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LA POESIA

L’EPICA ARCAICA
OMERO
ILIADE
È il poema di Ilio, Troia, città nella zona nord-occidentale dell’Asia Minore in un’epoca che l’opera
stessa descrive come appartenente a un lontano passato indefinito. Motivo della guerra il rapimento
di Elena, per vendicare l’offesa si muove una spedizione confederata guidata da Agamennone re di
Micene. Dopo un assedio di dieci anni Troia è conquistata e rasa al suolo, i suoi abitanti
sopravvissuti ridotti in schiavitù.
L’Iliade tratta però un solo episodio di tutta questa guerra, all’inizio del decimo anno. Il periodo
raccontato dura circa 50 giorni, sono presupposti sia l’antefatto che la conclusione.
Il motivo conduttore è l’ira di Achille contro Agamennone, colpevole di avergli sottratto la
prigioniera Briseide.
Nell’ultimo verso, che si chiude con il nome e l’epiteto di Ettore, si esprime la seconda linea
portante del poema. Nel destino di Ettore infatti si riassume la vicenda di Troia, il doppio presagio
della morte e del disastro di Troia è la ragione poetica della sua figura, la cui unica tensione
dinamica è quando uccide Patroclo. Ettore combatte valorosamente, è l’autore principale
dell’effimero successo dei Troiani e lascia un dolente pathos quando si spoglia della dimensione di
guerriero nel salutare la moglie Andromaca e il figlio Astianatte.
La dialettica dei destini di Achille ed Ettore e le loro funzioni narrative si inquadra nella più
generale opposizione tra Greci e Troiani. Si ha una successione di fasi in cui il rientro di Achille
segna lo spartiacque tra la prevalenza dei Troiani e quella dei Greci.
Nella battaglia collettiva si scontrano Paride e Menelao, Aiace ed Ettore, emergono di volta in volta,
in ampie sezioni, i singoli eroi mettendone in luce l’aretè.
Episodio particolare quello in cui Diomede e Odisseo sorprendono nel sonno Reso e sterminano lui
e i suoi. La tensione della battaglia è sapientemente allentata da episodi vari (consigli di guerra,
scene di vita tra i Troiani, Achille nella tenda, gli dèi, etc).
C’è infine l’opposizione tra mondo umano e mondo degli dèi. Anche loro parteggiano attivamente
nelle sorti della guerra (vedi addirittura Afrodite, ferita in battaglia da Diomene e
canzonata/consolata per questo da Zeus, o Era che incanta Zeus per impedirgli di favorire i Troiani,
etc).

ODISSEA
“Poema di Odisseo”, è la storia di un uomo, vista attraverso un complesso organico di eventi. Era
stato uno dei principali capi achei nella guerra di Troia, a lui si dovette l’inganno del cavallo di
legno che provocò la caduta della città. Ma a conferire il valore di eccezionalità alla sua esperienza
umana è il lungo viaggio che dopo dieci anni lo riporta in patria.
Nell’Odissea la materia narrativa nasce dall’incrocio di due filoni: il racconto di un viaggio e il
ritorno in patria del protagonista. Nel poema omerico sono fusi in un’unica storia a sua volta
inserita nella saga troiana.
Le due linee narrative si sovrappongono a metà circa dell’opera, quando Odisseo giunge finalmente
ad Itaca e intraprende la lotta contro i pretendenti.
I due fili della storia di Odisseo sono quindi il viaggio e le conseguenze della sua lunga assenza. Il
comune connettivo è costituito dalla figura dell’eroe, intorno a cui ruota una continua alternanza di
casi e personaggi, ora ostili ora propizi a lui. importante è il favore e il disfavore degli dèi, con
Atena da una parte e Poseidon ed Helios dall’altra.
Odisseo risponde sempre con le poliedriche attitudini del suo ingegno e del suo sentimento e in
questa prospettiva l’autore e il suo personaggio finiscono quasi con l’identificarsi, proponendo un
nuovo modello di uomo che contrappone all’eroica unidimensionalità degli eroi dell’Iliade il senso
greco della conoscenza tesa a comprendere gli infiniti aspetti della realtà.
OMERO E LA QUESTIONE OMERICA
La tradizione antica non dubita dell’esistenza di un poeta Omero autore di Odissea, Iliade, Inni e
altro; anzi, poiché in un verso degli Inni si definisce “il cieco che abita in Chio”, nasce la leggenda
della sua cecità. Erodoto riteneva di poter fissare l’epoca della sua attività attorno all’850 a.C. e
fiorirono brevi Vite di Omero. Con i critici alessandrini si cercò di impostare criteri storici e
filologici più rigorosi e vennero attribuite con sicurezza solo Iliade ed Odissea. Senone ed Ellanico
dissero invece che la sola Iliade era di Omero, l’odissea doveva appartenere ad un altro autore
(separatisti).
Aristarco, esperto di omeristica, disse invece che i due poemi erano entrambi di Omero ma l’Iliade
un poema della sua giovinezza, l’Odissea della sua vecchiaia. Ma in un’epoca come quella arcaica,
che non conosceva la scrittura, quali erano state le fasi e le modalità di composizione e trasmissione
dei poemi?
Concepiti e tramandati a memoria per via orale. Pisitrato, nel VI sec. a.C. avrebbe curato la prima
fissazione per iscritto dei poemi omerici.
In età moderna l’abate d’Aubignac (seconda metà del Seicento) sostiene che i poemi omerici siano
una raccolta tardiva e inorganica di canti composti da vari poeti e originariamente indipendenti e
che l’Omero autore dell’Iliade sia un personaggio immaginario (voleva così dimostrare la
superiorità di Virgilio). Dello stesso parere Giambattista Vico (1730), Omero è l’idea simbolica
degli antichissimi uomini greci che narravano, cantando, la loro storia. Inoltre la società
dlel’Odissea pare più strutturata dell’Iliade e perciò deve essere un poema più tardo, non certo dello
stesso autore.
La questione omerica assume i caratteri della filologia con Wolf “Prolegomena ad Homerum”
(1795): i poemi omerici sono il coagulo di brevi canti concepiti e tramandati oralmente. Non nega
l’esistenza di Omero, lo identifica come l’autore di un nucleo poi variamente ampliato e modificato
dai successori. Wolf trova eco in Hermann che sostiene l’esistenza di due canti antichissimi di
Omero poi estesi con ampliamenti e composizioni indipendenti a formare Iliade ed Odissea.
Lachmann sostiene che Pisistrato aggregò canti assolutamente separati all’origine. Kirchhoff si
dedicò più all’Odissea, con teoria simile.
Alla scuola opposta, “unitaria”, Wilamowitz dice che Omero sarebbe vissuto attorno all’VIII sec.
a.c. e avrebbe raccolto una serie di canti poemetti sull’ira di Achille rielaborandoli e ampliandoli
formando l’Iliade. Il poema giunto a noi sarebbe comunque modificato da alcune parti da successivi
redattori. Il Novecento vede quindi poi un’energica ripresa della posizione unitaria (neounitaria) che
però rinuncia ad attribuire i poemi a un unico momento genetico. Non si è giunti comunque a una
soluzione definitiva della questione omerica ne probabilmente si potrà mai giungervi.

INNI OMERICI
Sono 33 componimenti in esametri dattilici in lingua epico-omerica che presentano come carattere
comune la dedica a una divinità. Non sappiamo quando si sia costituito il nucleo originario della
raccolta che comprende opere di epoche diverse ma è probabilmente di inizio ellenismo. La forma
attuale dev’essere stata raggiunta all’età tardo antica o bizantina. Il titolo “Inni” preso da riferimenti
interni alle opere stesse.
Tucidide li definisce anche Proemio, poiché nella chiusa rimandano talvolta ad altri canti.
Si distinguono due gruppi:
• Quattro inni (Demetra, Apollo, Hermes, Afrodite) sono lunghi quanto un canto dei poemi omerici
(293-580 versi) e hanno andamento prevalentemente narrativo
• Gli altri sono molto più brevi (3-59 versi), come l’Inno a Dioniso, e sono costituiti da un elogio al
dio, un’elenco delle sue prerogative, concludendosi con una preghiera e un saluto (spesso legati a
un canto che seguirà)
È da alcuni perciò attribuita funzione proemiale soltanto a questi inni brevi.

ESIODO
VITA E OPERE
Le informazioni si ricavano da stesse sue opere. Il padre di Esiodo era commerciante marittimo ma
il commercio fallisce e si ritira ad Ascra, da qui l’immagine triste di quel luogo che dà il poeta.
L’eredità andrà divisa tra Esiodo e il fratello Perse. Questo è il filo conduttore delle Opere, che
vogliono indirizzare Perse a una vita onesta e operosa, visto che ha dilapidato la propria quota e
cerca di impossessarsi tramite beghe giudiziarie di quella del fratello.
Nel proemio alla Teogonia dice che le Muse gli siano apparse un giorno sull’Elicona, attribuendosi
così la doppia funzione di agricoltore e vate per la cui bocca esse si esprimono. Ha uno statuto
quindi più importante del rapsodo professionale.
Restano due poemi integrali, la Teogonia e le Opere e i giorni. C’è poi il Catalogo delle donne, che
pare collegato alla Teogonia ribaltandone lo schema.
Si conoscono titoli e frammenti di altre opere.

LA LIRICA
ARCHILOCO
Gli antichi consideravano Archiloco poeta sommo, a livello di Omero. Possediamo circa 300 suoi
frammenti.
Usa gli strumenti tipici della poesia giambica, cui aggiunge l’elegia. La varietà delle strutture porta
una varietà tonale se non anche tematica. La grande novità di Archiloco consiste nell’attingere la
materia della creazione poetica alla propria personale esperienza anziché alla tradizione.
I dati della sua biografia si desumono quindi, con una certa cautela, dalle sue opere.
Visse a metà dell’VII sec. a.C., padre nobile e mamma schiava, nacque a Paro (Cicladi) poi si
trasferice a Taso, combatte contro i Traci, torna a Paro, muore in battaglia contro Taso.
Nelle poesie compaiono i nomi di odiati nemici, ma anche di amici, partecipa alla vita politica. Il
simposio appare la sede privilegiata per la diffusione della sua poesia ma parte dei suoi giambi pare
destinata a una più ampia occasione di festa popolare.
Archiloco rivendica il valore assoluto del presente e della circostanza, il reale si rivela nella
concretezza della situazione singola.
L’ironia diviene strumento di una dissacrazione che non rinnega l’esistenza di ogni valore, ma mira
a scoprire quelli autentici. Muoiono sette nemici e in migliaia dicono di averli uccisi.
L’equilibrio diviene norma etica ed estetica. L’animo degli uomini si adatta agli eventi e gli dèi
alternano il male e il bene nella vita di ognuno.
Il vino e il mare temi frequenti. La capacità di odio spregiudicato è un vanto per lui, con il motivo
della vendetta (amore frustrato per Neobule? Ma Neobule non era una figura festiva immaginaria?).
Il riuso del patrimonio letterario tradizionale è condizionato dall’aderenza alla situazione singola
concreta. La parola si riveste di concretezza assoluta, la realtà è il solo oggetto che gli uomini
possono percepire. Non è necessario che gli eventi narrati siano vissuti, l’importante è la
rappresentazione nelle forme di un’esperienza effettiva.

IPPONATTE
VI sec. a.C., è il poeta dei bassifondi della città. La recriminazione della propria povertà è tra i suoi
temi portanti, sfondo delle sue poesie è una brulicante società di diseredati ed emarginati, fitta di
violenza. Abbiamo meno di 200 frammenti. La sua lingua ignora il modello omerico, tranne che per
un passo dove le formule omeriche sono oggetto di parodia.
Il carattere preponderante della sua poesia è uno sfrenato estro comico, ed era destinata perciò a
occasioni che presupponessero la libertà dell’insulto e della risata, o di una performance
anticipatrice della commedia.
Il suo progetto è una colossale, liberatoria parodia di una società inquinata dall’emergere di una
classe di trafficanti beceri e grotteschi, ignari dello stile di vita della civiltà greca lirica. L’amarezza
è quella di un epigono, la realtà non si trasforma in verità e pone l’archetipo per la commedia, il riso
come elemento della condizione umana e strumento di denuncia delle aberrazioni della società.
TIRTEO
Metà del VII sec. a. C., usa il dialetto ionico con alcuni dorismi, residuo della stesura originale delle
elegie tartariche in dorico. Ma è soprattutto l’atteggiamento ideologico dei suoi carmi a suggerire
che fosse spartano. Essi portano il senso di una fondamentale solidarietà tra i cittadini, la qualità
dell’uomo è il valore in battaglia come capacità di integrarsi con gli altri combattenti nella difesa
della patria.
Giunti a noi una 20ina di frammenti, de Il buon governo, delle Esortazioni. La dimensione omerica
dell’eroe è ridotta allo schema collettivo, sempre omerica è la struttura del carme, che riprende la
composizione ad anello. La novità di Tirteo sta nel rilievo che la circostanza singola acquista.

