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LA VITA

Nacque intorno al 496 a.C. nel demo agreste di Colono, da una famiglia assai agiata. In
questo momento Atene stava preparandosi ad affrontare lo scontro con i persiani. Morì nel
406 a.C., mentre la disastrosa guerra contro Sparta stava per finire: Sofocle quindi assistette
all'apogeo e al declino della civiltà dell'età di Pericle. Come poeta tragico esordì nel 468 a.C.
Partecipò attivamente alla vita politica: fu tra gli strateghi dall'esercito ateniese e ricoprì
anche altre cariche. Inoltre svolse un'attività sacerdotale: fu lui a diffondere ad Atene il culto
del dio guaritore Asclepio. Dopo la sua morte fu eroizzato con il nome di Dexìon, colui che
ospita, proprio per il fatto di aver accolto nella sua casa la statua di Asclepio.
Compose circa 130 fra tragedie e drammi satireschi, ottenendo 20 vittorie nelle gare
tragiche. A noi restano sette tragedie.
Innovazioni tecniche
Sofocle fece molto per lo sviluppo della drammaturgia tragica, che con lui giunse a piena
maturazione: infatti con lui si devono l'introduzione della tecnica di dividere un verso tra due
personaggi (antilabe) e l'aggiunta del 3° attore. Sofocle portò anche il numero dei coreuti da
12 a 15. Ma la principale innovazione rispetto alla tragedia di Eschilo fu l'abbandono della
trilogia "legata", cambiamento decisivo per il teatro tragico: liberato da questo vincolo ogni
dramma può assumere la sua autonomia come testo. Si pensa inoltre che Sofocle fu un
teorico della drammaturgia teatrale e che scrisse anche un trattato, "perì coru".
Terasa ha una figlia che è la madre di mia figlia.
AIACE
Trama:
Nel Prologo si assiste all'unica scena del teatro sofocleo in cui sia presente una delle grandi
divinità olimpiche: invisibile a Odisseo, Atena dialoga con lui, sorpreso mentre si aggirava
nei pressi della tenda di Aiace. Egli sta infatti indagando per scoprire chi sia l'autore della
strage di greggi perpetrata nel corso della notte appena trascorsa. Tutti gli indizi
rimanderebbero ad Aiace, e infatti Atena, a conferma dei sospetti, rivela che lei stessa ha
sconvolto la mente dell'eroe che, sentitosi defraudato nell'assegnazione delle armi di Achille,
aveva deciso di vendicarsi del rivale Odisseo, a cui l'armatura era stata giudicata, e degli
altri capi responsabili del verdetto, e in particolare degli Atridi; vittima dell'offuscamento
mentale e delle allucinazioni indotte dalla dea, Aiace ha sterminato le greggi del campo
scambiandoli per Odisseo e per gli Atridi. Atena riferisce che Aiace, in preda alla follia, ora è
nella sua tenda. Chiamato fuori, Aiace dichiara ad Atena la propria soddisfazione per la
vendetta compiuta. Poi rientra subito e subito dopo fanno il loro ingresso in scena i marinai
di Salamina che formano il coro e Tecmessa, la schiava e compagna di Aiace a cui ha
generato il piccolo Eurisace, la quale informa i compagni d'armi dell'eroe di ciò che è
avvenuto nel corso della notte. Quindi apre la porta della tenda, sulla soglia della quale
appare il protagonista, ridestato dalla sua follia. Aiace ora è consapevole che l'impresa che
ha compiuto lo ha coperto di ridicolo, vanificando per sempre la sua immagine di eroe: egli
si vede in futuro sempre identificato con quell'azione grottesca, commessa in un momento di
follia. Annientato dalla vergogna, l'eroe chiede ai marinai di dargli la morte e di fronte al loro
rifiuto si avvede che l'unica via per riscattare il proprio onore è quella del suicidio. Respinti
anche gli appelli accorati di Tecmessa, Aiace chiede che gli sia portato il figlio, a cui ricorda i
doveri dell'uomo valoroso augurandogli un destino migliore del proprio e lasciandogli in
eredità il proprio scudo. Poi si ritira nella tenda dove riappare poco dopo brandendo la
spada donatagli da Ettore, egli sembra rasserenato, convinto delle suppliche della donna e
dichiara di volersi recare sulla riva del mare a purificarsi del sangue versato e per seppellire
la spada, strumento delle folle massacro. Quindi si allontana in direzione del Litorale. Dopo
un canto d'illusoria esultanza intonato dal coro, sopraggiunge un messaggio inviato da
Teucro, il fratellastro dell'eroe, con l'ordine di non far uscire Aiace dalla sua tenda perché
l'indovino Calcante ha vaticinato che egli è perseguitato solo per quel giorno dell'Ira di
Atena. Allora, in preda all'ansia, i marinai e Tecmessa vanno alla ricerca dell' eroe in
pericolo. La scena si sposta sulla spiaggia deserta in riva al mare: qui Aiace ha piantato in
terra spada e si appresta a gettarvisi sopra dopo aver invocato Zeus perché gli assicuri una
degna sepoltura. Tecmessa trova il cadavere e ben presto sopraggiungere teucro e si
associa i lamenti della donna. Poi interviene Menelao, arrogante e spietato, deciso a
impedire la sepoltura di Aiace per punirlo del suo attentato notturno. In suo appoggio
interviene anche Agamennone. A questo punto prende la parola Odisseo che, pur essendo
nemico acerrimo di Aiace e il principale bersaglio della sua vendetta, inaspettatamente
prende le parti dell'eroe defunto, dichiarando di riconoscerne il valore e intercedendo perché
venga sepolto. Agamennone cede a queste argomentazioni e la tragedia si chiude col
corteo che accompagna fuori scena la salma dell'eroe.

Già qui compaiono i grandi temi del teatro sofocleo: la grandezza e la vulnerabilità
dell'uomo, la solitudine, l'impossibilità di sottrarsi alla miseria dell'esistenza se non con la
morte, l'insondabile violenza dall'azione divina.
Il dramma ha una struttura bipartita: nella prima parte domina la figura di Aiace, con le sue
violente oscillazioni tra follia e lucidità, brama di vendetta e determinazione al suicidio; nella
seconda l'azione si frammenta fra ansie e contrasti che ruotano prima sulla ricerca e poi
sulla sepoltura della salma. Un coefficiente di unità è rappresentato dal cadavere immane di
Aiace, quasi a simboleggiare che il destino dell'eroe non si compie con la fine fisica.
Al centro della tragedia non vi è tanto la colpa di Aiace quanto piuttosto il suo percorso
umano di eroe condannato alla sofferenza.
Mai altrove in Sofocle gli dei appaiono così decisamente più forti dei mortali come l'Atena in
questo dramma, che non solo agisce secondo il suo capriccio, ma entra con le armi dello
stordimento allucinatorio nella psiche stessa della vittima, eppure mai come qui l'autonomia
dell'uomo, nelle sue passioni e nelle sue scelte, si afferma con la risolutezza che alla fine gli
stessi nemici devono apprezzare o almeno accettare.
Vi è un tema molto importante in quest'opera, ovvero il tema della solidarietà dovuta un
morto, centrale anche nell' Antigone. Questo non era certo un motivo marginale nella cultura
ateniese del secolo v a.C. Infatti trascurare di rendere onore ai defunti poteva attirare la
sventura sulla città. Inoltre il discorso sulla sepoltura di Aiace si intreccia con quello della
valutazione della sua carriera di guerriero e di cittadino: non seppellirlo con gli onori dovuti
significherebbe confinare il suo ricordo in un limbo di disonore, macchiare la memoria delle
sue imprese, in sostanza negargli il kleos, la gloria dovuta.
Perciò la sepoltura di Aiace conclude giustamente la sua parabola tragica: dalla colpa alla
sventura, alla punizione, al reintegro nella comunità cittadina. È l'itinerario tipico dell' eroe
sofocleo che compare per la prima volta nell' Aiace ma che si presenterà in altre opere come
Filottete ed Edipo a Colono.
Altro motivo presente nell'opera è l'intransigenza di Aiace e il suo rapporto con la civiltà della
vergogna. L'aiace ruota intorno alla figura del protagonista che appunto rimane Hai presente
il corpo su tutta la scena nel corso di tutta la tragedia. Potremmo dire che Aiace è l'ultimo
degli eroi, un guerriero rimasto fedele ai principi della cultura di vergogna, il senso dell'onore
e, alla morale pubblica e competitiva della società arcaica, che si suicida spinto dalla follia e
dalla vergogna.
Troppo forte in Aiace il senso della mortificazione. Se può ricordarci, sotto qualche aspetto,
l'Ettore omerico ciò è perché nella sua mente è ben presente l'idea che tutto debba essere
posto alla difesa dell'onore; egli immagina di avere di fronte a se il volto del padre Telamone
che potrebbe rimproverarlo per aver compiuto azioni vergognose ed è per riavere
l'approvazione del padre, cioè per recuperare lo status di eroe, che medita il suicidio
È una figura incapace di compromessi.
Gli altri personaggi sono in qualche modo più moderni nella loro mediocrità: vengono a patti
con se stessi con il loro mondo, sanno piegarsi di fronte alla forza degli eventi, davanti ai
quali invece la rigidità di Aiace si infrange.
È importante dire che il cuore della tragedia Non è la colpa di Aiace, lontano sullo sfondo sta
L'Antico tema della tracotanza umana, Ma piuttosto il suo percorso umano attraverso
l'angoscia e la sofferenza. Compare qui per la prima volta il modello dell'eroe magnanimo è
sofferente perseguitato da un oscuro destino che lo trascina la sventura.

ANTIGONE
Trama:
Antigone, sorella dei caduti, tenta di convincere l'altra sorella, Ismene, a sfidare il divieto;
poi, di fronte alla titubanza di costei, decide di compiere da sola il pietoso gesto.
Allontanatasi Antigone, entra in scena Creonte, seguito dal coro dei vecchi tebani, ed
enuncia i princìpi in base ai quali intende governare. Giunge una guardia per riferirgli che
l'editto è stato trasgredito: qualcuno ha cosparso il cadavere di Polinice di un tenue strato di
polvere. Creonte, furibondo, esige dai suoi uomini la scoperta e l’arresto del colpevole. Dopo
ricompare la guardia, spingendo legata dinanzi a Creonte Antigone appena catturata, che è
stata sorpresa mentre tentava per la seconda volta di coprire di polvere la salma del fratello.
Di qui, tra la giovane sovrano, l'avvio di un violento diverbio che ha come oggetto i limiti
dell'autorità politica e le leggi dello stato. Nonostante l'intercessione di Ismene, del figlio
Emone, fidanzato di Antigone, Creonte condannata la prigioniera essere rinchiusa vive in
una caverna. Dopo la protagonista ricompare sulla scena per essere condotta a morire e nel
corso di un monologo da l'addio alla vita e alle sue gioie. Intanto l'indovino Tiresia, che era
intento a trarre auspici dal suo seggio oracolare, viene ad avvertire il suo sovrano che tutta
la città è ormai infettata dalla contaminazione che proviene dal cadavere insepolto di
Polinice e lo invita pertanto ad annullare l’editto. dapprima Creonte reagisce irosamente
accusando l'indovino di essere coinvolto in un complotto, ma poi, quando Tiresia si è
allontanato maledicendolo, improvvisamente si pente delle sue decisioni e muove egli
stesso alla volta della prigione per liberare Antigone. Ma giunge un messaggero ad
annunciare che, arrivato sul posto, Creonte ha trovato Antigone impiccata e Emone trafitto
sul cadavere dell'amata. Infine, Alla notizia della morte del figlio, si uccide anche Euridice,
moglie di Creonte, e la tragedia si chiude con un commo desolato fra il coro è il sovrano.

Dopo l'Aiace ancora una sepoltura contestata costituisce lo spunto tematico e il nodo
concettuale dell'Antigone.
Creonte agisce per proteggere lo stato dalla rivolta e dall'anarchia, mentre Antigone ritiene
che le leggi non scritte degli dei e i vincoli del sangue debbano venire salvaguardati ad ogni
costo. Nello scontro fra il re e l'eroina vi è l'insanabile opposizione di due ordini egualmente
legittimi, lo stato e la famiglia. Antigone e Creonte si dividono il ruolo di protagonisti.
Entrambi si richiamano a un principio positivo, che per la donna è amore verso il fratello e
scrupolo religioso, per il tiranno è l'ordine che garantisce la sopravvivenza dello stato.
La tragedia è a dittico, il contrassegno dell'eroe sofocleo è di incidere sul destino degli altri
anche dopo la morte. Creonte subisce la punizione di una tracotante fiducia nell'autonomia
della ragione umana. Anche Antigone, bloccata nella solidità eroica della sua visione del
mondo, essa ha commesso il medesimo errore del suo antagonista.
Il conflitto si sviluppa attorno al concetto di philia, che non corrisponde esattamente ad
amore: per Creonte è il vincolo di lealtà che lega tra loro individualità dello stesso gruppo;
per Antigone la philia sta nella vicinanza tra coloro che hanno nelle vene lo stesso sangue.
La ribellione di Antigone è meno inquietante di quella di altre donne dominatrici della scena
tragica (Clitennestra e Medea), perché opera nella direzione di ciò che la città riteneva
necessario per la sua stessa sopravvivenza, ovvero la pietà religiosa e il culto familiare.

