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IL MITO DI ARIANNA E IL MELODRAMMA BAROCCO

Ad Arianna si lega indissolubilmente un participio passato: abbandonata. Tra i vari segmenti


narrativi del suo mito, il momento dell’abbandono da parte dell’amato Teseo sullo scoglio di Naxos
è quello che sin dall’epoca ellenistica fu prediletto dall’iconografia, in virtù dello struggente
patetismo ad esso congenito. Nella mappa delle costanti della memoria – una creazione dello storico
della cultura Amy Warburg (1866-1929) – Arianna si configura come un personaggio evanescente e
malleabile alla creatività di chi del suo mito s’impossessa, arricchendolo di significati. 1 Arianna è
una principessa – figlia del re di Creta, Minosse, e sorella del Minotauro – viene però anche definita
genericamente “ninfa” e il suo nome (ari-adne, la “più che santa”) può alludere a un ambiente
sacral-sacerdotale. Negli eventi cretesi del mito Arianna è un’eroina dinamica, ora volitiva come la
regina cartaginese Didone, ora astuta e quasi maga, come Medea o Armida (altre due celebri donne
abbandonate), infatti solo grazie al suo filo Teseo può uscire dal labirinto (simbolo complesso,
legato ai misteri iniziatici). A Delo, seppure marchiata ormai dallo status di profuga, gode del suo
amore e del suo trionfo con l’esuberanza di una baccante che danza in estasi. Ma a Nasso diventa la
“bella addormentata”, emblema d’una stasi mortifera, preda del sonno. Più che di sonno nel caso di
Arianna si dovrebbe parlare di narcosi, indotta dalla perdita dell’amore. L’atto
dell’addormentamento s’avvicina così a quello del suicidio, evitato solo grazie all’intervento di
Dioniso che permette una rinascita in seno a un amore mistico (il viraggio cristiano del mito tentò di
associare all’unione tra Bacco e Arianna l’esaltazione dell’amore coniugale monogamico).
Il legame tra Amore e Morte e tra Morte e Rinascita avvicina questo mito a quello orfico: Arianna e
Orfeo, dedicano la loro vita alla persona amata, di cui vengono privati dal destino (Euridice muore,
Teseo lascia prevalere la ragion di stato); per entrambi il dolore della perdita si declina in lamento
canoro che muove a commozione anche gli esseri privi di logos e finanche i vegetali o i minerali; il
fallimento esistenziale viene tuttavia trasfigurato da un’apoteosi voluta da un dio – Apollo per
Orfeo, Dioniso per Arianna – che smaterializza i connotati umani assimilandoli alla natura delle
stelle (in alcune versioni del mito i due protagonisti diventano costellazioni).
La musica – che dei miti classici si appropriò in modo profondo soltanto con il genere del
melodramma, e dunque a partire dal 1600 – guardò con estrema attenzione al mito di Arianna in
quanto funzionale alla mozione degli affetti ch’era la ragion d’essere d’ogni composizione. Non è
un caso che, seppur in seconda battuta rispetto al mito di Orfeo, la storia della principessa cretese
desse il via a una tradizione operistica rigogliosa, estesasi fino al Novecento. A ben vedere se si

