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ai miei Genitori
1
INDICE
INTRODUZIONE p. 4
CAPITOLO PRIMO
CAPITOLO SECONDO
CAPITOLO TERZO
2
3.3 “Baccanti” p. 56
BIBLIOGRAFIA p. 65
3
INTRODUZIONE
Con Dioniso, invero, la vita appare come sapienza, pur restando vita
fremente: ecco l’arcano. […] Questa è la tracotanza del conoscere: se
si vive si è dentro a una certa vita, ma voler essere dentro a tutta la
4
vita insieme, ecco, questo suscita Dioniso, come dio onde sorge la
sapienza. In termini pacati, Dioniso è il dio della contraddizione – lo
dimostrano i suoi miti e i suoi culti – o meglio di tutto ciò che,
manifestandosi in parole, si esprime in termini contraddittorii. Dioniso
è l’impossibile, l’assurdo che si dimostra vero con la sua presenza.
Dioniso è vita, morte, gioia e dolore, estasi e spasimo, benevolenza e
crudeltà, cacciatore e preda, toro e agnello, maschio e femmina,
desiderio e distacco, giuoco e violenza. 1
5
leitmotiv di questo studio è, dunque, quello di provare a collegare i molti
argomenti e tentare una sintesi, affinché si riesca ad illuminare, anche fosse in
maniera irrisoria, la figura di quel Dioniso che chiamo molteplice e che
rintraccio in molti aspetti della cultura greca e in maniera sorprendente nel
Teatro, manifestazione dionisiaca par excellence.
6
CAPITOLO PRIMO
7
all’ambiente ctonio ed infero4. Va detto però che, secondo alcuni miti, lo sposo
di Persefone era Zeus Katachtònios che aveva sedotto la propria figlia e sotto
questa veste era detto Zagreus così come poi sarà detto anche suo figlio, ma di
questo parleremo dopo.
8
orfiche testimoniano una versione del mito detta anche “Passione di Dioniso”.
Il fanciullo divino trascorre il suo tempo nella grotta giocando con alcuni
oggetti (i quali diverranno dei veri e propri simboli dei riti di iniziazione),
ignaro della gelosia di Era. Questa manda all’interno della grotta i Titani, col
volto bianco dipinto di terra calcarea, i quali, approfittando dei balocchi divini,
distraggono il fanciullo, lo lacerano, lo tagliano in sette pezzi, ne bolliscono le
carni e poi le arrostiscono13. Verrebbe da definire questo rito “cannibalesco”, se
però il fanciullo non fosse stato definito “cornuto” e quindi assimilabile ad un
vitello o meglio ad un capretto, cosa che farebbe di questa scena l’archetipo di
un sacrificio con aspetti soteriologici derivanti da credenze orfiche. Di qui
l’importanza dell’ordine di cottura (prima bollite e poi arrostite) delle carni
divine. Ma su questo problema torneremo dopo, limitiamoci adesso ad esporre
le storie che tentano di raffigurare lo sfuggente Dioniso. Questa storia
d’omofagia titanica finiva in due modi: nel primo, Zeus attirato dal profumo
dell’arrosto arrivava al banchetto, ma poi, scoprendo che ad essere stato
arrostito era il figlio, sottraeva le carni ai Titani, li scacciava negli Inferi, e
consegnava i resti di Dioniso ad Apollo che ne avrebbe seppellito le membra
sul Parnaso. Oppure, Zeus, sempre attirato dal profumo del banchetto, arrivava
presso i Titani, i quali però avevano terminato di consumare le carni divine, e a
Zeus quindi non restava che punirli colpendoli con il fulmine e relegarli negli
Inferi da dove erano venuti. Le due versioni sono sempre orfiche, e non c’è da
stupirsi se poi gli orfici invocavano i Titani come progenitori del genere
umano14: infatti dalle esalazioni scaturite dalla folgore di Zeus si formò una
specie di cenere, la quale sarebbe poi stata, secondo gli orfici, la materia con
cui furono fatti gli uomini. Questa storia è anche raccontata in modo diverso da
Diodoro Siculo: le membra cotte del primo Dioniso, figlio di Demetra,
sarebbero poi state prese da essa e una volta portate sulla terra, da queste,
sarebbe nata la vite.
13 Molta attenzione sul problema della cottura delle carni divine in: M. Detienne, Dioniso e la pantera
profumata, Bari, 2007
14 Inno ai Titani, cit.
9
Oltre al figlio della regina dell’Ade, la nostra mitologia conosceva un
altro Dioniso: il figlio di Semele. Semele è parola frigia (o tracia) che in queste
lingue ha evidenti connessioni con l’ambiente ctonio. Ma non è solo questa la
connessione con la prima versione (detta qui orfica) del mito. Semele, madre di
Dioniso, viene folgorata da Zeus15 ma, essendo ella ancora incinta di Dioniso, il
padre degli dèi preleva l’embrione, lo cuce nella coscia e continua da sè la
gestazione. Nella prima versione del mito, dalla folgore che scaccia e uccide i
Titani nasce la vite; da questa seconda folgore, che uccide Semele, nascerà
Dioniso. Zeus lo avrebbe partorito sul monte Nisa, nel lontano oriente, Nisa
sarebbe stata anche la nutrice di Dioniso, forse personificazione del monte.
Oltre a quello di Nisa, ricorrono altri nomi nella tradizione: Ino, che sarebbe
una delle sorelle di Semele, e Tiona (letteralmente “ l’esaltata”), che sarà anche
uno dei nomi di Semele. Le raffigurazioni spesso mostrano il fanciullo seguito
da alcune ninfe (in genere quattro) le quali sembrano prendersi cura di lui.
Oltre a queste figure femminili, vi è un altro personaggio che si aggiunge al
“corteo”: è Sileno, secondo alcuni racconti l’educatore del fanciullo. Fa notare
Kerényi16 che Sileno non è espressamente figura maschile: oltre alla sua natura
semiferina, egli, nei suoi rapporti con Dioniso, si differenzia molto rispetto agli
altri sileni, amanti delle ninfe: è infatti una figura anziana, barbuta, con un
grosso pancione, sempre avvolta in lunghe vesti. La figura di Dioniso, quindi,
sembra essere l’unica figura maschile all’interno del “corteo” e sempre in
relazione con donne. Di questo aspetto, assai importante, sarà fondamentale
testimonianza Baccanti di Euripide.
15 Nelle Baccanti viene ricordato il luogo dove viene folgorata Semele, e lì sarebbe sorto un tempio.
16 Kerényi, Dioniso, Milano, 2010, p. 149
10
dovette promettere a questa (come prezzo del favore) di concedersi
completamente, come una donna, per mezzo di un phallos di legno di fico17. La
guida portava i nomi di Prosymnos o Polyymnos, “colui che è celebrato con
molti canti”. Una volta arrivato nell’Ade, il dio riusci a liberare la madre dalla
prigionia della morte, dopo averla resa immortale ricevette il nome di Tiona,
l’invasata, “colei che è in furore estatico”. I termini affini a Tias indicavano le
sacerdotesse estatiche di Dioniso sul Parnaso (dove ricevette sepoltura il dio),
esse portavano con sé dei likna, cesti nei quali, sotto la frutta, nascondevano
dei phalloi rituali.18
11
sono le sorelle di Semele (Ino, Autonoe e Agave) e Penteo re di Tebe, che per
invidia spargono la voce che Dioniso in realtà non era nato da Zeus, ma da una
relazione tra Semele ed un uomo qualunque, e che la storia della nascita divina
era solo uno stratagemma per mascherare la fuga della donna. Nel prologo
della tragedia, Dioniso afferma di essere sceso tra gli uomini per convincere
tutta Tebe che lui fosse un dio e non un uomo. Per far questo inietta un germe
di follia in tutte le donne tebane, le quali, fuggite dalle proprie case
abbandonando la loro vita quotidiana e i loro doveri “femminili”, vivono sul
monte Citerone, hanno come tetto un cielo stellato e celebrano riti in suo onore,
divenendo dunque Baccanti. D'altra parte Penteo non sembra convinto del
potere di questo Straniero e nega ancora la natura divina di Dioniso, dicendo
che questi cerca solo di adescare le donne. Invano Cadmo e il profeta Tiresia
tentano di convincerlo a mostrare meno tracotanza e provano a fargli accogliere
Dioniso in città come un dio. Nonostante tutto, il re di Tebe cederà alla
curiosità di osservare i riti di queste misteriose donne sul monte Citerone; ma
da un lato il carattere mistico della ritualità dionisiaca, dall'altro la sua grande
potenza, non permetteranno che Penteo ne possa uscire illeso, anzi succederà,
come ben noto, tutt'altro. In questo caso è bene sottolineare come, attraverso un
meccanismo già teatrale e di intense sfumature, il rito dionisiaco travolgerà lo
stesso Penteo, che dovrà travestirsi (e peraltro da donna!): elemento
chiaramente dionisiaco e schiettamente teatrale. La curiosità non lo lascerà,
come detto, illeso: sarà scoperto e ucciso. Il punto più alto di pathos nella
tragedia arriva quando Penteo sarà ucciso (ritualmente: attraverso lo
sparagmòs) dalla stessa madre che, in preda alla manìa, non lo riconoscerà
nemmeno, portandone addirittura la testa recisa come trofeo al padre Cadmo,
in una scena di grande potenza drammatica. Questo il mito raccontato nella
tragedia. Sui significati (anche cultuali e rituali) e sugli aspetti meta-teatrali ci
concentreremo nel terzo capitolo.