TRACHINEE
Trama:
Dopo aver confidato alle coreute gli inquietanti presentimenti manifestati dall’eroe prima di
partire, Deianira decide ora di inviare il figlio Illo in cerca del padre. Giunge d’improvviso la
notizia del prossimo arrivo di Eracle, e infatti arriva il suo araldo Lica alla testa di una schiera
di giovani prigioniere conquistate nella presa di Ecalia: fra di esse spicca Iole, figlia del re di
Icalia: per le Deianira prova un istintivo sentimento di simpatia e commozione, quasi
identificando in lei la propria immagine del tempo giovanile. Ben presto, però, si viene a
sapere che Eracle ha conquistato Ecalia solo perché il re Eurito gli aveva rifiutato la figlia,
che ora l’eroe vuole farne la sua concubina. Deianira si vede quindi soppiantata da una
rivale ben più giovane, con cui sa di non poter più competere. Le sovviene allora di un
talismano amoroso che custodisce dentro un cofano sigillato: le era stato consegnato in
punto di morte dal centauro Nesso, che, avendole tentato violenza, e per questo ucciso da
Eracle, aveva raccolto il suo sangue e lo aveva donato a Deianira assicurandole che grazie
a quello Eracle non avrebbe mai amato nessun'altra donna. Così la donna impregna di esso
l’abito che manda a Eracle tramite Lica. In Deianira si accende una speranza, che è di breve
durata e risulta delusa da un meccanismo tipico di Sofocle: l’ironia per cui un’azione rivolta a
ottenere un risultato positivo si converte in rovina. Il dono infatti si rivela fatale all’eroe.
Deianira apprende da Illo che Eracle, dopo aver ricevuto l'abito da cerimonia, l'ha indossato
ed è stato colto da spasmi lancinanti ed ora viene portato agonizzante sulla scena. La
punizione che Illo invoca per lei, augurandole un destino come quello di Eracle,induce
Deianira a ritirarsi nella reggia per uccidersi. Il suicidio viene narrato dalla nutrice che dice
che la donna si è trafitta al fianco con un pugnale e le sue ultime parole, come nell'Alcesti
poi, sono state rivolte al letto coniugale. L'ultima parte della tragedia ha per protagonista
l'eroe morente. Egli vorrebbe punire Deianira, che sospetta abbia voluto vendicarsi del
tradimento, ma quando viene a sapere l'accaduto, ricorda il vaticinio che gli aveva predetto
che sarebbe morto a causa di un morto. Gli torna alla mente poi una profezia che lo aveva
ingannato con la falsa speranza che, tornato in patria, si sarebbe finalmente riposato dalle
sue fatiche. E si manifesta nel suo reale significato anche la promessa di Nesso: per effetto
del veleno, Eracle non avrebbe più amato nessuna donna. I suoi ultimi desideri sono che Illo
lo faccia trasportare sul monte Eta, dove applicherà il fuoco per il suo rogo, e poi prenda in
moglie Iole. La tragedia si chiude con il corteo verso il monte Eta.

La figura di Deianira costituisce un nuovo tipo di personaggio nel teatro sofocleo, e presenta
una gamma di sfacettature e una delicatezza di tratti, che la distinguono da figure
monolitiche come Aiace e Antigone: si tratta di una donna mite, che vive il peso della sua
condizione femminile, nel momento in cui si trova a essere soppiantata da una più giovane
rivale. Essa non ha reazioni estreme, ma oscilla tra il rimpianto della giovinezza passata e
l'ansia propria di una donna innamorata che vuole riconquistare l'affetto perduto del marito.
Al polo opposto vi è Eracle, eroe violento e dagli istinti ferini che trovano l'estremo sfogo in
prossimità della morte, eppure, ironia tragica, è proprio la moglie affettuosa a divenire
strumento inconsapevole del destino causando involontariamente la morte dell'eroe.
In questo dramma gli oracoli hanno grande rilievo, tratto che avvicina le Trachinee all'Edipo.
Negli oracoli, sentenze ambigue, che però si avverano sicuramente nel loro significato reale,
si manifestano all'uomo le potenze divine. Ma esse accennano soltanto, lasciando grande
spazio ai progetti e alle speranze dei mortali (come con Eracle). L'uomo non è una vittima
passiva del proprio destino, egli stesso interviene negli avvenimenti, ma gli dei hanno
disposto che ogni passo da lui compiuto nella convinzione di sottrarsi alla sorte segnata, lo
avvicini sempre di più ad essa. Eracle è il simbolo dell'uomo grande e provvidenziale, che ha
posto fine all'era dei mostri e dischiuso una nuova epoca per la civiltà umana; e tuttavia egli
deve morire, come Deianira, perché gli uomini sono impotenti di fronte all'oscuro progetto
degli dei, e sono condannati a percorrere la propria strada nell'ignoranza delle molteplici
circostanze che la determinano.
Questa tragedia ha un carattere, se si può dire così, decisamente privato intimista rispetto
agli altri drammi del primo periodo: al centro della scena stava vicenda di una coppia.
Il dramma nasce da pulsioni che nessuno dei due protagonisti può dominare: l'istinto di
possesso e la gelosia di Deianira; la feroce volontà di autoaffermazione di Eracle che
abbatte tutti gli ostacoli, distruggendo città, predando donne e calpestano i sentimenti di chi
gli sta accanto. Alla fine del dramma, Eracle imporrà al figlio Illo di compiere azioni più
grandi di lui, incurante ancora una volta dell'umanità fragile di chi gli sta accanto: esigerà
che accenda il suo rogo funebre e che sposi subito dopo la sua amante Iole, ovvero esigerà
il suo figlio infranga i 2 divieti fondamentali della civiltà, parricidio e incesto. Fino all'ultimo
respiro, Eracle appare come un essere capace di sfidare ogni limite. Le Trachinee si
presentano in ultima analisi come una meditazione sui limiti delle prospettive umane:
Deianira è ingannata, Eracle anche. Essi pensavano di dirigere le loro scelte ma un male
venuto da lontano, un veleno di un nemico morto molto tempo prima, basta sconvolgere la
loro vita. Il dramma mostra esseri umani soli davanti al loro destino incomprensibile, come
sempre nelle opere di Sofocle.
EDIPO RE
Trama:
Nel prologo un gruppo di cittadini di diversa età si rivolge Edipo, sovrano di Tebe, perché,
come un tempo libero i tebani dalla Sfinge, salvi ora i propri sudditi dalla pestilenza che
infesta il territorio. Edipo quindi manda suo cognato Creonte a Delfi per consultare l'oracolo
di Apollo per conoscere la causa del male presente. Creonte arriva e riferisce che il Dio ha
prescritto di espellere dalla città gli assassini di Laio, il precedente sovrano, ucciso in viaggio
da alcuni predoni. Allora Edipo prende l'iniziativa di aprire l'inchiesta e convoca, per
interrogarlo, l'indovino Tiresia: questi, superate le riluttanze iniziali e irritato dei sospetti che
Edipo nutre verso di lui, dichiara il sovrano che l'assassino che cerca non è altro che lui
stesso. Ma la rivelazione della verità è così improvvisa e sorprendente che Edipo, il quale si
ritiene figlio di Polibio di Corinto, non riceve che una conferma della propria paura di un
complotto organizzato da Creonte con l'appoggio di Tiresia. È solo l'intervento della moglie
Giocasta, già sposa di Laio, che riesce a scongiurare l'esecuzione del verdetto di morte
sentenziato da Edipo contro Creonte. Poi la donna cerca di tranquillizzare il marito
ironizzando sulla inconsistenza dei responsi oracolari: Apollo aveva predetto a Laio che
sarebbe perito per mano di suo figlio, ma l'unico figlio nato da Laio e Giocasta è morto
neonato sul Citerone e Laio stesso è stato ucciso dai banditi a un crocicchio. Di fronte a
questa rievocazione Edipo torna la memoria sia a quando si era recato a Delfi, dopo che nel
corso di un banchetto a Corinto un ubriaco aveva fatto insinuazioni sulla sua effettiva
discendenza da Polibio, e Apollo gli aveva presagito che avrebbe ucciso suo padre si
sarebbe unito con sua madre, sia a quando, appena prima di giungere a Tebe, al trivio per
la Focide aveva ucciso uno straniero e gli uomini del suo seguito. Del resto almeno un servo
del seguito di Laio era sopravvissuto e può testimoniare. La coppia rientra nella reggia ma
sopraggiunge un messaggero da Corinto che informa Giocasta della morte di Polibio. Anche
Edipo ricompare in scena i crede di apprendere la morte di suo padre e, con essa, la
liberazione dell'incubo di essere o diventare parricida. Di nuovo Giocasta si illude di poter
deridere i responsi di Apollo, ma resta pur sempre ancora in piedi la seconda parte
dell'oracolo, quella che si riferiva alle nozze con la madre la quale vive ancora a Corinto per
edipo. Senonché il medesimo messaggero rivela di essere stato proprio lui a prelevare un
tempo Edipo infante sul Citerone dalle mani di un servo di Laio e di averlo consegnato a
Polibio. Finalmente Giocasta comprende tutta la verità e vuole impedire a Edipo di indagare
oltre; poi si precipita all'interno della Reggia. Dopo giunge il servo superstite lo stesso era
stato incaricato di esporre il bambino, e rivela a Edipo la definitiva realtà dei fatti . Allora
Edipo si precipita all'interno della reggia, dove trova Giocasta impiccata e si trafigge gli occhi
con le spille di lei. Infine ha un dialogo dapprima con Creonte , che gli nega la via dell'esilio,
poi con le figlie Antigone e Ismene .

Come già nell'Antigone anche nell'Edipo re il rovesciamento gioca un ruolo essenziale.


L'edipo re mostra il mutamento di fortuna e la caduta di un uomo che in un solo giorno passa
dalla prosperità alla rovina a causa di una amartìa, un atto colpevole sì, ma compiuto
involontariamente.
Vi sono una serie di motivi che costituiscono la struttura di questa tragedia: l'incontro
improvviso con una sciagura cresciuta a poco a poco in segreto, senza che la vittima ne
abbia mai avuto sentore; i limiti della libertà umana, insidiata da forze di cui l'uomo è in balìa;
il destino che per vie misteriose tesse la sua trama ai danni dell'uomo; l'inganno che nasce
dalla pretesa umana di decifrare gli oracoli in cui la parola divina occulta l'ambiguità del
reale, pur simulando di svelarla. E accanto a ciò, emergono dal testo alcuni temi profondi
dell'antropologia di Sofocle e della cultura ateniese contemporanea, come il valore degli
oracoli, l'incesto i rapporti familiari, il conflitto fra il pensiero laico e pensiero religioso,
espresso nella grande scena fra Tiresia ed Edipo.
Comunque nell'opera vediamo che la colpa è il destino rivestono un ruolo centrale. Di fatto
Edipo è oggettivamente responsabile delle sue azioni, secondo il principe arcaico dell'àgos,
la macchia che automaticamente contamina che si è reso responsabile di sacrilegi. La
cultura greca conosceva una figura che esemplifica con chiarezza questo concetto ovvero il
pharmacos, il capro espiatorio, che assorbe su di sé la contaminazione nata dalle colpe
dell'intera città. Il pharmacos deve essere cacciato perché la città viva e venga allontanato Il
morbo. E l'ironia tragica sta nel fatto che all'inizio del dramma, senza saperlo, è proprio
Edipo a maledire se stesso, e a consegnarsi quindi all'azione inevitabile dei demoni punitori.
Edipo infatti è il pharmacos che deve essere espulso, non per la sua malvagità, ma perché
appare come un condensato di contaminazioni, e nello stesso tempo come un essere
segnato dal destino.
Edipo è peraltro un personaggio duro, implacabile, orgoglioso della sua intelligenza. In
questa sua ostinata volontà di portare alla luce il passato sta la grandezza tragica del
personaggio e anche il suo isolamento sulla scena: Edipo è l'unico a voler sapere, mentre
tutti gli altri cercano di rimuovere il segreto che pure hanno intuito. Questo personaggio, che
è diventato famoso solo per aver risolto l'indovinello, assume un valore esemplare nel
momento in cui appare come eroe dell'intelligenza che da sola si pone come misura
dell'interpretazione della realtà, pur con le sue sconfitte. E così in questo dramma non
l'incesto o il parricidio, che egli non ha voluto, sono le colpe di Edipo, ma l'ingegno dell'uomo
è per sé stesso una ubris, quando tenta di prevalere sulla propria frammentarietà e
debolezza.

