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Grandolini Chiara Sara

Estetica B
27 gennaio 2022

Dioniso
Mito e culto

PREMESSA
Otto premette che lo studio della figura di Dioniso si aprirà col problema del
mito e del culto, poiché, secondo la sua posizione, in ogni fenomeno grandioso (e
creativo) l'impulso originario e l'inizio costituiscono già l'elemento decisivo e più
meritevole di considerazione, e che non siano, invece, i tratti posteriormente aggiunti
a far diventare più significativo e spiritualmente ricco quell'elemento non spirituale
scaturito dalla mera necessità.

A tal proposito, Otto si scaglia contro le due scuole di pensiero a lui


contemporanee, che cercano di comprendere la religione dell'antichità: la scuola
etnologica e quella filologica.
La prima è persuasa che il significato originario delle rappresentazioni religiose
degli Elleni sia da ricercare nei bisogni della più elementare esistenza, percui le
divinità greche erano in principio "divinità della vegetazione". Mentre la scuola
filologica, vuol far valere la singolarità dei Greci, ritenendo necessario pensare
grecamente ciò che è greco. Secondo Otto, entrambe le scuole si avvalgono in
modo analogo del concetto evoluzionista di origine biologica: così come la biologia
prevede che da forme elementari di vita, attraverso un processo di perfezionamento,
gli organismi giungano ad una maggiore complessità, le due scuole pongono
all'inizio del processo di sviluppo del pensiero religioso, concezioni semplici da cui
sono nate le grandiose rappresentazioni degli dei; ma la biologia pone pur sempre
all'inizio del processo un organismo, per quanto semplice, vivente, poiché solo ciò
che è vivente è suscettibile di sviluppo, mentre nelle costruzioni degli studiosi delle
religioni, abbiamo il passaggio da qualcosa di inanimato alla sostanza vivente,
poichè vengono considerati come originari schemi concettuali totalmente asettici,

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come il concetto di un dio tutelatore e soccorritore, che non possiede nessun'altra
caratteristica se non quella della potenza che è necessaria a portare soccorso.
Come avrebbe potuto un mero concetto appagare il bisogno di devozione, elevare lo
spirito umano e dar vita alle più grandiose forme del culto? Non si innalzano
preghiere a meri concetti; noi, come cristiani, riusciamo però a prestare fede ad un
dio astratto perché siamo stati educati ad un dio onnipotente la cui essenza esclude
caratteri e figura. Quello che ci viene dunque presentato come il contenuto di una
credenza primigenia, altro non è che un concetto più tardo e interamente vuoto di
senso: il divino, infatti, ha come sua caratteristica la sostanzialtà, la quale precede
l'astrazione (prodotto della semplificazione e dell'impoverimento della più profonda
esperienza di vita che troviamo nel divino). La stessa pienezza di esistenza che
costituisce il contenuto originario della fede, a noi si rispecchia nella varie proiezioni
del mito.
Ambedue le scuole concordemente proclamano, secondo una visione
utilitaristica, che le cerimonie del culto sono nate dal desiderio dell'uomo di
procacciarsi un intervento utile ai propri fini; ma l'esperienza del divino non può
essere svilita nei termini di semplici pratiche propiziatorie. L'uomo si è imbattuto,
attraverso l'incontro con la genuina essenza divina, in una più profonda esperienza
di vita, e attraverso il culto e il rito dà voce alla più intima espressione di
riconoscenza per avervi assistito, il culto è in grado di mantenere vivo l'incontro
con la grandezza. Il culto presuppone l'esistenza del mito, poichè la sostanzialità
vitale del dio si presenta con un carattere, e con una figura, perciò ci muoviamo nelle
rappresentazioni mitiche. Ma mito e culto sono spesso così affini da parere l'uno lo
specchio dell'altro, essi crescono insieme da un terreno comune; la scienza
moderna invece definisce, erroneamente, la narrazione/poetizzazione mitica
un'evocazione fantastica suscitata dalle celebrazioni del culto.
L'uomo moderno, accecato dalla sua visione razionale ed utilitaristica della
realtà, non è in grado di comprendere la grandiosità del culto come tale, il quale, nel
suo complesso, rientra nelle creazioni monumentali dello spirito umano. Il culto è al
servizio della divinità e non ha altro motivo d’essere all'infuori del bisogno di
indirizzarsi all'Eccelso. La manifestazione del divino, la teofania, dischiude l'animo
dell'uomo rendendo possibile la creazione artistica, con la quale esprime il sublime
che l'ha investito.

