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23/03/2023

Verso 300: Alla dea stupita, la dea musa così sorgendo (orsa vuol dire tra lottare in piedi e
ribattere quello che si era detto, tirandosi su) disse: “Da poco anche costoro hanno accresciuto il
numero di uccelli, dopo essere stati vinte di una gara e le generò Piero di Pella, ricco di
possessi terrieri, di terre, loro madre fu Evippe di Peonia, costei invocò nove volte la potente
Lucina sul punto di partorire nove volte e il gruppo delle sciocche sorelle si insuperbì per il
numero e attraverso tutte le città dell’Emonia e dell’Acaia arrivò qui e con tali parole dichiarò
battaglia: “Smettete di ingannare il popolo incolto con una dolcezza vana. Se avete fiducia in
voi, dee di Tespie, combattete con noi. Non saremo vinte né per la voce né per la tecnica e
siamo uguali di numero o una volta vinte rinunciate alla fonte di Medusa, ad Aganippe degli
Hyanti, di Hyantea (altro modo di dire della Beozia) oppure noi cederemo i campi dell’Emazia
fino alle cime nevose della Peonia. La gara sia giudicata dalle ninfe/ le ninfe giudichino la
gara.” Era disonorevole gareggiare, ma cedere sembrò più disonorevole. Le ninfe scelte,
selezionate giurano sui fiumi e premettero, si occuparono sedendo dei sedili fatti di pietra
naturale.
Fino al verso 331 è un segmento di narrazione che continua ciò che stiamo ascoltando e che di fatto
rende conto dell’oggetto di canto che hanno scelto le Pieridi perché dopo aver stabilito le regole
della gara: cosa c’è in palio? chi saranno i giurati? In modo energico e provocatorio, cantano per
prima. La portavoce delle Pieridi non aspetta di discutere chi comincia, ma come dice il verso:
“Tum sine sorte prior quae se certare professa est…”
Questa Musa aveva fatto questo discorso a nome delle sorelle con cui dichiara battaglia perché le
muse non avevano minimamente idea, non di cantare che era una loro attività, ma di cantare in gara.
Si gioca in casa delle Muse. Le Pieridi sono venute a provocare e letteralmente a chiedere questo
scontro. Con questa sorta di protervia che si esprime anche nel parlare per primi, comincia a cantare
la sfidante, senza aspettare sorteggio.
Verso 318: Allora, senza sorteggio, per prima, colei che ha dichiarato (se professa est)
apertamente di combattere, di gareggiare, canta le guerre degli dei [Bella canit superum questa
formula della superum è il primo oggetto di quello che viene detto canit, cantare. C’è un que
enclitico. Ponit in falso honore Gigantas et exenuat facta] e pone/mette in risalto/dispone i giganti
(Gigantas che è un altro grecismo traslato in latino, segue una declinazione latina, accusativo
plurale) in falso onore (qui onore vuol dire lode, attribuire onori, conferire onorificenze, in questo
caso sia come oggetto di racconto in cui le guerre degli dei sono raccontate e sono lodati e posti in
esaltazione con onore in riferimento ai giganti. È un obiettivo del loro canto integrato.)
[Extenuat facta magnorum deorum.] Extenuat: l’etimologia di ex tenue ha la parola tenue-is che
vuol dire leggero, esile, pensiamo al sinonimo attenuare cioè qualcosa che ha un suo peso, materiale
o figurato, che viene, a seconda del modo in cui viene raccontato, alleggerito, non in senso
elogiativo, svilito. Anche svilire ha un etimologia che in italiano viene da peso, una cosa che è
pesante, solida, importante e ci sono modi di estenuarla, attenuarla, di indebolirla, in qualche modo
sottovalutarla. Qual è l’oggetto di questa extenuatio? Le gesta (i facta) dei grandi dei: espressione
tecnica. Quando si alludeva alle guerre degli dei, la mitologia (e la teologia se il sistema era anche
religioso) alludeva alla fase bellica, di vera e propria guerra che alle origini del mondo, nella fase
prima del genere umano. C’è una fase in cui vi sono gli dei di vario tipo, anche con conflitti tra loro,
e creature sempre divine o semidivine che agli dei dell’Olimpo opponeva degli esseri che, anche
simbolicamente, erano opposti agli dei, alla genealogia degli dei perché erano legati alla terra.
