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Euripide, nato nel 485 a.C. e morto nel 406 a.C., compone insieme a Eschilo e Sofocle quella che
già nei tempi antichi era riconosciuta come la triade dei più grandi tragici greci, l’ακμή (= punto più
alto) della tragedia greca. Un antico aneddoto, che noi sappiamo essere falso, racconta che in uno
stesso giorno del 480 a.C. Eschilo combatté e vinse nella battaglia di Salamina, Sofocle compose e
guidò il peana della vittoria ed Euripide venne alla luce (questo aneddoto nasce dall’idea di una
comunanza fra i membri di questa triade, indice di un destino comune). Questi tre personaggi
sono tuttavia fra loro non distanti nel tempo, in quanto tutti e tre vivono intorno al quinto secolo
a.C. (Eschilo: 525/4-456/5; Sofocle: 497/6-406/5/1). Nel corso della sua vita ad Atene, Euripide
frequenta le élite intellettuali dell’epoca avvicinandosi in particolar modo ai sofisti, maestri di
retorica che predicano la relatività di ogni verità (insegnano a dimostrare una cosa ed il suo
contrario). A causa della ricorrenza con cui si serve di espedienti retorici, il tragediografo è
accusato di essere influenzato da quest’ultimi. Di Euripide sono a noi giunti 19 drammi, di cui uno
satiresco (“Ciclope”), e oltre 1000 frammenti. Fra queste sue tragedie ve n’è una, “Reso”,
considerata spuria, ovvero a lungo attribuita ad un autore sbagliato. Complessivamente di Euripide
furono messi in atto ad Atene, negli agoni tragici delle grandi dionisie, 92 drammi. Le vittorie
ottenute furono tuttavia solamente 5: questo perché Euripide, di natura schiva e quasi per nulla
partecipe della vita pubblica (diversamente da Eschilo e da Sofocle), non era particolarmente
amato dal popolo ateniese. Peculiari sono gli sperimentalismi e l’ideologia tragica di Euripide,
tanto che Nietzsche sostenne che con lui fu distrutta la tragedia greca. Per quanto riguarda lo
sperimentalismo, Euripide è in primo luogo un personaggio “modaiolo”: egli segue le mode
musicali del tempo, introducendo ad esempio l’utilizzo delle percussioni (che gli fu molto criticato)
e la monodia (= “canto a solo”, al picco del suo dolore il personaggio in scena, che parla e si duole,
inizia a cantare). Singolare è anche l’utilizzo del coro, che diviene mero espediente di commento (e
perde il suo ruolo di perno della tragedia a favore dei personaggi), e del prologo, che diviene
semplice presentazione di un antefatto (la tragedia inizia infatti spesso in medias res) priva di
carica tragica. Infine, particolari sono le trame euripidee che, pur estremamente complesse ed
intricate, vengono talvolta risolte in modo molto semplice e lineare (modus operandi tipico della
commedia menandrea). Per quanto riguarda l’ideologia, Euripide apporta modifiche al ruolo degli
dei che, pur essendo molto presenti in scena, sono altrettanto distanti ed incomprensibili.
Frequente è l’espediente del deus ex machina, che tuttavia risolve la vicenda in senso pratico, non
morale. È infine tipica di Euripide una particolare attenzione nei confronti dell’interiorità dei
personaggi. Tra quest’ultimi assumono poi un ruolo preponderante esponenti del ceto medio-
basso, tanto che Aristofane dirà che Euripide ha rovinato la tragedia portando in scena degli
“straccioni”. Un ruolo fondamentale è poi ricoperto dalle donne (infondata pare dunque l’accusa
di Misoginia mossa all’autore), che insieme agli umili si collocano fra coloro che nell’Atene
dell’epoca erano privi di voce politica. Secondo il tragediografo, le donne sono portatrici di una
verità profonda, legata alla sfera dell’interiorità (ad esempio per quanto riguarda le loro ragioni
antibelliciste, in un periodo che vedeva Atene sconvolta da continui combattimenti). Molti sono
poi i veri e propri modelli femminili, come quello di Alcesti, che incarna l’άριστη γυνή per
eccellenza (= la donna perfetta). Diversamente da Sofocle, i cui personaggi erano caratterizzati da
forte solipsismo, ovvero individualismo esasperato (i personaggi sofoclei sono soli, isolati a causa
di un proprio pensiero che si tramuta in ossessione; vedi Antigone), e dalla loro eccezionalità, i
personaggi euripidei sono accusati di essere borghesi e di poco spessore. In realtà, i protagonisti
delle sue tragedie sono caratterizzati dal loro essere in preda ad un perenne conflitto interiore,
dall’essere fortemente combattuti fra passione e ragione (ed il dramma sta nella consapevolezza
che essi hanno di questo loro travaglio). La rappresentazione realistica dei personaggi influenza
anche il lessico (Euripide sarà infatti un grande maestro dell’innovazione linguistica): frequenti
sono i termini di uso quotidiano e i termini tecnici.
