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del mondo conosciuto, si estende una pianura tta di boschi e pericoli. In questa terra a
sud delle Alpi, disabitata e talmente inospitale che nel 101 a.C. non ha ancora un nome,
sono schierati uno di fronte all’altro, su una super cie lunga chilometri, i due eserciti più
grandi del continente. Duecentomila uomini pronti a combattere corpo a corpo, a
massacrarsi no allo stremo: a fare la guerra nel modo in cui la guerra veniva fatta oltre
due millenni fa.
Da una parte un popolo di invasori, anzi di “diavoli”, che ha percorso l’Europa in lungo e
in largo, portando distruzione ovunque, ed è dilagato nella valle del Po saccheggiando città
e villaggi, mettendo in fuga gli abitanti. È il popolo dei Cimbri, invincibile da vent’anni e
deciso, forse, ad attaccare persino Roma.
Dall’altra parte c’è il console Caio Mario, l’uomo nuovo della politica, con il suo esercito di
plebei ed ex schiavi, l’ultimo in difesa dell’Urbe. Quella che stanno per a rontare non è
una battaglia, è lo scontro tra due civiltà al bivio cruciale della sopravvivenza, è un evento
destinato a cambiare la Storia.
Terre selvagge è un viaggio nel tempo, in un’Italia ancora misteriosa, così vicina e così
lontana da quella che conosciamo. È il racconto di una pagina drammatica della vicenda
umana, nora avvolta da incertezze, falsità e malintesi. È, soprattutto, un maestoso
mosaico di ambizioni e di paure, nel quale è custodita la chiave per capire molte cose
anche del presente.
Sebastiano Vassalli è nato a Genova nel 1941 e vive da sempre in provincia di Novara. È
uno dei più importanti narratori degli ultimi decenni. Tra le sue opere più amate
ricordiamo La notte della cometa (1984), La chimera (1990, vincitore del premio Strega e
nalista al premio Campiello), Un in nito numero (1999). Ha scritto per “la Repubblica”,
“la Stampa” e attualmente è opinionista per il “Corriere della Sera”.
la Scala
SEBASTIANO VASSALLI
Terre selvagge
Campi Raudii
Proprietà letteraria riservata
© 2014 RCS Libri S.p.A., Milano
ISBN 978-88-58-66778-1
In copertina:
Immagine © Dirk Wustenhagen / Trevillion Images
Art Director: Francesca Leoneschi / theWorldofDOT
www.rizzoli.eu
Terre selvagge
Premessa
Ieri
Era maggio, il mese più bello dell’anno. Era il settimo giorno del
mese: le nonae. C’era il sole. C’erano i ori sugli alberi e nei prati,
c’erano, a chiudere l’orizzonte, le grandi montagne: le Alpi, ancora
bianche di neve. C’erano gli uccelli che tornavano dai paesi lontani.
Su tutto quello che si vedeva, però, e anche su quella parte del
paesaggio che rimaneva nascosta dietro le colline coperte di boschi,
incombeva l’ombra di una minaccia: così grande, da occupare tutti i
pensieri degli uomini e da determinare tutti i loro comportamenti.
La gente scappava. Da tre, quattro giorni: per la strada che
attraversava il villaggio di Proh venendo da Novara e dagli altri
borghi della pianura si snodava una processione ininterrotta di
uomini e di donne curvi sotto il peso delle cose che dovevano
assolutamente essere portate in salvo e che i più ricchi avevano
potuto caricare su un asino, su un cavallo o addirittura su un carro.
C’erano molti bambini, molti vecchi. C’erano anche molti animali:
cani, pecore, capre. Ogni tanto, in quel ume di uomini e di bestie,
arrivava qualcuno che si faceva largo a suon di frustate e superava
tutti con la sua raeda o il suo carpentum che erano le carrozze
dell’epoca, lasciandosi alle spalle una scia di insulti e di maledizioni.
Molti gli gridavano:
«Dove credi di poter arrivare, prima degli altri? Perché corri?».
Molti gli auguravano di andare in malora o in altri luoghi
altrettanto piacevoli; o di morire di morte violenta; o di fare
comunque una brutta ne.
Davanti all’o cina del nostro primo personaggio, il fabbro
Tasgezio, non si era mai visto un tale transito di persone e di
animali e di veicoli che andavano tutti nella stessa direzione, verso
le montagne: e, naturalmente, c’era qualcosa di terribile che
spingeva tutta quella gente a fuggire. Si diceva che laggiù, in
pianura, fosse arrivato un popolo di invasori anzi di diavoli, che
rubavano e incendiavano e uccidevano: il popolo dei Cimbri.
Quando non era impegnato a sistemare una ruota o ad aggiustare la
stanga di un carro, Tasgezio stava davanti alla sua o cina,
appoggiato a uno dei pali che reggevano la tettoia, a guardare quelli
che passavano. Rispondeva con un cenno del viso o agitando una
mano ai tanti che lo salutavano senza conoscerlo. Gli diceva:
«Buona fortuna. Buon viaggio».
«La strada per attraversare le montagne, e per i laghi» spiegava a
chi gli chiedeva un’informazione, «è quella che gira a destra.
Andando a sinistra, invece, si va verso il borgo di Agamio e verso la
montagna più grande di tutte le altre: il monte Ros.»
«Si va nella valle del ume Sesia. Una valle senza vie d’uscita.»
