Padova 20 maggio 2006 - Convegno: “ARTI MARZIALI E SALUTE: FRA ARTE PER IL
COMBATTIMENTO E ARTE DELLA LONGEVITA’”
Intervento del dott. Tommaso Furlan dal titolo: PRINCIPI FILOSOFICI ALLA BASE DELLE PRATICHE FISICHE IN ORIENTE
ABSTRACT: L’intervento propone una riflessione filosofica sulle opzioni cosmologiche e
antropologiche che stanno alla base delle tecniche corporee dell’estremo oriente, siano esse tecniche di longevità o arti marziali. Se al riguardo possiamo legittimamente parlare di principi filosofici, non dobbiamo dimenticare che quelle culture li hanno sempre proposti all’interno di itinerari globali (tao), non rigidamente speculativi, dove l’esperienza non è mai subordinata all’intelletto e dove la ricerca dell’armonia fra uomo e cielo (e terra) sembra essere una cifra esistenziale fondamentale. Avvertenze: tutti i termini e i nomi cinesi sono trascritti secondo il metodo ufficiale “pinyin” salvo l’ideogramma Tao e derivati (che andrebbe trascritto Dao); l’abbreviazione Ddj nelle citazioni si riferisce al Dao De Jing, il Classico della Via e della Virtù di Laozi.
1- Tutti i titoli funzionano da slogan per introdurre un discorso, un convegno o un saggio e
come tali sono limitati e limitanti, ma nella loro necessaria ristrettezza hanno anche una forza sintetica che fa orientare in merito ai contenuti successivamente espressi. Il titolo del mio intervento potrebbe quindi sembrare un paradosso perché pretende di condurre una riflessione sulle tecniche corporee usate e conosciute in Oriente (e quindi anche le arti marziali) per ritrovare in esse, o meglio sottesi a esse, dei principi filosofici. Questo significa che queste tecniche, che rendono protagonista il corpo tanto quanto la mente, hanno radici culturali profonde ben al di là degli entusiasmi esotici ed esoterici con cui l’occidente le ha accolte e spesso fraintese e sono queste radici filosofiche che andrò ad analizzare. Non voglio pertanto tornare sui temi etico-storico-sociali trattati esaurientemente lo scorso anno, che comunque anche in quel caso disegnavano un preciso percorso tra arti marziali e filosofia, né tanto meno è mia intenzione diffondermi in un’analisi peculiarmente tecnica di queste arti, esposizione che a rigore compete a un Maestro. Le note scritte che seguono faranno da filo conduttore all’intervento lasciando molti aspetti alla più completa trattazione orale e all’eventuale dibattito. Parlare di attività del corpo e filosofia non è dunque così assurdo come potrebbe sembrare in prima battuta. Vediamo perché anche se sono necessarie due premesse. La prima è di carattere storico-geografico per inquadrare la categoria di “Oriente”. Non si può infatti parlare in modo generico e generalizzato di “Oriente” per non cadere nell’errore di accomunare culture tra loro molto diverse. Spesso gli “occidentali” pensano che tutto ciò che è a Est dell’Europa sia un tutto omogeneo, quando invece le realtà sono molteplici ed è sempre opportuno specificare a quale area culturale si intende fare riferimento. Dato per presupposto che esulano dalla nostra indagine le realtà medio-orientali, bisogna allo stesso tempo distinguere il sub-continente indiano che ha la propria storia e il proprio sviluppo filosofico-religioso, dall’area sino-nipponica (e limitrofi) che ha sviluppato un’altra cultura, nata ed evoluta su diversi presupposti, per quanto tra le due aree sia sempre esistito un contatto e uno scambio di idee ed esperienze (pensiamo ad esempio alle trasformazioni causate in Cina dall’arrivo del buddismo di origine indiana). Per sviluppare il mio tema non voglio soffermarmi sulla realtà dell’India anche se la sua millenaria civiltà avrebbe molto da dire in merito alle tecniche corporee (basti pensare allo yoga e al tantrismo!). Voglio andare più a Est fra le tradizioni Cinese, Giapponese, Coreana, Vietnamita ecc. dove le tecniche corporee hanno assunto una particolare identità capace di disegnare quei suggestivi percorsi fra ricerca di longevità e arti marziali che anche in Occidente abbiamo cominciato a conoscere e a praticare. In questo alveo che per comodità espositiva chiamerò estremo-orientale non si può non considerare (e questa è la seconda premessa) la preminenza culturale della Cina. Il Paese di Mezzo è sempre stato la fonte ispiratrice delle principali espressioni culturali dell’estremo oriente, forme e idee esportati tra gli altri popoli i quali poi le hanno rielaborate secondo sensibilità proprie e secondo lo spirito autoctono, come è avvenuto in particolar modo in Giappone. Coerentemente assumerò alcuni concetti del pensiero cinese quali perno essenziale del mio discorso perché è da queste acquisizioni fondamentali che si sviluppa il tutto e da qui diffonderò riferimenti più periferici, magari in sede di dibattito. La Cina ha espresso ed elaborato una cultura tradizionale plurimillenaria. Non si è fatta mancare nulla: tanto per essere semplicistici dal preistorico Uomo di Pechino, al “comunismo” iper-economico attuale, passando per