PENSIERO RELIGIOSO
Sofocle riconosce la piena subordinazione di ogni evento umano ad un insondabile piano
divino. Questa visione è la stessa di Eschilo. Ma se per Eschilo era evidente anche la
provvidenza degli dei, che educano attraverso il dolore e danno sostegno e benedizione
all'agire dell'uomo, per Sofocle il concetto del Divino si confonde con quello del mistero. Non
era ad esempio comprensibile per quale ragione Deianira divenga involontariamente
strumento per la realizzazione dell'oracolo che condanna Eracle ad una morte prematura ed
atroce.
È da precisare che per Sofocle il dio non è mai ingiusto, solo che la sua giustizia non può
essere spiegata attraverso il raziocinio umano, ma deve essere accettata per fede. Vi è
infatti un limite che prescrive all'uomo di non pretendere mai di sapere più di quanto la
condizione umana gli permetta. Tuttavia i personaggi sofoclei si oppongono al disegno
divino semplicemente perché non lo conoscono o lo interpretano in modo sbagliato. Anche il
tema della conoscenza di questo disegno è centrale, tuttavia questa non porta alla salvezza
dell'eroe bensì alla sua sciagura.
Sofocle, mettendo al centro l'uomo e la sua individualità psicologica, pone in secondo piano
la divinità. La solitudine dell'eroe che ripercorre tutte le tragedie è accentuata proprio da
questa assenza degli dei. Questi lontano dalla scena si esprimono attraverso l'oscuro
linguaggio degli oracoli, previsioni infallibili, condanne che l'uomo non riesce a evitare
nonostante i suoi sforzi. In quest'ottica la punizione incombe non come conseguenza di una
colpa ma per un disegno imperscrutabile cui l'uomo tenta in tutti i modi di sottrarsi. Ma, per
una tragica ironia che costituisce una cifra inconfondibile del teatro sofocleo, quanto più
l'uomo moltiplica gli sforzi per affermare il proprio valore e ripristinare l'ordine, tanto più si
trova prigioniero della trama che sta tentando di districare. È vano ribellarsi, bisogna
accettare per fede dunque il disegno divino. L'intervento degli Dei quindi si trova nella
presenza costante degli oracoli. Il dio sfugge continuamente e si rende riconoscibile solo
nell'ora della rovina, quando la luce della conoscenza coincide con il momento irreversibile
della catastrofe. Tuttavia quell'incontro con il divino che, sul piano intellettuale, è
problematico è doloroso, può divenire possibile sul piano dell'azione, quando un individuo
dalla natura eroica, ad esempio Antigone, sfida le leggi del mondo per affermare i principi
etico-religiosi che altrimenti sarebbero negati.

PERSONAGGI
Sofocle, preferisce per le sue tragedie la trilogia slegata, e ciò testimonia lo slittamento
dell'interesse dell'autore dalle vicende del γενος a quelle del singolo individuo, di cui Sofocle
mette in scena il destino e la complessa vita interiore.
I personaggi di Sofocle sono i primi eroi moderni del teatro per il loro spessore psicologico.
Si tratta di figure complesse, tormentate, capaci di riflettere su se stesse. A differenza degli
eroi di Eschilo, sempre uguali e coerenti per tutta la durata del dramma, i personaggi
sofoclei conoscono una graduale evoluzione e alla fine del dramma sono protagonisti di una
radicale μεταβολη che li costringe a rivedere le proprie convinzioni o a ridefinire la loro
stessa identità. È il caso di Creonte, fermi sostenitore della superiorità del nomos sulla pietà
familiare rappresentata da Antigone, alla fine del dramma sarà costretto a riconoscere
l'assurdità della sua intransigenza, con la quale ha finito per annientare la sua famiglia,
trasformandosi da potente tiranno nel più solo tra gli uomini. Proprio la solitudine è un tratto
caratteristico dei personaggi di Sofocle, isolati dalla collettività: è sola Antigone, condannata
a morte perché ribelle alle leggi della πολις. Soli nella scena i personaggi di Sofocle
grandeggiano per le loro qualità morali o intellettuali o per la fermezza con cui portano avanti
i loro propositi.

EMARGINAZIONE
Il personaggio sofocleo tende a restare isolato dal contesto in cui si trova a vivere e operare,
è fuori dalla polis umana
Ed è specialmente attraverso la forma del monologo che il protagonista riesce ad esprimere
la propria condizione di conflittualità o di emarginazione: si tratta di monologhi nel senso
sostanziale di autentici dialoghi dell'io con se stesso. E la tensione che si accumula che si
accumula intorno alla sua tenace resistenza si convoglia ed esplode negli agònes lògon, gli
scontri verbali, e soprattutto nelle sticomitie.
VITA
Euripide nacque a Salamina, secondo alcune fonti nel 480 a.C. (in relazione a un
sincronismo per cui sarebbe nato in quello stesso giorno della battaglia di Salamina a cui
Eschilo prese parte e che Sofocle celebrò guidando la danza per la vittoria), o forse nel 484
a.C. Poco si sa della sua vita: non partecipò all'azione politica e fu il prototipo
dell'intellettuale appartato. Iniziò la carriera di tragediografo nel 455. Negli agoni teatrali
ottenne scarso successo, ottenne solo 4 vittorie. In tarda età si trasferì in Macedonia presso
la corte del re Archelao, lì morì nel 406 a.C.
Delle circa 90 opere che vengono attribuite ad Euripide, a noi ne sono giunte solo 19, molte
di più rispetto ai suoi precedenti, questo forse è dovuto alla fortuna che Euripide ha ricevuto
postuma alla sua morte. Di queste 19, 1, il Reso, è generalmente ritenuta spuria e Il ciclope
è un dramma satiresco. Solo sei sono le opere databili con certezza mentre delle altre
possiamo dare una datazione approssimativa. La metrica viene usata come mezzo di
datazione infatti si è notato che si possono datare a epoche più tarde le tragedie che
presentano una metrica più libera.
LINEE GENERALI
La sua attenzione drammaturgica è rivolta all’uomo e ai suoi sentimenti. mentre Eschilo
cerca le cause della sventura e del dolore e Sofocle si interessa alla rappresentazione degli
effetti, come il singolo reagisce davanti alle situazioni,per Euripide il vero conflitto tragico
avviene dentro il personaggio. I personaggi di Euripide non sono quindi più eroi nel senso
tradizionale del termine: i protagonisti delle vicende del mito non sono infatti rappresentati
come individui dalla natura eccezionale, ma come uomini comuni che condividono con il
resto dell’umanità vizi, debolezze. Questi personaggi sono spesso instabili e inquieti,
suscettibili di radicali metabolai, trasformazioni nel loro comportamento, che avvengono di
sorpresa, non progressivamente. Grande è la loro profondità psicologica: la tragedia porta
allo scoperto l’intricato labirinto di emozioni e angosce che dominano l’animo umano e ne
determinano l’agire. I drammi di Euripide mettono infatti in scena la crisi della ragione
umana: gli impulsi irrazionali hanno spesso la meglio sulla volontà dell’uomo, che appare
sovradeterminato dalle sue passioni piuttosto che dal destino o dalle divinità. Euripide relega
infatti gli dei sullo sfondo della tragedia: sono assolutamente indifferenti alle vicende umane,
non si pongono come in Eschilo, a garanti della giustizia e appaiono anzi talvolta, crudeli e
meschini. Su questa traiettoria il teatro euripideo appare quindi fortemente influenzato dal
pensiero dei sofisti, con la loro critica al mito e la loro visione laica della realtà.
Tra i personaggi di Euripide hanno una forte rilevanza le donne: escluse dalla vita politica, le
figure femminili si prestavano a rappresentare al meglio il mondo dell'interiorità e dei
sentimenti. Nell' Alcesti, la prima tragedia di Euripide, l'eroina, pronta a morire al posto del
marito Admeto, incarna il modello della sposa perfetta. Ma i personaggi più riusciti di
Euripide sono donne ben diverse: inquietanti, agitate da passioni violente, ribelli alle leggi
della famiglia. Medea, maga Barbara, protagonista dell'omonima tragedia, una volta
abbandonata dal marito arriva uccidere i propri figli pur di vendicarsi di chi l'ha tradita. Fedra,
protagonista dell'Ippolito, concepisce una passione insana è immorale per il figliastro. Alle
figure femminili distruttrici e portatrici di sciagura si affiancano donne vittime della brutalità e
della sopraffazione della guerra. Alla guerra di Troia, descritta non come impresa eroica ma
come atto di pura violenza, Euripide dedicò tre tragedie, accomunate dalla prospettiva da cui
è condotto il racconto, quella delle vittime più deboli e indifese. A confronto con le figure
femminili, dolenti o determinati, pronta al sacrificio Alla vendetta, i personaggi maschili
appaiono sempre mediocri, spinti da ciniche motivazione di interesse o incapaci di agire con
risolutezza.
Questo si spiega con l'obiettivo del teatro euripideo ovvero provocare il pubblico ateniese
smascherando davanti ai suoi occhi l'aspetto più brutale della realtà umana e sociale: la
ferocia della guerra, che calpesta i più deboli; la crisi della famiglia, dominata dall'egoismo
piuttosto che dall'affetto; l'opportunismo dei politici; la fragilità dell'essere umano, in equilibrio
precario tra ragione e follia, e spesso causa della propria infelicità.
ALCESTI
Trama:
438 ( faceva parte di una trilogia e veniva rappresentata per quarta dopo Cretesi, alcmeone
a Psofide e Telefo).
Al principio del dramma ambientato a Fere in Tessaglia, Apollo, che presta servizio presso il
re Admeto per espiare lo sterminio dei Ciclopi e dal quale Admeto stesso ha ottenuto di
poter prolungare la propria vita purché qualcuno si offra di morire al posto suo, racconta che
solo la sposa di admeto, Alcesti, si è voluta dichiarare pronta a morire, mentre neppure gli
anziani genitori del sovrano hanno voluto dare la propria vita in cambio di quella del figlio.
Ora che è arrivato il momento supremo interviene thanatos, il demone della morte, a
reclamare la sua vittima, e Apollo si allontana. Il coro formato da vecchi cittadini di Fere è in
preda all'ansia per la sorte di Alcesti e viene informato da un'ancella che all'interno della
casa la donna si sta congelando dalla famiglia e dai servi. Entrano in scena i due coniugi:
Alcesti, sostenuta dal marito è in preda una visione in cui le sembra che Caronte la chiami
per l'ultimo viaggio. Essa prende congedo da tutti, soprattutto dai figli e dal letto nuziale
(tratto che la comuna a deianira nelle Trachinee di Sofocle). Rimasta poi sola col marito lo
supplica di non risposarsi e di non dare ai figli una matrigna che potrebbe addirittura odiarli.
Dopo il commo Admeto promette alla moglie che non si riposerà e che si farà forgiare da un
artista un'immagine di lei così che gli sembri che sia al suo fianco. Poi lo sfinimento assale
definitivamente Alcesti che viene portata via da thanatos, lasciando la reggia immersa nel
lutto. Intanto Eracle, nel suo peregrinare, ha bussato per chiedere ospitalità, e Admeto, pure
immerso nel lutto, non può venir meno ai doveri di un ospite e lo accoglie nella sua casa
senza rivelargli la sorte di Alcesti. Eracle si rifocilla mangiando e bevendo senza ritegno,
mentre già si preparano le esequie. Admeto riceve allora la visita del padre Ferete, venuto a
piangere la nuora. Il colloquio degenera ben presto in un alterco nel quale Admeto
rimprovera l'egoismo del vecchio, che non ha voluto sacrificarsi per il proprio figlio,
spingendolo ad accettare il sacrificio di Alcesti; ma Ferete ribatte tutte le accuse rivolgendo
sul figlio l'accusa di egoismo. Quando tutti i personaggi si sono avviati per accompagnare il
funerale si presenta in scena Eracle che viene a conoscenza della verità del racconto di un
servo. Allora decide di ricambiare la generosità di Admeto e poi parte alla volta dell'Ade per
strappare Alcesti a Thanatos. Di ritorno dalle esequie Admeto si abbandona la più cupa
disperazione poiché ritiene che ormai senza la moglie la sua vita non abbia più senso.
Nell'esodo ritorna Eracle con una donna coperta da un velo e chiede all'amico di trattenerla
con se e di ospitarla nella Reggia. Admeto in un primo momento si rifiuta finché quella non
si rivela altri che essere Alcesti. Così mentre Eracle riparte per le sue avventure i due sposi
rientrano pazzo di nuovo uniti

