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03/04/2023

Siamo in una narrazione a cornice cioè un canto che viene riferito da un personaggio (che non è il
narratore epico) che è una delle muse che, a sua volta, riferisce e riproduce, parola per parola, a
Minerva il canto che è stato eseguito in occasione di una gara canora con le figlie di Piero.
Questo carmen è stato affidato a una di loro: Calliope, è un canto, come quello delle Pieridi,
peraltro che viene eseguito in maniera musicale insieme alla parte testuale.
Ai versi 337 seguenti la musa dice a Minerva “abbiamo incaricato per l’essenziale della gara
(summam certaminis) una di noi” e subito dopo la nomina “Calliope”, descrivendola in gesti che
sono di preparazione all’esecuzione: prima di tipo musicale “praetemptat querulas chordas
pollice” al verso 339 e dopo questo “subiungit percussis nervis carmina”. È solo con l’inizio
letterale cioè in discorso diretto del Carmen di Calliope che l’ascoltatore quello interno, fittizio
(cioè Minerva) e l’ascoltatore, il lettore esterno (ovvero noi) capisce di cosa parlerà questo canto
di Calliope che gareggia a nome delle muse, ma a buon diritto questo carmen è un carmen di
Calliope. Questo è importante perché abbiamo detto l’annuncio dell’argomento viene dato in una
forma che stilisticamente annuncia anche un’altra cosa: questo soggetto diremmo Ceres (la seconda
parola al verso 341). La dea Cerere è un soggetto mitico, ma anche sacro, è una delle maggiori
dee. Il modo in cui viene immediatamente introdotta la dea, non è informativo di tipo narrativo (cioè
“narrerò questo episodio di Cerere quando ella”) ma abbiamo detto i primi versi 341-345 sono al
tempo stesso, dal punto di vista dello stile, un segnale inequivocabile di modalità innodica
comunque di poesia in esametri, ma di poesia più che epico narrativa, innodica sacrale in cui nulla
impedisce di raccontare cose molto precise e in ordine, narrativamente progressive, ma esse
vengono narrate all’interno di uno schema che è di lode del Dio, molto simile allo stile religioso di
ogni religione, lode del Dio, elogio. Questa modalità si articola nei versi 341-345 con una grande
cura ed eleganza di parola.
Le tre anafore:
 L’anafora di “Prima Ceres unco glaebam”
 “Prima dedit fruges”
 “Prima dedit leges” chiusa dalla sentenzia “Cereris sunt omnia munus” “Tutto è dono di
Cerere” (verso 343).
Poi negli ultimi due versi di questa cinquina che fa da introduzione proemiale innodica c’è:
“Illa canenda mihi est” chiuso da “dea carmine digna est” una sorta di assonanza.
Il concetto di digna si trova nel verso 345 quando la musa dice “Se io potessi dire carmi degni
della dea, certamente la dea è degna di un carmen” anche questo è un modo di articolare questo
stile cultuale, devoto, che è vicino all’inno religioso, insieme però a una accuratezza formale di
posizione di parola, di figure retoriche.
Questa parte fino al verso 345 annuncia di fatto il soggetto Ceres è vero, però finché Calliope non
avvia quello che è l’inizio del racconto vero e proprio: l’ascoltatore non sa che cosa sarà detto.
C’è una possibilità, già nella materia mitologica, teologica in questo caso perché si parla di dei, che
è comunque una pluralità di scelta.
Dal verso 346 si parla di Trinacria, di giganti abbattuti e di fatto schiacciati di cui il più audace di
tutti: Tifeo fu schiacciato letteralmente dall’isola di Trinacria.
“Vasta Giganteis ingesta est insula membris” molto parlante a chi ha sentito tutta la storia da prima
ovvero Minerva, cioè a chi ha sentito di che cosa hanno parlato le Pieridi. Le Pieridi hanno
impostato tutto il loro canto su una vicenda famosissima: la guerra degli dei esaltando però non gli
dei dell’Olimpo, ma i loro nemici i giganti, in particolare Tifeo perché il più spaventoso, il più
potente, è quello che li ha messi in fuga. Da un lato è chiaro che non fatichiamo a cogliere l’effetto
di collegamento, come se il soggetto che hanno scelto le Pieridi abbia dato un’idea alle muse.
Le muse hanno a loro disposizione una sapienza: completa, innata, di qualunque argomento e
quindi il loro repertorio è a portata di mano senza nessuna fatica e scelgono in questo momento, non
si confrontano tra di loro. Le muse, nove in tutto, poi vi è colei che presidia la poesia più alta
Calliope ha (proprio da degna figlia di Mnemosine che, non a caso, è la memoria) un sapere
onnipresente, a portata di mano e, soprattutto, già pronto all’esecuzione esteticamente perfetta
con questo si è muse, poi gli uomini si ispirano a questo modo e ognuno studia e crea per riprodurre
qualcosa di vicino al canto delle muse.
Ha preso l’idea, però è chiaro che i versi di Cerere, di lode a Cerere non potranno rimanere così
separati e autosufficienti, a un certo punto capiremo perché con questo inizio (che parla di Tifeo
schiacciato dalla Sicilia) entriamo nell’argomento demitriaco o di Cerere, lo capiamo molto bene
perché se i nomi sono giganti, Trinacria (quindi sono anche toponimi), Tifeo.
Poi ci sono le tre indicazioni di come è schiacciato il corpo di Tifeo: abbiamo detto lui è sulla
schiena con la testa che corrisponde all’Etna e il braccia destro al Peloro, a Pachino il braccio
sinistro e questi piedi che naturalmente si estendono in maniera laterale dall’Etna a ovest in
corrispondenza del Lilibeo, della punta a ovest della Sicilia.