Mostravano una forza fisica enorme, avevano un aspetto umano e giganti erano proprio esseri
mostruosi, di mostruosa potenza e che proprio in virtù della loro mole fisica tentarono l’assalto alla
linea di potere che era impersonata da Zeus e dalla sua dinastia. Possono avere numero variabile,
possono essere 3,4, ci si può concentrare su una figura piuttosto che su un'altra. La figura che sarà
evocata, anche perché le muse sceglieranno di raccontare la storia di Proserpina, scegliendo di
collocarla in Sicilia, non in uno scenario ellenico, ma siculo e allora lì la figura di un gigante
abbattuto da Giove (ha vinto i giganti) è in particolare quello che chiamano Tifeo o Tifone che,
nella narrativa delle guerre, sarebbe stato abbattuto dal fulmine e schiacciato sottoterra condannato
in qualche modo a reggere la Sicilia, schiacciato in orizzontale, per tutta la grandezza del suo corpo
che, anche figurativamente, si presentava in orizzontale, giacente sulla schiena con la testa
corrispondente all’Etna, spiegazione che l’Etna è uno dei vulcani da cui periodicamente escono
fiamme e fuoco che, altro non sono che le fiamme capaci di essere soffiate da Tifeo.
Questa mitologia dei titani è arcaica, ma a noi interessa la rappresentazione letteraria.
Nella teogonia esiodea abbiamo già un componimento. Teogonia: generazione o genealogia degli
dei, nascita degli dei. La generazione di Zeus vi è una lotta per il regno. La prima guerra seria che è
attenta a questo potere che deve affrontare è proprio quella con i giganti che, con la loro grandezza,
osano scalare l’Olimpo perché loro fisicamente sono grandi. Racconto simbolico, allegorico, una
sorta di lotta tra divinità legate alle forme mostruose. Nella mitologia che poi è pronta per una
narrazione poetica, la storia della gigantomachia è un vero soggetto di canto aedico cioè la battaglia
degli dei Olimpi con i giganti, con episodi, ed è una sorta di soggetto meta letterariamente, per
eccellenza, epico perché c’è guerra e ci sono dei. In questo caso ci sono solo dei. A voler definire la
materia epica come se avesse una sorta di genealogia arcaica, la gigantomachia è quanto di più
epico ci sia perché l’oggetto guerra ci dev’essere e ci devono essere gli dei e qui sono dei e giganti.
Ci rimane qualche gigantomachia per intero della produzione greca? NO, ma ci rimangono varie
allusioni e citazioni della gigantomachia come soggetto.
Quando Ovidio dice di sé, negli Amores: io stavo quasi componendo una gigantomachia: soggetto
serio, epico, quando sono stato visitato da un Dio (il dio può anche consacrare il poeta per un canto
alto, però più anche dirgli non farlo, non è il caso, occupati di un'altra cosa). È un po’ quello che
aveva fatto in forma raffinata, meta letteraria Virgilio nella raccolta delle sue prime opere che già
erano programmati per essere le prime di un itinerario, di una carriera, di una produzione poetica
ascendente: la raccolta delle Bucoliche (sono come registro stilistico riconoscibili nei valori come la
leggerezza, l’umiltà dei soggetti pastorali e quindi di conseguenza uno stile di poesia molto
raffinato, però tenue) viene per prima, ma già si sa che si salirà di stile e si farà qualcosa di più serio.
Virgilio frequentava il Circolo di Mecenate, più vicino ad Augusto, c’era l’attesa e la richiesta
abbastanza aperta di un poema epico, per epica si intendevano: guerre/eroi. Se fosse un epica di lode
romana sarebbe meglio. Vi era Ennio con gli Annales, era venerabile e venerato, vissuto un secolo
prima, era arrivato a scrivere la storia di Roma in 18 libri, poi in 15, ma fino ai suoi giorni.