L'Alcesti sviluppa l'antico tema folklorico dell'eroe che sconfigge la morte in un dramma dai
tratti vagamente fiabeschi, che presenta già alcuni elementi tipici del teatro euripideo: il
gusto per gli effetti patetici, lo scontro di parole capzioso e violento tra due personaggi
contrapposti (agone), il dialogo incisivo ed eloquente, il colpo di scena finale.
Come tanti eroi euripidei, Admeto, è un personaggio mediocre, un uomo comune e non
nobile principe di cui parlava il mito. Questa mediocrità si rivela nel dialogo con il padre
Ferete, accorso a condolersi con lui e accolto a male parole perché, pur essendo vecchio,
ha rifiutato di sostituirsi al figlio. È lo scontro di due egoismi, in cui il poeta sembra essersi
ripromesso di denunciare la miseria degli uomini comuni, in confronto alla nobile
magnanimità dell'eroina, unico personaggio a possedere il tono della grandezza tragica.
Altro tema presente è il valore dell'ospitalità, con Admeto in lutto che riceve Eracle. Nella
cultura eroica l'ospitalità assumeva un alto merito sociale in quanto esprimeva in massimo
grado la virtù aristocratica; nell'Alcesti però è solo una cornice al dramma personale di una
donna che affronta la morte con grande nobiltà.
Alcesti è la prima delle grandi figure del teatro euripideo, ma potremmo dire che è ancora
imperfetta dal punto di vista psicologico. In un certo senso le manca qualche cosa, più che
essere un personaggio a tutto tondo è il modello della donna per bene e della sposa
perfetta.
Oltre al tema della pilia e dell'ospitalità vi è anche il tema della gloria che costituisce un
movente fondamentale dell'azione: nel cleos si può individuare quel prestigio che deriva dal
riconoscimento sociale della virtù, che costituisce un surrogato d'immortalità e un compenso
postumo.
Poi in questa tragedia ha centralità drammatica il problema della morte, destino comune a
tutti gli uomini. Il confronto con la morte ha un effetto rivelatore del carattere con le persone,
consentendo di verificare la consistenza dei legami familiari e sociali : coloro che sembrano
filoi di fronte alla morte dimostrano la loro vera natura di essere tenacemente attaccati alla
propria psuchè a scapito di quella altrui.

MEDEA
Trama:
L'azione si svolge a Corinto, dove, reduci della Colchide, vivono Medea e Giasone. All'inizio
del dramma, dopo il prologo espositivo recitato dalla nutrice, si odono dall'interno della casa
le grida di Medea per il tradimento di Giasone, che ora intende sposare Glauce, la giovane
principessa figlia di Creonte, sovrano di Corinto. Ma poi, dopo i lamenti e le invettive, Medea
appare in scena con un mutato atteggiamento e parla con grande lucidità alle donne
corinzie, che compongono il coro, dell'universale condizione della donna e della propria
personale vicenda. Lei già decisa di vendicarsi del marito ma ancora ignora la via per
tradurre in azione il suo impulso. Innanzitutto si assicura il silenzio del coro; poi, in un
dialogo con Creonte, riesce a ottenere che il bando di espulsione da Corinto, da cui è stata
colpita, sia differito di un giorno. Segue un dialogo con Giasone dopo il quale Medea trova
un decisivo alleato nel sovrano ateniese Egeo, che è di passaggio a Corinto reduce da Delfi:
egli si offre di ospitarla in Atene e così Medea puoi lavorare un piano minutamente
articolato. Incontra nuovamente Giasone e finge di volersi riconciliare con lui, anche per
evitare l'esilio almeno ai loro figli. E in questa prospettiva invia tramite loro un dono a
Glauce, che in realtà, grazie alle sue arti di Maga, ha trasformato in strumenti di morte. I
bambini tornano dalla loro missione: ora Medea sa che Glauce è perduta e che per portare
al suo ultimo stadio l'atroce vendetta che ha meditato deve uccidere i suoi stessi figli. Le
ragioni della vendetta e dell'amore materno si alternano e si scontrano in un grande
monologo. Giunge poi un messaggero che riferisce della terribile morte di Glauce e dello
stesso Creonte. Medea rientra in casa e dopo poco si odono le grida dei figli colpiti a morte.
Giasone accorso può solo esprimere la sua rabbia frustata, mentre Medea, sul carro del
sole, s'invola, portando con sé le salme dei figli.

Anche Medea deve misurarsi con la meschinità dell'uomo comune. La tragedia risulta
regolata da un perfetto rapporto tra gli accadimenti e il processo psicologico della
protagonista, che da quelli trae motivazione e a sua volta li provoca.
La tragedia è svolta in chiave esclusivamente umana, gli dei sono assenti.
Sviluppo di sentimenti che essa analizza con lucido raziocinio, proprio nell'alterno
compenetrarsi di passione e riflessione sta l'innovatrice grandezza del suo personaggio.
Il dramma si articola in una struttura a dittico: nella prima parte il desiderio di vendetta di
Medea è focalizzato contro i diretti responsabili della sventura; nella seconda parte il piano si
delinea in maniera atroce per colpire Giasone non nella sua persona ma nella sua
discendenza.
Chiave della tragedia è il cuore di Medea, personaggio caratterizzato da una diversità che la
rende sola ed emarginata. Medea presenta tratti comuni con i grandi eroi sofoclei, in
particolare con Aiace, con cui condivide sentimenti vissuti in modo esasperato: orgoglio, ira,
amore della gloria. Medea è modello di personaggio complesso, in cui raziocinio e
irrazionalità coesistono: la coscienza razionale non porta al bene e alla sua conseguente
attuazione, ma diviene strumento per rafforzare un impulso verso il male.
Medea è un grande personaggio, grande però alla maniera di Euripide, e quindi eccessiva,
mossa da istinti elementari e capace di presentare una gamma vastissima di stati d'animo.
Con questo personaggio il teatro di Euripide rivela quanto sia complessa e contraddittoria
l'identità di una persona. Nella Medea questo mondo interiore così psicologicamente evoluto
appare per la prima volta e si afferma con forza impressionante.
Quello tra Giasone e Medea lo possiamo anche leggere come uno scontro antropologico tra
culture e mentalità diverse, tra la cultura barbara e quella greca, tra la cultura maschile della
famiglia patriarcale e quella femminile delle passioni, tra la legge della città e quella della
natura, che opera nell'emotività di Medea.
Dietro le stragi della tragedia non c'è alcun progetto divino, alcuna giustizia che intervenga a
ristabilire l'equilibrio.
Gasone non è certo un personaggio esemplare: appare evidente anzi l'intento di presentarlo
in tono minore, poco più che un omuncolo opportunista

IPPOLITO
Trama:
Ippolito Incoronato è ambientato a Trezene, dinanzi alla Reggia di Pitteo, nonno materno di
Teseo. Nel prologo, Afrodite offesa per il dispregio in cui è tenuta dal giovane Ippolito,
unicamente dedito al culto di Artemide, annuncia che si vendicherà ispirando a Fedra,
attuale moglie di Teseo e matrigna di Ippolito, una passione irresistibile verso di lui. Dopo
una scena in cui vediamo il giovane, di ritorno dalla caccia, rinnovare la sua devozione ad
Artemide, viene trasportata in scena Fedra, oppressa da un morbo oscuro di cui la nutrice
chiede invano l'origine. Finalmente Fedra, sotto l'incalzare delle domande della nutrice,
confessa la causa della sua prostrazione. D'altra parte, vediamo proporsi l'altro versante del
personaggio di Fedra, la sua matura e robusta razionalità nel discorso che rivolge alle
donne di Trezene che compongono il coro. La nutrice cerca di ridimensionare il problema e
poi, di propria iniziativa, rivela Ippolito la passione della matrigna. Il giovane reagisce con
orrore e fugge dalla reggia, mentre Fedra, che ha udito, comprende che per lei è tutto
perduto e si impicca, ma non senza lasciare una lettera in cui accusa Ippolito di aver
attentato al suo onore. Quando la regina è stata deposta nel letto funebre, giunge Teseo e
scopre la lettera scritta dalla defunta. Tesio caccia via il figlio, che si protesta innocente ma
che d'altra parte tiene fede al giuramento, fatto alla nutrice, di non rivelare i veri motivi del
gesto di Fedra, e scaglia su di lui, come maledizione, uno dei tre desideri di cui suo padre
Poseidone gli ha promesso l'esaudimento: come racconta un messaggero, un gigantesco
mostro mandato da Poseidone fa imbizzarrire i cavalli del carro d'Ippolito, che resta
impigliato alle redini e viene mortalmente dilaniato. E’ portato in fin di vita dalla sulla scena,
dove Artemide, apparsa ex macchina, spiega a Teseo la verità e consola il giovane. Teseo
fonderà quel culto di Ippolito che era appunto celebrato a Trezene.

Afrodite per punire Ippolito che la preferisce ad Artemide, ha deciso di destare una passione
incestosa per lui nella matrigna. Con questo il problema della colpa è eliminato: Fedra non è
un' immorale, ma la vittima di una forza possente e irresistibile contro cui nessuno può
lottare. Anche lei al pari di Medea, porta alla rovina la sua casa, non però per una
consapevole volontà di vendetta, ma perché travolta da una forza oscura che annienta la
ragione: anche in lei è presente il conflitto tra le leggi che regolano la convivenza civile e le
forze istintive e primordiali. Fedra è una dei grandi personaggi del teatro tragico: entra in
scena fuori di sé, incapace di confessare il proprio segreto, poi lo rivela tra mille reticenze,
passando dalla vergogna alla speranza; infine quando viene respinta questo amore si
trasforma in una forza autodistruttiva che la porta al suicidio e causa la rovina di chi le sta
intorno. Ma in tutto questo l'eroina non è mai pienamente padrona di sé stessa. Al contrario
di lei Ippolito in nessun modo perde la sua gelida durezza, è un uomo a una dimensione,
che taglia via da sé il desiderio e la passione. Ma queste forze da cui lui si distacca anche
con un certo disdegno, finiranno con il ritorcersi contro di lui. I due personaggi hanno due
opposte concezioni della vita. L'una e l'altra sono unilaterali e quindi colpevoli: Fedra è
l'immagine drammatica di una soggezione totale alla naturalità dell'esistenza, che sopprime
la dimensione dello spirito; mentre in Ippolito si identifica la ripulsa della corporeità, esaltata
in una dimensione esclusivamente spirituale, ma la purezza che il giovane ostenta ha un che
di irriverente, nel rifiuto categorico di Afrodite con un estremismo che sconfina nella ubris e
che richiama l'analogo atteggiamento dell'Aiace sofocleo nei confronti di Atena.
Entrambi i protagonisti sono peccatori perché in modi diversi violano una legge della polis:
entrambi corrodono la cellula fondamentale della vita sociale, vale dire la famiglia.
Anche Teseo è un impotente in balia degli eventi e preda della sua ira.
Nessuno dei tre è malvagio o colpevole nel senso della piena responsabilità morale, ma tutti
e tre vanno incontro ad un destino infelice. Non c'è ragione che giustifichi questi fatti, ma
solo la consapevolezza che le radici della sofferenza e della follia sono dentro l'uomo.
La tragedia è aperta e chiusa da due figure divine, la prima distrugge, la seconda non salva
il suo prediletto. Il mondo divino e ostile o indifferente, la grandezza degli dei consiste nell'
atterrare un mortale o nel rivolgergli un distratto occhio pietoso quando ormai i giochi sono
fatti.
Il dono degli dei è un elemento del folklore ma nella tragedia ha un ruolo molto importante. Il
dono si trrasforma quasi sempre in sventura e fa parte della polemica euripidea contro la
divinità. Gli dei sono così lontani dagli uomini da non capire cosa è bene per loro.
Nell’Alcesti Apollo era così ammirato della potenza di Admeto che gli fa un dono: nel
momento della morte potrà vivere se qualcuno fosse disposto a farlo al posto suo. Ma
questo non è un dono perché la moglie Alcesti si sacrifica; la vita senza di lei è una tragedia.
La bellezza di Elena, dono degli dei, è una sventura. I doni non servono agli uomini. Lo
stesso dono della magia donato a Medea diventa strumento di morte. Il grande
cambiamento Euripide lo fa nel finale. Di solito la divinità salva il personaggio da questa
morte e poi viene ripristinata la sua innocenza. Qui non c’è lieto fine. La dea di Ippolito non
lo salva e lo dice le stessa “io non posso intromettermi nel volere di un altro dio”. Gli stessi
dei hanno quindi dei limiti da non superare, ma Artemide può solo intervenire dopo
dimostrando la sua innocenza e fondando un aition: a Trezene ci sarà un culto di Ippolito
attestato.