«E tu, ragazzo, perché non chiudi l’o cina e scappi?» gli
chiedevano i vecchi. «Lo sai che giù nella pianura tra i umi Ticino
e Po sono arrivati i Cimbri, che saccheggiano e bruciano i villaggi e
ammazzano tutti quelli che trovano? Non te l’ha detto nessuno?»
«Sono ancora lontani» rispondeva Tasgezio. «Per quel che ne so io,
si sono accampati a sud di Vercelli. Non credo che arriveranno n
qui.»
«Roma manderà un esercito a fermarli.» Ma chi stava scappando
gli obiettava: «Hanno già vinto i Romani quando sono arrivati in
Italia, sull’Adige». E c’era per no chi gli dava ragione, per
convincerlo:
«È vero» gli diceva, «che il grosso di quei diavoli è fermo di là da
Vercelli, ma si sono visti anche attorno a Novara. Dacci retta:
scappa».
«Sono così tanti che gli ci sono volute due settimane per
attraversare il Ticino» aggiungeva un altro. E altri ancora si
fermavano a dire la loro. Raccontavano:
«Hanno cento carri carichi d’oro e d’argento: un tesoro
immenso!».
«Hanno mille e mille giovenche e mille buoi rubati nelle nostre
stalle. In tutta la pianura del Po, non è rimasto nemmeno un
animale da carne o da latte».
«Dove passano loro non cresce più l’erba. Come ai tempi di
Annibale!».
Tasgezio ascoltava e scuoteva la testa. Pensava che la paura
ingrandisce tutto. «Mi è stato detto» replicava, «che c’è già di qua
dal Po un esercito romano, quello del proconsole Lutazio Catulo, e
che tra poco arriveranno dalla Gallia anche le legioni di Mario…»
«Una ragione in più per andarsene!» gridavano quelli che
fuggivano: «Non capisci? I Cimbri hanno già vinto i Romani quattro
volte, e hanno distrutto l’esercito dei consoli Manlio e Cepione.
Nessuno, mai, è riuscito a fermarli. Nessuno può vincerli!».
Insistevano: «Fai come abbiamo fatto noi. Metti le tue cose su un
carro, se ce l’hai, e se non ce l’hai mettile su un asino o mettitele in
spalla, e vai verso le montagne. Lassù, forse, quei diavoli non
arriveranno: ma non è detto».
«Con quel genere di invasori, nessun posto è sicuro!»
Il fabbro continuava a scuotere la testa e non rispondeva.
Pensava: “Là dove sta andando tutta questa gente ci sono soltanto
sassi e uomini induriti dalle di coltà della vita, che difenderanno
con le unghie e con i denti quel poco che hanno. Se chi scappa
dovrà fermarsi in montagna per un po’ di tempo, come farà a
sopravvivere?”.
“Cosa mangerà?”.
Molti viandanti raccontavano storie di uomini che avevano
tentato di difendere le loro case e i loro congiunti, e avevano fatto
una ne orribile. Storie di villaggi dati alle amme. Chi aveva avuto
la possibilità di vedere i Cimbri diceva che erano dei giganti, molto
più grandi dei Romani e anche dei Galli; che avevano delle spade
enormi e che si nascondevano il viso con degli elmi, in forma di
maschere demoniache.
«Resistergli» dicevano, «signi ca andare incontro alla morte.
Bisogna fare come abbiamo fatto noi: bisogna scappare.»
Tutti quei viaggiatori, e tutti gli abitanti della grande pianura
erano Celti, cioè Galli: come lo stesso Tasgezio e come la madre di
Tasgezio, la signora Lunilla. Che abitava nella sua stessa casa e che
ogni tanto, spinta dalla curiosità, veniva ad ascoltare i discorsi che
si facevano sotto la tettoia del fabbro o nella sua o cina. Anche lei,
come il glio, cercava di capire chi fossero quegli invasori che a
Proh nessuno aveva mai visto e di cui, in pratica, non si sapeva
niente di certo. Si diceva che venissero dall’estremo limite del
mondo abitato, e che fossero originari di un paese dove il sole si
vedeva soltanto d’estate. Si diceva che nella loro patria non
crescessero né il grano né la vite né le altre piante che servono
all’alimentazione degli uomini. Chissà, si chiedeva Tasgezio, cosa
c’era di vero in quelle voci, e cosa poteva avere indotto così tante
persone ad abbandonare una terra che per quanto disagevole era
pur sempre la loro patria. Cercavano davvero una nuova patria,
come sosteneva qualcuno, o a spingerli sulle strade del mondo era
stata soltanto quella smania che i Romani chiamavano cupiditas, e
che è l’avidità delle cose degli altri? Cosa se ne facevano delle cose
degli altri? Chiedeva a quelli che scappavano:
«È vero ciò che ho sentito dire, che gli uomini di quel popolo
considerano disonorevole qualsiasi lavoro, e che sanno usare
solamente le armi?».
«È vero che le loro donne combattono insieme agli uomini, o
comunque li assistono e li incitano durante le battaglie?».
Nessuno però sapeva rispondergli, perché nessuno era vissuto con
i Cimbri e nessuno li aveva visti combattere. Nessuno, almeno, che
fosse rimasto vivo. Prima di rimettersi in cammino, i viandanti
cercavano per l’ultima volta di convincere il fabbro a seguirli. Gli
dicevano:
«Chiudi tutto e vieni con noi verso le montagne. Se non vuoi farlo
per te, fallo almeno per tua madre».