Bisognava cantare questi tempi nuovi, del princeps e della rifondazione di Roma, con un genere che
è il più alto ed è l’epica. Questo poema epico, all’inizio, poteva essere scritto anche da Orazio,
coetaneo di Virgilio, fa parte di una cerchia più anziana di Ovidio. Ovidio è
più libero nella sua ispirazione, non fa parte degli ambienti di Mecenate, ma di Messalla Corvino
(ambienti più distanti). Nel progettare la sua carriera Ovidio sembra più svincolato da quello che il
circolo mecenatiano aveva come obbligo sentito, non costrittivo, di cantare e partecipare alla
politica culturale.
La poesia programmatica degli Amores, prima raccolta di versi di Ovidio, Ovidio fa questa scena
di consacrazione: io mi accingevo a scrivere la gigantomachia, è arrivato Cupido (è un dio più
esigente di Apollo) e mi ha colpito con la freccia, quindi mi ha reso suo schiavo, dunque anche
incapacità di scrivere altre cose che non siano amore, solo amore, questo non toglie che il progetto
sia rimandato. Conta molto Virgilio, l’esempio virgiliano perché come 3 gradi di stile (tenue, medio
e alto) Virgilio ha saputo rappresentare così bene con le sue 3 opere, Ovidio ne scrive di più, ha un
altro temperamento di prolificità, ma mira al genere alto: l’epica e/o la tragedia.
Ovidio compone anche una tragedia: la Medea, perduta per noi. (Ovidio riempie tutti i gradini.)
Nelle Metamorfosi in cui l’io narrante non deve dare notizie perché il narratore epico deve narrare
questo enorme mondo fatto di dei e di uomini c’è un personaggio Orfeo, il primo e il più grande
dei cantori, che è inserito in una parte del poema per raccontare la sua vicenda di cui il narratore
epico dice: dopo aver subito la morte dell’amatissima Euridice, nessuno aveva osato scendere
nell’Ade, persuadere con il canto i sovrani e poi perdere l’occasione per non essere stato capace di
osservare la legge severa che avevano gli dei cioè non voltarsi indietro. Il lutto di Orfeo è un lutto
totale, disperato che dura, in forma totale di mobilità, di pianto, né mangiare né bere, dura 7 giorni
sull’orlo dell’Ade e non riesce ad andare oltre: potremmo definirlo lutto stretto.
C’è una fase in cui, tradizionalmente, si usava portare da mangiare e da bere a chi viveva la perdita
perché c’è un momento in cui questo lutto assoluto non può contemplare attività come quella di
cucinare ecc. Quando Virgilio racconta la stessa vicenda, nel IV delle Georgiche, e parla di una
disperazione di Orfeo di 7 mesi in cui non sta fermo: vaga, piange, dice solo la frase “Euridice”.
Ovidio sempre più realistico, gli ritaglia questa tempistica: 7 giorni di mobilità, distrutto da quello
che ha vissuto. Poi torna nella sua terra, la Tracia, secondo una versione che segue Ovidio. Torna in
Tracia, ma non riesce a riprendere l’attività di cantore che è la sua identità. Dopo 3 anni c’è una
ripresa dell’attività che lo definisce, la sua arte e lo ritrae in questa ripresa di canto e gli fa dire “io
ho già cantato la gigantomachia, l’ho fatto prima” (uno dei soggetti possibili come cantore) “ora non
è il momento di fare un canto così impegnativo, mi metto a cantare di nuovo, però su una musa più
leggera” (Orfeo è segnato dalla sua perdita) vuol dire un registro che non è epico e non a caso
contempla tra i suoi soggetti: l’amore, non che l’amore non possa essere nell’epica (pensiamo ai
due grandi modelli). L’Odissea non la potremmo definire una storia d’amore, ma c’è l’amore, non è
un argomento tabù per l’epica tanto è vero che ci può essere addirittura come parte di un intreccio
epico, come nelle Argonautiche che è, per questo aspetto, un modello molto forte per Virgilio,
quando immette il tema amoroso attraverso il personaggio di Didone ed Enea, però è chiaro che si
tratta di un tema secondario, fa parte dell’intreccio, gli dedica il IV libro. Ci può essere spazio per
l’argomento amoroso, ma dentro una cornice che deve contemplare dei, eroi. In questo senso il
canto di Orfeo che occupa gran parte del X delle Metamorfosi, quando dice io ho già cantato la
gigantomachia, ora vorrei cantare storie di amori leggeri, di ragazze che impazziscono per amori
infelici e di ragazzi amati dagli dei, oggetto di amori fedico da parte di un dio che se ne innamora.