L’azione che fa Tifeo è un’azione di tentativo di scrollarsi di dosso la massa di terra che gli preme e,
siccome è gigante mostruoso abbattuto, non morto, però abbattuto e non è in grado di fare più
danno, ma siccome è una creatura mitologica non è morta, ancora in grado di vomitare fiamma
come nelle sue prerogative, altro non è che l’eruzione dell’Etna questo tipo di sommovimento di
Tifeo sotto la Sicilia.
Ai versi 354 questo movimento viene ulteriormente dettagliato si dice: “(Saepe luctatur) Spesso si
dibatte e lotta (remoliri pondera terrae) per liberarsi e spingere il peso della terra e (devolvere
corpore) cioè togliere dal suo corpo (oppida et magnos montes) città e grandi montagne” è un
movimento, in questi 2 versi, molto fisico, molto semplice da capire. Immaginate uno che è
seppellito, letteralmente, sotto una massa di terra che, essendo qui l’isola è fatta di città, di
montagne, di tutto quello che compone una geografia e questo provoca un movimento che da un
frutto, un esito che il verso 356 spiega chiarissimamente. “Inde tremit tellus, et rex pavet ipse
silentum, ne pateat latoque solum retegatur hiatu inmissusque dies trepidantes terreat
umbras.”
Verso 356: Notate “inde” com’è didascalico, vuol dire “quindi” cioè “di conseguenza la terra
trema (tremit tellus)” attenzione all’entrata in scena di un personaggio, capiremo essere uno dei
protagonisti della vicenda, che non viene chiamato con un nome, ma con una sua carica “rex” che
già spiega perché possono usare il nome, sono pochi ad essere reges tra gli dei, non è una
diminuzione non usare il nome, ma può essere anche un’elevazione.
Viene chiamato rex silentum: molto bello questo sintagma il re dei silenti cioè i silentes sono le
ombre, sono coloro che non hanno parola perché sono i morti, quindi fa parte sempre della ricerca di
eleganza in questo canto di Calliope, non è così scontato chiamare Plutone rex silentum (rex sì è
usatissimo). Cosa dice di questo re? Pavet cioè il re delle ombre silenti paventa (vuol dire ha paura)
e notate come si articola questo verbo di timore con una subordinata introdotta da ne al verso dopo
(verso 357).
Si mette in risalto che cosa? Che il tremito della terra che Tifeo sta procurando in questa sua
agitazione mette in timore persino il re dei silenti cioè personalità, naturalmente divina, che non
teme nulla, ma questa scossa comincia essere così frequente, così forte che persino il re dei silenti
teme cosa? (Ne pateat) Teme che il suolo si apra e con un largo iato, una fenditura, una apertura
come una larga voragine si apra e si spacchi. Il timore è troppo preciso (c’è troppo movimento) lui,
che presiede un regno sotto terra, teme che la terra esterna, proprio perché Tifeo la agita assai e
tenta di togliersela di sopra, si apra: questo aprire voragini diremo ma che nesso c’è col suo regno?
il suo regno abbiamo detto è sotterraneo ed è un regno che è luogo di potere per lui, la cui tenuta, la
cui manutenzione è la prima cosa. Il regno di Ade, di Plutone, degli inferi, di questo Rex è un
regno che deve rimanere sotterraneo com’è, quieto, quindi non può tollerare delle incursioni,
anche minime, anche di prospettiva spaziale in cui la terra esterna si apra e quello che c’è sotto
venga visto. Il punto di vista non è tanto qui nella paura, non è detto “ha paura che si apra una
voragine e gli uomini mortali possano vedere qualcosa sotto”, non è questo che fa pure parte dei
concetti anche sacrali e simbolici di un regno dei morti con cui vivi non devono avere a che fare,
possono avere dei mediatori che gli aiutano a comunicare, ma andare nel regno dei morti è la
catabasi un evento eccezionale concesso solo in situazioni rarissime la cui rarità eccezionalità è
motivata in maniera solenne.
 Noi abbiamo nell’epica Virgiliana: l’eccezionalità di quello che fa Enea è motivata da una serie
di volontà divine, di necessità eppure per farlo deve avere un accompagnamento, la Sibilla deve
compiere una serie di riti, deve superare il terrore che questo fa perché il regno dei morti è
un’altra dimensione.
 L’altro caso di catabasi che, non a caso, il nostro grande Ovidio canta nel 10º libro che Orfeo è
invece che l’eroe solenne che va nel regno dei morti perché lo obbligano gli dei in qualche
modo, forse è il cantore innamorato disperato perché ha perso la giovane sposa che non sente
neanche questa paura e si trova ad andarci quasi senza saperlo, ma anche questo è un oltranza:
un attraversamento del regno dei morti cioè della soglia tra vivi e morti non si fa senza pagare
qualcosa, senza ottemperare a una serie di cose. Orfeo lo fa perché hai il canto che è divino, lui è
quasi trascinato dal suo stesso canto e riesce poi a incantare anche gli abitanti di quel regno, però
poi sappiamo che quasi ci riesce ad avere quello che nessun altro vivente ha cioè avere la
restituzione di un morto in vita, ma deve tornare comunque da solo.
L’archetipo di un attraversamento o di un contatto diretto con le anime dei morti (per archetipo
intende la formulazione letteraria e omerica ed è nell’11esimo libro dell’Odissea). Odisseo non va
dentro il regno dei morti, c’è una collocazione molto a ovest nelle terre dove non c’è mai il sole ed
è una collocazione vagamente sotto terra sì, però in cui non si esalta per esempio questo passaggio
dalla terra alla discesa sotto terra, anche perché Odisseo, non va con i suoi piedi, si ferma al limite
di questo mondo, fa dei sacrifici in cui è stato istruito anche da Circe, deve sapere cosa fare,
allontana tutti i compagni e aspetta che le ombre salgano fino a questo limite così arrivino e gli
si presentino davanti.