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Ciò che nelle epifanie l'uomo incontra non è un'entità invisibile ed impossibile a
conoscersi, che solo commuove l'anima straniata dal mondo, ma è il mondo stesso
come rappresentazione divina, come pienezza di divine raffigurazioni. Le epifanie
primigenie danno impronta a tutte le creazioni ulteriori delle forme fondamentali
dell'esistenza umana. L'essenza suprema è l'immagine del volto divino del mondo.
IL CULTO
Il carattere fondamentale delle pratiche del culto non è dato dal fatto che chi le
celebrava si proponesse di raggiungere con quei mezzi uno scopo desiderabile, ma
dal fatto che essi già possedessero il più desiderabile di tutti i beni: la presenza
immediata del divino. Quel che rende così estranei alla nostra sensibilità
moderna gli atti del culto è la mancanza di finalità. È comunque naturale e
necessario che all'attività scaturita dal senso d'una simile pienezza si collegasse una
speranza di salvezza futura, ma che a dare impulso a tutto questo sia stata la ragion
pratica, e non la necessità di dischiudersi e di votarsi al sublime, è un
pregiudizio della mentalità dell'uomo moderno. Quel modo magico di pensare che
oggi si attribuisce alle origini della civiltà non è in realtà che un prodotto di
decadimento e d'immiserimento.

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DIONISO
Di tutto l’universo politeistico greco, nessuna divinità è stata più studiata e
celebrata di Dioniso, ma, paradossalmente, nessuna risulta altrettanto complessa e
sfuggente. È il dio del mistero e dei Misteri, il nume della maschera e dei
travestimenti e dunque, per eccellenza, la divinità del teatro; il dio della forza
genitrice, identificato come “archetipo della vita indistruttibile” da K. Kerényi; un dio
che uccide e che a sua volta è ucciso; donatore di tutto ciò che è buono eppure
capace di lacerare crudelmente i corpi degli uomini e di cibarsi di carne cruda. È il
dio della contraddizione, di tutte le contraddizioni. Ciò che era chiuso si disserra,
elementi ostili e nemici si conciliano in prodigiosa concordia, le catene si infrangono,
le mura vengono abbattute, e gli schermi che agli spiriti umani nascondono il futuro e
ciò che è remoto si sollevano; infatti Dioniso viene chiamato "colui che scioglie".
Una divinità tracia dell’ebbrezza, non volgare, né forse, in origine, connessa col
vino, ma autogena e trascendente, che faceva appello alle passioni più che
all’intelletto, alla gioia e al terrore piuttosto che alla ragione. Un Dio "ibrido" dalla
multiforme natura maschile e femminile, animalesca e divina, tragica e comica,
Dioniso incarna, nel suo delirio mistico, la scintilla primordiale e istintiva presente in
ogni essere vivente; che permane anche nell'uomo civilizzato come sua parte
originaria e insopprimibile, e che può riemergere ed esplodere in maniera violenta se
repressa e non elaborata correttamente. Dioniso era figlio di Zeus e di Semele, una
donna mortale. Ancor prima d’averlo partorito, però, la madre fu incenerita dalla
folgore del suo sposo celeste, avendogli chiesto di farsi finalmente vedere. “Ma il
padre non lasciò che suo figlio andasse perduto; freschi rami d’edera lo ripararono
dalla vampa in cui la madre fu incenerita e il nume stesso subentrò nella funzione
materna; accolse nel suo corpo divino il corpicino ancora inadatto alla vita e quando
le dieci lune furono completate diede il figlio alla luce” (Dioniso. Mito e culto, W. F.
Otto, p. 71). Dioniso rappresenta in particolare lo stato di natura dell’uomo, la sua
parte animale, selvaggia, istintiva, che resta presente anche nella creatura più
civilizzata, come una parte originaria insopprimibile, che può emergere ed esplodere
in maniera violenta se viene repressa anziché compresa ed incanalata
correttamente. Veniva seguito sempre da uno stuolo di satiri, esseri semiferini
raffigurati per lo più in atto di danzare o suonare o all’inseguimento amoroso di ninfe,
e da Menadi, giovani donne che, abbandonate le occupazioni tradizionali nell’intimità