MIMNERMO
Fine del VII sec. a.C., subentra la malinconica contemplazione dello scorrere inflessibile della vita,
la dolorosa condanna cui soggiace la natura umana.
Nativo di Colofone, aristocratico, ha rapporti con Smirne, cui dedica un componimento. Alcune sue
poesie sono dedicate a una flautista di nome Nanno.
Sono rimasti una ventina di frammenti delle sue elegie, emerge l’elemento di riferimenti mitici.
Riflessione sul trascorrere della vita, lo svanire della bellezza giovanile, la vecchiaia che incombe
sul destino degli uomini. Mimnermo si augura di morire a sessant’anni prima di patire malattie e
affanni.
Valorizza il modulo epico trasponendolo a una nuova tematica. La sua novità è nella nuova
dimensione che attribuisce alla scoperta dell’individualità umana. La trasformazione è legge
dell’esistenza e il momento acquista valore come lancinante sentimento di precarietà destinata a
divenire qualcosa di peggiore, in un accorato pessimismo.

SOLONE
Ateniese, connotato essenziale è l’armonia, l’equilibrio. Con lui la società ateniese diviene
consapevole del ruolo politico che può avere la poesia. L’elemento estetico deve permeare in sé
ogni aspetto della vita pubblica, è la norma del comportamento di ogni cittadino.
Rimasti circa 270 versi tra vari frammenti diretti e indiretti. Nacque intorno al 260 da famiglia
nobile. Primi interventi pubblici in cui esortava gli ateniesi alla conquista di Salamina fingendosi
pazzo per evitare la condanna che colpiva chiunque lo proponeva.
Ma era più grave la politica interna, di cui denuncia l’avidità, causa del malgoverno. Esorta al
giusto mezzo in cui il singolo e le superiori esigenze della collettività trovino equilibrio,
condannando l’ingiustizia e la violenza.
Dopo aver promulgato le sue leggi se ne andò a Cipro e in Egitto.
La legge di un’armonia che da interiore diviene solidarietà tra uomini ispirò anche la sua vita
privata. Elogia i meriti dell’età matura ed è convinto che ogni fatto dell’esistenza abbia un proprio
valore e significato.
Il suo uditorio è l’intera cittadinanza, si esprime quindi a un livello massimo di evidenza e
pragmaticità. La sua lingua è lo ionico ma si libera dal modello omerico, trovando una nuova
direzione verso un nuovo mondo concettuale. Nella vita e nella poesia si realizzano i valori
dell’individuo e della società.

TEOGNIDE
La tradizione medievale conserva un intero corpus attribuito a lui, circa 1400 versi dedicati
all’amore efebico. È possibile isolare le singole poesie solo sulla base di criteri interni. Inoltre
compaiono passi sicuramente di Mimnermo, Tirteo e Solone. Ma qualcosa è di Teognide, in un
passo dice il proprio nome e di aver messo un sigillo a inizio e fine dei propri componimenti. I passi
come quello, con una spiccata autonoma personalità poetica alla base, sono spesso dedicati al
giovane Cirno.
Nacque a Megara Nisea da nobile famiglia ma, persi i propri beni, emigrò nella colonia sicula di
Megara Iblea. Il rimpianto del mondo aristocratico è tra i motivi portanti della sua poesia, assieme
con la polemica contro gli uomini che hanno sovvertito tale ordine e con l’esaltazione dei principi a
suo fondamento. Teognide si rivolta contro un’intera classe di arrivisti e spregiudicati profittatori.
Sono i valori dell’aristocrazia ciò che vuole insegnare a Cirno, nella forma di una sentenziosa
moralità che lo distingue: fedeltà e lealtà nell’amicizia, giustizia, saggezza, inflessibilità nell’odio
contro i nemici, rifiuto dell’estraneo alla propria cerchia.

SAFFO
Nacque a Ereso in Lesbo, visse a cavallo tra il VII e il VI sec. a.C., aristocratica contemporanea di
Alceo. Ebbe un marito e una figlia, trascorse un periodo di esilio in Siclia, giunse ad età avanzata.
Tema unico della sua poesia è l’amore e oggetto di questo amore sono giovani donne della
comunità del tiaso in cui Saffo svolgeva funzione pedagogica tra culto di Afrodite e formazione
artistico-musicale e sociale delle giovani.
Saffo è divisa in nove libri. Si individuano due gruppi: uno più ridotto con canti rituali ed epitalami
che accompagnavano le nozze di una fanciulla, caratterizzati da lessico e immagini elementari,
ripetizioni, comparazioni, ingenuità dei sentimenti, a volte figurazioni ilari e malinconiche; nel
secondo gruppo Saffo si rivolge in prima persona a dèi e persone per esprimere le emozioni che in
quel momento la agitano. Saffo intuisce e realizza la necessità di raccogliere il significato dell’opera
in un insieme organico in cui ogni parte trae motivazione dallo spunto centrale.
La sua qualità non è solo nel rigore formale ma anche nell’intensità e coerenza del sentimento, la
forma chiusa della sua lirica è come una sorta di metafora del tiaso, circoscritto ma capace di
comprendere un microcosmo organico e articolato di passioni, riflessioni, valori.
L’invocazione ad Afrodite p una lode conservata integralmente, chiede aiuto alla dea per un amore
non corrisposto. Questa forza impone a chi è amato di riamare a sua volta, in una tranquillizzante
certezza dell’inevitabile corresponsione amorosa.
Ciò che conta non è l’amore per una persona ma lo stesso atto di amare, ragione e scansione della
vita. Il trascorrere e mutare del reale è espresso dalle diverse persone di cui si innamora di volta in
volta, forma concreta di questa certezza è la parola poetica. Nel carme si ha un presente assoluto, un
ricordo del passato e l’aspettazione per il futuro.
Il ricordo delle emozioni passate e quelle suscitate nel presente dalla memoria stessa è un tema
ricorrente che ha origine nel tiaso stesso, che le giovani devono per forza abbandonare quando
entrano nella vita matrimoniale, dando pungente dolcezza del rimpianto.
Un’altra ode coglie lo strazio del momento del distacco, ciò che si ama è la cosa più bella e come
Elena abbandonò tutto per amore, Saffo vorrebbe rivedere Anattoria. La superiorità del sentimento
confuta l’esistenza di una scala obiettiva di valori e trae origine dall’esperienza del tiaso in cui
l’amore omosessuale è visto come preparazione all’amore eterosessuale, predisponendo anche le
fanciulle a riconoscere nell’eros l’esperienza fondamentale della loro vita presente e futura.
Sede dell’emozione amorosa è l’animo che si riflette in travolgenti reazioni fisiche.
La sua parola corre alla verità delle cose e allo stesso tempo trasfigura i fenomeni in un’aura
musicale e al fluire della narrazione preferisce la notazione sintetica. Domina il senso della bellezza
con forse influenze dall’oriente ma il suo pensiero è greco, l’amore sa essere tormento ma è
soprattutto gioia di esistere e coesiste con il dolore innato alla vita umana.
Il bello non deve essere l’eccezione ma appartenere a ogni momento e forma della vita, dev’essere
la normalità dell’esperienza.

ALCEO
Contemporaneo di Saffo, a Lesbo, ma i suoi motivi sono quelli maschili della politica e del
simposio. Si distingue da Archiloco (e da Saffo) perché la sua vita è dedicati a fini estranei alla
poesia. Nasce verso il 630 a.C., aristocratico, e la sua vita è costellata da congiure ed esili, nel
governo di tre tiranni: Melancro,Mìrsilo e Pìttaco. Visse sino alla vecchiaia.
Era diviso in dieci libri per argomenti, rimangono circa quattrocento frammenti.
La passione di parte caratterizza i canti politici. Caratteristica di Alceo è la partecipazione
immediata ed impetuosa alla materia del suo canto. Nella poesia conviviale la gioia del bere
accompagna le stagioni della vita, ma il vino è soprattutto rimedio alle buie riflessioni della mente:
breve è la vita, ma gli dèi hanno donato agli uomini il vino per dimenticare la loro effimera
condizione.
Il motivo erotico è in chiave omosessuale secondo la consuetudine ma non è rimasto quasi nulla.
Meglio attestati sono i carmi di argomento mitico-religioso che traducono nella forma sintetica della
strofe l’inno omerico. Altri passi riprendono i motivi dell’epos.
La lingua di Alceo è lo stesso eolico di Saffo ma con più parole rare. Le sue poesie erano destinate a
un’udienza maschile. Raccoglie i suoi carmi secondo un’intrinseca norma di unità ma resta
comunque l’impressione che non sempre riesca a filtrare la realtà riscattandola da un facile realismo.
Secondo gli antichi è iniziatore di un modo di fare poesia che troverà i più bei frutti in Orazio.

ANACREONTE
La lirica monodica si esaurisce con Anacreonte. Introduce la figura del poeta itinerante presso le
corti dei tiranni, la sede della performance poetica rimane quindi il convito ma il pubblico sono il
signore e i suoi sudditi, con tematiche leggere e disimpegnate.
Nacque a Teo, in Asia Minore, intorno al 570 a.C., ma poi passò dalla corte di Policrato di Samo a
Ipparco di Atene, poi in Tessaglia poi di nuovo ad Atene dove morì intorno al 485.
La sua opera è in cinque libri di cui rimangono circa trecento versi. Il dialetto è ionico misto a
eolismi ed espressioni omeriche.
I motivi sono l’amore e il simposio, filtrati attraverso esperto senso di raffinatezza formale. La
fascinazione amorosa assume una dimensione analitica e introspettiva, “amo e non amo, sono folle
e non lo sono”, la follia è uno degli astragali di Eros, l’altro è la sofferenza. Il tono solenne
dell’apostrofe divina si risolve nell’invito erotico della conclusione. Tende a indirizzare il carme
verso una battuta risolutiva che allo stesso tempo ne riduce la tensione passionale e ne concentra il
significato, come nei poeti lesbici.
Dal convito deve essere escluso ogni eccesso, deve essere retto da Afrodite e dalle muse. Contro i
nuovi ricchi porta l’irrisione di chi è consapevole della superiorità del proprio stile di vita.
Nel suo carme più assorto e sgomento affronta il tema della decadenza inferta dalla vecchiaia, la
consapevolezza che si appressi il viaggio senza ritorno lo spaventano e muovono il suo pianto.
Questo poeta fu oggetto di un’imitazione che ebbe grande fama nel Rinascimento ma l’autentico
Anacreonte è tutt’altra cosa, ha una grazia nativa, una delicatezza arguta delle immagini, un fluire
nitido e melodioso della parola. Chiude un’epoca e dopo di lui la lirica amorosa dovrà tacere a
lungo prima di aver nuova voce.

ALCMANE
L’atto poetico appare ora dominato da una forte tensione verso l’immaginario: occasioni e
riferimenti restano concreti ma nell’elaborazione formale prevale la fantasia. Si ha maggiore
ampiezza delle strofe e varietà degli schemi metrici, accentuando l’incidenza dell’elemento
musicale. Nella circostanza pubblica e sacrale il tono dominante è rappresentato dalla tematica di
ampio interesse. Visse sino a tarda età alla fine del VII sec. a.C.
La sua opera era in sei libri di cui ne restano centosettanta frammenti. Da notare i Parteni, carmi in
cui era evidente il motivo erotico,con invocazione alle muse, l’occasione attuale è trascesa e
trasferita nel dominio dell’immaginario con una libera fantasia, con similitudini e associazioni.
Fa ricorso a princìpi non antropomorfi (es. elemento acquatico come Teti), riprende e varia i temi
omerici.
È organizzato secondo un elaborato calcolo degli strumenti espressivi, nella sua tipica sapienza
tecnica. L’amore è messo in rapporto con la creazione poetica, frequenti sono le invocazioni alle
muse, sperava che la sua fama giungesse fino agli immaginari “skiapodi”.
STESICORO
I suoi testi sembrano troppo lunghi per essere delle performance corali. Egli fu un citadoro, poeta
che eseguiva in assolo le proprie composizioni accompagnandosi con la cetra frazionando la
recitazione. Gli argomenti erano quelli dell’epos ma differiva dal rapsodo perché le sue
composizioni erano originali e tramandate in una stesura fissa.
Originario della magna grecia, visse tra il 620 e il550 a.C. e la sua opera era in 26 libri, coi singoli
canti distinti da titoli che ne precisavano l’argomento secondo un modulo epico.
Introduceva nella trama mitica originali variazioni che ebbero poi grande fortuna, l’atmosfera
dominante è un acceso pathos, il discorso sapientemente alternato da proposte pratiche.
Scrive in dorico, proprio della tradizione corale e della sua patria, con frequenti espressioni ioniche
di derivazione omerica. Presta particolare attenzione alla raffigurazione psicologica dei personaggi,
con lunghi discorsi che accentuano la drammaticità della situazione, ma appesantiscono.
Il suo sperimentalismo sta nel salvaguardare la continuità della grande tradizione epica unendovi le
influenze della nuova maniera.