(Verso 319) Bella superum è un argomento serio che, non a caso le Pieridi scelgono perché è una
gara importante, ma subito la cosa di cui la musa ci informa…, cosa fa? mette in massimo risalto,
ma anche onorandoli quindi lodandoli, i giganti. Apparentemente c’è libertà di trattare il tema.
Fa questo, e specularmente attenua, svilisce, alleggerisce le gesta dei grandi dei: Giove, Mercurio.
Questo è già per la musa il modo di raccontare il canto delle Pieridi che è un canto di cui
informazioni su voce, capacità di suonare non ne vengono date, probabilmente ci sono queste abilità
di performance, ma il contenuto e la selezione del tema, ma soprattutto la maniera di raccontare il
tema è una maniera provocatoriamente eterodossa cioè la musa non segue la verità perché la
gigantomachia l’hanno vinta gli dei e soprattutto l’hanno vinta meritatamente perché i titani sono
simbolo di arroganza e di prepotenza. Notiamo che è coerente con la presentazione che già dalla sua
dichiarazione di guerra la Pieride fa cioè il modo di mettere in discussione i valori gerarchici delle
divinità.
Segue nei versi dopo, senza interrompere la frase, una serie di infinitive che dipendono da questo
canta bella e poi canta sottinteso emissum Typhoea (accusativo alla greca) ima terrae caelitibus.
Verso 321: Ha cantato di Tifeo uscito fuori dalla sede profonda della terra (emissum de sede
ima terrae), e della paura che ha fatto (fecisse metum= ha fatto paura) ai celesti (caelitibus sono i
dei olimpi) e tutti abbiano danno la schiena alla fuga (cunctosque dedisse terga fugae):
letteralmente/ e tutti (gli olimpi) si siano dati alla fuga: espressione prosastica che rispetta anche il
testo del canto delle pieridi che quando parla degli dei olimpi è privo di rispetto anche nel
linguaggio. Nelle due infinitive abbiamo Tifeo accusativo, l’altra infinitiva è cunctos = tutti. Qui c’è
la paura e fuga: vi è un momento in cui se ne vanno dalla loro sede perché stanno arrivando gli
invasori titani e si sono dati alla fuga che è un immagine rappresentativa della paura e della
vigliaccheria.
Presi dalla paura di Tifeo che era salito si sono dati alla fuga: Finché: aperta questa subordinata
temporale con donec, il soggetto di questa frase è Aegyptia tellus= la terra d’Egitto li aveva presi
stanchi (fessos in quanto stanchi) il Nilo (altro soggetto) che si separa (discretus) in 7 foci (ostia).
Alla fine hanno vinto, gli dei dell’olimpo si sono dimostrati ciò che sono: paurosi, vigliacchi, se ne
sono scappati nella Terra d’Egitto. La paura è talmente tanta anche mentre si sta rifugiati, intanto
perché Tifeo, nato dalla terra (terrigenam), va in Egitto, espediente il più degradante di tutti:
nascondersi da parte degli dei olimpi, assumendo false sembianze, una metamorfosi temporanea,
funzionale a scopo degradante, travestirsi da.
Elemento importante: la Musa rendiconta le parole esatte che hanno detto. Finora racconta, ci ha
detto il senso, ma sul fatto che si sono celati sotto figure di animali ripete a Minerva le parole, sono i
versi 335.
[Dal verso 318 al verso 324: Sintatticamente è un'unica frase, ma è scomponibile nei suoi membri
sintattici.]
Verso 325: Narra che persino qui era venuto, arrivato (huc=qui cioè nella terra d’Egitto) Tifeo,
nato dalla terra (terrigenam) [Prima di narrat trovo l’infinita che dipende da narrat: venisse
infinito, poi (usando una sola volta narrat) trovo la seconda infinita: celasse.] e che gli dei (superos)
si erano nascosti in figure finte (mentitis figuris) sotto false sembianze.