A causa dello sdegno che gli è riservato ad Atene, Euripide si trasferirà in Macedonia, presso il re
Archelao, dove comporrà le sue ultime opere (fra cui Baccanti, che sarà messa in scena postuma) e
dove poi morirà. Un aneddoto della sua morte racconta che egli fu ucciso da una moltitudine di
donne: questa notizia pare tuttavia fin troppo simile alla trama del suo dramma sovracitato, ed è
per questo presumibilmente falsa.
Alcesti
Questa tragedia, messa in atto nel 438 a.C., va a concludere una delle tetralogie di Euripide. A
causa di questa sua posizione (è collocata dopo 3 tragedie, nella posizione solitamente assunta da
un dramma satiresco), del suo lieto fine, della sua brevità e del ruolo di Eracle (è presentato come
un personaggio comico), questa tragedia è stata spesso interpretata dai critici come un dramma
satiresco. Per quanto riguarda il coro, questo è composto da cittadini di Fere, città della Tessaglia
dove si svolge il dramma. Il prologo si apre con un monologo del dio Apollo, che si trasforma in
dialogo nel momento in cui entra in scena il dio Thanatos. Questi due personaggi divini, tuttavia, in
conformità all’ideologia euripidea, non coprono ruoli centrali nello svolgimento del dramma.
Anche la figura di Alcesti compare solamente in un episodio (su 4): più importante del personaggio
stesso sono infatti le conseguenze della sua morte. Nell’episodio della sua discussione con Admeto
sono preponderanti i temi dell’οίκος e del γένος: l’unica richiesta che la donna fa al marito è infatti
quella di non risposarsi (richiesta di tipo altruistico, è nell’interesse dei suoi figli). Al suo ritorno in
scena (Eracle la presenta come una donna che ha vinto mediante una gara di lotta e Admeto, dopo
numerosi tentennamenti, accetta di tenerla con sé), Alcesti si presenta come un κωφών
προσώπων (= personaggio dal capo velato): condizione del suo ritorno dall’Ade è che mantenga il
silenzio per 3 giorni (non le è permesso parlare ai vivi del mondo dei morti), e per questo ella non
parlerà più in scena. Termini chiave della tragedia sono:
• Φιλία: indica un rapporto affettivo vincolato da un patto ed evoca un’idea di possesso (è
utilizzato sia da Alcesti nei confronti di Admeto che nel dialogo fra quest’ultimo ed il padre
Ferete).
• Ξενία: frequenti sono termini appartenenti alla sfera semantica dell’ospitalità, tema
centrale della tragedia e della cultura greca in generale.
• Sono infine ricorrenti termini che descrivono la bellezza della luce terrestre, contrapposti
ad un lessico relativo al buio della morte e di un mondo spietato.
Dialogo fra Admeto e Ferete
Si configura come una vera e propria gara di egoismo caratterizzata da un forte solipsismo. Lo
scontro fra i due è poi un agone (= αγών λόγων), ovvero una gara di parole simile a quella fra
Antigone e Creonte (mentre i toni ed i temi dei due agoni sono differenti fra loro, il fulcro è
sempre lo stesso: la morte). Entrambi i personaggi propongono ragioni assolutamente valide e
comprensibili, ed è proprio in questo che sta l’essenza della tragedia. Il passo del loro scontro si
articola in: discorso del primo personaggio, che espone le sue ragioni; intervento del coro;
discorso del secondo personaggio, che ribatte punto per punto a quanto detto dal primo;
sticomitia (= punto della tragedia in cui ogni personaggio ha una battuta lunga un verso, il che
aumenta il ritmo e la tensione narrativa). Nel suo discorso, Ferete insiste su vocaboli le cui radici
insistono sul tema della parentela e della generazione fisica (come τέκνο = fanciullo, avente la
stessa radice di τίκτω = generare). Egli si fa inoltre portatore della mentalità misogina greca, che
credeva che donne come Elena e Fedra avessero gettato vergogna su tutto il genere femminile.