Poi tutto il modo di narrare, che cosa dice il vivo ai morti e i morti al vivo diventa un modello che il
sesto dell’Eneide rielabora e rimane una matrice anche di topoi della letteratura poetica
occidentale, però fisicamente Odisseo non fa una catabasi, non scende dentro. Lui evoca e
aspetta molto spaventato e compreso nel ruolo aspetta che gli si palesino, gli si presentino davanti
le ombre con cui vuole interloquire. La cosa avviene e arrivano folle di ombre, lui comincia a
vedere una serie di persone e ovviamente poi organizza i suoi dialoghi e, come al solito, Odisseo
fa un po’ funzionalmente perché deve sapere cose per sè e un po’ vuole sapere le cose dell’altro
mondo che solo i morti sanno. C’è una parte di dialogo che Odisseo vuole avere con i suoi
compagni di guerra che sapeva morti, di alcuni non sapeva come, per esempio di Agamennone, il
generale dell’armata, forse non sapeva neanche che non fosse tornato a casa perché Odisseo è uno
che non ha fatto più ritorno quindi le notizie dei suoi compagni non le sa. Dunque vi è il dialogo
con Agamennone, c’è il dialogo celeberrimo con Achille e c’è un non-dialogo e ovvio con Aiace
che lo odia ancora e lui è un po’ l’archetipo, è la matrice della scena diciamo mutati i protagonisti di
Enea che vorrebbe parlare con Didone e Didone nè lo guarda né gli rivolge minimamente la parola.
C’è anche il dialogo con la madre di Odisseo, cosa che lui non sapeva, aveva lasciato una famiglia
tutto sommato 10 anni prima, quasi 20 ormai, con un bambino piccolo una moglie giovane come lui
e due genitori. Questo dialogo con la madre è una delle cose più straordinarie anche perché
semplicissimo.

Plutone, il re delle ombre silenti, non ha una preoccupazione sacrale che i mortali possano vedere.
Dal Verso 358 (Inmissusque dies trepidantes terreat umbras) capovolge il punto di vista perché
dice: “lui ha paura che il suolo si posso aprire con una voragine larga” e il dies è il giorno.
“La luce immessa terrorizzi, spaventi (terreat) le ombre tremanti”. È interessante questa
elaborazione che fa Ovidio di un tratto che è molto umanizzante di Plutone, nel senso di rex anche
molto pratico, come dovrebbe essere un re cioè preoccupato del suo regno, dei suoi sudditi che
stiano sempre tranquilli. In questo caso è veramente una preoccupazione, la loro vita è una vita
sotterranea, il loro regno è quello in cui si aggirano dove non c’è il raggio di sole, non c’è luce
perché è così che è stato decretato e lui è il padrone assoluto di questo regno ed è così che deve
continuare questa vita. Cioè avere uno squarcio di quella terra e vedere la luce esterna è perturbante,
addirittura terrorizzante, terrorizzerebbe i silentes, le ombre è come se passati a quella dimensione si
dimenticasse il resto, non c’è più nesso con i viventi. Dal punto di vista dei viventi è il terrore
opposto, ma una volta che si attraversa la soglia e non si è più vivi, ma morti, ci si abitua a una
esistenza che obbedisce ad altri canoni. Questo punto di vista cioè Plutone preoccupato che
avvenga qualcosa che gli danneggi il suo regno e che possa turbare le sue ombre è importante
perché nel mito poi della fanciulla rapita viva naturalmente, che vivente va ad abitare, a regnare
nel regno dei morti era, fin dall’origine, dalla formulazione della storia mitologica, c’era l’elemento
che dal regno dei morti, tendenzialmente una volta entrati, non si può uscire. L’eccezione che
si potrebbe fare per la giovane ragazza Proserpina, all’inizio sembra che si possa fare cioè la si
possa restituire alla luce, a farla uscire di lì e basta, è uno dei compromessi a cui la madre è disposta
a scendere (cioè senza punire il rapitore dire va bene hai fatto questo è una cosa offensiva al
massimo nei miei confronti, però diciamo sono disposta a passarci sopra perché me la vengo a
riprendere: questa è una versione, però che con questa chiarezza, non troviamo qui, ma nell’altro
testo che abbiamo la fortuna di avere di Ovidio, in cui racconta questa storia che sono I Fasti);
in realtà, nel mito, fin dalle origini si dice una volta che è stata portata come sposa da Plutone nel
regno, il problema è esattamente quello: entrare in quell’orbita sotterranea vuol dire non poterne
uscire più. All’inizio c’è questa vigilanza che Plutone fa rispetto a un regno che deve mantenere la
sua integrità (per integrità intendo un suo rapporto chiuso separato con l’esterno: l’aria, la luce)
questo è il suo regno, è un regno che viene garantito nella sua continuità con questa tranquillità
funziona, lui è il re si occupa di questo.
Al verso dopo un sinonimo di Rex viene usato cioè tyrannus. Verso 359: “Hanc metuens cladem
tenebrosa sede tyrannus exierat, curruque atrorum vectus equorum ambibat Siculae cautus
fundamina terrae.”
Metuens: terzo verbo di temere in poche righe [pavet-terreat e ora metuens] è una narrazione
all’insegna della verosimiglianza, anche molto umanizzata; lui non ha paura, non è un terrorizzato,
ma è un preoccupato e dice qui arriva qualcosa che sconvolgerà gli abitanti del mio regno, i miei
sudditi e non va bene, cioè temendo questa cladem che vuol dire anche strage, massacro, però più in
generale vuol dire catastrofe cioè come dire cosa grave, un massacro, il disastro è una catastrofe
che mette a subbuglio questo regno.