IBICO
Come Stesicoro è della magna grecia, visse attorno alla metà del VI sec. a.C. e alla corte del tiranno
Policrate di Samo passò dalla prima maniera epica alla lirica soggettiva.
I suoi canti erano destinati a esecuzione solistica o corale, in dialetto dorico misto a forme epico-
ioniche. La sua opera era in sette libri, di cui restano circa 60 frammenti.
La sapienza dell’artificio costruttivo ha però un rigore stilistico stemperato nella monotonia e
nell’aggettivazione convenzionale. I due momenti più felici di Ibico sono due passi in cui lamenta la
possessione di amore, è una condanna inesorabile che si abbatte sul poeta vecchio e stanco.
Fa un ampio uso dell’aggettivo e l’enunciato si aggrega attorno a un nucleo centrale soggettivo con
immagini e paragoni prima e dopo di esso.

SIMONIDE
La subordinazione della poesia lirica all’occasione si tramuta in un vero e proprio mestiere, l’artista
è itinerante di città in città che vende il suo operato a un committente pubblico o privato dietro
compenso.
Simbolo dell’unità greca diventano in questo periodo i grandi giochi sportivi e interviene un nuovo
genere corale, l’epinicio, che celebra i vincitori.
Lo stile è più intellettuale e meno spontaneo, il tu a cui ci si rivolge è l’uomo come partecipe delle
esperienze che chiunque può incontrare nel corso della vita.
Nacque in una delle Cicladi intorno al 555 a.C., si trasferì ad Atene, viaggiò in Tessaglia e in Sicilia
e ad Agrigento morì intorno al 467 a.C.
Gli epinici erano divisi secondo il tipo di gara, restano circa 150 frammenti. In uno, arrivatoci
grazie a Platone, dice che la sorte umana è in balia degli dei, buono è l’uomo non fa
volontariamente azioni cattive, in favore di una morale relativistica che anticipa la sofistica.
Ma è capace anche di toni patetici, come in alcuni carmi, come quello su Danae in mare con Perseo
o quello per i caduti delle Termopili.
Il suo atteggiamento ragionativo si riflette nella definizione che dà della propria arte “la pittura è
poesia senza parole, la poesia è pittura che parla”.
Sebbene ionico, si adegua a un dialetto dorico misto a forme eoliche. Si concentra sulla parola come
canone supremo di bellezza e veicolo del ragionamento. La cura della forma lo salva da
un’attitudine puramente speculativa.

PINDARO
L’opera di Pindaro è un’architettura d’arte e di pensiero che non viene scalfita dal rifiuto di
adeguarsi all’attualità.
Nasce a Tebe attorno al 518 a.C., aristocratico, studia ad Atene, ad Agrigento incontra Simonide e
Bacchilide, si indigna di chi fa della poesia una professione.
La sua opera, in 17 libri, abbraccia di diversi generi della lirica corale, si salvano integralmente solo
gli epinici e circa 350 frammenti del resto. Anche il tema dell’amore è presente, quello per il
giovane Teosseno.
Nel complesso il tono è alto e maestoso. L’agonismo dei greci aveva come obiettivo l’esaltazione
del momento supremo in cui il vincitore dimostra la pienezza delle potenzialità umane che lo
assimilano ai grandi eroi del mito. L’epinicio pindarico celebra la gioia e la pienezza vitale di
quell’istante.
L’occasione consacra il canto e il canto consacra l’occasione. La vittoria è il segno tangibile della
presenza divina nelle cose umane, nell’immediata percezione dell’immagine, secondo l’attitudine
della grecia arcaica.
Si riconoscono tre linee tematiche nell’epinicio: l’elogio del vincitore e della sua stirpe con cui si
apre il carme, poi vi aggangia un episodio del patrimonio mitico (rievocandolo e basta, perché il
pubblico si presuppone conosca già il mito), e chiude con la gnome, una sentenza di carattere
religioso e morale.
La lingua di Pindaro si adegua alle convenzioni della lirica corale, base dorica con elementi epici ed
eolici con qualche traccia di beotico.
Lo stile è caratterizzato da una concretezza fantastica, l’idea diviene immagine e il periodo si dilata
nelle volute della musicalità, con un’armonia complessa e severa che predilige le espressioni
nominali.
La poesia ha la funzione di rivelare il divino, non investigarlo. A tale funzione è chiamato il poeta
per sua innata natura.
Nel valore supremo del momento estetico Pindaro riconquista la propria integrazione in un coerente
percorso storico.

BACCHILIDE
La critica del tempo lo confrontava con il contemporaneo Pindaro, che preferiva, e per questo la sua
opera è quasi completamente scomparsa. I due sono l’opposizione tra atteggiamento religioso e
laico.
L’opera di Bacchilide è la componente di una occasione festiva, la presenza della divinità è un
condizionamento della tradizione e basta.
Nasce a Ceo come Simonide, fa il poeta itinerante, arriva a siracusa dove scoppia la rivalità con
Pindaro. È ignoto l’anno della morte.
La sua opera era divisa in nove libri.
Nel suo epinicio è ancora più evidente la struttura tripartita, in cui il nucleo narrativo è la sezione
più importante. Presta una spiccata attenzione alla psicologia dei personaggi. Uno spazio ancora
maggiore alla narrazione è offerto dai ditirambi.
La lingua di Bacchilide è il dorico della lirica corale con riferimenti omerici, ma è ricco di nuovi
composti e nessi inusitati. L’epiteto ha funzione decorativa e tematica. Frequenti similitudini
fantasiose.
Si tiene lontano dal mistero della creazione letteraria, la sua arte non è frutto di un’arcana
ispirazione ma la tranquilla e sapiente elaborazione di una tecnica.
La bellezza è anche per lui il valore supremo, ma non come tramite di una verità metafisica, bensì
come qualità immanente del fenomeno artistico.

LA TRAGEDIA
Soggetto della tragedia è la caduta di un grande personaggio. Il motivo è lo stesso dell'epica, il mito,
ma dal punto di vista della comunicazione sviluppa mezzi del tutto nuovi: il mythos si fonde con
l'azione, cioè con la rappresentazione diretta. L'origine della tragedia è uno dei problemi irrisolti. La
fonte primaria di questo dibattito è la Poetica di Aristotele. Dall'etimologia stessa della parola
sarebbe il "canto del capro", riferimento al premio che in origine era consegnato al vincitore
dell'agone tragico (per l'appunto, un capretto), o al sacrificio di questo animale, sacro a Dioniso, che
spesso accompagnava le feste in onore del dio. Aristotele nella Poetica dice che la tragedia nasce
all'inizio dall'improvvisazione, "da coloro che intonano il ditirambo", un canto corale in onore di
Dioniso. Erano manifestazioni brevi di tono burlesco; poi il linguaggio si fa più grave e cambia
anche il metro, da tetrametro trocaico diventa trimetro giambico. Dal coro si stacca il capocoro
(corifeo), diventando un vero e proprio personaggio. Poi dialogo tra due corifei, e un risponditore,
nasce il dramma.
La tragedia inizia con un prologo (introduce il dramma); la parodo (entrata in scena del coro), le
pàrodoi (l'azione scenica si dispiega quindi attraverso tre o più episodi), intervallate dagli stasimi
(intermezzi in cui il coro commenta, illustra o analizza la situazione), si conclude con l'esodo.
Era un rito collettivo della pòlis. Si svolgeva durante un periodo sacro, in uno spazio consacrato (al
centro del teatro l'altare del dio). Il teatro ha la funzione di cassa di risonanza per le idee, i problemi
e la vita politica e culturale della città.
Le rappresentazioni ad Atene si svolgevano in occasione delle grandi Dionisie, con un agone
tragico, una gara tra tre poeti.

ESCHILO
Nacque intorno al 525 a.C. ad Eleusi, nobile famiglia, prese parte alle guerre persiane (490-480),
andò in Sicilia da Gerone, ottenne successo nei concorsi ateniesi, morì a Gela nel 456 a.C. Delle sue
novanta opere ne rimangono sette più qualche centinaio di frammenti indiretti.
Eschilo attribuiva grandissima importanza agli aspetti registici e scenografici della scena, i temi
sono quelli del destino di popoli ed eroi proiettati nella dimensione di significati universali.
Nel presente trovano spazio e significato il passato e il futuro, tramite il ricordo e la profezia.
Sebbene in una forma ancora primitiva, i suoi personaggi sono più di semplici funzioni e se ne
abbozza un’evoluzione psicologica.
Il coro imprime unità all’evento tragico, così come l’idea di fondo che pervade il dramma. Alla
vicenda è sottesa un’interpretazione esistenziale, manifestata appunto dal coro.
La realtà ha come base il mistero insondabile della divinità. La storia dell’uomo è la tensione volta a
svelarlo. Il linguaggio è ispirato da una inesausta creatività verbale, che forza all’estremo le
possibilità semantiche e sintattiche della lingua, il vocabolo precisa il proprio significato in
relazione a quelli che gli stanno intorno. L’impossibilità di far coincidere con la parola i significati
della realtà è portata sino alla rottura, con la sua estinzione e i suoi silenzi.
Grazie soprattutto alla metafora e all’immagine dà una raffigurazione realistica dell’universo e della
vita umana.
Il problema dei suoi drammi è l’ineluttabilità del destino e la responsabilità dell’uomo. L’operato
della divinità è diretto dalla giustizia. La consapevole accettazione del proprio destino libera dalla
condanna, è la conquista della dignità umana. La religiosità diventa carattere etico, la giustizia
divina diviene giustizia umana.

SOFOCLE
Nacque intorno al 496 a.C. a Colono, in una famiglia agiata, fu sempre tra i favoriti degli ateniesi
sia nei concorsi di drammaturgia che nella vita politica (fu stratego insieme a Pericle). Morì tra il
406 e il 405. Si sono salvate sette tragedie, è opinione generale che Aiace sia la più antica. Gli
alessandrini avevano 130 drammi di Sofocle. Si è salvato anche metà di un dramma satiresco.
Il suo teatro rappresenta un’immagine allegorica della condizione umana. Mirà all’essenzialità di
un’eroe che patisce sulla propria carne le sorti dell’umanità tutta.
Il ritmo è calcolato e incalzante, raramente il personaggio conosce un’evoluzione psicologica o un
contrasto interiore, il dramma è costruito in funzione dell’azione.
Sofocle evita riferimenti diretti al presente ma la crisi dell’epoca sul ruolo dell’uomo del mondo e
dell’individuo nella collettività emerge nel contrasto tra il singolo eroe e il coro. I due non riescono
a collaborare o a soffrire insieme, l’eroe è solo e al coro non resta che la meditazione sul destino.
L’eroe sofocleo è un escluso dalla comunità, si oppone allo stato.
Sofocle è maestro della parola poetica e c’è un equilibrio sovrano tra parola e metrica. Sofocle
sentiva come il mondo fosse percorso da forze prevalicanti e incomprensibili, e le traspone alle sue
opere, secondo la misura esclusiva della ragione. Nel dominio della forma è la rivincita dell’uomo
sulla desolazione della vita.
Gli eroi di sofocle più sono magnanimi più sono sventurati, vista la loro natura di uomini, in un
mondo di conflitti di forze rappresentate dagli dèi che operano la condanna umana. La diversità e
l’esclusione sono il tramite per il ritorno a una condizione umana che è così più piena e perfetta. La
meritano con la forza del proprio animo, rimasto fedele alla loro natura, nonostante tutto. Gli dèi
provvedono alla sorte dell’uomo predestinato, beatificandolo dopo averlo spinto oltre le soglie
dell’orrore e della disperazione.