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domestica, errano con lui per i monti e i liberi campi, danzando, folleggiando,
cacciando fiere e compiendo opere prodigiose. “Il fragore con cui s’avanza Dioniso
col suo seguito divino, il fragore scatenato dalle turbe umane invasate dallo spirito di
lui, è un autentico simbolo dell’irruzione spirituale: improvvisamente un elemento
smisurato irrompe nella vita, col terrore che è al tempo stesso estasi, con
un’eccitazione che confina colla paralisi, col sopraffare tutte le normali e consuete
impressioni dei sensi” (p. 98). Le donne, le cosiddette Menadi o Baccanti, erano
vestite con pelli animali, con in testa una corona di edera o quercia o abete, e
celebravano il dio cantando, danzando e vagando come animali per monti e foreste.
Bisogna notare che le donne che seguivano il dio del vino e del teatro erano
strappate ai loro compiti familiari e decidevano di abbandonare la casa del padre. La
rivolta contro Hera, patrona del matrimonio e del parto, in un accesso di follia
dionisiaca, va letta come rifiuto dello stato matrimoniale: la trasgressione della
doppia attività, cioè della tessitura e del matrimonio, implicava una radicale
contestazione di quei ruoli che definiscono la donna greca all’interno della città.
“Mentre tutte le altre divinità si accompagnano con esseri del loro medesimo sesso,
l’immediato sfondo ed il seguito di Dioniso si compone di donne, e il dio stesso ha
nella sua natura qualcosa di femminile. Non che sia un debole, perché anzi è un
lottatore e un trionfatore: ma la sua virilità celebra la sua vittoria più sublime tra le
braccia delle più celebri creature muliebri, e per questo, nonostante il suo spirito
guerresco, gli è aliena l’autentica mentalità eroica” (p. 184). Complicato recensire un
libro di tal genere e con un protagonista di questo rango, ma com’è scritto nella
quarta di copertina del libro, “nessuno meglio di Walter F. Otto possiede la felice
disposizione a far rivivere un mondo passato in tutta la sua grandezza e il suo
splendore”. Perfino le misure dello spazio e del tempo sono abolite. L'ebrezza ha
immediatamente inizio con l'avvento del dio; la stessa Semele durante la gravidanza
sarebbe stata presa dall'irresistibile bisogno di danzare e con lei il bambino che
aveva in seno. Nel mondo trasfigurato, al cospetto delle danzatrici rapite dalla
presenza di Dioniso che giocano con gli elementi, sgorgano dal suolo non soltanto
latte e miele, ma anche fiumi di vino; c'è nel vino qualcosa dello spirito di ciò che non
ha confini e che riporta l'elemento primigenio nel mondo, per questo è così
significativo.