ECUBA
Trama:
Con la caduta di Troia Polidoro, figlia di Priamo ed Ecuba, è stato assassinato dal re tracio
Polimestore per impossessarsi impunemente del tesoro affidatogli in custodia insieme col
fanciullo, il corpo del quale, gettato in mare attende ora la sepoltura. La scena è collocata
nel Chersoneso tracio, durante una sosta della flotta greca imposta dei venti sfavorevoli e
nel prologo proprio l'ombra di Polidoro racconta della sua morte e annuncia la sorte che
incombe sulla sorella Polistena, il fantasma di Achille ha chiesto che si è sacrificata.
Scomparso Polidoro, entra in scena Ecuba angosciata da un sogno, una cerva sbranata da
un lupo, che lei sente riguardare i propri figli. La prima sventura che le viene annunciata è
infatti la decisione presa dai Greci di sacrificare sua figlia Polissena. Odisseo viene a
prelevare la fanciulla per il sacrificio e invano Ecuba lo supplica di risparmiarla. Ma Polistena
stessa interrompe la preghiera della madre, convinta di dover anteporre la morte al destino
di schiavitù che l'attende. Dopo il Commiato della giovane, l'araldo Taltibio riferisce della
morte di Polissena e dell'ammirazione che gli stessi nemici hanno provato dinanzi al suo
coraggio. Mentre Ecuba e le donne Troiane, che compongono il coro, apprestano le
esequie, viene introdotto un cadavere, che si scopre essere quello di Polidoro, rinvenuto
sulla riva del mare. L’ira suscitata dalla scoperta della misera fine del figlio di induce Ecuba
a chiedere la collaborazione di Agamennone per vendicarsi del traditore Polimestore.
L’avido assassino, mandato a chiamare da Ecuba, cade nel tranello che gli viene teso: col
miraggio di un altro tesoro entra disarmato nella tenda dove la vecchia regina e le altre
donne accecano lui e ne uccidono i figli. Invano Polimestore implora vendetta da
Agamennone: l’Atride si mostra solidale con Ecuba e a Polimestore altro non resta che
predire a costei la metamorfosi in cagna.

Sostanzialmente è una tragedia minore. È strutturata a dittico: ma questo schema ha


soprattutto attinenza con la duplicità dell'azione, mentre in entrambe le parti campeggia la
figura dolente di Ecuba. Da un lato vi è il sacrificio di Polissena sulla tomba di Achille,
dall'altro la vendetta di Ecuba nei confronti di Polimestore per l'assassinio di Polidoro.
Comunque vi è un impegno a saldare in unità compositiva le le due vicende, e ciò è
riconoscibile in vari tratti: l'apparizione dell'ombra di Polidoro già nel prologo.
Il tema della guerra, non più in chiave patriottica ma come occasione per mostrare gli aspetti
più atroci e violenti della personalità umana.
Nell'Ecuba le vittime sono gli innocenti: Polidoro è vittima del calcolo cinico di un uomo che
avrebbe dovuto essergli amico, Polissena, sgozzata da chi pensa di poter disporre
liberamente della vita altrui; i figli di Polimestore, innocenti delle colpe del padre. La si
direbbe quindi una riflessione sul potere e sulla legge del più forte, ma su questa trama
Euripide innesta la vendetta di Ecuba, che è quindi il cuore di questa tragedia. Ed è
indubbiamente una delle grandi figure femminili euripidee: la vecchia regina è una donna
piegata e umiliata, ma capace di trarre dal suo dolore la ferocia e la vendetta, una vendetta
però fine a se stessa, senza riscatto ho speranze. È un personaggio che cambia e muta
sulla scena, oltrepassando la sottile linea che divide la disperazione dal furore e dal
desiderio di vendetta.

TROIANE
Trama:
Nel prologo Poseidone e Atena preannunciano la catastrofe che distruggerà la flotta greca
durante il ritorno e disseminerà di cadaveri le acque dell’Egeo. Poi la scena, collocata nel
campo greco dinanzi a Troia ormai conquistata, vede le donne troiane sorteggiate come
schiave insieme con Ecuba. L'araldo Taltibio viene ad annunciare ad Ecuba quale sorte
attende lei e le altre prigioniere: l'attenzione si appunta su Cassandra, la profetessa di
Apollo, assegnata ad Agamennone come sua concubina. Cassandra in preda al delirio,
intona un lugubre canto nuziale predicendo le sventure che attendono lei e il suo padrone al
ritorno in Grecia. Poi, dopo che Ecuba ha lamentato la fine dell'immenso potere della sua
famiglia, Andromaca esprime il suo desiderio di morire, ora che è stata assegnata al figlio
dell'uccisore di Ettore, Neottolemo. Ecuba la esorta sopportare la sua sorte per il bene del
figlio, ma proprio il piccolo Astianatte viene sottratto alla madre, dato che i greci dietro
consiglio di Odisseo, hanno deciso di gettarlo dalle mura di Troia e temono che il figlio di
Ettore possa diventare un guerriero ancora più forte di lui, e vendicare il padre. Quando si
presenta in scena Menelao, che sembra convinto di punire Elena finalmente riconquistata,
Ecuba lo esorta a guardarsi dal fascino di lei. Ed è proprio Ecuba a confutare l'autodifesa
della donna: Elena non è, come vorrebbe sostenere, una vittima di Afrodite, anzi chiama col
nome della dea ciò che non è altro che la sua lussuria. Attratta da Paride e dalle ricchezze
Troiane, lei lo ha seguito di sua volontà, anche se ora invoca la gara di bellezza fra le tre
dee e il giudizio favorevole ad Afrodite da parte di Paride come causa prima delle sventure
della guerra. Menelao sembra concordare con Ecuba e acconsente di far viaggiare Elena su
un’altra nave: è chiaro però che gli sia bastato rivederla per rimanerne ancora irretito. La
tragedia si chiude con la disperazione di Ecuba, alla quale toccano, dopo la partenza di
Andromaca, le esequie del nipote Astianatte: la madre ha chiesto per lui che venga sepolto
sotto lo scudo di Ettore e il pianto di Ecuba sottolinea lo stravolgimento di un ordine naturale
che avrebbe previsto che fosse piuttosto nipote a rendere onore alla sua tomba. Il dolore
della regina sembra trovare, come unica soluzione quella di lanciarsi tra le fiamme della città
punto ma, mentre Troia crolla, lei viene avviata insieme con le altre donne verso le navi che
la condurranno alla schiavitù.
Euripide scrive questa tragedia quando Atene si cingeva alla catastrofica spedizione in
Sicilia, 415, come sgomenta ripulsa degli orrori cui porta la sintesi dominio e come
lamentazioni sui vincitori e sui vinti. E se la prospettiva è collocata dalla parte degli sconfitti,
come i Persiani di Eschilo, ciò non accade per celebrare il valore e le ragioni di chi ha
trionfato, ma per portare il dolore prodotto dall'empietá degli uomini a un livello estremo di
pathos.
La tragedia è pressoché priva di azione.
Il poeta dimostra una sensibilità innovativa nell'affrontare il tema della guerra senza nessuna
concessione ai valori della tradizione eroica.
Il monito di Euripide non è soltanto morale. Tutta la tragedia è intessuta della
consapevolezza che la guerra è una dannazione anche per i vincitori. Già nel prologo
Poseidone e Atena concertano la disastrosa tempesta che annienterà la flotta greca; il
delirio di Cassandra è puntualmente presagita la morte di Agamennone.
Ma il disegno divino non è che il simbolo di una necessità storica, che vede nella violenza e
nella prevaricazione un sistema di potere, di cui gli stessi responsabili finiranno per essere a
loro volta vittime: come sarebbe accaduto agli Ateniesi.
E d'altra parte la condanna della guerra e della conquista è a sua volta la denuncia di un
dolore universale, che costituisce una tonalità di fondo della tragedia.
Potremmo dire che con questa tragedia, in apparenza cupa e senza speranza, Euripide
trasmette quasi un messaggio pacifista intriso di profonda e drammatica forza morale.
Questa tragedia è innanzitutto una lucida riflessione sui temi della violenza e della guerra in
generale.

ERACLE
Trama:
Il tema centrale è crollo dell'uomo dai sommi fastigi della gloria alla degradazione più
umiliante.
Qui compare ancora il motivo dell'encomio di Atene nella figura del suo massimo eroe
Teseo, che compare solo nella conclusione dell'opera ma che definitivamente salva il
protagonista assumendo il ruolo del deus ex machina. Al tempo stesso, il suo intervento
riconduce la vicenda a una dimensione umana. Gli dei esistono, e i loro emissari
soprannaturali compaiono sulla scena; ma viene negata la tradizione che li caratterizza
antropomorficamente, e all'opposto si afferma la capacità dell'uomo di ritrovare in sé il senso
e la responsabilità della propria esistenza. Forse mai come in questo dramma Euripide ha
espresso la crisi che c'era nella sua epoca, scissa fra il residuo delle credenze tradizionali e
la rivendicazione dell'autonomia dell'uomo.
L'arco della tragedia vede Eracle trasformarsi da eroe sovrumano a uomo, lungo
un'esperienza che trova un'intima unità drammatica nel significato del suo destino,
interpretato non più come un segno dell'irrazionale pena di esistere, ma come l'ineluttabile
alternanza delle sorti umane, che va riconosciuta e accettata.
L'intervento pietoso di Teseo, che conforta l'amico inducendolo a rinunciare alla prospettiva
del suicidio, propone un'ipotesi di accettazione del destino e di coraggio di vivere che apre
uno spiraglio sia pur esiguo di umanistica fiducia nelle risorse della persona in quanto
capace di sottrarsi alla morsa in cui gli tenderebbero a soffocarlo.
Infatti alla morte pensa anche Eracle, dopo essere tornato in sé e aver appreso dell'orribile
strage compiuta; tuttavia la sua decisione finale di sopravvivere, l'amicizia e l'aiuto che
accetta da Teseo sono altrettanto segnali che dimostrano come Euripide abbia voluto
sganciare l'eroe dal mondo tradizionale del mito, per reinserirlo in un ambiente più
quotidiano, dove bene e male sono mescolati e l'uomo è in totale balia di un destino
imprevedibile, che ora lo esalta ora lo atterra. In questo senso, è significativo il tema dalla
filantropia introdotto da Teseo: soltanto nella solidarietà di altri uomini un individuo sofferente
e piegato può trovare riscatto. Gli dei invece sono assenti o ostili (la follia di Eracle è infatti
inviata da Era), proprio come nell'ippolito.

BACCANTI
Trama:
il dio rivela nel prologo di essere venuto a Tebe, patria di sua madre Semele, oltre che per
introdurvi il culto bacchico, per punire le sorelle di lei, fra le quali Agave madre di Penteo,
per aver dubitato della sua origine Divina: per questo ha infuso il loro e nelle altre donne
tebane un invasamento che le ha indotte a lasciare le case e a correre verso il Citerone.
Dopo una scena in cui le ragioni del nuovo culto sono difese contro Penteo da suonano
Cadmo e dall'indovino Tiresia, il re fa chiudere in carcere lo straniero sotto le cui sembianze
si cela Dioniso. Questi però si libera dalle catene provocando un terremoto che scuote il
palazzo e riescie a convincere Penteo, più che mai deciso a ricondurre all'ordine le nuove
baccanti tebane, a recarsi travestito da donna sul Citerone. Così Penteo segue Dioniso sul
Citerone, verso l’anfratto dove le menadi sono raccolte, ma là, come apprendiamo nel
racconto del messo, viene abbandonato dal dio alla furia delle donne invasate, che lo
vedono come un leone. Ed è proprio sua madre Agave che nella esaltazione conficca la
testa del figlio su un tirso e mostra le compagne la macabra preda. Nella parte finale della
tragedia, che ci è pervenuta lacunosa, compare Agave, ancora in preda a uno stato di
allucinazione, reggendo sul Tirso la testa del figlio: il suo progressivo riprendere coscienza,
di fronte alla rivelazione della verità a cui la guida pazientemente il padre Cadmo, riduce la
donna ad uno strato stato di estrema disperazione. Infine appare Dioniso stesso, che
condanna Agave e le sorelle all'esilio e annuncia a Cadmo che sarà trasformato in drago e
sposerà Armonia, ma la tragedia si chiude sulle accuse al Dio di eccessiva durezza e di
comportamento troppo simile a quello di un mortale i sui lamenti di Agave e Cadmo, che
abbandonano la città.