Verso 359: “Quindi temendo questa catastrofe, questo disastro il tiranno (in senso greco), il
signore della sede tenebrosa (ci ricorda che è il suo regno, può fare paura, è tutto buio, ma è così, è
fatto così quel regno).”
Sono 3 i regni cioè l’aria, il mare e il sottoterra, a lui è toccata la terza parte, è un regno quindi è
un potere notevole, ma all’apparenza sembra il più brutto dei tre, sembra il più punitivo, lui lo
gestisce da re ottenendo dei poteri che gli consentono di uscirne, entrarne, non lo fa spesso e lo fa
proprio per una funzionalità urgente, vigilare, andare a vedere ed è lì che sarà accolto da quello che
non si aspetta. Posidone col mare: un regno bellissimo con gli oceani, ma perturbante anche quello.
La prima sarebbe la più bella, l’aria, la luce degli dei olimpici e soprattutto di Giove.
Come una triade di pari, di tre fratelli, di pari peso che però insomma nella divisione vanno a
presiedere situazioni ognuna con delle caratteristiche.
Spesso per bilanciare questa apparenza tenebrosa e anche un po’ tetra che ha il terzo regno, proprio
perché sotterraneo, chi magari si rivolge a Plutone con formule di preghiera elogiativa dice “questo
è il regno dove tutti vanno a finire” cioè un regno che per numero di sudditi supera gli altri due
perché tutti i viventi vanno a finire qui.
Per esempio in maniera di preghiera e di lode Orfeo stesso quando si rivolgerà sia Plutone che alla
sua consorte appunto dicendo “voi che reggete il regno dove tutti noi verremo, siete quelli più
potenti quindi spesso è anche per bilanciare questa apparenza di poca gioia di questo regno”.
“Era uscito (exierat)” Come esce Plutone? Qui siamo all’iconografia che poi per Ovidio è sempre
molto importante perché sa che i lettori possono fare gioco sull’iconografia che conoscono sia
letterariamente, ma anche l’iconografia dalle arti, dalle statue, dalla statuaria, quindi Plutone può
essere anche libero, a piedi.
Verso 360: “Esce sul suo carro con i suoi cavalli neri” (vectus atrotum equorum curruque) esce
e fa una cosa precisa (ambibat fundamina cautus Siculae terrae) “faceva il giro, in realtà, della
Sicilia verificando, vigilando le fondamenta (fundamina cautus)”.
È ampio il regno dei morti, una delle porte nella catabasi di Enea è la zona paludosa di Pozzuoli per
entrare, ma poi una volta che entri da qualunque parte, il regno dei morti si estende in larghezza.
L’ambientazione sicula del ratto di Proserpina che Ovidio sceglie qui proprio, porta con sé, con
coerenza il fatto che Plutone si aggiri da queste parti. L’antefatto per essere verosimile,
narrativamente, è che Tifeo il gigante è schiacciato lì e sta facendo sommuovere la terra di Sicilia e
guarda caso Plutone va a fare quest’ispezione della terra siciliana e, cosa importante, la ragazza
Proserpina si trova in terra di Sicilia. Questa scelta stava in una delle versioni e una volta scelta
l’importante è unire i fattori in una maniera narrativamente persuasiva, plausibile. L’esplorazione
cioè letteralmente l’andare a vedere se questi punti dove Tifeo provocava tremore, si agitava
stavano dando luogo a qualche voragine oppure no, Plutone la fa e verifica che non c’è pericolo.
Il verso 362 comincia con una temporale “Postquam” in cui l’azione viene detta, ma già come
risolta.
(Postquam exploratum satis est loca nulla labare) “Dopo che ha esplorato sufficientemente, ha
verificato abbastanza che nessun luogo oscillava, tremava (quindi un esametro, una proposizione
secondaria di tipo temporale che però dice una cosa che ha una sua importanza) dismessa la paura
(depositoque metus,) [in realtà qui la principale mette in campo un personaggio che non avevamo
presupposto e però c’è, perché è soggetto e con la stessa formula elegantemente perifrastica, non
diamo un nome.] (videt hunc Erycina vagantem monte suo residens,) “La dea di Erice lo vede
mentre vaga, lo vede vagante dal suo monte” (cioè che si muove sì a fatto queste operazioni e
ancora si muove). Dunque Plutone viene visto dalla dea di Erice (ambientazione siciliana che si
conferma ed è plausibile). La Ericina che vuol dire colei che è di Erice, residente sul suo Monte,
vede lui che si muove vagante, che gira.
L’altro verbo che concorda con videt è dixit. Amplexa è verbo deponente, vuol dire abbracciare.
(natumque amplexa volucrem ‘Arma manusque meae, mea nate, potentia’ dixit”)
“E abbracciando (amplexa) il nato alato (il nato vuol dire il figlio, è poetico, volucrem
letteralmente dotato di ali) [Anche su questo Calliope sceglie un modo di parlare che presuppone
che l’Ericina tu sai chi sia, il figlio di Venere, lo dirà dopo come si chiama. Dice la dea di Erice
abbraccia suo figlio con le ali: abbiamo già capito di chi si parla.] Abbraccia e le dà subito la parola
quindi è un personaggio che entra, non solo all’apparenza in maniera sorprendente, ma c’è anche
Venere ed interessante questo perché è sempre un carmen che si è aperto in nome di Cerere.
“Abbracciato suo figlio volante, alato disse” e qui comincia il discorso di Venere, un discorso che
Calliope riporta parola per parola in discorso diretto, in locutio recta.