1
Per un approfondimento sul mito di Arianna si consiglia la lettura di: Arianna: estasi e malinconia a cura di
M.Contanni e M.Forti, La rivista di Engramma, marzo 2019 n.163; A.Sbardella, Il mostro e la fanciulla, le riscritture di
Arianna e il Minotauro nel Novecento, Quodlibet 2017; Il Mito di Arianna, a cura di M.Bettini e S.Romani, Einaudi
2015; G.Ieranò, Arianna storia di un mito, Carocci 2010.
inquadrano La Dafne (1598) e L’Euridice (1600) di Peri e Rinuccini e La favola d’Orfeo (1607) di
Monteverdi e Striggio jr. come primi esperimenti di teatro tutto cantato, imparentati con la favola
boschereccia, allora L’Arianna di Rinuccini, rappresentata il 28 maggio 1708 nel palazzo ducale di
Mantova con le musiche di Monteverdi, va considerata come il primo autentico “dramma/tragedia
per musica” della storia dell’Opera. Di questa composizione nulla si conserva, tranne la scena clou,
ossia il lamento della protagonista (“Lasciatemi morire”), riscritto poi da Monteverdi in una
versione polifonica (nel VI libro di Madrigali) e come contrafactum sacro (Il pianto della
Madonna). Si tratta del prototipo della “scena lamento” costituita da varie sezioni recitative, qui
inframmezzate da interventi corali; Arianna è in balìa di sentimenti contrastanti: disperazione,
autocommiserazione, struggimento nostalgico, desiderio di vendetta e infine pentimento per il
proprio eccesso d’ira; una disposizione di affetti che ricorda quella di Didone. Per il melodramma
del Seicento l’“aria lamento” e l’“aria del sonno” diventeranno stereotipi morfologici che possono
individuare la propria madrina in Arianna, eroina abbandonata e addormentata. In particolare il
“lamento” sconfinò nell’ambito della cantta a voce sola, imponendosi come situazione drammatica
prediletta e ben più commovente delle impalpabili schermaglie amorose dei vari Tirsi, Amarilli,
Clori, Fille, e altri abitatori dell’astratta arcadia pastorale.
L’operismo barocco nella seconda metà del XVII secolo iniziò a deformare le linee narrative dei
miti classici reinventando la natura dei personaggi. Arianna diventò allora una donna talmente
proteiforme da poter essere accostata al ruolo dell’innamorata della commedia all’Improvvisa:
disposta a travestirsi, cambiare identità sessuale o dati anagrafici, nei libretti dell’ultimo Seicento è
un’eroina di affettività trasbordante, gelosa, invidiosa, nervosa ma comunque dedita anima e corpo
al suo Teseo. Non è un caso infatti che nell’opera barocca l’accoglienza del “diverso” rimase una
prerogativa dei personaggi femminili a lei simili: Didone ed Enea, Circe (o Calipso) e Ulisse,
Medea e Giasone sono coppie sbilanciate dove le donne offrono ristoro e sostegno a uomini –
fuggiaschi, profughi, naufraghi o impegnati in imprese impossibili – rinnegando la propria identità
culturale e rinunciando all’esercizio del potere a tutto vantaggio della sfera affettiva privata. Di
contro gli eroi maschili, metafore della ragion di stato, ossequiano un codice comportamentale che
antepone le responsabilità pubbliche alle proprie aspirazioni affettive. Dallo stridore tra un
“eroismo” che rifiuta il piacere e un “erotismo” declinato in senso moderno, individualista e
“borghese”, deriva una tensione destinata a sciogliersi in epiloghi tragici. Ma l’abbandono subìto da
Arianna solo in rare occorrenze del mito sfocia nel suicidio dell’eroina, destinata, dopo la fuga
dell’amante, a conoscere l’unione felice con Dioniso. Non desta meraviglia il fatto che nelle
riscritture melodrammatiche l’archetipo di Arianna riguardi perlopiù le vicende cretesi e gli amori
con Teseo, ad eccezione di un caso interessante dove l’eroe ateniese, sposato con Antiope, lascia
Arianna in ossequio al vincolo matrimoniale precedentemente contratto. Si tratta di Arianna in
Nasso, libretto di Paolo Rolli scritto per l’esordio londinese di Nicolò Porpora (Lincoln’s Inn Fields
29 dicembre 1733) posto in diretta concorrenza con l’Arianna in Creta di Händel (King’s Theatre in
the Haymarket 26 gennaio 1734). Nell’opera di Porpora il momento topico dell’abbandono (scene
III.4-5) viene gestito da un’architettura melodrammaturgica tanto inconsueta – una cavatina posta a
cornice di un duetto frantumato da recitativi semplici – quanto funzionale a rendere in musica il
sentimento che impronta l’azione inscenata: è infatti la titubanza di Teseo (indeciso se restare
insieme ad Arianna o se invece seguire la moglie) che genera l’intermittenza congenita al suo duetto
con Antiope. L’eroe ateniese, consolato dall’amico Piritoo e pronto a lanciarsi in «nuove imprese»,
ripiomba nell’indecisione logorante allorquando ascolta le dichiarazioni d’amore che Arianna
addormentata pronuncia in sogno:
Arianna (dormente, sognando dice):
Io son la sola, sola
immagine adorata,
che impressa è nel tuo core
e mai non partirà.