Alcesti, al contrario, è detta aver portato, attraverso il suo sacrificio, gloria e buona fama al genere
femminile. In generale, in questo passo la donna è presentata e descritta come un eroe epico
maschile (il maggiore complimento che si potesse fare ad una donna era quello di attribuirle
caratteri prettamente maschili): le vengono difatti attribuiti termini (come πύρα = pira) utilizzati
anche nell’Iliade per le eroiche morti maschili di Ettore e Patroclo. Admeto replica sottolineando la
rottura del rapporto di φιλία, del patto che legava il padre al figlio (riferendosi ad esempio a sua
madre come “tua moglie”). La serie di domande che egli pone, che alcuni hanno interpretato
come puramente affermative, rende il suo discorso ancora più crudo. Admeto fa inoltre uso di un
lessico giuridico, indice dei numerosi processi messi in atto nell’Atene del tempo (esempio
dell’utilizzo che Euripide fa del linguaggio tecnico dell’epoca). Successivamente, egli afferma che
non seppellirà il padre, denotando una grave mancanza di χάρις (= rapporto di reciproco scambio
di favori; un atto del genere è fonte di grande vergogna in una cultura come quella greca).
L’intervento del coro è volto a mettere in chiaro i legami di sangue tra i due personaggi, legami che
Admeto aveva negato e che saranno invece ribaditi da Ferete (che, ad esempio, si rivolge al figlio
con il vocativo “παι”). Tuttavia, al termine della sticomitia, i rapporti parentali fra i due risultano
totalmente disintegrati. Emerge un vero e proprio scontro generazionale, topos tipico di
commedia e tragedia. Vi è inoltre in questo passo un richiamo alla favola di Esopo sul taglialegna e
la morte, oltre ad un’ulteriore allusione al mondo giuridico (Ferete afferma difatti “io non sono
uno schiavo”, volendo sottolineare la sua libertà di parola, diritto che invece non spettava agli
schiavi). Ferete espone nuovamente la sua posizione, incentrata su come ognuno sia responsabile
della propria individualità è della propria vita; inoltre, schernisce Admeto accusandolo di eccessiva
effeminatezza (che dai greci era assimilata alla passività omosessuale), in contrasto con la morte di
Alcesti, tanto valorosa da essere paragonata a quella degli eroi epici (le accuse che Ferete rivolge
al figlio sono inoltre poste a formare un climax). Vi è dunque uno scontro fra due morali tra loro
assolutamente antitetiche. Ferete è difatti portatore di un ideale naturale: la vita, poiché è dolce e
saporita (= γλυκούς), è fatta per il soddisfacimento delle proprie esigenze primarie; egli è dunque
totalmente privo di intesse nei confronti di ideali come la fama. Admeto, al contrario, si fa
portatore dell’ideale tradizionale eroico: la più grande ambizione che ognuno dovrebbe possedere
è quella di morire in modo glorioso, al fine di essere ricordato dai posteri e guadagnare grande
fama.
Medea
La tragedia in questione viene messa in scena nel 431 a.C., sette anni dopo Alcesti. La differenza
più significativa fra le due tragedie è individuabile nello sviluppo della psicologia dei personaggi; le
due protagoniste sono inoltre abissalmente differenti fra loro. Alcesti era stata rappresentata
come la sposa e la donna perfetta, fonte di grande lustro per il genere femminile e personaggio
assolutamente tradizionale nella sua volontà di preservare la propria famiglia. Medea è invece un
personaggio infinitamente più complesso, indefinibile ed indefinito, ricco di sfaccettature. In
quanto straniera, oltre che donna, essa rappresenta tutto ciò che si trova “al di fuori” del
tradizionale: è un personaggio eccezionale nel vero senso del termine. Diversamente da Alcesti,
Medea è la protagonista assoluta della tragedia; mentre Alcesti era presentata come fautrice di
armonia ed equilibrio (all’interno dell’ambiente familiare), Medea è una presenza perturbatrice e
malvagia, che addirittura si compiace della propria malvagità; è l’esaltazione esasperata della
soggettività. Con questo personaggio Euripide tenta di rendere la complessità della mente del
genere umano, la cui identità è indefinibile. L’autore, inoltre, si astiene da alcun tipo di giudizio
morale nei confronti della sua protagonista: questo perché il suo personaggio lo affascina
enormemente. Anche di fianco al personaggio di Giasone, Medea appare titanico (l’uomo è difatti
presentato come un vile opportunista, un omuncolo che non si fa troppi scrupoli nell’abbandonare
tutto ciò che non gli è più utile).