EURIPIDE
Nacque intorno al 485 a.C., ed è tra i bersagli preferiti dei comici. In gioventù servì al culto di
Apollo Zosterio, fu il primo tra gli antichi a possedere una biblioteca privata e fu allievo dei sofisti
più in vista. Non fu amato dai suoi concittadini ateniesi. Verso la fine della sua vita si recò alla
corte di Macedonia e lì morì tra il 407 e il 406. Sofocle manifestò pubblicamente il proprio lutto nel
corso di un’occasione teatrale.
Euripide non risparmia critiche alle opinioni e agli atteggiamenti degli ateniesi nelle sue opere e
questo gli causa la loro diffidenza e avversione. Euripide non prese parte alla vita pubblica della
città, intellettuale solitario e sdegnoso degli interessi comuni. Ma tanto fu impopolare in vita quanto
glorificato dopo la morte.
Abbiamo dieci drammi su 92, più anche un dramma satiresco giunto integralmente.
È difficile individuare uno schema strutturale per la sua opera: parte da drammi ad azione unica,
poi a doppia azione sino a sviluppare strutture a pannello con scene concluse in se stesse attorno a
un comune nucleo tematico (come Troiane). È animato da un’incessante sperimentazione.
La struttura del dramma non si regge più sull’eroe sovrumano ma sul rispondersi delle azioni degli
uomini, espresso dal dialogo. Parallela alla funzione del prologo è quella del deus ex machina che si
limita a far rientrare la tragedia nel programma religioso ed agevola la conclusione.
Il patrimonio mitico poco si prestava e infatti attinge a spunti generali che sviluppa tramite
accidenti cui i protagonisti devono rispondere facendo ricorso alle loro prerogative umane che li
contrappongono con la personalità di altri uomini (marcato individualismo).
La parola è il livello privilegiato di questo scontro dialettico, l’argomentare è nitido e coerente, con
lessico del parlare quotidiano, sentenze definitive e icastiche, isola le parti corali estraendole quasi
dal fuoco dell’azione. Il canto scenico diventa metafora della funzione stessa della poesia, la
rasserenante verità ultima per sottrarsi alla precarietà dell’esistenza.
Il segno del suo pensiero è il dubbio, il rifiuto di ogni preconcetto esprimendo spesso opinioni
contrastanti. Nella dimensione teatrale esercita questa sperimentazione tecnica, il teatro attico è
scuola di vita e lui vi si muove a tentoni tra fatica e dubbi. Il suo coraggio intellettuale sta nel
paradosso di un ottimismo disperato: all’individuo deve essere concesso di scoprire la propria
dignità nell’autonoma realizzazione del suo destino ma non riesce a liberarsi del concetto della
debolezza e precarietà dell’uomo.

LA COMMEDIA
Nel 486 a.C. si ebbe l’introduzione ufficiale dei concorsi comici nelle feste dionisiache di Atene, il
primo vincitore fu Chionide. Si tratta di un tipo embrionale di commedia, dovuto all’iiniziativa dei
privati.
Secondo Aristotele essa trae origine dai canti fallici e in particolare dall’improvvisazione di coloro
che li guidavano. Erano eseguiti nelle “falloforie”, processioni per propiziare la fecondità, in cui si
teneva questo canto (komodìa ?) per dioniso fatto dai seguaci un po’alticci, licenzioso e scherzoso.
Ma c’è un’altra possibile spiegazione per il termine komodìa (?), dal dorico kome (villaggio).
Sembra infatti che in ambiente dorico vi siano i precedenti della commedia, con usi della campagna
in contrasto con quelli della città. Si trattava di scenette di argomento realistico e intonazione
comica, famose quelle di Megara.
La tragedia ha un elaborato schema drammatico e da esso la commedia attinge suggerimenti
fondamentali. L’elemento derisorio e osceno, l’attacco personale, erano l’aspetto tipico della poesia
giambica e perciò è possibile riconoscere nella poesia Archilochea e Ipponattea il modello della loro
legittimazione artistica. La retorica è palese nei discorsi argomentativi.
La commedia antica si riassume in Aristofane (e Menandro).
C’è un prologo di notevole ampiezza, recitato dai personaggi, segue l’entrata del coro (pàrodo).
Nelle scene che seguono si sviluppa l’azione del protagonista, il contrasto con altri personaggi o con
il coro stesso. Si ha quindi il confronto di opinioni nell’agone.
Parabasi, nel mezzo della vicenda la scena rimane vuota di attori e si sospende la finzione
drammaica: il coro si toglie il travestimento e sfila davanti al pubblico cantando un brano in sette
sezioni in cui esprime in prima persona con la voce dell’autore opinioni su argomenti politici,
sociali, culturali, letterari riferiti all’attualità.
Di solito la parabasi segue o precede l’agone. L’eroe riporta il successo e si hanno una serie di brevi
espisodi buffoneschi e l’esodo, una festosa processione in cui il coro celebra il trionfo del
protagonista.
Le maschere degli attori si ispiravano a una grottesca deformazione della fisionomia umana, i
personaggi erano spesso caricaturali di personalità dell’atene contemporanea. Compaiono in scena
uccelli, rane, nuvole, come allegorici segni della nostalgia per una perduta simbiosi con le forze
primigenie del cosmo. La commedia è infatti inventata dagli uomini per reagire all’artificio in cui
hanno forzato la loro vita.

ARISTOFANE
Nacque a Citadene nel 445 a.C., condizioni agiate, non partecipa alla politica attiva e le sue
opinioni vanno prese in relazione al teatro in cui vengono espresse: la satira deve per sua natura
opporsi al potere e denunciarne le degenerazioni. Vinse varie volte alle Lenee. Si conoscevano 44
drammi e ne sopravvivono per intero 11 più un migliaio di frammenti indiretti.
Ha un alto grado di compattezza, l’intreccio consiste infatti nella realizzazione di un progetto da
parte dell’eroe comico e nello strenuo operare con cui lo porta a compimento: si ha
l’insoddisfazione che stimola l’idea di base che fa da espediente all’idea del protagonista, idea
paradossale da cui sprigionano le situazioni buffe, coesiste serietà e comicità. Il progetto dell’eroe
parte da un’esperienza radicata nella realtà e si ha quindi fusione dei livelli reale e fantastico. L’eroe
è portavoce di polemiche, proposte e speranze. La sua arma è il riso, riduce i suoi avversari a
grottesche caricature. Ma il riso è anche in se stesso, è esplosione delle facoltà vitali nella sfera
della sessualità e gioia per il paradosso che diviene realtà.
L’eccezionalità dell’eroe trova consacrazione nell’apoteosi dell’esodo.
La forma comica è un elaborato calcolo che l’irresistibile forza di coinvolgimento del poeta
dissimula in spontaneità.
Il commediografo inventa le proprie trame e il linguaggio è un dialetto medio, il tessuto metrico ha
sempre nuove tonalità, esattezza, intelligenza ed eleganza caratterizzano la parola di Aristofane.
Tutto è retto dal gusto attico per la misura. Spazia da un lirismo che evoca la bellezza dell’universo
a una salacità senza veli e ignara di reticenze. Non c’è nulla di volgare però, le cose del corpo e del
sesso sono nominate con una schietta franchezza che è l’appropriazione ilare e spregiudicata della
vita in tutti i suoi aspetti.
L’attualità portava al confronto tra l’Atene vagheggiata dal poeta e lo sfacelo in cui si trovava, il
comico, con il ridicolo, è un immediato correttivo: la brama di evasione induce a creare un mondo
alla rovescia in cui il riso contesta le aberrazioni della società. La tragedia è il momento in cui
l’uomo soccombe, la commedia quello in cui l’uomo vince. Ma il trionfo è intriso di letizia è
disperazione: per vincere l’uomo deve rifugiarsi nell’utopia.
Nello scoramento del presente esiste pur sempre la parola poetica, il valore supremo che realizza il
regno di Dioniso. Nell’atto stesso di creare un cosmo fantastico e paradossale, rivendica la
sostanziale libertà e verità dell’arte. La commedia è la festa travolgente e assoluta che inventa la
propria realtà e in essa fonda la gioia del bello.

MENANDRO
Nacque a Cefisia attorno al 342 a.C., famiglia nobile e ricca, frequenta le scuole di filosofi ma non
partecipa alla vita pubblica di Atene. La sua vita ha i ritmi di un’indefessa produzione teatrale e
amore per le donne. Muore ad Atene nel 291 a.C.
Compose più di cento commedie ma arrivano a noi solo un migliaio di brevi frammenti. La sua
fortuna è data dal reimpiego dei suoi originali da parte dei comici latini. Nei concorsi ebbe successo
scarso, anche per la scomoda polemica sociale che portava nei suoi drammi.
È canonizzata la struttura della commedia in cinque atti suddivisi da intermezzi corali privi di un
testo appositamente composto. Si ha unità di luogo e tempo, gli attori sono tre.
Si hanno due tipi di intreccio: 1) la situazione iniziale tende a evolversi secondo i desideri di un
personaggio (o più) ma il tutto è ostacolato da un accidente, la trama è nel superamento di questo
ostacolo; 2) si parte da una situazione che dovrebbe essere definitiva ma si ha un equivoco che
rischia di rovinare tutto per il peggio, la trama è nel chiarire l’equivoco.
Il teatro ha la funzione di diletto, tanto maggiore è la gratificazione del pubblico quanto minore è lo
sforzo richiesto alla sua partecipazione.
La crisi nucleo della vicenda può essere interna ai personaggi (psicologica) o esterna (eventi
obiettivi che impediscono il naturale sviluppo della vicenda).
I ruoli tipici della commedia si trasformano in individui dotati ciascuno di proprie motivazioni
(individualismo dell’epoca). Il lieto fine in qualità di scioglimento di uno stato di ignoranza afferma
in chiave sia reale che metaforica la superiore validità dell’atto conoscitivo, la conquista morale di
una consapevolezza di valori.
La polis è ora cosmopolita e la lingua è quella dell’ambiente medio in cui si ambientano le trame.
Riduce la distanza linguistica tra la finzione scenica e la consuetudine del pubblico. I moti del
pensiero sono la motivazione dell’azione drammatica e la parola li rivela a sé e agli altri. Trovano
uguale parte il dolore, il riso e la meditazione.
La funzione primaria della sua commedia è intrattenere il pubblico, non indottrinarlo. Tuttavia vi
sottende un’interpretazione dell’esistenza sebbene non riesca a darvi risposta univoca.
Molti dei suoi personaggi sono isolati in un’affranta incomunicabilità, in cui si esprime il dolore
della condizione umana. La commedia rivela il suo carattere di utopia: è sia critica del presente che
constatazione dell’impossibilità di trasformarlo dall’interno. Il rimedio è nella solidarietà tra gli
uomini e nella comprensione della loro comune natura.

LA POESIA IN ETà ELLENISTICA


CALLIMACO
Nacque tra il 310 e il 300 a Cirene, si trasferì presto in Alessandria alla corte di Tolemeo Filadelfo,
morto lui sale al trono il figlio. Arrivò in età avanzata ma non si sa l’anno della sua morte.
Nella Biblioteca ebbe incarico di catalogare e sistemare l’enorme mole di opere antiche che vi si
trovavano, i suoi risultati sono nei 120 libri delle Tavole. Vi sono poi oltre 800 volumi tutti perduti
che trattavano una grande varietà di temi, particolare interesse per la lessicografia. Più limitata la
produzione poetica, mirava alla brevità e alla cura assidua e minuziosa della forma. Si sono
conservati sei Inni e circa 60 Epigrammi. Più altri come i quattro libri degli Aitia, elegie.
Faceva un audace e tenace sperimentalismo, calcolata sapienza verbale, articolazione del racconto,
umorismo intelligente e raffinato. Ma distaccato rispetto alla sua stessa materia.
Ma egli dissimula solamente le emozioni, la cura quasi ossessiva del dettaglio è un nuovo modo di
intendere la realtà. Callimaco ebbe influenza enorme.