12
sempre in Beozia, ma ad Orcomeno. Sono stavolta le tre figlie di Minia,
Alcitoe, Leucippe e Arsippe, che si rifiutano di partecipare ai riti notturni di
Dioniso, nonostante questi le avesse invitate presentandosi loro sotto l'aspetto
di una fanciulla. Non accettando, come di consueto, il rifiuto, il dio medita
vendetta. Prende le sembianze di pantera, leone e toro e fa cadere le tre sorelle
in preda alla ormai consueta manìa divina. Evidenti qui sono i significati delle
metamorfosi: la pantera si sostituisce al serpente (di ascendenza orfica, come
ricordato sopra), sono inoltre tutti e tre emblemi della divisione dell'anno solare
in tre parti. Dioniso era nato d'inverno come serpente, diviene leone in
primavera (congiuntamente a quanto dice Kerényi nelle sue osservazioni
astrologiche21), e viene divorato alla fine dell'estate (pressapoco durante il
tempo della vendemmia) sotto forma di toro, o meglio di capretto: ritorna il
Tràgos. Torniamo però alla vicenda delle Miniadi. Leucippe, impazzita,
concede in sacrificio il proprio figlio Ippaso, scelto per sorteggio, reiterando
quindi il sacrificio del figlio (che risulta essere un'idea archetipica) di Agave
con Penteo. Anche con Ippaso avviene lo sparagmòs, lo smembramento rituale,
sigillo dell'invasamento bacchico, della possessione e della trance. Il dramma è
concluso. Hermes, poi, le avrebbe trasformate in uccelli, mentre altri ricordano
che Dioniso le avrebbe trasformate in pipistrelli. La morte di Ippaso sarà
ricordata ad Orcomeno con le feste Agrionie, durante le quali le donne della
città fingono (la finzione è un aspetto chiave dei riti dionisiaci) di cercare
Dioniso e, dopo aver saputo che egli è in compagnia delle Muse, smettono la
ricerca e decidono di sedersi in cerchio e di porsi indovinelli, fino a quando il
sacerdote di Dioniso, uscendo con la spada in mano, ne uccide la prima che gli
capita a tiro. Di nuovo, dunque, un sacrificio umano.22
13
svolge infatti in Tracia dove per molto tempo si è supposto avesse origine il dio
stesso. Licurgo re degli Edoni compare già nell'Iliade come nemico degli dèi,
un re empio e arrogante, un bruto che si scaglia contro Dioniso sul sacro colle
di Nisa. Qui imprgiona le nutrici del dio e i satiri stessi, disperde i portatori di
tirso e insegue lo stesso dio. Dioniso non fa altro che trascinare ancora di più il
re nella sua ira, nella sua follia ritorcendo contro l'invasato il suo desiderio di
violenza. Ora vuole recidere la vite sacra al dio, questo confondendogli la vista
lo conduce dritto da suo figlio e, mentre crede di recidere le estremità della
vite, sta in verità tagliando gli arti del figlio. Non appena completata la sua
opera, ecco che il dio lo fa tornare in sé, sciogliendo la finzione e mostrandogli
la realtà. La terra, dopo il furente omicidio, diviene sterile intorno a Licurgo.
Gli Edoni lo portano sui monti in mezzo alle foreste ghiacciate del Pangeo,
dove Erodoto ci ricorda esisteva un santuario oracolare di Dioniso che
profetizzava per bocca di una donna.
Dopo che l'intera Beozia ha accettato i suoi culti, Graves suppone che
egli abbia preso la via del mare. Lo studioso dice che Dioniso giunge per mare
ad Ikaria, demo importante perchè vi sorgerà in età storica, come vedremo
dopo, un santuario di Dioniso. Qui ad Ikaria, il dio si accorge che la sua nave
non tiene il mare e ne noleggia un'altra da alcuni marinai tirreni (tyrrenoi) che
in realtà sono dei pirati e che fanno schiavo il dio, ignorandone la potenza. È
l'argomento del celebre Inno Omerico a Dioniso. Il dio medita ancora vendetta,
fa crescere una vite attorno all'albero maestro, un'edera avvolge il sartiame,
trasforma i remi in serpenti, se stesso in leone e ghermisce ad uno ad uno i
pirati che si tuffano in acqua e per la paura si trasformano in delfini. Ne
risparmia solo uno, quello che aveva presagito la sua natura divina. Dopo
questo viaggio in mare, Graves pone l'arrivo a Creta di Dioniso e l'incontro con
Arianna. È bene dunque che il nostro discorso passi dal mito alla storia e che si
cerchi di indagare quale sia la “preistoria” di Dioniso.
14
1.2 PREISTORIA DI DIONISO
23 Documents in Mycenean Greek. Three hundred Selected Tablets from Knossos, Pylos and Mycenae,
with Commentary and Vocabulary by M.Ventris and J. Chadwick, Cambridge, 1956
24 cfr. F. Jesi, Appendice. Nuovi documenti e nuovi studi sulle origini di Dioniso.(in Jeanmaire, op.cit )
25 M.C. Astour, Hellenosemitica, Leiden, 1965
26 Macrobio, Saturnalia, I 18.1 e I 18.11
27 Per Macrobio il dio Libero doveva essere senza dubbio una interpretatio romana del greco Dioniso (In
sacris enim haec religiosi arcani observatio tenetur, ut sol, cum in supero id est in diurno hemisphaerio
est, Apollo vocitetur, cum in infero id est nocturno, Dionysus qui est Liber pater habeatur)
28 Erodoto, V, 7
15
Libero/Dioniso è bene avvalersi anche di un’altra fonte. Erodoto nelle sue
storie29 narra di una leggenda riguardo Perdicca (futuro re di Macedonia). Egli
e i suoi fratelli giunsero fuggiaschi presso il re di Lebaia e lavorarono come
mandriani al suo servizio. Una volta chiesto il compenso per il lavoro eseguito,
si videro rifiutata la paga: il re anziché remunerarli indicava loro i raggi del
sole che penetravano dalla finestra dicendo che questa era la mercè che
meritavano. Perdicca accetta di buon grado, ma traccia con un coltello il
contorno della luce sul terreno e dichiara di voler prendere “tre volte di quel
sole”, cioè di quella terra. L’operazione di tracciare sulla terra i confini ha
sicuramente qualcosa di rituale e va letta in questo senso anche la presenza del
sole, che, secondo Pettazzoni,30 fornisce una testimonianza che va ad incastrarsi
perfettamente con le nostre conoscenze del culto del Sole nelle popolazioni
della penisola balcanica, macedoni e traciche in particolare. Il passo erodoteo è
stato studiato a lungo dal Pettazzoni, che è riuscito a trarne le seguenti
conclusioni. La religione tracia fu caratterizzata originariamente da un
profondo dualismo di natura economica e sociale: da un lato il culto di
“Hermes”, proprio dei sovrani e della classe dirigente, dall’altro il culto di
“Dioniso” che, come vedremo, aveva maggiori punti di contatto con i culti
agrari e ctonici, proprio quindi della classe contadina. La divinità “solare”
sarebbe stata proprio quella che Erodoto, nella sua interpretatio graeca,
avrebbe chiamato “Hermes”, alla quale si opponeva il “Dioniso” ctonio.
Questo dualismo, che come abbiamo visto secondo il Pettazzoni aveva una
forte matrice sociale, sarebbe poi scomparso, in seguito alla perdita di
indipendenza della regione tracia, prima sotto il dominio macedone, poi sotto
quello romano. Il culto del dio solare, quindi, un tempo proprio solo
dell’aristocrazia, si sarebbe “democraticizzato” e avrebbe assunto aspetti di
quello ctonio. Da tale fusione sarebbe poi nata una figura divina detta
“cavaliere tracio” il quale presenta insieme attributi dionisiaci e solari.
Un’obiezione allo schema perfettamente dualistico che il Pettazzoni crea, è
l’esclusione di “Ares” tracio, esclusione che lo stesso Erodoto aveva
16
sottolineato. Lo studioso, in realtà, lo pone su un gradino più alto e ne fa una
sorta di Zeus, un dio-padre comune a tutti e rinchiuso in nessuna dicotomia.
Viene da chiedersi, però, conoscendo la famosa attività bellica dei Traci 31 (alla
quale partecipava solo la classe dirigente), se quell’ “Hermes” tracio non fosse
da sostituire con un “Ares” tracio. Risulta per l'appunto strano il fatto che una
popolazione come quella tracia relegasse nel mondo degli dèi uranici e distanti
la figura di Ares, e la sostituisse con quella di “Hermes”. Oltre alle notizie che
ci dà Erodoto, sono scarse le informazioni che possediamo sulla religione
tracia, e le sole tradizioni che abbiamo riguardo agli aspetti religiosi
dell’istituto monarchico in Tracia si collegano alle figure di Zalmoxis 32 e a
quella di Orfeo. Queste tradizioni, ci ricorda Furio Jesi, sembrano riferirsi ai
Geti e non sappiamo se i loro culti e quelli dei Traci fossero fondamentalmente
unitari. Analoghe riserve possiamo avere riguardo alle stesse informazioni che
ci dà Erodoto, il quale, probabilmente, conobbe solo i Traci della costa e quelli
della regione del Pangeo. Poste queste riserve, dobbiamo comunque ammettere
che la tradizione (come ricordato sopra) attribuisce al re dei Traci il culto di
una divinità solare.
