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Per un approfondimento sul mito di Arianna si consiglia la lettura di: Arianna: estasi e malinconia a cura di
M.Contanni e M.Forti, La rivista di Engramma, marzo 2019 n.163; A.Sbardella, Il mostro e la fanciulla, le riscritture di
Arianna e il Minotauro nel Novecento, Quodlibet 2017; Il Mito di Arianna, a cura di M.Bettini e S.Romani, Einaudi
2015; G.Ieranò, Arianna storia di un mito, Carocci 2010.
inquadrano La Dafne (1598) e L’Euridice (1600) di Peri e Rinuccini e La favola d’Orfeo (1607) di
Monteverdi e Striggio jr. come primi esperimenti di teatro tutto cantato, imparentati con la favola
boschereccia, allora L’Arianna di Rinuccini, rappresentata il 28 maggio 1708 nel palazzo ducale di
Mantova con le musiche di Monteverdi, va considerata come il primo autentico “dramma/tragedia
per musica” della storia dell’Opera. Di questa composizione nulla si conserva, tranne la scena clou,
ossia il lamento della protagonista (“Lasciatemi morire”), riscritto poi da Monteverdi in una
versione polifonica (nel VI libro di Madrigali) e come contrafactum sacro (Il pianto della
Madonna). Si tratta del prototipo della “scena lamento” costituita da varie sezioni recitative, qui
inframmezzate da interventi corali; Arianna è in balìa di sentimenti contrastanti: disperazione,
autocommiserazione, struggimento nostalgico, desiderio di vendetta e infine pentimento per il
proprio eccesso d’ira; una disposizione di affetti che ricorda quella di Didone. Per il melodramma
del Seicento l’“aria lamento” e l’“aria del sonno” diventeranno stereotipi morfologici che possono
individuare la propria madrina in Arianna, eroina abbandonata e addormentata. In particolare il
“lamento” sconfinò nell’ambito della cantta a voce sola, imponendosi come situazione drammatica
prediletta e ben più commovente delle impalpabili schermaglie amorose dei vari Tirsi, Amarilli,
Clori, Fille, e altri abitatori dell’astratta arcadia pastorale.
L’operismo barocco nella seconda metà del XVII secolo iniziò a deformare le linee narrative dei
miti classici reinventando la natura dei personaggi. Arianna diventò allora una donna talmente
proteiforme da poter essere accostata al ruolo dell’innamorata della commedia all’Improvvisa:
disposta a travestirsi, cambiare identità sessuale o dati anagrafici, nei libretti dell’ultimo Seicento è
un’eroina di affettività trasbordante, gelosa, invidiosa, nervosa ma comunque dedita anima e corpo
al suo Teseo. Non è un caso infatti che nell’opera barocca l’accoglienza del “diverso” rimase una
prerogativa dei personaggi femminili a lei simili: Didone ed Enea, Circe (o Calipso) e Ulisse,
Medea e Giasone sono coppie sbilanciate dove le donne offrono ristoro e sostegno a uomini –
fuggiaschi, profughi, naufraghi o impegnati in imprese impossibili – rinnegando la propria identità
culturale e rinunciando all’esercizio del potere a tutto vantaggio della sfera affettiva privata. Di
contro gli eroi maschili, metafore della ragion di stato, ossequiano un codice comportamentale che
antepone le responsabilità pubbliche alle proprie aspirazioni affettive. Dallo stridore tra un
“eroismo” che rifiuta il piacere e un “erotismo” declinato in senso moderno, individualista e
“borghese”, deriva una tensione destinata a sciogliersi in epiloghi tragici. Ma l’abbandono subìto da
Arianna solo in rare occorrenze del mito sfocia nel suicidio dell’eroina, destinata, dopo la fuga
dell’amante, a conoscere l’unione felice con Dioniso. Non desta meraviglia il fatto che nelle
riscritture melodrammatiche l’archetipo di Arianna riguardi perlopiù le vicende cretesi e gli amori
con Teseo, ad eccezione di un caso interessante dove l’eroe ateniese, sposato con Antiope, lascia
Arianna in ossequio al vincolo matrimoniale precedentemente contratto. Si tratta di Arianna in
Nasso, libretto di Paolo Rolli scritto per l’esordio londinese di Nicolò Porpora (Lincoln’s Inn Fields
29 dicembre 1733) posto in diretta concorrenza con l’Arianna in Creta di Händel (King’s Theatre in
the Haymarket 26 gennaio 1734). Nell’opera di Porpora il momento topico dell’abbandono (scene
III.4-5) viene gestito da un’architettura melodrammaturgica tanto inconsueta – una cavatina posta a
cornice di un duetto frantumato da recitativi semplici – quanto funzionale a rendere in musica il
sentimento che impronta l’azione inscenata: è infatti la titubanza di Teseo (indeciso se restare
insieme ad Arianna o se invece seguire la moglie) che genera l’intermittenza congenita al suo duetto
con Antiope. L’eroe ateniese, consolato dall’amico Piritoo e pronto a lanciarsi in «nuove imprese»,
ripiomba nell’indecisione logorante allorquando ascolta le dichiarazioni d’amore che Arianna
addormentata pronuncia in sogno:
Arianna (dormente, sognando dice):
Io son la sola, sola
immagine adorata,
che impressa è nel tuo core
e mai non partirà.