APOLLONIO RODIO
Confrontato da sempre con Callimaco, è possibile rivederne i punti di contatto. Anche lui estrema
minuziosità e raffinatezza nell’opera, scelte tematiche di veste linguistica e rara erudizione, ricerca
dei fenomeni singolari. Condivide anche lui lo spirito del tempo: carattere individuale
dell’esperienza letteraria e sua realizzazione mediante un testo scritto.
Ma lui cerca un compromesso con la tradizione, riportando alla luce il poema epico. È una sfida
nobile e seria.
L’opposizione di fondo con Callimaco emerge nel tono: Callimaco prende le distanze dall’oggetto
della propria poesia, Apollonio si immerge totalmente nel suo progetto e lo svolge senza infrazioni
né sorrisi.
Nasce in Egitto intorno al 290 a.C., direttore della Biblioteca sotto il Filadelfo e precettore del figlio
Evergete. Quando il Filadelfo muore perde il posto (influenza di Callimaco). Allora si ritira a Rodi e
vi trascorre l’ultima fase della sua vita (ecco perché Rodio).
Di suo abbiamo vari titoli e pochi frammenti, la sua opera principale furono le Argonautiche, poema
epico in 4 libri, giunto a noi integralmente. Fece una prima stesura ad Alessandria e una seconda a
Rodi (si notano variazioni e influenze tra lui e Callimaco: Callimaco richiama le Argonautiche in
alcuni passi dei suoi Inni, l’elegia degli Argonauti nel libro I degli Aitia sembra anteriore ad
Apollonio).
Le Argonautiche non hanno avuto iniziale fortuna ma recentemente si è cambiata idea. La
dimensione superficiale del racconto del poema è di una linearità assoluta, ma c’è sotto una
tridimensionalità: il passato del tempo della vicenda, il presente in cui si svolgono gli eventi, il
futuro delle predizioni. Raccorda il periodo del mito con quello della storia, e il dato erudito trova
legittimazione nella pretesa di verità, con una continuità della civiltà ellenica dalle origini al
problematico presente.
Alterna narrazione e dialoghi in cui si hanno i motivi più artistici dell’opera, emerge l’importanza
della storia di Medea nelle sue intenzioni, unico polo in contrasto con la rinuncia a una dimensione
emozionale in tutte le altre parti.
Si ha la storia di un amore visto non con l’assolutezza temporale di una passione esclusiva, ma la
sua progressione inesorabile dalla contemplazione estatica del primo incontro sino al ricordo finale.
Sottinteso il presagio dell’atroce conclusione, Medea abbandonata e assassina dei figli. Di fronte a
lei Giasone è inconsistente, l’antieroe, segno di debolezza. Giasone è l’immagine dell’uomo nuovo,
smarrito in un mondo che ignora ogni comunanza di ideali e impone all’individuo di risolvere con
le proprie deboli forze il rapporto tra l’atteggiamento morale e la necessità di sopravvivere.
È un equilibrio tra tradizione e innovazione. Si ispira su larga scala ad Omero ma evita le formule
fisse e le similitudini non sono chiuse in quadri a sé stanti ma collegate finemente alla situazione
(spesso psicologica) sino talvolta a che queste blocchino l’azione nell’evocazione di ambienti e
situazioni. La lingua è omerica ma privilegia le forme rare.
Preso per se stesso è un poeta autentico, ma nel suo cercare un nuovo modo per l’epos rimane
stretto tra Omero e Virgilio ed è sicuramente inferiore a entrambi.

TEOCRITO
Nasce tra il 310 e il 300 a.C., Siracusa, ebbe rapporti con/e si trasferì ad Alessandria e visitò l’isola
di Cos, ignoto l’anno di morte. Ci restano 30 carmi e 25 Epigrammi.
I suoi carmi sono variegati: encomi, poemetti, mimi, idilli (breve componimento di carattere
descrittivo?). Lo caratterizza un’intensa sperimentazione formale, il metro è l’esametro epico, ma in
tre carmi usa metri lirici e dialetto eolico (negli altri ionico e dorico, rari elementi eolici).
Tra i poeti alessandrini Teocrito è l’erede della tendenza ellenica a fondere immaginazione e realtà,
con calcolata ed elegante mistificazione. La sua maestria con la parola è al servizio di un intento
artistico che non ha più la forza per affrontare i grandi temi dell’esistenza: i suoi personaggi sono
umili ma non sfruttati ed oppressi, la polemica e la solidarietà mancano al loro panorama mentale,
vivono una vita individuale, il tema sviluppato è l’amore nella sua durata e nelle sue metamorfosi.
Ma gli è negato l’appagamento della commedia borghese, al massimo gli è concessa speranza. Più
spesso finisce con la disillusione e la frustrazione. Teocrito fugge dal sentimentalismo e dalla
commiserazione tramite un’analisi puntata sull’autenticità dei fatti interiori.
La sua poesia è ispirazione verso un altrove irreale dai connotati dell’esperienza sensibile, con
un’apparenza quindi della verità. È equilibrio tra concretezza della parola e forza fantastica del
pensiero. Nasce un’arte della realtà, un’illusione di realtà, con alternanza di partecipazione e
distacco abilmente dissimulati ed accentuati. È un paradosso, ma se non lo fosse sarebbe solo
retorica. Questo era il rischio del genere bucolico che trovò buone continuazioni nel romanzo di
Longo Sofista e sommo esito nelle Bucoliche di Virgilio.

L’EPIGRAMMA
Le origini a noi note dell’epigramma coincidono con l’introduzione della scrittura alfabetica in
Grecia. Ad esempio la Coppa di Nestore, VIII sec. a.C., a Pitecusa, con un trimetro giambico e due
esametri. L’epigramma era usato per dare memoria della persona ricordata o fare una dedica,
comunque funzione pratica con solo un embrionale progetto artistico. A un certo punto si iniziò a
trascrivere i testi che apparivano più meritevoli e si hanno così attribuzioni ad Archiloco, Saffo,
Alceo. Queste raccolte sono l’ingresso dell’epigramma in letteratura ma ancora nel V secolo ha
funzione solo celebrativa. Attribuzione di testi a Simonide. Nel IV secolo connotazione sempre più
letteraria, vengono attribuiti alcuni a Platone. Con l’ellenismo definitiva consacrazione artistica
dell’epigramma, sede nel libro, l’uso pratico è pura simulazione (finto pretesto). Accanto al ricordo
e alla celebrazione si afferma negli epigrammi l’amore, l’epigramma è la forma artistica dell’eros
alessandrino: in pochi versi prepara e consuma lo scatto finale, come l’incontro amoroso,
accelerazione-attimo di beatitudine che solleva l’uomo oltre la sua finitezza-subito nuovo
annullamento. Per questo negli epigrammi emerge un sentimento inconsueto ai Greci, la malinconia.
Continuerà fino alla letteratura bizantina.
Spesso i poeti riprendono temi delle loro opere perché l’importante non è dire qualcosa di nuovo ma
dirlo in una forma sempre più raffinata (virtuosismo formale, lessico dotto e inconsueto, arguto
effetto sorpresa, distico elegiaco, effetti di simmetria e opposizione). I grandi poeti hanno
comunque una loro individuale cifra stilistica. L’epigramma è il momento definitivo in cui il vigore
della fantasia affronta il confronto con la realtà.
I poeti dorici prediligono l’ambiente della natura e un minuto realismo di situazioni e dettagli, in
forma spesso obiettiva.
I poeti ionici preferiscono un marcato colorito soggettivo, che si esprime nella propensione per la
tematica erotica e simposiaca, ambientata nelle consuetudini della vita cittadina.

L’ANTOLOGIA PALATINA
A noi è giunto il meglio della produzione epigrammatica in gran parte per questo manoscritto unico,
una monumentale antologia scritta intorno alla metà del XI sec. d.C. (Palatina perché fu scoperta a
inizio Seicento nella Biblioteca Palatina di Heidelberg). È divisa in 15 libri in cui i componimenti
sono aggregati intorno a nuclei fondamentali. Si hanno sporadiche tracce di un’originaria
suddivisione per autori e temi. Qualche secolo dopo, intorno al 1300, il monaco-filologo bizantino
Planude raccolse un’altra antologia, l’Antologia Planudea, con 388 epigrammi assenti nella Palatina.
La prima raccolta di epigrammi di cui si abbia decente conoscenza è la Corona di Melagro (I sec.
a.C.). Il suo esempio fu seguito da Filippo di Tessalonica con un’altra antologia nel I sec. d.C. cui
seguirono altre antologie, a volte parziali. Particolare rilievo ebbe l’antologia formata a inizio
dell’età bizantina (VI secolo) da Agatia, Ciclo.
Tutte queste opere (in particolare quelle di Melagro, Filippo e Agatia) formarono l’ossatura
dell’antologia di Costantino Cefala, che costituì il precedente immediato della Palatina (posteriore
di circa un secolo) che ne riprende lo schema, gran parte del materiale e ne aggiunge altre raccolte.

ANITE
Prima età alessandrina, Anite di Tegea, 21 epigrammi in dorico, compianto della morte prematura
di giovani donne, descrizione di paesaggi, fittizi epitaffi per animali ispirati dai bambini che ne
piangono la morte.

LEONIDA
Prima età alessandrina, Leonida di Taranto (tra il 320 e il 260), un centinaio di epigrammi in dorico,
epitaffio per la propria sepoltura, miseria (elemento della sua vita), dediche votive, iscrizioni
funerarie.

ASCLEPIADE
Prima età alessandrina, Asclepiade di Samo (primi decenni del III secolo), 45 epigrammi, motivi
funerari, elogiativi, letterari, ma soprattutto simposio e amore, ironia, tenerezza, voluttà, malinconia
dell’attimo che passa. Stile senza artifici o compiacimenti eruditi, perfetta essenzialità e armonia.

POSIDIPPO
Prima età alessandrina, Posidippo di Pella in Macedonia, 20 epigrammi, estrema sapienza formale.

MELAGRO
Ellenismo maturo, Melagro di Gadara in Palestina (130-60 a.C.), filosofia cinica, raccolta di poesie
e prose satiriche (a lui si deve la Corona), suoi 130 epigrammi, tema è l’amore, piacere dei sensi e
schermaglia galante danno l’espressione di individualità emarginata, ispirato da due donne di nome
Zenofila ed Eliodora.

PAOLO SILENZIARIO
Prima età bizantina, Paolo Silenziario, dignitario della corte giustinianea, 80 epigrammi, poeta
d’amore, molte figure femminili che ripropongono la grazia di Asclepiade e Melagro, fragilità
stessa del piacere, nostalgia della memoria d’amore.

AGATIA
Prima età bizantina, Agatia come Paolo Silenziario fu autore di opere di altri generi, poco meno di
100 epigrammi, tematiche tradizionali ma trattate con multiforme personalità.

LA PROSA
L’ORATORIA
LISIA
La sua eloquenza è in gran parte giudiziaria, lo stile è contraddistinto da una sobria e calcolata
eleganza.
Lisia nasce attorno al 445 a.c. a Siracusa e si recò per lungo tempo nella colonia ateniese di Turii in
Magna Grecia. Dopo la disastrosa spedizione in Sicilia del 415 Lisia tornò ad atene ma l’avvento al
potere dei Trenta nel 404 lo vide sottoposto ad accusa dalla tirannide oligarchica che voleva
impossessarsi del suo patrimonio e di quello del fratello Polemarco. Il fratello fu condannato, lui
riuscì a fuggire a Megara. Restaurata la democrazia nel 403 tornò ad Atene ma non ottenne la
restituzione del patrimonio. Iniziò quindi l’attività di logografo e morì poco dopo il 380.
Produsse 425 orazioni e ne abbiamo una 30ina integrali più numerosi frammenti. Compose anche
per altri campi dell’oratoria oltre al giudiziario. Al genere epidittico appartengono l’Olimpicoe
l’epitaffio per i caduti della guerra di Corinto (forse composto perché lo recitasse un altro o forse
solo come esercitazione). Di carattere retorico l’Erotico che Platone riporta nel Fedro.
È caratterizzato da stringente puntualità dell’argomentazione giuridica, chiarezza strutturale, varietà
dei toni espressivi e soprattutto energia. Il discorso era riferito in prima persona dal committente e
dunque ogni dettaglio doveva rispondere alla personalità di questo. La maestria somma di Lisia
risiede appunto in questa “etopea”, capacità di immedesimazione.
Aveva inoltre grande capacità di narratore, sapeva mettere in scena situazioni altamente
drammatiche o spassose.
Rispetto alla precedente retorica giudiziaria a noi nota attraverso Antifonte, ogni singola causa
risulta unica nel suo genere, sotto un raffinato calcolo stilistico.
Il dialetto è un attico in cui fluiscono fatti e pensieri senza sforzo né artificio.