Confucio, il Taoismo e una nuova elaborazione del Buddismo. Questa civiltà ha dato vita a numerose e articolate correnti di pensiero e per evitare confusione ai fini del nostro tema mi concentrerò necessariamente solo su alcune scuole ed autori decisivi senza, troppo indulgere a certe consunte e stereotipate categorie storico-filosofiche perché, allo stesso modo di certe categorie marziali, rispondono solo alle esigenze di chi le ha composte a posteriori e non rendono giustizia delle vere dinamiche che hanno dato vita a ogni esperienze. Se queste due premesse circoscrivono l’ambito della nostra esposizione dando delle coordinate storiche e geografiche, non rispondono però alla domanda se sia lecito o meno parlare di principi filosofici in merito all’utilizzo che una cultura fa di tecniche corporee. 2- “Filosofia” è etimologicamente amore per il sapere e storicamente il fare filosofia ha incarnato vari significati e modelli. Possiamo pensare ai principi filosofici (intesi in modo non strettamente tecnico) come a quelle concezioni di base che una cultura in un momento storico elabora, non importa se in modo deliberato o inconsapevole, per rappresentarsi, conoscere e interagire col mondo (fatto di cose e di persone): si tratta della cosiddetta Weltanscauuhng. Queste concezioni che cercano di essere razionali e fanno parte di un patrimonio collettivo tentano di dare delle risposte a domande di fondo e generano un sistema più o meno coerente di nessi e di esperienze. Pensiamo ora alle nostre pratiche marziali e ad alcuni termini che comunemente usiamo (anche nelle versioni giapponesi o di altre lingue orientali) quali Qi (energia), Yin e Yang (anche come sinonimi di elementi in contrapposizione/complementarietà), Dan tian (o Hara), Vuoto (Wu) ecc. Ebbene, se le parole non sono inutili suoni, ma hanno un significato, dobbiamo sapere che tutti questi termini rappresentano idee, esperienze, concetti, generati all’interno di una cultura, di uno stile di vita, di un pensiero filosofico che interpreta la natura e l’uomo. Se non abbiamo la capacità critica e quindi propriamente filosofica di valutare e saggiare la consistenza di quello che facciamo e dei termini che usiamo, la nostra pratica sarà superficiale e immatura. Non voglio introdurre una dose di intellettualismo a buon mercato, ma voglio portare un po’ di consapevolezza affinché ci si renda conto che le tecniche corporee sono nate in un contesto storico-filosofico che non va mai dimenticato e dal quale non si può prescindere anche per la correttezza tecnica e la funzionalità delle pratiche stesse. La riflessione filosofica condotta con un criterio veramente interculturale sarà il giusto sostegno per la pratica consapevole delle arti marziali in Occidente per non dimenticare la nostra identità, per non scadere in mode consumistiche e per non tradire l’originaria identità culturale che le ha prodotte. Tecniche corporee sono quelle tecniche o arti (Shu e anche Yi) che come mezzo (e anche come fine) coinvolgono il corpo per realizzare in generale benessere e difesa (dalle malattie, dalle avversità, dalle aggressioni). Sono sicuramente tecniche corporee quelle mediche, quelle alchemiche, quelle di longevità, quelle marziali, quelle meditative, anche se non è utile abusare nelle classificazioni perché queste tecniche sono fra loro sovrapponibili, comunicanti, spesso l’una è connessa o è presupposto dell’altra, spesso i nomi sono solo aspetti diversi della stessa tecnica. Il loro obbiettivo ha una radice comune e si sviluppa su vari livelli, di pratica e di interesse: si può cercare un benessere molto materiale e immediato o la difesa dalle aggressioni o l’armonia con la natura o il ritorno al Dao o tutte queste cose messe insieme come nella tradizione taoista. Anche nella loro versione più “mistica” tutti gli obbiettivi sono molto pratici, concreti, da rapportare alle necessità del “qui e ora”, come è tipicamente cinese e quindi non sviluppati su esistenze trascendenti o reincarnate. In Cina le tecniche corporee sono nate perché quella cultura le ha storicamente generate in un circolo virtuoso fra riflessione (speculativa e intuitiva) e vita quotidiana: l’interpretazione del cosmo e dell’uomo, fornito da una scuola di pensiero, non è mai stata scissa dalla “sperimentazione attiva” che la stessa attuava (siano esse sperimentazioni sul corpo fisico- psichico che su quello politico-sociale). Questo circolo virtuoso ha nutrito le singole correnti di pensiero e queste hanno dato coerenza ai principi di applicazione delle varie tecniche. I filosofi del periodo delle Primavere e Autunni (770-481 a.C.) e degli Stati combattenti (403-256 a.C.), periodo nel quale nascono le scuole (Jia) principali del pensiero cinese, non dimenticano mai di avere un corpo e si impegnano nella ricerca di soluzioni “pratiche” ai problemi che li circondano. Confucio non è uno sterile intellettuale, incoraggia le pratiche ginniche e insegna le tradizioni antiche a cominciare dalla musica per ottenere