«Siete rimasti voi due soli in questo villaggio». Lo ammonivano:
«Se quei diavoli arrivano n qui, per voi due è nita».
«Ci salveranno le Matrone», rispondeva Lunilla. Era una signora
placida e bionda, un po’ appesantita dagli anni. Spiegava a chi la
stava ascoltando:
«Le Matrone sono quelle donne di pietra che i nostri antenati
hanno messo lassù in cima alla collina, perché si vedessero da
lontano e perché ci proteggessero. Quando io e mio glio abbiamo
saputo che in pianura era arrivato un popolo di invasori, siamo saliti
a interrogarle e loro ci hanno dato dei segni per rassicurarci. Dei
segni positivi. Perciò» concludeva sorridendo e allargando le
braccia, «siamo rimasti nel nostro villaggio e continueremo a vivere
nella nostra casa, nché le Matrone ci diranno che possiamo restare
qui».
«Io e mio glio siamo molto devoti a quelle dee. Ci sono sempre
state vicine nei momenti di cili e ci aiuteranno anche in questa
occasione: ne sono sicura».
Le Matrone erano una divinità campestre dei Galli, venerata un
po’ dappertutto ai piedi delle Alpi e particolarmente presente nel
villaggio dov’è incominciata la nostra storia. Il villaggio di Proh
aveva e ha tuttora questa particolarità, di trovarsi all’estremo limite
della pianura del Po, sotto un’ultima propaggine delle montagne.
Ancora oggi il terreno dietro le sue case si incurva e si alza: forma
una collina dal pro lo arrotondato, un promontorio su cui all’epoca
di Tasgezio e Lunilla c’era un masso di pietra gialla che nella parte
inferiore serviva da altare e nella parte superiore aveva tre gure
femminili rozzamente scolpite. Quel masso, scomparso da tempo
immemorabile, era il segno della presenza delle Matrone su quel
primo rilievo delle Alpi ed era anche la cosa più notevole di un
villaggio, che esiste tuttora con quel nome: Proh. Un nome antico
come le piramidi d’Egitto o come le incisioni rupestri della
Valcamonica. Un nome misterioso anche nella pronuncia. Il cartello
stradale scrive Proh, la parlata locale legge “Pru”: perché?
Rispondere non è facile e forse non è nemmeno possibile. Ci
troviamo di fronte a una parola dei Celti: a un fossile linguistico, che
deve essere accettato così com’è senza la pretesa di capirlo o
addirittura di spiegarne l’origine.
(In quanto all’ipotesi, attestata dalle guide turistiche e dai libri
degli storici locali, per cui il nome Proh deriverebbe dal latino
“petrurium”: pietraia, luogo sassoso, possiamo dire in tutta
tranquillità che è una stupidaggine. I nomi, qui, non li davano i
Romani ma i Celti: e chissà cosa voleva dire nella loro lingua, se
voleva dire qualcosa, la parola Proh! Nel Medioevo, poi, sono
arrivati i sacerdoti cristiani, che celebravano i loro riti in latino e
quando dovevano scrivere nei registri le parole dei Celti le
latinizzavano al momento, secondo la fantasia e la scienza di
ognuno. È dalle loro invenzioni che sono nate etimologie
strampalate come questa, lontane dalla realtà e anche dal
buonsenso. I terreni intorno al villaggio di Proh, anche quelli delle
colline che hanno origine morenica, non sono particolarmente
pietrosi e non lo sono mai stati.)
In ventuno secoli il mondo è cambiato: è cambiato tutto. Ma Proh-
Pru si chiama ancora con il nome che gli avevano dato i Celti e il
paesaggio che lo circonda ha conservato la sua piacevolezza anzi
l’ha vista accentuarsi per contrasto, da quando la coltivazione del
riso ha reso ancora più piatta e più vuota una pianura che nell’anno
seicentocinquantaduesimo dalla fondazione di Roma: l’anno dei
Cimbri, era ancora ondulata e coperta in parte di foreste. Nei primi
mesi di quell’anno, i Cimbri avevano attraversato le Alpi ed erano
entrati in Italia: dopo aver scon tto gli eserciti romani in varie parti
d’Europa, e dopo essersi creati una fama di invincibilità, che li
precedeva ovunque andassero e rendeva ancora più di cile il
compito di chi doveva a rontarli. L’ultima loro vittoria era stata
quella che avevano riportato nella valle del ume Adige contro
l’esercito del proconsole romano Lutazio Catulo, mandato a
sbarrargli la strada perché non entrassero in Italia. I Romani, in
quella circostanza, si erano dati alla fuga e i Cimbri erano dilagati
nella valle del Po e nella regione che noi oggi chiamiamo
Lombardia, saccheggiando città e villaggi e terrorizzando le
popolazioni locali: che non avevano alcuna possibilità di contrastarli
e potevano cercare una via di scampo soltanto tra le montagne.
Anche il villaggio di Proh era stato abbandonato dai suoi abitanti
e Tasgezio e Lunilla erano le uniche persone rimaste in quelle
casupole con i tetti di paglia, che si raggruppavano lungo la strada
principale e sotto il promontorio delle Matrone. Il primo ad
andarsene era stato il mugnaio con i suoi sacchi di grano e dopo di
lui se ne erano andati tutti, ognuno con il suo fardello di coperte e
di pentole e di legumi secchi, portato in spalla o caricato sull’asino
di casa. Se ne erano andati con i loro animali: con le pecore e le
capre e per no con le oche e le galline, che nessuno aveva voluto
abbandonare al loro destino lasciandole libere. «Tutt’al più»
dicevano, «le mangeremo per strada. Il viaggio è lungo.»