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IL CUPO DELIRIO
Ma dietro alla realtà incantata, ne affiora un'altra che non è più beatificante, ma
sinistra; essa, nel mito, si presenta anzitutto come persecuzione e morte; e la stessa
ferocia che traspare nel mito traspare anche nel culto. Così nella cerchia di quel dio
che era lodato come "ricco di gioia", fa il suo ingresso la morte. Dioniso è infatti un
dio sofferente e morente, che nel pieno del suo splendore e della sua giovane
magnificenza, deve soggiacere alla violenza di terribili avversari, e come lui,
periscono di morte violenta anche tutte le donne che lo avevano allevato e avevano
partecipato ai suoi festeggiamenti inebrianti. Quella cupa realtà che rende deliranti,
mostra il proprio aspetto sia negli atti del dio, che nel suo soffrire. Il più noto mito del
suo trapasso, vede lo stesso Dioniso Zagreus ("gran cacciatore") cacciato e
sbranato dai Titani; il significato di tale mito, infatti, è che il dio soffre egli stesso
quegli atti spaventosi che compie. Anche dietro la sofferenza delle sua compagne
sta l'ombra di azioni terrificanti: con la feroce aggressione d'una schiera di donne
delle feste Agrionie, si volevano ricordare le figlie di Minia; esse sole si erano rifiutate
di rispondere all'appello di Dioniso, rimanendo a casa ad attendere i mariti, allora lo
spirito del dio si introdusse in mezzo a loro con prodigi e terrificanti manifestazioni,
ed esse, nella frenesia che le colpì, assalite dalla brama di carne umana, fecero a
pezzi il figlio di una delle tre. L'insana ferocia di quelle giovani, tanto quanto l'estasi
soave ed affettuosa, rientra nella natura del dio. Dioniso è il dio "dal duplice aspetto"
e dalle "molte figure"; anche gli animali che lo rappresentano, gli uni sono immaginidi
fertilità (toro, capriolo, asino) e gli altri simboli di spietata ferocia (lupo, pantera,
lince). Di tutti i felini consacrati a Dioniso, la pantera è la più duttile e meravigliosa, la
più feroce ed assetata di sangue; l'agilità fulminea e l'eleganza delle sue movenze,
che hanno per scopo l'uccidere, ci presenta lo stesso accostamento della bellezza e
di una mortale ferocia che vediamo nelle frenetiche seguaci del dio. Infatti, le donne
dionisiache, investite da una così dolce ebrezza di una maternità che non conosce
limiti, si trasformano in cacciatrici ubriache di sangue, e si avventeranno sugli stessi
animali ai quali avevano dedicato le proprie cure. Inoltre, secondo la testimonianza
di Eraclito, Dioniso è tutt'uno con l'Ade, ed è per questa ragione che in tante delle
sue feste più importanti si celebravano i morti. I due culti, quelli della morte e quelli di
Dioniso erano intimamente legati e anzi, ne formavano uno solo.

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TEORIE MODERNE
Rientra nel carattere del mito greco cogliere gli aspetti fondamentali dell'essere,
i quali vi emergono, in tutta la chiarezza e precisione di ciò che appartiene alla
natura. Il mondo delle origini è il più intensamente vivo, si può dire perfino che sia il
solo veramente vivente: le creazioni del mito greco posseggono quella vitalità
incomparabile che si è dimostrata capace di suscitare la vita attraverso i millenni.
Qui si affrontano anche gli opposti elementi dell'essere, e solo nel senso più opposto
ad ogni conciliazione, solo nella tensione più estrema, e dalle loro profondità più
remote si manifesta il segreto della loro unità nel culto e nel mito greco sotto forma di
un dio demente: Dioniso. La duplicità del dio appare nei due opposti dell'estasi e
dell'orrore, nel fragore cui fa riscontro il silenzio dei morti, nella presenza immediata,
che è anche assoluta lontananza; al culmine dell'eccitazione tutti i contrari
improvvisamente scoprono il loro volto. Dioniso, che in sé li compendia, deve essere
lo spirito di una realtà smisurata, e il suo apparire scatena la frenesia. Le recenti
ipotesi che sono state avanzate per spiegare tale frenesia dionisiaca, vengono tutte
da Otto sistematicamente smentite. Fra le più degne di nota, riscontriamo quella di
Rhode, la cui interpretazione dei fenomeni religiosi prende le mosse della
soggettività umana; la sua spiegazione meramente psicologica, aveva smarrito del
tutto la visione di una appartenenza con l'universale realtà del cosmo, perciò non
restava che l'interiorità del mondo umano con le sue esperienze; allo stesso modo
Nietzsche, ne "La nascita della tragedia", attribuiva lo stato orgiastico dionisiaco
all'influenza della narcotica bevanda, o all'avvicinarsi della primavera, o
all'eccitazione dalla quale il soggetto è sommerso nell'oblio di sè. Rhode era poi
convinto chel'eccitazione delirante fosse provocata intenzionalmente per giungere
alla liberazione estatica da sé stessi, e trovare la beatitudine con l'unione col dio
(concezione divina che si rifà al modello orientale, che vede dio come infinito
assoluto). Egli rendendosi conto che non è cosa da tutti l'autoipnosi, sosteneva che
essa presupponesse una disposizione morbosa, e ad avvalorare la sua tesi era il
fatto che nel culto dionisiaco fossero le donne ad avere il ruolo predominante, le
quali sarebbero contraddistinte da una spiccata emotività, da una grande forza di
immaginazione e dall'inclinazione alla dedizione illimitata. La concezione di Rhode è
totalmente errata perché il dio in onore del quale infuria la danza selvaggia, è egli
stesso un demente, e perciò è impensabile che l'uomo intendesse attraverso il culto