l’armonia e la benevolenza nei rapporti fra uomini, Mozi è un ingegnere e un artigiano e ha ben chiaro il concetto di utilità pratica del pensiero, gli eremiti come Yang Zhu praticano già tecniche per la salvaguardia dell’integrità fisica, Zhuang-zi evidenzia i limiti della razionalità e del linguaggio aprendo con Lao-zi alle infinte prospettive del Dao, le conoscenze mediche si sviluppano fra sciamani, indovini ed esorcisti che sono coloro che inventano e conoscono la scrittura (la parola Shi indica sia lo scriba sia l’indovino, e l’ideogramma Yi cioè medicina al suo interno contiene riferimenti sciamanici). Agli occhi scettici dell’occidentale tutto questo potrebbe essere il segnale di una primitiva confusione, è strano però come in cinese la parola zhi indichi sia “guarire” che “mettere in ordine”! Questo pensiero non nasce come puramente speculativo alla maniera greca, nella Cina classica la speculazione intellettuale è concepita come una fra le attività dell’uomo e come tale è priva di una centralità teorica fine a se stessa. Piuttosto che al sapere strettamente intellettuale c’è un riferimento al “saper fare” (anche morale e politico) tanto che le acquisizioni sapienziali (siano esse teoretiche, mistiche, sociali o etiche) diventano difficili da trasmettere tramite concetti astratti pur non degenerando mai nell’irrazionalismo. Sono emblematici in proposito i brani del Zhuang-zi che raccontano del carradore Bian o del cuoco Ding. Sarà solo la pratica (gong fu la cui traduzione è sforzo fisico, sforzo di apprendimento, ma anche sforzo morale) incarnata idealmente nel suo massimo di perfezione dalla figura del Santo/Maestro a portare conoscenza e saggezza, una pratica che passa attraverso un “fare” (e anche un non-fare wuwei) che non esclude mai il corpo. Il saggio non è mai un guerriero, al massimo è un governante, se accetta il ruolo, più spesso un solitario, un mistico, un guaritore, un alchimista, è colui che ha trovato la Via e ha capito il modo di percorrerla, è colui che spesso nella tradizione taoista è anche “immortale” perché ha conosciuto e capito i segreti della natura. Come ben sappiamo anche per le arti marziali e per le tecniche di longevità è impossibile un apprendimento solo concettuale e solo lo sforzo “spontaneo” personale e costante porta i frutti sperati. Il modello è quindi un uomo (con il suo corpo!) e non un sistema astratto di concetti. 3- L’ideogramma “filosofia” in cinese (zhexue) non esiste se non come traduzione di un neologismo Giapponese del secolo scorso (tetsugaku): questo non vuol dire che la Cina non abbia prodotto una riflessione sinceramente filosofica, significa soltanto che la stessa non è stata centrata sulla ricerca della Verità e sull’Essere come nella tradizione logocentrica occidentale di matrice greca. Piuttosto, in Cina, ci si è sempre chiesti dov’è la Via (Tao), e come è meglio percorrerla: domanda fondamentale, onnipresente, ma dalla precisa dimensione “pratica” giacché per percorre una via, ogni via, bisogna impegnare lo spirito e il corpo! La Via è il Tao e il Tao è la magnifica ossessione di tutti i pensatori e gli spiriti nobili e questo perché è alla radice tutte le domande e le risposte fondamentali: l’uomo per vivere deve conoscere e percorrere il Tao, non solo quello personale (che potremmo anche scrivere con la “t” minuscola), ma anche quello dell’umanità intera (anche se spesso i cinesi per umanità intendevano solo il proprio popolo) e del cosmo tutto (questo è il Tao con la “T” maiuscola) . Infatti c’è un Tao, assoluto, eterno, costante, indicibile, ma non immobile e trascendente perché esso costituisce la trama implicita, inafferrabile della realtà: “Il Tao che può essere detto non è l’eterno Tao” (Ddj I) dice Laozi e Zhuangzi afferma: “Il Tao non ha inizio né fine”. Ci sono poi i molti Tao concreti, limitati, espliciti che sono la concretizzazione immanente del Tao assoluto e che rappresentano l’eplicazione e lo svolgimento della realtà medesima. Le vie dell’uomo, le sue arti e tecniche (fang, shu, yi), sono dei Tao i cui percorsi, attraverso le necessarie trasformazioni (hua) possono condurre al vero Tao, in un eterno ritorno che è il suo movimento essenziale (cfr Ddj XL). Le trasformazioni sono i passaggi evolutivi (della natura come di un’arte o di un’abilità) mai costrittivi, ma sempre spontanei. Passaggi che segnano le tappe di un percorso non tanto in una dimensione di progresso verso una meta, quanto piuttosto in regresso arricchente, in una via di ricerca, approfondimento, conoscenza, interiorizzazione, in una direzione circolare, a spirale, dove per “acquisire” consapevolezza bisogna “togliere” concetti e astrazioni, dove il ritorno alla radice e all’origine di ogni uomo è l’orizzonte sempre nuovo da indagare e da integrare: “Chi si dedica allo studio ogni giorno aggiunge, chi pratica il Tao ogni giorno toglie” (Ddj XLVIII). Allo stesso modo anche le tecniche di longevità e le arti marziali sono un tao (la lingua giapponese che