Il paese, che di solito era pieno di rumori e di vita, adesso era
silenzioso. Soltanto il fabbro era rimasto nella sua o cina, a tenere
accesa la forgia con il mantice o a guardare chi passava per strada,
stando appoggiato all’uno o all’altro dei pali che reggevano la
tettoia. Diceva di avere ducia nelle Matrone, come sua madre
Lunilla; non diceva, ma sarebbe stata la verità, che aveva ducia nei
Romani. Anche se non li amava come non li amavano la maggior
parte dei suoi connazionali. Quegli uomini così presuntuosi e così
poco simpatici per chi doveva trattare con loro, avevano però il
genio dell’organizzazione. Erano un’entità collettiva come le
formiche o le api: presi uno per uno non valevano granché, ma tutti
insieme erano invincibili. Nessun popolo, e nemmeno i Cimbri,
sarebbe riuscito a scalzarli dalla pianura del Po! Tasgezio ne era
sicuro. Pensava che i Romani sarebbero arrivati di lì a qualche
giorno, al massimo di lì a qualche settimana. Ci sarebbe stata una
grande battaglia, la più grande battaglia che si fosse mai combattuta
sotto la montagna ombelico del mondo; e poi, pian piano, tutto
sarebbe ritornato com’era prima dell’invasione. I villaggi distrutti
sarebbero stati ricostruiti, i morti sarebbero stati dimenticati. Le
guerre passano, la vita continua.
Il protagonista della nostra storia, il fabbro Tasgezio, all’epoca di
questi fatti era un giovane uomo d’età tra i venti e i trent’anni, con
gli occhi azzurri e i capelli biondi come la maggior parte dei suoi
connazionali. Era alto di statura e robusto: un vero fabbro, capace di
sollevare un carro e di appoggiarlo sui ceppi per staccargli le ruote,
e di piegare una sbarra di ferro larga un pollice senza bisogno di
scaldarla. Aveva ereditato l’o cina e il mestiere di fabbro da suo
padre Vidomaro, che gli aveva fatto il torto di morire mentre ancora
era giovane e in quel modo lo aveva costretto a continuare la
tradizione di famiglia, anche se le sue aspirazioni sarebbero state
diverse. Finché era stato vivo il padre, infatti, Tasgezio si era
limitato ad aiutarlo in o cina quando lui glielo chiedeva, e aveva
studiato (ma si era trattato di uno studio senza aule scolastiche e
senza libri) per diventare medico secondo la scienza dei Galli. Dai
dodici ai diciassette anni era andato a scuola dai druidi, i sacerdoti
dell’antica religione del suo popolo, in un cascinale vicino al ume
Sesia dove c’era il loro tempio all’aperto: un bosco sacro, e dove
aveva incominciato a orientarsi nei segreti della natura. I maestri lo
consideravano un allievo molto promettente; poi però, come si è già
detto, i suoi studi delle antiche discipline si erano interrotti dopo la
morte del padre, perché non c’era più stata la possibilità di
continuarli.
Aveva dovuto lavorare. Era diventato un fabbro, come suo padre e
suo nonno.
Il fabbro di Proh.
A vent’anni, Tasgezio si era sposato con una ragazza del suo
paese: una certa Decezia che tutti chiamavano Lisca, anzi “la Lisca”.
La Lisca aveva un paio d’anni meno di lui; era alta di statura e ben
fatta, con una caratteristica che la rendeva diversa da quasi tutte le
donne dei Galli e che le veniva certamente da un antenato
forestiero: i capelli castani cioè scuri. Sul suo conto, in passato, si
erano fatte delle chiacchiere, perché per un certo periodo di tempo
era vissuta a Novara in casa di una sorella del padre, e aveva avuto
dei danzati. (Così, almeno, dicevano le chiacchiere.) Quelle voci,
secondo le donne di Proh avrebbero dovuto impedire al fabbro di
sposare la Lisca; e anche sua madre Lunilla continuava a chiedergli:
«Ci hai pensato bene? Sei sicuro di volerla prendere in moglie?».
Lui, però, non aveva dato retta a nessuno. La ragazza gli piaceva e
gli piaceva anche il suo carattere, così vivace e super ciale, almeno
in apparenza: così allegro, da essere quasi l’opposto del suo. Il
matrimonio però era durato poco, perché la sposa non andava
d’accordo con Lunilla e non andava d’accordo con Proh. Un giorno
d’estate era scomparsa senza salutare nemmeno i suoi genitori e
senza che nessuno in paese, tranne Tasgezio, sentisse la sua
mancanza. Si era poi saputo che era tornata a vivere a Novara, e che
stava con un commerciante di terraglie di origine etrusca, vedovo e
con dei gli già grandi. Gli Etruschi, nella pianura sotto il monte
Ros, avevano fama di essere persone depravate; e le voci che
arrivavano in paese sulla Lisca e sul suo convivente parlavano di
“banchetti alla maniera etrusca”, con schiave e schiavi costretti a
servire nudi i commensali, o addirittura di orge. Si trattava di voci,
cioè di chiacchiere: e chissà poi cosa c’era di vero! Tasgezio ne
aveva so erto; ma non aveva citato in giudizio il commerciante di
terraglie, e non aveva fatto niente per riprendersi la moglie. Non era
nemmeno andato a cercarla.
