guerriero nel momento
dell’attacco al nemico. In Andromaca 1139-1140 πήδημα è il balzo (“alla maniera
di Achille”) con il quale Neottolemo si avventa contro i nemici che lo stringono da
ogni parte: τὸ Τρωϊκὸν πήδημα πηδήσας ποδοῖν χωρεῖ πρὸς αὐτούς. Plutarco,
in De Alexandri Magni virtute aut fortuna 343 D, ricorda il balzo temerario con il
quale Alessandro si lanciò dall’alto delle mura in mezzo alla schiera dei nemici
(Ἀλεξάνδρου […] τὸ δεινὸν ἐκεῖνο πήδημα καὶ ἄπιστον ἀκούουσι καὶ
θεωμένοις φοβερόν, ἐκ τειχῶν ἀφέντος ἑαυτὸν εἰς τοὺς πολεμίους δόρασι
καὶ βέλεσι καὶ ξίφεσι γυμνοῖς ἐκδεχομένους), e lo definisce con il termine
πήδημα. L’invenzione sofoclea (cioè il ribaltamento “orrido” dell’immagine) trova
un seguito in Troiane 755-756, in cui Andromaca si prefigura il salto terribile
(λυγρὸν πήδημα) che toglierà vita e respiro al piccolo Astianatte. Anche
Callimaco, descrivendo il curioso suicidio di Cleombroto d’Ambracia (epigramma 23
Pf. = AP VII 471), spiega che Cleombroto dopo avere detto “Addio, Sole”, si gettò da
un alto muro dritto nell’Ade (ἥλατ’ ἀφ’ ὑψηλοῦ τείχεος εἰς Ἀΐδην): non si può
escludere che Callimaco si ispiri, in modo giocoso, alla tradizione sofoclea del “salto
fatale”.

Euripide, Troiane 755-756


λυγρὸν δὲ πήδημ’ ἐς τράχηλον ὑψόθεν
πεσὼν ἀνοίκτως πνεῦμ’ ἀπορρήξεις σέθεν.
Con un balzo funesto precipitando a capofitto dall’alto
spietatamente, spezzerai il tuo soffio di vita.

Il terzo episodio comincia con la scena del Messaggero, che riferisce ciò che nel
frattempo è accaduto nel campo degli Achei. Le sue parole gettano il coro nello
sconforto. I coreuti, accompagnati da Tecmessa, si allontanano in fretta, in cerca di
Aiace; la scena rimane deserta. Lo spazio scenico viene ridefinito (non sappiamo con
quali accorgimenti registici): non è più il tratto di campo davanti alla tenda dell’eroe,
ma un luogo solitario in prossimità del mare. Aiace ricompare e, in totale solitudine,
pronuncia il Todesmonolog, il monologo che precede il suicidio.
Sono versi caratterizzati da una grandissima sensibilità visiva: Aiace “dipinge”
con parole i suoi gesti, descrive la spada, solidamente piantata in terra dalla parte
dell’elsa e con la punta drizzata verso l’alto, pronta ad accogliere il “salto” mortale. È
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uno di quei casi in cui l’opsis è strettamente connessa con la parola del testo: la
battuta accompagna punto per punto lo spettacolo che si offre al pubblico, e che è la
somma dei movimenti attoriali e dell’arredo scenico. Poi l’eroe supplica Zeus ed
Hermes, per avere da loro un “dolce sonno”. Il monologo prosegue con l’invocazione
alle Erinni, dee della vendetta, e la preghiera al Sole, cui viene chiesto di portare ai
genitori dell’eroe, nella natia terra di Salamina, la notizia della sua morte. Dopo
un’apostrofe a Thanatos, l’ultimo saluto è rivolto ancora al Sole, alla patria, ad Atene
e ai luoghi della Troade.

Sofocle, Aiace 815-834, 845-853


Il mio assassino è là … ritto, nel modo
più tagliente – se mi è concesso ancora il tempo di riflettere –
dono di Ettore, il più aborrito per me
tra gli ospiti e il più odioso al mio sguardo;
sta conficcato nella terra nemica della Troade,
da poco affilato sulla cote che rode il ferro.
L’ho piantato io ben saldo con cura,
perché, con me assai benigno, mi conceda sollecita morte.
Così son pronto: dopo di ciò,
tu per primo, o Zeus, com’è giusto, assistimi.
Non ti chiederò d’ottenere un grande dono.
Manda per me un nunzio che porti a Teucro la triste
notizia, perché per primo egli sollevi
il mio corpo caduto su questa spada intrisa di fresco sangue,
ed io non sia scorto prima da qualcuno dei miei nemici
e gettato in pasto a cani ed uccelli.
Di questo, o Zeus, ti supplico; e insieme prego
Ermes, sotterranea guida, di addormentarmi dolcemente
quando con rapido slancio, senza spasimi,
su questa spada io mi apra il fianco. […]
E tu, Sole, che l’alto cielo percorri sul tuo
cocchio, quando vedrai la mia terra paterna,
trattieni le briglie dorate e annuncia
le mie sventure e la mia morte
al vecchio padre e alla madre infelice che mi nutrì.
Certo, la sventurata quando apprenderà questa notizia
leverà per tutta la città un acuto gemito.
Ma non giova insistere in questi vani lamenti:
bisogna compiere l’opera in fretta.
[traduzione di Maria Pia Pattoni]