esplicitamente usa questa parola: ju-do, kyu-do, sho-do ecc.), che chiama il praticante a un percorso senza una meta finale, che trova nel suo svolgersi il proprio senso compiuto proponendo un cammino di ricerca, sviluppo e trasformazione e fornendo gli strumenti per affrontarlo. Il Tao ci introduce in una dimensione cosmica di armonia dove uomo e cielo (che inizialmente va inteso come sinonimo di cosmo-natura) devono trovare il giusto rapporto. Naturalmente il problema del rapporto si pone per l’uomo non per il Cielo! “C’è il Tao del cielo, c’è il tao dell’uomo…” (Zhuangzi XI). Il Tao in vario modo (molte sono però le articolazioni delle varie scuole) è inteso come principio supremo, non tanto al di là della realtà come il vertice di una piramide che si consegna a una iper-realtà, quanto piuttosto come sfondo su cui si svolge la realtà stessa, sfondo che ne è parte integrante, un po’ come la trama, l’ordito di un tessuto che si esplica secondo la potenza-virtù (De) del Tao stesso. Volendo essere un po’ riduttivi, possiamo dire che questo culmine supremo, che è anche (o che genera) l’Uno, è detto Tai ji (tai è l’aggettivo che traduce grande, massimo, e ji in origine è la trave portante di un edificio) e il suo diagramma è il tai ji tu dove vengono rappresentati lo yin e lo yang proprio a sottolineare che il principio non è “altro”, cioè diverso, dalle sue modalità di esplicazione. Dice l’Yi Jing (il classico dei mutamenti): “Uno Yin, uno Yang: così è il Tao”. Questa prospettiva di matrice taoista nei suoi esiti più interessanti (che si congiungeranno con l’avvento del buddismo) arriva a ricomprendere il non-essere in chiave dialettica con l’essere (“Le diecimila creature hanno vita dall’essere, l’essere ha vita dal non-essere” Ddj XL, “S’impasta l’argilla per fare un vaso e nel suo non essere –cioè nel suo esser vuoto- si ha l’utilità del vaso. Si aprono porte e finestre per fare una casa e nel suo non essere –cioè nel loro essere vuote per permettere il passaggio- si ha l’utilità della casa. Perciò l’essere costituisce l’oggetto, il non-essere l’utilità” Ddj XI). Il vuoto stesso non è nichilisticamente considerato come negazione di esistenza, ma risulta essere la condizione di possibilità delle esistenze stesse e un elemento della realtà (“E’ sul vuoto che si modella il Tao” Zhuangzi III). Se Confucio elabora la propria risposta al problema del rapporto uomo-cielo e cerca soprattutto l’armonia nei rapporti fra uomini, nella morale, nella famiglia e nel buon governo dello stato, un’altra prospettiva invece sembra avere un respiro più ampio. In essa convergono le intuizioni del taoismo filosofico, le precedenti tradizioni medico-sciamaniche e prototaoiste (da Yang-zhu ai fangshi i maestri delle arti segrete) e alcune antiche speculazioni cosmologiche che si attueranno anche come scuola nel IV sec. a. C. con Zuo Yan. Qui abbiamo la radice del nostro discorso che lascerà una traccia indelebile in tutto l’Oriente. Secondo questo insegnamento che considera centrale il Tao costante, tutto ha un’origine comune e si sviluppa per processo generativo (sheng, il Dao De Jing dice: “Il Tao generò l’Uno, l’Uno generò il Due, il Due generò il Tre, il Tre generò le diecimila creature” e l’Yi Jing gli fa eco: “Il Culmine supremo genera i due modelli, i due modelli generano le quattro figure, le quali generano gli otto trigrammi”), non creazione da parte di un soggetto estraneo, ma generazione dove gli opposti sono occasione di evoluzione e sviluppo in una dimensione sempre complementare. Nello Huainanzi (testo del II sec d.C.) si dice: “Il Tao iniziò nelle vuote immensità, queste generarono l’universo (=Uno) da cui nacque il qi”. Tutto ha un’origine comune perché all’origine tutto è qi intrinsecamente dinamico, in eterna e costante trasformazione (hua). E’ yuan qi in quanto qi originario che poi si specifica secondo le diverse concretizzazioni. Le modalità con cui si differenzia sono la legge stessa dello yin/yang: dove il qi si coagula ci sarà la terra, dove rimane rarefatto ci sarà il cielo. Dice Ge Hong (III sec d.C.) nel Baopuzi: “Di fatto l’uomo esiste nel qi e il qi esiste nell’uomo. Dal cielo e dalla terra alle miriadi delle cose non c’è nulla che non dipende da esso per vivere”. Qi è l’energia che tutto pervade e che ricorda la formula einsteiniana alla base di molte leggi della fisica moderna che lega tramite una costante proprio l’energia alla massa. La realtà del mondo e delle persone è fatta di qi, di energia, non in modo anarchico, ma con l’armonia del Tao. “L’uomo deve la sua vita a una condensazione di qi. Finchè si condensa si ha vita, quando si disperde si ha la morte” in questa frase di Zhuangzi è detto tutto. Il Tao, lo yin e lo yang, le trasformazioni del qi, non sono un dato nomologico che pre-esiste alle cose e che si impone dall’esterno impedendo la libertà, ma sono il modo stesso con cui si sviluppano spontaneamente (ziran) le cose e le esperienze, la conseguenza è che gli uomini saranno tanto più liberi e