«Per me» diceva quando qualcuno gliene parlava, «è come se fosse
morta. Stia dov’è.»
In realtà, il fabbro non aveva mai smesso di pensare alla Lisca,
nemmeno in quei giorni della grande paura e della fuga di tutti
verso le montagne. Guardava tra i carri che s lavano davanti alla
sua casa se ce n’era uno carico di terraglie, con un uomo scuro di
pelle e di capelli e una donna molto più giovane. Si diceva:
“Se la Lisca dovrà passare qui davanti si coprirà il viso e farà nta
di non vedermi perché si vergognerà, ma io le farò ugualmente un
cenno di saluto. Nonostante tutto, non sono ancora riuscito a
odiarla: cosa posso farci?”.
“Ci siamo voluti bene e anche lei mi ha voluto bene; a modo suo,
ma gliene sono grato lo stesso. Se ne è andata perché non
sopportava le chiacchiere del paese e perché ha ceduto a un
impulso. È ancora ingenua, e si è lasciata incantare da un uomo che,
per quello che mi dicono, potrebbe essere suo padre”.
“Prima o poi tornerà a cercarmi. Le persone cambiano, con l’età, e
lei è ancora così giovane!”.
Sua madre ogni tanto lo rimproverava. Soprattutto alla sera:
quando lui, dopo avere acceso il fuoco, rimaneva a ssare le braci
pensando alla Lisca. Gli diceva:
«Devi sciogliere quel nodo che hai dentro. Vai dai druidi: loro
sanno cosa devono fare in questi casi. Hanno dei rimedi anche per i
mali dell’anima, come il tuo».
«Con la Lisca doveva nire così. Era inevitabile: ma adesso non
puoi rimanere senza una moglie per causa sua. Non puoi continuare
a sospirare per i begli occhi di chi non ti merita. Ci sono tante
ragazze, anche qui a Proh: un po’ meno sfrontate di lei e magari
anche un po’ meno belle, ma che di erenza fa? C’è la glia del
mugnaio, che è una tua cugina alla lontana e ha una casa con l’orto,
tutta sua, mentre quell’altra non aveva niente… Se vuoi, domani ne
parlo a sua madre…».
Tasgezio alzava una mano: «No, non voglio».
Diceva: «Ho sbagliato una volta e almeno per il momento non
voglio commettere altri errori. Sto bene da solo».
Capitolo secondo
Una battaglia persa, anzi vinta
«Ma sì, fammi una grossa treccia e girala intorno alla nuca. Come
quando ero piccola.»
«Così i capelli non mi verranno sul viso. E voi la smetterete di
sgridarmi perché ho il vizio di morderli quando sono
soprappensiero. Se li avrò dietro la testa, non potrò più farlo.»
La minore delle due glie del capo della tribù degli Orsi, cioè di
Agilo, era seduta su uno sgabello davanti alla tenda di suo padre e si
guardava in uno specchio di rame lucidissimo mentre le mani di sua
sorella Rhamis, seduta dietro di lei, si muovevano tra i suoi capelli
dividendoli e lisciandoli con un pettine. Accanto a loro sulla loro
sinistra c’era la culla del piccolo Aligild: il glio di Rhamis, che in
quel momento dormiva beato. Dopo quelle parole, le due sorelle
erano rimaste in silenzio, continuando ognuna a fare ciò che si è
detto e a seguire il corso dei propri pensieri. Poi quella che si
mordeva i capelli, cioè Sigrun, aveva fatto all’altra un paio di
domande che a Rhamis non erano piaciute, perché le erano
sembrate troppo ingenue o, al contrario, un po’ troppo maliziose. Le
aveva chiesto:
«È vero che i nostri sacerdoti scappano?». E dopo un attimo di
silenzio:
«Anche nostro padre, in questi giorni, mi sembra più preoccupato
del solito. Cosa sta succedendo?».
Sul viso di Rhamis era comparsa una smor a. «Il problema» aveva
detto, raddrizzandosi e guardando davanti a sé come se avesse
dovuto dare una risposta a quelle domande, non per conto proprio
ma per conto del popolo dei Cimbri, «è che ci siamo dimenticati
della guerra con i Romani. Siamo fermi in questa pianura calda e
umida, dove si fa fatica per no a respirare e dove, secondo certi
nostri capi tribù dovremmo rimanere per sempre… Il tempo passa, il
caldo continua a crescere e i vigliacchi scappano. Cos’altro vuoi
sapere da me?»
«Cosa vuoi che ti dica?»
«Io, però» aveva obiettato Sigrun, «ho sentito parlare di presagi
sfavorevoli. Di un’antica profezia che non è stata rispettata. Di una
maledizione che potrebbe abbattersi su di noi, se non ascolteremo le
voci degli oracoli…»
Rhamis l’aveva interrotta: «Da quando in qua» le aveva chiesto a
sua volta, «ti sei messa a prestare attenzione a tutte le sciocchezze
che si dicono in giro?». Poi il tono della sua voce si era addolcito e
le sue mani avevano ripreso a dividere e a intrecciare i capelli della
sorella, biondi e luminosi come la luce del sole. Le aveva risposto:
«Sono tutte storie. Chiacchiere senza fondamento. Quel sacerdote
di Odino a cui ti riferisci, e anche quell’altro che se ne è andato con
la luna di giugno: quello della Madre Terra, non riuscivano più a
comunicare con le loro divinità e parlavano a caso. Erano
spaventati: le loro profezie, in pratica, erano le loro paure…».