17
due Hermes (tracio ed ellenico) avrebbe come denominatore comune l’aspetto
infero, la potenza fecondatrice e l’immortalità dell’anima nel ciclo naturale;
tutte tracce rimaste poi nell’Hermes ellenico, psicopompo, fecondatore e
venerato sui monti. Per quanto riguarda l’aspetto itifallico, la tradizione ricorda
un’altra divinità tracia che veniva sempre identificata col greco Hermes: era
Kadmilos, il quale non era venerato solo dai re, ma anche da chi era iniziato ai
misteri samotraci. Il culto di Kadmilos era un “culto riservato”, dunque
l’Hermes tracio e Kadmilos potrebbero rappresentare due antichissimi aspetti
della stessa divinità: l’uno legato al potere regale, l’altro al lato mistico e con
accentuati aspetti escatologici. A questo punto vanno riconfigurati anche i
rapporti con il Dioniso tracio, del quale, va ricordato, Macrobio sottolinea
l’aspetto solare (passato in ombra poi dopo la lettura di Erodoto) e del quale
sappiamo che aveva anch’egli alcuni santuari montani. Restano comunque
delle differenze tra Hermes e Dioniso traci: Erodoto ricorda che Zalmoxis
limitò ai soli uomini il culto della divinità solare, mentre le testimonianze che
abbiamo sulle profetesse ci indicano chiaramente un culto femminile. Al
dualismo sociale e politico va dunque sovrapposto un dualismo di matrice
sessuale: da un lato gli uomini (dediti all’attività politica e militare) e dall’altro
lato le donne (dedite all’agricoltura34). L’ultimo ostacolo al nostro
ragionamento che si pone adesso è il fatto che Erodoto ci dice che il culto era
riservato solo ai Basiléej, termine che può designare i re e gli appartenenti
alla stirpe regale, ma non certo tutta la popolazione maschile. Zalmoxis, ci
ricorda Erodoto, rivelò la sua dottrina ai re, i quali in seguito avrebbero reso
partecipe di questa riforma religiosa anche il popolo. Si può supporre
l’esistenza di due livelli di consapevolezza del culto: una misterica, accessibile
solo alla classe dominante che adorava l’“Hermes” solare, l’altra “divulgata”
anche al popolo. Qual è allora, nel suo testo, il nome dell’altra divinità – o
dell’altro aspetto della divinità – adorata anche dal popolo? Ci viene in aiuto
ancora Furio Jesi: considerando la triade tracia “Ares-Artemide-Dioniso”,
34 Secondo uno schema, valido forse anche per la Tracia, nel quale alle donne veniva imposto dagli
uomini di lavorare la terra, d’essere pastore di greggi e di compiere servizi come gli schiavi, come ci
testimonia Platone, Leggi, 805d-e
18
nominata da Erodoto, si può dire che il bellicoso Ares, dio del cielo meteorico e
divinità uranica paragonabile a Zeus, fosse sposo di Artemide, divinità della
Terra, delle foreste e degli animali selvatici. Nell’equilibrio della triade va
supposto anche un rapporto padre-figlio tra l’“Ares” e il “Dioniso” traci,
testimoniata, oltre che dalle componenti di origine tracia di Ares, anche da
alcune somiglianze: ambedue sono protagonisti di una katabasis, ambedue
sono in relazione con l’itifallismo (Ares educato da Priapo), ambedue hanno
stretti rapporti con le donne (Ares padre delle Amazzoni). Supponiamo quindi
che il carattere “uranico” abbia lasciato che il nostro Ares tracio subisse la
sorte, comune ad altri esseri supremi celesti, di allontanarsi dalla realtà umana
verso un'inaccessibile sublimità divina35 e venisse dunque sostituito – almeno
nel culto – da un dio itifallico, fecondatore che potrebbe allora essere
“Dioniso”. Nell’affermazione della divinità ebbe parte la struttura di una
società ginecocratica: “Dioniso” divenne, accanto ad “Artemide” (di cui era
forse figlio, ma anche sposo secondo uno schema consueto delle religioni
arcaiche), dio della vegetazione e della fertilità.
35 La teoria, assai generale, tratta la genesi delle divinità solari sostituitesi ai più antichi dèi uranici,
divenuti troppo lontani dalla vita terrena, in: M. Eliade, Traitè d’histoire des religions, Paris, 1949, cap II-
III
19
facilmente: la morte di Orfeo, dilaniato dalle Bassaridi, indica un’estrema e
precaria vittoria del dio sul nuovo sistema. Erodoto dunque, visitando la Tracia
in età storica (V sec.), osserva che “Hermes” era il dio degli uomini che
combattevano e comandavano, mentre “Dioniso” – antico dio delle donne –,
seppur non vittorioso era sopravvissuto al conflitto con il dio degli uomini e
continuava ad essere adorato sui monti e a parlare per bocca di profetesse
ispirate, come nel santuario di Zilmisso di cui parla Macrobio.
20
vino –, giungendo nell’area egea36. La scoperta del nome di Dioniso sulle
tavolette ha avuto l’effetto di far scaturire una ricerca di collegamenti di altre
parole che potrebbero riferirsi al di-wo-nu-so-jo. L. A. Stella37 ha collegato il
nome Triseros (ti-ri-se-ro-e, tav. PY Tn 316) alla divinità venerata insieme alla
Potnia di Pakiana: tale collegamento si baserebbe sulla comparazione del nome
trovato sulla tavoletta con gli epiteti (molto spesso orfici) dati a Dioniso, quali
tr'igonoj, triet'hj, trifu'hj. Collegabile a queste tavolette è un altro testo
trovato a Cnosso (Tav. KN Gg 702): po-ti-ni-ja da-pu-ri-to-jo, che
significherebbe “Signora del Labirinto” e rappresenterebbe quindi un nesso
anche tra la figura di Arianna e il nostro ipotetico (ma ormai accettato) Dioniso
Cretese.
36 Sempre F. Jesi ci ricorda le più remote testimonianze di vino in area egea costituite dalla presenza di
acini d’uva (mosto?) sul fondo di un orcio nel più antico palazzo di Festo. A Gurnia e nel palazzo di
Vathypetron sono stati anche rinvenuti torchi e pressatoi per il vino. Un’altra tavoletta (PY Fr 1202)
avente iscritta la forma me-tu-wo-ne-wo sembra designare “il tempo del vino nuovo” e quindi magari
un’occasione festiva.
37 L.A.Stella, La civiltà micenea nei documenti contemporanei, in “Incunabula graeca”, VI Roma, 1965
(citato da F. Jesi, Appendice in Jeanmaire, Dioniso, cit.)
38 Kerényi, cit. Dioniso, pp. 25-46
21
la luce, il condizionamento degli astri (soprattutto Sirio, che segnava l’inizio
della stagione estiva), e il miele. Tutti elementi che concorrono certo ad
evocare l’idea di una tensione verso la vitalità, un’esplosione vera e propria che
si consumava sin dall’inizio dell’estate e perdurava sino al periodo della
vendemmia. Non ci sono, nella cultura minoica, grandi riferimenti all'uva, al
mosto o al vino, ma ce ne sono invece al miele. Gli stessi termini greci per
indicare “essere ubriaco” e “ubriacare” sono methyein e methyskein e sembrano
ricordare nella loro essenzialità indoeuropea il termine methy, nel quale risuona
la parola che indica il miele (finnico mesi - metinen, ungherese mèz, tedesco
met, inglese mead ). In greco antico ancora méqu sta ad indicare la bevanda
inebriante in generale. Nel culto greco, ci dice Kerényi, il miele occuperà
sempre un posto di primaria importanza, anche davanti al vino: pr^wta
melikrÔtw?, metépeita dè :hd'eï o;'inw?, “prima di miele e latte, poi di vino
soave”39. Da un passo di Plinio il Vecchio apprendiamo che il miele serviva alla
preparazione di una bevanda e che per quest’operazione erano previsti tempi
ben definiti: “i più accorti fanno bollire l’acqua fino a ridurla di due terzi, poi
aggiungono un terzo di miele vecchio e lasciano riposare la mistura al sole per
quaranta giorni, nel periodo del sorgere mattutino di Sirio”. 40 Plinio non fa
parola di alcun recipiente, ma l’operazione non poteva avvenire all’aperto,
poichè la calura estiva avrebbe fatto evaporare l’acqua della mistura. Al tempo
di Plinio la preparazione non aveva più un valore cultuale ed è presumibile che
il nome del recipiente fosse omesso nella descrizione poichè era noto a tutti:
esso era l’askòs, un otre in pelle di animale il cui collo si poteva legare. È
sicuramente degno di nota che in un momento ben preciso avvenisse la
fermentazione di questa bevanda cultuale, legata a quell’atmosfera pre-
dionisiaca che Kerényi vede come anticipazione minoica del culto ellenico di
Dioniso41. Il momento è l’inizio dell’anno di Sirio che Omero conosceva come
“il cane di Orione”42. L'ambivalenza della stella Sirio, che è insieme annuncio
dell'estate e della vitalità ma anche calura palesemente crudele, è sottolineata
22
da Kerényi in riferimento ai vv. 26-31 del XXII libro dell'Iliade.43 La stagione,
che i Greci chiamavano Opòra, durava circa cinquanta giorni: dalla seconda
metà di luglio fino a metà settembre, quando, secondo Esiodo 44, la posizione di
Orione al centro del cielo dava il segnale di inizio alla vendemmia. Stagione
che Platone45 diceva assai preziosa poichè portava tesori che possono essere
conservati – come i frutti – e tesori che non possono essere conservati – come
la gioia dionisiaca. Kerényi46 ricorda ancora una bellissima definizione di
Pindaro riferita a Dioniso: “pura luce della piena estate”.
Prima che Dioniso giungesse in Grecia come dio del vino, i Greci,
ansiosi sempre di attribuire l'origine delle cose ad un mito o ad una vicenda,
chiamavano Oresteo colui che scoprì la vite e che quindi iniziò una nuova era;
da quella che Kerényi identifica come “età del miele” si passa ad un periodo
nel quale il vino diventa, anche storicamente, elemento essenziale per la cultura
e l'economia greca. La patria di Oresteo era l'Etolia, la sua storia ci è raccontata
da Ecateo di Mileto47: egli era un cacciatore selvaggio (attributo che si
riconosce nel nome), figlio di Deucalione, il quale era arrivato in Etolia per
conquistarsi un regno. Un giorno la cagna di Oresteo partorì un ceppo, egli lo
fece seppellire e da questo uscì un tralcio di vite che portava uva grossa.