in salute(!) quanto più riusciranno a riconoscere e a integrarsi in questo fluire naturale della realtà e del cosmo, a recuperare questa spontaneità, a ritornare alla radice delle cose. Questa radice è l’origine profonda della natura e il destino stesso dell’uomo, è il Tao come Via suprema, come Unità cui tendere. La via di questa spontaneità non è un agire irrazionale o una volontà di potenza o una via estetica è piuttosto un non agire (wu wei) che sottintende la consapevolezza delle leggi del cosmo e la non-contrarietà alle stesse che non è mai da intendere come passiva inerzia. L’azione sicuramente da compiere è quella di “favorire” la circolazione e l’equilibrio del qi e di nutrire il principio vitale (Yangshengshu). Quanto detto può sembrare astruso o banale, comunque poco scientifico alla luce delle conoscenze moderne e invece è sorprendente la coincidenza di questa visione del mondo con molte delle recenti scoperte scientifiche in campo medico neurologico, astronomico e di fisica delle particelle! Ma da quale metodo deriva la forza e la legittimazione di questo pensiero? 4- I cinesi già anticamente sembrano aver sviluppato uno strumento semplice (ma non ingenuo) che trova la sua consacrazione documentale durante la dinastia Han: è il metodo analogico. L’osservazione della natura li conduce a penetrare nell’evidenza dei fatti e delle esperienze cercando le analogie (risonanze, ganyng inteso come risposta a una stimolazione) sulla base di un paradigma prefissato. Se è vero che questo non ha permesso un vero e proprio sviluppo della scienza come in Occidente (dove domina un pensiero analitico), pur tuttavia ha permesso la realizzazione di una visione d’insieme che la nostra scienza tradizionale ha perso e cerca modernamente di recuperare. In questo modo ogni cosa ha il suo posto e può trovare, come diceva Jasper, comprensione anche senza spiegazione. Ad esempio proprio i concetti di yin e yang nascono come osservazione dell’ombra di una montagna e come tali rendono immediata la percezione di due opposti inscindibili, non realtà in conflitto, ma sempre complementari delle quali ognuna porta in germe la nascita dell’altra. Osservando poi le stagioni e il divenire delle cose, dalla nascita allo sviluppo, alla morte, si possono raggruppare le energie della terra in un sistema detto delle cinque forze agenti (wu xing, legno, fuoco, terra, metallo, acqua non sono elementi, ma sistemi in azione) che con i suoi cicli (controllo e produzione) fornisce la chiave analogica essenziale per interpretare la natura e l’uomo. Otteniamo così uno straordinario quadro d’insieme dove anche l’uomo ha il suo posto preciso fra cielo e terra: il suo essere fatto di qi (che si concretizza in un qi anteriore cioè innato e in un qi posteriore cioè acquisito e ripreso durante la vita) è regolato dalla legge dello yin e dello yang e delle cinque forze agenti. Non c’è soluzione di continuità fra uomo e natura, l’uomo e il cosmo sono fatti della stessa “sostanza” e regolati dalle stesse leggi perché l’uomo è un micro-cosmo. Perciò l’uomo avrà salute e lunga vita se il suo qi potrà circolare ed essere preservato e nutrito e se l’uomo in se stesso e nelle vicende della propria quotidianità rispetterà l’alternanza dello yin e dello yang, se asseconderà le necessarie trasformazioni, se manterrà l’equilibrio nel co-prodursi e controllarsi delle cinque forze agenti, tanto nell’alimentazione quanto nelle emozioni, tanto nella sfera sessuale (fangzhongshu), quanto nella politica e nella guerra, senza mai perdere di vista l’orizzonte dell’Unità. E’ utile ricordare come relativamente all’uomo tutto si specifici in uno preciso studio di carattere fisiologico, anatomico e psicologico: dal qi genericamente inteso nell’uomo si differenziano tre elementi fondamentali, i tre tesori (san bao) jing qi, shen, costituenti le essenze di base, il qi del corpo e dei nutrimenti, lo spirito e le sue manifestazioni e poi troviamo organi e visceri (zang fu), percorsi preferenziali dell’energia ecc. Oltre alle acquisizioni mediche ci sono poi letture alchemiche e simboliche del corpo psico-fisico che è impossibile dettagliare in questa sede. Da tutto questo enorme patrimonio di conoscenze e interpretazioni possiamo estrapolare il dato filosofico fondamentale: ciò che riguarda l’uomo è ricondotto ad un’antropologia unitaria che non conosce scissioni, non conosce il problema del dualismo mente-corpo o anima-corpo (pensiamo al termine xin che è il cuore, ma che indica il centro psico-spirituale dell’uomo!), non conosce soluzione di continuità fra macrocosmo e microcosmo. In questa unità l’uomo va incontro al suo destino che è trovare la Via e trovare la Via è ottenere compimento. Così si diventa uomini autentici “Il respiro dell’uomo autentico sale dai talloni, mentre quello dell’uomo comune proviene dalla gola” dice Zhuangzi e Mencio gli fa eco “Ciò che l’uomo di valore considera come sua natura si radica nel suo cuore, ma gli si irradia nel volto, gli corre lungo la