ISOCRATE
La sua attenzione per i valori della parola è il sintomo di una situazione complessa e precaria. La
civiltà greca del IV secolo vive un periodo di profonda disarmonia, con incertezza della situazione
politica, complessità sempre crescente dei rapporti sociali, crisi di valori prodotta dal tramonto della
polis. La certezza della parola composta secondo un codice di armonia vuole essere un recupero di
razionalità. L’arte della parola è il fondamento stesso dell’educazione e della civiltà. Isocrate nga
all’uomo la possibilità della conoscenza assoluta, non c’è una verità ultima, la sapienza risiede nella
capacità di cogliere l’occasione sul fondamento della giusta opinione. L’oratoria è quindi essenziale,
la giusta maniera di esprimersi conduce per forza al giusto modo di agire.
Il suo obiettivo è una “filosofia” che ammaestri a conoscere le esigenze della vita e adattarsi
pragmaticamente ad esse.
Visse dal 436 al 338, famiglia benestante, la guerra peloponnesiaca annienta il suo patrimonio e si
ritrova a fare il logografo. Attorno al 390 riesce ad aprire una scuola di insegnamento a carattere
principalmente retorico, con grandi discorsi epidittici.
A noi sono giunte circa 20 orazioni e 9 epistole. Nelle orazioni principali Isocrate svolgeva i grandi
temi della politica ateniese e dell’intera Grecia. In campo costituzionale fu sostenitore della
democrazia moderata. È comunque nella politica estera che si concentrano i suoi interessi. Nel IV
secolo la realtà delle polis era tramontata e il panellenismo isocrateo suggeriva un rimedio: mette a
nudo il frazionamento politico che paralizza le forze della Grecia e anticipa l’unificazione che sarà
realizzata in seguito da Alessandro.
L’attenzione alle situazioni contribuisce a spiegare le contraddizioni e le oscillazioni alle quali di
volta in volta si trovarono esposte le proposte politiche di Isocrate. Fu tuttavia sempre persuaso
dell’intrinseca e perenne validità dei princìpi che la cultura ateniese e greca avevano prodotto.
Intuisce la dinamica dei tempi ma allo stesso tempo irrigidisce la sua intuizione entro schemi
verbali che non hanno abbastanza duttilità per produrre nuovi fermenti, da qui il suo senso di
freddezza e monotonia che lo appesantisce. Ebbe comunque enorme influenza.

DEMOSTENE
Demostene è rivolto al passato, alla difesa dell’autonomia della polis e nella tenace fiducia che si
potesse sperare in una rinnovata grandezza di Atene. Il suo errore politico è compensato da una
personale tensione dello spirito, l’eterna utopia di idealizzare il passato e arrestare sotto la sua
insegna il corso della storia.
Restano una 60ina di sue orazioni. Nato ad atene nel 384, famiglia di elevata condizione economica,
si cimentò presto nell’eloquenza giudiziaria in una serie di processi per recuperare parte del
patrimonio familiare. In seguito continuò a comporre discorsi giudiziari per conto d’altri ed emerge
la sua capacità di rendere con verità il carattere dei personaggi, come Lisia, e vi unisce una
personale efficacia dell’espressione icastica e persuasiva, con limpida evidenza dell’argomentazione.
Atene si trovava in una grave crisi economica e Demostene capiva il rischio che Filippo
rappresentava per l’autonomia della polis e da qui negli anni troveranno spunto contro il sovrano
macedone la Prima, Seconda, Terza e Quarta Filippica. La sua inflessibile azione portò alla
formazione di una imponente lega di stati greci che mosse guerra a Filippo ma fu travolta nel
disastro di Cheronea nel 338. Ctesifonte propose di assegnare comunque nuovamente la corona
d’oro a Demostene per i suoi meriti verso la patria ma Eschine si oppose accusandolo di illegalità e
vi fu un processo, occasione del discorso capolavoro di Demostene “Per la corona”. La storia aveva
dato ragione ad Eschine, ma Demostene rovescia la bruta ragione dei fatti con la forza di una
convinzione ideale: non importa la sconfitta, Atene non poteva sottrarsi all’impegno di lottare per la
libertà. L’emozione che pervade il discorso si trasmise al popolo, consapevole di aver partecipato
per un’ultima volta alla grandezza di Atene. Demostene vinse.
Gli ultimi anni della sua vita però lo vedono coinvolto in un losco affare di corruzione: Arpalo,
tesoriere di Alessandro, si rifugiò ad Atene con un ingente tesoro sottratto al re e lui appare come
uno dei politici che avevano agevolato la sua fuga.
La sua attività letteraria è comunque al di sopra di ogni critica: sollevò l’oratoria a livello della
poesia. Predilige l’espressione ardita e travolgente, fitta di metafore e iperboli, senza artificio o
calcolo ma nenache completamente spontanea. Il pathos diventa parole impregnate di emozione ed
energia intellettuale. Demostene non riuscì a riportare in vita la Grecia classica tramontante ma ne
espresse il significato più alto: unità di azione, pensiero e parola.

LA FILOSOFIA
PLATONE
Nacque ad Atene nel 427 a.C. e attorno ai 20 anni avvenne l’incontro con Socrate. La politica fu per
lui rilevante quanto deludente: dopo il primo disinganno dei Trenta, la restaurazione della
democrazia gli portò il dolore della condanna di Socrate. Dopo la morte di Socrate andò a Megara,
prestò servizio nella campagna di Corinto, in Magna Grecia venne a contatto con gli ambienti
pitagorici. Tornato in patria fondò una scuola, l’accademia, dove avrebbe trascorso il resto della sua
vita tra insegnamento e attività letteraria. Si allontanò solo per due viaggi in sicilia, nella speranza
di fondare uno stato filosofico. Morì nel 347.
Alla base del suo pensiero stava l’indagine dei concetti come fondamento della verità. I concetti si
lasciano comprende soltanto quando sono sottratti all’infinita mutevolezza del divenire. Ciò accade
solamente a condizione che l’uomo li ricerchi in se stesso, ma l’uomo non può rintracciare in se
stesso null’altro che una reminescenza preesistente alla propria esperienza terrena: esiste dunque un
mondo in cui egli ha contemplato queste forme assolute non come prodotti della logica astratta, ma
come effettive realtà, le Idee. Al loro vertice sta l’Idea del Bene a cui deve tendere l’anima umana.
Anche l’anima dell’uomo è immortale, attratta verso le Idee dalla forza dell’amore, impulso verso il
bello in tutte le sue forme.
Con l’aspirazione a collocare in una preminenza assoluta la dimensione estetica, la difformità del
fenomeno è intesa come impura copia di una realtà ideale che è invece perfetta e con la ripulsa della
caducità della morte attraverso l’immortalità dell’anima che sfugge ad essa, l’uomo realizza la sua
intrinseca dignità sia nella consapevole accettazione della giustizia come norma di vita, sia nella
ricerca del sapere come obiettivo della propria vita intellettuale.
Platone afferma che lo scopo dello stato è il bene di tutti i cittadini. Nella scala più altra del suo
stato ideale stanno i custodi, al cui interno i governanti. Sono i più dotati, infatti, dopo aver seguito
un corso speciale di studi culminante con la scienza perfetta, la dialettica. Governeranno la
collettività come devoti seguaci dell’idea di giustizia e dello stato. Il filosofo al governo è il
dominio della ragione sulla terra. Platone sembra essersi preoccupato di conciliare le esigenze
dell’uomo e dello stato in modo che la libertà individuale consista nello spontaneo riconoscimento
dell’autorità collettiva, unica garanzia del raggiungimento del bene.
La Repubblica introduce anche il divieto della poesia e di ogni altra arte poiché è imitazione della
realtà sensibile che è a sua volta imitazione imperfetta delle Idee. L’opera artistica è solo un
ulteriore allontanamento e traviamento dalla strada maestra della verità. Nelle Leggi attenuerà
questa condanna. Egli volle essere filosofo fino in fondo, sforzandosi di rinnegare in nome di una
coerenza sistematica quell’inclinazione alla letteratura come arte che sentiva urgere dentro di sé. Da
qui la supremazia della parola ‘parlata’, unica depositaria della natura intrinseca del pensiero.
Platone è un artista sommo della parola. La sua attitudine creativa si esalta già nella scelta della
forma del dialogo, forma spontanea e perfetta per il tipo di indagine speculativa proprio di Platone
come di Socrate, la dialettica. Il dialogo è organizzato in forma drammatica, un dialogo secondario
inquadra a guisa di cornice quello fondamentale (es. convito di Agatone nel Simposio).
L’ambientazione non va intesa come puramente decorativa e statica, vi sono gli avvenimenti che si
riflettono sul dialogo, messi in atto dai personaggi con una vivida verità umana. Su tutti ovviamente
emerge Socrate con inflessibile lucidità intellettuale, ironia, fiducia che valga la pena di esistere per
dare forma alla dignità dell’uomo. Accanto a lui, chi lo ha compreso e amato.
La poesia di Platone è nei cosiddetti miti, parabole che usava per spiegare la sua dottrina (il mondo
iperuranio, la caverna, l’esperienza ultraterrena di Er, il giudizio delle anime).
Usa un attico di straordinaria purezza e la difficile scorrevolezza è inevitabile per la complessità
stessa del pensiero.

ARISTOTELE
Nacque nel 384 a Stagiro, nel 367 andò ad Atene per studiare all’accademia di Platone e vi rimase
per 20 anni, fino alla morte del maestro. Si trasferì ad Asso nella Troade e nella scuola lì fondata
iniziò il suo insegnamento autonomo, sposò Pizia. Il sogno di uno stato filosofico durò poco, nel
345 il parente di Pizia, Ermia, fu catturato e messo a morte dai persiani, la comunità di Asso dovette
sciogliersi. Con l’allievo Teofrasto si recò a Lesbo. Nel 343 fu scelto come precettore del giovane
Alessandro. Nel 335 tornò ad Atene e fondò una propria scuola, poi detta Peripato, presso il
santuario di Apollo Liceo (uoho il liceo!). Quando nel 323 la morte di Alessandro causò un moto
anti macedonico il filosofo fu coinvolto e, accusato di empietà, si rifugiò a Calcide “per impedire
agli ateniesi di peccare una seconda volta contro la filofia”. Morì a Calcide nel 322.
Col suo sistema filosofico volle superare la separazione posta da Platone tra Idee universali e
mondo sensibile. Oggetto della scienza è l’universale che non esprime un essere ma una forma
dell’essere. Esso è dunque presente nell’individuo concreto e determinato come “forma” immanente.
Il movimento ha il proponimento di uno scopo, si determina così una catena di cause in quattro
gradi (materiale, formale, efficiente, finale).
Il fine ultimo che si attua nel mondo è l’Essere supremo, dio, che è anche causa del movimento, il
primo motore necessariamente immobile. Esso è atto puro in quanto privo di potenza, forma non
partecipe della materia. Come tale è pensiero, pensiero di pensiero. Non interviene direttamente nel
mondo, la spiegazione del reale deve fondarsi du princìpi autonomi.
Questo spiega l’attenzione per le scienze naturali.
Per Aristotele, dell’anima dopo la morte sopravvive solo la parte intellettiva.
Scopo della politica è realizzare il bene nella vita della comunità, coincide con il bene
dell’individuo, in quanto l’uomo è “animale poltico”, portato a vivere nella società. Esistono tre
princìpi fondamentali di governo (monarchia, aristocrazia, democrazia) cui corrispondono tre fome
di rispettivi eccessi in cui possono degenerare (tirannide, oligarchia, demagogia).
La Poetica di Aristotele è il primo attestato di un’indagine direttamente rivolta alla formulazione di
un’estetica e di una critica letteraria. Il testo aristotelico è in prima istanza storico e classificatorio,
oltre che concettuale. La Poetica vuole abbracciare in una sorta di enciclopedia tutto il sapere e le
attività dell’uomo, sorretta da un’originalità potente e geniale.
L’opera era formata da due libri, a noi è giunto solo il primo. Il tema della parte rimasta è la
tragedia, l’altro trattava quindi della commedia. Aristotele privilegia la letteratura teatrale per vari
motivi, un po’ è l’influenza ateniese che vedeva il teatro come massima gloria letteraria della città,
poi tragedia e commedia erano frequentemente ancora rappresentate, e fu sempre attratto dalla
possibilità di confrontare la sua teoria con l’esperienza pratica. Inoltre era interessato alla psicologia
della ricezione artistica, che nel teatro è semplice da osservare. Ma la ragione prima è il carattere di
mimesi che il teatro per propria natura riveste. La facoltà e l’atto di imitare la realtà sono
prerogative della natura umana, l’effetto della tragedia è una ‘catarsi’ della pietà e dell’orrore, il
deflusso liberatorio di tali passioni è il piacere della tragedia.
La sofferta e paradossale negazione platonica dell’arte è così superata.
I criteri di giudizio tendono a collocarsi all’interno dei singoli drammi, non è compito del poeta
raffigurare ciò che avviene nella realtà ma esprimere ciò che è possibile secondo la verosimiglianza
o la necessità. Trasforma l’arte da una funzione di insegnamento morale a forma di conoscenza.
È al tempo stesso innovatore e conservatore: il suo sistema è originale e introduce temi, metodi ed
elementi già noti ma lo spirito è quello che aveva condotto la civiltà greca ai suoi fasti.