Ispirandosi a quanto successo, egli chiamò suo figlio Phytios, dal verbo greco
fute'uw che significa “generare”, “piantare”, “coltivare”. A sua volta questi
ebbe come figlio Oineo, così chiamato dal nome della vite o;'inh. In un'altra
versione del mito ricordato da Kerényi, il re aveva un pastore, a nome Oineo,
dal cui gregge si allontanava spesso un caprone che ritornava sempre sazio. Il
pastore, seguendolo, scoprì che si alimentava da una vite piena d'uva. Oineo
potè scoprire così il frutto divino e imparò (non senza l'insegnamento di
Dioniso) a trarre il vino. Interessante è la menzione del caprone, che richiama
fortemente il tragos dionisiaco. Solo gradualmente questa serie di miti si
43“come stella correva per la pianura;/ come si leva astro autunnale, chiari i suoi raggi/ appaiono fra
innumerevoli stelle nel cuore della notte:/esso è chiamato il Cane di Orione,/ed è il più lucente, ma dà
presagio sinistro/e molta febbre porta ai mortali infelici.” Trad. it. in Kerenyi, op. cit., pag. 88
44 Esiodo, Opere e giorni, vv. 609-611
45 Platone, Leggi, VIII, 844d
46 Kerényi, cit. Dioniso, p. ? - dendréwn d'e n'omon Di'w-/nusoj poluagaq''hj a;ux'anoi ( Fr. 140
Bowra)
47 Ecateo, fr.8, in Jacoby, FgrH,1; Kerenyi, ibid., p.89
23
identificò nella storia sacra d'ambiente dionisiaco. Ora Kerényi assimila
Oresteo (personaggio mitico e Costellazione) ad Orione e ne fa un personaggio
legato, come detto sopra, all'età del miele. La sua relazione con il vino è
dunque primitiva ed incosciente: egli lo conosce e ne rimane vittima. Infatti,
rimasto privo della moglie, egli si reca a Chio, chiamato forse da Enopione che
gli chiedeva di liberarlo dalle bestie feroci che infestavano l'isola. Qui Orione
si innamora di Merope, figlia di Enopione, la quale però non voleva unirsi a
lui. Di qui in poi le versioni differiscono: o Orione ubriaco volle violentare
Merope, o lo stesso Enopione lo ubriacò. Comunque sia andata, Enopione
accecò Orione mentre questi dormiva; una volta cieco si recò nella fucina di
Efesto e portò poi con sé un bambino, affinchè lo guidasse verso il Sol
Levante. In questo viaggio egli recuperò la vista e volle tornare da Enopione
per vendicarsi, ma rimase imprigionato in una camera sotterranea che Efesto
costruì per lui. Questi gli effetti stupefacenti del vino, in un periodo ancora di
matrice pre-dionisiaca, ma che sembra già presagire i culti orgiastici, la manìa
divina, il ditirambo, come elementi necessari e irrazionali del tremendo dio.
24
CAPITOLO SECONDO
Fra tutti gli dèi greci, Dioniso è il meno sedentario: nessun luogo è casa
sua, non si conosce il luogo da dove egli parta, ma si riconosce sempre il luogo
dove egli arriva. “Il dio misterioso nascosto nelle fibre della vite”, come lo
chiamava Baudelaire, appare non appena si celebri (o non si celebri) un rito in
suo onore, o presso una libagione, o quando in un cratere si mescola del vino.
Dioniso appare, egli è un dio epifanico, o meglio un dio epidemico. Epidemia è
un termine afferente al linguaggio delle teofanie, l'epidemia è un sacrificio
offerto alla potenza divina quando questa arriva presso il démos, presso il
villaggio. Oltre le epidemie, si distinguono le apodemie, sacrifici offerti per la
partenza dal villaggio di una divinità; e le teossenie, quando un privato o
un'intera città offre ospitalità ad una o più potenze divine. In queste occasioni
gli dèi epidemizzano, risiedono in loco, ma non sono mai sedentari. È la parola
“epidemia” che sta ad indicare il fattore itinerante. Le epidemie erano anche i
resoconti dei medici ippocratici che viaggiavano di città in città, di villaggio in
villaggio, stilando questi quaderni di appunti dove annotavano le malattie. Per
epidemizzare, gli dèi devono essere migratori, essendo migratori sono anche
stagionali, hanno cioè le loro stagioni, le loro feste, i loro anniversari. Abbiamo
visto come Kerenyi sottolinei l'aspetto cronologico dell'esplosione dell'opòra,
dell'anno di Sirio che è la piena estate quando Dioniso, parafrasando Pindaro,
diviene pura luce. È proprio lui tra tutti, il dio che sfrutta maggiormente la sua
stagionalità, che fa della parusìa il modo privilegiato di agire, è lui il dio che
viene, che appare. Perchè?
25
ultima analisi, alla possibilità che non gli sia mai riconosciuto il culto e
soprattutto la sua natura divina.
26
sociale che esige il dio: essendo uno straniero, in questa o in un'altra città, egli
richiede l'ospitalità dovuta al viaggiatore, ed è l'ospitalità di un benefattore che
può essere tanto un campagnolo quanto un regnante.
27
abbiamo notizie storiche dalle fonti, se non i racconti dei mitografi. Pur
navigando nell'incertezza continuiamo il nostro ragionamento.
L'arrivo di Dioniso per mare era reso sicuro dal ricordo della sua
imbarcazione in alcune immagini vascolari del VI secolo che mostrano la nave
portata in giro su ruote nel corso di una festa; non si conosce bene quale.
Probabilmente possiamo ipotizzare che l'approdo sia stato la baia del Pireo
(divenuto successivamente il famoso porto di Atene), non tanto perchè vi
allude qualche notizia mitica o storica, quanto per i successivi culti nella città
portuale. Difatti, proprio nella baia del Falero, Dioniso veniva festeggiato in
modo piuttosto complesso. La festa cadeva all'inizio del mese di Pyanopsion,
corrispondente al nostro mese di ottobre, e prevedeva un corteo durante il quale
tralci carichi di grappoli venivano portati dal santuario di Dioniso di Atene fino
al Falero. Il nome della festa, Oscoforie, voleva dire proprio questo, anche il
Falero portava originariamente il nome di Oscophòrion. Fin qui tutto semplice
ma, come ci fa notare Kerényi, qui sorgeva un tempio di Atena e l'intera
processione serviva a ringraziare Dioniso e Arianna per aver lasciato libero
Teseo e non essere venuti con lui. Non poteva essere dunque il Falero il porto
51 Girolamo in Eusebio: “Dionysus verum non ille Semele filius cum in Atticam pervenisset, hospitio
receptus a Semacho filiae eius caprae pellem largitus est” (in Kerényi, Dioniso, p.145)
28
d'arrivo di Dioniso, lo stesso porto nel quale si sarebbe celebrata una festa che
ringraziava il dio per non essere arrivato!
29
maschera dello Straniero, quella che gli dèi indossano per viaggiare di città in
città, quando vengono ad osservare “gli eccessi o l'equità delle azioni umane”53.
30
Un'altra storia dell'arrivo del dio in Attica riguarda l'approdo a Thorikos
(odierno Porto Raphti, tra Sunion e Prasiai), dove Dioniso sbarcò e venne
ospitato poi da Semaco56, nel demos di Semachidai, prima di giungere presso
Icario. Presso Semaco il dio ebbe una grande accoglienza e scrittori tardi
aggiungono che le figlie di Semaco furono le continuatrici del culto di Dioniso
e quindi le prime sacerdotesse. Un'altra versione parla di una sola figlia
(evidente assimilazione con il mito di Icario, il quale aveva solo Erigone) che
ricevette dal dio la nebrìs – non semplice dono di una veste – inizio
dell'officiazione di un vero e proprio culto con la componente essenziale del
nebrìzein, lo sbranare l'animale. Da molte testimonianze vascolari sappiamo,
però, che per compiere quest'azione cultuale era necessaria la presenza di
almeno due donne.
Un altro punto nel quale il dio, nei racconti mitici, fece sosta e dal quale
è possibile immaginare la nascita attica del culto, è il demo di Eleuthere: un
piccolo villaggio ai confini con la Beozia. Non è più il Dioniso tebano quello
che fa visita ad Eleutheros, eponimo del demo; qui il dio sembra adattarsi agli
interlocutori che trova: Eleutheros, un reuccio affiancato dalle figlie, non gli dà
problemi. Queste, invece, lo trovano ridicolo vestito com'è di una nera pelle di
capra e Dioniso, offeso, le colpisce subito facendole prede della sua manìa. Si
tratterà solo di una semplice scaramuccia e niente di più. Difatti, il padre,
preoccupato, si reca subito a consultare l'oracolo e grazie al suo responso fa
cessare il delirio decretando un culto ufficiale in onore del Dioniso Melànaigis,
“dalla nera pelle di capra”, cioè il Dioniso tenebroso legato agli spiriti dei
morti.57
56 Si sottolinea la possibile origine semitica del nome di Semaco, caldeggiata da M.C. Astour, op. cit., p.
195. Nel caso specifico Semaco deriverebbe da Simah, “fatto per rallegrare”, con evidente allusione alla
bevanda che Dioniso porta con sé.
57 Suda, s.v. Mélan […] a:i to^u ;Eleuq^hroj qugatérej qeas'amenai f'asma to^u Dion'usou ;'econ
mel'anhn a;ig'ida ;em'emyanto, :o d'e ;orgisqeìj ;ex'emhnen a;ut'aj. Metà ta^uta :o ;Eleuq'hr e;' labe
crhsmòn e; pì pa'usei t^hj man'iaj tim^hsai Melanaig'ida Di'onuson.