Comincia il discorso di Venere al verso 365 e termina a metà del verso 379. È un discorso
articolato. Come modello di discorso che ha una potente memoria virgiliana.
(‘Arma manusque meae, mea nate, potentia’)‘O mie armi e mie mani, potenza mia’ questo è il
vocativo con cui lo chiama, qui c’è qualcosa di elogiativo in un rapporto di poteri pari perché vuol
dire io sono la dea dell’amore potente, ma tu sei quello che mi fa da strumento, sei le mie mani.
Potentia meae vuol dire questo figlio mio, potenza mia. Quindi c’è l’affettività per come possa
esprimersi un’affettività della dispotica Venere verso un Dio che ha fattezze di bambino, anche
nell’iconografia, ma è potente come lei e poi proprio per le armi che ha (sono armi molto concrete,
le frecce), lei poi lo chiama Cupido e subito al secondo verso (366) dice quello che vuole: “(Illa
cape tela) Prendi quelle frecce (più imperativo) (quibus superas omnes) con le quali vinci tutti.”
Cosa vuol dire con le quali vinci tutti? La freccia di Cupido per quanto sia piccolina perché lui è
piccolino tipo amorino ed è volante (è un potere essere volante), ma per il resto ha un’apparenza che
trae in inganno perché sembra il più infantile degli dei, il più debole. Il lettore delle Metamorfosi sa
già che questo potere di Cupido si è visto nel primo libro in maniera devastante su uno degli dei più
potenti, più lanciatori di frecce ovvero Apollo.
Lei è molto complimentosa con suo figlio nel primo esametro perché dice ‘Armi mie, mie mani, mia
potenza, o figlio’ disse ‘prendi quelle frecce con cui vinci tutti, o Cupido’. “(Inque pectus dei
molire celeres sagittas,) Lancia nel petto del dio le celeri frecce”.
Il verso dopo serve a specificare quale dio con la relativa “cui”. Le rapide saette lanciale nel petto
del dio a cui la sorta diede il più recente dei tre regni (cui triplicis cessit fortuna novissima
regni.) Alla lettera i novissima regni sono i territori recenti mai visti prima del triplice regno.
Il triplice regno è fatto di aria, mare e sottoterra e lui ha avuto sottoterra che vuol dire dove
vanno i morti; “gli è stato affidato a lui, gli è stato dato come regno” il comando è immediato,
preciso cioè lancia la freccia nel petto del Dio, di Plutone, ora è un comando che Cupido non
avrebbe bisogno di ulteriori spiegazioni per eseguirlo di fatto, però anche un comando come quello
di Venere in una situazione del genere è benfatto, se è meglio argomentato.
Qui si va a una forma di argomentazione che è molto in linea con la rappresentazione degli dei in
Omero, fino a Omero, ovviamente umanizzati, in cui c’è un rapporto tra dei che è di parità, di
rispetto reciproco, ma a volte anche di invidia, di offesa, di suscettibilità, anche di gara di poteri di
influenza; posto che tutti gli dei dell’Olimpo sono potenti e sono tutti pari grado, ma volte proprio
per questo c’è qualcuno o qualcuna che in certi periodi si sente trattata meno rispettosamente, fa
delle richieste e vengono ignorate. Cosa vuol dire poi fare richieste ed essere ignorate? Ognuna
delle dee ha una attività cui presiede dove è la più potente. Se non essere abbastanza rispettata, per
Venere, vuol dire “io che presiedo all’amore all’eros e vorrei che questo mio potere pervadesse tutti,
vedo che non è così: Cos’è non rispettare il potere di Venere? Non curarsi di eros, amore e
congiungimento amoroso. Simbolicamente, ma non tanto, anche letteralmente, quando si dice
Dafne, la ninfa o una giovane venera molto di più Artemide che Afrodite vuol dire: coltiva cose che
stanno a cuore ad Artemide e non quelle che stanno a cuore alla dea Afrodite. L’esempio tragico
maschile in quel senso è il giovane Ippolito, il figlio di Teseo, che ha un vero culto per Artemide
che si traduce in un modo di vivere con le cose che alla dea Artemide piacciono che non hanno nulla
a che fare con l’eros, hanno a che fare con frecce, caccia ecc. Questo essere offesa è letteralmente
così anche nell’Ippolito Euripideo che è una tragedia con tutta la gravità del linguaggio tragico, ma
è proprio questo cioè è un Afrodite vendicativa che non sopporta di essere messa da parte: In cosa?
Nel fatto che bisogna tenere conto, essere sempre molto ubbidienti, non solo fare culti, ma fare
sacrifici per, vuol dire che la dea comanda di occuparsi dell’amore e bisogna dare retta. È molto raro
che si possa fare questo e rimanere impuniti, lo possono fare dei parigrado. Discorso che ha a che
fare con i parigrado di Venere perché non sta parlando di mortali, ma di dei. Lei dice tu devi
scagliare le tue frecce, quelle che a cui non scappa nessuno, sostanzialmente perché il mio potere, il
nostro potere, questo dell’amore, non è dappertutto onorato e ci sono figure ne elenca due nel verso
375 (inizio e fine di esametro) Pallade e Diana che sono l’esempio di un potere di Venere che non è
riuscito, che è stato ignorato. Sono dee vergini e intenzionate a rimanere aliene da tutte le
occupazioni che hanno a che fare col contatto con l’altro sesso e quindi la riproduzione.
Una è Minerva e l’altra è Diana e già questo è accettato forzosamente da Venere. In realtà dice io
qui ho l’occasione, dato che si presenta rarissimamente (cioè Plutone all’aria aperta), di andare a
colpire lui, ma lui è un soggetto maschile (il discorso della potenza di Venere vale sia per maschi
che per femmine). Plutone è un re che sta svolgendo il suo ruolo, è uno dei fratelli di Zeus, non ha
una partner.