Una famosa anfora a figure nere di Exekias (circa 545-530 a.C.) ritrae Aiace chino a
terra, intento a fissare nel terreno l’elsa della spada, in atteggiamento teso e pensoso.
Chiunque osservi il vaso, vi ritrova un’impressionante corrispondenza con la scena
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sofoclea, per come la si può ricostruire dai primi versi del monologo. Se non fosse
per le (insuperabili) difficoltà cronologiche, sarebbe inevitabile pensare che il
ceramografo abbia assistito alla rappresentazione del dramma e si ispiri ad essa. La
fortuna iconografica della tragedia sembra, a prima vista, confermata da due vasi a
figure rosse in cui si raccontano gli istanti immediatamente successivi: la spada è
ormai fissata e Aiace, inginocchiato davanti ad essa, ha le mani levate al cielo nel
gesto della preghiera. Particolarmente bella e suggestiva è la lekythos del Pittore di
Alkimachos, databile al 460 ca.: se si guarda l’immagine avendo in mente i versi di
Sofocle, si potrebbe parlare di una “foto di scena”; ma il vaso, anche in questo caso,
precede la composizione del dramma.
D’altra parte il dialogo pot and play, così netto e chiaro nel dato esterno, deve
essere in qualche modo spiegato. Nell’arte figurata greca la rappresentazione della
morte di Aiace si definisce a partire dai primi anni del VII secolo. La prima
attestazione certa è una gemma in steatite intagliata, proveniente da Perahora e
databile alla seconda metà del VII secolo a.C., che ritrae Aiace mentre, con il corpo
teso ad arco, si lascia cadere sulla spada conficcata nel terreno. Poi, prende
consistenza una iconografia che ritrae l’eroe mentre è a terra, prono, appoggiato alle
mani e alle ginocchia, con la spada che gli attraversa il corpo.
Questa iconografia rimane comune per tutta l’età arcaica; solo dalla metà del
VI secolo la ceramografia attica comincia a interessarsi ai momenti che precedono il
suicidio, cioè alla praeparatio mortis. Il suicidio resta però – nella ceramica attica –
un tema abbastanza raro. Tra il 520 e il 490, cioè negli anni che segnano il passaggio
dalla tecnica a figura nere a quella a figure rosse, i ceramografi attici mettono a punto
una serie di nuovi schemi figurativi, spesso ispirati al ciclo troiano. Uno di questi
schemi, usato per la decorazione di coppe, si ispira alla figura di Aiace, ma privilegia
il tema del litigio con Odisseo per le armi di Achille, ossia dell’episodio che precede
– e provoca – la tragica fine dell’eroe.

Anfora attica a figure nere, attribuita a Exechias; ca. 545-530 a.C.; Musée de Boulogne-sur-mer
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Abbiamo una serie di kylikes, databili appunto in questo range temporale, che
presentano sul lato A la scena del litigio (con Aiace e Odisseo in vario modo
atteggiati) e sul lato B quella della votazione con la quale gli Achei decidono
l’assegnazione delle armi a Odisseo. L’iconografia è dunque, in buona misura, fissa;
ma l’accento è posto di volta in volta o sulla figura di Aiace o sulle armi: nel primo
caso il tema di fondo è la vicenda dolorosa di Aiace (il suo bios e la sua morte), nel
secondo caso è la storia dell’eredità eroica di Achille.

Lekythos attica a figure rosse, decorata dal


Pittore di Alkimachos; ca 460 a.C.; Basel,
Sammlung Ludwig

Un elemento decisivo, che sposta il focus del programma iconografico sull’una o


sull’altra linea di attenzione, è il tondo: il tondo “spareggia”, per così dire,
l’ambivalenza delle scene sui lati, proponendo o un tema connesso con la morte di
Aiace o un episodio legato alla vicenda di Achille.
Coppa attica a figure rosse, decorata da
Duride; ca. 490 a.C.;
Wien, Kunsthistorisches Museum

Tondo: Odisseo consegna a Neottolemo le


armi di Achille
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La coppa decorata da Duride è un chiaro esempio della prima tipologia (focus su


Achille e sulle armi), mentre quella decorata dal Pittore di Brygos è un esempio
della seconda (focus su Aiace). Impressionante è il tondo con la scena di Tecmessa
che vela il corpo di Aiace, disteso a terra e ancora trafitto dalla lama: la vicinanza
con la corrispondente scena della tragedia sofoclea è fortissima (ma anche in questo
caso non ci può essere dipendenza del pot dal play, per le consuete ragioni
cronologiche).
Coppa attica a figure rosse, decorata da Duride; ca. 490 a.C.; Wien, Kunsthistorisches Museum.
Lato A: litigio per le armi di Achille; lato B: votazione degli Achei

Coppa attica a figure rosse, decorata dal


pittore di Brygos; ca. 490 a.C.;
Malibu, Paul Getty Museum
Tondo: Tecmessa copre con un manto il
corpo di Aiace

Che cosa possiamo concludere? Nel passaggio tra VI e V secolo la vicenda di Aiace
diventa tema ricorrente dei ceramisti attici, che ad essa si ispirano per vasellame
simposiale (coppe). Ciò significa che gli Ateniesi nel simposio bevono tenendo in
mano coppe dove la morte dell’eroe è “resa visibile”, nelle sue diverse forme e con
diverse implicazioni concettuali: la morte di Aiace è proposta per quadri che si
susseguono l’uno all’altro. È una sorta di drammatizzazione per immagini, che può
ben ispirare una drammatizzazione teatrale.

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