31
era arrivato nella città ed era stato al tempo di Icario. 58 Secondo Detienne
l'oracolo avrebbe indicato anche la soluzione al successivo problema che
accadde quando la popolazione maschile ateniese rifiutò il culto dionisiaco. Gli
uomini, infatti, opponendosi all'arrivo del dio, furono puniti da una satyriasis,
una sorta di perenne erezione del sesso maschile dolorosa e senza scampo. 59 Il
rimedio sarebbe stato la costruzione di alcuni falli e l'istituzione di una loro
processione in onore del dio di cui si faceva profeta Pegaso, sacerdote di
Dioniso. Dal rifiuto quindi della componente maschile di adorare Dioniso – il
cui culto è preponderatamente femminile – si arriva all'accettazione del culto e
addirittura al coinvolgimento degli uomini di Atene attraverso queste
falloforie. È improbabile che questo sia avvenuto già in epoca storica sotto
Pisistrato, nel VI sec. a.C., ma bisogna congetturare un'epoca più antica se
anche Erodoto faceva risalire al mitico Melampo l'istituzione in Atene di queste
falloforie. Le gesta del veggente Melampo sarebbero risalenti all'eta micenea e
venivano cantate dai cantori post-omerici nella Melampodeia. La vicenda di
Pegaso sarebbe da porre in un'epoca un poco più tarda. Dopo la guarigione
miracolosa l'ambasciata trovò il successo ed il periplo di Dioniso nell'Attica si
concluse con un ricevimento ufficiale alla tavola del re Anfizione, mitico re di
Atene. Qui il dio svelò al re quello che non aveva confidato prima: l'arte di
bere la nuova bevanda, affinchè non ci si accosti al vino senza le debite
precauzioni.
58 Pausania, I, 2, 5.
59 Sch. Ar., Ac., 243 ed. Fr. Dubner, 1969, p. 10
32
2.3 DIONISO FUORI DALL 'ATTICA : L'EPISODIO DI LICURGO
33
vicinanza del monte Nisa, nel quale, secondo alcune tradizioni, sarebbe nato
Dioniso). Abbiamo, d'altra parte, un tòpos interessante quale quello
dell'inseguimento: le donne e il dio scappano di fronte alla furia cieca di
Licurgo massacratore che le insegue senza buone intenzioni. Apro una piccola
parentesi: è di fondamentale importanza (lo abbiamo visto parlando di alcuni
miti orfici che riguardano Dioniso) entrare in uno specifico ordine d'idee che
riguarda il dio e i suoi culti. Questo aspetto, che vado a focalizzare, è ben
approfondito da Kerényi: nei suoi culti Dioniso non è solo la divinità altera al
quale si offrono i sacrifici, ma nella sua mutevolezza, nella sua natura
cangiante, egli si fa anche vittima stessa del sacrificio. Vittima e allo stesso
tempo destinatario del sacrificio. Lo abbiamo visto nell'episodio della Passione
orfica del dio e lo vediamo anche qui. La fuga mitica diverrà un archetipo, sarà
ripetuto per mimesi nell'officiazione dei suoi culti. Plutarco ci parla ad esempio
di alcune feste celebrate in Beozia: le Agrionie, di cui ho fatto cenno sopra.
Qui era il sacerdote di Dioniso, armato di spada, che inseguiva le donne e la
direzione di fuga era sempre verso l'acqua, il fiume o il mare. Jeanmaire 63
vedeva nella costante presenza d'acqua, il simbolo (presente in molte usanze)
del bagno rituale; in questo caso a conclusione di una cerimonia religiosa.
Vorremmo avere maggiori informazioni sulle figure di Driante e Licurgo, i cui
nomi sembrano etimologicamente di origine greca (“Uomo della quercia” e
“Colui che fa il lupo”), e la cui tradizione li voleva originari della Tracia.
Tradizione che spesso è stata usata dagli studiosi come prova di un'origine
tracia di Dioniso. Ipotesi di cui ho discusso ampiamente sopra. Come dicevo,
non si sa molto sui personaggi, se non che Licurgo fosse figlio di Driante e che
fosse una sorta di gigante e guerriero temibile. L'Iliade cita ancora un altro
Driante e un altro Licurgo, ma le loro gesta non si svolgono in Tracia, bensì in
Arcadia. Anche Eschilo aveva ben presente la figura di Licurgo come
protagonista di una Licurgia, la cui prima opera era gli Edoni. Sebbene la
localizzazione omerica non fosse ben definita, Eschilo la ambienta chiaramente
in Tracia, forse in consonanza agli storici interessi nella zona del Pangeo degli
Ateniesi, nei quali fu invischiato lo stesso Eschilo che aveva preso parte alle
63 Jeanmaire, cit., p. 60
34
campagne in quella regione sotto la guida di Cimone nel 467 a.C., poco prima
di scrivere la sua Licurgia. Fu probabilmente da questi contatti con il mondo
ateniese che dovette svilupparsi il culto dionisiaco nella regione, grazie anche
alla confusione con i culti indigeni. Lo stesso Eschilo ebbe la possibilità di
conoscere alcuni Misteri barbari che si svolgevano con cerimonie notturne e
notava il grande uso di musica selvaggia.
35
perfetta corrispondenza con il dio. Che “l'assenza” del dio duri esattamente un
anno risulta da un ditirambo (di cui riporto la traduzione presente nell'edizione
italiana de Kerényi, op. cit.) i cui versi provengono da uno scritto teorico che
trattava la poesia ditirambica ateniese del V e del IV secolo, e che ci è giunto in
condizioni estremamente frammentarie: “Leva il grido per lui: / Dioniso
canteremo / nei sacri giorni, / che per dodici mesi è assente 66. / Ora è venuto il
tempo, ora ci sono i fiori.”
Il secondo anno della trieterìs era l'opposto del primo: il dio non era più
il sotterraneo, l'assente, l'invocato pubblicamente da strumenti chiassosi. Il dio
è adesso presente, qualunque sia la sua forma. Kerényi, in modo molto
suggestivo, la chiama la “parousìa della zoè”: è il momento in cui il corpo
stesso dell'officiante si fa testimonianza della presenza divina. Dioniso si
incarna nell'uomo: “in una sovraeccitazione della sensibilità fino a raggiungere
uno stato visionario”69. L'eccitazione menadica, elemento fondante del culto
dionisiaco, poteva condurre a traguardi inaspettati: così accadde a Potniai, in
Beozia, dove in sostituzione della solita capra (il sacrificio del tràgos),
36
l'ubriachezza dei partecipanti giustificherà un sacrificio umano: quello dello
stesso sacerdote.70 Si perdevano, quindi, i criteri di finzione dello stesso
sacrificio: il dio non era più rappresentato da un capretto, ma anche un uomo
poteva divenire vittima designata. La natura delle Menadi, nei culti trieterici, è
quella dei cani da caccia: Dioniso è la preda, ma anche l'animale sacrificale da
divorare crudo o le cui carni vanno prima bollite e poi arrostite, secondo un
ordine rituale ben preciso e forse di natura orfica.
70 Pausania, IX, 8, 2
71 L'ipotesi è formulata da Kerényi in: Die antike Religion, Amsterdam-Leipzig, 1940
72 Il passo è tratto da: Hegel, Logik, in Samtliche Werke, IV, Stuttgart, 1930; ed è citato da W. F. Otto,
Dioniso: mito e culto, Genova 1997 p.126 ; Kerényi, Dioniso cit., p. 197
37
apice sui crinali dei monti trasfigurati dall'incandescenza” 73. Cosa alquanto
strana, se si pensa che ancora meno comprensibile riesce il fatto che il mese
primaverile di Theoxénios – durante il quale (come dice il nome) venivano
ospitati gli dèi – era già trascorso quando Apollo arrivava dal paese degli
Iperborei, nel pieno dell'estate. Forse è da supporre che il calendario che
conosciamo noi non corrisponda a quello originario delfico: Apollo,
probabilmente, si imbatte in un calendario che è ancora biennale, basato sul
mito di Dioniso e che verrà successivamente adattato in calendario annuale. É
significativo che da Delfi non sia stato tramandato alcun racconto dell'arrivo di
Dioniso, né della sua nascita; l'unico dio che qui giunge è Apollo. Secondo la
tradizione mitica egli, arrivando, prende possesso dell'oracolo appartenente ad
una Grande Dea, forse la Terra stessa. Considerazioni archeologiche mostrano
come già in piena Età del Bronzo, a Delfi, fosse presente un'area sacra ed il
famoso Omphalòs attesterebbe la credenza in un legame tra mondo terrestre e
mondo sotterraneo. A questa tradizione della Grande Dea, che era identificata
con la Terra, apparteneva anche un oracolo, elemento dunque presente in epoca
pre-apollinea. Due fonti di grande interesse ci vengono in aiuto relatiivamente
alla diadochìa, cioè alla successione nella signoria sull'oracolo di Delfi. Esse
sono: le Eumenidi di Eschilo, l'Ifigenia Taurica di Euripide. Nella prima, la
Pizia menziona i precedenti possessori dell'oracolo: Apollo occupa solo il
quarto posto, gli altri tre sono occupati dalla dea della terra e da due sue figlie,
Temi e Febe, quest'ultima madre di Leto. Eschilo, parlando del Parnaso, monte
non molto lontano da Delfi, accenna anche a Dioniso. 74 Nell'Ifigenia Taurica
vengono menzionate, come divinità precedenti ad Apollo, le dee Gaia e Temi,
madre e figlia.75 Si racconta, qui, anche dell'uccisione del serpente, di cui non
si era detto nulla in Eschilo e si fa ulteriormente menzione anche di Dioniso e
del monte Parnaso, già sede delle feste bacchiche in onore del dio. 76 Dopo le
prime due, uno scoliaste parla di un terzo possessore dell'oracolo. Questo è
Pitone: l'essere a forma di serpente. Contemporaneamente, però, fa anche il
38
nome di un profetico Dioniso.77 L'uccisore di Pitone, Apollo, veniva detto nella
letteratura mistica anche Dionysodòtes, “colui che fa dono di Dioniso”. Così si
conclude la storia dei possessori dell'oracolo di Delfi, a partire dalla dea Terra
sino ad Apollo. Le Tiadi – seguaci di questo Dioniso delfico – destavano il dio
che, per la prima metà del periodo biennale, spariva rifugiandosi tra i picchi del
Parnaso. Le sacerdotesse di Apollo, nel modo in cui è indicato nell'Inno
Omerico ad Apollo, le aiutavano cantando i peana.