«Paure di cosa?» l’aveva interrotta a sua volta Sigrun. «Del nostro
futuro? Dei Romani?» Si era voltata, e Rhamis per un momento
aveva dovuto smettere di pettinarla. «Nostro padre Agilo» le aveva
detto scuotendo la testa «non ha paura di niente e di nessuno, e
certamente non ha paura dei Romani. Eppure è sempre più
preoccupato: per cosa?»
«Se un uomo come lui pensa che siamo in pericolo, dobbiamo
pensarlo tutti!»
«No, non è così.» Rhamis aveva abbassato la voce: «Forse non lo
sai, ma c’è stata una lite tra nostro padre e mio marito, durante
l’incontro con i Romani». Le aveva spiegato:
«Boiorige era contrario a quell’incontro. Si era lasciato persuadere
ad andarci perché voleva vedere il capo dei nostri nemici, quello
che tutti chiamano Mario e che si vanta di avere vinto i Teutoni e gli
Ambroni. Quando l’ha avuto davanti ha pensato di ucciderlo. Siamo
in guerra: e ci sarebbe riuscito se nostro padre non si fosse messo in
mezzo per impedirglielo, umiliandolo davanti ai suoi stessi guerrieri
e davanti a tutti».
«Mio marito ha dovuto cedere» aveva continuato Rhamis, «perché
non si aspettava che a contrastarlo fosse uno dei nostri e perché
Agilo, nonostante l’età, è ancora un uomo molto forte: il più forte
dei Cimbri. Ma gli ha detto che lo considerava un traditore, e gli ha
promesso che lo ucciderà appena ne avrà l’occasione. Me lo ha
raccontato lui stesso.»
«Perciò nostro padre è preoccupato. Chi non lo sarebbe, al suo
posto?»
«No. Non credo che in cima ai pensieri di nostro padre ci sia tuo
marito.»
Sigrun aveva scosso la testa, così forte che aveva fatto cadere il
pettine dalle mani della sorella. Era tornata a voltarsi:
«Sapevo di quella lite. Nostro padre» le aveva spiegato «è
intervenuto per salvare l’onore dei Cimbri. Avresti dovuto capirlo, e
avrebbe dovuto capirlo anche Boiorige».
«Agilo ci ha sempre creduto, nell’onore. E anche i nostri fratelli ci
credevano: nessuno di loro avrebbe mai mancato alla parola data».
Rhamis aveva ripreso a intrecciare i capelli della sorella, dopo
avere raccolto da terra il suo pettine. «Il fatto è» aveva detto dopo
un breve silenzio di entrambe «che ci troviamo in una situazione di
grandi incertezze: almeno su questo credo che possiamo essere
d’accordo. I nostri uomini sono nervosi. Boiorige dice che stiamo
commettendo un errore dopo l’altro, e che la prudenza dei vecchi
serve solo a dare al nemico dei vantaggi, che poi i giovani
pagheranno con le loro vite…»
Era stata interrotta da uno strillo e aveva dovuto smettere di
occuparsi dei capelli di Sigrun perché Aligild, nella culla, reclamava
la sua attenzione e il suo latte. Quando poi il bambino aveva nito
di poppare gli aveva dato un succhiotto dell’epoca: uno spago con
un nodo da una parte e un pezzo di legno levigato dall’altra,
abbastanza grande (il legno) perché lui non potesse inghiottirlo.
Glielo aveva messo in bocca dalla parte del nodo e aveva ripreso a
intrecciare i capelli di Sigrun. Aveva ripreso il discorso interrotto,
per nirlo:
«I Romani» aveva spiegato alla sorella «non possono vincerci e
non ci vinceranno, chiunque sia il loro capo. Che bisogno c’era di
andare a incontrarli? E che bisogno c’era di lasciare che si
sistemassero nei loro accampamenti, e che ci costruissero attorno
chissà quali forti cazioni? Non è così che si fanno le guerre. Se li
avessimo attaccati quando sono arrivati, a maggio, li avremmo
distrutti. Mio marito ne è convinto, e lo sono anch’io…»
Quando parlava della guerra, e dei Romani, Rhamis si
infervorava. Le brillavano gli occhi e le si colorivano le guance.
«Questa orribile pianura» aveva aggiunto, «così calda e umida e
piena di insetti che ci succhiano il sangue, non può essere il paese
che ci era stato promesso dalle profezie. Non può essere la nostra
Midgard. Boiorige dice che la nostra Midgard è il mondo, e io credo
che abbia ragione. Dice che quando avremo liberato il mondo dai
Romani, nessuno più oserà contrastarci…»
Si era accorta che la sorella non l’ascoltava e aveva smesso di
parlare. Sigrun era fatta così: era curiosa e faceva un mucchio di
domande, ma i suoi interessi e anche i suoi entusiasmi duravano
poco. Era capace di slanci improvvisi e di distrazioni altrettanto
improvvise: di “assenze” che la portavano chissà dove, lontano da
tutto e da tutti. Anche in una conversazione, si interessava ai
discorsi degli altri nché corrispondevano alle sue curiosità e ai suoi
pensieri del momento: perciò, forse, aveva pensato Rhamis, non
aveva amiche né amici della sua stessa età, e preferiva stare sola o
con persone più anziane di lei. Quando aveva nito di legarle la
treccia si era alzata e le era venuta di fronte per vedere il risultato
del suo lavoro. Aveva detto:
«Hai dei bei capelli. Sei una bella ragazza. Cosa aspetti a sceglierti
un marito?».