La crisi della ragione è il motivo conduttore delle baccanti, ma a fronteggiare l'intelletto


umano non sono qui i sentimenti ma il mistero del divino, secondo l'originaria concezione
tragica. Si tratta dell'unica tragedia tra quelle che ci sono giunte, che abbia un dio come
protagonista.
Penteo è campione della razionalità assoluta, poi accecato da una smania di conoscenza
che si traduce in rovinosa follia; e ad ispirare il suo delirio è Dioniso.
Le Baccanti presentano il retaggio di errore e dolore che appartiene all'uomo Penteo,
travolto dalla ubris di credersi autore del suo destino e di quello dei suoi cittadini e di voler
conoscere l'inconoscibile. In questa tragedia Euripide misura la distanza che intercorre tra
l'umano e il divino.
Il dio domina radioso nel mistero della sua smisurata forza, e Penteo appare dapprima
chiuso nell'orgoglio della sua ragione, e poi domato da una smaniosa follia. Ma questa
metamorfosi non incrina la coerenza di un carattere sempre pervaso dalla volto e dominare
ciò che gli si sottrae.
Al centro dell'opera sta soprattutto una dimensione della psiche da cui Euripide fu
profondamente attratto nel corso di tutta la sua carriera di drammaturgo: vale a dire la follia,
l'operare sotterraneo di forze cieche e possenti all'interno della mente umana, che ne è
contemporaneamente attratto e travolta. In effetti l'attenzione con cui vengono descritte le
modalità della trasformazione di un personaggio e l'indagine sui fenomeni dell'irrazionale
sono i temi più profondi della tragedia e insieme anche un po' il motore che anima le scene
più notevoli del dramma.
Alla fine del dramma appare il dio che dice che se avessero imparato a essere più modesti
ora sarebbero salvi.
Nella tragedia si gioca molto sul tema del doppio: il doppio confonde, distrae, fa vacillare le
certezze di un mondo governato dalla verosimiglianza.

VITA EURIPIDE
Euripide nacque a Salamina, secondo alcune fonti nel 480 a.C. (in relazione a un
sincronismo per cui sarebbe nato in quello stesso giorno della battaglia di Salamina a cui
Eschilo prese parte e che Sofocle celebrò guidando la danza per la vittoria), o forse nel 484
a.C. Poco si sa della sua vita: non partecipò all'azione politica e fu il prototipo
dell'intellettuale appartato. Iniziò la carriera di tragediografo nel 455. Negli agoni teatrali
ottenne scarso successo, ottenne solo 4 vittorie. In tarda età si trasferì in Macedonia presso
la corte del re Archelao, lì morì nel 406 a.C.
Delle circa 90 opere che vengono attribuite ad Euripide, a noi ne sono giunte solo 19, molte
di più rispetto ai suoi precedenti, questo forse è dovuto alla fortuna che Euripide ha ricevuto
postuma alla sua morte. Di queste 19, 1, il Reso, è generalmente ritenuta spuria e Il ciclope
è un dramma satiresco. Solo sei sono le opere databili con certezza mentre delle altre
possiamo dare una datazione approssimativa. La metrica viene usata come mezzo di
datazione infatti si è notato che si possono datare a epoche più tarde le tragedie che
presentano una metrica più libera.
LINEE GENERALI
La sua attenzione drammaturgica è rivolta all’uomo e ai suoi sentimenti. mentre Eschilo
cerca le cause della sventura e del dolore e Sofocle si interessa alla rappresentazione degli
effetti, come il singolo reagisce davanti alle situazioni,per Euripide il vero conflitto tragico
avviene dentro il personaggio. I personaggi di Euripide non sono quindi più eroi nel senso
tradizionale del termine: i protagonisti delle vicende del mito non sono infatti rappresentati
come individui dalla natura eccezionale, ma come uomini comuni che condividono con il
resto dell’umanità vizi, debolezze. Questi personaggi sono spesso instabili e inquieti,
suscettibili di radicali metabolai, trasformazioni nel loro comportamento, che avvengono di
sorpresa, non progressivamente. Grande è la loro profondità psicologica: la tragedia porta
allo scoperto l’intricato labirinto di emozioni e angosce che dominano l’animo umano e ne
determinano l’agire. I drammi di Euripide mettono infatti in scena la crisi della ragione
umana: gli impulsi irrazionali hanno spesso la meglio sulla volontà dell’uomo, che appare
sovradeterminato dalle sue passioni piuttosto che dal destino o dalle divinità. Euripide relega
infatti gli dei sullo sfondo della tragedia: sono assolutamente indifferenti alle vicende umane,
non si pongono come in Eschilo, a garanti della giustizia e appaiono anzi talvolta, crudeli e
meschini. Su questa traiettoria il teatro euripideo appare quindi fortemente influenzato dal
pensiero dei sofisti, con la loro critica al mito e la loro visione laica della realtà.
Tra i personaggi di Euripide hanno una forte rilevanza le donne: escluse dalla vita politica, le
figure femminili si prestavano a rappresentare al meglio il mondo dell'interiorità e dei
sentimenti. Nell' Alcesti, la prima tragedia di Euripide, l'eroina, pronta a morire al posto del
marito Admeto, incarna il modello della sposa perfetta. Ma i personaggi più riusciti di
Euripide sono donne ben diverse: inquietanti, agitate da passioni violente, ribelli alle leggi
della famiglia. Medea, maga Barbara, protagonista dell'omonima tragedia, una volta
abbandonata dal marito arriva uccidere i propri figli pur di vendicarsi di chi l'ha tradita. Fedra,
protagonista dell'Ippolito, concepisce una passione insana è immorale per il figliastro. Alle
figure femminili distruttrici e portatrici di sciagura si affiancano donne vittime della brutalità e
della sopraffazione della guerra. Alla guerra di Troia, descritta non come impresa eroica ma
come atto di pura violenza, Euripide dedicò tre tragedie, accomunate dalla prospettiva da cui
è condotto il racconto, quella delle vittime più deboli e indifese. A confronto con le figure
femminili, dolenti o determinati, pronta al sacrificio Alla vendetta, i personaggi maschili
appaiono sempre mediocri, spinti da ciniche motivazione di interesse o incapaci di agire con
risolutezza.
Questo si spiega con l'obiettivo del teatro euripideo ovvero provocare il pubblico ateniese
smascherando davanti ai suoi occhi l'aspetto più brutale della realtà umana e sociale: la
ferocia della guerra, che calpesta i più deboli; la crisi della famiglia, dominata dall'egoismo
piuttosto che dall'affetto; l'opportunismo dei politici; la fragilità dell'essere umano, in equilibrio
precario tra ragione e follia, e spesso causa della propria infelicità.
ALCESTI
Trama:
438 ( faceva parte di una trilogia e veniva rappresentata per quarta dopo Cretesi, alcmeone
a Psofide e Telefo).
Al principio del dramma ambientato a Fere in Tessaglia, Apollo, che presta servizio presso il
re Admeto per espiare lo sterminio dei Ciclopi e dal quale Admeto stesso ha ottenuto di
poter prolungare la propria vita purché qualcuno si offra di morire al posto suo, racconta che
solo la sposa di admeto, Alcesti, si è voluta dichiarare pronta a morire, mentre neppure gli
anziani genitori del sovrano hanno voluto dare la propria vita in cambio di quella del figlio.
Ora che è arrivato il momento supremo interviene thanatos, il demone della morte, a
reclamare la sua vittima, e Apollo si allontana. Il coro formato da vecchi cittadini di Fere è in
preda all'ansia per la sorte di Alcesti e viene informato da un'ancella che all'interno della
casa la donna si sta congelando dalla famiglia e dai servi. Entrano in scena i due coniugi:
Alcesti, sostenuta dal marito è in preda una visione in cui le sembra che Caronte la chiami
per l'ultimo viaggio. Essa prende congedo da tutti, soprattutto dai figli e dal letto nuziale
(tratto che la comuna a deianira nelle Trachinee di Sofocle). Rimasta poi sola col marito lo
supplica di non risposarsi e di non dare ai figli una matrigna che potrebbe addirittura odiarli.
Dopo il commo Admeto promette alla moglie che non si riposerà e che si farà forgiare da un
artista un'immagine di lei così che gli sembri che sia al suo fianco. Poi lo sfinimento assale
definitivamente Alcesti che viene portata via da thanatos, lasciando la reggia immersa nel
lutto. Intanto Eracle, nel suo peregrinare, ha bussato per chiedere ospitalità, e Admeto, pure
immerso nel lutto, non può venir meno ai doveri di un ospite e lo accoglie nella sua casa
senza rivelargli la sorte di Alcesti. Eracle si rifocilla mangiando e bevendo senza ritegno,
mentre già si preparano le esequie. Admeto riceve allora la visita del padre Ferete, venuto a
piangere la nuora. Il colloquio degenera ben presto in un alterco nel quale Admeto
rimprovera l'egoismo del vecchio, che non ha voluto sacrificarsi per il proprio figlio,
spingendolo ad accettare il sacrificio di Alcesti; ma Ferete ribatte tutte le accuse rivolgendo
sul figlio l'accusa di egoismo. Quando tutti i personaggi si sono avviati per accompagnare il
funerale si presenta in scena Eracle che viene a conoscenza della verità del racconto di un
servo. Allora decide di ricambiare la generosità di Admeto e poi parte alla volta dell'Ade per
strappare Alcesti a Thanatos. Di ritorno dalle esequie Admeto si abbandona la più cupa
disperazione poiché ritiene che ormai senza la moglie la sua vita non abbia più senso.
Nell'esodo ritorna Eracle con una donna coperta da un velo e chiede all'amico di trattenerla
con se e di ospitarla nella Reggia. Admeto in un primo momento si rifiuta finché quella non
si rivela altri che essere Alcesti. Così mentre Eracle riparte per le sue avventure i due sposi
rientrano pazzo di nuovo uniti

L'Alcesti sviluppa l'antico tema folklorico dell'eroe che sconfigge la morte in un dramma dai
tratti vagamente fiabeschi, che presenta già alcuni elementi tipici del teatro euripideo: il
gusto per gli effetti patetici, lo scontro di parole capzioso e violento tra due personaggi
contrapposti (agone), il dialogo incisivo ed eloquente, il colpo di scena finale.
Come tanti eroi euripidei, Admeto, è un personaggio mediocre, un uomo comune e non
nobile principe di cui parlava il mito. Questa mediocrità si rivela nel dialogo con il padre
Ferete, accorso a condolersi con lui e accolto a male parole perché, pur essendo vecchio,
ha rifiutato di sostituirsi al figlio. È lo scontro di due egoismi, in cui il poeta sembra essersi
ripromesso di denunciare la miseria degli uomini comuni, in confronto alla nobile
magnanimità dell'eroina, unico personaggio a possedere il tono della grandezza tragica.
Altro tema presente è il valore dell'ospitalità, con Admeto in lutto che riceve Eracle. Nella
cultura eroica l'ospitalità assumeva un alto merito sociale in quanto esprimeva in massimo
grado la virtù aristocratica; nell'Alcesti però è solo una cornice al dramma personale di una
donna che affronta la morte con grande nobiltà.
Alcesti è la prima delle grandi figure del teatro euripideo, ma potremmo dire che è ancora
imperfetta dal punto di vista psicologico. In un certo senso le manca qualche cosa, più che
essere un personaggio a tutto tondo è il modello della donna per bene e della sposa
perfetta.
Oltre al tema della pilia e dell'ospitalità vi è anche il tema della gloria che costituisce un
movente fondamentale dell'azione: nel cleos si può individuare quel prestigio che deriva dal
riconoscimento sociale della virtù, che costituisce un surrogato d'immortalità e un compenso
postumo.
Poi in questa tragedia ha centralità drammatica il problema della morte, destino comune a
tutti gli uomini. Il confronto con la morte ha un effetto rivelatore del carattere con le persone,
consentendo di verificare la consistenza dei legami familiari e sociali : coloro che sembrano
filoi di fronte alla morte dimostrano la loro vera natura di essere tenacemente attaccati alla
propria psuchè a scapito di quella altrui.