Non è che per esempio il secondo regno, quello del mare, contempli (anche nel racconto arcaico
Esiodeo) Posidone e moglie? Da notare che la configurazione coniugale che ripete proprio
l’esempio del potere della coppia sovrana è quello di Zeus. Questo non impedisce a Zeus di
riprodursi con altre prima delle mortali. Per il nostro mito ci interessa perché Demetra è sorella di
Zeus, nonché madre di sua figlia, cioè è in uno stadio diciamo di gamos, di nozze che possono
essere tra consanguinei. Era va a prendere il posto di quella che è la sposa, ma anche lì ha origine
sorella di Zeus. La caratteristica di Era Giunone è che poi mantiene questo status coniugale con tutta
una serie di implicazioni cultuali, ma Demetra, sorella di Zeus o Giove, è anche madre di una figlia
che hanno avuto insieme. Posidone ha una serie di amori più o meno, però poi Posidone è un re
delle acque che non ha una regina accanto.
Il caso di coniugium, alla latina, cioè di configurazione matrimoniale di una compagna, di un
legame amoroso: l’altro caso è esattamente Plutone cioè Plutone è re e, a un certo punto, questo re
avrà accanto una regina, riproducendo quella configurazione di regno a calco monarchico che però
si esprime in coppia matrimoniale. Il rapimento cioè la modalità di prendersi questa moglie, da
parte di Plutone, è una modalità anche così antropologicamente conosciuta di nozze obbligate
e il ratto a fine di nozze, anche senza nozze (ad esempio il ratto delle Sabine). Il raptus (che in
latino vuol dire il rapimento di Proserpina) è un elemento molto specifico perché l’innamoramento
di Plutone per Proserpina sì, ma non è l’innamoramento importante, ma l’importante è la forma
pratica che prende questa freccia d’amore, prendere la ragazza e con la modalità delle nozze
obbligate, di forza portarla nella casa dello sposo (la casa dello sposo è il regno dei morti).
La idea di Venere è un’idea che le viene vedendo fuoruscire, una volta tanto, Plutone che non ha
ancora moglie e con questo affermare il suo potere in due direzioni:
 una è la direzione di Plutone;
 l’altra è la direzione di Proserpina, della ragazza perché nel discorso lei dirà “il nostro potere
viene disprezzato, non siamo così rispettati e obbediti, hai visto l’esempio di Pallade e Diana su
cui non c’è più niente da fare. Se aspetto ancora un po’ di tempo la figlia di Demetra è una che
sembra avviarsi sulla stessa strada cioè la scelta della verginità, ma nel senso l’indifferenza al
dato erotico, all’amore.”
Quale migliore occasione? Abbiamo il re dei morti (un rango altissimo), dimostriamo una potenza
su tutti gli dei (la potenza di Cupido non ha rivali) al tempo stesso tolgo da tentazioni virginali e di
indifferenza l’eros una illustre fanciulla che è figlia di Demetra, perché in pratica cosa succederà?
La freccia di Cupido instilla in Plutone una inclinazione a innamorarsi di qualcuno che vedrà: la
forza della freccia, dell’amore è questo, mette in una condizione in cui d’improvviso, in maniera
irreversibile, tu vedendo un oggetto del desiderio, lo desideri e te lo prendi se puoi.
Qui il ratto di Proserpina consiste nel: Plutone vede la bella e giovanissima ragazza dove? In terra
di Sicilia, in attività che non hanno niente a che vedere con attività dell’età adulta anzi è piuttosto
infantile raccoglie fiori con delle coetanee, se ne innamora e agisce immediatamente non tanto
parlandole, corteggiandola, inseguendola, ma prendendola sul suo carro. Il rapimento a scopo di
nozze che poi se qualcuno le vuole benedire le benedirà, ma intanto lui se la porta, quindi il
rapimento diventa una sottrazione letterale di Proserpina all’aria, al sole, alla vita esterna e un
trasferimento certo e definitivo nel regno dei morti, sotto terra. Elemento di grande sdegno.
Ovidio sceglie un personaggio che, non sempre, nelle versioni del mito ha il ruolo che ha cioè
Venere. L’idea viene da lei, viene trasmessa immediatamente a Cupido, mentre lei lo abbraccia e
dice con due imperativi fai questo e questo.
Verso 369: “Tu superos ipsumque Iovem, tu numina ponti victa domas ipsumque, regit qui
numina ponti. Tartara quid cessant? Cur non matrisque tuumque imperium profers? Agitur
pars tertia mundi! Et tamen in caelo, quae iam patientia nostra est, spernimur ac mecum vires
minuuntur Amoris. Pallada nonne vides iaculatricemque Dianam abscessisse mihi? Cereris
quoque filia virgo, si patiemur, erit: nam spes adfectat easdem. At tu pro socio, siqua est ea
gratia, regno iunge deam patruo!”
Ricorre qui nel tu un altro complimento che però è un’asserzione, è una costatazione: “Tu sei in
grado di domare lo stesso Giove (non c’è nulla che possa opporsi alla potenza della freccia di
Cupido quindi il re degli dei, il re del ponto cioè del mare e anche tutto quello che ha creato questi
due grandi Giove e Posidone; Cupido è in grado di domare chiunque degli dei.)”
Verso 371: “Ma perché il tartaro si ritira (cessant), perché dovrebbe mancare?” Il tartaro era un
modo di definire l’Ade cioè qui sono stati domati Giove, Posidone che soggiace alle frecce di
Cupido. Abbiamo la prima parte (l’aria), poi abbiamo il secondo regno (mare), “Ma perché non
porti avanti l’egemonia di tua madre e tua?” (Cur non matrisque tuumque imperium profers?)