[Aria, sezione A: melodia pregnante, orchestrazione ‘morbida’ (flauti e pizzicato ai bassi), ritmo
danzante ternario]

Antiope, per convincere il marito a seguirla, sceglie dapprima la via dell’insistenza violenta,
musicalmente effigiata da Porpora con il ricorso a formule tipiche dell’opera buffa: le continue e
‘meccaniche’ ripetizioni degli imperativi «vieni», «parti», «fuggi», finiscono col far assumere alla
regina amazzone i tratti di una servetta stizzosa (il cui nervosismo è veicolato anche dal ritmo
acefalo mantenuto dall’accompagnamento orchestrale). Ad esse si sovrappone il canto di Teseo, di
segno emotivamente opposto (frasi lunghe vs semifrasi frante da pause; canto in stile declamatorio
vs sillabato; diastematica discendente vs progressioni ascendenti) e sfociante, ex abrupto, in un
secondo recitativo secco:
Antiope: Vieni, parti, fuggi l’incanto.
Teseo: L’alma vorrebbe,
ma non può tanto;
lo spirto manca,
s’arresta il piè
Antiope: Lascia chi amar non dèi, segui chi t’ama.
Teseo: È pietà, non è amore.
Antiope: E perché dunque,
crudel, di me, di te pietà non hai?
il tuo partir prova ne fia: deh vieni!

[Duetto, sezione 1: brevi frasi di Antiope, agogica concitata; canto di Teseo contrastante con frasi
lunghe, discendenti e in stile declamatorio]

Antiope sceglie allora (sezione II) la via della seduzione canora – rallentando l’agogica e dilatando
la fraseologia del suo profilo melodico giocato su progressioni e su incursioni nel registro acuto –
invitando Teseo a fare altrettanto: l’eroe ripete la melodia larmoyante che viene sempre
punteggiata dalle esclamazioni della moglie, collocate dal compositore al solo fine d’incrementare
la tensione del brano:

Antiope: Vieni cor mio,


un van desìo
ti fa crudele a me.
Teseo: L’alma vorrebbe,
lo spirto manca
s’arresta il piè.
Antiope: Ed è questo l’amor che mi giurasti?
Questa la fé che promettesti? Ah vieni!

[Duetto, sezione 2: frasi lunghe di Antiope, agogica rallentata; canto di Teseo modellato su quello di
Antiope]

La terza parte del duetto, dopo un nuovo recitativo secco che ne aveva interrotto il tormentato
decorso, si concentra sull’ultimo tentativo da parte di Teseo di opporsi ad Antiope: la ricerca di
commuovere l’interlocutrice si impernia ora sulla sinuosità del mélos tornito, ora sulla dolcezza
delle progressioni e delle appoggiature nella linea dei violini; alla fine dell’episodio Teseo cerca
anche di imporsi sull’amazzone con una grande cadenza vocalmente impervia e imperiosa:
Teseo: Vengo ma… oh Dio,
pietade almen
abbi della mia fé.
Dolce cor mio,
un fato rio
mi rende ingrato a te.