Prima ci dice da cosa si traveste Iuppiter Giove, poi Delius è il dio di Delo è l’isola dove Latona
riesce a partorire. Nello stesso esametro proles Semeleia: il figlio di Semele. In questa lista degli dei
olimpi, ognuno dei quali prende le fattezze degli animali. Non c’è la madre di Apollo e Artemide, ci
poteva essere Latona.
Verso 328: Giove diviene il capo del gregge (dux gregis) da cui (unde) anche oggi (nunc quoque)
Ammone (canto che per essere serio deve avere quei tocchi di erudizione, l’erudizione è c’è un dio
in Egitto che chiamano Ammone che in realtà è Giove) libico, della zona dell’Africa settentrionale,
(Libys Ammon) è rappresentato (formatus) con le corna ricurve (cioè l’informazione è
degradante, però anche colta di teologia perché da qui si spiega come Ammone, che è il dio
maggiore degli egiziani, è rappresentato con le corna ricurve, è una tipica informazione di eziologia,
mitografia precisa, nello stesso tempo alla base ha un atto che le Pieridi rappresentano come
degradato). Giove si è trasformato in caprone per paura di Tifeo.
Il Delio cioè Apollo in corvo, il figlio di Semele capro, la sorella di Febo in gatto, la Saturnia
cioè Giunone in vacca bianca (vacca nivea), Venere si nascose (latuit: stare nascosto) sotto un
pesce, diventando pesce, e Cillenio/Cillene si nascose sotto le ali di un ibis (è un animale
mitologico che ha anche una forza letteraria).
In questo tipo di rappresentazione degli dei maggiori in forma animale sicuramente c’erano
versioni non a scopo provocatorio, ma versioni collaterali, giocose, non abbiamo moltissimo,
soprattutto queste corrispondenze così precise ci possono far venire in mente delle cose guardando
al materiale mitologico così come lo tratta Ovidio nel suo poema. C’è una metamorfosi del corvo, il
corvo esiste, la sua metamorfosi da bianco in nero, ha a che fare con Apollo nel II libro, che Venere
scelga la forma di pesce ha che fare con le versioni che raccontavano che nasce dalle acque del
mare, la sorella di Febo in gatto: animale sacro in Egitto.
[Lo stile non è particolarmente elevato.] Con questo termina il rendiconto del soggetto che ha scelto
la Pieride e di come l’ha narrato, è interessante in questo vedere come lunghezza di canto, che non è
mai un elemento secondario, sembrerebbe un canto sicuramente più breve, non sappiamo se
concludevano così.
Verso 332: Fin qui aveva mosso le parole sonanti alla cetra (ad citharam) siamo richieste di
intervenire noi Aonidi (poscimur Aonides). Ci aspetteremmo che il racconto continui, invece,
Ovidio immette sempre nel discorso della musa quest’interruzione notevole: Ma forse (otia non
sint congiuntivo presente indipendente) tu non hai tempo libero [ma forse tu hai altro da fare] e
soprattutto non hai le orecchie vuote per ascoltare i nostri canti. Il senso è: hai altri pensieri tu
dea. Questa interruzione è molto cortese in quanto obbedisce a termini di galateo. Il mio racconto è
importante, ma non è importantissimo, tu sei dea, tu sei Minerva, hai una virtus. Molto forte
quest’interruzione, non è solo formale per farsi fare il complimento. La risposta di Minerva segna
un rilancio della narrazione: Raccontami in ordine cosa avete risposto voi. Questa
rappresentazione anche delle condizioni di racconto nel racconto è tipicamente ovidiana.
Ci sono casi nel poema di racconto lasciato a metà? Perché narratori, racconti a cornice ce ne sono
più di uno, già abbiamo citato Orfeo. Ci sono casi in cui questa stessa dinamica di qualcuno che
racconta e l’altro che ascolta, e il narratore epico che me lo dice, avviene?