MEDEA
Trama:
L'azione si svolge a Corinto, dove, reduci della Colchide, vivono Medea e Giasone. All'inizio
del dramma, dopo il prologo espositivo recitato dalla nutrice, si odono dall'interno della casa
le grida di Medea per il tradimento di Giasone, che ora intende sposare Glauce, la giovane
principessa figlia di Creonte, sovrano di Corinto. Ma poi, dopo i lamenti e le invettive, Medea
appare in scena con un mutato atteggiamento e parla con grande lucidità alle donne
corinzie, che compongono il coro, dell'universale condizione della donna e della propria
personale vicenda. Lei già decisa di vendicarsi del marito ma ancora ignora la via per
tradurre in azione il suo impulso. Innanzitutto si assicura il silenzio del coro; poi, in un
dialogo con Creonte, riesce a ottenere che il bando di espulsione da Corinto, da cui è stata
colpita, sia differito di un giorno. Segue un dialogo con Giasone dopo il quale Medea trova
un decisivo alleato nel sovrano ateniese Egeo, che è di passaggio a Corinto reduce da Delfi:
egli si offre di ospitarla in Atene e così Medea puoi lavorare un piano minutamente
articolato. Incontra nuovamente Giasone e finge di volersi riconciliare con lui, anche per
evitare l'esilio almeno ai loro figli. E in questa prospettiva invia tramite loro un dono a
Glauce, che in realtà, grazie alle sue arti di Maga, ha trasformato in strumenti di morte. I
bambini tornano dalla loro missione: ora Medea sa che Glauce è perduta e che per portare
al suo ultimo stadio l'atroce vendetta che ha meditato deve uccidere i suoi stessi figli. Le
ragioni della vendetta e dell'amore materno si alternano e si scontrano in un grande
monologo. Giunge poi un messaggero che riferisce della terribile morte di Glauce e dello
stesso Creonte. Medea rientra in casa e dopo poco si odono le grida dei figli colpiti a morte.
Giasone accorso può solo esprimere la sua rabbia frustata, mentre Medea, sul carro del
sole, s'invola, portando con sé le salme dei figli.

Anche Medea deve misurarsi con la meschinità dell'uomo comune. La tragedia risulta
regolata da un perfetto rapporto tra gli accadimenti e il processo psicologico della
protagonista, che da quelli trae motivazione e a sua volta li provoca.
La tragedia è svolta in chiave esclusivamente umana, gli dei sono assenti.
Sviluppo di sentimenti che essa analizza con lucido raziocinio, proprio nell'alterno
compenetrarsi di passione e riflessione sta l'innovatrice grandezza del suo personaggio.
Il dramma si articola in una struttura a dittico: nella prima parte il desiderio di vendetta di
Medea è focalizzato contro i diretti responsabili della sventura; nella seconda parte il piano si
delinea in maniera atroce per colpire Giasone non nella sua persona ma nella sua
discendenza.
Chiave della tragedia è il cuore di Medea, personaggio caratterizzato da una diversità che la
rende sola ed emarginata. Medea presenta tratti comuni con i grandi eroi sofoclei, in
particolare con Aiace, con cui condivide sentimenti vissuti in modo esasperato: orgoglio, ira,
amore della gloria. Medea è modello di personaggio complesso, in cui raziocinio e
irrazionalità coesistono: la coscienza razionale non porta al bene e alla sua conseguente
attuazione, ma diviene strumento per rafforzare un impulso verso il male.
Medea è un grande personaggio, grande però alla maniera di Euripide, e quindi eccessiva,
mossa da istinti elementari e capace di presentare una gamma vastissima di stati d'animo.
Con questo personaggio il teatro di Euripide rivela quanto sia complessa e contraddittoria
l'identità di una persona. Nella Medea questo mondo interiore così psicologicamente evoluto
appare per la prima volta e si afferma con forza impressionante.
Quello tra Giasone e Medea lo possiamo anche leggere come uno scontro antropologico tra
culture e mentalità diverse, tra la cultura barbara e quella greca, tra la cultura maschile della
famiglia patriarcale e quella femminile delle passioni, tra la legge della città e quella della
natura, che opera nell'emotività di Medea.
Dietro le stragi della tragedia non c'è alcun progetto divino, alcuna giustizia che intervenga a
ristabilire l'equilibrio.
Gasone non è certo un personaggio esemplare: appare evidente anzi l'intento di presentarlo
in tono minore, poco più che un omuncolo opportunista

IPPOLITO
Trama:
Ippolito Incoronato è ambientato a Trezene, dinanzi alla Reggia di Pitteo, nonno materno di
Teseo. Nel prologo, Afrodite offesa per il dispregio in cui è tenuta dal giovane Ippolito,
unicamente dedito al culto di Artemide, annuncia che si vendicherà ispirando a Fedra,
attuale moglie di Teseo e matrigna di Ippolito, una passione irresistibile verso di lui. Dopo
una scena in cui vediamo il giovane, di ritorno dalla caccia, rinnovare la sua devozione ad
Artemide, viene trasportata in scena Fedra, oppressa da un morbo oscuro di cui la nutrice
chiede invano l'origine. Finalmente Fedra, sotto l'incalzare delle domande della nutrice,
confessa la causa della sua prostrazione. D'altra parte, vediamo proporsi l'altro versante del
personaggio di Fedra, la sua matura e robusta razionalità nel discorso che rivolge alle
donne di Trezene che compongono il coro. La nutrice cerca di ridimensionare il problema e
poi, di propria iniziativa, rivela Ippolito la passione della matrigna. Il giovane reagisce con
orrore e fugge dalla reggia, mentre Fedra, che ha udito, comprende che per lei è tutto
perduto e si impicca, ma non senza lasciare una lettera in cui accusa Ippolito di aver
attentato al suo onore. Quando la regina è stata deposta nel letto funebre, giunge Teseo e
scopre la lettera scritta dalla defunta. Tesio caccia via il figlio, che si protesta innocente ma
che d'altra parte tiene fede al giuramento, fatto alla nutrice, di non rivelare i veri motivi del
gesto di Fedra, e scaglia su di lui, come maledizione, uno dei tre desideri di cui suo padre
Poseidone gli ha promesso l'esaudimento: come racconta un messaggero, un gigantesco
mostro mandato da Poseidone fa imbizzarrire i cavalli del carro d'Ippolito, che resta
impigliato alle redini e viene mortalmente dilaniato. E’ portato in fin di vita dalla sulla scena,
dove Artemide, apparsa ex macchina, spiega a Teseo la verità e consola il giovane. Teseo
fonderà quel culto di Ippolito che era appunto celebrato a Trezene.

Afrodite per punire Ippolito che la preferisce ad Artemide, ha deciso di destare una passione
incestosa per lui nella matrigna. Con questo il problema della colpa è eliminato: Fedra non è
un' immorale, ma la vittima di una forza possente e irresistibile contro cui nessuno può
lottare. Anche lei al pari di Medea, porta alla rovina la sua casa, non però per una
consapevole volontà di vendetta, ma perché travolta da una forza oscura che annienta la
ragione: anche in lei è presente il conflitto tra le leggi che regolano la convivenza civile e le
forze istintive e primordiali. Fedra è una dei grandi personaggi del teatro tragico: entra in
scena fuori di sé, incapace di confessare il proprio segreto, poi lo rivela tra mille reticenze,
passando dalla vergogna alla speranza; infine quando viene respinta questo amore si
trasforma in una forza autodistruttiva che la porta al suicidio e causa la rovina di chi le sta
intorno. Ma in tutto questo l'eroina non è mai pienamente padrona di sé stessa. Al contrario
di lei Ippolito in nessun modo perde la sua gelida durezza, è un uomo a una dimensione,
che taglia via da sé il desiderio e la passione. Ma queste forze da cui lui si distacca anche
con un certo disdegno, finiranno con il ritorcersi contro di lui. I due personaggi hanno due
opposte concezioni della vita. L'una e l'altra sono unilaterali e quindi colpevoli: Fedra è
l'immagine drammatica di una soggezione totale alla naturalità dell'esistenza, che sopprime
la dimensione dello spirito; mentre in Ippolito si identifica la ripulsa della corporeità, esaltata
in una dimensione esclusivamente spirituale, ma la purezza che il giovane ostenta ha un che
di irriverente, nel rifiuto categorico di Afrodite con un estremismo che sconfina nella ubris e
che richiama l'analogo atteggiamento dell'Aiace sofocleo nei confronti di Atena.
Entrambi i protagonisti sono peccatori perché in modi diversi violano una legge della polis:
entrambi corrodono la cellula fondamentale della vita sociale, vale dire la famiglia.
Anche Teseo è un impotente in balia degli eventi e preda della sua ira.
Nessuno dei tre è malvagio o colpevole nel senso della piena responsabilità morale, ma tutti
e tre vanno incontro ad un destino infelice. Non c'è ragione che giustifichi questi fatti, ma
solo la consapevolezza che le radici della sofferenza e della follia sono dentro l'uomo.
La tragedia è aperta e chiusa da due figure divine, la prima distrugge, la seconda non salva
il suo prediletto. Il mondo divino e ostile o indifferente, la grandezza degli dei consiste nell'
atterrare un mortale o nel rivolgergli un distratto occhio pietoso quando ormai i giochi sono
fatti.
Il dono degli dei è un elemento del folklore ma nella tragedia ha un ruolo molto importante. Il
dono si trrasforma quasi sempre in sventura e fa parte della polemica euripidea contro la
divinità. Gli dei sono così lontani dagli uomini da non capire cosa è bene per loro.
Nell’Alcesti Apollo era così ammirato della potenza di Admeto che gli fa un dono: nel
momento della morte potrà vivere se qualcuno fosse disposto a farlo al posto suo. Ma
questo non è un dono perché la moglie Alcesti si sacrifica; la vita senza di lei è una tragedia.
La bellezza di Elena, dono degli dei, è una sventura. I doni non servono agli uomini. Lo
stesso dono della magia donato a Medea diventa strumento di morte. Il grande
cambiamento Euripide lo fa nel finale. Di solito la divinità salva il personaggio da questa
morte e poi viene ripristinata la sua innocenza. Qui non c’è lieto fine. La dea di Ippolito non
lo salva e lo dice le stessa “io non posso intromettermi nel volere di un altro dio”. Gli stessi
dei hanno quindi dei limiti da non superare, ma Artemide può solo intervenire dopo
dimostrando la sua innocenza e fondando un aition: a Trezene ci sarà un culto di Ippolito
attestato.

ECUBA
Trama:
Con la caduta di Troia Polidoro, figlia di Priamo ed Ecuba, è stato assassinato dal re tracio
Polimestore per impossessarsi impunemente del tesoro affidatogli in custodia insieme col
fanciullo, il corpo del quale, gettato in mare attende ora la sepoltura. La scena è collocata
nel Chersoneso tracio, durante una sosta della flotta greca imposta dei venti sfavorevoli e
nel prologo proprio l'ombra di Polidoro racconta della sua morte e annuncia la sorte che
incombe sulla sorella Polistena, il fantasma di Achille ha chiesto che si è sacrificata.
Scomparso Polidoro, entra in scena Ecuba angosciata da un sogno, una cerva sbranata da
un lupo, che lei sente riguardare i propri figli. La prima sventura che le viene annunciata è
infatti la decisione presa dai Greci di sacrificare sua figlia Polissena. Odisseo viene a
prelevare la fanciulla per il sacrificio e invano Ecuba lo supplica di risparmiarla. Ma Polistena
stessa interrompe la preghiera della madre, convinta di dover anteporre la morte al destino
di schiavitù che l'attende. Dopo il Commiato della giovane, l'araldo Taltibio riferisce della
morte di Polissena e dell'ammirazione che gli stessi nemici hanno provato dinanzi al suo
coraggio. Mentre Ecuba e le donne Troiane, che compongono il coro, apprestano le
esequie, viene introdotto un cadavere, che si scopre essere quello di Polidoro, rinvenuto
sulla riva del mare. L’ira suscitata dalla scoperta della misera fine del figlio di induce Ecuba
a chiedere la collaborazione di Agamennone per vendicarsi del traditore Polimestore.
L’avido assassino, mandato a chiamare da Ecuba, cade nel tranello che gli viene teso: col
miraggio di un altro tesoro entra disarmato nella tenda dove la vecchia regina e le altre
donne accecano lui e ne uccidono i figli. Invano Polimestore implora vendetta da
Agamennone: l’Atride si mostra solidale con Ecuba e a Polimestore altro non resta che
predire a costei la metamorfosi in cagna.