77 Sch. Pindari Pythia, ed. A.B. Drachmann, p.2: pr'wth N''ux ;ecrhsm'widhsen, e;^ita Q'emij. P'uqwn'oj
de t'ote kurie'usantoj to^u profhtiko^u tr'ipodoj, ;en :^wi pr^wtoj Di'onusoj ;eqem'isteuse … “La
prima a dare l'oracolo fu la dea Notte, quindi Temi. Ma quando Pitone si impadronì del tripode nel quale
Dioniso per primo esercitò la funzione profetica...” (in Kerényi, cit. Dioniso, p. 202)
78 Macrobio, Saturnalia, I, 18, 6: “In hoc monte Parnaso Bacchanalia alternis annis aguntur: ubi et
Satyrorum, ut affirmant frequen cernitur coetus, plerumque voces propriae exaudiuntur: itemque
cymbalorum crepitus ad aures hominum saepe perveniunt.”
39
CAPITOLO TERZO
79 Jeanmaire, cit., p. 34
40
È un dato certo, però, che ad una data festa presiede un certo dio; e che
molto probabilmente questa festa comprende un rituale che risulta essere
ancora più antico dell'ingresso del dio nella festa stessa. Kerényi 80 ci parla, ad
esempio, di un culto dionisiaco celebrato en limnais, nelle paludi. La
particolarità di questa festa era quella di non avere una precisa ricorrenza. La
locazione nelle paludi ricondurrebbe il dio alla sua primitiva identità ctonia.
41
per nulla, ecco Dioniso essere presente in questo periodo: egli è affine alle
potenze demoniache che sorgono dalle crepe della terra; egli è il rappresentante
del mondo dell'aldilà, è il daìmon e grazie alla sua energica esuberanza fa
scaturire la fioritura e la fruttificazione. In quanto divinità ctonia, però, regna
sull'inverno e, attraverso la sua presenza nei cortei e nelle feste, manifesta il
proprio ingresso nel nuovo anno. Ma quali sono queste feste nelle quali
Dioniso riveste un ruolo importante? Esse ebbero inizio al tempo di Pisistrato
ed erano principalmente quattro. Tali feste erano: Dionisie rurali (nel mese di
Posidone, il nostro Dicembre), Lenee (celebrate in Gamelione, il nostro
febbraio-marzo), Antesterie (denominate così in relazione al mese di
Antesterione nel quale venivano celebrate, il nostro marzo circa), Grandi
Dionisie (che cadevano nel mese di Elafebolione, marzo-aprile circa).
42
Acarnesi di Aristofane83 in cui Diceopoli allestisce, dopo la sua secessione
dalla città, un'imitazione (in scala assai ridotta) della processione. Ad aprire il
corteo è sua figlia, in qualità di kanhf'oroj, recando all'interno del cesto
un'offerta di pane sul quale versa sopra una purea di verdure. Dietro di lei, lo
schiavo Xanthia, in qualità di fallof'oroj, che regge, insieme ad un altro
schiavo, questo fallo gigante ritto su una pertica. Per ultimo, lo stesso
Diceopoli che canta un inno a Phales, personificazione della fecondità e
compagno di Dioniso. Abbiamo, dunque, descritta in tratti ilari, una
esemplificazione di quella che doveva essere la cerimonia delle Dionisie
Rurali. Distinguiamo tre elementi: l'offerta cerealicola, il fallo e la musica. Si
afferma, inoltre, che un divertimento assai comune in queste feste era l'
;askwliasm'oj; e cioè il tentare di saltare o di restare in equilibrio su un otre di
vino. In realtà Pickard-Cambridge84 ci dice che in precedenza uno studioso (K.
Latte) aveva dimostrato che le fonti al riguardo erano confuse e che la
connessione del gioco con queste feste era motivata da un passo della seconda
Georgica di Virgilio85 dove, però, questa pratica viene semplicemente
menzionata insieme ad altre gare rituali celebrate in Attica. Tra tutte le Dionisie
Rurali celebrate in vari villaggi, che dovevano certo differire l'una dall'altra, la
festa del Pireo era quella più importante. Una testimonianza riguardante il V
secolo a.C. si trova Eliano86, il quale ci racconta che anche Socrate vi partecipò
per andare a vedere le tragedie di Euripide. Nel IV secolo è ancora evidente
l'interesse per la festa: le Dionisie Rurali vengono infatti elencate nella legge di
Evegoro, insieme alle Lenee e alle Dionisie Cittadine, come i momenti durante
i quali erano proibiti sia l'esazione dei debiti che il sequestro di garanzia.87
43
questa festa88. Per lungo tempo si è pensato che il nome della festa derivasse
dal sito della sua celebrazione, il Leneo, e che questo (e il dio venerato con il
suo nome: il Dioniso Leneo) fosse chiamato così in relazione al lhn'oj, il
torchio dal quale si ottiene il vino. Ma gli indizi che portavano a questa
interpretazione non erano probanti e la critica si è spostata verso altre possibili
soluzioni. L'etimologia non sarebbe da lhn'oj, ma da l^hnai, ossia l'appellativo
dato di frequente alle menadi e alle baccanti. E' stato, inoltre, osservato che
l'aggettivo derivato da lhnòj ha la sua forma normale in lhna^ioj, mentre gli
aggettivi di forma in -aioj sono solitamente derivati da sostantivi femminili
della prima declinazione. Per quanto riguarda la natura del culto, Pickard-
Cambridge cita l'opera di Frickenhaus89 come trattazione fondamentale per lo
studio dell'iconografia ceramica ispirata alle Lenee. Il Frickenhaus descrisse e
commentò un grande numero di vasi (datati lungo tutto il V sec. a.C.)
raffiguranti elementi collegati al culto di Dioniso. Questi è effigiato, in quasi
tutti, come una maschera barbuta posta in cima ad un pilastro e ad una colonna.
Talvolta la maschera effigiante il dio era circondata da edera o da altri elementi
decorativi. Secondo l'interpretazione del Frickenhaus, alcuni vasi da lui
descritti rappresentavano gli ipotetici riti orgiastici delle Lenee attiche, riti che
avrebbero avuto qualche rapporto con il culto tebano di un idolo-colonna di
Dioniso Kadme^ioj o Periki'onioj. All'ipotesi di Frickenhaus è stato obiettato
che le immagini da lui catalogate non si riferiscono alle Lenee 90. Varie
testimonianze, citate sempre da Pickard-Cambridge, mostrano che la festa
comprendeva una pomp'h, ossia una processione guidata dall'arconte re e dagli
epimeletai, nella quale vennero introdotti gli sk'wmmata ;ek t^wn :amax^wn
(sberleffi dai carri), tra i quali, però, lo scoliasta ad Aristoph. Cavalieri, v. 546,
include anche i canti ridicoli dei poeti, magari prototipi della Commedia. Se da
una parte qui l'elemento fondamentale sembra essere quello dei carri, non vi è
testimonianza alcuna di falloforie.
88 Per una esauriente elencazione delle fonti, che qui non posso riproporre, rimando a Pickard-
Cambridge, op. cit., pp. 35-42
89 L'opera è: A. Frickenhaus, Lenaenvasen, Winckelmannsprogramm, Berlin, 1912; ed è citata in
Pickard-Cambridge, op. cit., p. 42
90 Le obiezioni all'interpretazione del Frickenhaus sono esposte in: Pickard-Cambridge, cit., pp. 46-47
44
La festa delle Lenee si teneva presso il Leneo ( ;epì Lhna'iw?). Riguardo
all'ubicazione di questo Leneo le fonti sono discordanti: alcune lo collocano in
campagna, ;en ;agro^ij91 (fuori, dunque, dalle mura); altre nel mercato, che si
trovava all'interno della città, a nord-ovest dell'Acropoli. Esichio 92, ad esempio,
descrive il Leneo come un luogo ;en ;'astei (in città), di ampia circonferenza,
contenente lo :ier'on – tempio o recinto sacro – di Dioniso Leneo, nel quale
avevano luogo le gare degli ateniesi (forse gare teatrali) prima ancora della
costruzione del teatro. Fozio93 parla anche degli ;'ikria, impalcature di legno
dalle quali il pubblico assisteva agli agoni dionisiaci (prima che sorgesse il
teatro), come situate ;en a
; gor^a?.
91 Scoliasta ad Aristoph., Acarnesi, vv. 202 e 504; Stefano di Bisanzio, s.v. L'hnaioj
92 Esichio, s.v. e; p'i Lhna'iw ;ag'wn
93 Fozio s.vv. ;'ikria ;orc'hstra
94 Le molte fonti antiche riguardanti la festa delle Antesterie sono riportati in Pickard-Cambridge, op.
cit., pp. 2-15
45
di tromba e guidata dall'arconte re. Questa gara era detta anche qesmoqete^ion
(la sala di riunione dei tesmoteti) e il premio era un otre pieno di vino. Il terzo
giorno della festa, C'utroi, cominciava già al tramonto del giorno precedente,
di qui una certa confusione degli studiosi moderni ad attribuire questa o quella
cerimonia all'uno o all'altro giorno. Sembra, in linea generale, che le cerimonie
di questo giorno avessero carattere diverso da quelle del resto della festa: il
culto in questo giorno era dedicato ai morti e Dioniso svolgeva un ruolo quasi
nullo. Il giorno prendeva questo nome da alcune pentole usate per fare delle
offerte di grano a Hermes ctonio, soprattutto per coloro che erano periti nel
diluvio di Deucalione. Era, quindi, un intero giorno nefasto (il mundus patet
dei latini) nel quale gli spiriti vagavano sulla terra liberi. Alla fine della
giornata infatti si gridava: q'uraze K^arej, cioè “andate via spiriti”.