“Si tratta della terza parte del cosmo” (Agitur pars tertia mundi) cioè imporre il potere tramite la
freccia di Cupido, per Venere, vuol dire estendere il potere di influenza, ma proprio il potere come
in un impero si conquistano terre. Segue da “Et tamen” una sorta di risentimento questo è tuttavia
“spernimur” (cioè sempre con linguaggio molto netto quello di Ovidio) vuol dire “siamo
disprezzate in cielo” un po’ pesante: siamo disprezzate, ma naturalmente la suscettibilità di
Venere è proporzionale al suo senso di potere. “Siamo disprezzati in cielo, e ormai cosa dobbiamo
patire, cosa dobbiamo sopportare, che pazienza che ho nel senso: “guarda a che punto è la nostra
pazienza.” Non si accontenta È un tipico atteggiamento in cui dei della epopea omerica sono
ritratti e che, spesso, sono l’origine, in questo piano dell’azione, parallelo a quello umano, quello
degli dei, di decisioni devastanti poi per l’uomini quindi c’è Posidone che difende i Troiani e Giove
che li vorrebbe difendere. Anche nell’Eneide c’è questo tratto passionale di passioni basse o
comunque di risentimento di invidia, di piccole vendette scaturisce un ordine degli eventi che dà
luogo a cose enormi per esempio.
Qui lei si si dice disprezzata, offesa e dice “e con me vengono diminuite, svilite le forze di Amore”
(ac mecum vires minuuntur Amoris) (Amore è l’altro nome di Cupido) qui disprezzano me
perché non mi danno privilegi e anche tu ne esci sfinito, è un offesa qua tra madre e figlio.
Gli esempi che fa sono questi; Da notare quel “Nonne” con cui si riprendono le interrogative
retoriche.
“Non lo vedi che Pallade e la lanciatrice di frecce (iaculatrice) Diana” (nomi che sono latinizzati).
Nelle metamorfosi siamo in un pantheon latino che riproduce quello greco. Pallade è uno degli altri
nomi di Minerva. Diana è genealogicamente parlando la sorella di Apollo (detto anche Ofebo),
caratteristica che hanno entrambi è un’abilità nel lanciare frecce e nell’uccidere con la freccia: sia
animali (quindi Diana è cacciatrice), ma anche all’occorrenza uomini e donne, c’è un potere omicida
tramite le frecce dei due, di Apollo e Diana che si palesa per esempio in alcuni miti di particolare
ferocia. Ad esempio il mito di Miope in cui i figli numerosi vengono tutti uccisi da Apollo e Diana
tramite lancio di frecce, per punire la madre della superbia che mostra, non perché questi ragazzi
abbiano fatto qualcosa. È uno dei miti che capeggiava, anche in arte figurativa, in pieno Partenone
perché è un esempio della potenza degli dei, di fronti a cui gli umani devono rimanere annichiliti
perché, a seconda delle versioni, questi figli erano nove o 11 maschi e nove o 11 femmine.
“Ma non lo vedi che Pallade e la lanciatrice di frecce Diana si sono allontanate da me?” che vuol
dire hanno rinunciato alle cose di cui io sono la tutrice, ovvero l’eros, e qui inserisce un personaggio
che finalmente entra in campo (Cerere) e poi entra in campo colei che sarà la coprotagonista passiva
di tutto questo, di una passività assoluta ed è la filia Cereris.
“Persino (quoque) la figlia di Cerere, (si patiemur virgo erit) se sopporteremo ancora rimarrà
vergine: infatti dimostra, fa vedere (adfectat) le medesime speranze.” [Di chi? Di Pallade e Diana.]
È un modo di dire come dire ha le stesse inclinazioni, non è un senso forte speranza. Alludeva un
esempio in cui Proserpina aveva formulato situazioni in cui con autocoscienza il soggetto femminile
può dire per esempio questa è Diana. Nell’inno Callimaco, Artemide deve chiedere il permesso
all’autorità paterna di non sposarsi di dire posso fare una vita in cui non mi voglio sposare e voglio
andare nei boschi, cacciare, non è detto che il padre dica sempre no, però c’è un’autocoscienza qui.
Proserpina no è un personaggio veramente che ha superato l’età puerile da poco, è all’inizio di
questa adolescenza non si è posta il problema. Spes easdem è da intendere più “quasi non sa di avere
le stesse speranze”, mentre sia Minerva, sia Diana sono dee che hanno qualcosa già da ragazzine che
le rende consapevoli di quello che vogliono. Minerva lo è anche perché ha un attaccamento e un
rapporto privilegiato con la figura paterna dicendo “io sono nata solo da mio padre” e quasi non c’è
neanche da chiedere permesso perché ha, fin dall’inizio, un interesse per questioni di frecce, ma in
senso bellico (anche nel certamen di Perseo) e questo non viene ostacolato da nessuno anche perché
è di una abilità nella guerra, quindi non si fa questione.
In qualche versione come quella di Callimaco si vede nell’atto di vezzeggiare suo padre e dire “me
lo consenti di non sposarmi” è Diana, ma anche lì senza che nessuno dica niente, sei pure
bravissima nella caccia. Proserpina no, in quanto ha un profilo che è abbozzato, è figlia di…, lei
ancora non ha neanche una personalità, però Venere già lo sa, poi esagera dicendo se passa del
tempo, poi le piace fare questa vita (che poi vuol dire una vita tra le coetanee).