[Duetto, sezione 3: assolo languido di Teseo; linea dei violini in evidenza; grande cadenza finale]

È tuttavia la musica stessa, riprendendo la prima sezione dopo un brevissimo recitativo del
soprano, a confermare che lo sforzo dell’ateniese non ha avuto buon esito: Antiope ne fagocita il
canto ‘obbligandolo’ a vocalizzare insieme a lei le cadenze conclusive (la sezione ‘a due’
simboleggia la sintonia – seppur coatta – raggiunta dai due personaggi che prendono commiato
dal pubblico):
Antiope: Vieni, parti, crudel fuggi l’incanto.
Teseo: Vengo, parto, ma lascia almen…
Antiope: No, no mio ben.
Teseo: Darle l’estremo addio.
Antiope: No, no cor mio;
vieni, crudel, con me.
Teseo: Non parte il cor dal piè. (partono)

Senza alcuna soluzione di continuità la fine del duetto s’innesta nella ripresa del canto iniziale di
Arianna (scena III.5), riportando ‘l’inquadratura’ sull’eroina addormentata come se nulla fosse
successo. E in effetti la donna, pur presente in scena, non ha ascoltato nulla del dialogo tra Teseo
e Antiope in quanto preda di un sonno profondo:
Arianna: Sì caro ti consola:
quell’alma innamorata
dell’aspro mio rigore
mai non si lagnerà.

[Aria, sezione A da capo: le variazioni si limitano alla zona di coda, più intensa sul piano drammatico
e con vocalizzi nella tessitura acuta].

Il momento tragico e statico dell’abbandono conosce così in quest’opera un dinamismo


inedito e toni espressivi finanche grotteschi.

Varcata la soglia dell’Ottocento il melodramma non sfrutterà ancora a lungo i soggetti archetipici
delle eroine abbandonate: la Medea in Corinto di Mayr e la Didone di Mercadante saranno monadi
legate a velleità classiciste. L’operismo romantico rifiuterà in blocco le Armide, le Didoni e con
loro le Antigoni e le Ifigenie, ossia tutte quelle figure femminili condannate a una solitudine
tragica in quanto predeterminata da disegni trascendentali, tanto provvidenziali per la comunità
quanto crudeli per le singole donne chiamate al sacrificio. Nel teatro d’opera romantico
l’abbandono dell’eroina, quando si verificherà, consumerà anche la parte maschile: Enea, Rinaldo
e Teseo la fecero franca, Pollione no.

POSTILLA SU ALCUNE “ARIANNE STRUMENTALI”


In più d’un caso la musica strumentale barocca, quasi impaurita della sua raggiunta autonomia
formale ed estetica, volle affibbiarsi titoli allusivi al mondo mitologico o letterario (suggestioni
che, in verità, erano incentivate dagli editori musicali che speravano di veder aumentare la
curiosità degli acquirenti, amatori e dilettanti). Per quanto concerne il mito di Arianna la musica
strumentale vi fa riferimento privilegiandone l’episodio dell’abbandono e dunque guarda alla
vocalità del melodramma barocco: è il caso dell’ultimo concerto grosso dell’Op.VII di Locatelli Il
pianto d’Arianna (1741) dove il violino solista dà voce allo strazio della donna sullo scoglio di
Nasso ricreandone gli accenti e i palpiti. Ma per chi scriveva musica strumentale pensando a
questo mito, poteva imporsi anche l’immagine del labirinto, metafora del cimento compositivo ed
esecutivo: Caspar Ferdinand Fischer scrisse nel 1715 Ariadne Musica, opera dove i brani seguono
venti tonalità diverse, in tono minore e maggiore, strutturandosi intorno a un tono centrale che
equivale al centro del “labirinto armonico” creato per spiazzare l’ascoltatore. Sempre Locatelli,
nel 1733, aveva scritto Il laberinto armonico, l’ultimo concerto della raccolta L’arte del violino
Op. III: il moto d’apertura recitava “facilis aditus, difficilis exitus”, una sorta di monito per chi si
fosse misurato con le difficoltà di quel brano, tanto complesso da far perdere la strada
all’esecutore inesperto e privo del filo di Arianna, i.e. la preparazione tecnica. Arianna nelle
musiche senza voce è Lamento ma soprattutto è Labirinto.

Lorenzo Mattei

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