LA STORIOGRAFIA
ERODOTO
Nasce intorno al 484 a.C., la sua patria è Alicarnasso. Viaggiò molto. Sappiamo che diede
pubbliche letture di sezioni della sua opera ad Atene, e che ebbe particolari contatti con l’ambiente
di intellettuali raccolto intorno a Pericle.
Allo scontro fra Greci e Persiani è dedicata non più che la seconda metà delle Storie. Quello che
precede è una serie di logoi relativi all’impero persiano e ai popoli con cui venne in contatto. È
un’anomalia strutturale, un indizio che forse il progetto originario prevedesse una serie di trattazioni
indipendenti e che solo in un secondo momento l’esperienza dell’Atene periclea lo avrebbe indotto
a riconoscere l’impero di Persia come punto focale del suo racconto, impero con un inarrestabile
sviluppo espansionistico ignaro di giustizia e misura, da cui dipenderà il suo fatale crollo. Lavora
alla sua opera sino alla morte.
Alle spalle di erodoto non esiste storiografia. Decide di vagliare la tradizione secondo i parametri
della razionalità, ponendo questo come principio del secondo momento della sua ricerca. Il primo
momento è la raccolta di materiale documentario. Il suo obiettivo non è la verità ma la realtà. La
verità non ammette scarti, è assoluta; la realtà è multiforme e sfaccettata. Accade così che lui non sa
essere imparziale. Sebbene la Persia è il centro focale del racconto, rimane sempre la potenza che
volle distruggere i valori su cui si reggeva il mondo greco.
Erodoto non ha precedenti a cui rifarsi. Da ciò è indotto a scegliere come criterio di base il controllo
personale. La sua fonte primaria è ciò che egli stesso ha visto e appreso direttamente, percorrendo il
mondo conosciuto e chiedendo informazioni e spiegazioni ai testimoni.
Sui dati raccolti Erodoto effettua la valutazione critica imprescindibile della storiografia. Tuttavia
l’elemento favoloso, paradossale, soprannaturale, trova ampio spazio nelle Storie e non si sente
obbligato a negargli fede in modo esplicito. È una situazione per certi versi contraddittoria in cui
giocano vari fattori come paesi di lingua straniera con interpreti poco affidabili, differenza di
strutture mentali e linguistiche, scrupolo di non rinnegare il sistema di credenze. Ha comunque un
senso profondamente unitario dell’accadere storico.
L’esistenza di un ordine cosmico è la convinzione essenziale delle Storie. In tale meccanismo la
storia si configura come un’immane tragedia o una serie di tragedie. Il suo corso è indirizzato da un
doppio ordine di cause: da una parte il fato e gli dèi, dall’altra le azioni degli uomini. Si tratta di
cause distinte ma indissolubilmente connesse tra loro. All’uomo è celato il senso del suo destino ma
trova riscatto nella fatalità. La storiografia colloca il significato della natura umana nella libertà e le
Storie vogliono ammaestrare il pubblico a tendere verso di essa, che consentì alla Grecia di
differenziarsi dal mondo barbarico e sconfiggerlo.
Tragedia ed epos furono i due generi che lo influenzarono cospicuamente.

TUCIDIDE
Nasce intorno al 460 in una famiglia aristocratica, ma non si sa molto della sua vita.
L’età lirica aveva scoperto l’individuo, ora si identificano, nei comportamenti individuali, le
costanti problematiche e reali che regolano l’agire umano. Tucidide conduce questa analisi sulla
dimensione della politica e della storia. Spiega la storia attraverso la natura umana e comprende
l’uomo attraverso il suo agire nella storia. Tucidide è convinto che la sua opera debba rimanere
come possesso per il futuro ma non come ammaestramento morale (diverso da Erodoto), e neanche
come strumento infallibile di previsione. La storia è indispensabile per riconoscere il meccanismo
delle forze che producono gli avvenimenti umani e per individuare certi caratteri permanenti, unica
possibilità di conoscere i veri nessi della realtà nella misura pertinente all’uomo.
Risente dell’ambiente sofistico. Per quanto l’uomo comprenda e tenti di realizzare i propri progetti,
non ha la certezza del successo. La tragedia pone tale limite nel volere divino. Tucidide la risolve
dicendo che alla natura umana è intrinseco il rischio dell’errore, il limite dell’insuccesso è dato da
un abbaglio dell’individuo.
Accade raramente che Tucidide esprima il proprio giudizio personale ma è sotteso come alta
meditazione politica ed etica al racconto della tragica esperienza della guerra. Pericle rappresenta
per lui il modello dell’uomo di stato ma rifiuta di affrontare un discorso sulla forma ideale del
governo. Le Storie esprimono un senso tragico dell’esistenza, la hybris e il crollo che ne consegue,
l’orgoglio dell’intelligenza e della volontà e la sua frustrazione nell’impatto con qualcosa che si
sottrae al controllo dell’uomo, la patologia dell’orrore e della paura, l’eccesso della violenza e la
consapevole affermazione della dignità umana sono voci di un’epoca che dalla tragedia aveva
appreso a interrogarsi sul mistero della natura dell’uomo e del suo destino.
Nel racconto si aprono alcuni episodi di più ampio e concluso sviluppo e di accentuato impegno
concettuale ed artistico, episodi la cui funzione è enucleare momenti e aspetti cruciali della guerra.
In questi sviluppi di primo piano si hanno sia descrizioni di fasi belliche o eventi della vita politica,
sia discorsi isolati in una calcolata trama di allusioni e di rimandi interni che conferisce anche a fatti
in sé poco rilevanti un significato che li inquadra nella dimensione vigorosamente unitaria
dell’opera. La sua dizione è spesso intricata e impervia perché cerca di rendere tutte le valenze e
implicazioni della realtà. Valorizza soprattutto il meccanismo dell’antitesi, spesso usa l’irregolarità
della struttura sintattica.

SENOFONTE
Nasce ad Atene attorno al 430 da famiglia di alta condizione sociale. Nel 401 si aggrega al corpo di
mercenari greci che Ciro aveva raccolto per detronizzare il fratello Artaserse II, re di Persia.
Partecipò per stendere un resoconto ufficiale dell’impresa ma a Cunassa Ciro cadde e i capi
dell’esrcito furono uccisi. Seonofonte assunse allora la guida dei diecimila mercenari sopravvissuti
e insieme a loro giunse in salvo a Trapezunte sul mar Nero. La spedizione aveva avuto l’appoggio
spartano e Senofonte continuò in seguito ad operare nell’orbita di Sparta. Gli fu donata dalla città
una proprietà a Scillunte, presso Olimpia. Visse da signore di campagna. Nel 370 dovette però
rifugiarsi a Corinto per via degli Elei che conquistarono la zona. La sua morte è dopo il 355 ma non
si sa quando.
Senofonte si lancia nei temi e nei modi più disparati con una pronunciata motivazione personale.
Manca forse di profondità ma ha impagabile chiarezza dell’argomentazione e una spiccata attitudine
alla rappresentazione. Fu lodato nell’antichità come modello di atticità ed esempio sommo di
dolcezza. Queste valutazioni vanno forse ridotte ma non certo ribaltate all’opposto.

POLIBIO
Fu il massimo esponente della storiografia ellenistica. Nacque a Megalopoli (Arcadia) verso la fine
del III secolo a.C. da una famiglia in vista. A venti anni iniziò la sua attività nella Lega ed ebbe un
prezioso patrimonio di esperienze politiche e belliche. Con la vittoria romana sulla Macedonia
Polibio ottenne poi di poter restare a Roma. La sua permanenza fu interrotta da numerosi viaggi,
alcuni a seguito di Scipione. Dopo l’ultimo rovinoso tentativo con cui la Grecia tentò di sottrarsi al
dominio romano (146) egli si adoperò come mediatore. Morì nel 124 in seguito a una caduta da
cavallo.
Sono andate perdute le sue opere minori. In 40 libri le sue Storie, dal 264 al 144 a.C.
La storiografia aveva maturato ormai una lunga tradizione. Per questa ragione nella sua opera ci
sono riferimenti alla teoria storiografica, alle finalità e ai metodi di ricerca. La storia deve essere
pragmatica, cioè fondata sull’analisi dei fatti politici e militari senza concedersi espansioni
fantastiche di carattere narrativo o abbellimenti retorici dello stile.
Il compito dello storico è solamente la ricerca della verità obiettiva, ha un’utilità pratica. L’esatta
conoscenza dei fatti politici e militari servirà all’uomo di stato e al condottiero di eserciti per
valutare le situazioni e intuire gli esiti verso cui sono indirizzate, sulla base delle analogie con gli
avvenimenti del passato. Distingue quindi rigorosamente per ogni avvenimento causa vera, causa
apparente (pretesto) e inizio. Carattere fondamentale della storia è l’universalità, non si limita a una
singola guerra o un singolo popolo, la storia deve coordinare i fatti dell’intera ecumene in una
visione complessiva. Fa una particolareggiata analisi delle cause che hanno prodotto la grandezza di
Roma. Ha influsso sia di Platone che di Aristotele.
Roma non sfuggirà al dinamismo degenerativo proprio di ogni stato, secondo la sua teoria di
“anaciclosi”, le tre forme buone di governo si corrompono nelle cattive corrispondenti in un ciclo
alterno (monarchia, tirannide, aristocrazia, oligarchia, democrazia, olocrazia, daccapo).
La religione è una pura utilità politica e la divinità non trova spazio nella sua opera.
Rinuncia ad ogni allettamento stilistico, l’unico obbligo è quello di evitare gli iati. La lingua è
quella usata nei documenti ufficiali e nelle cancellerie degli stati ellenistici. I suoi pregi come
scrittore sono nella precisione con cui sono visti e descritti i fatti e nella sua lucidità intellettuale.
Polibio ebbe il merito di richiamare la tradizione storica alla concretezza e alla verità dei fatti e fu
inoltre il primo a fecondare l’integrazione tra cultura greca e romana.

PROSATORI DI Età IMPERIALE


PLUTARCO
Nacque a Cheronea in Beozia intorno al 47 d.C., famiglia agiata, studiò ad Atene, compì viaggi di
istruzione in Egitto, Asia Minore, Roma. La sua vita però si svolse più che altro in ambiente
domestico e privato. I suoi familiari appaiono spesso come interlocutori nei suoi dialoghi assieme a
numerosi giovani amanti della cultura che si consideravano suoi discepoli. Insieme a un collega
tenne per oltre 20 anni la carica di sacerdote al santuario di Delfi.
L’imponente complesso di testi sopravvissuti è suddiviso in due grandi sezioni di estensione grosso
modo uguale, Vite parallele e Moralia.
Le sue qualità artistiche si rilevano meglio nelle Vite, con scene dense di pathos e un racconto teso
ed emozionante, l’aura di tragedia che avvolge la morte dei suoi protagonisti: è l’esplorazione nella
natura e nel destino dell’uomo, trama ideale delle Vite.
Nei Moralia l’interesse artistico varia con l’alternarsi degli argomenti e dell’impostazione che essi
di volta in volta richiedono. Seppure nell’epoca dell’atticismo Plutarco non ne condivide le
esasperazioni arcaistiche. La sua lingua è di tonalità alta ma si apre anche alla koinè.

PAUSANIA
I Greci furono sempre grandi viaggiatori e la “periegesi”, ossia la descrizione letteraria di cose viste,
apparteneva alla tradizione culturale greca già da un’epoca assai antica. Nei primi secoli
dell’impero questa tendenza si diffonde. La sua è un’opera singolare che appare rispondere a un più
complesso progetto letterario. Dell’autore sappiamo solo il nome e che viaggiò molto. La sua opera,
giunta integralmente, è intitolata “Descrizione della Grecia”. Come Strabone, anche Pausania lavora
su dati di duplice provenienza: osservazione diretta e lettura dei libri.
La Periegesi non esaurisce il suo contenuto nella descrizione, fa lunghe digressioni frutto di una
cultura letteraria intelligente ed estremamente ampia, accanto alla quale usa tradizioni locali attinte
per via orale.
È di fondamentale importanza per gli studi archeologici perché descrive l’originaria struttura degli
edifici, attribuisce le opere d’arte, la loro destinazione e collocazione. È utile poi per l’attestazione
di episodi locali di minore importanza. I luoghi santi sono correlati da estese e dettagliate
informazioni intorno alle leggende e ai culti ad essi relativi.
Non intendeva fare né una guida turistica né una storia geografica. Mette grande cura sia nello
strutturare artisticamente la sua opera, sia nel disporre gli argomenti. Usa il principio della
variazione, introducendo un certo movimento nell’inevitabile ripetitività della materia. La sua
lingua è di impronta atticistica. A suo modo Pausania punta a fare un’opera d’arte. È questo lo
scopo. Nel presagio che la Grecia si trovasse prossima alla fine, intende salvarne la memoria
almeno nella parola, fiducioso che un piccolo libro avrebbe potuto sfidare il tempo meglio che un
prezioso oggetto d’arte, e ha avuto ragione.