spina dorsale e si spande nelle quattro membra che, senza alcun bisogno di parole, lo lasciano trasparire”. E’ evidente come salute fisica, dimensione morale e pienezza spirituale siano le facce della stessa medaglia e i riferimenti successivi alle varie tecniche sono da intendere in questa prospettiva globale che ha il proprio perno nella dimensione fisico-energetica. Queste tecniche per essere efficaci devono essere riflesso dell’armonia universale e devono attenersi alle sue leggi, anche se fossero estetiche, politiche, sociali, della guerra ecc. E come esistono le tecniche per “curare” e avere il giusto rapporto con la natura (ad es. la sistemazione idrogeologica, l’organizzazione delle terre, l’addomesticamento degli animali, l’agricoltura predisposte dai mitici sovrani FuXi, Shennong, Yao, Yu) così vengono scoperte le tecniche per migliorare la salute. Sarò in salute e avrò lunga vita se seguirò le leggi della (mia) natura che è la natura di tutti gli uomini (questo è un importante messaggio universalistico!), se manterrò in equilibrio il qi e nutrirò il principio vitale. E’ da sempre presente in questa cultura il mito degli immortali. La ricerca dell’immortalità non è un’edonistica forma di auto-perpetuazione (che per qualche imperatore non è da escludere), ma la massima espressione della conoscenza della natura e della santità. Gli immortali sono penetrati nei segreti del tempo e dello spazio (il tema dei voli estatici è ben presente sia come tema letterario-mitologico, sia come tecnica meditativa) e il loro apparire genera armonia e dona benefici all’umanità. 5- Fin dagli esordi la cultura cinese dedica un’attenzione maniacale e si impegna in una sperimentazione continua di modi, tecniche e strumenti adatti a generare armonia “fisico- spirituale”. La necessità è nutrire il principio vitale (yangshengshu=arte di nutrire la vita). Da un lato la medicina non nasce solo come scienza della guarigione, anzi essa è piuttosto una conoscenza preventiva, conoscenza contigua con l’alchimia e con la divinazione (cioè fare le scelte giuste per prevenire conseguenze nefaste), conoscenza che coinvolge l’operatore- medico in una sinergia particolare fra esso, il suo atto e il soggetto da “curare” (Huangdi è il sovrano mitico che dà il suo nome al testo fondamentale di medicina Huangdi neijing). Dall’altro ci sono varie tecniche indipendenti dall’atto medico che hanno una precisa funzionalità energetica, modernamente le conosciamo in modo riduttivo sotto la voce qigong, ma la loro varietà è ben più vasta. Mirabilmente il taoista Ge Hong riassume: “Sebbene preparati medicinali stiano alla base della longevità, i loro benefici saranno gradatamente intensificati se li si combina con le tecniche respiratorie (xing qi). Anche se non si possono usare erbe, si può vivere ugualmente parecchie centinaia di anni praticando respirazione nella comprensione corretta dei suoi principi. …. Gli adepti della respirazione possono nutrire il corpo dall’interno ed espellere le malattie e umori nocivi. Chi si impadronisce perfettamente dei principi della coltivazione della vita pratica la respirazione estensivamente, compie esercizi di dao yin mattino e sera in modo da rinnovare e stimolare sia il sangue che l’energia difensiva così da liberarsi dalle malattie”. Riconosciamo in questo brano quasi tutte le tecniche di energetiche longevità: dall’assunzione di preparati (che a noi non interessa) alle tecniche respiratorie, dal controllo del qi, alle tecniche di movimento. Forse manca solo la dimensione meditativa che sarà approfondita da altre correnti taoiste e quella propriamente alchemica che rimane spesso segreta e indecifrabile senza la guida orale di un maestro. Da questo elenco si capisce perché il tai ji quan che racchiude in una tutte queste tecniche sia un arte globale e completa (se praticato senza tradirne l’essenza originaria!). Vediamo qualcosa di queste tecniche solo per brevi accenni (non essendo questa descrizione tecnica l’obbiettivo del presente contributo) attraverso alcuni testi. Nel Zhuangzi è detto: essi “attuano l’inspirazione e l’espirazione in modi diversi, sputando fuori il vecchio e assorbendo invece il nuovo, camminando come orsi e stirandosi come uccelli e tutto questo con lo scopo di ottenere lunga vita”. Xun Yue (II sec d.C.) nei “Precetti presentati all’imperatore” dice: “… giacere supini, inspirare dal naso e trattenere il fiato. Se si tratta di dolori di stomaco usare la mente per spingere il qi immaginando che scenda alla localizzazione del dolore. Quando si scalda significa la guarigione..”