In questo senso rimando al I libro della Metamorfosi cioè a una situazione di racconto in cui a
raccontare è Mercurio con una finalità che non è il racconto di per sé, non è una gara, ma è una
finalità, una missione piuttosto seria e sanguinaria che è: costringere al sonno, far addormentare e
poi di fatto uccidere il cane Argo dai cento occhi che è il cane di cui Giunone si serve come
sentinella, è stato messo a guardiania di una delle conquiste di Giove: Io. Mito di Io: molto cantato
in tragedia e in commedia greca. Per far sfuggire Io dalla villetta di Giunone, che si accorge di
questo tradimento di Giove, prima avvolge in una nube e poi trasforma in giovenca.
[Io è un personaggio che si contrappone nella tragedia greca (Eschilo) in forma di vacca, la vacca
nivea è Io, una delle amanti di Giove.] Questa giovenca non viene mai persa di vista perché non
possa mai trasformarsi in donna, da Argo (vigilante dai 100 occhi che non dorme mai). Giove si
rivolge a Mercurio, dio abile in queste imprese, di andare a cercare il modo per abbattere Argo.
[Mito di Io ha esito di ritorno più che alla forma umana, alla forma direttamente divina, sotto
fattezze di divinità legate all’Egitto, ma non solo.]
Giove cerca di scampare alle furie di Giunone, dunque la missione di Mercurio è andare dove c’è
Argo, che ha guardia, tentare di stancarlo, una volta addormentato ucciderlo. Mercurio lo fa con uno
strumento, primitivo per eccellenza: la canna. La voce con cui racconta, a cui Argo si interessa
appena vede lo strumento. Il narratore epico ci racconta di Mercurio che comincia a narrare di
questa storia che è poi l’origine della zampogna, dalla ninfa di nome Siringa amata da Pan. Vi è
una storia nella storia, quello che Mercurio sceglie come storia per incantare e addormentare
Argo che è molto sensibile sia alla musica dolce un po’ soporifera del flauto e della zampogna, sia
alla voce con cui Mercurio comincia a narrare. Narrazione non tra virgolette, però fino a un certo
punto è molto dettagliata. C’è un punto in cui Argo dorme, ma per metà degli occhi, ha un lato
sveglio, allora lui continua a raccontare la storia. Appena tutti gli occhi di Argo sono chiusi,
anche se la storia non è finita, Mercurio agisce in quanto deve ucciderlo.
La storia è interrotta nel discorso diretto di Mercurio? Si, se non fosse che il narratore epico ci dice
“si è interrotto perché Argo dormiva e ha agito” avrebbe dovuto dire e con grande sintesi e in pochi
esametri dice che Pan abbraccia Siringa che nel frattempo è stata metamorfizzata in un canneto.
Viene rendicontato per non lasciarci nelle condizioni di Argo che ha sentito fino ad un certo punto e
poi si è addormentato, dunque a quel punto per non lasciare incompiuto il narratore epico dice
avrebbe dovuto completare dicendo tutto, però non lo ha fatto: È una messinscena dell’atto del
raccontare con un mittente, un recettore, uno schema di situazione vivacizzato che coinvolge il
pubblico esterno che deve capire come va a finire la storia di Pan e Siringa.
Uccidere Argo è un atto assassino, è un uccisione tra esseri divini. L’uso che degli occhi di Argo fa
Giunone è di disporre questi occhi colorati sulla coda del suo uccello che è il pavone.
Alcuni ovidianisti insistono molto su questo tema del racconto, sulle condizioni del racconto e
anche sull’autorevolezza di chi racconta. Tutte le versioni delle storie sono compresenti e non è
detto che ce ne sia una più vera di un’altra. È chiaro che ogni volta che il narratore epico racconta fa
capire non da che parte sta lui, ma gli interlocutori da che parte stanno. Nel certamen è chiarissimo
che la musa abbia ragione, il racconto della musa Calliope deve dimostrare cos’è il canto superiore a
quello che viene sentito in questa decina di versi, della Pieride. Si, c’è una molteplicità di voci, ma
nello stesso tempo c’è una grande chiarezza in ogni situazione, da quale parte sta quello che
racconta rispettivamente. È un poema che non ha una tesi forte, una dimostrazione di qualcosa, non
racconta una storia fatale e necessitata come gli esiti di Troia che hanno dato vita al futuro impero.