46
ricondotta in processione al teatro alla luce delle fiaccole. Tutta la processione
aveva un valore essenzialmente propiziatorio al sacrificio nel Santuario di
Dioniso Eleutereo. È ben attestato il sacrificio di un toro, ma venivano di certo
fatte anche offerte incruente. Il percorso della processione è ignoto, in alcuni
momenti essa era ravvivata da danze di cori presso i diversi altari. Si può
presupporre che venissero intonati anche canti satirici.
47
dimostrare che il teatro greco deve essere considerato come il “documento di
una religione”. Per sottolineare ciò si fonda principalmente sulle feste
dionisiache e sulle processioni ad esse congiunte:
Brelich parla di quella stessa statua della quale si diceva sopra, del suo
trasporto sino alla città di Atene e del valore mimetico-evocativo della
processione. Seppur di rilevante interesse, questo argomento non è tuttavia
totalmente probante in un'eventuale asserzione di una stretta comunanza tra il
dio e il (suo) teatro. Anche Vernant98, analizzando il paradosso nel quale si
incorre non trovando nulla che riguardi Dioniso all'interno delle tragedie,
solleva domande e perplessità sull'intera questione. Intera questione che si
sviluppa attorno al seguente perno: perchè la tragedia, nella sua forma
“classica” del V secolo a.C., non contiene nulla che si riferisca in modo
specifico ad una divinità, così sfaccettata e allo stesso tempo ben definita, come
Dioniso?
48
Tragedia dunque è mimesi di un'azione seria e compiuta in sé stessa ,
con una certa estensione; in un linguaggio abbellito di varie specie di
abbellimenti, ma ciascuno a suo luogo nelle parti diverse; in forma
drammatica e non narrativa; la quale, mediante una serie di casi che
suscitano pietà e terrore, ha per effetto di sollevare e purificare l'animo
da siffatte passioni.100
Molte sono state le discussioni attorno a questi celebri passi della Poetica, e
tanti i contrasti. Analizziamo dapprima la discussione in merito a Poetica, 1449
a, 9-11, su cui gli studiosi si sono da sempre divisi.
49
averlo composto, dirigevano il ditirambo. Queste tre ipotesi e la loro storia
sono state esposte da Del Grande102; occupiamocene un po' meglio.
50
analisi il significato originario (omerico) dei termini ;'arcein ed ;ex'arcein: essi
sono usati promiscuamente in Omero e si accompagnano a termini come
molp'hj avendo quasi sempre valenza di “cantare”; gli ex'arcontej sarebbero
quindi semplici cantori. Ma attenzione, ricorda Del Grande, il ragionamento
non è un modello di sillogistica. In Omero questi termini indicano spesso
interventi di cantori: ma questi sono solisti e ciò cambia un po' le cose. La
risposta di Del Grande è dunque negativa: non possiamo prendere,
rigidamente, il significato omerico nell'interpretazione del termine aristotelico,
poiché risulterebbe decontestualizzato.
51
chi scrive. Ora: nella tragedia greca il corifeo non rappresenta mai un'istanza
individuale, ma si fa sempre portavoce del coro. Nel dialogare con gli attori,
sua specifica mansione, si fa sempre portavoce di un'idea collettiva, una gn'wmh
comune; non scende mai a contesa con il coro e se deve sostenere un agone è
contro un attore. Sembrerebbe non rappresentare la personalità politica di un
leader, di colui che fa emergere una propria gn'wmh individuale che contrasti
con quella della comunità. Già nell'etimologia della parola korufa^ioj è
racchiuso il significato d'eccellenza e non di supremazia ottenuta con la forza:
il corifeo è korufÕ to^u coro^u, la cima del coro, colui che emerge
naturalmente. In un certo senso la sua pietra angolare, colui che danza e canta
meglio, così da poter fungere da modello per gli altri. Ma in queste qualità non
è insita quella di concertatore. L';ex'arcwn è colui che esce fuori dal gruppo, il
primo, colui che comanda da fuori (il suffisso sembra indicare chiaramente
questo aspetto) il gruppo. Il corifeo, d'altra parte, è colui che sta nel coro e ne
esce solo per rispondere ad un attore che lo interroga, o per interrogare a sua
volta; la sua fuoriuscita dal coro è relativa; egli continua sempre a far parte di
esso. Tra l'altro, aggiunge Del Grande107, non è neanche dimostrato un suo vero
e proprio movimento scenico che lo allontanasse dal coro quando svolgeva la
sua mansione di corifeo.
Terza ipotesi: quella che vuole identificare gli ;ex'arcontej con i musici
e quindi anche con gli autori stessi del ditirambo, ai quali era destinata anche
una sorta di regia. Del Grande pare accogliere favorevolmente quest'ipotesi,
suffragandola con molti esempi. Il verbo ;ex'arcein, se rimane nella sfera
tecnico-musicale, significa “dare inizio alla musica”, quindi in un certo senso
anche dirigere il coro. Il prefisso ;ex- non sembra essere dissonante rispetto alla
posizione del regista che rimane una posizione estranea, per lo meno durante il
lavoro di composizione e regia. In Archiloco, ad esempio, troviamo il verbo
che ci interessa, nel fr. 120 W.108 che indica proprio l'inizio dell'intonazione del
bel canto (notare che al verbo si accompagna un termine tecnico proprio della
sfera semantica relativa alla musica), e soprattutto il canto di un solista che fa
107 Ibid., p. 10-11
108 Il testo è il seguente: :'wj Dion'usoi' a
;' naktoj kalòn ;ex'arxai m'eloj o;^ida diq'urambon o;^inw?
sugkeraunwqe'ij fr'enaj
52
da maestro agli altri affinchè comincino anche loro: e ciò se diamo per scontato
che l'ambito sia quello simposiaco. Da questo e da altri esempi pare si possa
provare a dare credito a tale tesi (lasciando però sempre la questione aperta),
che, inoltre, coincide anche con la notizia aristotelica 109 la quale testimonia che
in origine i poeti facevano anche da attori nella tragedia.
53
rimpiangerai la tua barba.” Ricorda Del Grande111 che lo Stanley, per la
somiglianza della dizione di questo verso con alcuni versi eschilei, lo rivendicò
al Promhqe'uj purkae'uj. Ma tutte queste ipotesi sono deboli per suffragare
quest'etimologia.
Un'altra etimologia sarebbe quella dell' ;w?dÕ ;epì t^w? tr'agw?, cioè del
“canto per il capro”, che sarebbe stato il premio finale di un eventuale agone.
Quest'etimologia è suffragata dalla poesia e anche per questo non è del tutto
sicura. In età ellenistica già Callimaco, negli Aitia, trattando di Erigone, parlò
del giorno sacro alla fanciulla durante la festa delle Antesterie. Eratostene,
addirittura, vi scrisse un poema – L'Erigone – che l'Anonimo del Sublime
apprezzava molto. Il mito, come abbiamo visto, è raccontato anche da Igino
(che cita l'Erigone di Eratostene)112, il quale narra che Icario, dopo aver
piantato una vite e veduto che una capra ne aveva mangiato i germogli, preso
d'ira, uccise l'animale. In seguito costruì un otre con la sua pelle e gonfiatolo
invitò gli altri cittadini del demo a danzarvi intorno. Sarebbe questo l'aition di
un rito proseguito poi in età storica nelle feste attiche, il cui premio sarebbe
stato il tràgos, appunto. Igino avrebbe preso questa notizia da Eratostene, ma
proprio il dotto poeta (la cui opera Erigone non ci è pervenuta), presumiamo,
avrebbe qui fatto soltanto poesia e non esposto una teoria (o comunque delle
notizie storiche) sulle origini della tragw?d'ia.
111 ibid.
112 In Igino, De Astronomia, II 4: ;Ik'arioi t'oqi pr^wta per'i tr'agon ;wrc'hesanto
113 Massenzio, cit., pp. 21-22
54
formulazione della tragw?d'ia che dapprima poteva anche non avere una
formulazione scritta ma essere piuttosto un impulso poetico. Abbiamo visto
come determinati passaggi di tempo e i conseguenti movimenti astrologici, che
avvengono soprattutto quando si sta per passare da un anno ad un altro, esigano
una serie di determinati riti che inaugurano un disordine sociale collettivo
necessario per far superare alla comunità il disordine medesimo del quale
soffrono per la transizione suddetta. La teoria è esposta su basi antropologiche
da Vittorio Lanternari114. Il binomio crisi-riscatto (quest'ultimo per mezzo di
un'altra crisi prodotta artificialmente) è evidente, a mio parere, per il
dionisismo, nella formulazione trieterica del culto. La crisi prodotta dall'uomo
è una risposta alla crisi gratuita che insorge al di fuori del controllo umano e
funziona come un moderno vaccino. Come un disordine culturale che contiene
in sé i germi di quel disordine esterno ed è in grado di sovvertirlo e di
preparare quindi il ritorno all'ordine cosmico. La festa rappresenta il migliore
modello per evocare il disordine all'interno di una comunità; in particolare la
festa dionisiaca, comprendendo elementi come il menadismo, il carattere
orgiastico, l'anti-istituzionalità, bene evoca questo concetto di disordine. Tutta
questa teoria, se applicata al dionisismo, interpreta anche la natura polivalente
del dio. È possibile intendere, alla luce di queste premesse antropologiche, il
brano di Aristotele sulla catarsi? La risposta può essere positiva. Il turbamento
cui allude il passo è un sentimento collettivo e proprio quest'univocità
rappresenta l'indizio di un'artificiosità nel meccanismo di innesco: il
turbamento, nuovamente, sarebbe dunque indotto dalla tragw?d'ia. Anche qui
il mezzo che provoca la crisi è lo stesso mezzo che provoca la catarsi: la
dinamica di evocazione è preliminare a quella di liberazione e avviene
attraverso un atto di mimesis quale è la tragedia. Inoltre, la collettività lega
questo rito a Dioniso e ne potenzia gli effetti, stilizzando i sentimenti in precise
dinamiche psicologico-culturali (probabilmente anche paure e ansie) che la
comunità è costretta (da sé stessa) a superare elaborando i mezzi necessari.