. Il maestro taoista Tao Hongjing (456-536 d.C.) spiega: “Il punto sotto l’ombelico è detto guan cioè passo cruciale. E’ chiamato così perché concentra il qi che si respira. Conseguentemente la respirazione ampliata è volta a spingere il fiato fino al passo. Quando si riesce a fare questo il qi dilaga”; gli fa eco Sima Chengzhen (VII sec d.C.): “Concentrare l’immaginazione sul proprio corpo, si deve pensare che il qi fluisca dalla testa ai piedi, dai piedi al dantian e poi su seguendo la spina dorsale, al niwan per riempirlo come una nuvola. Questa circolazione è l’essenza della coltivazione”. I testi sono spesso criptici, i simboli a volte indecifrabili, in ogni caso i maestri taoisti sono i possessori dei segreti di tutte queste tecniche, il loro contributo anche in campo medico è essenziale. E’ attraverso questo approfondimento che si arrivano a definire e scoprire i punti energetici chiave, quelli vitali, le zone di accumulo dell’energia, i percorsi dell’energia, si sviluppa la conoscenza dei tre dantian, della piccola e grande circolazione celeste del rapporto fra mente e conduzione del qi e di educazione della mente al silenzio e al vuoto attraverso i movimenti del corpo. Tutte acquisizioni che giocano un ruolo fondamentale anche nella pratica delle arti marziali. L’attenzione data al respiro è massima. Il movimento del corpo è altrettanto fondamentale e l’imitazione e lo studio degli animali conduce a forme zoomorfe che saranno un ponte fra queste tecniche e le arti marziali più propriamente dette. Il corpo si muove in armonia con il respiro sempre secondo tecniche morbide che richiamano spesso le danze sciamaniche (evocate anche nei passi del mitico Yu, che sono anche parte di un fondamentale rito taoista). La traduzione corretta del termine dao yin (guidare indurre) significa guidare i movimenti (anche con l’esecuzione di massaggi e automassaggi) per indurre la cura e il rinforzarsi del corpo. I ritrovamenti archeologici di Magwandi (fra i quali un pezzo di seta dipinta detto carta del dao yin rinvenuto in una tomba del II sec a.C.) sono la prova di quanto radicate, conosciute e stimate fossero queste pratiche. Il medico taoista Hua Tuo scrive nel III sec d.C. “L’organismo umano ha un’esigenza e una tendenza innata per l’attività e il movimento …. così il corpo può essere paragonato a un cardine della porta che, perché sempre in uso non arrugginisce mai. … Io ho un metodo che è una forma di dao yin: è chiamato il gioco dei cinque animali…”. Dimostrato che la matrice essenziale di tutto questo patrimonio di tecniche è delle varie scuole taoiste (Tianshidao, Taipingdao, Shangqing, Lingbao) ognuna delle quali pone l’accento su un aspetto piuttosto che su un altro, in seno alle stesse soprattutto dall’epoca Tang (VII sec d.C.) si sviluppa una nuova consapevolezza che riprende gli insegnamenti più antichi del Dao (scuole del Neiguan e Neidan). Infatti fra le mille contraddizioni del mondo l’essenziale sembra essere poter tornare all’origine, raccogliere le trasformazioni, ma preservare l’Uno, accettare le trasformazioni del molteplice per tornare al Tao e scoprire che questo è Vuoto (non inteso come “nulla”, ma come condizione di possibilità di tutti i “possibili pieni”). La formula tradizionale dice: “raffinare Jing per trasformare Qi, raffinare Qi per trasformare Shen, raffinare Shen per ritornare allo Xu (Vuoto)”. La condizione per farlo è la quiete (del corpo, della mente, dell’anima, del modo di vita). L’eccesso non genera sviluppo, ma consunzione e la quiete è alla radice di ogni benessere. Ricorda Zhuangzi: “Se il corpo è usato senza sosta si consumerà e diventerà carente. Se la forza essenziale è usata incessantemente allora si indebolirà e di conseguenza si esaurirà” e poi ribatte: “Quando uno è tranquillo e rilassato, la preoccupazione non riesce a penetrarlo, né influssi nocivi esterni a invaderlo. Perciò la sua virtù sarà perfetta e il suo spirito non si deteriorerà mai”; il Huangdi neijing gli fa eco: “Quando uno è tranquillo e vuoto e con la propria attenzione concentrata all’interno il fiato genuino reagisce, come può la malattia penetrarvi?” Il respiro, il movimento e l’energia sono il ponte fra interno ed esterno, il maestro Qiu Chuji (1148-1227) fondatore della setta Longmen (scuola tuttora esistente) dice: “Per sette parti fare attenzione alla propria natura, per tre parti fare attenzione all’esercizio del proprio corpo”. Scopriamo alla fine di questo percorso una straordinaria linea di sviluppo di tecniche meditative che hanno dato completezza a tutte le tecniche precedenti e fornito una risposta alle esigenze più esistenziali indicando una via di ritorno all’Origine, un’Origine Vuota non esprimibile a parole. Meditazioni che portano l’adepto a concentrarsi sull’Unità, a sedere nella dimenticanza, a raccogliere il pensiero e lo spirito e a concentrarlo sul corpo, lo portano a voli estatici e al supremo Vuoto. Ogni parola a questo punto è superflua poiché: “Colui che sa non parla, colui che parla non sa” (Ddj LVI). 