Sostanzialmente è una tragedia minore. È strutturata a dittico: ma questo schema ha


soprattutto attinenza con la duplicità dell'azione, mentre in entrambe le parti campeggia la
figura dolente di Ecuba. Da un lato vi è il sacrificio di Polissena sulla tomba di Achille,
dall'altro la vendetta di Ecuba nei confronti di Polimestore per l'assassinio di Polidoro.
Comunque vi è un impegno a saldare in unità compositiva le le due vicende, e ciò è
riconoscibile in vari tratti: l'apparizione dell'ombra di Polidoro già nel prologo.
Il tema della guerra, non più in chiave patriottica ma come occasione per mostrare gli aspetti
più atroci e violenti della personalità umana.
Nell'Ecuba le vittime sono gli innocenti: Polidoro è vittima del calcolo cinico di un uomo che
avrebbe dovuto essergli amico, Polissena, sgozzata da chi pensa di poter disporre
liberamente della vita altrui; i figli di Polimestore, innocenti delle colpe del padre. La si
direbbe quindi una riflessione sul potere e sulla legge del più forte, ma su questa trama
Euripide innesta la vendetta di Ecuba, che è quindi il cuore di questa tragedia. Ed è
indubbiamente una delle grandi figure femminili euripidee: la vecchia regina è una donna
piegata e umiliata, ma capace di trarre dal suo dolore la ferocia e la vendetta, una vendetta
però fine a se stessa, senza riscatto ho speranze. È un personaggio che cambia e muta
sulla scena, oltrepassando la sottile linea che divide la disperazione dal furore e dal
desiderio di vendetta.

TROIANE
Trama:
Nel prologo Poseidone e Atena preannunciano la catastrofe che distruggerà la flotta greca
durante il ritorno e disseminerà di cadaveri le acque dell’Egeo. Poi la scena, collocata nel
campo greco dinanzi a Troia ormai conquistata, vede le donne troiane sorteggiate come
schiave insieme con Ecuba. L'araldo Taltibio viene ad annunciare ad Ecuba quale sorte
attende lei e le altre prigioniere: l'attenzione si appunta su Cassandra, la profetessa di
Apollo, assegnata ad Agamennone come sua concubina. Cassandra in preda al delirio,
intona un lugubre canto nuziale predicendo le sventure che attendono lei e il suo padrone al
ritorno in Grecia. Poi, dopo che Ecuba ha lamentato la fine dell'immenso potere della sua
famiglia, Andromaca esprime il suo desiderio di morire, ora che è stata assegnata al figlio
dell'uccisore di Ettore, Neottolemo. Ecuba la esorta sopportare la sua sorte per il bene del
figlio, ma proprio il piccolo Astianatte viene sottratto alla madre, dato che i greci dietro
consiglio di Odisseo, hanno deciso di gettarlo dalle mura di Troia e temono che il figlio di
Ettore possa diventare un guerriero ancora più forte di lui, e vendicare il padre. Quando si
presenta in scena Menelao, che sembra convinto di punire Elena finalmente riconquistata,
Ecuba lo esorta a guardarsi dal fascino di lei. Ed è proprio Ecuba a confutare l'autodifesa
della donna: Elena non è, come vorrebbe sostenere, una vittima di Afrodite, anzi chiama col
nome della dea ciò che non è altro che la sua lussuria. Attratta da Paride e dalle ricchezze
Troiane, lei lo ha seguito di sua volontà, anche se ora invoca la gara di bellezza fra le tre
dee e il giudizio favorevole ad Afrodite da parte di Paride come causa prima delle sventure
della guerra. Menelao sembra concordare con Ecuba e acconsente di far viaggiare Elena su
un’altra nave: è chiaro però che gli sia bastato rivederla per rimanerne ancora irretito. La
tragedia si chiude con la disperazione di Ecuba, alla quale toccano, dopo la partenza di
Andromaca, le esequie del nipote Astianatte: la madre ha chiesto per lui che venga sepolto
sotto lo scudo di Ettore e il pianto di Ecuba sottolinea lo stravolgimento di un ordine naturale
che avrebbe previsto che fosse piuttosto nipote a rendere onore alla sua tomba. Il dolore
della regina sembra trovare, come unica soluzione quella di lanciarsi tra le fiamme della città
punto ma, mentre Troia crolla, lei viene avviata insieme con le altre donne verso le navi che
la condurranno alla schiavitù.

Euripide scrive questa tragedia quando Atene si cingeva alla catastrofica spedizione in
Sicilia, 415, come sgomenta ripulsa degli orrori cui porta la sintesi dominio e come
lamentazioni sui vincitori e sui vinti. E se la prospettiva è collocata dalla parte degli sconfitti,
come i Persiani di Eschilo, ciò non accade per celebrare il valore e le ragioni di chi ha
trionfato, ma per portare il dolore prodotto dall'empietá degli uomini a un livello estremo di
pathos.
La tragedia è pressoché priva di azione.
Il poeta dimostra una sensibilità innovativa nell'affrontare il tema della guerra senza nessuna
concessione ai valori della tradizione eroica.
Il monito di Euripide non è soltanto morale. Tutta la tragedia è intessuta della
consapevolezza che la guerra è una dannazione anche per i vincitori. Già nel prologo
Poseidone e Atena concertano la disastrosa tempesta che annienterà la flotta greca; il
delirio di Cassandra è puntualmente presagita la morte di Agamennone.
Ma il disegno divino non è che il simbolo di una necessità storica, che vede nella violenza e
nella prevaricazione un sistema di potere, di cui gli stessi responsabili finiranno per essere a
loro volta vittime: come sarebbe accaduto agli Ateniesi.
E d'altra parte la condanna della guerra e della conquista è a sua volta la denuncia di un
dolore universale, che costituisce una tonalità di fondo della tragedia.
Potremmo dire che con questa tragedia, in apparenza cupa e senza speranza, Euripide
trasmette quasi un messaggio pacifista intriso di profonda e drammatica forza morale.
Questa tragedia è innanzitutto una lucida riflessione sui temi della violenza e della guerra in
generale.

ERACLE
Trama:
Il tema centrale è crollo dell'uomo dai sommi fastigi della gloria alla degradazione più
umiliante.
Qui compare ancora il motivo dell'encomio di Atene nella figura del suo massimo eroe
Teseo, che compare solo nella conclusione dell'opera ma che definitivamente salva il
protagonista assumendo il ruolo del deus ex machina. Al tempo stesso, il suo intervento
riconduce la vicenda a una dimensione umana. Gli dei esistono, e i loro emissari
soprannaturali compaiono sulla scena; ma viene negata la tradizione che li caratterizza
antropomorficamente, e all'opposto si afferma la capacità dell'uomo di ritrovare in sé il senso
e la responsabilità della propria esistenza. Forse mai come in questo dramma Euripide ha
espresso la crisi che c'era nella sua epoca, scissa fra il residuo delle credenze tradizionali e
la rivendicazione dell'autonomia dell'uomo.
L'arco della tragedia vede Eracle trasformarsi da eroe sovrumano a uomo, lungo
un'esperienza che trova un'intima unità drammatica nel significato del suo destino,
interpretato non più come un segno dell'irrazionale pena di esistere, ma come l'ineluttabile
alternanza delle sorti umane, che va riconosciuta e accettata.
L'intervento pietoso di Teseo, che conforta l'amico inducendolo a rinunciare alla prospettiva
del suicidio, propone un'ipotesi di accettazione del destino e di coraggio di vivere che apre
uno spiraglio sia pur esiguo di umanistica fiducia nelle risorse della persona in quanto
capace di sottrarsi alla morsa in cui gli tenderebbero a soffocarlo.
Infatti alla morte pensa anche Eracle, dopo essere tornato in sé e aver appreso dell'orribile
strage compiuta; tuttavia la sua decisione finale di sopravvivere, l'amicizia e l'aiuto che
accetta da Teseo sono altrettanto segnali che dimostrano come Euripide abbia voluto
sganciare l'eroe dal mondo tradizionale del mito, per reinserirlo in un ambiente più
quotidiano, dove bene e male sono mescolati e l'uomo è in totale balia di un destino
imprevedibile, che ora lo esalta ora lo atterra. In questo senso, è significativo il tema dalla
filantropia introdotto da Teseo: soltanto nella solidarietà di altri uomini un individuo sofferente
e piegato può trovare riscatto. Gli dei invece sono assenti o ostili (la follia di Eracle è infatti
inviata da Era), proprio come nell'ippolito.

BACCANTI
Trama:
il dio rivela nel prologo di essere venuto a Tebe, patria di sua madre Semele, oltre che per
introdurvi il culto bacchico, per punire le sorelle di lei, fra le quali Agave madre di Penteo,
per aver dubitato della sua origine Divina: per questo ha infuso il loro e nelle altre donne
tebane un invasamento che le ha indotte a lasciare le case e a correre verso il Citerone.
Dopo una scena in cui le ragioni del nuovo culto sono difese contro Penteo da suonano
Cadmo e dall'indovino Tiresia, il re fa chiudere in carcere lo straniero sotto le cui sembianze
si cela Dioniso. Questi però si libera dalle catene provocando un terremoto che scuote il
palazzo e riescie a convincere Penteo, più che mai deciso a ricondurre all'ordine le nuove
baccanti tebane, a recarsi travestito da donna sul Citerone. Così Penteo segue Dioniso sul
Citerone, verso l’anfratto dove le menadi sono raccolte, ma là, come apprendiamo nel
racconto del messo, viene abbandonato dal dio alla furia delle donne invasate, che lo
vedono come un leone. Ed è proprio sua madre Agave che nella esaltazione conficca la
testa del figlio su un tirso e mostra le compagne la macabra preda. Nella parte finale della
tragedia, che ci è pervenuta lacunosa, compare Agave, ancora in preda a uno stato di
allucinazione, reggendo sul Tirso la testa del figlio: il suo progressivo riprendere coscienza,
di fronte alla rivelazione della verità a cui la guida pazientemente il padre Cadmo, riduce la
donna ad uno strato stato di estrema disperazione. Infine appare Dioniso stesso, che
condanna Agave e le sorelle all'esilio e annuncia a Cadmo che sarà trasformato in drago e
sposerà Armonia, ma la tragedia si chiude sulle accuse al Dio di eccessiva durezza e di
comportamento troppo simile a quello di un mortale i sui lamenti di Agave e Cadmo, che
abbandonano la città.

La crisi della ragione è il motivo conduttore delle baccanti, ma a fronteggiare l'intelletto


umano non sono qui i sentimenti ma il mistero del divino, secondo l'originaria concezione
tragica. Si tratta dell'unica tragedia tra quelle che ci sono giunte, che abbia un dio come
protagonista.
Penteo è campione della razionalità assoluta, poi accecato da una smania di conoscenza
che si traduce in rovinosa follia; e ad ispirare il suo delirio è Dioniso.
Le Baccanti presentano il retaggio di errore e dolore che appartiene all'uomo Penteo,
travolto dalla ubris di credersi autore del suo destino e di quello dei suoi cittadini e di voler
conoscere l'inconoscibile. In questa tragedia Euripide misura la distanza che intercorre tra
l'umano e il divino.
Il dio domina radioso nel mistero della sua smisurata forza, e Penteo appare dapprima
chiuso nell'orgoglio della sua ragione, e poi domato da una smaniosa follia. Ma questa
metamorfosi non incrina la coerenza di un carattere sempre pervaso dalla volto e dominare
ciò che gli si sottrae.
Al centro dell'opera sta soprattutto una dimensione della psiche da cui Euripide fu
profondamente attratto nel corso di tutta la sua carriera di drammaturgo: vale a dire la follia,
l'operare sotterraneo di forze cieche e possenti all'interno della mente umana, che ne è
contemporaneamente attratto e travolta. In effetti l'attenzione con cui vengono descritte le
modalità della trasformazione di un personaggio e l'indagine sui fenomeni dell'irrazionale
sono i temi più profondi della tragedia e insieme anche un po' il motore che anima le scene
più notevoli del dramma.
Alla fine del dramma appare il dio che dice che se avessero imparato a essere più modesti
ora sarebbero salvi.
Nella tragedia si gioca molto sul tema del doppio: il doppio confonde, distrae, fa vacillare le
certezze di un mondo governato dalla verosimiglianza.

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