Infine, componente essenziale è quella della mimesi. Senza di essa la tragedia
perderebbe il suo principale aspetto dionisiaco e forse anche la sua
55
fondamentale forza catartica: la mimesi è una capacità della mente umana di
farsi altro, e spersonalizzarsi è componente essenziale del teatro.
3.3 “BACCANTI”
56
ma pian piano comincia subdolamente ad incuriosirsi. Questa curiosità gli
costerà la vita. Come prima informazione, Penteo ottiene, dall'adepto del culto
(che in realtà è Dioniso stesso), il tramite fondamentale che il dio instaura con i
suoi fedeli: la vista. Il falso adepto confessa: “Io vedevo lui e lui vedeva me.
Così mi ha trasmesso il suo rituale”116. Il primo passo è compiuto. Grazie alla
conoscenza del tramite tra il dio e il fedele si apre una falla nel sistema chiuso
che Penteo formava. Il precedente rifiuto diviene morbosa curiosità. Comincia
così anche lui ad entrare nella sfera dionisiaca e comincia per lui una nuova
ossessione. Chiaro è che dal punto di vista cultuale ed antropologico egli è
come se fosse stato iniziato ai misteri dionisiaci, tramite un altro sacerdote che
lo guardava come lui era stato guardato dal dio; in questo caso è ancora più
potente l'iniziazione, in quanto compiuta dal dio stesso.
Subito dopo questo primo passo, avviene una mossa che definirei
strategica: Penteo subisce un grave smacco. Soltanto superficialmente
infastidito da quello che l'adepto di Dioniso gli aveva detto decide di farlo
imprigionare, ma ovviamente il dio riesce a liberarsi con facilità, eludendo in
un solo attimo le catene che lo imprigionavano. Questo assesta un duro colpo a
quell'edificio di certezze che era Penteo. Ma un altro, ben più grave, colpo
arriva con le parole del messaggero:
Sono qui per raccontare a te e alla città, signore, i loro gesti misteriosi
e terribili, superiori ai miracoli. […] Guidavo al monte le mandrie dei
buoi, le spingevo verso la vetta, poco fa, nell'ora in cui il sole fa
balenare i suoi raggi e riscalda la terra. E vedo tre tiasi, tre gruppi di
donne danzanti: uno lo guidava Autonoe, il secondo tua madre, Agave,
il terzo Ino. Si erano tutte abbandonate al sonno: alcune appoggiavano
la schiena alle fronde di un abete, altre, distese su foglie di quercia,
posavano il capo al suolo, sparse qua e là, ma decorose e composte e
non, come dici tu, inebriate dal vino e dal clamore dei flauti, appartate
in solitudine, a caccia di Afrodite nelle selve. Ma tua madre gridò,
sorgendo in mezzo alle Baccanti, gridò a tutte di scuotersi dal sonno,
non appena udì il muggito dei buoi dalle corna appuntite. Ed esse
aprirono gli occhi, il fiore del sonno svanì. Si alzarono in piedi,
miracolo di grazia e armonia, le giovani, le anziane e le vergini ignare
57
delle nozze. Si sciolsero i capelli sulle spalle e riannodarono le nebridi,
dove si erano allentate i fermagli, legando le pelli maculate con
serpenti che lambivano con la lingua le loro guance. Alcune
stringevano tra le braccia un cerbiatto o un cucciolo selvaggio di lupo
e li allattavano: erano le donne che avevano appena partorito e
abbandonato i figli mentre il loro seno era ancora turgido. Si
adornavano di corone d'edera, di quercia o di smilace fiorito. Una di
loro, impugnato il tirso, colpì una pietra e ne sgorgò una sorgente
d'acqua fresca. Un'altra smosse il suolo col nartece e là il dio fece
zampillare una fonte di vino. E chi era presa dal desiderio della bianca
bevanda scavava la terra con le dita e si dissetava con fiotti di latte. E
dai tirsi d'edera stillavano dolci fiumi di miele. Se ti fossi trovato là e
avessi visto ciò che io ho visto, invocheresti con preghiere il dio che
ora offendi.117
58
nell'intimo: una leggera follia comincia ad abbracciarlo. Il segnale del
cambiamento sembra di vederlo nella sua alterazione della percezione visiva
della realtà stessa: “Mi sembra di vedere due soli in cielo e due città di Tebe,
due rocche dalle sette porte. E tu che sei qui davanti a me, tu che mi guidi, ora
mi sembri un toro: sulla tua testa sono spuntate le corna”.119 Penteo verrà
scoperto dalle Baccanti e ucciso da sua madre, che, in preda alla follia, lo
scambia per un animale e lo dilania.
59
A mio avviso è Dioniso che, pur volendolo con sé, lo lascia estraneo e
lo usa come uno strumento del suo rito. Il suo sacrificio sarà identico a quello
che in altre storie (spesso orfiche) lo stesso dio ha subito. Penteo, come le
donne di Tebe, rimane estraneo all'intimità dionisiaca. Sia il re che le donne
sono affetti da una manìa diversa da quella di cui godono invece le donne lidie
del coro (per le quali la manìa è condizione estatica e saggezza divina): la
mania di Penteo è follia; nel caso delle donne diventa furia e frenesia omicida.
Il re di Tebe si fa baccante e sacrificio nello stesso tempo, frutto di questa
confusione di piani che lo stesso dio fa scaturire.
60
ambientazione mitica, ha carattere realistico. Niente di più errato: in questo ci
viene in aiuto Brelich.
121 Brelich, Aspetti religiosi del dramma greco, in “Dioniso”, 1965, XXIX, pp. 82-94
61
ciascuno di noi ha dentro sé, ma anche di un tempo originario dove le norme e
le regole non erano del tutto consolidate.
Egli appartiene al piano della natura in quanto esiste prima dell'avvento della
cultura e, anzi, ne diventa proprio il mediatore.
Esempio nella cultura teatrale greca, che è campo della nostra ricerca,
della presenza di tale Briccone, è certamente la figura di Dioniso. Ma non il
Dioniso visto in Baccanti, ma quello che fa da motore all'azione scenica di
Rane, commedia di Aristofane. La prima parte della commedia, il gioco dei
travestimenti, è quella che maggiormente ci interessa per la testimonianza della
presenza del Briccone. Il Dioniso qui preso in considerazione è presentato
62
come un individuo al di sotto della media umana: un dio dimentico della sua
origine ctonia che teme di scendere agli inferi e che decide addirittura di
travestirsi da Eracle, identità che gli dà sicurezza nel suo viaggio nell'Ade. Qui
il modello del Briccone-trickster è evidente innanzitutto a partire
dall'abbigliamento: Dioniso infatti scende nell'Ade indossando una stola gialla
femminile al di sopra della quale, come se niente fosse, esibisce con
naturalezza clava e pelle di leone (attributi propri ad Eracle). Un'altra prova del
carattere burlesco di questo dio è l'efficacia comica della coppia che forma con
il suo servo Xantia. Insieme ad esso inizierà a scambiarsi di volta in volta i
costumi di Eracle, finendo però per essere sempre gabbato: l'ingannatore-
ingannato, appunto. In sintesi: avendo bussato alla porta degli Inferi, risponde
fiero alla domanda “chi è” di essere Eracle; senonchè dall'altra parte vi è Eaco,
al quale Eracle certo non ha fatto un favore privandolo di Cerbero. Dioniso
allora abbandona subito il travestimento costringendo il servo a scambiarsi di
abito. Il gioco dei travestimenti però riprende immediatamente: un'ancella offre
al falso Eracle (adesso impersonato in questo gioco metateatrale dall'attore che
ha il ruolo di Xantia) cibo e sesso. Dioniso vuole immediatamente riprendersi il
ruolo di Eracle. Non appena ne indossa le vesti, ecco che però arrivano due
ostesse infuriate con l'eroe che non aveva pagato il conto della cena nella sua
ultima discesa agli Inferi. Dioniso è di nuovo turlupinato e di nuovo cambia gli
abiti con il servo. Ora Xantia, ridiventato Eracle, incorre nella furia di Eaco e
proclama di non essere lui Eracle. Il gioco delle parti è spezzato e Dioniso
svela la sua vera identità, ma ciò non basta: Dioniso deve dimostrare la sua
identità divina. Per far questo, deve dare prova di una improbabile insensibilità
al dolore fisico, resistendo, con grande effetto comico, alle percosse di Eaco.
63
In conclusione il nostro percorso, che è partito alla ricerca di una
possibile definizione di Dioniso e si è concluso con Aristofane, ci indica che
Dioniso è il teatro. Affinché egli sussista è necessario che mantenga vivo il
culto e per mantenerlo vivo deve dare sempre nuova linfa al fenomeno del
teatro così da vivere dentro di questo anch'egli. Sempre.
64
Bibliografia
Brelich A., Aspetti religiosi del dramma greco, in “Dioniso” 1965, XXIX, pp.
82-94
65
Eliade M., Traitè d’histoire des religions, Paris 1949
Kerényi K., Gli dèi e gli eroi della Grecia, Milano, 1963
Oranje H., Euripides' Bacchae. A play and its audience, Leiden 1984
66
Polhenz M., L'Uomo Greco, Milano, 2006
Radin P., Jung C. G., Kerényi K., Il Briccone Divino, Milano, 1965
67