DEL SUBLIME
Il trattato “Sul sublime” è attribuito a un non meglio identificato Dioniso Longino. L’opera è
fortemente mutila, presenta sei grosse lacune, dedicata a un discepolo dell’autore. Prende le mosse
da una critica all’omonimo trattato “sul sublime” di Cecilio, che spiega con ampiezza cosa sia il
sublime ma trascura completamente di indicare come lo si possa raggiungere nell’opera letteraria.
L’anonimo vuole quindi spiegare come e da quali fonti scaturisce il vertice dell’arte della parola. Il
sublime ha dimensione etica, con 5 cause principali: elevatezza di pensiero, pathos violento, qualità
delle figure, nobiltà delle parole, disposizione delle parole. L’autentica mimesi è un’energia
vivificatrice, volta a creare all’interno dell’individuo le condizioni da cui possano nascere
espressioni non uguali a quelle degli autori imitati, ma di corrispondente verità ed efficacia.
Un concetto dominante del trattato è che sia preferibile una grandezza geniale e travolgente, anche
se non esente da cadute, rispetto a una impeccabile ma mediocre perfezione. Le nature di eccezione
non sono senza difetti. Fa un grande numero di esempi da Omero ai lirici, ai tragici, agli storici e
oratori, anche alcuni poeti ellenistici.
In questa epoca si va affermando una idea universale della letteratura. Coinvolge Cicerone e
Demostene, cita la Bibbia, ammira Platone, etc.
Nel complesso il trattato è un’opera di altissimo livello, scritto nella koinè e con stile denso e
metaforico. È la più luminosa manifestazione della critica letteraria dell’antichità ed elevato
documento di pensiero, l’anonimo è una figura magnanima di artista.

LA SECONDA SOFISTICA
FILOSTRATO
Filostrato I insegnò retorica ad Atene sotto i Flavi, di lui non rimane nulla.
Filostrato II, detto”maggiore”, vissetra il 160 e il 249 d.C., è il più importante dei quattro. Fu
maestro di retorica ad Atene, si trasferì a Roma sotto Settimio Severo. Dopo la morte di Caracalla
(217) si ritirò di nuovo ad Atene. Sua è la Vita di Apollonio di Tiana, l’oper in 8 libri è una
biografia romanzata del famoso mago e taumaturgo del I secolo d.C. Il racconto è condotto con un
attraente senso del romanzesco e dell’esotico. Altrettanto certa è l’attrbuzione a lui delle Vite dei
Sofisti, in 2 libri, associò interessi filosofici alla pratica della retorica. L’opera ha modesta
profondità storica, contiene importanti informazioni sull’organizzazione dell’istruzione superiore in
età imperiale. Gli si ascrive anche il dialogo Eroico, il Ginnastico, due libri di Immagini.
Filostrato III, nato intorno al 190, è noto a noi solo per la lettera Ad Aspasio di Ravenna.
Filostrato IV visse intorno alla metà del III sec. d.C. , è autore di una raccolta di 17 Immagini.

LUCIANO
Nacque intorno al 120 a Samosata, studiò grammatica e retorica in Asia Minore, imparò
perfettamente il greco. Il suo avvicinamento agli studi di retorica seguì a una negativa esperienza
nella bottega di scultore dello zio. Ultimati gli studì viaggiò come maestro di retorica e brillante
conferenziere in Asia Minore, Grecia, Italia e Gallia. Fu avvocato in Antiochia e ambasciatore a
Roma, ebbe un incarico pubblico in Egitto, alla fine tornò ad Atene e vi rimase fino alla morte,
quasi sicuramente dopo il 180.
Circa una trentina di scritti sono sicuramente suoi, si tratta di produzione retorica, vere e proprie
meletai (esercitazioni) e brevi discorsi con funzione introduttiva rispetto alla esibizione retorica in
sé, più trattatistica di carattere storico-didascalico, alcune raccolte di brevi dialoghi. Luciano attinge
le sue situazioni ai grandi modelli della letteratura, sfrutta le fonti manualistiche e le opere d’arte. A
volte presenta un impegno satirico maggiore. In un gruppo di dialoghi di ispirazione platonica tratta
di argomenti di carattere generale. Vi sono poi dialoghi di contenuto morale, filosofico, religioso e
di intonazione satirica in cui il bersaglio polemico è costituito dalle mistificazioni e dalle tendenze
irrazionalistiche. Riesce a conservare una certa indipendenza di giudizio anche negli ambienti della
capitale romana. La stessa libertà e franchezza di opinioni che esprime in Come si deve scrivere la
storia, un trattato in cui spiega cosa lo storico deve evitare, come le lodi eccessive, poi aggiunge le
proprie critiche alla storiografia contemporanea. Nella seconda parte spiega le virtù del vero storico:
intelligenza politica, eloquenza, schiettezza, libertà di parola, chiarezza e brevità.
Scrive poi Storia vera, una piacevole parodia dei romanzi di avventura allora di moda.
Spazia da esercitazioni retoriche ad opere di argomento erudito e storiografico a scritti satirici.
Aveva un ampio patrimonio di conoscenze filosofiche attinte direttamente ai testi oppure desunte
dai repertori dossografici (manuali e compendi). Ha uno schietto antidogmatismo, e impronta alla
morale del buon senso il suo comportamento personale. La religione è vista quasi come un delirante
superamento dei limiti dell’umana ragione. È consapevole di aver creato un nuovo progetto
strutturale, fondendo il dialogo filosofico e la commedia. A livello dello stile è elegantissimo, rifiuta
ogni eccesso, dosa e gestisce la lingua attica con mirabile padronanza e scioltezza. Nell’ambito
della Seconda Sofistica è una personalità brillante e spigliata, è un eccezionale esemplare dell’uomo
di cultura del II secolo. Luciano torna con una certa insistenza su alcuni temi e motivi consueti del
proprio repertorio, pur con un abile gioco di variazioni nell’autoimitazione.

IL ROMANZO
In un passo della Storia vera Luciano ammonisce che chi si dedica ad opere serie deve, a un certo
punto, distendere la mente con più frivoli argomenti. La letteratura di evasione ha un remoto
precedente nell’antichità, cui era negata la dignità di esprimere un messaggio culturale ed è la
ragione per cui appare ignorata dall’alta cultura. Non sappiamo il nome con cui questo genere era
identificato nel mondo antico, lo chiamiamo perciò romanzo.
Si fonda sulle due componenti dell’amore e dell’avventura a formare una trama fitta di colpi di
scena, sul ricorso a un limitato novero di accidenti impiegati secondo una specifica convenzione
narrativa. La vicenda canonica è questa: due giovani innamorati o freschi sposi, al termine di
innumerevoli e drammatiche peripezie, si ricongiungono in un lieto fine. Costante è la fedeltà
reciproca che riescono a mantenere nonostante i numerosi tentativi di seduzione cui sono sottoposti.
I testi sono quasi tutti di epoca imperiale ma gli inizi si hanno nella fase matura dell’ellenismo.
Nel quadro degli stimoli da cui trasse origine il romanzo si possono mettere l’Odissea, i resoconti di
viaggi, le leggende locali, le suggestioni esotiche. Ma tali impulsi sono trasfigurati e unificati sotto
l’impulso di un’originale intenzione creativa. I romanzi a noi giunti esprimono una gamma di
situazioni e sentimenti propri del mondo greco in età imperiale: il gusto dell’avventura e il recupero
di una Grecia ancora proiettata verso l’ignoto e l’esotico, la tranquillizzante ipotesi di un caso
benigno, l’ideologia della famiglia. La fortuna del romanzo fu considerevole (al di là del disdegno
in cui lo tennero gli intellettuali) e ciò dimostra che seppe raggiungere questi obiettivi.

ACHILLE TAZIO
Avventure di Leucippe e Clitofonte, in 8 libri, non posteriore alla fine del II secolo d.C.
Parla lo scrittore stesso, racconta che era a Sidone ad ammirare un dipinto su Zeus che, mutato in
toro, rapisce Europa, Eros che lo guida verso la fanciulla. Gli si accosta un giovane che gli racconta
per esteso le sue avventure e da qui ha inizio la storia di Clitofonte e della sua amata Leucippe.
Le avventure sono più o meno le solite ma l’opera ha comunque una attraente novità. Descrive con
ampiezza e freschezza i tratti psicologici e la scoperta dell’amore, l’avvicinamento e la fuga dei
giovani. Ulteriori complicazioni sono date da filtri magici, un ‘giudizio di dio’ con cui Leucippe
prova di essere ancora vergine. Questo scrupolo di moralismo è bilanciato da qualche più audace
concessione ad accenti erotici e licenziosi.
La narrazione in prima persona rende più verosimile il tenore stilistico del racconto. Achille Tazio
dimostra un’accorta consapevolezza della natura del romanzo, il discorso diretto da parte del
protagonista comporta una rottura del piano onnisciente del narratore in terza persona, intensifica i
sentimenti di sospensione e di sorpresa.
Ci sono frequenti digressioni di impronta sofistica e ogni pretesto è buono. Queste parentesi sono
nel gusto dell’epoca. A livello stilistico si dimostra coerente sia con tali suggestioni filosofiche che
con lo scopo di intrattenimento. L’artificio retorico è volto a ottenere chiarezza e scorrevolezza, i
periodi sono brevi e la lingua è una mescolanza di volgarismi e koinè con scelte di tipo atticistico.

LONGO SOFISTA
Vissuto nell’isola di Lesbo a cavallo tra II e III secolo.
La storia pastorale di Dafni e Cloe, in 4 libri. Due pastori di Lesbo allevano nelle rispettive famiglie
due trovatelli cui han dato nome Dafni e Cloe. I piccoli crescono insieme e nasce una tenera
attrazione, il vecchio pastore Filitea spiega ai due cos’è l’amore e si hanno i primi turbamenti dei
sensi. L’idillio rischi di interrompersi quando i genitori di Cloe decidono di darle un marito che non
sia povero come Dafni. Dafni scopre di essere figlio di un ricco cittadino di Mitilene e anche Cloe
scopre di essere nata da una famiglia benestante. I due possono celebrare le nozze.
È un elogio della vita agreste. L’elemento avventuroso è ridotto al minimo, con un’incursione di
pirati e piccole scaramucce tra gli abitanti. La dinamica della vicenda è affidata soltanto alla
crescente consapevolezza dell’amore. La natura è il registro dominante della storia con compiaciute
descrizioni dei paesaggi e l’alternanza ciclica delle stagioni. Si ha anche qui l’intervento del
soprannaturale nelle vicende umane con Tyche e le ninfe che fanno trovare a Dafni il tesoro
nascosto.
Il pregio è la finezza psicologica con cui è descritto il progredire dell’amore e la scoperta delle sue
manifestazioni in cui si insinua una sottile e compiaciuta suggestione di erotismo. Lo stile
corrisponde con grande abilità formale all’ingenuità dei due protagonisti con una estrema semplicità
frutto di una elaborata ricerca. Ampio spazio è dato agli effetti fonetici con rime e assonanze.

ELIODORO
Nativo di Emesa in Siria, sacerdote del dio Sole, si sarebbe poi convertito al cristianesimo. Si
colloca attorno a metà del III secolo.
Storie etiopiche di Teagene e Cariclea, 10 libri. Cariclea è figlia dei sovrani di Etiopia ma è bianca e
perciò viene esposta alla nascita e allevata a Delfi nel tempio di Apollo. Nasce un amore con il
giovane atleta tessalo Teagene, discendente di Achille. Sotto la protezione del vecchio Calasiride
partono per una terra lontana dove l’oracolo gli ha detto che troveranno la felicità. Ma il viaggio è
costellato da innumerevoli peripezie, Calasiride muore, i due si trovano in Etiopia, avviene il
riconoscimento della ragazza e i due possono finalmente sposarsi.
Ripropone il binomio tradizionale di amore e avventura con molteplici sviluppi secondari dedicati
alle vicende di altri personaggi. Usa la tecnica di retrospezione (inizia nel pieno dei fatti) che ha un
illustre precedente nell’Odissea.
Nel romanzo c’è un senso di intima religiosità, il dio supremo è Apollo, dio del sole. A reggere il
destino degli uomini non è il caso, come per gli altri romanzieri, ma la giustizia divina e l’agire dei
personaggi è indirizzato secondo le norme di una moralità interiore.
La moda sofistica è evidente nell’uso di digressioni che nascono da pretesti inconsueti. Lo stampo è
retorico ma mostra già i segni della decadenza. Usa gli artifici della sofistica per esibire la propria
abilità ma nella lingua non sa escludere forme recenti e volgari.

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