«Io, quando avevo diciotto anni: la tua età, sognavo soltanto di
sposarmi e di avere dei gli. Ero sempre inquieta e non ne capivo la
ragione. Adesso sto meglio».
Sigrun si era limitata a guardarla senza rispondere e lei, allora,
aveva insistito:
«Forse non te ne sei nemmeno accorta, ma tra i ragazzi che in
questi anni sono diventati uomini ce ne sono un paio che ti
vorrebbero come moglie. Sono venuti a chiedermi se sei già stata
promessa a qualcuno. E c’è anche un uomo di un’altra tribù che mi
ha pregato di intercedere in suo favore. Dice che se acconsentirai a
sposarlo ti darà un carro a due assi con la copertura in cuoio, più un
cavallo con tutti i nimenti, più un vestito appartenuto a sua madre,
tessuto con i colori della sua gente… Vuoi sapere chi è?».
Sigrun aveva fatto segno con la testa: no, ma Rhamis aveva
continuato:
«È il capo dei guerrieri della tribù delle Volpi. Si chiama Brinno,
ha trenta o trentacinque anni e se tu lo vedessi forse lo
riconosceresti, perché ha un piccolo difetto sico. È un po’ zoppo.
Non è il più bello dei Cimbri, ma è una persona importante e un
amico di mio marito Boiorige. Fossi in te, prenderei molto sul serio
questa o erta, di un uomo che tutti rispettano e che sarebbe un
marito ideale per qualsiasi donna. Quando tornerà a cercarmi, cosa
devo rispondergli?».
Mentre la sorella le parlava, gli occhi di Sigrun si erano incupiti.
Aveva scosso la testa: «Io non intendo sposarmi, almeno per il
momento. Sto bene così».
«E poi» aveva aggiunto, «non sposerò mai un guerriero. Non mi
piacciono i loro modi e non mi piace nessuno di loro. Mi ucciderei,
se nostro padre volesse costringermi a sposarne uno.»
“Ci vuole pazienza” aveva pensato Rhamis. “Sigrun per certe cose
è una donna e per certe altre è ancora una bambina. Fa dei
ragionamenti da bambina.” Le aveva risposto, in tono di
rimprovero: «Che sciocchezza!».
«Una donna» le aveva spiegato «ha bisogno di un uomo e chi
potresti sposare della nostra gente, se non un guerriero? Vorresti
forse un vecchio, o uno straniero, o uno schiavo?»
«I Cimbri, no a una certa età, sono tutti guerrieri!»
C’era stato un lungo silenzio. Rhamis aveva raccolto lo specchio,
le forbici e il pettine che le erano serviti a sistemare i capelli della
sorella ed era entrata nella tenda di suo padre Agilo “l’Orso” per
andare a riporli. Sigrun, invece, era rimasta seduta e si era portata le
dita alla bocca per rosicchiarsi le unghie, come le capitava di fare
quando era inquieta o quando aveva dei dubbi. Aveva chiesto o, per
essere più precisi, si era chiesta:
“Una donna non può vivere senza un marito?”. Si era voltata
verso la sorella, che nel frattempo era tornata a sedersi e con una
mano faceva dondolare la culla del piccolo Aligild. Le aveva detto:
«Ci sono uomini che non si sposano, e nessuno li considera
inferiori agli altri per quella ragione. E ce ne sono altri che
rimangono vedovi, come nostro padre Agilo, e non sentono la
necessità di tornare a prendere moglie. Perché a una donna non
dovrebbe essere concesso di vivere senza un marito, come molti
nostri sacerdoti che vivono senza mogli, e perché nel nostro popolo
non ci sono sacerdoti donne?».
Mentre parlava continuava ad avvicinare le dita alla bocca, e a
tormentarle con i denti. Aveva detto:
«Anche noi donne possiamo comunicare con gli Dei. Lo so per
certo, e so che Nanna li interrogava spesso. So che le
rispondevano…».
«Nanna, Nanna.» Rhamis aveva fatto un gesto di stizza. «Quando
la smetterai di ricordare quella donna, e di nominarla? Lo sanno
tutti che era una strega, e Agilo non avrebbe dovuto permetterle di
starti vicino e di consigliarti negli anni della crescita. È colpa di
quella strega se adesso sei diversa dalle altre ragazze. Se sei strana.»
«Quando la smetterai di rosicchiarti le unghie e ti sceglierai un
danzato, come fanno tutte?»
«Nanna non era una strega. In quanto a me» aveva ribattuto
Sigrun, «sarò strana come dici tu, ma l’idea di vivere con un
guerriero mi fa orrore. Perché dovrei sopportare un uomo
prepotente e stupido come tuo marito Boiorige: me lo spieghi?»
Rhamis l’aveva guardata e aveva scosso la testa. «Perché le donne
devono fare i gli» le aveva risposto. «Ci vuole tanto a capirlo?
Siamo noi che mandiamo avanti il nostro popolo e tutti i popoli del
mondo. Noi siamo il futuro, e i nostri uomini sono prepotenti e
stupidi come dici tu perché devono difenderci. Se non ci fossero
Boiorige e Brinno e gli altri guerrieri, tu e io verremmo vendute
come schiave nei mercati degli altri popoli, e quale sarebbe il nostro
destino? Che gli metteremmo al mondo, e di chi? Sono queste le
cose che dovresti chiederti, e non perché gli uomini dei Cimbri sono
come sono, e sono tutti guerrieri.»