[Aria, sezione A: melodia pregnante, orchestrazione ‘morbida’ (flauti e pizzicato ai bassi), ritmo
danzante ternario]
Antiope, per convincere il marito a seguirla, sceglie dapprima la via dell’insistenza violenta,
musicalmente effigiata da Porpora con il ricorso a formule tipiche dell’opera buffa: le continue e
‘meccaniche’ ripetizioni degli imperativi «vieni», «parti», «fuggi», finiscono col far assumere alla
regina amazzone i tratti di una servetta stizzosa (il cui nervosismo è veicolato anche dal ritmo
acefalo mantenuto dall’accompagnamento orchestrale). Ad esse si sovrappone il canto di Teseo, di
segno emotivamente opposto (frasi lunghe vs semifrasi frante da pause; canto in stile declamatorio
vs sillabato; diastematica discendente vs progressioni ascendenti) e sfociante, ex abrupto, in un
secondo recitativo secco:
Antiope: Vieni, parti, fuggi l’incanto.
Teseo: L’alma vorrebbe,
ma non può tanto;
lo spirto manca,
s’arresta il piè
Antiope: Lascia chi amar non dèi, segui chi t’ama.
Teseo: È pietà, non è amore.
Antiope: E perché dunque,
crudel, di me, di te pietà non hai?
il tuo partir prova ne fia: deh vieni!
[Duetto, sezione 1: brevi frasi di Antiope, agogica concitata; canto di Teseo contrastante con frasi
lunghe, discendenti e in stile declamatorio]
Antiope sceglie allora (sezione II) la via della seduzione canora – rallentando l’agogica e dilatando
la fraseologia del suo profilo melodico giocato su progressioni e su incursioni nel registro acuto –
invitando Teseo a fare altrettanto: l’eroe ripete la melodia larmoyante che viene sempre
punteggiata dalle esclamazioni della moglie, collocate dal compositore al solo fine d’incrementare
la tensione del brano:
[Duetto, sezione 2: frasi lunghe di Antiope, agogica rallentata; canto di Teseo modellato su quello di
Antiope]
La terza parte del duetto, dopo un nuovo recitativo secco che ne aveva interrotto il tormentato
decorso, si concentra sull’ultimo tentativo da parte di Teseo di opporsi ad Antiope: la ricerca di
commuovere l’interlocutrice si impernia ora sulla sinuosità del mélos tornito, ora sulla dolcezza
delle progressioni e delle appoggiature nella linea dei violini; alla fine dell’episodio Teseo cerca
anche di imporsi sull’amazzone con una grande cadenza vocalmente impervia e imperiosa:
Teseo: Vengo ma… oh Dio,
pietade almen
abbi della mia fé.
Dolce cor mio,
un fato rio
mi rende ingrato a te.
[Duetto, sezione 3: assolo languido di Teseo; linea dei violini in evidenza; grande cadenza finale]
È tuttavia la musica stessa, riprendendo la prima sezione dopo un brevissimo recitativo del
soprano, a confermare che lo sforzo dell’ateniese non ha avuto buon esito: Antiope ne fagocita il
canto ‘obbligandolo’ a vocalizzare insieme a lei le cadenze conclusive (la sezione ‘a due’
simboleggia la sintonia – seppur coatta – raggiunta dai due personaggi che prendono commiato
dal pubblico):
Antiope: Vieni, parti, crudel fuggi l’incanto.
Teseo: Vengo, parto, ma lascia almen…
Antiope: No, no mio ben.
Teseo: Darle l’estremo addio.
Antiope: No, no cor mio;
vieni, crudel, con me.
Teseo: Non parte il cor dal piè. (partono)
Senza alcuna soluzione di continuità la fine del duetto s’innesta nella ripresa del canto iniziale di
Arianna (scena III.5), riportando ‘l’inquadratura’ sull’eroina addormentata come se nulla fosse
successo. E in effetti la donna, pur presente in scena, non ha ascoltato nulla del dialogo tra Teseo
e Antiope in quanto preda di un sonno profondo:
Arianna: Sì caro ti consola:
quell’alma innamorata
dell’aspro mio rigore
mai non si lagnerà.
[Aria, sezione A da capo: le variazioni si limitano alla zona di coda, più intensa sul piano drammatico
e con vocalizzi nella tessitura acuta].
Varcata la soglia dell’Ottocento il melodramma non sfrutterà ancora a lungo i soggetti archetipici
delle eroine abbandonate: la Medea in Corinto di Mayr e la Didone di Mercadante saranno monadi
legate a velleità classiciste. L’operismo romantico rifiuterà in blocco le Armide, le Didoni e con
loro le Antigoni e le Ifigenie, ossia tutte quelle figure femminili condannate a una solitudine
tragica in quanto predeterminata da disegni trascendentali, tanto provvidenziali per la comunità
quanto crudeli per le singole donne chiamate al sacrificio. Nel teatro d’opera romantico
l’abbandono dell’eroina, quando si verificherà, consumerà anche la parte maschile: Enea, Rinaldo
e Teseo la fecero franca, Pollione no.
Lorenzo Mattei