6- Per quanto riguarda le arti marziali propriamente (wushu) dette si intuisce subito come quanto esposto sia immediatamente riconducibile a quelli che conosciamo come stili interni (Tai ji quan, ba gua zhang, xing yi quan, yi quan, ling yi quan) che privilegiano un lavoro energetico, interno (forza jin), morbido, sicuramente marziale, ma fruibile anche su diversi livelli, quale quello medico, alchemico e meditativo. La maggior parte di questi aspetti non manca certo agli stili più “esterni” anche se gli stessi privilegiando il potenziamento della forza musolare (li). Preciso che come tutte le classificazioni anche quella fra stili interni (neijiaquanfa) ed esterni (waijiaquanfa) è relativa (alcuni la considerano addirittura in funzione dell’origine autoctona o meno dello stile). Vero è che molte arti del combattimento sono nate anticamente con un mero fine di difesa-offesa. Esse hanno attinto alla fonte di queste riflessioni cosmologiche e antropologiche e si sono evolute in una dimensione militare o sportiva, di pratica individuale o di clan, ma sempre con una attenzione irrinunciabile a precisi principi filosofici espressi anche nella loro funzione etico-sociale come è avvenuto soprattutto in Giappone, attenzione che fa di queste arti un vero tao, una vera via. Persino l’uso delle armi non è alieno da queste considerazioni constatando che le stesse sono intese come prolungamento della persona e quindi in relazione con il suo qi e con la sua dimensione etica (in Giappone quella spada è l’arte suprema), se poi organizzate in forma militare (esercito) rispondono a precise riflessioni filosofiche (soprattutto di matrice confuciana e legista) che ne orientano l’uso politico e strategico. Ricordiamo quanto sia presente il concetto di Vuoto in due testi fondamentali per la strategia del duello e delle battaglie quali “Il libro dei cinque anelli” di Miyamoto Musashi (1584-1648) e “L’arte della guerra” di Sunzi (VI sec a.C.). Un’ultima considerazione merita il formarsi storico di certi stili in simbiosi con i centri culturali e religiosi. A titolo esemplificativo mi riferisco ai monasteri di Shaolin e dei monti Wudang che la leggenda ha ormai consacrato alle origini di due stili modernamente molto famosi. Le storie che circondano entrambi sono mitologiche, ma possiamo comunque recuperare un fundus di credibilità accertabile. Il monaco Bodhidharma (Damo, Daruma) sembra aver introdotto in Cina nel V sec d.C. il buddismo chan. Arrivato presso il “monastero della piccola foresta” (Shaolin) vicino a Luoyang (provincia Henan) trovò i monaci deboli e indifesi (secondo un’altra versione fu lui a stressarli), gli esercizi fisici che egli introdusse a sostegno delle rigorose pratiche meditative detti shiba luohanshou fornirono il nucleo originario dello shaolin quan (secondo altri Bodhidharma introdusse anche una forma dei cinque animali e scrisse due trattati, ma non ci sono prove storiche di ciò). Il tempio di Shaolin divenne un centro di studio e diffusione delle arti marziali. Nella provincia dello Hubei presso il monte Wudang, centro religioso sede di varie comunità monastiche, viveva un eremita taoista di nome Zhang San Feng. Egli vedendo e riflettendo sul combattimento fra una serpe e una gazza inventò il tai ji quan (secondo altri ricevette in sogno questa intuizione dal dio Xuan Di, l’imperatore nero). Se questa è la leggenda sicuramente Zhan San Feng, figura storica del XII sec d.C., riprese precedenti metodi già in uso presso le comunità di monaci taoisti e questa è l’ulteriore riprova dello stretto legame nella genesi delle attività del corpo, della mente e dello spirito all’interno della cultura cinese. L’emigrazione e la presenza dei monaci cinesi nonché di una serie fitta di contatti tra i due paesi ha permesso poi l’arrivo in Giappone della scrittura, del buddismo e di altre espressioni filosofico-culturali che hanno fornito gli elementi di base anche in merito alle attività marziali sui quali il popolo del Sol levante ha costruito tutta la propria grande tradizione autoctona. Le opzioni filosofiche di fondo (salvo quelli con rilevanza etico-sociale che in Giappone hanno una diversa dimensione) restano comunque invariate. Spero con queste brevi note, che hanno subito una necessaria semplificazione considerata la vastità dell’argomento, di aver dato un po’ di consapevolezza in merito alla ricchezza culturale di queste tecniche e alla profondità della loro radice, ben lontana dalle mode occidentali nelle quali vengono spesso trascinate e mistificate. Mi piace concludere con una frase di Zhuangzi perché la ritengo un messaggio di pace, di armonia, rivolta ad ogni uomo, perché indica in modo preciso un modo essenziale di percorrere la Via e perchè ognuno abbia la consapevolezza che solo cominciando a cambiare se stessi si può sperare di cambiare il mondo: “L’uomo perfetto fa del proprio cuore uno specchio. Non si attacca alle cose, né va loro incontro. Si limita a rispondervi senza cercare di trattenerle. E’ così in grado di dominare le cose senza venirne in se stesso toccato” …. non dimenticando che anche la perfezione è una di quelle “cose” che non vanno trattenute!
Bibliografia essenziale per approfondire in generale la filosofia cinese (testi pubblicati in
italiano): A. Cheng, Storia del pensiero cinese, Torino, Einauidi, 2000 Voll 2. A. Graham, La ricerca del Tao, Vicenza, Neri Pozza, 1999.