L’Eneide è fin dall’inizio certamente complessa, ma chiara, contrastato questo destino, però segnato.
Le Metamorfosi, dal titolo, non hanno una tesi del genere, c’è un tempo progressivo, certamente
l’impero di Roma è la fine della storia. Roma è apparentemente eterna cioè comanda, tant’è vero
che nella fine delle Metamorfosi c’è “finché Roma regnerà, il mio nome vivrà”:
 come poeta romano sono tranquillo in qualche modo perché Roma durerà,
 vuol dire anche se Roma crollasse, la mia fama di poeta rimarrà.
Il senso della storia è: da questo cosmo delle origini si doveva arrivare a questo tempo che è il
migliore di tutti. È il tempo di Augusto. Questa era l’ideologia augustea ufficiale, anche abbastanza
convinta, la legittimità di Roma di comandare.
Giove, nell’Eneide, impersona come dio che dice “Io ho dato il comando senza fine ai romani” è
una consacrazione di Roma nata per questa.
La poesia romana è una poesia che ha a che fare con il potere, con i potenti, si confronta
moltissimo con questi, il mito romantico della poesia: è una poesia di un poeta libero insieme a una
grande raffinatezza. Dopo Virgilio e dopo Ovidio non sarà meglio, con l’impero consolidato,
soprattutto le opere alte, il genere epico: Stazio, Silio Italico, non c’è dubbio, ad esempio un
ideologia anticesariana è quella di Lucano, ideologia fortemente romana.
Nelle Metamorfosi c’è una politica camuffata leggibile in senso meno augusteo, con affermazioni
formali di augusteismo. Si mantiene sempre su un livello in cui non c’è mai un doppio senso
decifrabile. Il finale è significativo elogio di Augusto, ma l’ultima parola, non è su Augusto,
ma è su sé stesso, privato della poesia, dell’arte: è detto anche negli anni in cui, forse, poter
rivedere il testo senza poterlo poi trasmettere a Roma però, mentre era in esilio, dire questo è un
affermazione forte perché era il poeta bandito dalla sua città. È Anti-augusteismo questo? No.
Alcuni studiosi pensano al motivo politico per l’esilio di Ovidio argomentano che c’è più di un
indizio, ma altri vedono molto meno questa traccia. Nella poesia non ci sono momenti da
interpretare in senso anti o ridicolizzanti Augusto, però se si dà valore ad alcune figure chiave si
potrebbe pensare.
StazioTebaide: è un opera mitologica molto seria, oggetto di tragedie memorabili, Tebaide
significa “Tutta la storia di Tebe”, alla maniera epica, è un poema colto, nutrito, mitologico,
formalmente segue il modello dell’Eneide, non delle Metamorfosi. Liceità dell’intellettuale, uomo
di potere, ma ben inserito.
Con le Metamorfosi nonostante il contenuto sia mito, non abbiano un idea di un artificio letterario
così finito, c’è la sensazione di una materia un po’ fantastica, però sulle passioni umane, su ciò che è
plausibile, incredibile (i corpi che si trasformano) e non ci dà l’idea di un artificio letterario intende
uno stile anche tradotto, di traduzione ci sono poemi che danno l’idea di un erudizione letteraria
molto curata, troppo evidente, mentre le Metamorfosi è molto più chiara nello stile, ma
soprattutto mira a chi legge e a chi ascolta che vada avanti, che voglia sapere cosa c’è dopo.
Lucano, ad esempio, (a differenza di Ovidio non ha avuto momenti di svalutazione, ma è stato
sempre molto ammirato) ha uno stile volutamente difficile, retoricamente molto vistosa, pieno di
figure retoriche ed è una costruzione, eppure narra una storia vissuta: la Pharsalia non è costituita
da un piano di vicende fantastiche, di eroi del mito, ma lì ci sono Cesare, Pompeo, Catone. Quando
lo leggiamo è un amplificazione di espedienti retorici intesi come compositivi che pesano nello stile.
È un effetto di scelte di registro stilistico, di modi di scrivere.

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