Proserpina però è questa figura che fa anche simpatia in questa sua inermità, Venere ha però
l’occhio lungo e ha pensato ha una bella freccia su Plutone: è una modalità da cui non si può tornare
indietro, Plutone non si mette a perdere tempo, se la porta via, sistemiamo il regno dei morti, poi si
vede che cosa dirà la madre, ma intanto la virgo viene tolta dal suo stato virginale, abbiamo
affermato il nostro potere.
Verso 378: L’ultimo verso di Venere è interessante perché ci ricorda un dato che è la genealogia
familiare di tutto questo. “Se hai una qualche grazia per me, (pro socio regno socio regno è il
loro, madre figlia,) per il regno associato, per il potere che abbiamo in società (ecco l’ultimo
imperativo iunge deam patruo) unisci la dea (Proserpina è dea, è figlia di dea e anche di Zeus, è
dea a tutti gli effetti) al patruo= lo zio paterno, disse Venere.” (La particolarità di patruos è che ti
dice come mi viene zio? Fratello del padre. Molto arcaica anche una lingua dei legami familiari.)
Perché Plutone zio? Perché è fratello di Giove nonché di Demetra. Una visione di regno
olimpico avviene attraverso il gamos, nozze che sono tutte endogamiche: fratello/sorella poi si
chiama sposa, ma in realtà sono tutti fratelli. Venere sa tutta la storia quindi dice unisci la dea a suo
zio.
Da notare che finora (al verso 379) Venus non era stato detto, la nostra Erycina, mamma di Cupido
l’abbiamo capito chi fosse, però qui, a metà esametro, viene esplicitato.

Questo testo di Calliope parla del ratto di Proserpina. C’è un racconto articolato ed è un’occasione
per andare a dare uno sguardo a una letteratura innodica che si esprime in inno. Ad esempio molti
secoli dopo, in pieno ellenismo, il poeta di grande influenza sulla generazione degli Augustei sarà
Callimaco, mentre, in età pienamente mistica, in un terzo avanti Cristo, tra le cose di cui si fa autore
molto raffinato ci sono anche degli inni, alla maniera degli inni arcaici, ma alla maniera in modo da
alludere a quel linguaggio riprodurlo in maniera anche molto colta e accurata e al tempo stesso
modernizzare moltissimo l’approccio. C’è un inno a Demetra di Callimaco e scopriremo che con il
ratto di Proserpina ha poco a che vedere.
L’altra cosa interessante è che non si può non fare di fronte al racconto del quinto libro è vedere se
Ovidio racconta questo mito altrove c’è nei Fasti il racconto di questa stessa vicenda mitologica
in un contesto diverso che sono i fasti: cioè il calendario delle feste romane, giorno per giorno, un
opera che compone negli stessi anni in cui lavora alle metamorfosi, però non è in esametri, ma in
distici ed è compilata con una narrazione diversa, non è più il poema epico, ma è il racconto di
singole usanze. C’è il racconto di questo ratto di Proserpina per spiegare le festività del mese di
aprile dedicate alla dea Cerere, la chiameremo la Megale meter come la chiamavano i greci e i latini
avevano ricalcato questo modo tanto che i Ludi, i giochi, le feste le chiamavano megalenses.
Al tempo di Ovidio i Ludi megalenses c’erano cioè traevano fondazione, origine da un culto che era
greco, ma che era stato molto importato, ma anche molto sviluppato in terra italica e siciliana in
particolare. Abbiamo un’occasione, da un punto di vista della critica, anche letteraria in senso puro,
per comparare l’Ovidio delle Metamorfosi con l’Ovidio dei Fasti alle prese con lo stesso mito di cui
però offre due racconti diversi.
La prima apparizione dell’intreccio del mito, l’intreccio in senso proprio di fabula, è Plutone rapisce
la figlia di Demetra.
Esiodo la Teogonia è un poemetto, un poema continuo in esametri, in cui si ripete e si illustra la
generazione degli dei in soli 4 versi 912-915, a un certo punto della storia di come si succede il
potere degli dei, Esiodo dice: “Poi ascese il talamo di Demetra, generosa nutrice, che partorì
Persefone dalle bianche braccia, Adoneo costei rapì da sua madre, a lui la concesse Zeus
prudente.” [Plutone viene chiamato Adoneo che è un po’ l’aggettivo di ade.]
Zeus prudente questo elemento sembra accessorio, in realtà, è l’elemento Zeus proprio con tutti i
poteri connessi a Zeus, è fondamentale per la risoluzione pacifica del conflitto diplomatico e
anche la reazione di Demetra è terribile all’offesa che ha e potrebbe costare una catastrofe alla terra
perché non ci sono più raccolti se Demetra si arrabbia e si arrabbia, ha ragione. A comporre il
quadro entra in scena Zeus perché Demetra va da Zeus a lamentarsi e Zeus che è dalla parte di
Plutone, nel senso che cerca argomenti e riesce, con una certa fatica, a persuadere poi Demetra ad
acconsentire, si va a delle trattative che, a seconda delle versioni, sono diverse.
I versi di Esiodo sono veramente archetipici, è una didascalia essenziale della storia che però come
personaggi ha Demetra, Persefone, Adoneo e Zeus. In questo archetipo esiodeo non c’è Venere, non
c’è Afrodite. Il dato di fatto è che Plutone rapisce Persefone, Ovidio ha sentito il bisogno di dare un
contesto motivante, di passioni divine che sono la voglia di potere, ha elaborato potentemente
questo dato senza lasciarlo così com’è. Non posso inventarmi che lei non è rapita, però posso
inventarmi una serie di cose che fanno poi la ricchezza della ricezione anche del mito.
Qui c’è un ipotesto virgiliano cioè nel modello Venere che parla con suo figlio di cose per cui
intrigare nelle vicende degli altri. Per Ovidio non è un influenza imitativa, ma è un echeggiamento
virgiliano.

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