Ambientazione: Corinto, di fronte alla casa di Medea
Tematiche: fondamentale è il tema dello θυμός, luogo che altro non è che la sede delle passioni
che sconvolgono e dominano l’uomo (deriva da πάθος). È quest’“anima emozionale” a spingere
Medea a perseguire certe azioni scellerate. Altra caratteristica fondamentale del personaggio è
difatti la sua profonda duplicità, che si presenta chiaramente nella cesura fra la Medea iniziale,
addolorata e piangente, e quella che segue nel primo episodio, lucida e freddamente razionale.
Nel riflettere sulla sua sofferenza Medea non allevia il suo dolore ma lo razionalizza, l’unicità del
suo personaggio sta proprio nel suo essere cosciente di come all’uomo sia impossibile sottrarsi allo
θυμός: per questo le azioni che essa compie sono inevitabili (anche se si tratta di uccidere i propri
figli). La tragicità del personaggio di Medea sta proprio qui, nel suo riflettere sulle sue passioni nel
momento stesso in cui ne è dominata. Personaggi come il Prometeo incatenato di Eschilo e
l’Antigone di Sofocle sono fin dall’inizio consapevoli che le loro azioni, che osano sfidare un potere
superiore, saranno loro causa di morte per mano altrui; Medea, al contrario, è l’unica fautrice
della sua stessa rovina (ed è cosciente di questo), la sua azione coincide con la sua stessa
sofferenza.
Essenziale all’interno della tragedia è la ρησις (di tipo riflessivo, si configura come una sorta di
monologo) di Medea, che ha come spettatrici le donne di Corinto (che vanno a comporre il coro).
[Esistono 3 tipi di ρησις: riflessiva; informativa, simile ad un prologo; iussiva = esortativa o
parenetica]. In essa, la protagonista riflette sulla sua condizione di donna e di straniera, condizione
che nell’Atene del tempo, dove la cittadinanza era “data con il contagocce”, la escludeva
completamente dalla vita politica, condannandola ad una realtà di assoggettamento ed assoluta
mancanza di diritti. A partire da un discorso generalizzante, la protagonista estende la propria
condizione di donna straniera all’intero genere femminile, guadagnandosi anche la compassione
(da cum patior, il patire insieme) delle donne di Corinto (che dunque intessono con essa un
rapporto di solidarietà e sostegno). Singolare è anche il tono della ρησις: Medea, nel parlare, è
perfettamente razionale e padrona di sé; trasforma l’energia della sua sofferenza in energia
retorica, mostrandosi come una grande oratrice. Dal discorso di Medea emerge inoltre la visione
politica dell’autore, volta a sottolineare la durissima condizione di assoluto svantaggio a cui erano
costrette le donne del suo tempo. “Γυναίκες εσμεν αθλιωτατόν φυτον”, così Euripide descrive la
condizione delle donne ateniesi (i critici si sono chiesti a lungo se queste facessero parte del
pubblico, a teatro). Medea è invece rappresentata dal tragediografo come una donna ripudiata dal
marito: è Giasone (“κάκιστων ανδρών”) stesso la causa di tutti i suoi mali. Vi è inoltre un vero e
proprio capovolgimento di un topos della letteratura greca, quello dell’uomo che si lamenta della
donna, ripreso nello specifico dalla teogonia di Esiodo (dove l’uomo si lamentava del matrimonio
paragonandolo ad un giogo). Troviamo in questo passo anche un riferimento alle Coefore di
Eschilo, dove Oreste si rivolge alla madre Clitemnestra dicendo: “μη έλεγχε τον πονουντ’έσω
καθημένη” = “non accusare colui che fatica fuori, tu che ne stai seduta”, evocando una visione
arcaica e misogina; Medea, con le sue parole, ribatte proprio a quell’ideologia (affermando il
contrario). Essa porta difatti in scena un topos inedito, quello del paragone fra la guerra ed il
parto. Infine, la protagonista attribuisce a se stessa il termine “rapita”, o al fine di rifarsi una
seconda versione attestata del mito, o per mettere ulteriormente in cattiva luce Giasone,
attraverso un’esagerazione assolutamente calcolata.
Dialogo fra Medea e Creonte