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slanciarsi al di sopra di se stesso gettandosi fra le braccia della divinità; e lui stesso,
Dioniso, il furioso, colui che agita il tirso, lo sbranatore e il divoratore di carne cruda.

IL DIO DELIRANTE
I tentativi fatti finora per rendere comprensibili le orge dionisiache attribuendole
ad umane necessità – siano esse spirituali o materiali (come rendere fertili i campi) –
stanno in contraddizione evidente con le più chiare ed importanti testimonianza della
tradizione, e sono perciò falliti. La frenesia è la forma cultuale inerente alla di
Dioniso, il quale, si da incontro agli uomini con l'immediatezza più coercitiva. Egli
viene accolto e celebrato dalle donne, le quali rispondono alla sua presenza con
atteggiamenti di follia; infatti, il mito torna sempre a ripeterci come l'avvento
travolgente di Dioniso, le strappi alle attività della vita ordinaria e fa di loro delle
danzatrici delle foreste selvagge e delle solitudini montane. Il comportamento
selvaggio delle donne terrene aveva il suo modello in quello delle nature divine, delle
autentiche Menadi; perciò, se il seguito umano imitava i comportamenti del dio, è
dunque il dio stesso che si rispecchia in esso. Anche la sete delle Menadi è quella
del dio stesso; Dioniso è il dio delirante, e per causa sua delirano le sue seguaci. Il
volto di ogni divinità autentica è l'aspetto di un mondo, e un dio delirante può
esistere solo dove esista un mondo in delirio, che si manifesti per mezzo di lui. Lo
conosciamo come spirito dell'opposizione e della contraddizione, ma anche
l'elemento creatore e apportatore di beatitudine insito in lui, è compartecipe della sua
frenesia, del suo atteggiamento selvaggio. Ci troviamo di fronte ad un enigma del
cosmo. Chi genera qualcosa di vivo, deve immergersi in quelle profondità primigenie
dove hanno dimora le forze della vita, e quando torna a riaffiorare porterà negli occhi
una luce di demenza, perché laggiù, unitamente alla vita, ha sede la morte. Là dove
freme la vita la morte non è lontana, e quando si fa più intensa la vita accresce
anche la vicinanza alla morte, su su fino al culmine di quell'attimo sublime che è il
miracolo della vita nuova; morte e vita si attirano in una gioia delirante. Il vortice e il
brivido della vita è così intenso proprio perchè è ebbro di morte, e ogniqualvolta la
vita torna a riprodurre se stessa, cade per un attimo quello schermo che la separava
dalla morte. I popoli, fin dai tempi delle origini, furono sempre consapevoli della
presenza dei morti in tutte le ricorrenze e solennità centrali della vita; ma la scienza
moderna preferisce ricercare il senso dei culti e dei miti nella paura dei demoni e di

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altri spettri nefasti. Nel neonato riaffiora dal buio della morte l'antenato, ed è per
questo che gli dei della nascita e della fecondità sono così prossimi alle divinità della
morte. La filosofia, erede del mito, ha espresso fin dal suo primo apparire il
riconoscimento che la morte è radicata nella natura stessa dell'essere. I culti e i miti
attestano che la morte non sia da ricercarsi al termine, ma alle origini della vita, ed è
presente in tutte le sue creazioni.

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