«Boiorige e Brinno sono come li abbiamo voluti noi donne, e
anche noi siamo come ci vogliono i nostri uomini. Questo mondo
dove siamo nate è fatto così.»
Parlando era tornata a infervorarsi: le si erano arrossate le
guance, le brillavano gli occhi e Sigrun era rimasta ad ascoltarla
senza dire nulla. Del resto, cosa avrebbe potuto risponderle? Lei non
aveva un glio addormentato nella culla e un altro che
incominciava a muoversi dentro al suo corpo. Era una ragazza, lo
dicevano tutti, un po’ strana, e sua sorella aveva continuato a
parlarle per farla diventare normale. Le aveva spiegato:
«Noi donne abbiamo il privilegio più grande: quello di trasmettere
la vita, e non possiamo volerne altri. Rivivere nel Valhalla o
ascoltare le voci degli Dei sono privilegi degli uomini…».
«Non è vero.» Sigrun le aveva preso una mano tra le sue e l’aveva
guardata negli occhi. Aveva ripetuto, con forza: «Non è vero».
«Io mi sono avvicinata agli Dei e ho avuto un segno della loro
attenzione: non mi credi? Non ne ho parlato con nessuno, nora, ma
tu sei mia sorella e con te posso con darmi.» Le aveva raccontato:
«Ricordi la festa del Risveglio di quest’anno? Ci siamo andate
insieme, con nostro padre e con il piccolo Aligild. Si sono fatte le
solite cose: il banchetto, l’oracolo, la morte e la rinascita dei ragazzi,
e poi tutti si sono spostati per assistere al rito della puri cazione.
Anche tu e Agilo siete andati insieme agli altri. Io invece ho avuto
un’idea improvvisa: uno di quei pensieri che nascono nelle teste
degli uomini per volontà del dio Bragi, e in quelle delle donne
perché ce le manda la sua sposa immortale, la dea Idhun. Sono
andata verso il bosco sacro e ci sono entrata, senza che nessuno mi
vedesse. Sì, lo so» si era subito a rettata ad aggiungere, vedendo
che Rhamis spalancava gli occhi, «lo so che non dovevo farlo e che
potrei avere dei dispiaceri se qualcuno lo venisse a sapere. Perciò
non ne ho parlato con nessuno. Soltanto con te».
«C’era ancora luce» aveva continuato la ragazza, «e ho visto gli
animali sacri: quelli che servono agli Dei per comunicare con gli
uomini. E anche loro, gli animali sacri, mi hanno visto. Anche gli
Dei mi hanno visto. C’erano un corvo che diceva delle cose
incomprensibili e un altro uccello pieno di occhi, bellissimo. C’erano
quegli animali di cui ci parlava spesso nostro padre, che
assomigliano ai cervi: le renne, e un cavallino bianco che galoppava
nel bosco tra le ombre…»
«Dov’è il segno che dici di avere ricevuto?» le aveva chiesto sua
sorella, annoiata.
«Mi è arrivato dopo qualche notte, in sogno. Sono ritornata nel
bosco e ho rivisto il cavallino bianco. Io stavo scappando, non so
bene da cosa. Ero stanca e avevo il vestito strappato: ero disperata,
ma poi nel mio sogno è comparso lui, l’animale sacro. Veniva avanti
insieme a un uomo che lo teneva per le briglie e che dal viso e dal
vestito sembrava irradiare luce: forse, un Dio. Sopra di me c’era una
nuvola e dalla nuvola è uscita una voce che mi diceva di non avere
paura. Mi diceva che Idhun, la dea dell’eterna giovinezza, mi
avrebbe salvata…»
«Dov’è il segno?» aveva ripetuto Rhamis in tono stizzito. Si era
alzata in piedi e aveva guardato la sorella scuotendo la testa. Aveva
detto:
«Non tutti i sogni vengono dagli Dei. Questo che mi hai
raccontato, secondo me signi ca soltanto che hai la testa piena di
stupidaggini. Signi ca che dormi male perché ti manca qualcosa, e
che quel qualcosa è un marito con cui dividere il letto e le notti».
Improvvisamente, il piccolo Aligild aveva ricominciato a strillare
e Rhamis aveva dovuto riprenderlo in braccio, l’aveva mosso in su e
in giù per calmarlo.
Era riuscita a farlo ridere.
Adesso il bambino rideva: era contento, e anche sua madre si era
dimenticata dei discorsi con la sorella, e delle cose su cui non
andavano d’accordo. Sorrideva. «Dopo il marito verranno i gli»
aveva detto a Sigrun: come se lei ormai avesse accettato l’idea di
sposarsi e anzi si fosse già sposata con un guerriero della sua stessa
tribù o di un’altra tribù del loro popolo, «e smetterai di fantasticare.
Vedrai: succede così a tutte.»
Aveva rimesso Aligild nella culla. Si era passata la mano sinistra
sulla pancia, dove incominciava a muoversi una nuova vita. «Se non
ho sbagliato a contare le lune» aveva annunciato alla sorella, «tuo
nipote nascerà prima che arrivi l’inverno. Spero che sia un maschio,
come Aligild e come suo padre Boiorige.»
«Dare guerrieri al popolo dei Cimbri: è questo il nostro compito.»
Capitolo tredicesimo
Il consiglio di guerra